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Thursday, August 13, 2020

IMPLICATVRVM -- in IV -- I

ABBOMINARE e ABOMINARE (prat.), l'aver in odio una persona, o un'azione col desiderio di tenerla da se lontana. L'abominazione presuppone un'avver sione riflettuta, da che il sentimento nasce da un giudizio formato intorno alle cattive qualità dell'obbietto, che si vuol evitare. ABBORRIRE e ABoRRIRE (prat.), l'aver in odio l'azione e 'l suo autore, senza po terne sopportare l'aspetto. In questo sentimento il sinistro giudizio delle qualità dell'obbietto è accompagnato da una naturale e istintiva ripugnanza. ABDUZIONE (disc.), sorta di argomento (detto da Grecia rayaº m), nel quale la con seguenza è compresa nella minore, men trechè questa non discende manifestamente dalla maggiore, e però potrebbesi esigerne pruova. I notomisti gli danno altro significato. ADiTo (spee. e prat.), facilità di ese guire un'operazione, acquistata per la rei terazione delle medesime azioni. V. Azione. È comune alle operazioni meccaniche e alle mentali, il perchè gli abiti si distin guono in meccanici ed intellettuali. Il fondamento di ogni abito intellettuale sta nella memoria, per la quale ritenia mo così le conseguenze ricavate dal ra gionamento, come la convizione della ve rità loro, senza ripeterne le dimostrazioni. Laonde ogni abito intellettuale è volonta rio nella sua origine, comechè spesso ap parisca necessario. V. Memoria. Per contrario gli abiti puramente mec canici possono nascere da azioni nella ori gine loro involontarie, come son quelle che provengono dagl'istinti meccanici, nel quale caso sono ancor essi involontari. V. Istinto. ABITUDINE (spec. e prat.), inclinazione a reiterare le stesse azioni, acquistata per lo frequente ripetimento di quelle. Differisce dall'abito, in quanto che questo si riferisce all'atto, e quella alla potenza, o al modo di essere. V. Atto, Potenza. L'abitudine è uno de principi d'azione, ora meccanico, ed ora razionale: mecca nico, quando nasca dall'istinto della na tura: razionale, quando sia la conseguenza d'un abito intellettuale. V. Azione, Istin to , Principio. Molti han creduto che le scienze, le arti, le virtù e i vizi dovessero essere con siderati come altrettante abitudini, il che può esser vero nel solo senso, che l'abito è necessario a rendere familiari alla mente le verità d'ogni genere e i principi delle cose, a collocare l'une e gli altri in un dato ordine, e a confermare colla pratica le azioni mutabili e passeggiere dell'uomo. V. Arte, Scienza, Virtù, Vizio. ABLATIvo (disc.), sesto caso del nome, tra Latini e nelle lingue volgari, che espri me principalmente il tor via. 1 I casi servono ad esprimere le relazioni delle cose, le une verso le altre; e nelle lingue che hanno casi declinabili, le di verse desinenze del nome sogliono indi care la differenza delle cennate relazioni. Dove poi queste non bastino, si ricorre alle preposizioni messe avanti il nome. Così, l'ablativo è di quel casi, che presso i Latini era sempre retto da preposizione. V. Caso, Mome, Preposizione. ABNEGAZIONE (teol.), disposizione del l'animo, per la quale rinunziando taluno ad ogni interesse della vita sensitiva, ri volge tutti gli affetti suoi a Dio. AcATALEPSIA. V. Incomprensibile. AccADEMIA (crit.), adunanza d'uomini, o letterati, o filosofi, o artisti, i quali operano insieme per l'utilità e l'incremento delle lettere, delle scienze, e delle arti. Significa ancora il luogo, dove i dotti si adunano. Vale pure, per significato speciale, stu dio publico, università, ginnasio, liceo, o altro simile. AccanENmco (crit), membro d'una ac cademia. AccENTo (disc.), inflessione della voce sopra una delle sillabe della parola, la quale serve a raccogliere il suono di quel le. V. Sillaba. Tutte le lingue hanno avuto gli accen ti, e la necessità di averne par che na sca dalla stessa conformazione dell'organo della voce. Ipsa enim natura, dice Ci cerone, quasi modularetur hominum ora tionem in omni verbo posuit acutam vo cem, nec una plus, nec a postrema syl laba citra tertiam, quo magis naturam ducem ad aurium voluptatem sequatur industria. (Orat. c. 18). Moltiplice è l'uso dell'accento in ogni lingua: serve primamente all'armonia, o sia all'unità della parola: distingue le di verse parti del periodo, e i passaggi del pensiero da un obbietto all'altro: imprime alla parola il carattere del sentimento e del l'affetto, che l'animo vuol esprimere: ser. ve infine a rendere vario il significato dei nomi, dando così alle lingue, negli stessi vocaboli, un nuovo corredo di espressioni. Quanto al primo, lo chiameremo na tivo, o comune, perchè non è parola di più sillabe, che non abbia il suo accen to, il quale può essere considerato come il centro o il punto d'appoggio, intorno al quale le sillabe si formano. Circa il secondo, consiste esso in una posa maggiore, che fa la voce sopra la parola che distingue un inciso del discorso dall'altro. Per esempio, chi dice, la più importante verità, è l'immortalità del l'anima, ferma la voce sopra il verbo è, che distingue il primo dal secondo mem bro del discorso. Cotesto accento, che di stingue le parole e non le sillabe, è stato da taluni detto enfatico, denominazione, che in difetto d'altra, potrebb'essere dal l'uso confermata. Per rispetto alla terza spezie di accento, che chiameremo di espressione, vuolsi notare che vari ne sono i suoni, e tanti, quante sono le mutazioni, che può la voce ricevere dalle interne commozioni dell'ani mo; nel che vale il detto dello stesso Ci cerone: Vocis mutationes totidem sunt, quot animorum, qui mazime voce com moventur. E per quel che concerne la quarta spe zie di accento, lo chiameremo di quan – 5 – tità, perchè dalla lunghezza o dalla bre vità della pronunziazione nascono due si gnificati, affatto diversi. Così la posa della voce trasportata dalla prima alla seconda sillaba fa variare il significato di ancora e di ancòra, di ambito e di ambito, e di altri simili. Quali sieno i segni, che rappresentar pos sano gli accenti, e con quali regole deb bano essere adoperati, son queste idee pro prie della particolar gramatica delle lingue. Sovente chiamasi accento l'arte di ac centuare, e dicesi accento poetico quello che fa sentire il ritmo de'versi; e accento oratorio l'acconcia e armoniosa pronunzia zione dell'oratore. V. Eloquenza, Poesia. AccEssoRio (dise. e spec.), che s'arroge e aggiugne ad altra cosa più considerabile, la quale però dicesi principale. In questo senso vale ancora aggiunto. V. Aggiunto AcciDENTALE (spec.), epiteto di quell'ef fetto, che proviene da una causa non de terminata da leggi costanti e generali della natura, nel quale senso è un contrapposto di costante o di principale. V. queste voci. La posizione del sole per rispetto alla terra è la causa costante e principale del calore della state e del freddo dell'inver mo; laddove i venti, le nevi, e le piogge son le cause accidentali, che spesso alte rano e modificano l'azione della causa principale. V. Causa. AcCIDENTE (ontol.), modificazione, per la quale una sostanza acquista una, più che un'altra maniera di essere, senza rice vere mutamento nell'essenza sua. V. Modo. Il moto p. e, è un accidente del cor po, il quale movendosi nulla perde della propria essenza. V. Essenza. In un senso men rigoroso, è ogni qua. lità aggiunta, la quale non si regge per propria natura, ma dee stare in altro sub bietto. V. Qualità, Subbietto. Differisce dal modo, in quanto che di nota un cangiamento sopravvenuto, il qua le sta senza dipendenza dal subbietto. ACCUSA (prat.) della coscienza. V. Co scienza, Rimorso. AccusATIvo (disc.), il quarto de casi del nome, il qual esprime l'obbietto del l'azione del verbo attivo transitivo, come amo Pietro, o batto Sempronio. Oltre questo uso principale ne ha un altro, che è il servir da compimento delle preposi zioni, quando per mezzo di queste vuolsi esprimere una relazione di un obbietto ad un altro, come per te otterrò una tal cosa, o per amor tuo mi adoprerò. V Preposizione, Relazione, Verbo. AcQUIESCENZA (prat.), è propria della coscienza, che soddisfa a se medesima. E vocabolo usato dal Magalotti. ACROAMATIco, o AcRoATIco (spec.), voce greca, che dimota insegnamento arcano, o senso oscuro espresso con figure, e con termini convenuti, per farlo noto a disce poli capaci d'intenderlo. AcuME (spec.), qualità dell'intelletto, per la quale o distinguiamo più qualità in un subbietto, o dal concreto ricaviamo l'astratto, o dal particolare sagliamo all'universale. L'acume è la principal qualità degl'in gegni metafisici. Cicerone spiegollo per un translato: ut oculorum, sic ingenii acies. r – 4 – ActsTICA (erit.), scienza, o teorica del suono, prodotto dalle vibrazioni de corpi sonori nell'organo dell'udito. E parte delle scienze del moto, e delle matematiche ap plicate alle scienze fisiche. ADDIETTIvo (disc.), nome di qualità, che accoppiasi al subbietto, di cui il nome di cesi sostantivo. V. Qualità, Sostantivo, Subbietto. Gli addiettivi, detti ancora italianamente aggiuntivi, contengono una indicazione di qualità, che si dà ad un nome appellativo per ampliarne o per meglio determinarne il significato. Cotesta ampliazione può ris guardare o le qualità, o il numero degli obbietti denominati ; il che ha dato ori gine ad una varia partizione degli addietti vi, che quasi ogni autore di gramatica generale ha proposto, discordemente dal l'altro. Taluni gli hanno distinto in ad diettivi fisici, o metafisici; altri in ad diettivi di comprensione e in articoli; altri in addiettivi di comprensione e di estensione. Noi crediamo che la partizione più semplice e più generica sia quella di addiettivi di qualità, e di numero. V. Ap pellativo, Mumero, Qualità. Gli addiettivi diconsi predicati nel lin guaggio logico, e son compresi tra gli universali. V. Predicato, Universale. ADEQUATo (spec.). V. Idea. ADESIONE (dise.), assentimento che pre stiamo al giudizio altrui, per conformità di opinione. V. Assentimento. Gli scolastici distinguevano la certezza speculativa dall'altra detta di adesione, e dicevano convenire la prima alla convi zione della evidenza, e la seconda all'assen timento che si presta per ragione della im portanza della proposizione o dell'interesse, che taluno abbia di accettarla come vera. Cotesta distinzione pecca di logica esat tezza, dacchè pone il pregiudizio e la falsa opinione nel luogo dell'assentimen to. E però va meglio detto che l'adesione corrisponde a quell'assentimento implicito, o abituale che prestiamo al giudizio al trui per autorità, o per propria credenza. V. Autorità, Credenza. ADORAZIONE (teol.), onore e riverenza renduta a Dio. ADULAZIONE (prat.), atto vizioso di chi maliziosamente, e con falsa lode lusinga alcuno. AEROGRAFIA (grec. sup.), descrizione delle proprietà dell'aria; sinonimo di ae rologia, e però va tra grecismi superflui. AERoLoGIA (erit.), descrizione o trattato delle proprietà dell'aria, e de suoi feno meni, i quali appartengono al regno ete reo o celeste, e di cui alcuni vengono esaminati nella scienza generale del moto e delle forze motrici, e altri nella chi mica. V. Aria. AFFABILITA' (prat.), abituale piacevo lezza nel conversare, dimostrata col volto e colle parole. AFFERMATIvo (disc.), da affermare. Affermative diconsi da logici le propo sizioni, colle quali giudichiamo, essere una qualità conveniente ad un subbietto; o sia riconosciamo la convenienza del pre dicato al subbietto. V. Predicato. Il predicato conviene al subbietto, quan do gli si può dare tutta quella ampiezza – 5 – di significato, di cui il subbietto è ca pace. Per esempio, dicendo, che l'uomo è animale, il predicato animale è preso in un senso tanto generico e universale, quanto l'è il subbietto uomo. E per con trario, quando dico, qualche uomo è giu sto, io do al predicato giusto un signifi cato tanto ristretto quanto l'è il subbietto qualche uomo. Ora i logici, i quali vol lero ridurre a regole astratte tutte le va rie combinazioni del discorso, espressero cotesto requisito del predicato col seguente canone, cioè, che la proposizione affer mativa determina il senso del predicato in quella stessa ampiezza di significato che ha il subbietto, vale a dire, che se il subbieſto è universale, il predicato lo sarà pure ; e per contrario se particolare l'uno, tale sarà ancora l'altro, Di queste e di altre regole dilettavasi l'antica logica, quando non conosceva al tra forma di ragionare del sillogismo, e quando al discorso naturale erasi surro gato l'artifiziale. Noi vedremo, come que ste regole oscuravano e isterilivano l'in telletto, in vece di guidarlo e di rischia rarlo. V. Logica, Sillogismo. AFFERMAZIONE (dise.), giudizio col quale pronunziamo, essere una idea conveniente ad un'altra, come quella del predicato al suo subbietto. I logici la chiamavano ancora enun ciazione. V. Enunciazione. AFFETTAZIONE (prat.), studio di appa rire diverso da quel che taluno è. E una sorta di simulazione, commessa per vanità di lode, ugualmente disaggra devole nel parlare, nello scrivere, e ne gli esterni portamenti del vivere, V. Si mulazione. AFFETTo (prat.), emozione dell'anima, per la quale siam portati a desiderare il bene o il male, ad un Essere sensibile capace del piacere e del dolore. V. Bene, Dolore, Male, Piacere. Gli affetti essendo movimenti della parte sensitiva di noi, più che della intellettua le, son comuni all'uomo e a bruti; e considerati per rispetto al principio che li desta, comprendono tanto le azioni be nefiche, quanto le malefiche. Cicerone li definì: impulsio, quae sine cogitatione per quamdam affectionem animi facere aliquid hortatur, ut amor, iracundia, et omnino omnia, in quibus animus vi detur affectus. - Sono principi d'azione come gli appe titi e i desideri, e al pari di questi sog getti all'imperio della ragione, sì che se da una parte danno un impulsione all'azione, servono dall'altra come instrumenti della ragione per indirizzare i portamenti della vita a fini della natura. V. Appetito, Azione, Desiderio. Differiscono dagli appetiti, in quanto che questi risguardano la cosa desiderata; laddove gli affetti hanno per loro obbietto immediato gli Esseri, a quali il bene o il male si desidera. Così la fame, la sete e tutti gli altri appetiti naturali o fattizi che sieno, spingono a bramare quel che possa soddisfargli; mentre l'odio, l'amo re, l'ira, la pietà presuppongono sempre un Essere sensibile, verso del quale in tendiamo esercitarlo. Nelle impulsioni, che la natura ha dato alla nostra potenza attiva, onde renderla operosa, ha ella messo una tale gradazio ne, che corrisponder potesse alla diversa - sensibilità del particolari temperamenti. A tal gradazione corrispondono le idee devo caboli inclinazione, affetto, e passione, de quali il significato de essere l'uno dal l'altro distinto. V. Inclinazione, Pas sione. L'uso comune del parlare scambia nel significato l'affetto coll'affezione, ma queste due voci debbono essere distinte, tra perchè il linguaggio scientifico non dee conoscer sinonimi, e perchè impropria mente chiamerebbesi affezione l'ira e la vendetta, o almeno sarebbe un tal signi ficato produttivo di ambiguità. La copia de vocaboli italiani permette senza impro prietà, che all'affetto diasi il significato generale, riservato il particolare all'affe zione. V. Affezione. Gli affetti vanno distinti in benefici e malefici, coteste due classi riferisconsi ai due universali principi delle umane azio ni, l'amore, e l'avversione. Tutti gli af fetti, qualunque sia la denominazione che loro diamo per rispetto, o alle persone che ne sono gli obbietti, o alla causa che li produce, o alla diversa intensità loro, non sono, se non altrettante deri vazioni, o modificazioni de due cennati principi. V. Amore, Avversione. AFFEzioNE (prat.), emozione benigna dell'anima, per la quale desideriamo il bene d'un Essere dotato di sensibilità. Le affezioni tutte, delle quali siamo ca paci, considerate a rispetto della naturale tendenza loro, sono ancor esse altrettanti principi d'azione, i quali servono o alla nostra conservazione, o ad un portamento della vita conveniente a fini della natura. La diversa denominazione, che ad esse diamo o in grazia di coloro che ne sono gli obbietti, o in grazia della causa che le muove, o in grazia finalmente della diversa intensità, colla quale ci spingono ad operare, sono l'espressione di quel vin colo generale, per lo quale la natura ha associato i viventi d'ogni spezie ad un comune destino. Delle affezioni talune son dettate dal l'istinto, e son quelle appunto che con trassegnano il primo stadio della vita. L'af. fezione degenitori per la prole, soggettata ad analisi, così per gli uomini come pei bruti, è una delle più maravigliose di mostrazioni della sapienza infinita, colla quale l'Autor della natura ha nell'uomo chiamato la sensibilità in soccorso della ragione, per tutte le cure necessarie alla conservazione della prole, quando faccia uopo che l'azione fosse più pronta e più costante del consiglio; e ha ne bruti im presso un affetto macchinale, di cui la loro intelligenza non può penetrare il fine o le conseguenze. V' ha poi delle affe zioni razionali, proprie dell'uomo, le quali son fondate nella opinione del bene che questi si forma, e per conseguente seguono l'indole dell'opinione stessa, in sieme con tutte le modificazioni, di cui que sta è capace. V. Bene, Opinione. In fine l'affezione, come ogni altro prin cipio d'azione, è madre dell'abito e del l'abitudine, la quale in tal caso prende il nome di simpatia. Cotesta disposizione benefica è sorgente fecondissima di azioni, che posson dirsi miste dell'affezione istin tiva e della razionale insieme. V. Sim patia. AFFINITA (ontol.), forza della natura, per la quale le molecule de corpi, messe in contatto, tendono ad unirsi tra loro. V. Molecula. Da tale forza noi concepiamo che nasca la combinazione delle cennate molecule, e la composizione de corpi, più o meno tenace secondo la diversa loro formazione, - 7 - Cotesto vocabolo è proprio della chimi ca, ma esprime una verità generale, la quale appartiene alle scienze fisiche del pari che alle metafisiche, come l'attrazio ne, la forza, il moto. Sebbene sia stata introdotta da chimici francesi, pur tuttavolta altri di essi hanno notato, essere questa denominazione vizio sa, perchè ricavata dalla immagine d'una natural parentela tra le sostanze, che han no maggior disposizione ad unirsi insieme. E però le affinità sono state da altri chia mate attrazioni elettive, o èhimiche. Non pertanto trattandosi di un vocabolo ricevuto dall'uso, ed essendo necessario distinguere diverse sorte di attrazioni mo leculari, giova ritenerlo insieme cogli al tri testè dinotati. V. Attrazione. AFFLIzIONE (prat.), dolore tormentoso, che seco porta abbattimento di animo. AroRISMo (dise.), detto sentenzioso, che in breve sermone racchiude un prin cipio, una regola, o una massima gene rale, a qual si sia dottrina appartenente. V. Massima, Principio, Regola. AGENTE (spec.), l'Essere capace di volontà, considerato come la causa del l'azione. V. Azione, Causa, Essere. Nella filosofia intellettuale questo voca bolo è proprio dell'Essere dotato d'intelli genza e di volontà, capace di esercitare un potere sopra le proprie determinazioni: per distinguerlo dagli altri agenti della natura, chiamasi agente morale. La no zione dell'agente morale dunque è pro pria dell'uomo. V. Morale, Potere, Vo lontà. AGGErrivo, e Acciu Nrivo.V. Addiettivo. AGGIUNTo (spec.), tutto quel, che con sideriamo come soprapposto all'essenza d'un subbietto. In questo senso vale estrinseco, o accessorio. V. Accessorio, Estrinseco. Ma aggiunto può dirsi tanto un subbiet to o sostanza, unita ad un'altra, quanto una qualità accidentale, o un modo di essere anche contingente, unito al subbiet to. Nel primo caso chiamasi sostanziale, e tal sarebbe l'unione dell'anima col cor po: nel secondo dicesi accidentale, come la figura nel corpo. Nella filosofia morale son intese colla denominazione di aggiunti le circostanze, che possono diversamente qualificare l'azio ne, come la persona, il fatto, il luogo, i mezzi adoperati, il fine, il modo, e il tempo. V. Azione. AGIRE (spec.), esercitare la potenza, per la quale un Essere ha la virtù di pro durre un cangiamento in un altro. V. Po denza. Differisce dall'operare, perchè l'uno si adopera nel senso neutro, e l'altro nel l'attivo e nel neutro insieme. V. Operare. È vocabolo necessario al linguaggio scientifico, usato dal Magalotti. AGITAZIONE (prat.), inquietudine d'ani mo, accompagnata da incertezza di evento o da dubbio. V. Inquietudine, Dubbio. AGRARIO (erit.), nome di qualità dato a quel genere di arti, che pone in opera le forze vegetative e generatrici della na tura. E però le arti agrarie distinguonsi dalle meccaniche e dalle chimiche. V. Arte, Meccanico, Chimico. - AGRICOLTURA (crit.), arte di coltivare e di rendere fertile la terra. - 8 - Molti hanno distinto l'agricoltura dal l'agronomia, dando a questa le regole, e a quella la pratica applicazione delle re gole stesse. Ma se una tal distinzione reg gesse, il nome di arte passerebbe alla agronomia, e l'agricoltura resterebbe un semplice mestiero. AcRoNoMIA (crit), teoria della coltura della terra. Non è diversa dall'agricoltura, la quale resterebbe un semplice mestiere, se i prin cipi e le regole scientifiche dell'arte si vo lessero da lei separare. ALACRITA' (prat.), prontezza d'animo volenteroso, la quale nasce da uno stato di calma e di contentezza. Differisce dall'allegrezza. V. questa voce. ALCIIIMIA (erit.), arte che si prefigge, per mezzo di operazioni chimiche, d'imi tare i prodotti della natura, e di eseguirgli più prestamente che la natura stessa non fa. Esempio di simili prodotti potrebbessere il cinabro artifiziale, che imita perfetta mente il naturale. E però fu detta chimi ca sublime, da che tanto suona la voce alchimia. Il desiderio di produrre dell'oro, e di trovare un rimedio curativo di tutti i mali, ne fece il mestier decerretani e degl'illusi; il perchè è scomparsa dal catalogo delle arti. - ALFABETIco. V. Ordine. ALFABETo (disc.), lista delle lettere, o degli elementi della parola, disposte nel l'ordine, che loro ha dato l'uso della lingua. Cotesto vocabolo è formato dal suono del le due prime lettere della lingua greca, ma come nome universale è adoperato per espri mere la serie de caratteri elementari d'ogni lingua, comechè quelle due lettere iniziali sieno ne moderni idiomi diversamente pro nunziate. Gl'Italiani danno alla serie delle loro lettere il nome di abbicci, ma cote sto nome non esprimerebbe neppure nella nostra lingua l'idea generale d'un cata logo delle lettere di qualunque idioma. V. Carattere, Idioma, Lingua. Gli alfabeti delle lingue, così antiche come moderne, variano nella quantità del le lettere; dapoichè dal numero di venti due, di quante era composto l'ebraico e il latino, e di ventiquattro che ne aveva il greco; giungono insino a dugento e più, quanti dicesi che ne abbia l'alfa beto etiopico e l'arabico. Una sì grande differenza nasce, dacchè si sono confusi i suoni semplici co composti, e son con tati come suoni principali le semivocali, e i suoni delle vocali modificate dalle aspi rate o dalle consonanti. Bastano due os servazioni per dimostrare la superfluità di molte di tali lettere: una che le lingue de popoli barbari ne abbondano più che quelle del colti: l'altra, che il numero delle lettere non contribuisce all'accresci mento del vocaboli radicali, ne quali è principalmente riposta la ricchezza delle lingue. Infatti la greca, comechè avesse avuto sole ventiquattro lettere, è riputata come la più ricca di radici, che oltre passano il numero di tremila e dugento, e dalle quali è nato il prodigioso numero de composti e del derivati loro. Una terza ragione, ricavata dalla spe rienza, e dalla natura stessa de'caratteri, ci dice, che gli alfabeti non poterono for marsi, se non per la invenzione della scrit tura; d'onde segue che incerti e indeter minabili sien quelli de popoli, che non han no scrittura; e imperfetti quegli altri delle nazioni, le quali ne hanno tolto a presto uno da genti di diverso parlare, senza averlo potuto per lunga esperienza adattare abisogni della propria lingua.V. Serittura. Molti di coloro, i quali credono che si possa colla lima della ragione emendare e rifare tutto quel che abbiamo ricevuto dall'uso e dalla sperienza, hanno notato negli antichi e ne moderni alfabeti diverse irregolarità ed imperfezioni, di cui han proposto la riforma. Tali sono, per esem pio, le lettere che danno lo stesso suono, i diversi suoni che dà una stessa lettera, le aspirazioni non necessarie a distinguere un suono dall'altro, e gli scambi che la pronunzia fa delle lettere e del dittonghi. E però han proposto di sbandire talune let tere, d'introdurre nuove vocali, e di met tere in armonia la pronunzia colla scrit tura. Distinguiamo la correzione degli al fabeti dalla pronunzia. Per dichiarare superflue talune lettere, converrebbe prima dimostrare, ch'esse non sono di verun altro uso fuor di quello, che è notato come soprabbondante; e per introdurre nuove vocali bisognerebbe pri ma trovare nuove inflessioni di voce, tanto chiare e distinte, quanto quelle che la pa rola e il canto han sinora dimostrato pos sibili ; siccome per sopprimere le aspira zioni, e i suoni nasali e gutturali, fa rebbe uopo di una nuova sorta di ortope dia, la quale rendesse egualmente fles sibile e armoniosa la voce de popoli siti sotto le diverse zone del cielo. La rifor ma dunque degli alfabeti è una di quelle utopie, per le quali vorrebbesi non sola mente distruggere la forza dell'abito, ma emendare la natura. La parte più plausibile di tal riforma sarebbe forse lo stabilire la conformità tra l suono della voce e la scrittura, per la ra gione che ne adduce Quintiliano: hio est usus litterarum ut custodiant voces , et velut depositum reddant legentibus; ita que id ea primere debent, quod dieturi sunt. Ma un tal voto di uniformità può avere un doppio scopo: o rendere più fa cile agli stranieri la lettura de libri scritti in una lingua loro ignota: o quell'altro filantropico desiderio (proposto da Ludewig e inserito nelle transazioni filosofiche del l'anno 172o) di ridurre a suoni comuni le pronunzie di tutte le lingue viventi. La prima idea sarebbe umana, sebbene poco verisimile sia, che una nazione in tera violentar volesse l'inveterata abitu dine della scrittura, per rendere più ap prendevole agli stranieri la propria lin gua. La seconda poi sente d'una utopia ancora più esagerata, qual sarebbe il vo ler dare al genere umano un linguaggio universale. Per la qual cosa più ragione vol partito è il lasciare star le riforme, e il tenere per fermo, che simili concetti ci vengon da quelli, i quali non credono che le lingue e la scrittura ci son venute dall'uso e dalla tradizione, ma hanno per vero che sieno l'opera del supposti in ventori della parola ; il perchè possono essere disfatte e modificate nella stessa ma niera come furono formate. V. Parola. La gramatica generale, considerando l'alfabeto come la prima base della parola e del discorso, ne distingue le parti, ed esamina la natura di ciascuna di esse: ella divide in due classi principali le let tere, che lo compongono, le vocali cioè e le consonanti. V. Consonante, Vocale. ALGEBRA (crit.), scienza che insegna il calcolare le quantità d'ogni sorta, rappre sentate con segni universali. 2 – 10 – Ella è di due spezie, numerale e let derale. La numerale, o volgare versa circa la soluzione del problemi aritmetici, valendosi di talune lettere o di altri se gni per dinotare le quantità ignote, e del le cifre numeriche per esprimere le quan tità date o note. La letterale o speciosa poi, non solamente imprende a risolvere pro blemi aritmetici, ma è l'instrumento gene rale per la soluzione del problemi, e per la dimostrazione, non che per l'inven zione deteoremi di qualunque natura essi sieno, aritmetici, geometrici, o meccanici. V. Aritmetica, Mumero. Un'altra partizione dell'algebra nasce dal diverso aspetto, sotto il quale ella consi dera la quantità. L'algebra finita risguarda la quantità sempre nel medesimo stato di grandezza, che distingue in grandezze cognite, e incognite. Il calcolo differen ziale e integrale al contrario distingue le quantità in costanti e variabili, perchè con sidera i diversi stati di grandezza, pequali possono passare, crescendo per gradi più o meno piccioli, e spesso infinitesimi. Per questa ragione il calcolo differenziale e in tegrale prese in origine i nomi di calcolo znfinitesimale, di calcolo delle flussioni, e di analisi degl'infiniti. L'algebra è il maggiore instrumento dell'analisi, perchè il suo metodo e il suo linguaggio favoriscono non solamente la soluzione del problemi, ma l'invenzio ne altresì: il metodo, perchè procedendo sempre dalle conseguenze alle cause per viene facilmente alle conclusioni genera li: il linguaggio, perchè sostituisce i se gni alle idee e dà alla mente una ma ravigliosa prontezza per iscoprire le re lazioni delle cose tra loro paragonate , senza distrarla con proposizioni incidenti. V. Analisi. ALGORISMo (crit.), arte del numerare così nell'aritmetica come nell'algebra. È voce proveniente dall'arabo, di cui gli spagnuoli han fatto maggior uso, e che è stata per antica adozione ricevuta da gl'italiani. ALLEGREzzA (prat.), contentezza d'ani mo, di cui il volto ancora dà segno, nel quale caso dicesi letizia, onde Dante disse: Come letizia per pupilla viva. Differisce per gradi dal giubbilo o dalla gioia, e dalla esultazione. V. queste voci. ALTERNATIvo (disc.), epiteto dato alle proposizioni opposte, delle quali una deles sere ammessa, l'altra esclusa. V. Propo sizione. AMBASCIA (prat.), difficoltà di respirare, che impropriamente si trasporta a travagli dell'animo; tanto maggiormente, quanto non manca la lingua di altri vocaboli per esprimere l'affanno, che ci viene dal do lor morale. V. Angoscia. AMBIGUITA' (dise), difetto d'una propo sizione o d'un discorso, capace di doppio SCIlSO, AMICIZIA (prat.), amore scambievole tra eguali, che han conformità di principi e di affetti. L'amicizia ha il suo fondamento nella benevolenza, che la natura ha ispirato agli uomini, come veicolo alla unione, e come istinto della comunione, alla quale gl'invita. V. Benevolenza. Acquista il carattere di virtù, e diviene utile alla pratica de'doveri verso degli al tri, allorchè è ridotta in abito, ed è fon data nella scambievole esistimazione. Cicerone, eloquentemente ritrasse l'in dole e i caratteri dell'amicizia: omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia, et caritate summa consen sio: qua quidem haud scio, an exce pta sapientia, quidquam melius homini sit a diis immortalibus datum. Divitias alii praeponunt, bonam alii valetudi nem, alii potentiam, alii honores, multi etiam voluptates: belluarum hoc quidem extremum est : illa autem superiora, caduca et incerta, posita non tam in nostris consiliis, quam in fortunae te meritate. Qui autem in virtute summum bonum ponunt, praeclare illiquidem : sed haec ipsa virtus amicitiam gignit et continet: nec sine virtute amicitia esse ullo pacto potest. AMIco (prat.), chi ci è caro per la virtù sua, e verso del quale pratichiamo per somiglianza d'inclinazione e per abito, i doveri e gli ufizi della benevolenza. Per non dipartirci da concetti di Cicero ne, l'amico è un altro se stesso. AMMIRAZIONE (prat.), maraviglia colla quale osserviamo un fatto, che credevamo o non possibile, o difficile ad avvenire. In un senso traslato si adopera per espri mere il piacere, che in noi desta il bello e il buono non comune. AMoRE (prat.), godimento dell'anima per l'altrui bene. V. Bene. È l'affetto, per lo quale la natura ha invitato gli uomini all'unione, e di cui ha impresso il germe nell'istinto. L'istinto è riposto nel bisogno e nel desiderio scam bievole di soddisfarlo. Così, se si cercano i primi tipi dell'amore, si trovan questi nelle prime congiunzioni, che la natura stessa ha preparato per la formazione delle famiglie e della domestica società, o sia ne legami coniugali, e in quelli della ma ternità, della paternità, e della figliuo lanza. V. Affetto, Bisogno, Istinto. Siccome l'amore comincia dal bene sen sibile, ed è poi rischiarato e perfezionato dalla ragione; e siccome le voci tutte del parlare prendon principio dagli obbiettima teriali, e son di poi trasportati agl'intel lettuali; così l'uso ha attaccato a questo vocabolo, quasi per suo principal signifi cato, l'idea della natural propensione per la quale l'un sesso inchina all'altro. In questo senso l'amore è stato risguardato, come comune a bruti; e da poeti è stato raffigurato come l'anima della natura, o sia come il primo veicolo della genera zione, per la quale la materia si forma e si riproduce. Ma tra l'amor sensitivo e l'amor razio nale, v'ha quella medesima differenza che passa tra l'istinto e l'affetto, e tra 'l pia cere e il bene. In questa differenza ap punto è collocato il limite, che distingue l'amor de'bruti da quel dell'uomo. Che se la natura ha ne sensi impresso un istinto o una spinta all'azione, da lei predispo sta per la conservazione e per la riprodu zione degli Esseri; ha d'altra parte dato alla ragione la cognizione per subordinarlo al suo fine e per moderarne l'impeto. L'amore, considerato come passione, è un vocabolo di genere, il quale in se comprende molte spezie di affetti, che con diversa gradazione contengon tutti il prin cipio della benevolenza. Laonde le passioni sogliono essere partite in quattro classi, nella suddivisione delle quali può trovarsi la scala di tutte le altre. Tali sono l'amo ar - 12 - re, l'avversione, la gioia, e la tristezza. V. Avversione, Gioia, Tristezza. Comechè l'amore contenga implicita mente l'idea d'una relazione ad un al tro Essere, purtuttavolta si applica ancora alla propria persona; nel quale caso di cesi amor di se il sentimento, per cui discerniamo e desideriamo il mostro mag gior bene. In questa discernenza è riposta una delle maggiori pruove della esistenza in noi d'una sostanza spirituale, la quale distingue le diverse parti del suo essere composto, e giudica di se come fa de gli altri Esseri. La conoscenza di questo maggior bene, cui ella provvede, è quel che è stato detto proprio interesse. V. In iereS8e. L'amor di se, è stato con ispezial nome chiamato ancora amor proprio, quando siam da esso spinti, a preferire la pro pria utilità ad ogni altro bene, o a pre sumer troppo di noi e delle qualità no stre. Quantunque l'interesse o l'utilità propria, sia uno di quei principi d'azio ne che diconsi istintivi, perchè nasce dal desiderio della nostra conservazione; pur tuttavolta, quando diviene l'unico mo tore delle nostre azioni, degenera in un vizio, che distrugge le altre inclinazioni della natura, e spezialmente il principio della sociabilità. Questo è quel che dicesi egoismo. V. Egoismo. “ Similmente un falso sentimento del pro prio merito degenera in un'altra estremità biasimevole e odiosa, più dell'egoismo, imperocchè alimenta l'orgoglio, nasconde noi a noi stessi, e ci rende a tutti dispre gevoli. V. Orgoglio. D'altra parte l'amor di se, moderato dalla ragione diviene un principio di at tività e di virtù, ci fa distinguere quel che dobbiamo a noi stessi e agli altri; c ispira il sentimento della emulazione al lorchè trattasi o di sostenere i propri diritti, o d'imitare le nobili azioni degli altri; e nel ben fare, ci fa amare il bene altrui, come il nostro, e schiude la mente a quel divino precetto, che ci comanda di fare per gli altri quel, che desidereremmo per noi stessi. Guidato poi dalla modestia, o sia dalla conoscenza di noi medesimi, ci dimostra, non quel che abbiamo di so verchio, ma quel che ci manca; e quanta sia l'insipienza di quelli, che pavoneg giansi nella gratuita opinione di loro stessi. V. Emulazione, Modestia. AMOREvoLEzzA (prat.), benevolenza figlia dell'amore, o della amistà, che si dimo stra con cortesi maniere. V. Benevolenza. AMoRFo (spec.), nome dato alle sostanze materiali, che non hanno veruna forma regolare. AMPLIFICARE (disc.), dilatare con pa role un pensiero o un argomento, per metterlo in un aspetto più favorevole. È diverso dall'esagerare, perchè quel l'azione si contiene ne limiti del vero, e questa lo trapassa; ond'è che l'amplifi cazione diviene una figura del retore e dell'oratore. V. Esagerare. ANAcLASTIco (crit.), vocabolo antiqua to, che esprime la dottrina della luce re fratta, ora comunemente denominata diot trica. V. questa voce. ANAGoGIA (teol.), assorbimento dell'ani ma in Dio, e ne pensieri celesti. ANALISI (disc.), metodo di ragionare o di operare col fine di trovare il vero. Il nome di analisi è stato promiscua mente dato a metodi tra loro diversi, il che ha ingenerato ambiguità e false defi nizioni. A rimuovere la confusione delle idee, uopo è distinguere il significato di cinque nomi dati allo stesso metodo; e sic come mutar non possiamo i vocaboli ri cevuti, così continueremo a distinguere, l'analisi logica, la matematica, la fisi ca, la chimica, e l'intellettuale. Analisi logica è stato detto quel ra gionamento, per lo quale esaminiamo le varie proposizioni d'un discorso, e col ridurle a principi loro, giudichiamo del la verità delle conclusioni da essi dedotte. Qualunque sia l'ordine che il ragionamento segue, per iscoprire la verità e la coerenza del discorso; o che si parta dalle verità generali, e si discenda alle particolari; o che da queste si rimonti a quelle; una tal disamina vien sempre chiamata ana lisi. Infatti così è stata ancora denominata quella operazione che i logici fanno, di ridurre l'imperfetto a perfetto sillogismo. In somma hanno essi chiamato analisi il critico sminuzzamento delle parti del di scorso, e non il metodo di procedere dal particolare al generale. - Assai diversa è l'analisi matematica, la quale consiste principalmente in questo, che da una proposizione certa, o per tale ammessa, cercasi discendere a tutte le con seguenze, che possono dalla medesima es sere dedotte, insino a che si giunga ad una verità nuova, nella quale si trovi la solu zione d'un problema, o la dimostrazione d'un teorema. Tutta l'analisi matematica degli antichi consisteva nell'analisi geometrica, la quale non suggeriva che pochi precetti, e non aveva regole, che dirittamente conduces sero allo scoprimento della verità ignota. Il geometra camminava quasi a tentone nella incertezza di trovare, o di smarrire la via; sì che faceva uopo di grande forza di mente per inventare, dovendo ella ser virsi d'un instrumento cotanto imperfetto. L'algebra è quella, che ha somministrato regole e facilità, per procedere con mag gior sicurezza allo scoprimento delle con seguenze, che nascer possono dalle verità note. Così l'analisi algebraica ha aperto una nuova e più ampia strada alla inven zione. V. Algebra, Invenzione. Dell'analisi fisica prendiamo la defi nizione da Newton : « ella consiste nelle osservazioni e negli sperimenti, da cui per induzione ricavansi le conseguenze, contra le quali debbon essere ammesse le sole obbiezioni, che nascer possono da contrari sperimenti, o da verità certe : per mezzo di tale analisi si può procedere da composti a componenti, da movimenti alle forze che gli producono, dagli ef fetti alle cause, e dalle cause generali alle generalissime. La sintesi poi parte dalle cause già scoverte e ammesse come prin cipi, spiega per mezzo di esse i fenome ni, che ne sono i prodotti, e dimostra le sue spiegazioni ». Da questa definizio ne, e dal contrapposto della sintesi risul ta, 1.º che l'analisi fisica procede sempre dal particolare al generale; laddove la ma tematica nella ricerca delle verità ignote procede ancora dal generale al particola re; 2.º che i prodotti dell'analisi mate matica son sempre perfetti, perchè per essa si perviene allo scoprimento di ve rità assolute e immutabili; laddove i pro dotti dell'analisi fisica sono imperfetti, o relativi, perchè per essa giugnesi soltanto a scoprire quelle leggi generali della na tura, la conoscenza delle quali è compa tibile colla capacità desensi e della uma ma comprensione, 3.º che l'analisi, pro priamente detta, contiene in se l'arte di trovare il vero, e però non ha bisogno di dimostrare i risultamenti delle sue inve stigazioni; mentrechè la sintesi, seguendo un procedimento contrario de essere per necessità coadiuvata dall'arte di dimostra re. V. Induzione, Sintesi. L'analisi chimica è la scomposizione decorpi, fatta per conoscere i componenti loro. E questa una analisi di cose mate riali, che più di tutte le altre corrisponde al significato etimologico della voce ana lisi (che vuol dire seiorre o risolvere); dapoichè contiene la risoluzione o ridu zione delle combinazioni della materia in talune molecule o principi, che noi cre diamo primitivi, e che ci fan conoscere molte qualità del loro composti. Ella ha di comune coll'analisi fisica il metodo del l'investigare e del ragionare, perchè al pari di quella sperimentalmente procede da composti a componenti; ma più im perfetti ancora sono i suoi prodotti, per chè ci conducono appena alla cognizione de componenti secondari, lasciandoci nel la oscurità de principi costitutivi delle cose, e dell'ordine naturale. Cotesta analisi non pertanto distinguesi in perfetta e imper fetta perfetta è quella, che ha luogo ne composti binari, quando di due so stanze l'arte riesce a volatilizzare l'una o a procurarne la combinazione con una terza; lasciando l'altra intatta per modo, che re stituendole il componente volatilizzato, ri torna il corpo nel suo stato primiero: im perfetta è quella, che si applica a compo sti ternari e quaternari, quando separato uno dei componenti, gli altri si uniscono tra loro con proporzioni diverse da quelle che la natura aveva stabilito nel suo pri mitivo composto, V. Chimica, Composto, L'analisi intellettuale finalmente è un metodo nuovo, introdotto per analogia del l'analisi fisica; dacchè per essa cerchiamo di passare dalla conoscenza del complesso al semplice, del particolare all'universale, e dallo effetto alla causa. Essendo l'animo, per sua principal qualità, dotato della vir tù di vedere se stesso, di conoscere e di distinguere le sue interne operazioni, noi applichiamo il metodo della osservazione a fatti del pensiero, per discernere i suoi atti semplici, per indagarne le varie com binazioni, e per istabilire così taluni fatti generali, i quali ci guidano alla cogni zione delle principali qualità della sostanza spirituale, e delle leggi della umana intel ligenza. Un tale ordine di ragionare esclude le ipotesi e le opinioni anticipate, o pre giudizi, i quali formavano il fondamento dell'antica filosofia, e soggetta lo studio dell'intelletto, come quello della natura esteriore, alla guida della sperienza, sola fiaccola dataci per conoscere noi stessi, e le cose che ci circondano. Ma dal metodo in fuori, la filosofia sperimentale dello spi rito umano non ha nulla di comune colle scienze fisiche; che anzi è tanto da esse diversa, quanto diversi sono i fatti mate riali dagl'intellettuali. Niuna induzione o analogia prende ella dalle cose sensibili; nè presuppone altra connessione tra quelli e questi fatti, fuori della corrispondenza e dell'ordine, che la natura ha stabilito tra la passiva materia e la intelligenza, che la muove e dirige. Uno dunque è il me todo del ragionare, ma due e diversi sono gli ordini de fatti, a quali cotesto me todo è applicato. Regola, o canone ge nerale dell'analisi intellettuale è, il non ispiegare mai gli atti del pensiero e del la intelligenza, per quelli che formano il subbietto dell'analisi fisica. Cotesta regola – 15 – non de essere giammai adombrata dalla promiscuità devocaboli. A rimuovere l'am iiguità, che nascer potrebbe dalla comu nione del linguaggio, uopo è ricorrere alle definizioni, acciocchè resti chiaramente de terminata la differenza del significati, nei uali debbon essere intesi i termini del l'una o dell'altra scienza. V. Analogia, Definizione, Induzione. ANALITIco (dise), che appartiene all'analisi. Metodo analitico vien detto l'ordine, che serba la mente nel procedere dalle verità particolari alle generali. Un tal metodo fu nelle scuole chiamato a posteriori, perchè l'osservatore prende il fatto, come principio delle sue investigazioni. V. 08 servazione, Posteriore. Molti han disputato intorno alla preſe renza da darsi al metodo analitico per ri spetto al sintetico; e taluni lo han pre dicato, come il metodo unico della ra gione. - Bacone e Newton sembrano avere indi cato il pregio caratteristico sì dell'uno che dell'altro. L'analitico serve alla invenzio ne, il sintetico alla dimostrazione. L'uno e l'altro non pertanto sono egualmente necessari al ragionare, e non solamente son connaturali all'intelletto, ma alterna mente soccorronsi, prima per formare le verità generali, e di poi per conoscerne le relazioni, e per ricavare dalle verità generali tutte le particolari conclusioni, che da quelle possono essere dedotte. Uti lissimo inoltre è il metodo sintetico per saggiare la verità delle conclusioni gene rali, alle quali perviene l'analitico, e per dimostrare con un inverso ragionamento la connessione tra i principi e le conse guenze. V. Dimostrazione. - ANALOGIA ( spee. ), principio dettato dalla natura, per lo quale conosciamo, che le sue leggi sono costanti ed unifor mi; dal che ricaviamo, che ne fenomeni dipendenti da queste leggi il passato è stato come il presente, e il futuro sarà come il presente ed il passato. V. Legge, Matura. Cotesto principio ci è rivelato dalla co scienza, e dall'interna osservazione di noi stessi; e convinti che siamo della sua ve rità, lo trasportiamo fuori di noi, e ne formiamo una regola di ragionamento. È il fondamento del metodo detto d'induzio ne. V. Induzione. Risguardata l'analogia come regola di ragionamento, è la somiglianza, che ri caviamo dalla comparazione delle cose tra loro. Cotesta somiglianza può stare o nel le qualità essenziali, o ne loro accidenti. V. Accidente, Essenza. Applicata a nostri giudizi intorno alle cose contingenti, è il fondamento della probabilità delle umane congetture per tut to quel che non cade sotto i sensi. Una tale analogia presuppone non solamente la possibilità, ma ancora la verisimiglianza. Il ragionamento per analogia, accioc chè sia concludente aver dee due requisi ti: uno, che le cose insieme comparate abbiano la maggiore possibile somiglianza tra loro: l'altro, che sia applicato alle cose, le quali non sieno capaci d'altra spezie di certezza, fuorchè della semplice probabilità.V. Certezza, Verisimiglianza. Gli scolastici definivano l'analogia, una somiglianza, giunta a qualche diversi tà, e distinguevano tre spezie d'analogia: l'analogia, d inegualità, di attributo , e di proporzione: la prima verificavasi quando la ragione della comune denomi nazione era fondata nella natura, sebbene – 16 - le cose comparate fossero diverse nell'or dine o nel grado: tal'era l'analogia tra l'uomo e il bruto: la seconda, quando la ragione del nome è la stessa, ma diversa è la capacità del subbietto, come quando dicesi un uomo sano, e un sano alimen to: la terza, quando si trovi somiglianza nell'effetto, sebbene sia diversa la ragione del nome, come quando si dicesse, che le squame della testa del pesci sono ana loghe a polmoni degli animali terrestri. Ma coteste distinzioni del pari che tutte le altre scolastiche definizioni, erano relative più all'uso del vocaboli ricevuti, che alle vere relazioni delle cose tra loro comparate. ANALocISMo (dise.), argomento dalla causa all'effetto, o da questo a quella. V. Causa. ANATOMIA, ANoToMIA, e NoToMIA (crit.), arte di dividere e ridurre in pezzi le parti solide de corpi animali, per conoscerne l'interna struttura. Molte sono le partizioni di quest'arte, la quale nella sua generica denominazione abbraccia la dissecazione di ogni corpo or ganico. La più antica divisione fu in no tomia umana, e comparata, la prima ver sava circa l'organico dell'uomo: la secon da, degli animali bruti; dalla unione del l'una e dell'altra nacque la notomia e la fisiologia generale. Oggi piace dare a cia scuna delle sue spezie un proprio nome; il perchè è stata da taluni chiamata an drotomia e antropologia la notomia del l'uomo; zootomia quella de'bruti, e fito tomia quella delle piante, o sia decorpi organici vegetabili. Dedue nomi dati alla notomia umana, scegliamo il secondo, e rifiutiamo il primo, perchè il vocabolo androtomia esprime più l'opera del sezio nare, che lo scopo scientifico di cotesta arte. (V. il disc. prelim.). V. Antropo logia, Fitologia , Zootomia. La motomia, come abbiamo altrove ac cennato, è il primo fondamento di tutte le scienze e arti mediche, dacchè per co noscere l'alterazione degli organi o dei fluidi, da quali nasce l'economia animale, uopo è aver conosciuto la struttura degli uni, e il modo come circolano gli altri; siccome per la terapeutica è necessario l'adattare e il determinare l'azione de rimedi alle varie condizioni degli organi stessi. Maggiore ancora è il bisogno, che l'arte chirurgica ha della notomia, perchè co noscer dee non solamente l'interno tessuto del corpo, ma le facce, gli angoli, le mar gini, e i rapporti d'ogni organo coll'al tro; sì che la notomia chirurgica, di rin contro alla medica, rappresenta quella me desima differenza, che passa tra una carta corografica speciale, e una geografica ge nerale. - Un'altra importante divisione fu fatta sul finire del passato secolo tra la noto mia generale o fisiologica, e la patologi ea, la quale per mezzo delle sezioni dei cadaveri, scopre le condizioni decorpi in fermi, e guida l'osservatore medico alla cognizione delle cause del morbi e della morte: cotesta arte speciale, per la sma mia, che molti hanno di moltiplicare i gre cismi, è stata ancora chiamata nosotomia e necrosomatoscopia: il suo nome carat teristico è di notomia morbosa, o pato logica. La sua utilità è grande, ma per essa non cesserà di esser congetturale l'etio logia medica, o sia la scienza delle cause delle malattie, perchè la morte suole il più delle volte confondere gli effetti delle cause morbose con quelli della dissoluzione della vita. E però non è criterio che ba – 17 – º sti, per distinguere gli uni dagli altri, quando le infermità abbiano lasciato tracce riconoscibili della origine loro. Se la motomia è il fondamento delle arti curative, lo è pure della storia natu rale e di quella parte delle scienze fisi che, le quali versano circa le qualità dei corpi organici. Non è poi straniera alla filo sofia speculativa per lo studio, e per la con templazione della natura: è il mezzo per farci conoscere il sapiente e maraviglioso magistero della fabbrica dell'uomo, e del le prerogative della sua spezie. Di quanto la natura non ha distinto l'uomo, cui ha dato la più elegante e dilicata struttura, per custodir la quale ha lasciato alla sua propria intelligenza quella cura, colla qua le provvede ella stessa alla conservazione delle altre spezie de viventi? Quantunque l'economia della vita animale sia rego lata da leggi a tutte comuni, e una so miglianza si scorga negli organi della re spirazione, della digestione, e della ge nerazione; pur tuttavolta paragonati gli or gani caratteristici della vita sensitiva del l'uomo con quelli de bruti, quanto mani festa non apparisce la sua sublime desti nazione? Se parliamo dell'apparato degli organi sensori, questi raccolgono nel mas simo grado di squisitezza e di perfezione le attitudini e le capacità, che sono sin golarmente e inegualmente distribuite alle diverse spezie degli animali bruti. Che di remo del tatto, cui la pelle è stata pre disposta; dell'udito, che riceve i suoni, e forma gli elementi dell'armonia; dell'odo rato e del gusto, i quali ci son di guida non solamente per la scelta degli alimen ti, ma ancora per distinguere tra loro le produzioni della natura; della visione in fine, la quale penetra nel cieli, e rende visibile persino le invisibili molecule della materia ? Se parliamo poi dell'apparato locomotore, qual ingegnoso contrasto non si scorge tra la destrezza e l'agilità, che la natura ha dato all'uomo, e la forza degli animali, che servir debbono a suoi bisogni? Laonde non può dirsi, se mag giori sieno i lati delle somiglianze, o le dif. ferenze, che caratterizzano la spezie uma na. Alle quali differenze aggiugnendo il divino apparato degli organi discorsivi, chi non ravviserà nell'uomo la creatura del cielo, destinata a portar sulla terra l'in telligenza del Creatore? Chi non confes serà per lo meno, essere l'uomo, un'opera di gran disegno, la quale serve alla mente di scala per salire alla conoscenza del suo perfettissimo Autore? s In conclusione lo studio della notomia de essere considerato come fondamentale, e preparatorio di tutte le parti della filo sofia, naturale, speculativa, o pratica che sia. V. Antropologia. ANDRoToMIA (erit.), notomia del corpo umano, grecismo superfluo che dà un dop pio nome ad un'arte conosciuta sotto una denominazione comunemente ricevuta. ANELANZA e ANELITo (prat.), desiderio sì intenso e ardente di una cosa, che in terrompe persino la parola. V. Desiderio. ANGELo, e ANGIOLo (teol.), nome di ufizio, dato a quelle sostanze spirituali e intelligenti, che son le prime per ordine e per dignità tra gli Esseri creati. V. Es scre, Sostanza, Spirito. Non potendo noi concepirne l'essen za, li dinotiamo col nome di messag giero o di nuncio della volontà, che per mezzo loro Iddio ha manifestato agli uo mini. 5 – 18 – AncosciA (prat.), dolor d'animo ac compagnato da sollecitudine e affanno. Diſ ferisce dall'angustia non come l'iracondia dalla ira, al dir di Cicerone, ma come l'aspettativa del dolore dal dolore stesso. Ella è un sentimento composto dell'una e dell'altro insieme. V. Angustia, Solle citudine. - ANGUstiA (prat.), travaglio d'animo, o affanno, che si prova nell'aspettativa del male. È meno dell'angoscia, e più dell'ansietà. V. Ansietà. ANIMA (spec.), la sostanza intellettuale, capace del pensiero e della volontà. V. Pen siero, Sostanza, Volontà. Prende diverse denominazioni secondo la diversità degli obbietti, sopra i quali eser cita le potenze sue. Dicesi intellettiva o razionale, quando trae il pensiero dal riflettere in se medesima, o sia quando esercita la pura intelligenza; e vien detta sensitiva quando versa circa gli obbiet ti, che le vengono da sensi. V. Sensa ztone. - Nel significato del sensitivo, lo stesso vocabolo conviene pure a bruti, ne'quali si distinguono egualmente le due sostanze, cioè la spirituale e la materiale. Aristotele definì l'anima, l'atto primo del corpo naturale organico, avente la vita in potenza, nella quale definizione intese comprendere le anime di tutti gli animali ed animanti insieme. Spogliando una cotal definizione dal mistero del vo caboli, proprio del suo autore, ebbe egli l'anima, come il principio motore, e come la forma sostanziale di quel composto, che dicesi animal vivente; nel quale concetto non si trova per nulla l'anima intellettiva. ltisguardolla in somma come una forza attiva, o come quella sua entelechia, che è comune a tutte le sostanze anima te. V. Entelechia. Ben altro è il concetto , che la men te, di per se sola forma della natura del l'anima e degli attributi suoi. Vede, es sere diversa dal corpo, dal che forma la nozione d'un'altra sostanza, che chiama spirituale, o immateriale, conosce es sere dotata del pensiere, della volontà, e dell'azione, la quale è figlia d'una po tenza attiva, capace di produrre cangia menti in se stessa, e fuori di se; scopre che non solamente gli altri Esseri, ma anche le sue interne operazioni, possono essere obbietti del pensiero; o sia che ella è intelligibile a se stessa; sente di ricor dare le idee altra volta acquistate, di poterle richiamare a se, di poterle comparare tra loro, e di conoscerne le qualità. Dal com plesso delle quali operazioni forma ella il concetto delle sue proprie facoltà. E non prima ha acquistato una chiara conoscenza di quel che è, e di quel che può, che vedesi rischiarata da una luce, la quale le fa discernere il vero dal falso, la di rige ne suoi giudizi, e le fa scoprire le relazioni che la natura ha stabilito tra se e gli Esseri tutti che la circondano. Una tal cognizione le svela non solamente l'or dine ammirabile dell'universo, e la mente infinita del suo Autore, ma il fine ancora della sua esistenza; fine non caduco, nè circoscritto dalla durata delle cose materia li, ma eterno ed indissolubile, perchè fon dato nelle relazioni, che le intelligenze create aver debbono colla intelligenza del Creatore. In questo fine è scritta a chiare note l'immortalità dell'anima, e la feli cità d'una vita futura. Le nozioni che l'anima ricava dalla sua propria natura, perfezionate dall'osserva - 19 - zione e dallo studio delle proprie facoltà, son quelle che formano la scienza del l'anima, o sia la psicologia. V. Psico logia. Ma qual'è l'essenza di cotesta sostanza, diversa dall'Essere materiale? Cicerone ri spondendo a tal quesito, dice propria et sua, il che è modestamente detto, dapoi chè ignorando noi l'essenza reale così del le cose materiali, come degli spiriti, pos siamo meglio dire quel che non è, di quel che è. Ut Deum noris, soggiugne Cicerone, etsi eſus ignores locum et fa eiem, sic animum tibi tuum notum esse oportere, eliamsi eſus ignores locum et formam. Certamente l'opinione dominante in tutte le scuole dell'antica filosofia fu, che le anime umane fossero una emanazione del la Divinità; e una tal dottrina fu profes sata tanto da quelle, che ammettevano un Ente Perfettissimo, autore di tutte le cose, quanto dalle altre che credettero ad un'amima universale, la quale informasse il mondo e tutte le parti sue. Locke fu il primo, che pretese dimostrare la possibile materialità dell'anima, nel senso che potrebbe Dio colla sua onnipo tenza aver dato alla materia, tra le altre qualità, anche quella del percepire e del pensare. Ma cotesta opinione, se da una parte rileva l'onnipotenza di Dio, detrae dall'altra alla dignità dello spirito, e alla natura stessa della Divinità. L'ipotesi della materialità, oltre all'essere falsa, è perni ziosa, perchè apre un largo varco al ma terialismo, di che per altro non può Locke essere accusato. V. Immaterialità, Im mortalità. ANIMALE (spee.), Essere organico, do tato d'anima sensitiva. Buffon lo definì, materia vivente ed organica, la quale sente, opera, si muove, si nutrisce e si riproduce. Lo stesso autore chiama la qualità sen sitiva, il primo grado differenziale del l'animale, considerandolo per rispetto agli altri Esseri organici, dotati di sola virtù vegetativa. Cicerone deſinì l'animale per lo moto volontario, e per questo carattere solo lo distinse dalle cose inanimate, quod motu cietur interiore et suo. Ma la sensazione è certamente più caratteristica del moto. E però delle tre addotte definizioni, la prima sembra meglio corrispondere all'es senza del definito. - ANIMALE (spee. ), addiettivo. Nel suo significato proprio, quel che è dell'anima. L'uso non pertanto gli dà ancora il si gnificato di addiettivo derivato da anima le, per distinguerlo da animalesco, che suol esser preso in senso di brutale. Così diciamo natura animale, istinto anima le, e simili. È vocabolo in questo senso adoperato da Fra Guittone, dal Segneri, e da altri buo mi scrittori. - ANIMALIzzARE (spec.), far passare nella sostanza animale, una cosa che tal non è per natura. - I fisiologisti l'adoperano nel senso pro prio ; i filosofi speculativi nel traslato. ANIMo (spec. ), la qualità intellettiva dell'anima considerata, o nella sua po tenza, o nell'atto del suo esercizio, e come la più nobile parte dell'uomo vi Vente. Molti del moderni idiomi mancano di questa voce. as - 20 - Leibnitz vuole che la definizione dell'ani mo prendasi dal senso, che gli diedero i Latini. Cicerone (Tuscul. Lib. I Cap. IX), ab anima dictum esse, hoc est a vita, quia eatenus in nobis animus intelligi tur, quatenus in vita sumus. A tal si gnificato corrisponde la distinzione di Se neca (Ep. 58). Animantia quemadmo dum divido ? ut dicam, quaedam ani mum habent, quaedam tantum animam. Più chiaramente Lucrezio (lib. III v. 137). TVuncanimum, atque animam dico coniuncta teneri Inter se, atque unam naturam conficere ea se: ASedcaput esse quasi, et dominari in corpore toto Consilium, quod nos animum, mentempue vocamus. Nel linguaggio comune si adopera come equivalente di spirito, e si scambia col vo cabolo anima. V. Anima, Spirito. ANIMosITA' ( prat), l'ardire che ispira, o la confidenza del proprio coraggio, o l'odio dell'inimico. V. Coraggio, Odio. ANNALI (erit.), relazione storica di av venimenti e di fatti, disposta per ordine d'anni. Differisce dalla storia, in quanto che questa narra non solamente i fatti, ma ancora le cagioni e le origini di essi; lad dove gli annali son prette narrazioni, senza ragionamenti, e senza ornati. V. Storia. ANNICHILAZIONE. V. Annientamento. ANNIENTAMENTo (spee.), l'atto per lo quale distruggesi l'esistenza d'una cosa. È termine usato dal Magalotti. Gli antichi dissero annichilazione per annientamento, e le diedero l'identico si gnificato. Un nome di radice e di desi menza italiana, sembra preferibile ad un latinismo. L'annientamento o l'annichila zione è un concetto metafisico, dapoichè i corpi, naturalmente parlando, ammet tono cangiamenti e alterazioni di forma, e non distruzione e annichilazione. L'an nientamento è l'atto contrario alla crea zione. V. Creazione. ANSIETA' (prat.), inquietudine dell'ani mo, che nasce o dal desiderio d'un bene che si vuol conseguire, o dal timore d'un male che si vuol cansare. - ANTECEDENTE (spec. e disc.), fatto che precede un altro, col quale ha relazione. Se cotesta relazione è necessaria per modo, che dato l'uno debba per necessità seguire l'altro, l'antecedente prende il nome di causa, e il conseguente, di effetto. V. Causa. - Nella logica artifiziale l'antecedente di nota la prima proposizione d'un entime ma, siccome la seconda prende il nome di conseguente, per la ragione testè det ta, cioè che de due membri di quel sil logismo, il secondo è una conseguenza necessaria del primo. V. Entimema. Ne sillogismi composti, la proposizione condizionale dicesi antecedente, e la cate gorica che la segue chiamasi conseguente. V. Categorico, Sillogismo. ANTILOGIA (dise.), contraddizione nel discorso. ANTIPATIA (prat.), abituale avversione, per la quale giudichiamo sfavorevolmente di chiunque crediamo non avere con noi conformità di opinioni o di affetti. V. Av. versione. L'antipatia è una prevenzione dell'ani mo, la quale è d'impedimento al retto – 21 – e maturo giudizio, e però è sorgente di volontari errori. L'abito le dà la forza dell'istinto, dapoichè la fa operare senza fondamento di ragione. Può sì bene es sere giusta, o scusabile, quando nasca dalla opinione delle altrui qualità maleſi che, nel quale caso, ragionevole essendo il principio dell'avversione, diviene an cora razionale l'abito, che per essa si ac quista. Suo contrapposto è la simpatia. V. Simpatia. - ANTIPENSARE (spee.), premeditare un'a- zione, prima di effettuarla : equivale al praeeogito de Latini. Domanderebbesi a nostri vocabolari per chè abbiano ammesso il participio antipen sato, senza volere riconoscere il verbo º ANTIPERISTASI (spec.), adoperato da gli scolastici per esprimere l'azione di due qualità contrarie, delle quali l'una som ministra forza maggiore all'altra, come il calore che si concentra nella terra per effetto della neve che la ricopre : il fred do che rianima il fuoco. Quantunque nel suo senso proprio cotesto grecismo appar tenesse alla Fisica, pur tuttavolta i pe ripatetici lo adoperarono spesso per ispie gare il sistema delle loro specie sensibili. V. Specie. ANTIPREDICAMENTI (dise. ), prenozioni utili per meglio intendere la dottrina dei predicamenti di Aristotele: voce scolasti ca, che vuolsi notare per coloro che col tivano la logica aristotelica, non intera mente, nè universalmente sbandita dal l'odierno insegnamento. Tali prenozioni sono le definizioni, le partizioni determini comuni in equivo chi, univochi, e denominativi; le parti. zioni delle cose, le regole del predicati, e delle differenze loro. Furon dette anti predicamenti, perchè Aristotele per ordine, e per chiarezza le antepose alla dottrina delle sue categorie. V. Categoria , Pre dicamento. - ANToLogIA (crit.), scelta, o raccolta di fiori, sotto il qual nome si è inteso di notare epigrammi, poesie d'ogni genere, molti sentenziosi, e altre composizioni pia cevoli ed istruttive. - Taluni l'han chiamata altresì florilegio, termine affatto equivalente. ANTROPOGRAFIA, grecismo superfluo. V. Antropologia. ANTROPOLOGIA (crit.), fu da prima ado perato per esprimere il linguaggio umano, che si appropria alla Divinità, onde ren dere agli uomini sensibile la sua parola. Indi più propriamente fu usato nel sen so di scienza dell'economia animale del l'uomo. - Il suo significato è stato ancora più am pliato da moderni, i quali hanno abbrac ciato sotto lo stesso nome la scienza ge nerale dell'uomo. In questo senso l'antro pologia dovrebbe considerare l'uomo: 1.° Come rivestito di un corpo che cre sce, vegeta e si riproduce, nel quale aspetto entra in comparazione cogli altri Esseri dotati di funzioni vegetative; 2.” Come formato di organi capaci di azione, di passione, e di sensibilità, nel quale aspetto entra in comparazione cogli altri animali dotati di moto volontario, di sensazioni, d'istinto, di piacere, e di dolore; 3.° Come dotato di organi più perfetti, destinati a soddisfare maggiori bisogni, t e a servire a più importanti fini, tra quali l'impero sopra tutte le cose create: in que sto aspetto, i sensi suoi formano un par ticolare subbietto di ricerche e di studio; e l'umana struttura è esaminata come la prima di tutte le sue attitudini all'impero delle altre creature, del pari che all'asso ciazione con una sostanza di più eccellente natura, quale è l'anima ; 4.° Come dotato del pensiero, che eser cita tanto sopra gli obbietti esterni, quanto sopra gl'interni; nel qual argomento re sterebbe assorbita tutta la filosofia intellet tuale. In una parola l'antropologia così trattata, diverrebbe l'enciclopedia delle co IlOSCCInze umane. Convenendo darle un significato certo, e meno universale, sembra plausibile li mitarlo ad esprimere quella parte della scienza dell'uomo, che manca d'un nome speciale. Tal è il principale ramo della zoologia, che versar dee circa l'organico dell'uomo, il quale quando venisse com preso nella denominazione generale, re sterebbe confuso con tutte le altre spezie di animali. Così ancora l'antropologia divie ne sorgente della serie nobilissima di tutte le scienze e arti mediche. (disc. prelim.). V. Anatomia. ANTRopoMoRFISMo (teol.), il rappresen tare la Divinità sotto le forme umane. ANTRoPoMoRroLoGIA, grecismo superfluo e intollerabile, che dice lo stesso di ana tomia. ANTRoPoNoMIA, altro grecismo superfluo, che dice lo stesso di fisiologia. ANTRoPoPATIA (teol.), l'attribuire alla Divinità gli affetti e le passioni umane. ANTnoroscopia (erit), arte di scoprire, o di congetturare l'indole, le propensioni, e le passioni dell'uomo dagli esterni deli neamenti del corpo. - ANTRoPosoFIA, grecismo superfluo.V.An tropologia. ANTRoPosoMATOLOGIA, grecismo super fluo. V. Antropologia. - ANTROPoToMIA, grecismo superfluo, che dice lo stesso di anatomia. A PAGOGIA (dise.), dimostrazione d'una proposizione per via dell'assurdità della contraria proposizione: è quel che i lo gici dicono riduzione all'impossibile, o all'assurdo. - APAGogico (dise), addiettivo di apago gia, qualità della dimostrazione indiretta, la quale prova l'assurdità o l'impossibi lità della proposizione contraria a quella che si assume come vera. APATIA (prat.), malattia dell'anima, che la priva del senso delle naturali pas sioni; vocabolo necessario, adoperato dal Salvini. APATISTA (prat.), chi professa apatia; vocabolo adoperato dal Salvini. APoDITTIco (disc.), argomento o dimo strazione chiara e convincente d'una pr posizione, - APoLoGETICA (disc. e teol.), addiettivo d'apologia. In un senso speciale, comunemente ri cevuto, si adopera pe discorsi detti, o scritti per la verità della religione cristia ma, ad esempio dell'apologetico di Ter tulliano. - ApologiA (dise.), discorso in difesa di che che sia. ApoLoco (prat.), favola morale, o fin to racconto, di cui lo scopo è il ripren dere i vizi, e riformare i costumi. A PosTERIORI. V. Posteriore. APPARENTE (spec. ), quel che è visi bile o sensibile, nel quale significato vale ancora esteriore; dacchè non può fare im pressione su sensi, se non la sola esterna superficie degli obbietti materiali. V. Este riore. - L'apparente de sensi può essere diverso dalla realità degli obbietti, o per la in capacità relativa di quelli, o per loro vi zio accidentale: per incapacità relativa, quando vogliamo adoperargli fuori della misura stabilita dalla natura: per vizio, quando gli organi nostri trovansi in uno stato di alterazione: la prima cagione può dirsi normale, la seconda, di eccezione. Vuolsi dichiarire per gli esempi sì l'una che l'altra. L'apparente della visione ci serve di gui da per intendere e spiegare l'apparente degli altri sensi; siccome i fenomeni dei corpi celesti son quelli, che ci fan cono scere la differenza tra le distanze visibili, e le effettive. Noi vediamo gli obbietti lontani d'una grandezza tanto minore, quanto maggiore è la distanza di quelli; perchè l'apparente grandezza degli obbietti nasce dalla maggiore o minore grandezza dell'angolo visuale, sotto del quale live diamo. Angolo visuale, o ottico è quello che si forma da due raggi di luce, i quali partono da due punti estremi dell'obbietto veduto, e vanno ad unirsi nel centro del la pupilla. Da ciò nasce, che le grandezze degli obbietti lontani son sempre propor zionali all'angolo, sotto del quale son essi veduti alla medesima distanza. A ciò si aggiugne, che la lontananza fa apparire diversa non solamente la gran dezza de corpi, ma la distanza stessa, per chè i mezzi da misurar questa sono gli ob bietti intermedi, i quali quando manchi no, avviene che i sensi ce la rappresen tano minore di quella che è. La medesima cosa interviene quando la picciolezza degli obbietti intermedi sia tale, che non possa l'occhio avvertirgli. E siccome nelle grandi lontananze tali obbietti divengono impercet tibili, così i sensi ci nascondono una par te della immensità de cieli, e della gran dezza de corpi celesti. Abbiamo in somma un'apparente grandezza del sole, della luna, e di ogni altro pianeta; anzi ab biamo per ognun di essi diversi apparenti diametri di grandezza, perchè varia è la quantità dell'angolo, sotto del quale live diamo alle varie distanze in cui si trovano dalla terra; abbiamo un apparente orizzon te, il quale separa la parte visibile del cie lo, dall'altra invisibile, che ci vien tolta dalla rotondità della figura della terra. Que sto apparente orizzonte è quello che deter mina relativamente a noi l'apparente nasci mento e il tramontar del sole, della luna, e degli altri pianeti, comechè gli astronomi mol chiamino apparente, se non per di stinguerlo dal vero o astronomico , che passa per lo centro della terra, e a cui riferisconsi le posizioni degli astri. Così, essi lo spogliano del difetto o della differenza variabile, detta parallasse, la quale na sce dalle diverse posizioni dell'astro, a ri – 24 – spetto dell'osservatore. Abbiamo infine di stanze, e luoghi apparenti, diversi dagli effettivi e reali, o per tali considerati da gli astronomi, nella veduta di spogliargli del sensibile e del variabile, e di ridurgli ad uno stato costante, il quale nel lin guaggio della scienza prende il nome di vero, o di medio. Le cennate apparenze son determinate da rapporti certi, costan ti, e talvolta proporzionali alle grandezze e distanze reali, per modo che, se le di stanze di due pianeti son eguali, i loro veri diametri son proporzionali agli appa renti; e se gli apparenti diametri sono eguali, i veri diametri saranno come le distanze dall'occhio dello spettatore. E per l'opposto se le distanze e i diametri ap parenti non sono eguali, i veri diametri saranno in una ragione composta dalla diretta della distanza, e dalla diretta de gli apparenti diametri. Da ciò segue pure, che, data la grandezza dell'angolo visuale, e data la vera distanza dell'obbietto visi bile, può essere calcolata e determinata la grandezza reale dell'obbietto medesimo. Un altro errore della visione può na scere dal mezzo, a traverso del quale ve diamo l'obbietto, sì che l'azione diretta di esso sul nostro organo riceve un impe dimento, o un'alterazione, la quale di pende dalle qualità conosciute della luce. Tal è il caso del bastone che apparisce rotto nell'acqua, perchè l'acqua rompe la linea del raggio, che dal bastone viene a ferire i nostri occhi. Quel che abbiam detto della visione spie ga ancora la differenza, che passa tra l'ap parente ed il reale nelle altre sensazioni, di che possiam prendere gli esempi dallo spazio, dal moto e dal tempo. Noi di stinguiamo lo spazio visibile dal tangibi le; la qual distinzione corrisponde all'ap parente e al reale, perchè il fatto ci serve per determinare la misura delle distanze, che limitano la capacità della vista. In tanto la natura ha stabilito una costante corrispondenza tra l'una e l'altra sensa zione per modo, che la grandezza visi bile ha una determinata relazione colla figura e colla grandezza tangibile, e ogni modificazione nell'una ha una modifica zione parallela nell'altra. Così pure di stinguiamo nel moto e nella quiete l'as soluto dal relativo, o il proprio dall'im proprio; nelle quali spezie di moto i sensi possono soltanto distinguere il cangiamento del luogo prodotto dalle forze esterne, ma non valgono per loro stessi a percepire distintamente i cangiamenti, che nascono dalle forze interne de corpi stessi, nè quelli prodotti da cause esteriori, le quali agi scono complessivamente su corpi non meno che su sensi dell'osservatore. Tal è il caso dell'uomo, che non avverte il suo cam biamento di luogo nello spazio, nè quel lo de corpi che lo rircondano, prodotto dal moto comune della terra. Similmente distinguiamo il tempo assoluto dal rela tivo o apparente, e consideriamo l'asso luto come costante e invariabile; mentre chè chiamiamo apparente o relativa quella parte di durata che misuriamo per mezzo del moto. A tal modo giudichiamo eguali i tempi, ne quali un corpo percorre spazi eguali, e stabiliamo come misure comuni del corso del tempo le periodiche rivolu zioni del sole o della luna, come l'anno, il mese, o il giorno solare, comechè il moto loro non sia esattamente uniforme, In conferma di che possiamo ancora dire, che noi non avremmo alcuna idea del tem po assoluto, o del moto uniforme, se il Creatore non ce ne avesse dato un mo dello perfettissimo e invariabile nel giro - 25 - della terra intorno al proprio asse ; il quale giro equivale in durata al tempo, che una stella impiega a ritornare in due giorni successivi allo stesso punto del cie lo. V. Moto, Spazio, Tempo. E per quanto concerne i vizi accidentali desensi, noi veggiamo tinti di color giallo tutti gli obbietti, quando la bile si è sparsa per gli occhi; e sentiamo amaro tutto quel che gustiamo, quando la bile è sulla lin gua; e quando i nervi sono internamente agitati, vediamo scintille e colori soprap posti, o sentiamo confusi romori, tintinni, e bucinamenti estranei agli obbietti este riori. Non solamente la ragione, ma gli altri sensi, che son rimasi nello stato di sanità, ci avvertono esser queste illusioni prodotte da infermità, o da altre cause accidentali. Adunque l'apparente non è una falla cia della natura, ma è un effetto della condizione del nostri sensi: l'apparente è una parte di verità, che ha la sua cor rispondenza col tutto: se da un lato la natura ha limitato la capacità del sensi; dall'altro ha dato all'intelletto l'acume ne cessario per supplire a ciò che loro man ca, e per servirsi dell'apparente come di scala al vero. V. Senso, Vero. Sin qua dell'apparente de sensi. Ma a questo stesso vocabolo si dà ancora il si gnificato traslato di comprensibile, o di verisimile. Cotesto apparente degli obbietti intelligibili, non contiene alcuna certa re lazione col vero, ma è un anticipato giu dizio che formiamo della verità d'un con cetto, senza conoscerne tutte le sue intrin seche qualità. E però la nozione del vero apparente non è mai distinta, nè chiara, ma va tra le confuse, se pur non si trat tasse di quella spezie di verisimile, che si scambia col vero. V. Vero, Verisimile. APPARENZA (spec.), esterno aspetto d'un obbietto sensibile, che ne determina la per cezione. V. Percezione. Nel senso traslato è una sembianza del vero, prodotta da anticipati giudizi. V. Giu dizio. APPARISCENTE (prat.), di grande e bella forma. E diverso dall'apparente, ed è proprio delle sole cose sensibili, quantunque l'uso lo abbia talvolta trasportato a significare le cose facilmente visibili, e anche gli atti del pensiero, e le forme eleganti del discorso. APPELLATIvo (dise.), nome di genere, che esprime un'idea comune a più ob bietti presi insieme. Gli obbietti delle no stre idee sono o singolari, o al numero del più. Singolare è l'idea d'un determi nato uomo; generale e collettiva è quella dell'uomo genericamente preso, o d'una spezie di animali o di piante. I nomi, de stinati ad esprimere le idee singolari o sie no gl'individui sono stati detti propri ; laddove quelli che dinotano genere, o spe zie chiamansi appellativi. V. Mome. I nomi appellativi han fatto in ogni lin gua risparmiare il numero de nomi propri, ed hanno accresciuto quello delle nozioni generali; nel che principalmente è ripo sta la perfezione del linguaggio e dell'arte del pensare. Imperocchè se ad ogni cosa singolare si avesse voluto dare un nome, non solamente la memoria non avrebbe potuto ritenere tanto numero di parole, ma si sarebbe con ogni generazione per duto il linguaggio del nostri predecessori. Ogni famiglia, e ogni città avrebbe avuto nomi diversi, i quali non sarebbero du rati, che per una età sola. E dall'altra parte, mancando i nomi appellativi, non 4 avremmo avuto proposizioni generali, e per conseguente mancate ancor sarebbono le verità astratte, che vuol dire principi, e scienze. Qual è l'uomo che ebbe l'antivedimento di formare con tanta sapienza un linguag gio, che servir potesse a tutte l'età, e a tutta la spezie umana? V. Linguaggio. APPERCEZIONE (spec. e crit.), avvertenza dell'animo alla percezione, o consapevo lezza che l'anima acquista della percezio me, mediante l'attenzione. È vocabolo introdotto da Leibnitz tanto per dinotare l'avvertenza ad una idea, quanto per distinguere la percezione co mune a bruti da quella, che è propria del le intelligenze superiori. Locke intese la necessità di ammettere l'appercezione, per distinguere le idee che ci vengono dalla riflessione. Tali sono l'av vertire o appercepire (appercevoir), il pensare, il dubitare, il credere, il ra gionare, il conoscere, il volere, e tutte le operazioni dell'anima, che scorgiamo in noi stessi. V. Riflessione. Il dottor Reid non ammette la distin zione di percezione ed appercezione, tra perchè considera l'idea di Leibnitz, come una parte del sistema delle sue monadi, e perchè non sa concepire come possan darsi operazioni dell'anima, le quali non sieno note alla coscienza ; sì che tanto sarebbe il percepire, quanto il pensare senza coscienza del pensiero. Le ragioni di Reid non sembrano suffi cienti per escludere una distinzione fon data sopra due fatti, della cui realtà non si può dubitare, qualunque sia la deno minazione che vogliasi dar loro. La percezione distinta è certamente di versa dalla confusa; per modo che se si volesse chiamare l'una appercezione e l'al tra percezione, potrebbesi disputare del nome e non della cosa. Ma la ragione umana è dotata di una facoltà superiore, per la quale può rendere distinte tutte le percezioni, che ne bruti sono necessaria mente confuse. Ora questa qualità carat teristica può e dee formare suggetto d'in vestigazione e di analisi, siccome l'atten zione, la riflessione e la coscienza vanno considerate come diverse dalla percezione, e come qualità proprie e private dell'uma na ragione. Potrebbe forse dirsi essere l'appercezione non altro, che l'attenzione o la riflessione applicata alla percezione. Ma nulla vieta, che per meglio render conto a noi stessi di questa importante operazione della mente umanale si dia una speciale denominazione. Condannare poi un concetto vero, per chè collegato con una ipotesi metafisica, è una ragione che vale ancora meno della precedente. Se non sono le monadi che formano i diversi ordini delle intelligenze, è certamente distintiva della ragione uma ma la facoltà di riflettere in se stessa e nelle operazioni sue, così esterne come interne. E però giova ritenere la distin zione di Leibnitz, purchè al vocabolo si dia quel significato che corrisponde alla sua propria mozione, cioè d'un atto della riflessione, mediante il quale rendiamo di stinta una confusa o insensibile percezione. V. Attenzione, Intelligenza, Monade, Percezione, Riflessione. APPETITIvo (crit.), addiettivo proprio della facoltà di appetire. I nostri moralisti, tra quali il Passa vanti han partito in tre le potenze dell'anima, intellettiva cioè, sensitiva, e appe titiva. Ma cotesto coneetto è una trasfor - 27 - mazione delle cinque potenze ammesse da Aristotele, secondo la qual dottrina l'ap petitiva era parte della sensitiva, e da quella non diversa. V. Potenza. AppErrro (prat.), stimolo di natural bisogno, accompagnato dalla voglia di soddisfarlo. Limitando il significato di questo voca bolo a bisogni naturali, noi nescludiamo i fattizi, comechè questi possano per l'abi to acquistare la medesima forza di quel li. L'esempio dichiarirà meglio la na tura degli uni e degli altri. La fame, la sete, il bisogno della riproduzione sono appetiti naturali: l'uso del liquori, del tabacco, e qualunque altro bisogno che abbia per l'abito acquistato un impero so pra di noi, vanno noverati trai fattizi. È inutile fare l'analisi di questi, tra per chè i veri caratteri degli appetiti trovansi ne naturali, e perchè dobbiamo conside rare come tali quelli solamente, che gli animali portan seco per una legge della propria costituzione, la quale corrisponde sempre ad un fine utile, e alla stessa ine rente. V. Abito. I caratteri degli appetiti naturali sono: il produrre in noi una incomoda sensazione, giunta al desiderio di soddisfarla; il non esser costanti ma ricorrenti, secondochè ri corre il bisogno, di cui sono una espressione. Gli appetiti sono altrettanti principi d'azione impressi in tutti gli animali, onde indirizzare l'esercizio della potenza al fine della conservazione della vita, e della ri produzione della spezie; e perchè propri della parte animale dell'uomo, e comuni a bruti, entrano nella classe decosì detti istinti animali. V. Azione, Istinto. Manifesto è il fine della natura nell'aver dato cotai stimoli per compagni alla vita, dapoichè non potrebbero i bruti razional mente conoscere la qualità e la quantità di nutrimento che loro conviene; nè po trebbe l'uomo per solo calcolo di ragione stabilire la necessità, l'utilità, o la mi sura de suoi alimenti. Molto meno il po trebbe nella sua infanzia; e quando anche potesse a ciò bastare un istinto meramente razionale, sarebbe questo rimaso insuffi ciente, semprechè ne fosse stato l'uomo distornato da una più potente distrazione. Tal'è l'indole de bisogni naturali, che crescendo essi per gradi giungono insino al segno di costringerci a soddisfargli. Ammirabile è la natura in questa parte delle sue leggi, essendochè ha dotato tutti gli animali del gusto e dell'odorato, ed ha per modo predisposto la conformazione degli organi di ciascuna spezie, che ognu no, dall'elefante insino al più impercettibile insetto, trova per un giudizio pratico l'ali mento che più gli conviene. Quel che di ciamo della fame va con perfetta parità di ragioni applicato ancora agli altri bisogni. Ma acciocchè l'impulsione di tali stimoli non turbasse l'ordine morale, al quale ser vir debbono tutte le spezie degli animali, la natura non ha dato agli appetiti una forza invincibile. Ne bruti può questa for za essere dominata da una più forte pas sione, e soprattutto dal timore, che li con tiene nella dipendenza propria della con dizione loro. Nell'uomo è temperata e di retta dalla volontà, o sia dalla ragione, che è l'arbitro supremo delle sue azioni. V. Volontà. APPLICARE (disc.), dicesi dell'adattare la definizione al definito, il predicato pro prio al subbietto, il genere alla sua spe zie, il principio alle cose dal medesimo dedotte, la teoria alla pratica. V. Defini r s- 28 - zione, Genere, Predicato, Principio, Subbietto, Teoria. AppRENsIoNE (spec.), operazione del l'intelletto, per la quale formiamo l'idea d'un obbietto, che ci presentano i sensi, o l'immaginazione. - Taluni l'hanno confusa colla semplice percezione, ed altri hanno adoperato que sto vocabolo per esprimere la percezione, accompagnata dalla attenzione. Gli scola stici chiamarono altresì nuda o semplice apprensione l'operazione, per la quale la mente richiama una idea già conceputa, spogliata d'ogni altro modo di luogo o di tempo, e scompagnata dal giudizio. Da ciò nacque la partizione delle tre funzioni dell'intelletto nell'apprensione, nel giudizio, e nel ragionamento. Co testa partizione presupponeva che le idee sensibili fossero i soli elementi delle uma ne conoscenze; siccome il vocabolo ap prensione trae la sua origine dalla mate riale similitudine del contatto dell'obbietto coll'intelletto. Quel che le antiche scuole chiamarono apprensione, è stato da moderni detto con cezione. Per non moltiplicare termini, e per non richiamare all'uso quelli, ch'era no collegati con principi ora non più am messi, giova servirsi del nuovo vocabolo. V. Concezione. APPRENSIVA (spec.), potenza dell'ap prendere, o che esercita l'apprensione. Il Passavanti dà come pregi dell'anima, l'immaginativa, l'apprensiva, e la remini scenza.V. Immaginativa, Reminiscenza. APPRovAzioNE (spec. e prat.), assenti mento ad un giudizio, accompagnato dalla persuasione della sua verità. V. Giudizio. Approvazione morale diciam l'assenti mento, che la coscienza presta alle nostre azioni, e da cui nasce l'interna soddisfa zione dell'anima. Iddio ha renduto la co scienza depositaria della luce del vero, e l'ha rivestita del potere di giudice, ac ciocchè avessimo in lei una guida ed un censore insieme. Come guida, l'approva zione ch'ella pronunzia serve di spinta e di principio all'azione; come censore, il suo giudizio, o ci rassicura del ben fat to, o ci riprende del mal fatto. L'appro vazione dunque è la ricompensa del retto operare, siccome il rimorso è la pena delle infrazioni alle leggi, che regolano l'or dine morale dell'universo. V. Coscienza, ARALDICA (erit.), arte, che interpreta i caratteri emblematici del blasone, e spiega le regole della sua composizione. V. Ca rattere. ARBITRIO (spec. e prat.), potestà di fare, o di scegliere tra più cose quella che giudichiamo esserci utile, o gradevole. Arbitrio dell'uomo è stato detto il potere datogli dalla natura di scegliere il bene o il male, o sia la facoltà di determinarsi all'azione, la quale facoltà, perchè presup pone la libertà del volere e dell'operare, è stata detta libero arbitrio.V. Bene, Libertà. La certa nozione del libero arbitrio è il fondamento dell'obligazione e del do vere, della realità delle nozioni del giu sto e dell'ingiusto, e di tutta la filosofia morale. V. Dovere, Obligazione. Comechè la realità e la certezza della nozione del giusto sia una di quelle pri me verità, che sono attestate dal senso in terno e dalla coscienza; purtuttavolta tra gli altri traviamenti della filosofia specu lativa nacque ancora la dottrina di coloro, i quali risguardarono la determinazione dell'uomo come una conseguenza neces saria della sua natura, e delle cause che meccanicamente muovono la sua potenza, Così le buone o le ree azioni non sareb bero altro, che gli effetti d'una necessità preparata dal nostro proprio temperamento; e la moralità di quelle sarebbe un voca bolo di qualità, relativo allo stato ed all'in teresse degli altri uomini. V. Meeessità, Volontà. Una tal dottrina rovescia dalle sue ſon damenta ogni obligazione morale, scio glie l'uomo da ogni dovere verso Dio, verso se medesimo, e verso gli altri; gli toglie qualunque speranza di ricompensa; lo assolve da ogni timor di pena; lo pri va dell'aspettativa d'una vita futura; nega all'universo una causa intelligente, o per lo meno un fine benefico all'Autor suo ; distrugge la realità dell'umana cognizio me; e apre le porte al materialismo e allo scetticismo. La cennata dottrina, seguita già da fautori del fatalismo, e rinnovata nella moderna filosofia da Hobbes, fu nel le scuole enunciata colla denominazione di controversia intorno alla realità delle di stinzioni morali. V. Distinzione. L'assurdità della dottrina del fatalismo, o sia della necessità, è dimostrata dalla coscienza, la quale ci detta gli argomenti per combatterla. Tali argomenti sono: 1.º La convizione che abbiamo della propria libertà. 2.” Quella della nostra morale respon sabilità. - 3.° La facoltà del pentimento, per lo quale possiamo ritrattare la nostra deter minazione, e disfare ciò che abbiam fatto. 4.º II potere prefiggerci un fine, e di sporre i mezzi per conseguirlo, mediante una lunga serie d'azioni. Circa il primo, ciascuno è consapevole che quando opera, ha in se la sicurezza di esser padrone dell'azione. I fautori del la necessità non negano, nè negar po trebbero una tal verità, perchè ciascun di essi nel portamento di sua vita, sentesi padrone delle proprie azioni. Ma essi af, fermano, che noi crediamo esser liberi, quando nol siamo, o sia che la nostra convizione è fallace. Cotesta obbiezione non può esser limitata ad un atto solo del giu dizio; dapoichè se fosse vera, sarebbe co mune a tutte le funzioni e a tutte le fa coltà dell'anima. L'obbiezione dunque è capitale: o la convizione in forza della quale operiamo è vera: o noi viviamo in un mondo di spettri e d'illusioni. Il sup porre che veggiamo e non veggiamo, sen tiamo e non sentiamo, crediamo e non crediamo, è un delirio, che può cadere in una mente inferma, e non può trovar luogo nella retta e sana spiegazione dei fenomeni della mente umana. Se quel che è, è diverso da quel che non è, se sono veri i fenomeni naturali, se vere sono le nostre sensazioni, vera è pure la convi zione la quale ci fa sentire, che abbiamo un giudizio, una volontà, ed una scelta. V. Giudizio. Circa il secondo, la coscienza ci muove per un sentimento di morale responsabi lità alla scelta del bene e alla riprova zione del male. Allorchè ci determiniamo a questo, più che a quello, dobbiam com battere con noi stessi, e dopo di avere soggiogato l'interna resistenza, il rimorso del mal fatto ci accompagna, ci ripresenta i motivi del contrario operare da noi ri fiutati, ci giudica e ci condanna. E per l'opposito, allorchè seguiamo i dettami della coscienza, ci presenta ella i pericoli che avremmo corso, se fossimo stati in - 50 - lei men confidenti, ci ricompensa col con tento dell'anima, e c'incoraggia ad averla sempre a direttrice delle nostre azioni. Ora noi tenghiamo la coscienza non solamente come verace, ma come infallibile, ed una tal credenza è in noi infusa; anzi è una legge della umana costituzione, tra perchè ci è data dalla natura, come guida dei portamenti nostri, e perchè non potremmo supporla fallace, senza creder tale l'Ente Perfettissimo, di cui siam l'opera. V. Co seienza. - - Circa il terzo, il pentimento, di cui siam capaci nelle stesse azioni da noi de liberate, dimostra che la volontà non è serva d'una fatale determinazione, dapoi chè ella torna indietro, risamina i mo tivi del deliberato, ed emenda il fatto, ora nel senso del bene, ed ora del male. Contraddittoria sarebbe stata la natura, se volendo toglierci la libertà dell'operare, ei avesse dato il potere di aggirarci ora nel vero, ed ora nel falso. Una tal filo sofia non potrebb'essere giustificata, se non per la ipotesi d'una natura ingannevole e seduttrice, la quale non avesse avuto altro scopo, che di farsi giuoco dell'uma na debolezza. V. Determinazione. E circa il quarto, i sofismi de fautori della necessità perdono ogni prestigio, al lorchè si contrapponga loro la ferma e co stante volontà di quegli uomini, i quali si prefiggono un fine, a cui predispon gono i mezzi, mediante una serie di azioni coerenti e coordinate al fine medesimo. Di tal natura sono i propositi e i progetti, speculativi o pratici, a quali gli uomini impiegano o il tempo intero della vita, o una gran parte di essa, V. Fine, Mezzo. In somma tutto lo spirito della dottrina della necessità, allorchè si giugne alle sue estreme obbiezioni, è nato così dalla im pazienza degli uomini nel non aver potu to spiegare l'origine del bene e del male, come dal desiderio di scagionarsi del cat tivo uso della volontà, e di farne una colpa della natura. A PRIORI V. Priore, ARCANo (spec.), addiettivo di senso o significato, proprio di quelle dottrine che insegnavansi con figure, o con altro lin guaggio misterioso. Vale quanto acroama tico ed esoterico. V. queste voci. ARCHÉo (ontol.), grecismo formato dal vocabolo ero principio. È stato usurpato dalla fisica, dalla chimica, dalla medicina e persino dalla metafisica. I fisici, han preteso spiegare, per tal vocabolo l'in termo calor della terra; i chimici il fuo co; i medici, e principalmente Van-Hel mont, il principio della vita; e i metafi sici la causa efficiente del tutto, e pro priamente l'anima del mondo. Siccome in ognuna delle dinotate scien ze cotesto vocabolo serviva a spiegare una oscura e indeterminata nozione, così l'uso lo ha da tutte sbandito. ARCHEOGRAFIA (crit.), descrizione demo numenti antichi. Siccome la descrizione de monumenti è una parte preliminare della illustrazione loro; così la denominazione di archeogra fia può aversi come un grecismo superfluo, e come un'addoppiatura dell'archeologia. ARcHEoLoGIA (crit.), dottrina della ri mola antichità e del monumenti suoi. ARCHETIPo (spec.), forma primitiva. Cotesto vocabolo esprime una idea, che – 51 – non è più chiara di quella che dice la parola forma. È stato odoperato, e lo è ancora talvolta, per dinotare la primitiva forma del mondo, e della intelligenza, significati del tutto ideali. V. Forma. ARCHITETTURA (crit.), arte di costruire, di scompartire e di ornare gli edifizi. È uma delle arti belle o imitative, e prende tra esse il primo luogo, non solamente perchè attigne le sue regole dal bello della natura, e dalla euritmia della ragione ; ma ancora perchè applica nelle sue costru zioni le più importanti verità della geo metria e della meccanica. V. Arte. ARDIRE (prat.), prontezza d'animo nello intraprendere cose difficili e pericolose. Va usato in senso buono e non vizioso, come l'audacia, E tanto buon ardire al cor mi corse Ch'io cominciai come persona franca DANTE. V. Audacia. ARDoRE (prat.), intenso desiderio, pro prio delle veementi passioni. V. Deside rio, Passione. AREroLoGIA (erit.), grecismo superfluo, col quale si è voluto esprimere la parte del la filosofia morale, che tratta della virtù. Potrebb'esser questo il nome della stessa filosofia morale, se gli antichi e i moderni non avessero voluto con miglior senno de rivare la sua denominazione da costumi, o sia dal pratico esercizio della virtù, piut tosto che dal suo concetto speculativo. ARGOMENTAZIONE (disc.), forma di di scorso, per la quale cercasi dimostrare la verità d'una proposizione, con argomenti disposti per modo, che dalla loro conclu sione risulti la verità, di cui vassi in cerca. Gli scolastici non mancarono di distin guere nell'argomentazione la materia e la forma, riponendo la prima nelle parole, e la seconda nella disposizione degli argomenti. Per essi non fuvvi altra forma di argomenti, che quella del sillogismo. V. Sillogismo. ARGOMENTo (disc.), ragionamento logico, per lo quale si ricava una conseguenza da una o più proposizioni. V. Conseguenza, Proposizione. - Cicerone definì l'argomento probabile ºnventum ad faciendam fidem. Due sono le fonti, d'onde traggonsi gli argomenti, la ragione, e l'autorità. Da ognuna delle due può nascere la certezza, o la proba bilità, secondo che vere o verisimili sono le proposizioni, dalle quali la conclusione è stata ricavata. E però gli argomenti sono fondamenta tanto di certezza, quanto di probabilità, e così di scienza, come di opi nione.V. Opinione, Probabilità, Scienza. Allorchè nelle scuole non conoscevasi al tro genere di ragionamento fuori del ca tegorico, la forma comune a tutti gli ar gomenti era il sillogismo. E siccome face va uopo intessere ogni sillogismo ad una massima o definizione; così per agevolare il ragionamento tanto i logici quanto i re tori formavansi un apparato di generi di verità, da quali deducevano al bisogno i loro particolari argomenti. Cotesti generi, che eran considerati come le sedi degli argo menti eran detti luoghi logici. Tali sono per esempio la forma, la similitudine, la differenza, il contrapposto, l'antece dente, il eonseguente, la causa, l'ef fetto, la comparazione dal più dal meno o dal pari, l'analogia delle parole, l'eti mologia, ed altri. V. Luogo. - 52 - AnirMErica (crit.), scienza la quale versa circa le proprietà e le relazioni del numero, e dà le regole del numerare. V. Vumero. - Siccome il numero rappresenta quella spezie di quantità che dicesi discreta, per chè composta di parti separabili, quali sono le unità considerate come suoi com ponenti; così l'aritmetica prende ancora il nome di scienza della quantità disere ta. V. Discreto, Quantità. ARMONIA (spec.), concordanza di cose dissimili, che è comunemente applicata alle consonanze de tuoni acuti e gravi della musica. V. Musica. - Armonia delle sfere è il supposto con cento, che, a senso di molti, dee pro durre il regolare e rapido movimento dei corpi celesti nell'atmosfera che li circonda. Armonia è detta in ogni arte l'effetto d'una composizione, di cui l'ordine e la varietà producono un gradevole effetto. Così nella pittura la voce armonia è adoperata per esprimere il piacevole effetto, tanto della composizione de colori, quanto della disposizione delle figure, e delle diverse parti del quadro. E in ogni scienza o di sciplina lo stesso vocabolo è usato per di notare l'accordamento delle diverse parti d'un tutto, o delle proporzioni loro. V. Pro porzione. - - Armonia chiamarono i filosofi la ma ravigliosa connessione delle membra del corpo e de movimenti loro; il quale sen timento trasportato poi alla composizione di tutte le parti della natura, produsse l'altro concetto dell'armonia e de numeri, cagioni di tutte le cose. Armonia prestabilita è l'ipotesi di Leib nitz, per la quale spiegasi il commercio dell'anima col corpo. Secondo questa ipotesi, ciascuna delle due sostanze non influisce sopra dell'altra; ma l'anima ha una virtù propria essenzia le, che in ogni sua azione è secondata dal corpo, predisposto dal Creatore per modo, che corrisponde esattamente alle determina zioni di quella. Cotesto accordamento per fettissimo, prodotto, non dalla interven zione divina nelle particolari funzioni di quella o di questo, ma da un premeditato disegno della Infinita Sapienza, è quel che a Leibnitz piacque chiamare armonia pre stabilita. Una tale armonia è a suo cre dere preparata persino nel primi e più te nui elementi della materia, la quale non potrebbe uscire dalla inerzia del suo pri mo stato senza il concorso delle sostanze spirituali, o sia delle unità reali, o mo nadi. V. Monade. A tal modo innestando la metafisica alla meccanica, credette Leibnitz avere scoperto il mistero della natura. V. Ipotesi. ARRoGANZA (prat.), gonfiamento d'ani mo, che taluno ha in riputarsi più degno e maggiore di quel che è. È più che pre sunzione. V. Presunzione. ARTE (crit.), ogni sistema di regole for mato per conseguire un determinato sco po, intellettuale o pratico che sia. V. Re gola, Sistema. In un senso più speciale, arte dicesi la collezione delle regole proprie all'esecu zione delle opere materiali dell'uomo. Qualunque sia lo scopo d'un'arte, o che risguardi l'industria necessaria a biso gni e alle comodità della vita, o che si prefigga l'imitazione dell'operar della na tura, o che tenda a soddisfare in qualun que modo la curiosità dell'uomo; debbe avere due requisiti, senza i quali non può l meritare una tal denominazione, 1.” che il fine sia vero, o utile, 2.º che a con seguirlo sieno adattati i mezzi più semplici e più brevi. Cotesti requisiti ci vengono suggeriti dall'esempio della natura, che è stata a noi prima maestra delle arti. Cicerone, i cui concetti son sempre lumi nosi, espose in brevi detti l'origine delle arti tutte: notatio naturae, et animad versio peperit artem. V. Connessione, Fine, Mezzo, Ordine. Nella partizione dediversi rami del sa pere umano debbonsi distinguere le arti dalle scienze. Arte è propriamente il me todo di operare con ragione; e scienza, è la serie ordinata de principi e delle ve rità necessarie alla perfetta cognizione del suo obbietto. Ma v'ha un punto, nel quale le scienze e le arti toccansi insieme, che è appunto la cognizione del principi, dai quali dipendono le regole della pratica; nè altro è quell'operar con ragione, che forma il principal requisito d'ogni arte. Distinguiamo per conseguente nelle arti la parte speculativa dalla pratica, e diciamo e converso che in ogni scienza trovasi l'arte, o sia l'ordine, col quale procediamo allo scoprimento o alla dimostrazione della ve rità, che è il metodo. Il metodo dunque è pure un'arte. V. Metodo, Seienza. Sebbene l'imitazione e l'abito dieno all'uomo l'attitudine d'imparare molte arti senza il soccorso della scienza; purtutta volta cotesto modo sperimentale dista tan to dallo scientifico, quanto il senso dalla ragione, o il particolare dal generale. Il pratico artigiano conosce le relazioni im mediate de fatti, ma non generalizza, nè scopre i principi, i quali rendono ragione del processo delle sue operazioni; crede anzi aprire gli occhi ad una nuova luce, allorchè intende per la prima volta spie gare le verità teoriche, delle quali quelle son figlie. Cotesta differenza è la sola che giustificar potrebbe la distinzione ricevuta dalle arti in liberali, e meccaniche.V. Abi fo, Imitazione. La cennata distinzione fu comunemente derivata da diversi oggetti, che le arti si pre figgono. Di esse talune esigono più la coo perazione dell'intelletto, che della mano, e più l'uso delle facoltà dell'animo, che della forza corporale; il perchè quelle fu ron dette liberali, e queste meccaniche. Ma una tal denominazione rende servili molte arti prestantissime, e nasconde quel la parte di scienza, che le anima ed in forma. Certamente maggior onore è dovuto alle opere dell'ingegno, che a quelle della mano; ma se l'ingegno e la mano con corrono insieme all'invenzione o alla per fezione d'una macchina degna d'essere ris guardata, come l'ultimo sforzo dell'umana sagacità, crederemo però contaminata la dignità dell'inventore, per aver fatto un sì nobile uso dell'istrumento col quale mi sura egli ed imita le forze stesse della na tura? Adunque più esattamente parlando, chiameremo liberali le arti tutte, quando sono animate e dirette dalla scienza ; e siccome l'utilità vera risulta da fatti, piuc chè dalla nuda speculazione; così daremo il primo onore agli artisti, i quali con giungono l'opera dell'intelletto a quella della mano. V. Invenzione. La mano dell'uomo è lo strumento della natura, che in se contiene i tipi di tutti gl'istrumenti artifiziali, e gli elementi di tutte le forze, che per lei si comunicano alle macchine le più complicate. Forte, agile, pieghevole, attaccata per mezzo de mu scoli ad una leva, qual è il braccio, ella divide, scompone, ricompone, combina la materia, avvicina ed allontana i corpi 5 - 54 - tra loro, e si crea gl'istrumenti, come altrettanti muscoli accessori, per muovere le grandi masse, nel che toglie ella a pre slito una parte delle forze stesse della na tura: Quam vero aptas, dice Cicerone, quamque multarum artium ministras ma nus natura homini dedit/ Ma la sola at titudine della mano e del braccio, non basterebbe ad operare tanto maravigliosi effetti senza la sagacità, o sia senza le attitudini della mente, per mezzo delle quali, al dir dello stesso Cicerone, adin venta animo, percepta sensibus, adi bitis opificum manibus, omnia nos con secutos. Di qua la necessità della scienza e delle osservazioni sopra le opere della natura, della geometria delle arti, e del la meccanica. V. Macchina, Mano. Più plausibile è la partizione e la sud divisione delle arti per rispetto alla diversa qualità dell'obbietto, che ciascuna di esse si propone. In questa partizione prendono il primo luogo le arti, che prefiggonsi d'imitare il bello della natura, e però son dette belle o imitative. Tali sono la pit tura, la scultura, insieme colle accesso rie, dette arti del disegno. A queste va congiunta pure l'architettura, comechè abbracci un obbietto composto di diverse spezie di bello (V. il disc. prelim.). V. Bel lo, Imitazione. - Quanto alle altre arti, elle sono sì nu merose e sì varie, che difficile sarebbe il farne una categorica partizione. Ritor nando al principio, che le scienze dan vita e pregio alle arti, seguiamo la gene rica divisione oggi ricevuta di arti agra rie, meccaniche, e chimiche. Le agrarie son quelle, che si prefiggono di secondare le forze naturali della vegetazione e della riproduzione de vegetabili e degli animali. Le meccaniche son quelle altre che met tono in opera le diverse spezie del moto prodotto dall'azione delle macchine. Le chimiche o fisiche, quelle che si servono delle forze degli agenti naturali, come il calore, la luce, l'elettricità, il magne tismo ec. Per quanto imperfetta sia una tale partizione, ella è la sola che possa dirsi coerente al principio, che annoda le arti alle scienze (V. il disc. prelim.). V. Chimica, Fisica, Meecanica. Innalzando le arti a quel grado di di gnità, che loro dà l'intelligenza direttrice dell'opera, non però debbon queste essere confuse co mestieri, che son figli dell'abito materiale, e della nuda imitazione. V. Mestiere. Le arti hanno, come le scienze, un linguaggio proprio, che dicesi tecnico, e distinguesi dal comune e dallo scientifico per due caratteri, i quali nascono dal la qualità delle idee, che esprimer debbe. I suoi vocaboli son tutti arbitrari e con venzionali, e variano spesso da lingua a lingua: essi non sono capaci che di sem plici definizioni nominali, dapoichè non esprimono se non qualità relative ed ac cidentali. Cotesto vocabolario è più nume roso dello scientifico, perchè le combina zioni e gli accidenti de fatti sono maggiori e più svariati delle idee astratte e demodi loro. Comechè sia più sterile per l'intel letto e più penoso per la memoria, non è però meno necessario al progresso delle arti. E siccome l'industria de diversi po poli non è costante, nè la stessa tra tut ti; così nulla può tanto giovare alla con servazione, alla propagazione e alla per fezione delle arti utili, quanto un dizio nario comparato del vocaboli delle arti e de mestieri delle diverse lingue, sì anti che che moderne. Adempiano cotesto voto coloro, che coltivano una sì importante - 55 - parte dell'umano sapere! V. Dizionario, Linguaggio, Mestiere. ARTErice (erit.), chi professa le arti puramente manuali, o sieno i mestieri. V. Arte, Mestiere. ARTERIA (spee.), vaso membranoso ed elastico, che riceve il sangue dal cuore e lo distribuisce per le diverse parti del corpo, onde dar loro il nutrimento, il calore, e la vita. V. Cuore, Sangue. Cotesta definizione è di quelle, che ap partengono alla notomia generale; ma lin dustrioso lavorio della natura, che si tro va nascoso nel sistema arterioso e venoso, appartiene eminentemente alla contempla zione del filosofo speculativo. Le arterie e le vene, mentrechè por tano e riportano il sangue per nutrire le altre parti del corpo, son esse stesse piene d'altre piccole arterie e vene, destinate a nutrire le loro proprie membrane; e que ste alla volta loro hanno altri simili va sellini, i quali giungono insino ad un infimo e quasi impercettibile grado di vo lume. Le arterie ricevono il sangue dal cuore, e le vene ve 'l riportano; il per chè all'apertura delle arterie, e alla im boccatura delle vene dalla parte del cuo re, v ha delle valvule le quali apronsi per un sol verso; e secondo la direzione alla quale son collocate aprono il passag gio al sangue, e ne impediscono il ritor no. Le valvule delle arterie son disposte in modo, che ricevono il sangue all'uscire dal cuore; e quelle delle vene in modo che debbono restituirlo al cuore, senza poterlo da esso direttamente ricevere. V'ha inoltre lungo il corso delle vene, e di tratto in tratto, di altre valvule, le quali non permettono al sangue, una volta che passato, di tornare indietro; per modo che esso è costretto dal nuovo sangue, che sopravviene di correre incessantemente e di compiere il suo corso per tutte le parti del corpo. A tale rapida circolazione con tribuisce il continuo battimento delle stes se arterie, il quale corrisponde ad un si mile movimento del cuore, e da cui na scono le battute de polsi. Le arterie tutte del corpo escono in due larghi tronchi da due grandi cavità, det te dagli anatomici destro e sinistro ven tricolo del cuore: dal destro nasce l'ar teria pulmonare, destinata a trasportare il sangue nel polmoni : dal sinistro, la grande arteria, detta aorta, la quale suddividesi in due principali tronchi, det ti, l'uno ascendente, e discendente l'al tro: quello destinato a tramandare il san gue al capo e alle parti superiori del cor po: questo, alle parti inferiori. Il cuore stesso è nutrito da una particolare arteria, la quale non ha veruna immediata comu nicazione coll'aorta, ma riceve il sangue dal sinistro ventricolo, e lo restituisce nel destro per mezzo d'una particolar vena, che non ha altra immediata comunicazione col cuore. Il tessuto delle arterie e delle vene, la ramificazione loro, e tutta la tela de nervi, che dal cervello si diffonde in sino alle ultime estremità del corpo, sono la parte più maravigliosa di tutte le opere dell'Autor della natura; perchè danno del la sua sapienza nel picciolo, una dimo strazione tanto luminosa quanto è quella, che ha Egli dimostrato nella struttura e nelle proporzioni di tutte le grandi masse del cielo. V. Cuore, Vena. ARTIcolo (disc.), particella declinabile aggiunta a nomi comuni e appellativi, per determinare il significato loro, così nel a singolare, come nel plurale. I Greci eb bero gli articoli per ciascuno de'tre gene ri. I Latini non lo conobbero affatto. Le lingue moderne lo hanno, e di esse ta lune lo distinguono in due spezie, il de finito, cioè e l'indefinito. Per l'indefinito adoperano il nome numerale uno. Gl'italiani non contano per articoli, se non il , lo, li, la , le , ed all'indefinito uno danno la qualità di accompagnanome, il che forma una differenza di termini più che di cose. Le regole del come usarlo ap partengono alla gramatica particolare. ARTIGIANo (crit.), chi trae la giornata dall'esercizio delle arti manuali. ARTISTA (crit.), chi professa le arti belle, o le arti meccaniche e chimiche. V. Arte. AsPETTo. V. Faceia, Viso, Volto. AssEGNABILE (spec.), la parte della ma teria, o quantità, che si può dalla mente concepire tra dati limiti. E però diciamo la parte dello spazio asse gnabile, quella cioè che concepiamo come finita, o relativa ad una data estensione. È diverso dal determinato, che è quel che riceve una certa dimostrazione. V. De ierminato. - AssENso. V. Assentimento. AssENTIMENTo (spee.), giudizio che la mente pronunzia intorno ad ogni proposi zione, che ammette come vera. V. Giu dizio, Proposizione. Gli scolastici prendevansi il fastidio di esaminare, se unico o doppio fosse il no stro giudizio, allorchè assentiamo alle pro posizioni congiunte, come le condizionali, le copulative, le disgiuntive, le causali, l'esclusive; e notavano essere unico l'atto della mente, perchè le relazioni tra le proposizioni son tali, che ammessa l'una dee necessariamente essere ammessa o e sclusa l'altra. Così, come unico propone vano l'assentimento, che diamo alle pro posizioni, se il sole risplende, è gior mo, se è giorno, non è notte, Tizio stu dia, o non istudia ec.; quistioni inutili, e forse ancora mal risolute, perchè cia scuna di tali enunciazioni contiene altre proposizioni sottintese, le quali se si spie gassero formerebbero un argomento o sil logismo, di cui ciascuna premessa è ca pace di essere affermata o negata con se. parato giudizio. E però la celerità, colla quale la mente passa da un giudizio all'al tro non dimostra l'unità dell'atto, ma pro va un'altra virtù dell'intelletto, che è quel la di correre innanzi alle conseguenze, al lorchè chiaramente concepisce le relazioni tra le premesse. Da ciò nasceva l'altra di stinzione, che pur facevano gli scolastici, tra l'assentimento esplicito e l'implicito, e tra l'attuale e l'abituale, che sono lo stesso: attuale è il giudizio singolare e presente, che pronunziamo intorno ad una proposizione: abituale è quell'altro, che la mente concepisce e non ripete perchè na sce da atti reiterati e noti. È manifesto, per quel che abbiamo testè detto, che nelle proposizioni congiunte il giudizio attuale racchiude in se l'abituale. Dell'assentimento abituale è propria l'adesione. V. Adesione. L'assentimento in fine può avere diversi gradi o misure, le quali formano la gra dazione tra la certezza e la probabilità. V. Certezza , Probabilità. AssICURANZA (dise. e prat.), stato della mente, allorchè si riposa sopra la certezza – 57 – d'una idea o nozione chiaramente e di stintamente percepita. V. Idea, Mozione. AssoMA (spec.), proposizione generale evidente, per intuizione, o per dimostra zione. V. Intuizione, Dimostrazione. Tal è il significato, comunemente rice vuto, del vocabolo assioma, che noi cre diamo non esatto, perchè abbraccia due generi di verità tra loro diverse. Se si volesse chiamare assioma ogni principio, o prima verità, sarebbe que sto vocabolo superfluo, dapoichè esprime rebbe una nozione, la quale ha un altro termine proprio e più caratteristico. Gli assiomi ci vengono dalle scienze, e spe zialmente dalle dimostrazioni geometriche, ad esempio delle quali sono stati nelle al tre scienze introdotti. In questo senso altro non sono, che generalità ricavate da verità particolari, precedentemente dimostrate. Locke fu l'antesignano di coloro, che han voluto proscrivere gli assiomi come inutili, e dannosi a progressi della umana cognizione. La sua opinione è una con seguenza della dottrina, che riconosce le verità particolari acquistate pesensi, come l'unica sorgente di tutte le nostre idee. I suoi principali argomenti son due: 1.º co teste verità non nascono con noi, nè sono le prime ad entrare nella mente, dapoichè ogni proposizione generale è il prodotto delle idee particolari, le quali sono certa mente ad ogni altra anteriori: 2.º le mas sime, dette assiomi non sono, nè esser possono i principi o le fondamenta dell'u- mana cognizione, dapoichè ve n'ha delle altre, di esse più chiare, e molto prima conosciute: molti infatti e forse tutti cono scono che uno e due sono eguali a tre, prima che sappiano, essere il tutto eguale alle parti sue insieme prese, che anzi l'idea del tutto e della parte sono più oscure di quelle dell'uno, del due e del tre. Da ciò segue secondo Locke, che se i cennati assiomi potessero essere conside rati come principi dell'umana cognizione, dovrebbero essere nella medesima classe arrollate tutte le altre proposizioni della medesima, o di maggiore evidenza ; sì che la quantità di tali principi non so lamente sarebbe innumerevole, ma an drebbe sempre crescendo in ogni periodo della vita, perchè abbraccerebbe tutte le verità di esperienza, per la sola ragione, che sono per se stesse evidenti. Da tali argomenti egli dedusse, che gli assiomi non sono utili per provare o confermare le proposizioni particolari, nè hanno servito di fondamento ad alcuna scienza, come credettero gli scolastici, e molto meno fa voriscono l'invenzione di nuove verità. Se condo lui, gli assiomi possono solamente essere ammessi nemetodi d'insegnamento per fare conoscere il segno, insino al quale le scienze sono giunte; o essere adoperati nelle dispute scolastiche per frenare l'in temperanza dei disputatori. Per contrario un'altra classe di filosofi spiritualisti avendo voluto rilevare le veri tà, che in noi nascono per l'intimo senso della ragione, senza veruna dipendenza da'sensi, hanno confuso nel nome di as siomi tutte le verità per se stesse evidenti, senza distinguere, se l'evidenza loro na sca dalla naturale intuizione della ragione, ovvero dalla sperienza e dalla dimostra zione; il che facendo hanno scambiato le verità intuitive colle dedotte, e han messo gli assiomi geometrici a canto alla nozione del proprio essere pensante. Distinguiamo cotesti due generi di verità, e diamo a ciascuno un nome, che lo faccia discer nere dall'altro. - – 58 – V'ha una serie di verità, che la luce della ragione ci rivela, e che noi sco priamo coll'uso stesso delle proprie facol ià. Coteste verità formano la prima guida del nostro giudizio per discernere il vero o il falso di qualunque proposizione, e sono per loro stesse evidenti, non perchè nascano da generalità, o da astrazioni di altre particolari proposizioni, ma perchè la certezza e l'evidenza loro ci viene dal sen so della natura; per modo che niun uomo potrebbe diversamente concepirle. Son que ste, quelle prime verità, o verità imme diate, che diciamo essere in noi origina rie e connaturali alla ragione, e risguar diamo come uno de principi dell'umana cognizione. - - D'altra parte v'ha un secondo genere di verità, che noi acquistiamo per dedu zione, o sia per ragionamento, le quali divengono tanto certe o evidenti quanto le prime, ma che senza di quelle non avremmo mai acquistato. Di tal natura sono gli assiomi geometrici, e tutte le verità che chiamiamo necessarie, per le quali il ragionamento e la dimostrazione ci dicono, che esse non possono essere diverse da quelle che noi concepiamo. Le une differiscono dalle altre tanto, quanto l'intuizione differisce dalla dimostrazione. Prendiamo dunque da questi due voca boli una denominazione caratteristica, che distingua l'origine loro; e chiamiamo ve rità intuitive quelle che nascono dall'in timo senso della ragione, e assiomi le verità scientifiche, che sono evidenti per dimostrazione. V. Principi, Verità. AssoCIAZIONE (spec.), operazione del l'animo, per la quale un pensiero richia ma l'altro che a quello si lega, per vera o apparente relazione tra loro.V. Relazione. Molte idee si seguono e associansi co stantemente tra loro per modo, che l'una richiama l'altra, o che si trovi tra esse una naturale connessione di relazioni, o che sien queste suggerite da estrinseci ac cidenti. Il senso proprio dice ad ognuno, che l'associazione può nascere, o dalla ra gione, o dalla immaginazione, o ancora dall'abito. Quella che vien dalla ragione, è sorgente feconda di ragionamento e d'in venzione; e però la facilità e la pron tezza di scoprire un maggior numero di relazioni tra le idee presenti al pensiero, è qualità propria di acuto e profondo in gegno. L'associazione poi che suggerisce l'immaginazione, abbraccia più le rela zioni estrinseche ed apparenti, che le rea li, e per tal motivo è l'anima della poe sia, e delle arti imitative. Quella infine, che nasce dall'abito può esser vera nel solo caso che sia fondata nella sperienza, e non negli accidenti, o nelle illusioni del sensi. Invece di considerare l'associazione delle idee in questo triplice aspetto, Locke ris guardolla come un falso abito della men te, che ingenera pregiudizi ed errori, i quali poi producono strane e bizzarre com binazioni di pensieri. Laonde andò a cer care nell'associazione delle idee la causa delle animosità delle sette così di filosofia, come di religione. Più giustamente la moderna filosofia con sidera l'associazione delle idee come una delle operazioni della mente, che spande maggior lume sopra gl'interni fatti del pensiero, e come la più feconda sorgente della invenzione scientifica. Non è man cato tra moderni chi l'abbia considerata, non come una semplice operazione dello spirito, ma come una delle principali po tenze dell'anima. Cotesta distinzione non accresce la facilità dell'analisi degli atti del – 59 – pensiero; e d'altra parte aumenta senza necessità il numero delle facoltà, e indur potrebbe in errore chi non formasse un chiaro concetto di quel che noi chiamiamo facoltà. V. Facoltà. - Altri han preteso determinare i casi, nei quali avviene l'associazione delle idee, riducendo a date categorie le relazioni, che quelle aver possono tra loro. Ma la sperienza ha dimostrato quanto imperfette sieno tali sorte di partizioni, per le quali vorrebbesi antivedere e circoscrivere tutte le possibili combinazioni del pensiero. Ciò non ostante, se si volesse tra molte sce gliere una partizione generica, la meno in compiuta sembra esser quella proposta da Dugald Stewart, cioè di associazione spon tanea, o di attenzione. Nella spontanea entrano le relazioni di somiglianza, di analogia, di contrarietà, di contiguità di tempo e di luogo, ed anche di acci dentale somiglianza di vocaboli, in quel la prodotta dall'attenzione entrano le re lazioni di causa e di effetto, di mezzi e di fine, di premesse e di conseguenze. V. queste voci. AssoLUTo (ontol), quel che non dipende da altra cosa, nè è limitato da alcuna con dizione, o modo. - È una nozione astratta ontologica, la quale trova il suo archetipo nella Divini tà. Dio è l'ente assoluto, perchè indipen dente da ogni altro Essere, onnipotente, infinitamente sapiente, e scevro da qua lunque legame di causa a se estrinseca, e da ogni restrizione. V. Dio. La definizione dell'assoluto è puramente nominale, perchè non fa altro che spie gare il vocabolo latino, che vuol dire sciol to, o libero da altro legame; e però è stato lo stesso vocabolo adoperato per esprimere tutto quel che conviene ad un subbietto, senza veruna limitazione. Per la stessa ragione gli scolastici distin sero quattro spezie dell'assoluto: 1.º quel lo detto a termino, che conviene ad ogni Essere considerato come perfetto nel suo genere, e da altro genere non dipendente: 2.º quello detto a restrictione, che aveva per suo contrapposto il secundum quid ; come quando dicevasi l'anima è immor tale, e l'uomo è immortale e la prima proposizione era vera assolutamente, e la seconda secundum quid 3.º quello detto a conditione, come quando la necessità assoluta vien contrapposta alla condizio nale: 4.º quello delto a causa, cioè che ha causa da se stesso, e non da altri, nel quale senso cotesta spezie di assoluto non può convenire che al solo Dio. Siccome i requisiti dell'assoluto trovansi tutti nel semplice, così queste due no zioni si scambiano l'una per l'altra. Il semplice è un'altra mozione ontologica, che la mente concepisce per astrazione, e fuori della natura sensibile. V. Semplice. La nozione dell'assoluto applicata alle cose sensibili e alle idee finite, riceve un più ampio significato, e diviene capace del più o del meno; come quando dicesi che un attributo conviene assolutamente ad un subbietto, o più ad uno, che ad un altro. In questo senso l'assoluto ha per suo contrapposto il relativo. V. Relativo Di niun altro vocabolo, più che di que sto, hanno abusato i moderni filosofi tra scendentali. Kant prese l'assoluto nel senso degli scolastici, come quello che è scevro d'ogni condizione, ma ne fece un attri buto dell'anima umana, considerata que sta, come una delle tre unità, alle quali pare che ridur volesse la natura di tutte le cose, cioè l'anima, il mondo, e Dio, – 40 – Come poi trovar potesse l'unità nel mon do, nel quale egli ravvisa l'unità assoluta della serie di tutte le condizioni delle intuizioni, ne lasciamo l'investigazione agli amatori di quella dottrina. V'ha non pertanto ad osservare, che delle tre cen nate unità, egli non ammise se non una conoscenza subbiettiva, vale a dire, non evidente, non dimostrabile, e per conse guente incerta. Il suo discepolo Fichte, mutando inte ramente la dottrina del maestro, trovò l'assoluto nell'unico principio generatore di tutte le cose, che è l'io. Come l'io pro ducesse il non io, che è la materia, e se cotesto io debba essere considerato come una sostanza unica, universale, nella qua le si confondono tutti gli spiriti e le in telligenze create, riserviamolo ancora a quelli, che avessero vaghezza di appro fondare il senso di quell'oscuro e fanta stico sistema. V. Io. Altri finalmente calcando le orme, ora dell'uno, e or dell'altro del due nominati fondatori dell'odierno idealismo, riposero l'assoluto nell'io, e ne fecero pure un at tributo della ragione, la quale per altro non può pervenire a tale stato, se non quando abbia imparato a dimostrare, che il non io è identico dell'io, perchè pro dotto dall' io. Se questa è l'idea dell'assoluto, uopo è dire, che in niun'altra ragione risiede tanto chiara, quanto nella mente di quei matti, i quali sono impazzati per eccesso di filosofia. - Assu EFAzioNE (prat.), tolleranza solita, per la quale ci accostumiamo a sostenere l'incomodo e il dolore. E diversa dall'abito, il quale presup pone l'azione, mentrechè l'assuefazione esprime piuttosto la passione. Nella nostra favella è diversa ancora dalla consuetudi ne, la quale abbraccia l'idea del solito, comune all'attivo e al passivo. Per l'op posito nella lingua latina il vocabolo con suetudo, perchè capace dell'un senso e dell'altro esprime esattamente il concetto dell'assuefazione; ond'è che Seneca disse: nullo melius nomine de nobis natura me ruit quam quod cum sciret, quibus ae rumnis masceremur, calamitatum molli mentum consuetudinem invenit, cito in familiaritatem gravissima abducens (de tranquil. an.). AssuNZIONE (disc.), abbreviazione d'un sillogismo, quando si pone la seconda pro posizione, o sia la minore, in luogo del la prima, sottintendendo questa. V. Sil logismo. AssURDo (disc.), sorta di errore, il quale mena ad una conseguenza univer sale, che impugna una comune verità. V. Errore. AsTRARRE (spec.), separare mentalmente le idee congiunte o connesse, e considerare l'una divisamente dall'altra. Si astrae quando si esamina uno degli attributi d'un subbietto, senza considerare gli altri a quali è unito ; quando si se para l'attributo dal subbietto medesimo; quando si concepisce l'attributo senza il subbietto, al quale è inerente; quando si concepisce il subbietto, come scevro da ogni attributo; e quando l'attributo si tra sforma in subbietto. Esempio del primo modo di astrarre è il considerare la lun ghezza, separatamente dalle altre dimen sioni del corpo; del secondo, quando esa miniamo il calore, senza risguardo acorpi, - 41 - ne'quali è riposto; del terzo, quando par liamo dell'ente in generale; del quarto, quando parliamo dell'umanità senza del l'uomo. V. Attributo, Qualità, Subbietto. La facoltà di astrarre è una condizione necessaria dell'ente finito, perchè non po tendo la mente abbracciare ad un tratto tutte le qualità d'un subbietto, uopo è , che le sceveri per acquistare di ciascuna una idea chiara e distinta. Così, formando tante idee particolari, quante sono le qua lità sue, può dalle stesse comporre l'idea complessa del subbietto, che le racchiude. V. Idea. AsTRATTo (spee. e dise.), quel che il pensiero concepisce come separato da una cosa, cui è congiunto. Gli scolastici distinsero l'astratto reale dall'intellettuale o metafisico, dal logi co, e dal fisico o sostanziale. V. Astra zione. Scienze astratte diconsi quelle, le quali versano circa le qualità desubbietti consi derate di per se stesse. Coteste scienze son di doppia natura, e si distinguono in me tafisiche e matematiche. Le prime abbrac ciano i subbietti e le qualità, considerate come obbietti del pensiero. Le seconde trat tano della quantità considerata per se stes sa, e senza riguardo ad alcun corpo par ticolare, come la geometria e l'aritmetica. Hanno esse per loro contrapposto le ma tematiche miste, e le scienze fisico-mate matiche, che applicano le verità astratte alle cose sensibili, come la meccanica e l'astronomia. V. Matematica, Metafisica. AsTRAZIONE ( spec. e disc. ), l'opera zione della mente, per la quale sepa riamo le cose naturalmente congiunte, e formiamo di ciascuna un concetto distinto dalle altre. L'astrazione è il mezzo, per lo quale passiamo dalle conoscenze parti colari alle generali, e formiamo le no zioni del genere e della spezie. V. Gene re, Spezie. Per essa, generalizzando, formiamo il pensiero, nel che l'astrazione si vale del soccorso de nomi, e adopera il linguag gio come instrumento dello stesso pensie ro., V. Linguaggio, Pensiero. - E il fondamento delle scienze metafisi che, e delle matematiche pure, delle quali crea i subbietti; è l'instrumento principale del ragionamento; serve alla immagina zione, del pari che alla ragione; sommi nistra le immagini alla poesia, e alle arti imitative. Se l'astrazione debba essere considerata come una operazione dell' intelletto, o come una facoltà dell'anima; è questa una quistione di nomi, che dipende dal significato, che meglio conviene al voca bolo facoltà. V. Facoltà. Gli scolastici distinsero l'astrazione in reale e razionale, avendo chiamato reale quella, che separa le cose non solamente col pensiero ma ancora col fatto, la quale sorta di astrazione appartiene propriamente alla notomia. E quanto alla razionale, piacque a taluni suddividerla in obbiettiva e formale, colla quale suddivisione in tesero distinguere l'obbietto dell'astrazione dalla operazione della mente che astrae. Ma questa ed altre simili distinzioni ripu gnano al sano criterio filosofico, perchè contengono prette differenze nominali, le quali mentre sminuzzano il concetto della mente servono a confonderlo, e non a rischiararlo. Di tutte le partizioni fatte dalle antiche scuole la sola utile sembra quella, che di stingue l'astrazione fisica dalla matema 6 tica, dalla metafisica, e dalla logica. La fisica astrae la materia in generale e con sidera il corpo qual è in natura, e non qual si trova negl'individui; la matematica astrae la quantità, senza avere rispetto alla materia, cui è inerente; e la metafisica, i concetti propri del pensiero, come l'ente, la sostanza, l'esistenza, la possibilità, ed altri. Diversa dalle cennate spezie di astrazioni è la logica, la quale separa nesuoi vocaboli le proprietà comuni a più individui, e ne forma i suoi universali. V. Logica, Universale. Locke risguardò l'astrazione, come la qualità caratteristica dell'umano intelletto, per rispetto a bruti, che son capaci soltanto d'idee particolari. Certamente è questo un carattere distintivo della ragion dell'uomo, ma non è il solo, siccome egli credette. Del resto la facoltà di astrarre è una del le più grandi prerogative della mente per chiunque convenga della verità e della cer tezza delle nozioni universali, il che non può con asseveranza affermarsi della dot trina di Locke. AsTRoLoGIA (erit.), qual oggi è intesa, è l'arte di predire i futuri avvenimenti dalle posizioni, dagli aspetti, e dalle influenze diverse decorpi celesti, La predizione decangiamenti dell'atmo sfera, delle meteore, delle inondazioni, fondata sulla contemplazione delle stelle fu il primo scopo di quest'arte; e come chè congetturali fossero i suoi pronostici, erano non pertanto fondati nella sperienza del fenomeni della natura, e però naturale era ella denominata. Ma quando vollesi estendere i pronostici e le influenze degli astri a fatti umani, e all'astrologia natu rale si aggiunse la giudiziale, cotesta arte tutta intera divenne una sorgente di pre stigi e di superstiziose fantasime, le quali corruppero ancora la filosofia, perchè ri vocarono in dubbio la libertà delle azioni. Allora ne fu condannato persino il nome, e l'astrologia ebbe una sorte comune all'al chimia. AstRoNoMIA (crit.), la scienza degli astri, e del movimenti loro. - È annoverata tra le scienze fisico ma tematiche, perchè da una parte giovasi nelle sue ricerche della geometria e della mec canica, e partecipa dell'esattezza di queste due scienze; e dall'altra le sue speculazioni son fondate, come nelle altre scienze na turali, sopra i fatti e le ipotesi; le quali sebbene acquistino, per la concorrenza dei fenomeni e per un profondo studio di essi, la maggiore verisimiglianza possibile, pur tutta volta non sono capaci di dirette di mostrazioni. Colla osservazione e col caleolo l'astro nomia determina le posizioni, le orbite, le distanze, le grandezze del pianeti, e le periodiche loro apparizioni; e spinge le misure ed induzioni sue insino all'indagar la più probabile distanza delle stelle fisse, delle quali cerca di spiegare i piccioli mo» vimenti, sceverandoli dalle apparenze. ATEISMo (leol), opinione di quelli, che negano l'esistenza di Dio, creatore e con servatore dell'universo. V. Dio, Universo. Per onore della umanità deesi dire, che non è stato popolo, per quanto barbaro e feroce fosse, che non abbia avuto la sua Divinità, comechè abbia ignorato qual es. ser dovesse. E d'altra parte, per vilipen dio della falsa filosofia, dobbiam confes sare, non essere mancato chi rivolgesse tutto l'acume della ragione a negare l'esi stenza d'una causa intelligente di tutte le – 45 – cose. Molti scrittori han creduto dover tra mandare alla posterità i nomi de più insi gni atei speculativi, quasi per proporgli come obbietti della publica esecrazione. Ma cotesta condanna, la più spaventevole di quante possano essere pronunziate con tra la memoria d'un uomo, dovrebb'es sere fondata sopra innegabili testimonian ze, il che non sempre è avvenuto. Im perocchè per invidia o per giudizio for mato sopra ambigui delti, o sopra leg giere e false testimonianze, l'enciclopedia francese divulgò come atei molti celebri uomini, comechè per parecchi di costoro una tale accusa fosse stata tra dotti rico nosciuta come calunniosa. Se convien desiderare, che una simile empietà non fosse mai penetrata nella men te e nel cuore di qualunque uomo; me glio sarebbe il nascondere i nomi de fau tori di quella perniciosa opinione; e molto più converrebbe, non esser facile allo ac cusare, e piuttosto esser benigno nell'in terpretare in un senso favorevole e non odioso, tutto quel che a prima vista può sembrar dubbio, o ambiguo. E quando l'empietà dedetti fosse manifesta, sarebbe forse util cosa non onorare della confuta zione gli argomenti degli atei; dapoichè abbastanza rispondono loro la natura, l'or dine dell'universo, la coscienza, e il sen so generale della umanità. Quid enim est verius quam neminem esse oportere tam stulte arrogantem, ut in se rationem et mentem putet inesse, in coelo mundoque non putet? Quem vero astrorum ordines, quem dierum noctiumque vicissitudines, quem mensium temperatio, quemque et quae gignuntur nobis ad fruendum, non gratum esse cogant, hunc hominem om nino numerare qui decet? In somma, sic come gli aborti e i mostri non formano spezie, ma restano nel numero degl'indi vidui; così una opinion singolare, la qua le ripugna alla natura della umanità, non de'essere annoverata tra i possibili conce pimenti della umana ragione. Giova non pertanto osservare, che due son le vie, per le quali si trascorse nel l'ateismo; pratica l'una e speculativa l'al tra. La pratica ha i suoi inizi nella sre golatezza de'costumi, e il suo incremento nell'abito della depravazione. Ma di cote sti atei avviene quel che Platone narra di tutti gli uomini accostumati a conculcare le voci e i rimorsi della coscienza. Sull'in chinare del viver loro cominciano a suspi car, che forse vero non sia quel, che era sta to loro detto depremi e delle pene d'un'al tra vita; sì che finir sogliono col rendere omaggio alla verità, che avevano sprezzato. La speculativa poi è propria del così detto filosofismo, o sia di coloro che hanno una falsa tinta di filosofia; dapoichè non si tro va tra i luminari della ragione umana chi non sia stato più profondamente degli al tri penetrato dagli argomenti dell'ordine e della provvidenza, che regge l'universo. V. Filosofismo. ATEISTA (teol.), chi professa l'ateismo speculativo. V. Ateismo. ATEo (teol.), l'uomo privo della cogni zione di Dio. - È vocabolo adoperato dal Segneri e dal Salvini. ATMosfenA (spec.), la massa d'aria che circonda da ogni parte la terra. V. Aria. L'atmosfera non è composta di pura aria, dapoichè questo fluido vi si trova combi nato colle evaporazioni volatili della terra, e delle acque, delle quali rade la superfi si – 44 – cie. Da tali evaporazioni prendono origine molti fenomeni conosciuti col nome di me teore. V. Meteora. I Fisici non han potuto con certezza de terminare l'estensione dell'atmosfera. La sperienza dimostra, che l'aria va dive nendo meno densa in proporzione della sua altezza, ma non potendo l'osserva zione desensi pervenire a determinare l'ul timo grado di tenuità delle molecule del l'aria atmosferica, la scienza si limita a calcolare approssimativamente i gradi del la sua densità a considerabili altezze. Il fenomeno del crepuscolo, che avviene per la riflessione della luce del sole verso la terra, operata dagli alti strati dell'atmosfera; ha dato l'opportunità di misurare, se non l'altezza totale dell'atmosfera stessa, quella almeno degli ultimi suoi strati, capaci per la densità loro, della riflessione della luce. Una tale altezza è stata trovata di quaranta miglia all'incirca. È verisimile per l'esperienze de fisici, fondate pure sopra i fenomeni della rifles sione della luce, che il sole e i pianeti abbiano ciascuno il proprio atmosfera, di cui suole determinarsi anche approssimati vamente l'estensione; il che propriamente appartiene all'astronomia fisica. AToMo (ontol.), minutissimo corpo, che per la sua picciolezza non può essere di viso, nè sentito. V. Corpuscolo. Fu celebre tra Greci la scuola di Demo crito e di Leucippo per la dottrina degli atomi, comechè di essa si avessero più antiche vestigie presso i Pitagorici. Le opi nioni di costoro riferite da posteriori scrit tori fan credere che le unità di Pitagora fossero la stessa cosa degli atomi. V. Unità. Gli atomi furon creduti gli elementi o sieno le parti primitive di tutti i corpi na turali. La sposizione di questa dottrina si ha tutta intera in Lucrezio. L'antica dottrina degli atomi, nella quale si distinse pure Epicuro, ammetteva la ma teria come eterna e come nuovo il mon do, che dicevasi composto dal concorso degli atomi, i quali scorrendo per lo va cuo, e traversandolo in ogni direzione, avevano per diverse fortuite combinazioni formato i corpi. Cotesto sistema è stato riprodotto da moderni filosofi, detti corpu scolari, i quali l'hanno associato e con ciliato colla dottrina della creazione. Ba cone stesso considerò come connaturale alla mente umana l'ipotesi degli atomi, quan do vogliasi razionalmente concepire i prin cipi della creazione. Infatti noi concepiamo i composti della natura come formati da particelle elementari, dotate di forma e di dimensioni, capaci di luogo, e fornite d'impenetrabilità di forze, e di moto. E siccome i composti son soggetti a innu merevoli dissoluzioni, ma non periscono; così crediamo che i primi componenti ri mangano immutabili, e sono, secondo l'espressione di Bacone, una spezie di cen tro, o un che di potenziale, infinitamente picciolo. Gli atomi dunque sono, secondo il concetto della ragione, le particelle ve dute dal pensiero, e non da sensi: il pen siero li distingue dalle molecule, che son le particelle sensibili, dalle quali comincia il magistero visibile della natura. Laonde i vocaboli atomo e molecula hanno nel lin guaggio filosofico un significato convenuto, il quale separa l'analisi visibile della ma teria dalla invisibile. V. Materia, Mo lecula. ATRoce, e ATRocrra (prat.), qualità d'animo, o di atto crudele, che ferisce il senso della natura, e desta abborrimento, – 45 – - È più del crudele e della crudeltà, la quale può non oltrepassare i termini del rigore e della severità. V. Crudeltà. In un senso speciale, atroce dicesi l'ingiu ria, che ferisce l'onor di ognuno.V. Ingiuria. ATTENzioNE (spec.), atto della volontà, per lo quale l'intelletto è richiamato a con siderare un qualche obbietto del pensiero. V. Volontà. L'attenzione è necessaria per l'osserva zione così degli obbietti esterni, come del le interne operazioni dell'anima. Piacque a Reid chiamare attenzione la sola avvertenza agli obbietti della percezio ne, per distinguerla da quella, che pre stiamo alle interne operazioni dell'anima, da lui chiamata riflessione. Ma giova me glio distinguerla per una differenza più caratteristica. L'attenzione indica la scelta dell'obbietto; laddove la riflessione espri me l'azione del pensiero intorno all'obbietto scelto. Molti son capaci di attenzione, e non di riflessione. V. Riflessione. Taluni han considerato l'attenzione come una facoltà dell'anima, più che come l'esercizio d'un atto della volontà. Ma il con siderarla nell'uno o nell'altro modo dipende dal senso, che voglia darsi alla voce facol tà. Certamente l'attenzione è un principio d'azione inseparabile dalla volontà.V. Azio ne, Facoltà. ATTITUDINE (spec.), disposizione di na tura ad usare delle potenze e facoltà, delle quali gli animali e l'uomo sono stati ri spettivamente dotati. Secondo Dante, è il fondamento che na. tura pone: E se il mondo là giù ponesse mente Al fondamento, che natura pone, Seguendo lui, avria buona la gente, ATTIVITA' (spec.), la virtù dell'operare o dell'essere attivo, ridotta in abito.V. Abi to, Attivo. ATTIvo (spec.), quel che ha virtù di muovere, o di comunicare l'azione ad un altro; nel quale senso è contrapposto del passivo, o sia di quel che soffre l'impres sione e il cangiamento di stato. V. Azio ne, Cangiamento, Passivo. Principi attivi, o di azione, nella filoso fia pratica, son dette quelle naturali spinte o tendenze, per le quali l'uomo si deter mina all'azione. V. Azione, Principio. Arro (spee. e dise. ), l'esercizio del la potenza, che ogni essere intelligente ha, di agire per virtù della volontà. V. Po tenza. - In questo senso l'atto è correlativo del la potenza, che in se contiene la capa cità di operare. Gli scolastici fecero molte ed astruse par tizioni e definizioni dell'atto, che non sono più del gusto della moderna filosofia. Considerarono essi l'atto come la pre senza dell'azione per rispetto alla potenza, e per analogia chiamarono ancora alto la perfezion presente per rispetto alla nuda possibilità. E però Dio fu chiamato atto purissimo, perchè presenti sono in Lui tutte le perfezioni contenute nella sua es Senza. Per simili anologie di significati distin sero l'atto infinito dal finito; l'elicito dal l'imperato; il transitorio dal permanente, le quali distinzioni contengono una sorta di categorie, relative alla diversa indole delle azioni, ma affatto inutili al concetto e alla definizione del vocabolo. Atto chiamano i logici ogni operazione dell'intelletto. V. Intelletto. – 46 – ATTRAZIONE (ontol.), forza naturale, per la quale i corpi tendono gli uni verso de gli altri. Cotesta forza opera, o a sensibili distan ze, o nel contatto delle molecule della ma teria; la qual differenza costituisce due di verse spezie di attrazione, l'una detta di gravità, l'altra chimica. - Quanto alla attrazione de corpi distanti, i fisici distinguono la celeste dalla terre stre, e chiamano attrazione celeste, o gravitazione universale la causa produt trice della tendenza, che i corpi celesti coi loro movimenti dimostrano di avere gli uni verso degli altri. Per attrazione terrestre poi intendono quella, che si esercita dalla massa della terra sopra i corpi posti sulla superficie di essa. Questa forza, detta gravità, è qualità ingenita della materia; e però le grandi masse, come le montagne, eser citano sopra i corpi un'attrazione laterale, non dissimile dalla verticale del globo ter restre, ma proporzionata alle loro masse; e gli stessi corpi attratti non son passivi soltanto, ma attraggono ancor essi in ra gione della loro massa. Newton diede il nome di attrazione alle forze, colle quali i corpi tendono reciprocamente ad unirsi tra loro, e distinse le attrazioni di gravi tà, di magnetismo, e di elettricità, le quali tutte agiscono a sensibili distanze. Ma suspicò nello stesso tempo, che potes sero darsi altre forze attrattive, le quali agissero a picciole o insensibili distanze, e spiegar potessero i fenomeni che presen tano le molecule de corpi, allorchè, sepa rate da una forza prevalente, vengono a formar composti diversi da quelli, a quali erano prima unite. Seguendo il concetto di Newton i fisici de tempi seguenti han chiamato attrazione moleculare o prossima la forza che le uni sce, e la distinguono in due spezie: la mo leculare di aggregazione, o di coesione, e la moleculare di composizione: la prima non muta la natura del composto, ma pro duce un semplice aggregato: la seconda for ma un nuovo composto, perchè unisce insie me parti tra loro eterogenee. Questa è l'at trazione che è detta pure elettiva, chimica, o affinità. V. Affinità, Chimica, Molecula. Del resto uopo è avvertire, che noi ignoriamo la causa, che produce la ten denza del corpi e delle molecule ; e che dagli effetti a noi noti per una conoscenza diretta, abbiamo formato il concetto e il nome della ignota forza che li produce. Lo stesso Newton notò di aver egli usato le voci attrazione, impulso, tendenza al centro indistintamente, senza avere inteso spiegare il modo dell'azione, o la causa efficiente di essa, quasi che si dessero po fenze proprie del centri (i quali altro non sono che punti matematici), o come se que sti avessero la virtù di attrarre; e però egli considerò le potenze centripete come attra zioni, quantunque naturalmente parlando avrebbero potuto chiamarsi impulsi. E quan do fossero state così chiamate, sarebbe sem pre rimaso il dubbio, se l'impulso nascesse da una materiale impressione, ovvero da altra cagione a noi ignota (philosoph. nat. princip. lib. I.). Le diverse forze della natura, come chè ignoti ci sieno l'esistenza loro, e il modo col quale operino, sono gli elementi da quali ricaviamo le idee della potenza, dell'azione e del moto, che sono i prin cipi animatori della materia. V. Forza, Moto, Potenza. t ATTRIBUTo (ontol. e disc.), proprietà costante dell'Essere, la quale vien determi - 47 - nata dalle sue qualità essenziali, ed è quel che caratterizza le sostanze. V. Sostanza. I Logici distinsero l'attributo in proprio e comune. Chiamaron proprio quello che risulta da tutte le qualità essenziali: co mune quell'altro, che risulta da talune di esse. Ma questa ed altre distinzioni delle scuole rimangono superflue, quando nei significati si serbino le differenze tra l'at tributo, la qualità, il modo, e l'acci dente. V. queste voci. ATTUALE (ontol. e spec.), quel che pre sentemente esiste. V. Esistere. Siccome l'esistere è l'avveramento del possibile, così l'attuale prende per la stessa ragione il significato di contrapposto del possibile. V. Possibile. ATTUALITA' (ontol e spec.), l'esistenza presente delle cose. Si adopera nel linguaggio scientifico come contrapposto della possibilità, o sia come il suo compimento; e però tanto l'attualità, quanto l'esistenza servono ad esprimere la realità delle cose contingenti, paragonata colla semplice possibilità loro. V. Esistenza, Possibilità, Realità. AUDACIA (prat.), ardimento sconvene vole alla modestia, o alla dignità morale dell'uomo. V. Ardimento, Modestia. AviDrrA' (prat.), desiderio smodato di falso bene. V. Bene, Desiderio. AUTONOMIA (prat.), grecismo superfluo, adoperato da taluni per esprimere la li bertà della volontà. V. Libertà, Volontà. AUTORITA' (spec. e prat.), presunzione di verità, per la quale assentiamo al giu dizio, o alla testimonianza altrui. V. Giu dizio, Testimonianza. È il fondamento della credibilità delle pruove. V. Pruova. È maggiore o minore, secondochè cre diamo più o men capaci di errore il giu dizio o i sensi di colui, al detto del quale deferiamo; sì che l'autorità porta seco l'as sicuranza della certezza, quando risguar diamo come impossibile l'errore. V. Errore. In un significato più generico, chia miamo autorità la testimonianza de propri sensi, o della coscienza. E siccome ris guardiamo tutte le nostre facoltà, come rette per natura, quando in esse non iscor giamo alcuna causa di errore; così ci ser viamo di questa autorità, per norma nel giudicare della veracità del sensi e delle testimonianze altrui. V. Senso. AvvENENTEzzA e - AvvENENZA (prat.), piacevolezza dimo strata comoti delle labbra e del volto. AvvENIRE. V. Futuro. AvvERBIo (disc.), parte del discorso in declinabile, che esprime un modo dell'azione, o che serve a determinarla; come il combattere valorosamente, importa com battere con valore. Gli avverbi sono stati introdotti nelle lin gue per amore della brevità, e per rispar miare due voci, che sarebbero necessarie per esprimere la stessa idea ; d' onde na sce che tutti gli avverbi possono essere ri soluti in un nome ed in una preposizione Infatti tanto è dire prudentemente, quan to con prudenza, tanto moderatamente, quanto con moderazione ec: Ed essendo il principal ufizio loro quello di modificare e delerminare l'azione del verbo; però so – 48 - no stati denominati avverbi. V. Azione, l'erbo. AvvERsIoNE (spec. e prat.), ripugnanza de sensi per tutto quel che apprendiamo come male. V. Male. È proprio desensi, ma per analogia e per necessità di linguaggio si trasporta ancora al senso morale. V. Senso. L'avversione è il contrapposto dell'amo re, e siccome questo genera l'appetito e il desiderio, così quella desta la ripugnan za, che può essere considerata come un istinto animale negativo, dato dalla na tura agli uomini e a bruti, acciocchè pos sano schivare il dolore, e tutto quel che essi apprendono come male. Il tatto, l'odorato, il palato sono spezialmente circon dati da questo riparo, mediante il quale ogni animale fugge e rifiuta il disgustevo le, e il dannoso alla economia della vita. V. Istinto. Il senso morale ha pure le sue avver sioni per tutto quel, che ripugna a prin cipi del giusto e dell'onesto, il perchè va considerato come un istinto negativo ra zionale. L'avversione razionale può nascere tanto dalla natura e dalla ragione, quanto dal l'opinione, la quale ci ritrae da tutto quel che giudichiamo difforme dal nostro modo di sentire e di ragionare; nel che può l'av versione essere qualificata come giusta o ingiusta, secondochè sia bene o mal fon data. V. Opinione. Qualunque spezie di avversione, tra sportata dalle cose sensibili o dagli ob bietti del pensiero alle persone, genera l'odio, o l'antipatia. V. Antipatia. In fine l'avversione, elevata dal grado di semplice ripugnanza alla forza di pas sione, genera la malvoglienza, e va con siderata come uno de principali generi della passioni. V. Malevolenza, Passione. AzIONE (spec. e prat.), l'esercizio, o la manifestazione della potenza. V. Po tenza. O secondo altri, il cangiamento ope rato da un ente in un altro, considerato nel momento in cui vien quello operato. V. Cangiamento. La seconda delle due proposte defini zioni è scolastica; la prima è più confor me al naturale e comune concetto dell'azione. L'idea, che cotesto vocabolo espri me è di quelle, che possono dirsi logica mente indefinibili, perchè di sua natura singolare, siccome l'è quello del potere o della potenza. Lo spiegarla, giova per ben conoscere i principi che la producono. L'azione presuppone un agente morale, dotato di potenza attiva, val quanto dire, che da noi si concepisce come un effetto, che ha la sua causa efficiente nella vo lontà dell'agente medesimo. Laonde i ter mini di azione, di agente, di causa e di effetto son tutti correlativi della nozione della potenza, o del potere. V. Causa, Effetto, Potere. E siccome prendiamo da noi la nozione del potere, che la natura ci svela come a noi stessi inerente, così chiamiamo pro priamente azione ogni fatto deliberato dal la volontà. Ma tra la potenza e l'atto è una distanza, la qual de essere empiuta da chi considerar voglia l'azione in tutti i suoi passaggi dal cominciamento insino all'esecuzione. Tra l'una e l'altro stanno quegli eccitativi naturali, i quali servono a rendere operosa la potenza. Tali eccitati vi, o stimoli che voglian dirsi, son quelli che diconsi principi attivi, o di azione. La maggiore o la minore influenza che – 49 - questi esercitano sopra la nostra delibera zione ha suggerito la partizione di tutte le azioni in tre generi: le volontarie, le involontarie, e le miste. Volontarie son quelle precedute dalla deliberazione, o sia dalla disamina demo tivi, che han determinato il giudizio. Tali sono le azioni, che traggon seco. la così detta imputabilità morale, e del merito delle quali si fa giudice la coscienza.V. Im putabilità, Motivo. Involontarie son quelle, le quali ven gono comandate dalla forza delle impul sioni naturali, o nascono da uno stato del l'anima, nel quale tace l'uso della volontà. Miste infine diconsi quelle altre, le quali sebbene per loro indole dipendano dalla nostra potenza attiva, sono non pertanto eseguite senza l'adesione della volontà. V. Deliberazione, Volontà. Ma i principi d'azione operano sopra -, di noi in ragione della diversa loro na tura, e però sono ancor essi capaci d'una generica partizione. Ve n'ha di quelli, che non ammettono alcuna intervenzione della volontà, dapoichè nascono da una legge della natura, la quale ha voluto per tal mezzo rendere attuosa la potenza. Tali principi son detti meccanici, o mac chinali, ed in questo genere si compren dono l'istinto, e l'abitudine istintiva. V. Abitudine, Istinto. Ve n'ha degli altri propri della natura animale, e però detti principi animali, come gli appetiti, il desiderio, gli afº fetti, le passioni. V. Affetto, Appetito, Desiderio, Passione. Ve n'ha in fine di quelli, che son pro pri dell'uomo, considerato come agente morale, o sia come Essere dotato di ra gione e di volontà, che piace chiamare razionali, de quali è doppio l'ufizio: l'uno d'iniziare le azioni libere e volontarie, l'altro di dirigere e purificare gl'istinti animali. Son questi i principi, che co munemente si confondono col significato del vocabolo ragione, ma che meritano di essere designati con diverso nome nel l'analisi del gradi, pe'quali passiamo dal concepire l'azione, al deliberarne la con venienza, e al risolverne l'eseguimento. Laonde chiameremo principi d'azione ra zionali, l'opinione del bene, il senti mento della obligazione morale, o del de vere, e l'interna voce della coscienza, che ne inculca l'adempimento e ne puni sce l'infrazione. V. Coscienza, Obligazio ne, Principio. – il - CLASSI DE VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA A. FILOSOFIA CRITICA, FILOSOFIA SPECULATIVA, Accademia Abito Apprensiva Accademico Appercezione Abitudine Approvazione Acustica Appetitivo Accessorio Arbitrio Aerologia Araldica Accidentale Arcano Agrario Archeografia Acroamatico o Archetipo Agricoltura Archeologia Acroatico Armonia Agronomia Architettura Acume Arteria Alchimia Aretologia Adequato Assegnabile Algebra Aritmetica Agente Assentimento Algorismo Arte Aggiunto Assioma Anaclastico Artefice Agire Associazione Anatomia Artigiano Amorfo Astrarre Androtomia Artista Analogia Astratto Annali Astrologia Anima Astrazione Antologia Astronomia Animale Atmosfera Antropologia Animalizzare Attenzione Animo Attitudine VOCI ONTOLOGICHE. Annientamento Attività Antecedente Attivo Accidente Attrazione Antipensare Atto Affinità Attributo Antiperistasi Attuale Archèo Attuale Apparente Attualità Assoluto Attualità Apparenza Autorità Atomo Appercezione Avversione Apprensione Azione Antroposcopia - 52 - FILOSOFIA DISCORsIVA. Abduzione Ablativo Accento Accessorio Accusativo Addiettivo Adesione Affermativo Affermazione Aforismo Alfabeto Alternativo Ambiguità Amplificare Analisi Analitico Analogismo Antecedente Antilogia Antipredicamenti Apagogia Apagogico Apodittico Apologetico Apologia Appellativo Applicare Argomentazione Argomento Articolo Assicuranza Assunzione Assurdo Astratto Astrazione Atto Attributo Avverbio A e a e o o TEOLOGIA NATURALE. Abnegazione Adorazione Amagogia Angelo Antropomorfismo Antropopatia Apologetico Ateismo Ateista Ateo FILOSOFIA PRATICA, Abbominare Abborrire Abito Abitudine Accusa Acquiescenza Adulazione Affabilità Affettazione Affetto Affezione Afflizione Agitazione Alacrità Allegrezza Ambascia Amicizia Amico Ammirazione Amore Amorevolezza Anelanza e Anelito Angoscia Angustia Animosità Ansietà Antipatia Apatia Apatista Apologo Appariscente Appetito Approvazione Arbitrio Ardire Ardore Arroganza Assicuranza Assuefazione Atroce e Atrocità Audacia Avidità Autonomia Autorità Avvenentezza e Avvenenza Avversione Azione GRECISMI SUPERFLUI, Aerografia Antropografia Antropomorfologia Antroponomia Antroposofia Antroposomatologia Antropotomia – 55 – Barna (teol.), ostentazione di superstiziosa religione. V. Religione. BARBARIE (prat.), crudeltà d'uomo non civile nè educato. V. Crudeltà. BARBARIsmo (dise.), errore di linguag gio nel parlare o nello scrivere, commesso contra le regole e l'uso della lingua. È diverso dal solecismo: quello pecca nella scelta e nella giuntura del vocaboli: questo nel senso e nella sintassi. V. So lecismo. BARBARo (prat.), qualità d'uomo, che non sente i vincoli della umanità, e si comporta da selvaggio. - È più dell'inumano, perchè questo vo cabolo, rigorosamente parlando, esprime soltanto negazione. Chi nega gli ufizi della umanità, può non pertanto non essere cru dele. V. Inumano. BEATITUDINE (prat.), contentezza dell'ani ma, cui non resta desiderio di altra cosa. V. Desiderio. In un significato men proprio, dicesi an che beatitudine la calma e la pace, che l'anima prova per ogni bene morale che consegue, o per l'approvazione morale, che la coscienza dispensa a buoni portamen ti. V. Approvazione, Bene, Coscienza. Ma qual è l'uomo, che può durevol mente godere di tale stato, o che possa dir soddisfatto ogni suo desiderio? Si può dunque concepire più che pos sedere la vera beatitudine, e se ne può delibare l'immagine in quella interna sod disfazione, che accompagna il costante eser cizio della virtù. Così concependola, noi la prenunziamo a noi stessi, come lo stato in cui ci troveremo, allorchè conseguito avremo il sommo bene e la vera felicità. V. Felicità. BEATo (prat.), lo spirito che possiede beatitudine. V. Beatitudine. Per la stessa immagine, per la quale chiamiamo beatitudine la soddisfazione, che produce nell'anima l'approvazione della coscienza, Cicerone chiamò beato l'uomo sapiente e virtuoso, il quale apre la mente alla contemplazione di se medesimo, del l'universo, e del suo Autore; e per tal cam mino perviene alla perfezione della virtù. V. Perfezione, Virtù. BEFFA e BEFFE (prat.), atto di scherno commesso con fatti, parole o gesti. Può essere atto d'ingiuria, o di sem plice piacevolezza. BEFFARDo (prat.), chi si diletta di far beffe, e d'uccellare, non per ischerno nè per disprezzo, ma per piacevolezza. BEFFARE (prat.), mettere in derisione o in ischerzo il male o il difetto altrui. È capace, come il nome, del senso inno cuo e del riprensibile, BEFFEGGIARE (prat.), frequentativo di beffare, usato sempre nel significato d'in giuriare. È men forte dello sbeffeggiare, che porta seco livor d'animo e villania. V. Sbeffeggiare. – 56 – BELLEzzA (spec. ), il grato aspetto, che risulta dall'accordo delle parti e delle qualità proprie d'ogni corpo. È proprio degli obbietti esteriori e del l'umana figura, in cui la natura ha im presso i tipi del bello. Due generi di bellezza (al dir di Cice rone) presenta l'umana figura, la venu stà, e la dignità: la venustà propria del sesso femminile, e la dignità del maschile. La sensazione, che la bellezza produce ha due caratteri essenziali: una gradevole impressione dell'obbietto: una credenza, che siffatta impressione nasca dalla perfe zione dell'obbietto medesimo. Entrambi i cennati caratteri sono una conclusione del giudizio, che l'animo forma intorno alla convenienza, che l'obbietto ha coll'ordine e colle forme della natura. V. Forma, Matura, Ordine, Perfezione. Per analogia la nozione della bellezza si trasporta all'ordine e alla proporzione delle opere della mente; e per una dispo sizione comune a tutti gli uomini, ed uniforme in tutte le lingue, cotesta no zione è espressa con un vocabolo, comune al senso traslato e al proprio. Cicerone addusse di ciò una ragione, ricavata dal l'effetto della sensazione : « Siccome la » bellezza del corpo, egli disse, eccita lo sguardo degli occhi per l'acconcia di sposizione delle membra, e piace sol perchè le parti sono con certa grazia insieme accordate, così l'onestà che dà splendore alla vita, produce l'approva zione de nostri conviventi, per l'ordine, » per l'uniformità, e per la modestia dei » discorsi e delle azioni nostre ». In realtà la somiglianza del nome nasce da quella del giudizio che l'animo forma, perchè così negli uni, come negli altri obbietti la mente scorge la convenienza dell'ob ; bietto cotipi della natura, ne riceve una grata impressione, e ravvisa in essi i ca ratteri della rispettiva loro perfezione. Nell'uso di tutte le lingue la bellezza si scambia col bello, di cui è l'astratto. V. Bello. BELLo (spee), tutto quel che ha un'ap parenza d'ordine e di simmetria nelle sue parti. V. Ordine, Simmetria. Adoperato come sostantivo, ha un senso più ampio del nome astratto di bellezza, dapoichè comprende tanto il bello desensi, quanto quello della ragione e dell'immagi nazione. Distinguesi non pertanto il bello fisico dal morale, o sia il bello della natura esteriore, da quello degli obbietti intellettuali. V. Esteriore, Intellettuale. Le qualità sensibili decorpi, il pensie ro, la parola, le scienze, le arti tutte, le azioni pratiche, ed il carattere morale dell'uomo, han ciascuno il proprio bello. La nostra inclinazione al bello nasce non meno da una disposizione naturale desen si, che da una proprietà dell'umano giu dizio; il perchè il sentimento del bello è stato da molti distinto in istintivo e ra zionale. Ambo questi sentimenti, insie me combinati e perfezionati dalla sperien za, forman quella dote, che dicesi gusto. V. Gusto. La ricerca del vero e del bello ha creato le scienze e le arti, che formano il tesoro dell'umana cognizione, e ne ha moltipli cato la suddivisione. L'imitazione poi del bello della natura ha formato lo studio delle arti dette belle, siccome la facoltà di sentirlo e di applicarlo, ha dato nome a quella scienza, che i moderni han chia mato estetica. V. Estetica. Il bello ci piace e ci trasporta, e quando tocchi l'apice del perfetto e del grande, - 57 - prende l'epiteto di sublime, nel quale caso il piacere di sentirlo si cangia in un senti mento più forte dell'ordinaria approvazio ne, che è l'ammirazione. V. Ammirazione. Ma il bello è una pura sensazione, o è una relazione al vero, e in che questo vero consiste? Per isciogliere una tal quistione, fa uopo scomporre la nozione complessa del bello. Cotesta nozione contiene una sensa zione ed un giudizio insieme: la grata im pressione che riceviamo dell'obbietto, è la sensazione, mentrechè la credenza della sua perfezione è un giudizio. Comechè noi diamo un nome unico alla nozione del bel lo, sono purtuttavolta varie e forse innu merevoli le spezie, che ne ravvisiamo nei diversi obbietti, a quali lo riferiamo; sì che è unico il nome che diamo alla impressio ne, ma son vari i giudizi, che formiamo intorno alla qualità degli obbietti. La va rietà del giudizi presuppone altrettante re lazioni tra l'apparenza e le qualità reali de gli obbietti medesimi: tali relazioni presup pongono dalla parte loro una somiglianza nel modo, col quale l'animo le concepi sce; dapoichè per un consenso unanime di tutte le lingue diamo loro lo stesso nome di bello. Sotto questo nome noi compren diamo tutto quel che ha una connessione d'ordine e di simmetria ; sì che bello è per noi non solamente ciò che somiglia al grande e al perfetto della natura, ma anche quel che è conveniente o coerente ad una disposizione di parti, fatta da noi stessi per un fine utile, qualunque esso sia. La somiglianza dunque che da noi si concepisce nella nozione generale del bel lo non è altro, che una convenienza di connessione e di accordo, la quale sod disfa l'animo, e in esso produce una gra devole sensazione. Ma d'onde la soddisfazione dell'animo nel giudicare di tal convenienza ? Per isciogliere questa seconda quistione, giova premettere un'altra comune distin zione del bello assoluto e del relativo. Cotesta distinzione è fondata nella diver sità de tipi, a quali l'una e l'altra spezie di bello si riferisce. I tipi del bello assoluto son quelli del la natura, i quali sono per se stessi co stanti ed immutabili. Ma il bello, preso nel senso del conveniente, (o sia di quel bello che noi scorgiamo ne'fatti dell'uomo); può essere vario e mutabile, senza che una tal varietà offenda la realità dell'as soluto, di cui prende le sembianze. Que sto è quel che dicesi relativo. V. Asso luto, Relativo. Prendendo ora a considerare i tipi della natura, non è la prima materia, per se stessa passiva ed inerte, quella che muo ve la sensazione del bello, ma è la sua maravigliosa conformazione, che ci empie di ammirazione e di stupore. Questo è lo spettacolo, nel quale veggiamo la mate ria trasformata da una mente infinita, e da una mano onnipotente, che le dà or dine, moto, e vita; che ne forma gli elementi delle piante e del corpi dall'in setto insino all'uomo; che da lei cava la luce, il calore, il fuoco, l'armonia dei suoni, l'accordo de'colori; e che dalle sue grandi masse forma l'immensa opera del l'universo. La soddisfazione dunque del l'animo nasce dalla scoverta de due tipi universali, a quali la mente perviene, la perfezione cioè dell'opera dell'universo, e l'infinita intelligenza del suo Autore. A somiglianza di questo bello primiti vo, di cui la natura ci ha fatto spetta tori, quella stessa materia che ha sommi nistrato gli elementi all'universo, è nella 8 – ss – mano dell'uomo l'instrumento della sua industria, delle arti, e di tutte le sue mec caniche produzioni. Colla distanza che pas sa dal commensurabile all'immenso, e dal finito all'infinito, l'uomo imita e plasma modelli sopra le grandi opere della natu ra, adattandogli a tutti i bisogni della vita. In queste imitazioni pone egli con nessione, ordine, simmetria, e forma un bello artifiziale, il cui merito sta nella coe rente disposizione delle parti, e nell'esatta coordinazione de mezzi al fine, che si pro pone di conseguire. Di quest'ordine il bello sta nella perfezione relativa, di cui il sug getto è capace. Le regole che indirizzano queste opere al fine loro, non sono sola mente attinte dal vero e dal costante del la natura, ma dalla qualità del fine che l'autore si propone: prendon parte in esso l'immaginazione, l'abito, l'associazione delle idee, la moda, e tutto quel che rende sì svariato l'utile e il dilettevole de gli uomini. In conclusione, anche la sod disfazione che procura questo bello nasce dalla scoverta, che l'animo dello spettatore fa della intelligenza di colui che lo ha di sposto. Il bello dunque non è una pura sensazione, o una idea, ma una nozione fondata sul vero, di cui i tipi impressi dal l'Autor della natura nell'ordine delle cose materiali ed intellettuali, servono di norma alle opere, alle azioni, e al pensieri degli uomini. V. Perfetto, Perfezione, Vero. BENE (spee. e prat.), quel che con duce alla conservazione e alla perfezione dell'Essere. V. Essere. La prima idea del bene proviene dai sensi, a rispetto de quali il bene scam biasi col piacere; sì che la tendenza da taci dalla natura a desiderar questo, e a fuggire il suo contrario, il dolore, può dirsi l'istinto regolatore della vita animale. V. Dolore, Istinto, Piacere. Ma la prima idea del bene vien rettifi cata, non prima che comincia a svilup parsi in noi la ragione e la facoltà mora le, dapoichè sottentra allora la ricerca di quel che conviene alla condizione dello spi rito, e alla perfezione di tutte le facoltà sue. A questa seconda ricerca la natura ha pur congiunto una tendenza razionale, la quale ci viene dal senso morale, ed una siffatta tendenza ci mena altresì ad un'interna soddisfazione, che per simili tudine chiamiamo piacer morale. L'in terna soddisfazione altro non è, che l'ap provazione della coscienza, cui la natura stessa ha dato il potere di giudicare delle no stre azioni. V. Approvazione, Coscienza. Il piacer morale sovente non si accorda col sensuale, e in siffatta collisione con viene che quello rattemperi questo. ln al tri termini conviene che la ragione segni il confine tra essi, acciocchè l'uomo ch'è un Esser composto trovi il bene nel per fetto accordo di entrambi. In somma l'idea del bene si confonde ne bruti colla sen sazione del piacere, laddove diviene ne. gli Esseri ragionevoli un'idea complessa o mista, gli elementi della quale sono, da una parte il bene del corpo, conside rato come mezzo, e quello dello spirito, come fine. Cotesto fine è quello, che nella filosofia morale prende il nome di sommo bene, da cui derivano le altre due no zioni della virtù e della felicità. Il som mo bene, al dir di Cicerone, est rerum expetendarum ea tremum, nella cui co gnizione è riposta tutta l'umana sapienza. V. Felicità, Sapienza, Virtù. La ragione non altrimenti rattempera l'istinto del piacere, se non contrappo nendo al bene presente, la ricordanza del passato e l'antivedimento del futuro. Il ato le somministra i lumi della spe rienza, e il futuro quelli dello scopo cui dee pervenire; sì che la differenza carat teristica tra 'l piacer de sensi e il morale consiste in questo, che l'uno si limita al presente, e l'altro abbraccia la durazione della vita, così presente come futura. V. Fu turo, Passato, Presente. Ciò non ostante, l'imperio che eserci tano in noi i sensi, l'abito delle cure con tinue che prestiamo al corpo, le attrattive del piacere, l'opinione di stabilità che siam disposti concedere agli obbietti sensibili, più che agli speculativi, e la preferenza che diamo al presente di rincontro al fu turo, rendono la generalità inchinevole a considerare il bene presente, se non come il solo, almen come il principale, cui dob biam vacare. V. Abito, Obbietto, Sen sibile, Senso. E siccome la filosofia speculativa e la pratica si modellano l'una sopra dell'al tra; così le varie scuole del filosofi sensi sti, son quelle, che in ogni tempo sonsi più delle altre allontanate dalla vera no zione così del bene, come del sommo be ne. Gli Epicurei, gli Stoici, i Peripatetici disputarono più degli altri intorno al som mo bene. I primi riposero il bene nel pia cere, e nel dolore il male: i secondi nella rettitudine dell'operare secondo la natura, e però chiamarono bene quidquid seeun dum naturam est: gli ultimi congiunsero insieme il piacere de'sensi col piacer mo rale. Ma qual'è, secondo gli Stoici, l'idea della natura ? E qual è, secondo i Peri patetici, l'origine del piacer morale? I sistemi tutti degli antichi filosofi sensisti son difettivi nel principio del bene e del piacer morale, dapoichè dalla sensazione, considerata come sola sorgente dell'umana cognizione, non si dà passaggio alle ve. rità intuitive della ragione, nè alle no zioni del giusto e dell'onesto. V. Giusto, Onesto. Che se v'ha degli antichi, i quali in nestarono qualcuna delle cennate verità al sistema del sensismo, il fecero per poca coerenza di ragionamento, o per confuse nozioni; d'onde poi avvenne che altri più acuti ragionatori, partendo dalle medesime premesse, trascorsero insino alle estreme conseguenze del materialismo. Quel che di ciamo degli antichi, va pur detto de mo derni che han ricalcato le medesime orme. V. Materialismo, Sensismo. Da ciò segue, che il solo principio da cui possa derivarsi la nozione del sommo bene, è l'esistenza d'una legge morale, prodotto della mente perfettissima del Crea tore, il quale ha nelle sue creature impresso la conoscenza del doveri necessari alla con servazione e alla perfezione dell'essere loro. Nel cammino della vita la Sua mano le guida mercè delle impulsioni naturali, e la Sua ragione le rischiara, tosto che di vengon capaci di volontà, di arbitrio, e di determinazione. Ogni filosofia che non parta da questo principio, o che senza ri conoscerlo me ammetta soltanto le conse guenze, è falsa o erronea. Così conceputo il bene, può la sua definizione esser quella degli Stoici, cioè tutto quel che è conve niente all'ordine fisico e morale della ma tura, congiuntamente presi. Dalla convenienza che il bene aver dee coll'ordine della natura, risulta pure, che la sua perfezione consiste nell'accordo di tutte le relazioni che l'uomo acquista, na scendo, con Dio con se medesimo e co gli altri. Laonde il bene dell'individuo, o di se medesimo, disgiunto dalle altre due obligazioni, perde ogni suo pregio, ri e cangia ancor di nome, dapoichè acqui sta quello di utilità d'interesse o di ego dsmo. L'utilità e l'interesse non rattempe rati dagli altri doveri, divengono come il piacer de sensi di rincontro al morale. E però generalizzando l'idea del piacere, e considerando l'utilità come un parto dello stesso istinto desensi, l'uno e l'altro voca bolo sono atti ad esprimere la medesima idea. V. Egoismo, Interesse, Utilità. Le diverse spezie del bene, che gli Sco lastici, e Bacone stesso, distinsero, come l'individuale, il conservativo, il per fettivo, il moltiplicativo, il comunica tivo, ed altri, sono altrettante categorie, per le quali può quello essere considerato nelle diverse relazioni con noi stessi, o cogli altri, e son tutte comprese nelle no zioni generali sin qua esposte. In un senso più ampio e più comune dicesi anche bene ogni vantaggio o como dità della vita, che sia un contrapposto di qualunque incomodo o privazione. V. Pri vazione. BENEriceNza (prat.), naturale virtù del l'anima, per la quale siam portati a gio vare agli altri. ll ben fare, nel senso dell'essere soccor revole, può esser suggerito da due senti menti: o da debito di obligazione, o da quella natural pietà, che sentiamo per le altrui necessità: nel primo caso quel sentimento si confonde colla giustizia, nel secondo è dettato dalla benevolenza e dal la liberalità. V. Benevolenza, Giustizia, Liberalità. Il dover di giustizia può nascere dalla legge positiva o dalla naturale. Se dalla positiva, il contravvenire produce colpa o reato: tal è il debito di alimentare il pa dre, i figliuoli, o coloro verso i quali ab biamo volontariamente contratto una tale obligazione. Se dalla naturale, prende nor ma dalla equità e dalla reciprocazione degli uffizi, che è il vincolo della umana so cietà. La gratitudine pel benefizio ricevu to, è il primo del doveri che suggerisce la giustizia naturale, o l'equità. V. Equità, Gratitudine. Quando poi il ben fare nasca dallo spon taneo amore de nostri simili, è il più no bile di tutti i sentimenti, e può avere tanti gradi d'intensità e di merito, quanti sono i limiti che distinguono la virtù umana dalla divina. Qual più sublime e divino pre cetto del beneficate quelli che vi odiano? BENEFIzIo (prat.), l'azione, colla quale gratuitamente gioviamo altrui. BENEvoLENZA (prat.), costante e ferma disposizione dell'animo per comunicare agli altri i beni, sì esterni che interni della vita, e per prevenirne, ripararne, o diminuirne i mali. V. Bene, Male. La benevolenza, considerata come virtù, formata per la volontà e per l'abito del retto operare, è più che un affetto benefico, di cui il germe è stato in noi impresso dalla natura, come per uno stimolo alla comu nione, a cui l'uomo è invitato. V. Affet to, Azione. Ella è la virtù fautrice e conservatrice della civil società, e in se contiene le altre virtù, le quali versano circa l'adempimento delle obligazioni e dedoveri, cioè la giusti zia e la liberalità. V. Giustizia, Liberalità. BENI (prat.), le cose desiderabili per conseguire la felicità. V. Felicità. Questa voce adoperata in senso plurale esprime gli elementi di quel bene, che è lo scopo della vita. Va dunque ad essi ap plicato tutto quello ch'è stato detto, o che può dirsi intorno alla natura del bene. La stessa voce è comunemente adope rata per esprimere i vantaggi, i piaceri, e le opportunità del vivere; il perchè di stinguonsi i beni interni dagli esterni e i primi risguardano i sensi, o sia la parte materiale di noi: i secondi lo spirito: gli uni relativi, assoluti gli altri. V. Ester no, Interno. Sin dal nascimento della filosofia, i sa pienti han cercato di graduare l'utilità e l'importanza delle cose desiderabili per lo buono e beato vivere, e ciascuno ne ha disputato nel senso della propria dottrina. Gli epicurei credettero, che le sole cose desiderabili fossero i piaceri del corpo: gli stoici per l'opposito non risguardarono come desiderabile, se non l' onesto ed il giusto, e predicarono l'indifferenza pei beni esterni. I peripatetici in fine conce derono la preferenza a beni morali, senza peraltro escludere gli esterni. Crantore, al dir di Sesto Empirico, scrisse un libro intorno a beni della vita, nel quale gra duò in primo luogo il coraggio, indi la sanità, le dovizie, e la voluttà. Ma qual'è la comparazione che può farsi tra beni interni e gli esterni? La filosofia morale non predica l'indifferenza stoica ; determina sì bene il giusto valore degli uni e degli altri. I primi sono per loro stessi desiderabili, laddove i secondi rice vono ogni loro pregio, o dalla utilità che arrecano al corpo, o dalla opinione degli uomini: quelli sono durevoli, eterni ed inseparabili da noi, questi accidentali, mutabili, e caduchi: degli uni Cicerone ha detto, quod laudabile bonum est, in se habeat quod laudetur necesse est, ipsum enim bonum non est opinionibus, sed natura, degli altri, quae et cum adsunt perparva sunt, et quamdu aſ futura sint, certum sciri nullo modo poteste e della voluttà, at in ea quidem spernenda et repudianda virtus vel mari me cernitur. V. Matura, Opinione. Ciò non ostante il corpo ha una con venienza propria, siccome l'anima ha la sua ; e dal perchè questa de essere cer cata in preferenza di quella, non segue che esser debba sprezzata la contempla zione tanto della maravigliosa intelligen za, colla quale la natura ha dotato il cor po di tutte le attitudini e opportunità ne cessarie a conseguire la felicità o il som mo bene, quanto della industriosa corri spondenza stabilita tra le doti dell'anima e quelle del corpo. Che anzi la filosofia morale ha per rispetto a beni esterni due parti d'insegnamento, uno che concerne il retto e moderato uso da farne; l'altra, che apprende a non desiderargli se non come ausiliari e accessori de primi. Della relazione che gli uni hanno cogli altri Ba cone osservò: « V ha una relazione e ana » logia tra l bene dell'anima, e quello » del corpo, dapoichè il bene del corpo consiste nella sanità, nella bellezza, nel vigore, e nel piacere; e del pari il ben dell'anima, considerato secondo i prin cipi della morale, tende ad un quadru plice scopo: a rendere l'anima sana e scevra da perturbazioni, bella e ornata di vere grazie, forte e presta ad ese guire tutte le funzioni della vita, ed in fine capace d'un vivo sentimento di quel vero piacere, che nasce dal godimento dell'onesto. BENIGNITA' (prat.), abituale disposizione dell'animo a giovare altrui. - L'esercizio degli atti di benevolenza, ai quali l'uomo è per natura inchinato, pro – 62 – duce quella costante disposizione a fare il bene, che si cangia in costume. Cotesto costume non de essere confuso colla bene ficenza e colla liberalità, che si riferiscono all'esercizio pratico della volontà. E però poco esatto sembra il detto di Cicerone, che risguarda come sinonimi la benignità, la liberalità e la beneficenza; se pur non avesse inteso dire, che tutte tre nascono da un comune principio. V. Beneficenza, Liberalità. BESTEMMIA (teol.), parola empia, detta contra l'onor dovulo a Dio. BiAsiMo (prat.), giudizio di morale di sapprovazione, che la coscienza pronunzia intorno alle azioni contrarie all'onesto e al giusto. V. Coscienza, Disapprovazione. Applicato a fatti altrui, è un giudizio, che la ragione pronunzia intorno alla qualità delle azioni, prendendo per norma il proprio senso morale. V. Giudizio, Senso morale, BIBLIOGNOSIA, grecismo superfluo, per chè esprime una idea compresa nell'arte, detta bibliografia, che è la conoscenza dei libri e delle loro edizioni. BIBLIOGRAFIA (crit.), arte descrittiva dei libri, degli autori, e delle edizioni loro. BioGRAFIA (erit.), storia della vita d'una o di più persone. BIoLoGIA (crit.), scienza, o trattato dei principi della vita animale. Può esser con siderata come parte della fisiologia gene rale, e può essere ancora risguardata come una inutile suddivisione di quella scienza, e come un grecismo superfluo, perchè la significazione di vita è in questo vocabolo presa in un senso diverso da vocaboli pre cedenti. V. Fisiologia. BisogNo (prat.), mancamento di cosa necessaria o utile alla vita. Il bisogno è un male, siccome l'abbon danza è un bene. Adoperiamo lo stesso vo: cabolo tanto pe'mali e pe beni esterni, dei quali è proprio, quanto per gl'interni, ai quali si adatta per similitudine e per ne. cessità di linguaggio. Così, diconsi bisogni dell'animo le conoscenze che desideriamo di acquistare, gli affetti che vorremmo sod disfare, le inquietudini che cerchiam di cal mare, e le consolazioni al dolore d'un bene perduto. Ogni bisogno eccita un desiderio, e però è un principio d'azione. V. Azio. ne, Inquietudine, Principio. Bocca (spee.), organo degli alimenti, della respirazione, della voce, e della pa rola. La sua conformazione, nell'uomo, va considerata principalmente a rispetto della voce e della parola. L'instrumento vocale è un organo composto di molti altri organi subalterni, per mezzo de'quali manifestia mo i pensieri colla parola, le sensazioni e gli affetti colla voce e col canto. V. Canto, Parola, Voce. E la parte della faccia, che insieme cogli occhi, palesa l'indole, gli affetti, e lo stato dell'animo. V. Faecia, Occhio. BoLLORE (prat.), traslato del gonfia mento e del gorgoglio d'ogni fluido che bolla, il quale si applica al sollevamento e all'infiammamento delle passioni. V. Pas sione. BONARIETA' (prat.), semplice e schietta benignità d'animo, la quale giudica e opera – 65 – senza malizia, e senza sospettare della ma lizia altrui. - Può nascere da virtù, e ancora da tar dità d'ingegno, ma è sempre indizio di poca sperienza. BoNTA (spee. e prat.), abito di one ste e benefiche azioni. a - Applicata alle azioni esterne, siam so liti darle un significato più speciale, l'adempimento cioè de doveri verso degli al tri. La somma di questi doveri è : gio vare e non nuocere altrui, o più chia ramente, fare agli altri quel che desi deriamo, sia fatto a noi stessi. La bontà differisce dalla benevolenza, in quanto che questa risguarda la disposi zione ad operare, e quella l'operato. L'una dunque è il principio motore dell'altra. V. Benevolenza. Nel linguaggio del metafisici la bontà è stata distinta in tre spezie: la bontà di essenza, la bontà animale, e la bontà razionale. Quest'ultima è la stessa bontà morale, di cui abbiamo testè parlato. La bontà di essenza è la convenienza degli attributi, i quali determinano che una cosa sia quella che è, e non altra. Cotesta bontà è quella che dicesi assoluta, nel quale senso scambiasi ancora colla per fezione. Laonde i tipi della bontà trovansi in Dio, e nelle opere sue, che non potreb bero non esser tali. A differenza dell'asso luta, la bontà relativa sta nell'ordine, nella disposizione e nelle relazioni, che legano insieme la catena degli Esseri, i quali com pongono l'universo. Tali Esseri non sono tutti egualmente perfetti, o sia non sono, della medesima condizione, nè son dotati delle stesse qualità; ma ciascun di essi ser ve alla bontà assoluta e alla perfezione del tutto. V. Ordine, Relazione, Universo. La bontà animale è un significato di similitudine dato a qualunque Essere sen sibile, di cui le qualità, l'attitudine delle membra, la conformazione del corpo, e l'istinto corrispondono al fine della natu ra, e alla destinazione che hanno essi ri cevuto nella generale economia della stessa natura. BoTANICA (ertt.), scienza che tratta delle piante, considerate come Esseri naturali, delle proprietà loro, e de caratteri propri per distinguere le une dalle altre: ab braccia tutto il regno vegetabile: è stata denominata ancora fitologia, V. Fitologia, Vegetabile. BoTANOGRAFIA, grecismo superfluo, e addoppiatura della botanica, la quale non potrebbe trattare delle piante, senza de scriverle. BoTANOLOGIA altro grecismo superfluo, che dà una doppia denominazione alla bo tanica. BRACCIO (spec.), membro del corpo uma no, che partendo dalla spalla va a termi nare alla mano. Quantunque questa definizione apparten ga alla notomia umana, pur tutta volta non è parte del corpo umano, che per le sue attitudini non somministri gravi e belle considerazioni alla filosofia specula tiva, tanto per iscoprire tutte le previ sioni della natura a rispetto del nostri bi sogni; quanto per comparare le differenze tra l'organismo umano, e quello de'bruti. In questi le membra, che tengono luogo di braccia, servono a sostenere la pesante massa del corpo loro, rivolto verso la terra; laddove nell'uomo servono ad ese – 64 – guire i comandamenti della volontà, a di fendere il corpo, a prendere le cose lon iane, e a vincere tutti gli ostacoli così delle distanze, come delle forze maggiori del la sua. Gli anatomici osservano che il braccio è dotato di cinque sorte di movimenti, a quali son destinate altrettante paia di mu scoli, cioè il moto in su, in giù, d'avan ti, da dietro, e d'intorno. Di tanto fa ceva uopo per potergli dare l'attitudine di abbracciare, di respignere, di muovere, di trasportare, e sopra tutto di reggerla ma no, il più bello ed industrioso strumento della natura. V. Mano. BRACHIGRAFIA (disc.), arte di scrivere compendiosamente, e per abbreviatura. BRACHIoLoGIA (disc.), arte di esprimersi brevemente per sentenze, o per proposi zioni sottintese. Cotesta arte favorisce la memoria, e rende più spedito il ragiona mento, quando le proposizioni sieno bene intese, o perchè dimostrate, o perchè ma nifeste per loro stesse. BRAMA (prat.), desiderio ardente. V. De siderio. BRAvURA (prat.), coraggio e gagliar dia, dimostrata colle opere. BRUTo (spec.), animale privo di ragio ne, il che forma il contrapposto dell'uomo. V. Animale, Ragione, Uomo. BRUTTo (spec.), il difforme dall'ordine e da tipi naturali delle cose. È contrapposto di bello. V. Bello. BUgìA (prat.) detto contrario a ciò che l'uomo pensa o sente. È una spezie di falso, che resta nella parola. E capace di molta gradazione, po tendo essere l'effetto di sola sbadataggine, di leggerezza, o ancora di malizia e di mal vagità. È compresa nel genere demendaci. V. Falso, Mendacio. BUoNo (prat.), tutto quel che concepiamo come dotato di bontà, così nel significato morale, come nel metafisico. V. Bontà. – 65 – CLASSI DE' VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA B. FILOSOFIA CRITICA a FILOSOFIA PRATICA. Bibliografia Biologia Barbarie Beni Biografia Botanica Barbaro Benignità Beatitudine - Biasimo FILOSOFIA SPECULATIVA, Beato Bisogno Beſſa e beffe Bollore Bellezza Bontà Beffardo Bonarietà Bello Braccio Beffare Bontà Bene Bruto Beffeggiare Brama Beni Brutto Bene Bravura Bocca Beneficenza Bugia FILOSOFIA DISCORSIVA - Benefizio Buono Benevolenza Barbarismo Brachiologia Brachigrafia GRECISMI SUPERFLUI. TEOLOGIA NATURALE. - - - - - - Bibliognosia Botanologia Bacchettoneria Bestemmia Bolanografia C Ca. V. Causa. CALcoGRAFIA (crit.), arte d'incidere in rame e in ottone. È parte delle arti del disegno. CALcoLo (erit.), detto letterale, è l'arit metica speciosa, o sia algebra. V. Algebra. CALDo. V. Calore. CALLIGRAFIA (crit.), arte di scrivere net tamente e in bella forma. Va pure considerata come una delle arti del disegno, che dà le regole per la for mazione del caratteri, e di ogni altro de lineamento. º CALoRE (ontol. e spec.), idea semplice indefinibile, d'una sensazione, di cui il nome esprime soltanto gli effetti, che per essa proviamo. Che questo vocabolo sia indefinibile, il dimostra la stessa spiegazione, che ne davano le scuole al tempo, in cui tutto volevasi spiegare per l'essenza delle cose: Essere fisico, di cui conosciamo la pre senza e misuriamo i gradi per la rare fazione dell'aria, o di qualche liquore rinchiuso in un termometro. Ora dovendo spiegare per gli effetti la sensazione del calore, ed avendo noi tre nomi i quali esprimono tre idee affini, cioè caldo, calore, e calorico, il dare a ciascuno di tai vocaboli un certo signi ficato, renderà più chiaro il concetto, che di essa puossi formare. Chiamiamo caldo la sensazione che proviamo, e la qualità che per essa acquistano i corpi ; calore l'impressione che la produce, e calorico la causa da cui proviene. La sensazione del caldo è propriamente eccitata ne'nostri sensi dall'azione del fuo co; d'onde abbiamo per molto tempo rica vato, che ogni altra materia, la quale pro duce in noi una sensazione eguale o simi le, contenga in se del fuoco latente. Ma il calore è una qualche cosa di simile che si trova nel fuoco, o è una modificazione del nostro proprio sentire, prodotto dal moto o da altra causa? Questo è il proble ma, che ha esercitato l'acume delle anti che e delle moderne scuole di filosofia, in sino a che i fisici avendo rinunziato alla pretensione di spiegare la natura e l'essenza del calorico; si sono limitati alla osserva zione de fatti, e alla pretta analisi del fe nomeni naturali. E conviene anche dire, che l'opinione di coloro, i quali afferma vano essere la sensazione del caldo una emanazione del fuoco, era bipartita; cre dendo taluni che il calore fosse una qua lità, e altri una sostanza; sì che tre erano le ipotesi, intorno alle quali aggiravansi le filosofiche discordanze: se il calore fosse una qualità o accidente del fuoco: se, una sostanza: se, un semplice modo del nostro sentire. Lasciamo alla storia della filosofia la narrazione delle varie opinioni desapienti; e riserviamo alla fisica e alla chimica gli argomenti, o le congetture, intorno alla natura e alla essenza del calorico. Diciamo soltanto, che rimane ancora indecisa la quistione, se il calorico sia una materia per se stessa esistente (un corpo sui ge sº - 68 - neris), o un semplice moto delle mole cule de corpi; comechè i chimici inchi mino più alla prima sentenza, e i fisici alla seconda. Per quel che appartiene alla filosofia speculativa, il concetto ch'ella forma del calore è di una sensazione, la quale non può aver nulla di simile al fuoco, perchè non essendo il fuoco dotato di sentimento, non può concepirsi rassomi glianza tra l'effetto e la causa che lo produce. E però quando diciamo che il fuoco è caldo, non intendiamo dire, che il fuoco senta come noi la sensazione del calore, ma solamente affermiamo, che colesta sensazione procede da una causa o da una qualità che è nel corpo caldo. Molto meno intendiamo dire, che il ca lore sia una semplice modificazione del nostro sentire, e che non tragga origine dal corpo caldo che lo tramanda; che anzi riconosciamo nel fuoco una qualità pro pria a suscitare in noi la sensazione del calore. Qual è dunque la cosa, che chia ramente percepiamo nella sensazione del calore, e qual è quel che ignoriamo ? Conosciamo l'effetto, e ignoriamo il come questo effetto sia prodotto: sappiamo che il calore proviene dal fuoco, ma igno riamo quale sia la natura e l'essenza sua. In somma l'idea, che noi formiamo del calore, è simile a quella del colore, del l'odore, del sapore, e di tutte le qualità secondarie della materia, delle quali ab biamo una conoscenza soltanto relativa, e non diretta. V. Diretto, Materia, Qua lità, l'elativo. - Gli scolastici distinguevano il calore at tuale dal potenziale, e chiamavano attuale quello del fuoco, potenziale l'altro che è latente ne corpi, come nella calce, nel pepe, nello spirito di vino, ed in altri. Per ispiegare pci come cotesto calore si sviluppasse, ricorrevano all'antiperistasi, o sia alla forza maggiore che spiegano gli elementi omogenei per la resistenza degli eterogenei. Ma una tale distinzione era una conseguenza delle definizioni pe ripatetiche del calore e del fuoeo. Coteste definizioni, del pari che quelle del filosofi corpuscolari e del cartesiani, appartene vano al loro sistema fisico, che è estraneo al nostro argomento. V. Antiperistasi. I fisici moderni chiamano calorico la tente ne corpi quello, di cui non è dub bia l'esistenza, quantunque non si mani festi per mezzo del termometro. Il calorico latente ha luogo principalmente ne can giamenti di stato dei corpi. Così l'acqua, giunta alla temperatura di ottanta gradi di licaumur, si conserva nello stesso grado, non ostante il continuo aumento del calo rico, dapoichè l'avanzo di esso, che di viene latente e non si palesa al termome tro, è impiegato dalla natura a ridurre in vapori una parte del liquido in ebullizio ne. V. Calorico. - CALORICO (ontol. e spee.), la materia che produce la sensazione del calore. Noi concepiamo colesta materia come un fluido aeriforme, sottilissimo, elasti co, che è sparso per lo spazio e in tutti i corpi, e che obbedisce alle leggi dell'at trazione, dapoichè si accumula in diverse proporzioni ne corpi medesimi, e passa, dagli uni agli altri, e da medesimi si ri tira ; la qual contraria azione, che in somma è privazione di calore, produce il freddo, che è il principio della congela Zl0Ile. Il calorico passa da un corpo all'altro in due modi: o per diretta comunica zione, o per irradiazione e il primo av – 69 – viene allorchè un corpo è messo in con tatto dell'altro, mediante il quale contatto il calorico scorre successivamente per tutte le molecule più o men prestamente, se condo che è maggiore o minore la dispo sizione del corpo che vuol essere riscal dato: nel secondo modo il calorico si diſ fonde e si comunica, come la luce, vale a dire si spande nell'aria, o nel vacuo per raggi, che son capaci di essere riflessi o refratti, e che per conseguente possono essere raccolti per mezzo degli specchi con cavi, o di cristalli lenticolari. Il solo mezzo, per lo quale possiam concepire più chia ramente l'idea del calorico, è il conoscerne le proprietà, che ci sono dalla sperienza rivelate. Tali qualità sono: - 1.° Il calorico penetra tutti i corpi, tra quali non ve n'ha alcuno che per esso non sia permeabile. Distinguonsi soltanto tra corpi, quelli ne quali il calorico più rapidamente e più egualmente si diffonde, dagli altri che più lentamente e disugual mente lo ricevono. 2.° Penetrando i corpi, il calorico ne disgrega le particelle e ne aumenta i pori, sì che dilata i solidi, e rarefa i liquidi; facendo passare i primi allo stato liqui do ; e i secondi allo stato aeriforme o vaporoso. 3.° I corpi così dilatati, liquefatti o ra refatti, van considerati come modificati, e non come in uno stato di nuova com posizione, perchè, nella generalità de casi, separandone il calorico tornano al primiero Stato. 4.º A misura che le molecule de cor pi sono allontanate le une dalle altre per mezzo del calorico, diminuisce la loro re ciproca attrazione, e per contrario si ac cresce quella eh'esse hanno per le mole cule degli altri corpi; il perchè la chi mica si serve del fuoco per eseguire le combinazioni di diverse sostanze. 5.° Corpi diversi ammettono differenti quantità di calorico tra le loro molecule, per giugnere ad uno stesso grado di tem peratura ; dal che nasce la loro diversa capacità di calorico. La fisica e la chi mica insegnano il nodo, onde misurare e graduare una tal capacità. 6.” I corpi passando dallo stato solido al liquido, e da questo allo aeriforme o vaporoso cambiano di capacità di calorico. E però l'acqua congelata, l'acqua liquida, e l'acqua in vapore, non ha in ciascuno de tre dinotati stati la medesima capacità; o sia esige diverse quantità di calorico per essere innalzata a uno stesso numero di gradi di temperatura. Questo è quel che i fisici chiamano stato, o cambia mento de corpi per rispetto al calorico. 7.” Facendo agire il calorico libero, o il fuoco sopra corpi composti, l'allontana mento delle molecule costituenti, che in ciascuno di essi avviene, ne produce la scomposizione in due diversi modi, o non alterando le materie scomposte, il che av viene quando una materia volatile trovasi unita ad un'altra fissa; o alterandone la massa, per modo che le sostanze le quali formavano il primo composto si uniscono tra loro in proporzioni diverse da quelle che erano state dalla natura determinate. La prima operazione chiamasi analisi per fetta, e la seconda imperfetta: quella ha luogo ne composti detti binari, e questa ne ternari o quaternari. Da tutte le cennate proprietà del calo rico risulta, che ogni corpo può lasciarne passare la quantità compatibile colla sua capacità; che il calorico obbedisce alle altrazioni chimiche, e ha affinità elettive, le quali variamente si combinano cocorpi – 70 - medesimi; che in tutte le combinazioni chimiche vi è assorbimento o sprigiona mento di calorico; e che quella quantità la quale se ne trova ne composti, ne esce allorchè questi si scompongono, e vi ri entra quando essi si ricompongono. Son questi gli argomenti pe quali i chimici conchiudono essere il calorico una sostanza per se stessa esistente, e non una modifi cazione, di cui tutti i corpi sieno indistin tamente capaci. Quantunque cotesti teoremi sieno propri della Fisica e della Chimica, pur tutta volta servono grandemente a formare il concetto metafisico, non meno del calori co, considerato come un principio attivo della natura, che delle forze dell'attra zione e della affinità, alle quali obbedi sce. Le enunciate verità sono utili ancora a distinguere le diverse spezie dell'analisi fisica e chimica, di cui abbiamo di sopra parlato. V. Analisi, Affinità, Attrazione. CALUNNIA (prat.), falsa imputazione, o detrazione ad altri fatta. CANDoRE (prat.), purità e sincerità del l'animo, che negli esterni portamenti si dimostra qual è, senza veruno studio. È il contrapposto dell'affettazione, e della simulazione. V. queste voci. CANGIAMENTo (ontol.), passaggio delle cose da uno stato all'altro, per qualunque modo o accidente esso avvenga. V. Ac cidente, Modo. - Si adopera questo vocabolo nel linguag gio scientifico per esprimere qualunque mu 'tazione che la cosa riceva nel suo modo di essere, salva la sua sostanza. Così, l'ef fetto è un cangiamento operato nel sug getto dalla causa che lo produce; ed in un senso più speciale il moto è un cangia mento che il corpo riceve per la causa, da cui è impresso. V. Causa, Effetto, Moto. CANONE (spec.), regola, o massima invariabile, la quale de essere applicata agl'identici casi. Ogni scienza o arte ha i suoi canoni: ne ha la geometria, l'alge bra, la musica, e ne ha pure la filosofia intellettuale e morale. Tali sono le regole, che dirigger debbono il criterio dell'investi gazione filosofica per contenerla ne limiti del vero e del possibile: sono in somma le così dette regole del filosofare. V. Regola. CANONICA (crit.), legge così detta, dal nome di canone, dato per un significato speciale alle leggi della chiesa. È una parte del diritto positivo. CANTo (crit.), voce modulata con suoni e intervalli misurati, co quali esprimiamo i diversi sentimenti, de quali l'animo è affetto. ll canto, al pari della poesia, è un lin guaggio di affetti e di passioni, è conna turale all'uomo, e può credersi nato in sieme col ritmo del verso. Coloro, i quali credono esservi stato un tempo, in cui l'uomo rimanesse senza paro la, hanno altresì pensato, che il puro suono della voce avesse servito a primi uomini, come d'una sorta di linguaggio d'azione; ipotesi la quale li avvicina agli uccelli; siccome in generale quella dell'assenza della parola li confonde co'bruti. Noi, che col lochiamo la parola come compagna della esistenza, e che non supponiamo nulla di preesistente all'una come all'altra; dicia mo che l'uomo animato dalla gioia o dalla tristezza, dalla speranza o dal timore, trovò nelle inflessioni e nelle cadenze delle pa - 71 - role i primi rudimenti della melodia. Tale è pure l'origine della poesia, la quale non può dirsi se sia più o meno antica della musica. Certamente, i primi poeti dell'an tichità non recitarono, ma cantarono i loro versi, e il nome di cantore e di poeta fu per lungo tempo sinonimo. Certamente an cora, i canti sagri furono i primi saggi del talento musicale dell'uomo; nel che trovasi un'altra grande affinità di origine tra la poesia e la musica. Gli avanzi de gl'inni sagri, degli antichi, e soprattutto quelli degli Ebrei, dimostrano che il primo uso del canto fu per indirizzare a Dio inni di lode e di riconoscenza, o per impetrare nelle calamità le sue misericordie. La se parazione dunque della musica dalla poesia non avvenne se non quando gli uomini si volsero a trovar le regole dell'una e del l'altra. Ciò non ostante la musica vocale (nella quale gl'Italiani giustamente ravvi sano la più bella parte dell'arte musicale) ha continuato e continuerà ad essere un'arte ausiliaria della poesia. (V. il discorso pre liminare). V. Filosofia, Musica, Parola. CAoLocìA, grecismo superfluo, col quale si è voluto esprimere la descrizione della materia nello stato del Caos. Faceva parte della antica cosmogonia, ed è stato ancora usato da moderni, che han proposto teorie intorno alla formazione della terra. V. Caos. CAos (spec.), stato della materia, an teriore alla formazione del mondo. Cotesto stato fu dagli antichi immagi nato e descritto, come una sorta di atmo sfera tenebrosa e turbolenta, nella quale trovavansi confuse e sciolte le minime par ticelle della materia, e d'onde sviluppa ronsi le molecule, che han dato forma ai corpi. - Le opinioni del paganesimo intorno alla cosmogonia possono essere ridotte in due classi: l'una di quelli che credettero la ma teria eterna, e il mondo nato nel tempo: l'altra di coloro che dissero eterno il mondo, come la materia. Costoro, in cima a quali sta Aristotele, formano il minor numero. Quelli che credettero il mondo nato, come un frutto della materia, giunta al punto di sua maturità, espressero il concetto del Caos, colla figura o dell'uovo, o del se me della natura, e lo denominarono ar cheo, o sia principio primario di tutte le cose, to afxxoy xxos. Infatti dallo stesso principio derivarono la generazione degli dei, la sostanza de quali ne colse il più bel fiore. Così il caos somministrò i prin cipi, tanto alla cosmogonia, quanto alla teogonia del paganesimo. V. Cosmogonia, 7'eogonia. CAPACITA' (spee.), la virtù di produrre l'effetto, insita in ogni causa. V. Causa, Effetto. Applicata alle operazioni dell'anima, è l'attitudine di acquistare qualche cosa che non abbiamo. Differisce dalla facoltà in quanto che que sta è propria delle doti, che abbiamo per nostra natural costituzione; laddove la ca pacità conviene a quelle conoscenze, ad aver le quali abbiamo dalla natura rice vuto una semplice disposizione, che de'es sere sviluppata per l'uso delle stesse facoltà naturali. E però diremmo, che le operazioni del l'animo son figlie delle sue facoltà, e la scienza figlia della sua capacità. V. Fa coltà, Operazione. Capo (spee.), la parte superiore e prin cipale del corpo degli animali, che rac - 72 - chiude il cervello, e nella esterna superfi cie della quale apparisce il viso o la faccia. In questa la natura ha collocato le aper iure, per le quali gli obbietti esterni pas sano ne sensi. All'uomo, per una special prerogativa è stato dato il capo in alto sol levato, e rivolto al cielo, mentrechè gli altri animali lo tengono inchinato alla terra. In lui questa parte del corpo annunzia prin cipalmente la superiorità della sua spezie: nel viso è impressa la dignità sua: nella fisonomia trasparisce l'immagine dell'ani na: gli occhi riſlettono la luce divina, di cui lo spirito è irradiato: il movimento e lo sguardo loro danno al suo portamento quel nobile contegno, che è indizio del do minio e dell'imperio datogli dalla natura sopra tutte le cose create. Esso soprastà ianto alla terra, quanto appena la tocca con quella picciola estremità che serve di base alla bella e svelta mole del suo corpo. Nulla di più bello del capo dell'uomo ha fatto la natura in tutta l'immensa varietà delle forme degli animali, e tra le parti del capo nulla di più sublime del viso, e di quel che diciamo aspetto, o volto. V. Faccia , Volto. CARATTERE (diso. spec. e prat.), segno proprio d'una cosa, per lo quale vien que sta distinta da un'altra. ln cotesto senso si adopera per dinotare le qualità distintive degl'individui, onde possano essere ordinati sotto un dato ge nere. V. Genere. In un senso più speciale, vale segno o figura, delineata sopra carta, o impressa sopra altra materia, per esprimere o rap presentare un nome, una idea, o un'altra cosa qualunque. V. Segno. È una denominazione propria de segni, ehe rappresentano i suoni articolati, o le lettere dell'alfabeto. Il determinare il va lore e l'uso di tali segni in ciascun alfa beto appartiene alla gramatica particolare delle lingue; laddove il considerare l'uso generale del caratteri, insieme colle regole comuni agli alfabeti di tutte le lingue, ab braccia tutta intera l'arte de segni e della parola, che è la più sublime parte della gramatica generale, o sia della filosofia discorsiva. V. Gramatica. I caratteri, considerati nel senso gene rico di segni rappresentativi così della voce come delle idee, van divisi in tre generi: i letterali, i numerali, e gli emblematici. I letterali, che son le lettere de'comuni al fabeti possono essere suddivisi in due spe zie: i nominali e i reali. I caratteri nomi mali esprimono i nomi delle cose: i reali dinotano le cose stesse o le idee, come quelli de Cinesi e del Giapponesi. Tra i let terali son compresi tutti i caratteri enigma tici, le varie combinazioni de quali ricevono per convenzione un significato arbitrario, ma certo e determinato tra quelli che gli adoperano. Tra caratteri reali debbon es sere annoverati i segni o simboli, de quali fanno uso molte scienze ed arti per espri mere quantità note o ignote, corpi celesti o terrestri, sostanze o modificazioni loro, proporzioni, e misure di tempo e di spa zio. Tali sono i segni che adoperano l'al gebra, la geometria, la trigonometria, l'astronomia, la musica, e le arti mediche e chimiche. Caratteri reali sono pure le ab breviature, per le quali così gli antichi co me i moderni hanno inteso facilitare la com prensione del discorso, o dare alla scrit tura una celerità eguale alla parola. Esempi di queste abbreviature sono le note e le sigle de Romani, e i vari trovati della ta ehigrafia e della stenografia. V. Steno grſia, Tachigrafia. - – 75 – I caratteri numerali sono i segni, pei quali esprimiamo i numeri, o che questi segni sieno diversi dagli alfabetici, come gli arabici; o che sien presi dallo stesso alfabe to, come i romani, i greci, e gli ebraici. I caratteri emblematici son quelli che esprimono le idee e le cose con figure ed allusioni, di che possono servire di esem pio i geroglifici Egiziani, i runi degli Sve desi, i segni allegorici d'ogni sorta, e tra questi gli emblemi araldici. V. Araldica. Un'altra partizione di caratteri fu proposta da quei filosofi che desiderarono di avere una lingua universale, spezialmente per comodo delle scienze. Costoro chiamarono particolari i segni alfabetici comuni, e universali quelli, dequali avrebbe dovuto essere composta la nuova lingua filosofica, e che formato avrebbe una nuova spezie di caratteri reali. - Il primo tentativo di tali nuovi caratteri fu fatto dal vescovo inglese Wilkins, e da Dalgarno. Lo scopo che entrambi si pro posero fu di trovar de segni i quali dino tassero le cose e non i nomi, per modo che ciascuno, qualunque lingua egli par lasse, potesse concepire la cosa o l'idea, che quei segni dinotavano. Così nel ca rattere destinato ad esprimere l'idea del bere, il greco avrebbe letto il suo verbo rivery, il latino bibere, il francese boire l'inglese to drink, e il tedesco trincken. A questo modo pensavano essi, che la di versità degl'idiomi e delle scritture, la quale è il principal ostacolo all'avanzamento delle scienze, sarebbe stato rimosso; ed ognuno ritenendo il natio linguaggio, avrebbe po tuto comunicare con tutti i popoli della ter ra. Leibnitz vagheggiò la stessa idea, ma credette che i due nominati scrittori inglesi, non si fossero bene apposti circa il mezzo da essi scelto. Più opportuna credette una sorta di carattere reale, che somigliasse a quelli dell'algebra, i quali sono semplici, espressivi, e non hanno nulla di superfluo o di ambiguo. Promise egli un alfabeto dell'umano intelletto al quale da più tempo lavorava, e di cui la morte sua impedì il compimento. Un altro più ingegnoso pro getto apparve nel giornale letterario del l'anno 172o per la formazione d'un carat tere universale, composto colle sole cifre dell'arabico algoritmo. Cercavasi con quel lo dimostrare, che se le combinazioni delle sue nove figure bastano ad esprimere la smi surata quantità de numeri, possono a mag giore ragione essere sufficienti a significare i fatti, i bisogni e i pensieri umani. L'es sere le cifre arabiche a tutti note, rimove va, a senso dell'autore, le difficoltà che si sarebbero scontrate con nuovi segni; sic come la semplicità del linguaggio avrebbe offerto altri inestimabili vantaggi. Tali van taggi sarebbero stati: 1.º l'incorruttibilità di cotesto linguaggio, inalterabile nelle sue espressioni: 2.º la facilità che ogni nazione avrebbe avuto di pronunziarlo a suo mo do, senza che i caratteri scritti avessero potuto presentare idee diverse ad uomini di diversa lingua: 3.º l'unità del vocaboli, dacchè la stessa cifra avrebbe dimotato il genere e il caso del nome, il modo o il tempo del verbo, e così di tutti gli altri accidenti della parola: cotesti accidenti sa rebbero stati indicati con una delle lettere comuni, delle quali una particolar grama tica avrebbe indicato l'uso. Dopo di quel tempo i voti d'un carattere universale scientifico hanno taciuto. Noi non sapremmo dire se cotesti voti dovessero es sere annoverati tra le utopie de filosofi, o tra i desiderati della filosofia. Lo stesso vocabolo ha ancora un signi ficato morale e intellettuale, e vale o se 10 – 74 – gno di un dato sentimento; o nola di stintiva dell'indole degli uomini o degli eroi; o costante maniera di pensare e di operare; o un coerente proposito dello in telletto nella scelta de pensieri e dell'espres sioni, adattate all'obbietto del quale si oc cupa. Nel primo senso, diciamo che ogni sentimento o passione ha il suo carattere: nel secondo, han parlato i diversi scrittori de caratteri, come Teofrasto, Du Mou lin, Pascal, De la Chambre, e La Bru gère: nel terzo, lodiamo o biasimiamo, coloro, i quali non ismentiscono mai nei loro pratici portamenti un principio lode vole o riprensibile che li muove: nel quarto finalmente parliamo del carattere del bel lo, della poesia, del dramma, dell'epo pea, della musica, e d'ognun'altra delle arti belle. Gli altri significati di questo vocabolo appartengono al dizionario comune della lingua. CARATTERISTICA (crit. e ontol.), arte o scienza immaginata da Leibnitz, come la sorgente delle nozioni nelle quali è fon data l'algebra sublime, o sia il calcolo degl'infiniti. E però fu anche da lui de nominata arte combinatoria delle gran dezze, o arte speciosa generale. V. Cal colo, Infinito. Per meglio dichiarire una tal definizio me, giova riportare il concetto del cen nato autore ne termini stessi, ne'quali fu da lui espresso: «Tutto quel che l'alge bra dimostra è un prodotto di quella supe riore scienza, che io chiamar soglio com binatoria caratteristica, che è ben diversa da quella che cader può sotto la comune intelligenza. Incerta e oscura è per noi la nozione dell'infinito, del minimo, del massimo, del perfettissimo, e di quel che ne costituisce l'essenza. Coteste nozio ni debbono essere scrutinate da quel cri terio, che per singolar benefizio della na tura ci è stato concesso. Coll'aiuto di tal criterio, e con una quasi meccanica ope razione noi possiamo rendere manifesta e invincibile la verità delle cennate nozioni. L'algebra, di cui meritamente facciam tam to caso, è una parte di tal metodo: l'utile ufizio ch'ella ci presta, è di farci vedere la verità, dipinta sulla carta, quasi per opera d'una macchina. In somma cotesta scienza caratteristica è superiore alla ma tematica, pari a lei in certezza, maggiore in virtù ed efficacia, perchè separa le ra gioni speculative dalle figure sensibili, e dalle immagini ». Non potè Leibnitz in tutto il corso di sua vita adempiere il voto, in che egli era, di dettare i principi e le regole di quest'arte, e si dolse nella vecchiezza, che le forze più non gli bastassero per vacare a tanta opera. CARATTERISTICo (dise.), che ha un se gno atto a farlo distinguere da ogni altra COS0, , È proprio de'segni, o delle qualità che distinguono il genere, come il proprio fa distinguere la spezie. V. Spezie. CARITA' (prat.), amore illuminato da virtù. V. Amore, Virtù. E proprio dell'amore che portiamo a Dio, e a nostri simili. CAso (diso. spec. e prat.), termina zione del nome, introdotta da gramatici per esprimere le diverse relazioni, che le cose possono avere tra loro. Coteste rela zioni sono nel discorso espresse, o colle preposizioni, o co casi. V. Preposizione. - 75 - Le varie terminazioni date ad uno stesso nome furono introdotte nel linguaggio per non moltiplicar parole in ogni esigenza del discorso. E però i nomi son diversamente terminati, ora per distinguere il genere, ora per indicare il numero, e ora per espri mere qualche grado di comparazione nella loro qualità o quantità. Lo stesso si è pra ticato in talune lingue per esprimere le re lazioni da cosa a cosa; essendosi in altre provveduto a tal bisogno colle preposizioni. La lingua italiana e la francese son di que ste, perchè conoscono una sola termina zione, e si valgono delle preposizioni per distinguere le cennate relazioni. La lingua inglese ammette due terminazioni; l'ale manna quattro; altre lingue moderne un numero maggior di queste. Tra le anti che la greca e la latina fecero maggior uso del casi, avendone quella avuto cin que, e questa sei, in ogni nome. I casi de greci eran cinque, compreso il caso ret to, cioè nominativo, genitivo, dativo, vocativo, e accusativo. I latini aggiun sero a questi il sesto, che è l'ablativo, V. queste voci, La denominazione di caso è rimasa an cora nelle lingue, che non conoscono di verse terminazioni ne nomi; tanto perchè l'hanno adattata agli articoli e asegnacasi, che accompagnano il nome; quanto perchè tali diverse terminazioni sono generalmente riconosciute come indispensabili ne promo mi. V. Articolo, Pronome, Segnaeaso. Caso vale pure specie del fatto, di cui deesi ragionare o giudicare. Il trattare le materie per casi, essendo stato una nota distintiva degli scolastici, ha fatto loro dare il nome di Casisti. V. Sco lastico. Caso significa ancora l'effetto, di cui non sappiam discernere la causa, neces saria o libera che sia; o che nascendo da una causa mista di necessario e di libero, non possiam discernere da qual parte del le due provenga. V. Causa, Effetto, Li. bero, Mecessario. CASTITA' (prat.), costante astinenza dai disordinati appetiti della voluttà. Gli antichi filosofi la predicarono come il principal fondamento della virtù: eum homini Deus nihil mente praestabilius de disset, huie divino muneri ae dono nihil esse tam inimicum, quam voluptatem, nee enim libidine dominante, temperan tiae locum esse, negue omnino in volu platis regno virtutem posse consistere. Di questo argomento fece il suggetto del suo discorso Archita, allorchè Platone volle ascoltarlo. CATACLISMo (teol. ), inondazione delle acque che copersero la terra dopo la sua prima creazione. V. Creazione. Che la terra abbia sofferto la catastrofe d'una generale inondazione, è un fatto di cui la verità è concordemente attestata dal la divina autorità, dalla storia naturale, e dalle vestigie, che ancora ne scopre la geologia. - - CATACUSTICA (crit.), parte dell'acustica, che tratta della ripercussione de suoni, e spezialmente dell'eco. - CATADIoTTRICA (crit), voce composta per esprimere la cognizione degli effetti, tanto della luce riflessa, quanto della refratta. CATALEPSIA. V. Comprensibile. CATEGORIA (dise. ), partizione logica, introdotta da Aristotele o da Porfirio, per n la quale gli obbietti tutti della umana com prensione, erano ordinati e ridotti in dieci classi, cioè la sostanza, la quantità, la qualità, la relazione, l'azione, la pas sione, il tempo, il luogo, la posizione, la maniera. V. queste voci. Locke pretese di ridurre a tre le dieci ca tegorie degli aristotelici, cioè la sostanza, il modo, e la relazione. Ma cotesta par tizione, siccome osserva il dottore Reid, è certamente più incompiuta della prece dente, dapoichè mancano in essa il tempo, lo spazio, il numero, tre importanti ob bietti dell'umano pensiero. Più plausibile sembra il dire, che una partizione generale di tutti gli obbietti del pensiero, può essere approssimativa, e non esatta, dapoichè non potrebbe esser fatta, che da una mente la quale avesse a se presente tutto l'aggregato del cennati obbietti, il che oltrepassa la capacità delle umane facoltà. E quando simili partizioni, forse oppor tune alla memoria, fossero dimostrate egual mente utili all'arte di ragionare, dovreb besi confessare, che la partizione degli ari stotelici è preferibile a tutte le altre da se guenti riformatori proposte. Le categorie furon dette ancora predi camenti, perchè proprie a spiegare la natura di tutti i termini che entrar pos sono in qualunque proposizione, o come subbietti, o come predicati. V. Predica mento, Predicato, Proposizione, Sub bietto. Bacone credette utile l'uso delle catego rie, o predicamenti, per evitare la con fusione e la trasposizione de limiti stabiliti dalle definizioni e dalle partizioni. Circa l'utilità in generale di queste e del le altre partizioni della logica artifiziale, ne sarà parlato altrove. V. Logica, CATEGORICo (disc.), semplice, assoluto, e non condizionale. V. Assoluto, Condi zionale. I logici chiamarono categorico il sillo gismo positivo, come contrapposto di con dizionale. V. Sillogismo. - Categorico è stato comunemente detto ogni ragionamento, il quale presuppone dimostrati i principi, che assume come veri. CAToTTRICA (crit.), scienza della luce riflessa. E quella parte dell'ottica, che ricava dallo specchio le leggi della riflessione della luce. CAUSA (ontol.), l'azione produttrice del cangiamento, o sia dell'effetto. V. Can giamento, Effetto. - Dalla varietà del significati, che questo vocabolo ha nell'uso comune del parlare, han preso occasione i filosofi di formare tanti diversi generi di cause, quanti sono i sensi, ne quali la stessa voce è adoperata. Noi chiamiamo causa non solamente il principio operatore del cangiamento, ma ancora il fine dell'agente, e qualunque ragione o circostanza connessa coll'effetto, ed allo stesso antecedente. E però gli ari stotelici distinsero le cause in quattro ge neri, cioè l'efficiente, la materiale, la formale, e la finale. Causa efficiente dissero essere l'ente, dalla cui azione nasce l'esistenza d'un altro, come per esempio l'architetto è causa effi ciente dell'edifizio: causa materiale chia marono il suggetto stesso, sul quale opera l'agente, come per esempio il marmo per rispetto alla statua, che da esso è formata: formale fu detta la causa che determina una cosa ad essere quel che è, onde la for male unita alla materiale produce il corpo o sia il composto: finale dissero quella, la quale muove l'agente verso lo scopo suo, come la scienza è la causa finale dello stu dio, la cura del corpo l'è della sanità, il lucro, della industria economica e della negoziazione. - Sopra questo esempio le scuole moltipli carono la suddivisione delle cause; e di stinsero la causa efficiente in prossima o rimota, e le altre cause in fisiche, mo rali, interne, esterne, mediate, imme diate, subordinate, impulsive, prinei pali, ausiliarie, instrumentali, prima rie, secondarie, uniche, concomitanti ec. Tutte le cennate distinzioni sono impro priamente risguardate come generi di cause, dapoichè non hanno tra loro somiglianze di qualità tali, che possa fare in esse rav visare nulla di comune; ma sono piuttosto diverse significazioni date dall'uso al me desimo vocabolo per analogie ricavate da prette apparenze. E però giova risguardare qual significato proprio del vocabolo causa quello dato alla efficiente; siccome conviene riferire il vero principio della causa alla volontà, e alla potenza attiva degli Esseri intelligenti. V. Potenza, Volontà. - Ma la volontà degli Esseri creati presup pone quella del primo Essere, il quale è la vera causa efficiente della esistenza loro; ed è insiememente la prima causa dell'uni verso e delle leggi sue. Avendo Egli im presso moto, forme e vita alla materia, gli effetti naturali che risultano dall'ordine generale riconoscono altrettante cause se condarie o immediate, le quali debbono essere considerate come mezzi o instrumenti della prima causa efficiente, che è nella volontà del supremo Fattore. Son queste le cause dette fisiche o secondarie, delle quali la distinzione, se non propria a ri spetto del vocabolo, è utile alla chiarezza del linguaggio. - - L'investigazione delle cause fisiche è pro pria della filosofia, la quale ne fa un dop pio uso, o per derivare dall'ordine dell'uni verso l'esistenza di Dio, e per ispiegare le leggi generali de fenomeni de quali l'uo mo è spettatore: coteste leggi considerate, come la scala per la quale ascendiamo alla cognizione del supremo Autor loro, son quelle, che da metafisici son dette cause finali. - Lo studio delle cause fisiche, indirizzato al solo fine di conoscere le leggi e l'ordine col quale avvengono e si succedono i feno meni naturali, ha, secondo Newton, due parti: una, si propone di scoprire le leggi della natura, mediante l'osservazione e la sperienza: l'altra, di applicarle alla spie gazione de'fenomeni naturali. Per dare dun que della causa fisica una definizione la quale meglio corrisponda alla realità della cosa definita, diremo ch'ella è una legge della natura, di cui è un effetto necessa rio il fenomeno che ne dipende. V. Leg ge, Natura. Cotesta legge non pertanto non è la vera causa dell'effetto, dapoichè ci lascia igno rare com'ella operi, e qual connessione mediata o immediata albbia colla volontà del primo agente. Da ciò segue, che le sole cause efficienti, delle quali abbiam certezzza, son quelle che partono dalla volontà e dalla potenza nostra; sì che da queste ricaviamo la prima nozione della causa. V. Potere. l sapienti antichi, i quali vollero tutto ridurre al principio della necessità, e ta luni de'moderni, che han con diversi nomi riprodotto gli antichi errori, non han con siderato la causa se non pel suo collega mento sensibile coll'effetto, e l'han definita come un fatto antecedente, che è costante mente seguito da un altro seguente. Tal'è la definizione di Blume! Ma costoro deſini - 78 - scono l'effetto e non la causa, e per non definirla, rinegano un principio della na tura, ed insiememente la stessa loro con vizione. A rispetto di costoro conviene rad drizzare la definizione; e prima di accer tarsi se vogliano essi entrare nell'investi gazione del principi d'ogni fenomeno na turale, conviene proporre loro l'avvertenza di Cicerone: non sie causa intelligi de bet, ut quod cuique antecedat, id ei cau sa sit, sed quod cuique efficienter an tecedat (de Fato C. XV.). V. Mecessità. Cause occasionali furon dette da me tafisici quelle, che operano mediatamente, o sia che ricevono la forza loro per mezzo d'un altro agente. In un senso più spe ciale son quelle, che secondo la dottrina del P. Malebranche spiegano il commercio tra l'anima e il corpo. Cotesta dottrina ri duceva tutte le cause naturali del fenomeni a pure cause mediate, alle quali soprastà la volontà di Dio, che le fa agire per la sua immediata intervenzione. Siccome gl'inconvenienti della dottrina dell'influsso fisico diedero origine a quel la delle cause occasionali; così gl'incon venienti di questa ipotesi suggerirono a Leibnitz l'altra dell'armonia prestabilita, V. Armonia, Influsso, Ipotesi. CAUSALITA' (ontol. ), la nozione della causa, astrattamente considerata come la virtù operatrice dell'effetto. E però principio della causalità è stato denominato il noto assioma, che tutto quel che ha cominciato ad essere, è prodotto da una causa. Della verità di tal massima l'uomo at tigne in se stesso la convizione, dapoichè d'ogni nostra azione riconosciamo come causa la volontà e l'attività di cui la na tura ci ha dotato. E siccome non possiamo altrimenti risguardare la volontà, che co me attributo di Essere intelligente e li. bero, così la ragione si serve di tal verità quasi di grado per ascendere alla cogni zione di altre cause ignote. In fatti la co scienza ci rivela la connessione necessaria tra la nostra esistenza e la volontà d'un Essere maggiore che l'ha prodotta, donde quell'altra verità, compagna dell'io esisto, cioè v'ha un autor della mia esistenza. V. Io. Facendo di poi uso dell'induzione, si connaturale alla ragione, noi trasportiamo il principio della causalità dagli obbietti interni agli esterni, il che può dirsi che intervenga in uno de tre seguenti modi: o quando gli obbietti esterni esercitano un'azione sopra i sensi nostri, nel quale caso risguardiamo gli obbietti stessi come cause delle nostre sensazioni: o quando giudi chiamo del fatti degli altri conviventi, co me facciam de nostri propri: o finalmente quando dalla connessione di due fatti che si succedono necessariamente l'uno, all'al tro, giudichiamo che avvenuto l'uno, debba avvenire ancora l'altro. V. Induzione. Così il principio di causalità è la fiac cola che rende utile la sperienza, ed in siememente ci è guida all'investigazione di tutte le verità ignote. Dalla continua ap plicazione che di esso facciamo, ricavia mo una conclusione generalissima, cioè che non si dà effetto senza causa. In fine quando colla guida di tal princi pio ci rivolgiamo alla contemplazione della grande opera dell'universo; e quando con sideriamo che la volontà del Primo Es sere, contiene in se la causa di tutte le creature, e dell'ordine maraviglioso col quale le parti dell'universo son tra loro collegate; che quella volontà ha impresso le sue leggi non solamente allo spirito, - 79 - ma anche alla materia, e che ha dato ai corpi forze attive individuali, le quali si spiegano secondo l'ordine universale; da questa contemplazione apprende la ragione a distinguere le cause immediate, le quali operano per una virtù loro comunicata, dalla primitiva ed originale. Da tal distin zione ricava ella la partizione delle diverse cause, partizione che in sostanza non è se non l'espressione del principio della cau salità, considerata ora nella potenza del l'agente, ed ora ne mezzi predisposti e adate tati al suo fine. V. Causa. - Da tuttociò segue che il principio di eausalità, è una verità insita nell'animo, o una illuminazione della natura, manife stata dalla coscienza, e generalizzata dalla sperienza e dal ragionamento. Per esso pe netriamo nella cognizione della natura este riore; formiamo le prime induzioni che possiamo risguardare come i tipi de mostri giudizi intuitivi; acquistiamo la nozione della sostanza, o sia d'un subbietto nel quale riseggono le qualità sensibili delle cose; distinguiamo le qualità de corpi, e formiamo le nozioni delle essenze loro ; spieghiamo le cause immediate del feno meni naturali, e ci apriamo la strada a conoscerne le leggi. V. Induzione, Prin eipio, Qualità, Sostanza. Newton ricavò dal principio della cau salità due delle sue cardinali regole del filo sofare, cioè che nella spiegazione de fe nomeni debbono essere ammesse quelle sole cause, che sono le più semplici e le più atte a produrre l'effetto; e che agli effetti na turali dello stesso genere conviene, per quanto è possibile, assegnare le cause me desime. V. Effetto, Fenomeno, i - º i CEREBRo o CERVELLo (spee. ), viscere composto da sostanza corticale e midolla re, racchiuso nella cavità del cranio, nel la quale han centro tutti i nervi della vita animale ; e però è sede delle sensazioni. Cotesta definizione appartiene propria mente all'antropologia e alla notomia ge nerale, perchè il cervello è l'organo ca ratteristico di tutti gli animali vertebrati. Ma siccome nel punto d'onde muove l'azione de'nervi, che è il principio della sen sibilità e della vita sensitiva, si è creduto che risedesse ancora il sensorio comune, o sia il principio e la sede delle facoltà percettive dell'anima; così la filosofia spe culativa richiama a se la conoscenza delle funzioni di quest'organo, tanto per distin guere il fenomeno sensibile dall'intellet tuale, quanto per dileguare gli equivochi che nascer potrebbero dalle opinioni di co loro, i quali hanno riposto l'origine del pensiero nelle materiali funzioni dell'or gano medesimo. Per evitare gli errori che nascer potreb bero da tal confusione, e per rispondere a quelli che lasciansi illudere dalle mate riali apparenze, gioverà stabilire due or dini di fatti, uno che appartiene alle fun zioni de sensi, e l'altro all'azione dello spirito. Ma prima di venire a tal compa razione uopo è conoscere alquanto meglio la struttura dell'organo, di cui vogliam conoscere le proprietà. Il cervello è rivestito di due meningi o membrane principali, una crassa detta dura madre, l'altra te nue denominata pia madre, tra queste una terza sottilissima e trasparente, deno minata aracnoide, lo involge interamente senza contrarre con esso aderenza. Delle due la prima esterna e crassa situata im mediatamente dopo il cranio, cui serve di periostio interno, lo riveste in tutti sensi e forma una spezie di tunica ai tronchi de nervi più grandi; la seconda fina e di - 80 - licata situata sotto l'aracnoide, è perfetta mente aderente al cervello, di cui abbraccia anche le parti sinuose. La sua massa per una duplicatura della dura madre, detta falee, resta divisa in due lobi, che son detti destro e sinistro emisfero, comechè tuttaltro che sferica sia la figura del cervel lo. Le sue parti principali son tre: il cerebro propriamente detto: il cerebello o cervel letto, che è diviso dal cerebro per un'altra duplicatura della dura madre: e il midollo allungato, che è un prolungamento del cerebro e del cerebello nel punto di loro congiunzione. Tutte tre le denominate parti son quelle, che con termine più generieo i notomisti chiamano encefalo. Parlando prima delle moltiplici coperture, colle quali ha voluto la natura custodire la parte de licata e fibrosa di questa sostanza, sede della vita, vuolsi notare, che doppia è la qualità della sostanza cerebrale, una este riore, detta corticale, l'altra interiore: quella molle, umida e di color cinerizio, questa più secca della corteccia, bianca, e fibrosa, nella quale risiede la forza sen tente. Entrambe sono involte sotto un'altra esterna copertura, che è il cranio, com posto di due tavole o lamine ossee, messe l'una sopra dell'altra, e tra le quali è la diploe, sostanza spugnosa, composta di fibre ossee, distaccata dalle due lamine, e piena di cellulette di varia grandezza. Passando poi alle interne parti dell'orga no, null'altro di certo ci dice la scienza del notomista, se non quel che l'occhio osserva. Due grandi sorgenti di fibre bian che , ed altre accessorie ed innumerevoli si diramano pel cervello. Una di quelle due ha per suo tronco il midollo allungato, ed è composto di sei fascetti strettamente uniti, i quali diramansi prima per lo cer relletto, e poi per lo cervello, espanden dosi come dal centro alla periferia. Le fi bre dell'altra sorgente prendono origine da tutti i punti della sostanza corticale, come radici dalla terra, e camminano verso le parti centrali, seguendo una direzione del tutto opposta a quella delle fibre della pri ma sorgente, co fascetti delle quali s'in crociano. Colesti due ordini di fibre ac compagnati dagli altri fascetti fibrosi che provengono da numerosi gruppi della so stanza corticale, co quali scontransi cam min facendo, non solamente vanno dal centro alla periferia, e tornano da questa a quello, ma passano dall'uno emisfero all'altro del cervello, e dall'altro all'uno, formando così le numerose commessure, che uniscono le due parti della sostanza cerebrale. - In questa tela nervosa i notomisti distin guono diverse paia di nervi, che presie dono rispettivamente alle sensazioni, come i nervi ottici, i motori degli occhi, gli ol fattori, i patetici, i gustatori, gli auditori, ed altri. Per quel che concerne le funzioni di cia scuna delle parti del sistema cerebro-spi nale, noi abbiamo più congetture che co noscenze; e tutto quel che v'ha di men dubbio, lo desumiamo dalle deduzioni del l'anatomia comparata, e dalla notomia pa tologica. Certamente, reciso un nervo, o impedita la sua comunicazione col cervello, le parti insino alle quali quel nervo si esten de, perdono in un istante sensibilità, e moto; siccome pure compresso il cervello, ogni animale cade subitamente nel letargo. Adunque il fatto sicuro è, che quest'organo sia il centro delle sensazioni e del moto; ma in qual modo esso eserciti tali funzioni, e in qual parte spezialmente risieda la sua virtù, è un mistero. Se misteriosa è l'azione meccanica de nervi, più impenetrabile è - 81 - l'associazione del pensiero al movimento di quelli. Taluni fisiologisti per molto tempo han fatto credere, che siccome i lobi del cervello formano l'organo necessario del pensiero, così il maggiore o minor volume di essi fosse l'indizio della maggiore o mi nore perfezione delle facoltà intellettuali del l'uomo. Altri han dato alla estensione delle superficie del cervello, quel che i primi conceder volevano al volume. Ma la con gettura del primi (se potesse istituirsi pa ragone tra l'intelligenza dell'uomo e quella de bruti) sarebbe smentita da un fatto, dimostrato dalle osservazioni del più accu rati naturalisti, che talune scimie del nuovo mondo hanno un cervello in proporzione più grande di quel dell'uomo, mentrechè non hanno veruna superiorità d'intelligenza a rispetto di tutti gli altri loro congeneri. La seconda poi è distrutta da due radi cali ragioni, che rendono falsa ogni com parazione tra le facoltà sensitive e le in tellettive, e molto più escludono il para gone tra i bruti e l'uomo. Imperocchè se è affatto ignoto il punto in cui si scon trano le sensazioni coll'azione dello spiri to, non v'è alcuna analogia a stabilire tra quelle e questa. Potrebbero forse le os servazioni della notomia stabilire per cer to, che quanto maggiore è il volume o l'estensione de lobi del cervello, tanto più grande sia l'eccitabilità nervosa e la fa coltà sensitiva d'un uomo, o d'un altro animale mammifero qualunque; ma dopo di aver dimostrato questo fatto, resterebbe un altro grande salto, che è il passaggio dal senso all'intelletto. Con quali regole d'analogia potrebbesi da quello a questo argomentare ? E siccome le osservazioni de notomisti sono state fatte tutte sulle qua lità del cervello, che distinguono le spezie e non gl'individui; così dobbiamo tenerle come inconcludenti nella dimostrazione del fatto da essi presupposto. Il rapporto tra l volume o l'estensione del cerebro, e l'in telligenza umana potrebbe solamente ac quistare qualche grado di verisimiglianza, quando essi ci presentassero la sezione del cervello di Bacone, di Galilei, di New ton e di Leibnitz, con una serie di con trapposti, cioè di uomini tanto noti per bassezza di mente, quanto quelli furon ce lebri per chiarezza e sublimità d'ingegno. Sin qua noi escludiamo l'analogia per la ragione, che logicamente non se ne può istituire alcuna tra le cose ignote. Ma v' ha un'altra via, per la quale dalla di versità degli effetti si può dimostrare la di versità delle cause che li produce. E per tal via camminando, se non potremo spie gare l'essenza delle sensazioni, nè inten dere l'intima relazione, che queste hanno colle funzioni del pensiero, riusciremo al meno a conoscere la diversità della ori gine loro, e a stabilire una verità certa, cioè, che non è permesso confondere quel che la natura ha distinto. Tal è lo scopo de due ordini di fatto, del quali abbiamo testè parlato. Un di essi dimostra quel che può riferirsi a sensi; l'altro quel che appartiene esclusivamente alla sostanza pensante. Primo ordine de fatti sensibili. 1.º Gli obbietti esterni feriscono i no stri sensi: ferire i sensi altro non è che scuotere i nervi portatori delle sensazioni: i raggi del sole, o di altro corpo lumi moso diretti o riflessi che sieno, scuotono i nervi ottici; l'aria mossa dalle vibrazioni de corpi sonori scuote i nervi acustici; gli odori, quelli dell'odorato; il sapor delle vivande, quelli del palato. II 2.º Lo scuotimento denervi si comunica insino alla radice, o al principio (come voglia dirsi), che è nel cervello. Simili ad un minutissimo filo ben teso, mosso uno de suoi estremi, muovesi ancora l'al tro. Nel sonno, stato in cui i nervi sono men tesi, le impressioni o non giungono insino al cervello, o leggermente lo toc cano, il perchè o non sono avvertite, o avvertite, ci ridestano. 3.° Lo scuotimento denervi produce la sensazione, la quale dura per quanto con tinua l'impressione che i nervi han ricevuto. 4.° L'impressione che i nervi ricevono per tanto è avvertita, per quanto ne sono toccati gli estremi del nervi stessi, che stanno nel cervello. Parlando ora di quella sola avvertenza, che è propria della potenza sensitiva; l'uomo del pari che ogni bruto riferisce la sensazione non al cervello, ma al punto in cui succede l'impressione: ri ferisce l'obbietto veduto all'occhio, il sa pore alla lingua o al palato, la puntura alla estremità del piede punto, e così via discorrendo. 5.° Le impressioni sensitive e lo scuo timento del nervi possono intervenire an cora nell'interno del nostro corpo, come nel caso della fame, della sete, e d'ogni dolore cagionato sia da infermità, sia da alterazione degli organi interiori. In que sta spezie di sensazioni noi non vediamo nè l'obbietto che le produce, nè il modo col quale esso agisce sopra di noi; ma non pertanto riferiamo l'esigenza o il do lore all'organo che n'è affetto. Da ciò se gue che nelle sensazioni esterne l'Essere sentente avverte due cose, cioè l'obbietto e l'impressione, nelle interne la sola im pressione; e d'altra parte ignora come l'obbietto abbia operato su sensi, e come i nervi trasmettano l'impressione ricevuta al cervello. La stessa intelligenza umana non conosce come sentiamo, nè quel che succede nenostri organi interni, e ignora persino che il cervello abbia una parte nelle sensazioni. La sensazione è per se stessa muta nell'uomo, come ne bruti: ella non può intendere nè spiegare se stessa; e se l'impressione rimanesse nel cervello, noi non conosceremmo altro che il piacere o il dolore sensibile, o saremmo indiffe renti spettatori degli obbietti che ci ven gono da sensi esterni; o tutto al più teme remmo quelli che ci hanno una volta offe so, o che ci spaventano per la loro novità, e ci addimesticheremmo con quegli altri, che per esperienza conosceremmo non es serci nocevoli. Per intender dunque che è la sensazione, e per penetrare nella cogni zione del corso ch'ella fa per mezzo dei nervi insino al cervello, noi abbiam biso gno del ragionamento, che è certamente fuori de nostri organi. Senza di esso non avremmo potuto fare l'autopsia di noi stes si, e molto meno conosceremmo, che sono i nervi e il cervello. Ora il ragionamento è la proprietà d'un Essere certamente di verso dagli organi, il quale raccoglie i fatti, ne scopre le relazioni, conosce l'uso che dee fare degli organi stessi, e da que sta conoscenza perviene a quella de fini per cui ne siamo stati dalla natura prov veduti. Un tale ragionamento si va in noi sviluppando per un'altra serie di fatti pa ralelli, i quali successivamente si presen tano alla intelligenza dell'Essere pensante. Secondo ordine defatti intellettuali. 1.° La prima funzione dell'Essere pen sante è l'avvertenza dell'obbietto esterno, che la sensazione gli presenta. L'Essere che avverte è l'anima, lo spirito, la ragione – 85 – umana: l'operazione poi dell'avvertire, è quel che dicesi percezione: nella percezione l'anima non solamente avverte l'obbietto, ma forma l'idea dell'esistenza di esso, co me d'un altro Essere posto fuori di se. 2.° Noi abbiamo testè detto, che nelle interne sensazioni sentiamo l'impressione e non l'obbietto. Ma non prima la ragio ne ha acquistato conoscenza della interna sensazione, che ricava ancor quella del l'obbietto. Sentendo una impressione pe. nosa o gradevole, ella forma l'idea del dolore e del piacere, e le dà un nome, acciocchè possa o ripresentarla a se stessa, o comunicarla agli altri. Che è dunque quest'obbietto, che la potenza sensitiva non vede, e che la ragione distingue? È l'idea generale ricavata dalla stessa sensazione. 3.° Il primo uso che la ragione fa della sensazione è il dedurne quel, che debba ella ricercare o evitare per la conservazione del corpo, che l'è dato per compagno. Il do lore ci fa conoscere, che il corpo o una parte di esso è indisposta, acciocchè l'ani ma si affretti di apprestarvi rimedio, e di evitarlo per l'avvenire. Ciò spiega perchè la sensazione è stata in noi predisposta dalla natura in modo, che potessimo rife rirla alla causa esterna che l'ha prodotta, e al punto della sua impressione. Lo stesso è del piacere: quando il corpo ha bisogno di nutrirsi o di dissetarsi, la fame e la sete genera un dolore, al quale accorre la ra gione. In generale il piacere e il dolore servono di eccitamento all'anima, accioc chè conosca quel che il corpo esige da lei, e contenga gli appetiti istintivi ne limiti di quel che è utile e salutare. - 4.° L'anima avvertita dalle sensazioni non solamente giudica di quel, che è utile al corpo, ma corregge ancora ed emenda l'errore del sensi. Lo stesso obbietto, quan tunque veduto alla medesima distanza, sem bra ora più grande e ora più picciolo; come per esempio la luna a vista dell'orizzonte sembra più grande, e più in alto apparisce più picciola; il bastone diritto in terra, sem bra rotto nell'acqua; l'acqua tepida, toc cata da una mano più calda, sembra fred da; l'occhio a traverso d'un vetro colora to, vede tutti gli obbietti del colore stesso del vetro. In questi e in tutti gli altri casi d'illusione del sensi, che sono innumere voli, noi resteremmo illusi, se l'anima non ci svelasse l'errore, il quale nasce dalla impotenza desensi, o dagli ostacoli, che li mettono fuori dello stato loro naturale. 5.° Ma l'anima fa un uso assai più im portante delle sensazioni, perchè per mezzo loro si solleva molto più sopra della sfera de bisogni del corpo, e spigne i sensi a guardare nella immensità degli spazi del cielo, e a toccare con mano il Creatore de sensi, di se medesima, e di tutta la ma tura. Prendiamo questo quadro da un pit tore maggior di noi: « Quest'anima che raccoglie le nostre sensazioni è rischiarata da principi di eterna verità, ed è dotata di uno spirito investigatore delle relazioni di tutte le cose, e dell'arte di ragionare, e di dedurre conseguenze. Così formata, e piena di tanti lumi, trovasi unita ad un corpo sì picciolo che può essere risguardato come un nulla a rispetto dell'immenso uni verso. Cotesto corpo non pertanto è messo in relazione con quel gran tutto, di cui è una minima parte; e potrebbe dirsi essere un tessuto di fibre finissime, disposte con tale artifizio, che i più forti movimenti non possono alterarlo; nel mentre che non man ca ancora di sentire le più dilicate im pressioni. Notabili son quelle che riceve dal sole, dalla luna (almeno per quel che risguarda l'organo della vista), e dalle r – 84 – più alte sfere, quantunque da noi lontane per incomprensibili distanze. Ora l'unione dell'anima e del corpo è opera di sì buona mano, di tale ordine, e di tal buona cor rispondenza, che l'anima è avvertita dalle sensazioni di quel che succede nel corpo, ne' suoi dintorni, e ad immensurabili di stanze. In ogni sensazione ella scorge nuovi obbietti, o nuove relazioni, delle qualita lune risguardano la sostanza del corpo, cui è unito, e altre gli obbietti che lo cir condano; in modo che da picciol chiuso, in cui trovasi ristretta, estende al tutto le sue relazioni, e vede, per così dire, trac ciato l'universo nel suo picciolo corpo, co me il corso del sole in un quadrante. Per tal mezzo ella acquista conoscenze impor tantissime, come il corso del sole, il flusso e riſlusso del mare, la generazione, la moltiplicazione e le proprietà degli animali, delle piante, e de minerali, ed altre innu merevoli notizie, tutte concatenate tra loro, le quali, e nella generalità e nel partico lare di ciascuna, annunziano il Creatore, a chiunque sappia bene contemplarlo. Da tali notizie compone l'anima la storia della natura, di cui i fatti sono altrettanti ob bietti che feriscono i nostri sensi. E per quello spirito di relazione, di cui è do tata, ne vede la connessione, paragona l'una coll'altra, numera, misura, osserva le opposizioni o il concorso delle forze mo trici, gli effetti del moto e della quiete, l'ordine, le proporzioni, le corrispondenze, le cause particolari, le universali, e le ap plicazioni loro a diversi stati del vivere so ciale. Così, combinando insieme i principi universali suoi propri col fatti particolari, acquistati per mezzo del sensi, penetra ad dentro nella natura, e ne conosce tanto quanto basta per giudicare che il più bello di essa è quel che non l'è permesso di ve dere. Tanta è l'utilità del meccanismo dei nervi, capaci di esser toccati da obbietti sì lontani! E tal'è l'opportunità delle sen sazioni, per mezzo delle quali ella perviene a sì grandi conoscenze (Bossuet) » ! Ora chi potrebbe confondere le opera zioni sensitive colle intellettuali, le une dipendenti dal moto e dalle alterazioni degli organi; le altre da uno spirito su periore al corpo, destinato a governarlo? Se da una parte l'anima dipende nelle sensazioni dalle disposizioni del corpo ; dall'altra, lo trasporta, e ne muove le membra colla volontà e colla intelligenza. Se l'anima fosse solamente intellettuale, sarebbe tanto superiore al corpo, che non potrebbe aver con esso alcun punto di contatto. Ma dall'essere ancora sensitiva, vale a dire unita al corpo, e destinata alla custodia, alla conservazione e alla tutela del corpo medesimo; era necessità che la loro unione fosse durante la vita tale, che si potessero distinguere le sue operazioni intellettive, senza scindere la sua essenza che è indivisibile. E siccome le due sostanze son di natura sì diversa tra loro, che l'una non avrebbe alcun potere sull'altra, se Dio creatore di entrambe, non le avesse, per virtù della sua suprema volontà, messe in una mutua dipendenza; così v ha una spezie di miracolo perpe tuo e permanente, il quale si riproduce in tutte le sensazioni che pervengono all'ani ma, e in tutti i movimenti volontari del corpo. V. Anima, Corpo , Sensazione. CERTEzzA (spee. e prat.), convizione della verità d'una o di più proposizioni. V. Proposizione, Verità. Secondo Leibnitz dovrebb'essere defini ta, la cognizione della verità, tale che eseluda ogni dubbio in contrario. Secondo altri, l'adesione dell'animo ad una proposizione che si considera come VOI'a. - Delle tre dimotate definizioni piace più la prima, perchè non confonde l'atto del giudizio colla conseguenza, che si riferi sce allo stato dell'animo. Locke distinse due spezie di certezza: certezza di verità, e certezza di cogni zione, di verità, l'esatta convenienza o disconvenienza devocaboli colle cose quali in realtà sono: di semplice cognizione, la convenienza o disconvenienza de voca boli colle idee, quali si concepiscono. E siccome noi non possiamo conoscere l'es senza reale delle cose; così ne derivò egli, che tutta la nostra certezza riducesi a quella di cognizione e non di verità. Ecco aperta la porta allo scetticismo, e distrutta la cer tezza di tutta l'umana cognizione! V. Co gnizione, Essenza. Il concetto di Locke è una conseguenza dell'unico principio di cognizione ch'egli ammise, cioè la sensazione. E siccome sta bilì che delle sensazioni non possiamo dare alcuna dimostrazione, così ne ricavò l'al tra conseguenza, che non possiamo avere certezza di quello, che imperfettamente i sensi ci fan conoscere. E quì v'ha uno scambio di due mozioni essenzialmente di verse, certezza cioè e dimostrazione. Se è vero, che gli elementi dell'umana co gnizione sien due e non uno, cioè la sen sazione, e la cognizione di se medesi mo, o sia il senso esterno e l'interno, e se è altresì vero, che la natura ha in noi collocato una facoltà speciale dotata di propria luce, o sia la coscienza, la quale ha in se i tipi della verità, e ci sommi nistra i mezzi da assicurarci della veracità dell'esterno e dell'interno senso; non po trà non ammettersi una sola spezie di cer tezza, comechè ella parta da diverse sor genti. V. Coscienza, Sensazione. La certezza, considerata a rispetto delle diverse sorgenti, per le quali si acquista, è stata distinta in metafisica, fisica, e morale. La metafisica è quella che esclude la contraria proposizione per una impossibi lità assoluta, come per esempio, sarebbe impossibile che tre angoli d'un triangolo non fossero eguali a due retti, e così di tutte le altre verità matematiche. Tale spe zie di certezza è propria delle verità ne cessarie , e dicesi anche dimostrativa , perchè quelle verità solamente son capaci di logica dimostrazione. V. Dimostrazione. La certezza fisica è fondata sopra la realità della natura, o sia sopra un triplice fondamento: la sperienza desensi, l'infal libilità della coscienza, e la verità deprin cipi intuitivi. Ha per suo contrapposto l'im possibile fisico, come sarebbe per esempio, che il contatto del fuoco non bruci la ma no, che il sole non nasca domani, che la coscienza e inganni, che io pensi, ragioni, dubiti, e non esista. V. Matura, Realità. La certezza morale in fine è fondata sopra l'autorità, o sia sopra la credenza che prestiamo alle sensazioni altrui, o che queste sieno il solo fondamento del nostro giudizio, o che vengano da noi chiamate in soccorso delle sensazioni proprie, quando abbiamo motivo di dubitare del retto stato de sensi. V. Autorità, Credenza. Taluni han voluto sconvolgere quest'an tica partizione, limitando la certezza alla sola dimostrativa, e facendo un'ampia classe della probabilità, che han poi suddiviso in diverse spezie di evidenze. Ma cotesta nuo va partizione è impropria, imperfetta, e forse anche tinta degli stessi vizi di quella di Locke, perchè fa scomparire la certezza – 86 - fisica, sopra la quale è fondata l'economia della natura, e che trae seco l'adesione del nostro animo con una forza non mi nore, e diremo anche maggiore della cer tezza dimostrativa. V. Evidenza. Siccome la certezza morale non esclude l'impossibile, nè il dubbio del contrario, così prende il nome di relativa in con fronto delle altre due spezie di certezza, che consideriamo come assolute. Relativa ancora dicesi la certezza nel senso, che l'adesione del nostro animo è sovente determinata, non da tutti gli ele menti necessari alla cognizione della ve rità, ma da quelli solamente che hanno l'apparenza del vero. In questo caso l'as sentimento, fondato unicamente nella ve risimiglianza, produce quella fallibile cer tezza, che è propriamente detta probabi lità. V. Probabilità, Relativo. CERTo (spec. e prat.), addiettivo, quel che seco porta la convizione della verità, Il certo, sostantivamente usato, vale cer tezza. Ne significati soliti del parlar comune, vale reale, determinato. V. Certezza. CHIARo. V. Idea, Mozione. CHIMICA (erit.), arte di conoscere le interne proprietà del corpi per la scompo sizione delle loro molecule. V. Molecula. Una tale scomposizione è quel che di cesi analisi chimica. V. Analisi. La chimica applicata alle diverse produ zioni della natura, è stata una delle prin cipali sorgenti del progressi delle scienze naturali e delle arti. V. Arte, Scienza. CHIRoLoGIA (grec. sup.), arte di espri mersi col gesto. - CmoNoMIA (erit.), arte de pantomimi che si esprimono co gesti. E una delle arti imitative. V. Arte. CHIRURGIA (crit.), arte salutare, che coll'aiuto degl'instrumenti e de rimedi detti topici, cura le ferite e le alterazioni delle membra, e d'ogni parte del corpo umano. E una delle arti mediche maggiore delle altre, tra perchè i suoi giudizi son fondati sopra fatti, e non sopra congetture; e per chè manifesti sono gli effetti delle sue ope razioni. E l'arte riparatrice della esisten za, la quale dà all'uomo un poter simile a quello della natura. Ella presuppone, come tutte le altre scienze mediche, una perfetta cognizione della notomia e della fisiologia; e siccome non opera altrimenti che sostituendo un male curabile ad un altro incurabile, o di più difficile cura gione; così non può essere la chirurgia scompagnata dalle conoscenze patologiche e terapeutiche, che son proprie della me dicina. In conferma di che può essere ad dotto l'esempio d'Ippocrate, che fu ad un tempo il fondatore della medicina e della chirurgia. Il composto dell'una e dell'altra arte è quel che dicesi la medicina chirur gica, e questa è quel che distingue lo scien tifico dal pratico operatore. Del semplice operatore volle Celso additare i requisiti allorchè disse: esse chirurgus debet ado descens, aut certe adolescentiae provi mus, manu strenua, stabili, nec un quam intremiscente, acie oculorum acri claraque, animo intrepidus, immiseri cors. V. Medicina. CIEco. V. pensiero. CIELo (spee. teol. e erit.), lo spazio che contiene gli astri, e che a noi apparisce co – 87 – me una volta azzurrina, e diafana, la qua le copre la terra. V. Spazio, Terra. La teologia di tutti i popoli lo ha con siderato come la sede della Divinità, e co me il più rimoto luogo dello spazio infi nito, nel quale perverrassi a vedere Dio più da vicino; dove Egli manifesta la sua gloria, e dove acquisterassi una più chiara conoscenza degli attributi suoi. Per un naturale istinto lo spirito umano lo risguarda come la sua patria di origine e di destinazione; e l'uomo conta tra le sue prerogative di aver solo tra le crea ture ricevuto un aspetto naturalmente ri volto al cielo. V. Aspetto, Spirito. Il cielo degli astronomi è quella immensa regione eterea, che occupano il sole e le stelle, e nella quale compiono i pianeti il corso loro. - Nel comune parlare scientifico per cielo intendesi tutta la parte dello spazio, che è tra la terra e le più lontane regioni delle stelle fisse. In questo senso suol essere di viso in due parti, cioè il cielo aereo, e l'etereo: il primo più vicino alla terra, è posseduto dall'aria, e forma quel che di cesi atmosfera: il secondo suol esser con siderato, come pieno d'un fluido più leg giero, più chiaro, e meno resistente del l'aria, che è l'etere. V. Aria, Etere. In questo senso noi distinguiamo le pro duzioni della natura in celesti e terrestri, e ci serviamo di tal partizione per distri buire sotto queste due grandi classi leva rie branche della storia naturale e delle scienze fisiche. V. Fisica. Storia naturale. CIGLIo (prat.), corona di peli, che ve stono le palpebre, e i quali sembrano de stimati a preservare gli occhi dagl'insetti, e dagli altri corpicciuoli, che aggiransi nell'aria. V. Occhio, Palpebra. Le ciglia son caratteristiche di tutti gli animali mammiferi: nell'uomo servono an cora a contornare l'occhio, e a dargli gra zia ed espressione: ne giovani contribui scono a rendere lo sguardo più soave, e ne vecchi più grave. CIRCONSPEZIONE (prat.), prudenza, che ha risguardo a più motivi di convenienza. CIRCONVENZIONE (prat.), insidia prepa rata con rigiri, o altre macchinazioni. CIVILE (prat.), tutto quel che si rife risce alla società, o all'uomo, considerato in questo stato. Come addiettivo di storia, V. Storia. CivILTA' (prat.), abito di maniere cor tesi, per le quali si rende ad ognuno il debito onore. CLAssE (disc.), ordine di generi o d'in dividui, che noi formiamo per la compa razione delle qualità loro. Cotesto vocabolo ha due significati, uno antico e comune, l'altro moderno e scien tifico. Classi chiamarono gli antichi le cin que sezioni del popolo, formate per pro porzioni di censo: classi chiamò Cicerone gli ordini de filosofi, paragonati per me rito di dottrina: classi chiamò Quintiliano le compagnie degli scolari messi sotto la scorta d'un comune precettore: classi in fine furono chiamate altre ragunanze e collezioni di cose. In questo primo signi ficato è notabile che lo stesso vocabolo si dà sempre ad una collezione d'uomini o di cose comparate per le qualità loro, comechè talvolta comprenda moltitudine d'individui, ed altra volta pluralità di generi. – 88 – Il significato moderno e scientifico ci viene dalla storia naturale, la quale per abbracciare in una metodica partizione l'immensa varietà degeneri, delle spezie, e degl'individui, che formano la materia delle sue investigazioni; fece tre grandi partizioni di tutte le produzioni della na tura, che chiamò regni, l'animale, il ve: getabile, e il minerale, e suddivise cia scun di essi in classi, generi e spezie. In questo senso dunque la classe è un ge nere superiore, che ne ha molti a se su bordinati. Così gli animali presi insieme, paragonati a vegetabili e a minerali, for mano un regno; ma di questo regno for mano altrettante classi i quadrupedi, i pe sci, gli uccelli, che poi suddividonsi in molti e diversi generi. Vuolsi notare, che cotesto secondo significato differisce dal primo, sol perchè raccoglie generi, e non individui; ma ha collo stesso di comune, che i generi son più, e che l'unione loro nasce del pari dalla comparazione delle qualità simili. Qual de due significati riterrà per se il linguaggio scientifico? È manifesto che il secondo è più logico del primo. Adope rare la voce classe per collezione d'indi vidui, sarebbe un'addoppiatura del gene re; riservarla per quei generi che hanno tanto di proprio e di diverso dagli altri, che indur potrebbe errore o confusione, è una necessità. V. Genere, Individuo, Spezie. - CLAssIFICARE (disc.), vocabolo nuovo ne dizionari, ma comune nell'uso, che vuol dire, ordinare le cose per classi o per generi. Non somministrando il linguaggio un altro equivalente, ed essendo la sua de sinenza affatto italiana, non è chi possa farsi uno scrupolo della novità. Se diciamo dannificare, comechè avessimo un verbo equivalente nel danneggiare, perchè non diremo classificare, che non potrebb'es sere altrimenti espresso? CoESIONE (spec.), forza per la quale le parti d'un corpo sono tra loro unite. V. Corpo. La coesione non è uguale in tutti i cor pi, o sia, le particelle elementari di essi non sono sempre unite insieme con egual forza ; d'onde nasce, che i diversi gradi della coesione producono i tre differenti stati, in cui si trovano i corpi, di soli dità o durezza, di liquidità, e di flui-, dità aeriforme. La coesione è una delle qualità prima rie della materia: senza di essa i corpi non esisterebbero, perchè le loro particelle elementari sarebbero disgiunte e sperpe rate nello spazio. - Noi concepiamo la materia come com posta di molecule impercettibili aderenti tra loro, dall'unione delle quali risultano le parti sensibili del corpi. Cotesta maniera di concepire i composti presuppone necessariamente l'idea d'una forza, che faccia perseverare i componenti nello stato d'unione, ed impedisca ad altra contraria forza il separargli. Questa è quel la forza, che dicesi di coesione. V. Mo lecula. Giacomo Bernulli spiegò la coesione per mezzo della pressione uniforme dell'atmo sfera, e addusse in pruova di tal conget tura l'esempio delle facce levigate demar mi, le quali sono perfettamente aderenti all'aria libera, e sono poi facilmente sepa rabili nel vacuo. Una tal'esperienza è fon data sopra un falso presupposito, e quando fosse vera, potrebbe tutto al più provare – 89 – la coesione delle grandi superficie, e non già l'unione delle molecule. Newton spiegò la coesione per mezzo dell'attrazione, e cre dette che le molecule de corpi si attrag gano a vicenda con una forza, che nel con tatto immediato è grandissima, e che poi va gradatamente scemandosi, insino a per dersi interamente nelle grandi distanze. I chimici ammetton pure l'attrazione mole culare, che chiamano coesione o affinità, secondo che ha luogo tra molecule della stessa, o di diversa natura. V. Affinità, Molecula. Qualunque del dinotati vocaboli da noi si adoperi per ispiegare l'unione delle parti della materia, non facciamo altro che espri mere un puro concetto della mente. La vera causa di quella unione, che dà alla materia le forme e gli aspetti, che si os servano netre stati decorpi sopra cennati, è uno de misteri della natura. Se potessimo giugnere a scoprirlo, avremmo per metà conosciuto l'essenza della cennata sostanza. V. Essenza, Sostanza. CoEsisTENZA (ontol.), la contemporanea durata delle cose, considerate nella attua lità loro, e non come causa l'una dell'altra; o come antecedente l'una e susseguente l'altra. V. Attualità, Durata. Nell'ordine delle cose sensibili distin guonsi le cose coesistenti dalle successive, delle quali è proprio l'antecedente e il con seguente, o la causa e l'effetto. V. An tecedente, Causa. Inoltre le cose coesistenti, comechè di verse e non dipendenti l'una dall'altra, hanno non pertanto una connessione d'or dine tra loro, che le fa tutte servire ad un fine della causa prima. Tal è quel che i metafisici e i teologi han chiamato nesso delle cose coesistenti, nel quale è riposto il più luminoso argomento delle cause fi nali, o sia della suprema intelligenza, au trice e conservatrice dell'universo. V. Dio, Universo. Nell'ordine poi delle idee astratte, i me tafisici han chiamato coesistenza la con nessione necessaria di due o più qualità nel medesimo subbietto. Coesistenti per esempio possono dirsi le qualità caratteristiche o es senziali, per le quali definiamo le sostanze, come il ferro, l'oro, e gli Esseri ciascuno nella natura loro. Locke fece della nozione della coesistenza una delle quattro classi, nelle quali possono essere ridotte tutte le nostre idee di relazione. V. Relazione. Leibnitz chiamò concorso quel che Lc che aveva detto coesistenza; ma la diffe renza del vocabolo nulla aggiugne al me rito del concetto, il quale sembra restri gnere senza alcuna utilità i nostri giudizi di convenienza, e di relazione. CoGITATIvA (spec.), virtù o potenza del l'anima, per la quale l'uomo conosce gli obbietti delle percezioni insieme con tutte le relazioni loro. V. Percezione, Rela zione. - ll Varchi l'adoperò come caratteristica della ragione umana, avendo per con trario chiamato estimativa la potenza più limitata de'bruti, i quali non hanno idee universali, nè astratte; il che sembra poter essere ritenuto come vero. V. Estimativa. CoGITAZIONE (lat. sup.), vocabolo latino adoperato da nostri antichi per pensiero, siccome pure adoperarono essi il cogitare per pensare. V. Pensiero. CoGNIZIONE (spec.), il corredo delle uma ne conoscenze, secondo la naturale capa cità dell'animo. V. Animo, Conoscenza. 12 – 90 – È un vocabolo adoperato promiscuamente per esprimere, ora la somma delle como scenze acquistate, e ora la capacità di acqui starle. Locke la definì: la percezione della connessione e della convenienza di due sdee; e dopo di averla così definita, si valse dello stesso vocabolo per esprimere, ora la facoltà cognoscitiva, ora le cose co nosciute, ed ora l'atto per lo quale l'ani mo giudica della convenienza loro. E ma nifesto, che la sua definizione o non ab braccia tutta la cosa definita, o confonde tre diversi significati. - Per bene intendere quanto difettuosa e ambigua sia la definizione di Locke, gio sa in primo luogo distinguere la cogni zione dalla semplice conoscenza, dacchè questo vocabolo più propriamente si ado pera per esprimere la comprensione delle verità singolari, dal complesso delle quali risulta tutta l'umana cognizione. A tal distinzione prestasi la lingua italiana più della francese, che nel solo vocabolo con naissance confonde i tre significati. In secondo luogo, il giudizio per lo quale l'animo accoglie o rifiuta la conve nienza delle idee e delle relazioni loro ( qualunque sia il significato che possa darsi alla voce cognizione), de avere un significato distinto, perchè necessaria mente interviene nella cognizione, anzi la precede, non potendosi concepire as sentimento alla convenienza o disconve nienza delle idee, o in altri termini, non potendosi affermare o negare, senza il giu dizio. V. Giudizio. Ma quali sono secondo Locke le idee della convenienza, dalle quali risulta la cognizione? Le idee, per lui, sono l'unico obbietto del pensiero: quelle sole l'animo contem pla: non contempla le cose, perchè le co nosce non immediatamente, ma per mezzo delle idee: le idee non sono se non le im magini delle cose: la realità dunque del l'umana cognizione è riposta unicamente nella conformità che le idee hanno con le cose che rappresentano. Prescindendo dalle conseguenze, cui co testo sistema conduce; certamente la de finizione lascia fuori del definito tutti gli obbietti del pensiero, che non possono es sere qualificati come idee, e tutte le verità che noi conosciamo per esperienza, delle quali verità spesso non ci è dato conoscere le relazioni che esse hanno con altre. La de finizione dunque non è compiuta nè esatta. Ma Locke fece della cognizione una fa coltà doppia, avendo dato all'animo due potenze per le quali giudica della conve nienza o disconvenienza delle idee: per una, della cognizione, scopre la conve nienza e la disconvenienza, e ne acquista la certezza: per l'altra, detta giudizio, unisce insieme due idee o le separa, e ne presume la convenienza quando non possa con certezza discernerla. In somma diede le verità intuitive e le dimostrate alla co gnizione, le opinioni e le presunzioni al giudizio. Lasciando di ripetere quel che abbiamo testè detto del giudizio, la cennata distin zione restrigne per altra via l'umana co gnizione, dapoichè la limita alle sole ve rità intuitive o dimostrate, escludendone l'opinione, la verità o la certezza relativa, la semplice probabilità, la verisimiglianza, o sia quel che ne forma la parte maggiore. Ora la somma di tutte le umane cono scenze, considerata quale esser può per la naturale costituzione della mente umana, sembra meritare un nome distinto. Un tal nome si trova nella comune accezione del vocabolo cognizione; e però conviene rite – 91 - nere più il significato comune, che quello datole da Locke. V. Certezza. CoLLERA (prat.), vocabolo proprio della medicina, che vuol dire bile. In senso traslato, vale sentimento di sdegno, occasionato da un qualche fatto per noi dispiacevole. È meno dell'ira e del furore. V. Furore, Ira. CoLLETTIvo (disc. e spec.), nome che esprime la moltitudine, o l'aggregato di più individui. V. Individuo. Taluni filosofi, e tra questi i puri no minali, han considerato come collettivi tutti i nomi generali, e gli hanno avuto come vocaboli introdotti per comodo del linguaggio, privi di qualunque realità. Cotesto scambio contiene un error di prin cipi, perchè distrugge l'essenze reali, e riduce i nomi del generi e delle spezie a puri segni arbitrari. E però deesi distin guere il collettivo dal generale nel senso, che sarà spiegato negli articoli concettua lista, essenza, generale, nominale, e reale. V. queste voci. CoLLISIONE (prat.), senso traslato, preso dal mutuo percuotimento de corpi, mossi per contraria direzione; e vuol dire con trarietà di doveri o di leggi tra loro in compatibili. La collisione delle leggi può esser vera o apparente: è sempre apparente nelle leg gi della natura, e per l'opposito scontrasi sovente nelle positive. Lo stesso è de do veri, che ci vengono dalle leggi naturali; dacchè non può per esse darsi contrarietà di obligazioni, ma solamente opposizione di un dovere imperfetto ad un altro per, fetto; nel quale caso il maggiore esclude, e spiega il minore. Quelli che han trattato della collisione delle leggi naturali, hanno per lo appunto inteso spiegarne le apparenti contraddizio ni, e mostrare l'applicazione di ciascuna legge al proprio caso. In generale l'apparente collisione delle leggi naturali può nascere o dallo scon tro di due precetti che non posson essere simultaneamente eseguiti, e de quali uno dee cedere all'altro ; o da nostro difetto d'interpretazione, quando erriamo circa il senso, nel quale la ragione comanda o vie ta un'azione. V. Azione, Dovere, Leggi. CoLoRE (spec.), idea semplice e inde finibile, che può in altri termini spiegarsi, come una sensazione in noi prodotta dalla luce riflessa da corpi. Le spiegazioni di tal fenomeno son pro prie della Fisica. E una delle qualità secon darie della materia. V. Materia, Qualità. CoLPA (prat.), mancamento al dovere. In un senso più mite, accettato anche da'moralisti, è il fallo nato da negligenza o ommissione. V. Megligenza, Ommis sione. CoMANDAMENTo. V. Precetto. Con EDIA (crit.), immagine o rappre sentazione della vita domestica o civile degli uomini, fatta per dilettare, o per istruire gli altri. È una delle arti drammatiche e imitative. Commissaazione (prat.), sentimento di tristezza e di benevolenza, che in noi su scita l'altrui male. Cotesto sentimento è proprio della na tura umana per una provvida disposizione del suo Autore : è una riflessione o ri n - 92 – percussione del male altrui sopra noi stes si , onde lo riguardassimo come un mal comune: è un presidio dato al debole e all'innocente, che son sopraffatti dalla SVentura. In questo sentimento è riposto il ger me di quel sublime precetto, nel quale son racchiusi tutti i vincoli dell'umanità: fa per gli altri quel che vorresti, che fosse fatto per te stesso. ComPARATA. V. Motomia. CoMPARATIvo (disc.), grado medio tra il positivo e il superlativo de nomi di qua lità, che in talune lingue esprimesi con una diversa inflessione de nomi stessi; e in altre colle particelle più o meno, che pur diconsi comparative. V. Comparazione. CoMPARAzioNE (spee. e disc.), conoscenza di due obbietti, considerati in quanto alla somiglianza o dissomiglianza delle qualità loro, o al rispettivo modo di essere. V. Mo do, Qualità, Somiglianza. È il fondamento delle idee di relazione tanto nelle cose sensibili, quanto negli obbietti del pensiero. E una operazione dell'intelletto, caratteristica della ragione superiore dell'uomo, dapoichè è il mezzo per lo quale formiamo i generi, sceveria no le qualità da subbietti, e torniamo a paragonare tra loro le nozioni generali, così formate. Non è già, che i bruti non abbiano una certa virtù comparativa, ma essa è limitata alle cose sensibili, e alle qualità apparenti o manifeste di quelle; non potendo essi generalizzare, nè astrar re. La differenza tra la virtù comparativa dell'uomo, e quella del bruti può essere con bastante precisione spiegata co due contrapposti di facoltà intellettiva ed esti - mativa, o con quelli altri proposti da Leibnitz, di deduzione, voce propria della facoltà ragionatrice, e di consecuzione, espressione conveniente alle quasi neces sarie conseguenze, delle quali è capace l'intelligenza degli animali irragionevoli. V. Consecuzione, Estimativa. CoMPAssIoNE (prat.), pietà viva del male altrui, e tanto viva che ci fa patire con quei che patiscono. E più generica della commiserazione, che conviene soltanto al male de simili a noi; laddove il compas sionare si usa per ogni animal sensitivo, CoMPATIMENTo (prat.), indulgente escu sazione, che concediamo a difetti, o a falli altrui. Il compatire è diverso dal compassio nare, che è sentire compassione. V. Com passione. CoMPIACENZA e CoMPIACIMENTo (prat.), diletto, di cui taluno si allegra, sentendolo. CoMPIAGNERE e CoMPIANGERE (prat.), con dolersi, o lamentarsi. Si adopera anche in senso attivo, come quando dicesi di compiagnere qualcuno. CoMPIANTo, sost. (prat.), condoglienza, o lamento. CoMPIUTo (ontol.), quel che non manca di alcuna delle sue parti. Nel senso ontologico, vale perfetto, sì che adattasi ancora agli Esseri immateria li, che consideriamo come perfetti nell'es senza loro. In questo stesso significato vale assoluto, e Dio dicesi essere un Ente per ogni verso compiuto. Ciò spiega la definizione data da Aristotele del completo, cioè di quello, – 95 - che non può trovare fuor di se nulla di ciò che gli è proprio. CoMPLEsso (spec. e disc.), la combina zione di più idee semplici di diversa spe zie. V. Valea. Giova distinguerlo dal composto, ch'è proprio delle cose materiali, e adoperarlo per le sole combinazioni del pensiero, on d'evitare le false analogie tra 'l materiale e l'intellettuale. V. Composto. CoMPONENTE. V. Composizione, Com posto. CoMPosIzIoNE (ontol. spec. e disc.), ag gregato di parti, che formano un tutto, il qual dicesi composto. V. Parte. È proprio della materia, a rispetto del la quale la filosofia pretese concepire e immaginare il modo col quale fu forma ta. A questo concetto appartengono le di verse ipotesi fatte intorno alla natura degli atomi e delle molecule, considerati come suoi componenti. V. Atomo , Molecula. Composizione d'idee è stata detta l'unio ne di più idee semplici, o sieno i diversi modi del pensiero; ma a rimuovere l'am biguità giova meglio per gli atti del pen siero surrogare il complesso al composto. V. Complesso. Composizione logica, dicesi l'unione del predicato col subbietto, del pari che la congiunzione degli argomenti per giugnere alla conseguenza. Gli scolastici chiamarono eomposizione metafisica l'unione del genere e della dif. ferenza, d'onde poi nasce un tutto, che di viene spezie. L'idea dell'uomo, per esem pio, è una composizione delle due idee di animale, che è il genere, e di ragione eole, che è la differenza, la quale lo di. stingue dagli altri animali. Senza entrare nella utilità di simili categorie, vuolsi no tare che ogni combinazione di generi, di spezie o di differenze, appartiene alla lo gica, e non alla metafisica. -- CoMPossIBILE (ontol.), vocabolo scola stico, usato ancora dal Segneri, e dinota quel che può esistere insieme con un'altra cosa, e che comunemente direbbesi com patibile, o non ripugnante. CoMPostezza (prat.), modestia negli esterni portamenti. Composto (spec. e ontol.), l'aggregato di più parti, per sua natura divisibile o dissolubile. È proprio della materia, e ha per suo contrapposto il semplice. V. Com posizione, Semplice. CoMPRENDERE (spec.), esercitare l'atto della comprensione. V. Comprensione. - Adoperato nel senso del comune parla re, vale intendere, e conoscere. CoMPRENSIBILE (spec.), quel che è alla portata della umana capacità. V. Capacità. La capacità dell'umana mente è deter minata, o dalla qualità delle cose, alle quali vogliamo applicarla, o dalla natura delle nostre facoltà. Ella è finita, tra per chè la natura l'ha limitata a quel che può essere utile alla nostra esistenza, e perchè l'intelligenza d'un Essere finito, non può esser capace dell'infinito. Il primo requi sito dunque dell'umana sapienza sta nel conoscere quel che è comprensibile, e quel che tale non è. Questo è il senso della massima che Socrate esprimeva col cele bre detto: il sapere sta nel conoscere che nulla sappiamo. La modesta confes - 94 - sione della nostra ignoranza contiene im plicitamente la conoscenza delimiti di quel che sappiamo. I Pirronisti e gli Scettici vollero distruggere anche la conoscenza di siffatti limiti, convertendo in un dub bio tanto quel che crediamo di conoscere quanto quel che ignoriamo. Da ciò nac que l' incomprensibile, o l'aealalepsia, che è l'impossibilità di comprendere o di conoscere qualunque cosa. - All'incomprensibile di Arcesila, Ze none cogli stoici opposero il comprensi bile loro, o sia il catalettico. Avendo essi ammesso, come unica sorgente del l'umana cognizione, la percezione delle idee sensibili, ne stabilirono la realità con cedendo alla cennata facoltà la virtù di concepire l'obbietto qual è, e tale da es sere distinto da un obbietto diverso. Così la catalepsia degli stoici divenne il con trapposto dell'acatalepsia degli scettici. V. Incomprensibile, Percezione. CoMPRENSIONE (spec.), l'atto della men te, per lo quale conosciamo l'obbietto del pensiero. La comprensione precede sempre l'affer mazione o la negazione, ch'è propria del giudizio. V. Giudizio. Differisce dall'apprensione, per quanto questo vocabolo si adopera per esprimere la facoltà, che noi consideriamo come la sede della virtù comprensiva dell'anima. V. Apprensione. CoMUNE (spec. e disc.), quel che è del la natura, o dell'essenza di più individui; o quel che può egualmente convenire a più subbietti, a più predicati, o accidenti. È quel che forma i generi e le spezie, ed è contrapposto di proprio. V. Genere, Individuo, Proprio, Spezie. CoNato (prat.), forza per la quale un corpo che si muove, tende a produrre un cangiamento in un altro. V. Forza, Can guamento. È vocabolo proprio della fisica, ma per similitudine si adopera per dinotare la for za di un principio di azione, il quale non ha ricevuto compimento, o per mancata determinazione della volontà, o per estrin seco impedimento. Nel primo caso il co nato si confonde collo stesso principio di azione: nel secondo è un'azione compiuta per volontà dell'agente, comechè non sia stata dall'effetto seguita. V. Azione, Ef. fetto, Principio. Concatenazione (spec. e disc.), ordina mento di cause, o di proposizioni, delle quali una nasce dall'altra. V. Causa, Pro posizione. Nella filosofia speculativa questo voca bolo conviene principalmente alla connes sione delle cause seconde, dalle quali na sce l'ordine e la conservazione dell'uni verso, e che dipendono, l'una per mezzo dell'altra, da Dio, o sia dalla prima di tutte le cause. Nella logica la concatenazione è propria di quell'argomentazione, nella quale più proposizioni sono talmente cofinesse tra loro, che il predicato della prima diviene subbietto della seconda; il predicato della seconda subbietto della terza, e così delle successive, insino a che nella conclusione si giunga ad un predicato che conviene egualmente al subbietto della prima propo sizione. La coneatenazione logica ha luo go spezialmente nel sorite. V. Sorite. CoNCEPERE, e Concepiae (spec.), for mare un'idea, o una nozione, per mezzo degli elementi della percezione, della im - 95 – maginazione, o della riflessione. V. Im maginazione, Percezione, Riflessione, Diſferisce dal percepire, in quanto che le cose che concepiamo, non sono ac compagnate dalla convizione della realtà ed esistenza loro; ed in quanto abbraccia ancora le cose non presenti a sensi, le pos sibili, o anche le supposte. V. Concezio ne, Percezione. CoNCETTo (spee.), la nozione, o l'idea che risulta dal concepire. - Secondo il Varchi, è tutto quel che ab biamo pensato di volere dire o fare. In proposito di tal vocabolo lo stesso autore nota. «Questo vocabolo il quale non è men » bello che generale, significa appresso » i Toscani quello che appresso i Greci 2 syvotx e i Latini notio 2. V. Mozione. CoNCETTUALISTA (spec.), nome di qua lità dato a quel filosofi scolastici, che non ammettendo niuna delle due estreme opi nioni del nominali e del reali, credevano all'intrinseca verità del così detti univer sali. V. Mominali, Reali, Universali. Cotesta controversia non appartiene so lamente alla storia della vecchia filosofia scolastica, ma si riproduce tra moderni sotto altro aspetto, e con diversi nomi. Le idee generali che la mente forma di quel che è comune a più individui, e le astratte nozioni ch'ella ricava dalle qua lità de vari subbietti della natura, son puri nomi, o segni del concetti della nostra mente, ovvero hanno una realità di esi stenza? La quistione così stabilita racchiu de in se un'ambiguità che può dar luogo all'errore e al sofisma. Che s'intende per realità di esistenza ? Sono Esseri che stan no nella sostanza dell'anima, o son segni di nozioni vere, l'esistenza delle quali tro vasi negl'individui e ne subbietti, da quali la mente le astrae? I nominali e i reali ne facevano una quistione doppia: i con cettualisti la fanno triplice: son segni ar bitrari, son Esseri o forme innate del'o spirito, o son tipi di verità? Costoro si attengono alla terza, allontanandosi affatto da fautori delle prime due. La loro dot trina in somma è quella della verità e del la certezza dell'umana cognizione. I generi e le spezie non sono mere partizioni logi che, nè sono arbitrarie collezioni d'indi vidui fatte per comodo della mente ; ma rappresentano qualità vere, esistenti nella natura, le quali risiedono negl'individui, che sono i componenti delle spezie: le no zioni del giusto, dell'onesto, del bello, e del vero, non sono semplici nomi di con venzione, ma hanno i tipi loro nella mente dell'Autor della natura, e nella stessa ra gione umana. Tolte dunque di mezzo le denominazioni e le forme scolastiche, le cennate quistioni servono ancor oggi ad illustrare le due più importanti verità della filosofia speculativa: la realità del mondo sensibile: l'esistenza d'un vero eterno e immutabile, che regola tutte le nostre rela zioni colle altre parti dell'universo. V. No minale, Reale. CoNCEzioNE, operazione dell'animo, per la quale conosciamo o richiamiamo alla mente l'obbietto d'un'idea. V. Concepire, Concetto. Siccome il conoscere l'obbietto dell'idea è il fondamento di ogni operazione del l'animo, così è manifesto che la conce zione si trovi sempre e nel percepire, e nel ricordarsi, e nell'immaginare, e nel giudicare, e nell'astrarre, e nell'esser con sapevole di qualunque delle dinotate ope razioni; comechè non possa essere confusa – 96 - con alcuna di esse. Quel che da queste la distingue, è che non è mai accompa gnata dal giudizio della sua verità o real tà, potendosi anche concepire un obbietto ideale creato dalla immaginazione. La scuola di Reid ha fatto della con cezione una facoltà speziale, per la quale l'anima richiama a se l'idea, o la perce zione passata d'un obbietto lontano, scom pagnandola dalla reminiscenza del tempo e del luogo, le quali reminiscenze sono riposte nella memoria. Secondo tal divisa mento, la concezione non è memoria nè immaginazione, quantunque talvolta si confonda con queste facoltà, e sebbene in molti casi non si possa discernere, se la percezione richiamata alla mente, sia ope ra della concezione, della memoria, o del l'immaginazione. In somma, la concezio ne, considerata come la facoltà di ritrarre le idee passate, spogliate da ogni altro modo di luogo e di tempo, corrisponde a quel che gli scolastici chiamarono ap prensione pura (simplea apprehensio). V. Apprensione. Il considerare le diverse operazioni del l'animo, trasformandole in facoltà, o sia in altrettanti principi d'azione tra loro di stinti, non è stato, e non può essere ge neralmente ricevuto. V. Facoltà. Per evitare le similitudini del vocaboli, ed insiememente lo scambio della facoltà coll'atto, noi chiamiamo l'atto, concezio ne, e la facoltà, comprensione. V. Com prensione. CoNCLUSIONE (disc.), l'ultima parte del ragionamento, colla quale si compie il discorso. La conclusione può essere o immediata, o mediata. L'immediata è quella che si deduce da una proposizione unica antece - dente: la mediata è quella che si deduce da più proposizioni antecedenti, legate in sieme per mezzo del ragionamento. Se il ragionamento è in forma di argomenta zione, la conclusione che ricavasi dalle premesse, dicesi con particolar nome conse guenza. V. Conseguenza, Ragionamento. CONCORDANZA (disc.), parte della sin tassi, o sia della costruzione delle parole d'un discorso, la quale regola tanto la naturale corrispondenza che aver debbono gli addiettivi co sostantivi nel numero, e nel genere del nome; quanto la correla zione che aver dee il nome col verbo, o sia il subbietto coll'azione, e la passione col paziente. V. Mome, Sintassi, Verbo. CoNCRETo (spec. e disc.), vocabolo di significazione composta, che dinota il sub bietto congiuntamente ad una qualità, o ad un accidente che lo distingue, come pio, duro, bianco. Il suo contrapposto è l'astratto, che considera la pietà, la due rezza, o la bianchezza separatamente dal subbietto. E quando la qualità o l'accidente dia il nome al subbietto, cotesto concreto fu dagli scolastici detto logico, a diffe renza del primo, che fu chiamato meta fisico. V. Astratto, Qualità, Subbietto - i CoNcUPIscENZA (prat.), inclinazione della natura corrotta, la quale ci porta al male e a piaceri illeciti. CoNCUPIscIBILE (prat.), addiettivo pro prio dell'appetito, o sia dalla inclinazione, da cui prende origine la concupiscenza. CoNDIZIONALE (dise. ontol. e spec.), tut to quel che è capace di limitazione, e che presuppone una causa del suo esistere. In - 97 - questo senso, tutto ontologico, è il con trapposto dell'assoluto. V. Assoluto, Causa. Da ciò segue, che tutto il possibile e le cose contingenti sono di lor natura con dizionali; e per l'opposito, che il solo Es sere assoluto è Dio. La filosofia speculativa distingue il con dizionale dal causato, essendochè diversa è la causa dalla condizione. V. Condizione. I logici chiamano condizionali le pro posizioni connesse, delle quali una non può stare senza dell'altra; e sillogismi con-. dizionali gli argomenti che han per base una proposizione condizionale. Il condi zionale logico dunque è un postulato, per lo quale concessa una proposizione, deesi ancora concedere la seguente, che da quella dipende. V. Postulato, Propo sizione, Sillogismo. Diverso è il condizionale dall'ipotetico, il quale nasce pure da due proposizioni connesse, ma ambedue vere, dette cate goriche, delle quali ammessa l'una, deesi per necessità ammettere ancora l' altra. V. Categorico, Ipotetico. I gramatici finalmente chiamano condi zionali le congiunzioni, che servono a le gare una proposizione coll'altra, come il se, e le altre al se equivalenti; ond'è, che il carattere del condizionale nel di scorso nasce da tali congiunzioni. V. Con giunzione. - - - - CoNDIzroNE (spec. e disc.), è un pre supposito, senza del quale la causa non potrebbe operare il suo effetto. V. Causa. Per distinguere la condizione dalla causa gli scolastici dicevano, che la condizione non costituisce principio efficiente, ma ope-. ra, o rimuovendo l'ostacolo, o applicando il principio all'azione, come per esempio: l'uomo vede, se tien aperti gli occhi: le due coppe d'una bilancia si equilibrano, se son gravate dello stesso peso. Per esporre con maggior chiarezza la differenza tra la causa e la condizione, valeva meglio dire che la condizione è una relazione di una cosa ad un'altra, stabi lita dalla mente, la quale nulla aggiu gne al principio efficiente dell'azione. Da ciò segue, che se la relazione è presa da una qualità estrinseca alla cosa, la con dizione non ha nulla di comune colla cau sa; ma se la mente ponesse in condizione lo stesso principio efficiente, allora la cau sa s'identificherebbe colla condizione. In fatti nell'esempio della bilancia l'eguaglian za depesi è causa e condizione insieme dell'equilibrio. Così ancora la vita può essere conside rata come causa e condizione del moto; la potenza come causa e condizione del l'azione. E siccome la volontà può sce gliere qualunque motivo per determinarsi all'azione; così possono essere considerate come cause e condizioni insieme tutti i mo tivi, senza i quali la volontà non si sa rebbe determinata. Tal'è l'indole della con dizione sine qua non. CoNFIDANZA, e CoNFmENZA (spec. e prat.), ferma aspettativa della verità del proprio giudizio, della propria credenza, o del fatto altrui. - - - È un sentimento spezialmente suggerito da quel genere di autorità, cui prestiamo una intera fede. V. Autorità, Fede. - CoNFIGURAZIONE (spec.), forma esteriore de corpi, la quale è determinata dalle superficie, che li circoscrive. V. Figura, ASuperficie. - Varie sono state le opinioni del filosofi intorno alla maggiore o minor influenza 15 che la figura ha potuto avere nella con formazione decorpi. Verisimile forse è l'opinion di quelli i quali affermano, essere gli stessi tutti gli elementi decorpi, e che la loro specifica differenza nasca dalla va ria situazione e configurazione delle parti. L'oro e il piombo per esempio son com posti delle stesse parti primitive, e la loro differenza nasce dal diverso ordinamento delle parti medesime: di qua il famoso detto di Cartesio, datemi della materia e del moto, ed io formerò un mondo; detto il quale debb'essere inteso, non che la materia non fosse creata, e per essere ordinata non avesse avuto bisogno d'un primo Fattore, ma sì bene nel senso, che quel Supremo Fattore adoperò solamente la figura e il moto come instrumenti e mezzi della sua composizione. Ma, o che si ammettesse questa, ovvero un'altra ipotesi, conosceremmo però la na tura della materia, e potremmo risolvere le insolubili quistioni, che nascerebbero da ciascuna delle ammesse ipotesi? Gli ele menti primitivi della materia son essi cor pi, ovvero sostanze di altra natura? Se si risponde che son corpi, la medesima qui stione farassi pe loro componenti: e se si dice che non son corpi, si domanderà co me potrà formarsi un corpo con quel che corpo non è. E quando anche loro si con cedesse la qualità del corpi, domandereb besi d'onde nasce la coesione delle parti, che li rende duri ed impenetrabili, se dal l'attrazione, se da altra forza, se da un fluido, se da una virtù primitiva, ciascu na delle quali supposte cause sarebbe in capace d'una adequata definizione. Da ciò risulta, che noi conosciamo ap pena la superficie de corpi; e che se la natura ci ha dato il potere di sciorre i loro tessuti per conoscerne le proprietà utili a noi; non però ci ha dato quello di ricom porgli. La conseguenza dunque è, che l'uso di tutti i corpi formati dalla natura ci è dato in grazia de'nostri bisogni; e non per chè ella avesse creduto necessario o utile il farci conoscere la interna loro struttura. CoNFORMAZIONE (spee. ), la struttura e la disposizione delle parti, dalle quali ri sulta il composto del corpi. Le difficoltà esposte nello articolo con figurazione son comuni ancora a questo. Non pertanto allorchè la mente forma il concetto del composto, passa necessaria mente a quello del componenti, de quali non potendo conoscere la natura, li con cepisce ipoteticamente, e dà loro le deno minazioni di atomi, di corpuscoli, e di molecule. V. queste voci. CoNFORMITA' (dise. e prat.), eguale di sposizione d'indole, o di qualità in diversi subbietti. - - -. Differisce dalla somiglianza, da che que sta si desume dall'apparenza, e quella da una più matura conoscenza delle qualità de subbietti medesimi. CoNFUSIONE (spec. prat. e disc.), tutto quel che manca d'ordine o di chiarezza. V. Ordine. La confusione è un vizio, che può nascere da imperfezione o di natura, o di abito in tellettuale o logico. E però può scontrarsi o nelle facoltà, o nelle idee, o nel discorso. CoNFUso. V. Idea. CoNFUTAZIONE (disc.), parte del discorso colla quale rispondesi alle obbiezioni del l'avversario, e si sciolgono le difficoltà dell'argomento. V. Argomento. CoNGETTURA (disc.), opinione, o anti cipato giudizio di cosa ignota, formato sopra apparenti indizi di verità. E meno della presunzione. V. Apparenza, Pre sunzione. CoNGENERE (disc.), termine di relazio ne, che conviene all'individuo dello stesso genere. È vocabolo adoperato dal Salvini e dal Magalotti. V. Genere. CoNGIUNTIvo, CoNIUNTIvo, e SUBIUNTIvo (dise.), modo del verbo, così detto dal l'essere sovente preceduto da una congiun zione. V. Verbo. CoNGIUNZIONE (dise.), la parte del di scorso, che lega insieme le proposizioni, e i periodi de quali è composta. CoNGRUENZA (spec.), vocabolo proprio della geometria, o sia del materiale com baciamento di due superficie, adoperato per esprimere la perfetta conformità di qualità, o d'idee. V. Conformità. CoNIUGAZIONE (disc.), l'ordinata parti zione delle diverse terminazioni del ver bo. V. Verbo. CoNNESSIONE (spec. e dise.), quel lega me di ragionamento, che nasce da una seguenza di relazioni. V. Relazione. Se questa seguenza sia tra cause ed ef fetti, del quali gli uni dipendano dagli al tri, la connessione che da essi risulta, prende ancora il nome di concatenazione. V. Causa, Concatenazione. Connessione dicesi pure la serie de ca ratteri simili, che formano la gradazione tra le spezie degli Esseri, e ciò nel senso - - - - -, di coloro, i quali ammettono la legge di continuità. V. Continuità. ConosceMZA, proposizione vera concepita dall'animo, o acquistata per mezzo del ra gionamento. Cotesto vocabolo abbraccia l'idea, la nozione, e il giudizio, e per conseguente è più generico di ciascuno di essi. Le conoscenze, o sieno le verità par ticolari, son gli elementi dell'umana co gnizione. V. Cognizione. CoNosCENZA DI SE MEDESIMo, è la cardi nale verità della filosofia, anzi è la som ma del sapere umano. È il nosee te ipsum degli antichi, precetto comune alla filoso fia speculativa e alla pratica. Imperocchè doppio è l'uso che di esso facciamo; sia investigando le qualità dell'animo, le sue facoltà, e in una parola la sua capa cità; sia esaminando quel che dobbiamo praticare. La prima parte risguarda la filosofia intellettuale, la seconda la preti ca. La natura ha voluto che noi divenis simo prima pratici moralisti, e poi sa pienti speculativi, e però ci ha dato lo specchio della coscienza, nel quale guar diamo noi stessi, e pesiamo il merito, o il demerito d'ogni nostra azione. V. Co scienza. Ma la coscienza ci rende del pari con sapevoli di tutte le operazioni dell'intel letto, e dee servirci di guida nella inve stigazione e nella conoscenza di tutte le qualità, di cui l'anima è dotata. Sebbene la generalità del filosofi, incominciando dalla più rimota antichità, avesse cono sciuto e predicato l'importanza di tal pre cetto; pur tuttavolta la filosofia specula tiva è stata tarda nel seguirlo, o per lo meno, si è da esso frequentemente de 10 - 100 – viata. Sarà dunque merito d'ogni scrit tore il ricordarlo, e appoggiarlo all'auto rità del primo de sapienti dell'antichità, cioè di Socrate, che così definì l'arte di conoscere se stesso: se l'animo vuol co noscere se stesso, debbe in se riflettere, se spezialmente in quella virtù sua, in cui è riposta la sapienza, il che ha in se del divino. E però il riflettere nel l'animo ci mena a conoscere ad un tem po tutto quel, che in noi è di divino, cioè Dio e la sapienza. Tanto importa al conoscere se stesso. Consapevolezza (spee), la contezza che abbiamo d'un fatto interno, del quale di ciamo essere consapevoli. È adoperato dal Bellini e dal Redi. - - È proprio della coscienza, la quale ac compagna e ritiene le idee e le nozioni che provengono così dalle sensazioni, come dall'interna osservazione. V. Coscienza. CoNsEcuzioNE (spec.), vocabolo adope rato da Leibnitz per esprimere quel grado d'immediata deduzione, di cui è capac l'intelligenza del bruti. - « Questi, dice Leibnitz, son sempre empirici, e si regolano solamente per l'e- sempio; dapoichè, per quanto si può di essi giudicare, non mai pervengono a for mare proposizioni necessarie. Gli uomini per contrario son capaci di scienze dimo strative, nel che appunto è riposta l'in feriorità del bruti, a quali è concesso sol tanto il fare semplici consecuzioni. Cotesto vocabolo sembra che debba es sere ricevuto nel linguaggio filosofico, se pure non ne sia proposto altro più adatto, per esprimere quella spezie di conseguenza, che non è figlia del ragionamento, ma è l'effetto necessario della percezione. Esso non è estraneo alla lingua italiana 9 co mechè questa l'adoperi soltanto come un derivato del verbo conseguire. Ma che vie ta estenderne il significato ad un'azione propria dell'intelligenza de'bruti? Una tale ampliazione sarebbe ancora fondata nel l'autorità di Cicerone, da cui pare che Leibnitz lo prendesse: in iis in quibus earilus perspicuus est, oportet consecu tione uti (de invent. 1. c. 4o). CONSEGUENTE (disc.), la proposizione che corrisponde alla premessa, astrazion fatta dalla verità o falsità della conseguenza. È vocabolo correlativo di antecedente che conviene alla proposizione che prece de. V. Antecedente. - - - CoNSEGUENZA (dise. ), conclusione che si deduce da più proposizioni legate insie me per necessaria connessione tra loro. V. Conclusione: E proprio della forma sillogistica, la quale costa di premesse e di conseguenze. V. Premessa, Sillogismo. CoNSIDERAZIONE (spec.), disamina delle qualità d'un subbietto, cui abbiamo por tato attenzione. V. Attenzione, Qualità. La considerazione presuppone l'attenzio ne, ed è un grado per lo quale si giu gne alla conoscenza del subbietto, o al giudizio delle qualità sue. CoNSIGLIo (spec.), suggerimento della propria, o dell'altrui ragione per determi nare la volontà all'azione. V. Delibera zione, Volontà. Il consiglio parte dalla luce del vero, di cui è essenzialmente dotata la ragione, e serve a rischiarare, o a temperare la forza del principi di azione, che la natura - - - - - - 101 - ha riposto negl'istinti, negli appetiti, e negli affetti. V. Affetto, Appetito, Istinto. Consiglio pure dicesi qualunque sugge rimento della ragione altrui, nel quale caso il nostro assentimento è figlio dell'au torità. V. Autorità. - º - - - Consolazione (prat.), conforto che nelle sventure diamo a noi stessi, o agli altri. La sapienza somministra i più efficaci argomenti contra il dolore e le sventure che circondano la vita: distingue ella i mali, che ci vengono dalla nostra natu ral condizione, dagli altri che ci fa la for tuna: risguarda i primi come l'esperimento della vita, e sprezza i secondi, come a se stranieri. Omnia illa, dice Seneca, quae in me indulgentissime conferebat (for tuna) pecuniam, honores, gloriam, eo doco posui, unde posset ea sine motu meo repetere: intervallum inter me et illa magnum habui: itaque abstulit illa, non avulsit. Meminem adversa fortuna comminuit, nisi quem secunda decepit. (de consol. ad Helviam). Non è argomento tanto trattato dagli antichi e da moderni sapienti, quanto quel de rimedi contra le avversità. Prendia mone il compendio da Cicerone: Qui re rum naturam, qui vitae varietatem, qui imbecillitatem generis humani cogitat, non moeret cum haec cogitat, sed tum vel maxime sapientiae fungitur mune re. Utrumque consequitur, ut et con siderandis rebus humanis proprio philo sophiae fruatur officio, et adversis ea sibus triplici consolatione sanetur: pri mum quod posse accidere diu cogitave rit, quae cogitatio una maxime mole stias omnes extenuat et diluit, deinde, quod humana ferenda intelligit: postre mo, quod videt malum nullum esse, nisi culpam , culpam autem nullam esse, cum id , quod ab homine non potuerit praestari, evenerit. (Tusc. III. c. 16). CoNsoNANTE (disc.), lettera dell'alfabe to, che rappresenta il suono delle vocali, modificate nel loro passaggio dalle labbra, o dalla lingua, o da denti, o dalla re spirazione delle narici, o dalla gola. La gramatica generale fa l'analisi del suono loro, e dimostra com'esse nascano dal di verso movimento delle varie parti della bocca. Son dette consonanti, perchè non possono far suono, se non sieno unite alle vocali. V. Vocale. CoNsoNANZA (disc. ), cadenza di voce simile nelle frasi, negl'incisi, o nel perio di, ehe secondo il diverso gusto delle lin gue forma parte dell'eufonia della parola. Gli antichi, e soprattutto i latini ave vano le loro regole di consonanza, delle quali Quintiliano dà diversi esempi. Le lin gue moderne han pure le proprie conso nanze nella prosa, le quali son regolate dall'uso. Ma oltre a queste noi le abbia mo moltiplicate ne'versi, introducendovi la rima. V. Rima, Verso. CoNSUETUDINE (prat.), usanza, per la quale ci accostumiamo a fare, o a sop portare qualche cosa, comechè incomoda o dolorosa. Differisce dall'abito per due essenziali caratteri: 1.º perchè l'abito pre suppone per suo principio un'azione vo lontaria : 2.º perchè riferendosi l'abito alla volontà trova il suo significato pro prio, nelle operazioni intellettuali, più che nelle meccaniche o sensitive. Per con trario la consuetudine ripete il principio suo dalla parte sensitiva di noi, o sia dalla forza o virtù, dataci dalla natura, di - 102 - sopportare e di vincere le sensazioni mo: leste, quando crediamo che per esse pos siamo conseguire un bene, o evitare un male maggiore. Cotesta forza o virtù, è quella che dicesi assuefazione. V. Abito, Assuefazione. CoNTEMPLAZIONE (spec.), intensa rifles sione sopra le verità, che ci manifesta l'interno senso dell'anima. V. Anima , Riflessione. CoNTIGUITA' (ontol.), quel contatto delle superficie di due corpi, che non confonde la rispettiva loro estensione. È una definizione che appartiene alla Fisica. Fu usurpata dall'antica ontologia, per ispiegare che l'esistenza di due corpi contigui non esclude l'esistenza d'un terzo, che venga ad interporsi tra loro; e per di mostrare la differenza che passa tra 'l con tiguo e il continuo. L'idea della contiguità trasportata da fatti sensibili agl'intellettuali, ha dato nascimento a molti sofismi ed erro ri. Per una falsa similitudine ricavata dal moto, e dalla vicendevole azione de'corpi contigui, si è preteso argomentare alla ne cessità del contatto degli obbietti cosensi, e delle impressioni di questi nella sostanza pensante. Rimandiamo dunque la contiguità alla fisica, e astenghiamoci da qualunque si militudine delle cose materiali per ispie gare i fatti dell'intelletto. CoNTINENZA (prat.), virtù per la quale l'uomo riesce a temperare gli appetiti sen sitivi. V. Appetito. Cicerone definì la continenza, pars temperantiae, per quam cupiditas con silii gubernatione regitur, e ridusse a due le virtù delle quali debb'essere fre giato l'uomo publico, l'astinenza, o il disinteresse, e la continenza. V. Disin teresse, , - CoNTINGENTE (ontol.), quel che poteva non essere, o essere diversamente da quel che è; ovvero quel che è possibile. Astruse e ambigue sono le distinzioni fatte dagli scolastici, intorno alle diverse sorte del contingente. Distinguevano essi il contingente quoad esse, o sia, che quel che esiste, poteva non esistere: il contingente quoad acci denº, cioè tutto quel che è mutabile nel modo di essere: il contingente aequaliler, cioè l'eguale possibilità dell'esistere e del non esistere; il che si verifica in tutte le cose che dipendono dalla nostra volontà: il contingente ut plurimum, che dicesi delle cose le quali ordinariamente avven gono, comechè talvolta si verifichi una qualche eccezione: il contingente ut raro, o sia quel che può avvenire o per una straordinaria eccezione di natura, o anche per caso. Rendiamo più semplice l'idea del con fingente per quella del suo contrapposto, che è il necessario. Tutto quel che può intervenire per ef fetto della libera volontà di un Essere in telligente, è contingente; siccome per con trario, quel che niuna volontà può impe dire che sia, è necessario. Per conseguente tutte le cose che hanno avuto un comin ciamento per la volontà del Creatore sono contingenti; e per contrario l'esistenza del Creatore, che non riconosce altra causa fuori di se, è necessaria. Contingente è pure tutto quel che inter viene per effetto della libera volontà del l'uomo. Ma tra 'l contingente umano e il naturale v'ha la seguente differenza. - 105 - L'umano può cessar di essere, ed è mutabile per effetto di quella stessa vo lontà che gli dà l'essere; laddove il natu rale poteva non esistere, ma stabilite una volta dal Supremo Fattor di tutte le cose le determinazioni, dalle quali nasce l'es sere, l'effetto di quelle determinazioni di viene necessario, nè potrebb'essere mutato se non mutate le cause che lo producono. Così, poteva Dio non creare il sole o gli altri pianeti; ma avendo quelli creato con determinate leggi, debbono i pianeti se condo queste leggi apparire sul nostro oriz zonte, e compiere il corso delle orbite loro insino a che quelle leggi non vengano ri vocate dalla stessa Suprema volontà che le ha dettato. Similmente, poteva Dio non creare la materia, ma avendola creata con date determinazioni, ne risultano talune leggi necessarie, delle quali gli effetti non possono essere diversi di quel che SOnO. Da tali prenozioni nascono molti corol lari, utili a rimuovere la più parte delle ambiguità, che il linguaggio metafisico scolastico aveva introdotto nelle nozioni del contingente e del necessario. 1.° Dal contingente naturale nasce un ordine di cose, necessario per le deter minazioni che hanno dato loro l'essere. 2.” Quest'ordine è figlio d'un'altra causa superiore, nella quale sta il vero neces sario assoluto. - a 3.” L'ordine dunque delle cose naturali è contingente nella sua origine, ma è ne cessario in quanto a suoi effetti, e per conseguente immutabile. - - 4.” La sua immutabilità è condizionale, e non assoluta, perchè trova la ragione sufficiente di se nella volontà e nella sa pienza del suo Autore. 5.” Per contrario il contingente umano è mutabile, come mutabile è la volontà, che determina l'essere da lei prodotto. 6.° Tanto nel contingente umano quanto nel naturale, se questo vocabolo si ado pera per esprimere l'essenza d'una cosa attualmente esistente, altro non vuol dire, se non che, quella tal cosa che ora esi ste, ha avuto un cominciamento, e però poteva non esistere; e quando lo stesso vo cabolo si adatta alle cose future, il signi ficato del contingente si confonde intera mente col possibile. V. Determinazione, Mecessario, Possibile. Le cennate conclusioni spiegano altresì in qual senso i vocaboli contingente, e necessario sieno stati applicati alle idee e alle nozioni dell'intelletto. Contingenti so no state chiamate le verità di fatto, le quali provengono da sensi; e necessarie quelle che nascono dalla cognizione della causa prima, o dall'ordine delle cose na turali, come le verità geometriche e le aritmetiche. Coteste verità sono state an cora chiamate eterne, ma impropriamente. Niuno ha sinora distinto il doppio genere del vero necessario, l'assoluto cioè che è la causa prima, e il secondario, il quale dipende dalle sue determinazioni, o sia dall'ordine della natura. Le verità, che da quest'ordine dipendono, sono necessa rie per una necessità secondaria, ma non sono eterne; perchè eterni non sono nè la materia nè l'ordine che la regge ; se pure colla voce eterno non si volesse di re, che quelle verità hanno sede nella sa pienza stessa di Dio, che è eterna. V. E terno. CoNTINUITA' (spec. e ontol.), l'immediata e non interrotta congiunzione delle parti d'un corpo, la quale impedisce l'interpo nimento di altre parti. - 104 - L'idea della continuità si scambia con quella della estensione, o piuttosto il con tinuo è una proprietà dell'esteso. V. Esten sione. Legge di continuità è un principio pre supposto da Leibnitz per dimostrare, che la natura, nella serie tanto degli Esseri sensibili, quanto degli spirituali non ab bia operato per salto. Nelle cose materiali colesta legge fa sì, che un Essere non passa mai da uno stato all'altro, senza per correre tutti gli stati intermedi tra quello che lascia e quello che prende, o sia passa sempre dal piccolo al grande per gradi, o per parti, e così per l'opposito. Il moto non nasce immediatamente dalla quiete; nè una linea o sia una lunghezza si per corre da qualunque corpo, senza essere passato per le linee più piccole delle quali quella è composta. - - Un tal principio fu anche dallo stes so autore applicato alle operazioni della mente, per modo che le percezioni av vertite mediante l'attenzione, vengono per gradi dopo le più piccole non avvertite, nel che la sua dottrina si riferisce alla teoria delle percezioni insensibili. V. Per cezione. Lo stesso principio fu da lui applicato alle sue monadi, o unità reali, il che appartiene alle ipotesi metafisiche. V. Mo made, - - CoNTINUo (spee. e ontol), il composto di parti coerenti, che non ammettono l'inter ponimento di altre tra loro. V. Continuità. L'idea del continuo, applicata allo spa zio, fa sì che ce l rappresentiamo, come un che di esteso, e d'immenso, V. Im mensità, Spazio. E applicata al tempo, si confonde colla durata. V. Tempo, Durata. a CoNTRADDIZIONE (spee. ontol e dise.), un'affermazione e una negazione tra loro: opposte. V. Affermazione, Megazione Principio di contraddizione è stata det ta la proposizione la quale enuncia essere impossibile, che una cosa sia e non sia nel medesimo tempo. Cotesta verità è un principio ovvio di ragionamento, che deduciamo dall'esistenza di noi stessi, e delle cose esteriori; è una conclusione immediata ed intuitiva dell'esi stenza, non potendo l'animo concepire, che una cosa sia e non sia nel medesimo tempo, che esso pensi e non pensi, che Vegga e non vegga, che abbia e non ab bia la coscienza della volontà, e di tutte le altre facoltà sue. pt Ciò non ostante la filosofia ne ha for mato un assioma, o sia un principio di dimostrazione per escludere le ipotesi con trarie alla realità delle cose. Molto se ne valse Aristotele e tutta la scuola del peri patetici: è uno de principali fondamenti della logica, dapoichè per esso dimostrasi che lo stesso predicato non può nel mede simo tempo convenire e non convenire allo stesso subbietto, sotto la medesima deter minazione. Dello stesso principio si servì Cartesio per dedurne la cognizione dell'io, dapoichè chi dubitasse della sua esistenza, avrebbe di questa una pruova nello stesso suo dubitare. Così può dirsi, che il prin cipio della contraddizione è il fondamento di tutto l'umano ragionamento, del pari che di tutte le verità necessarie, o sia di quelle che non possono essere altre di quel che sono. Per esso escludonsi le ipotesi contrarie alla realità delle cose, e dimostrasi il vero, scoprendo il falso : da esso ancora trag gonsi tutti gli argomenti atti a dimostrare la convenienza del predicati essenziali ai - 105 - subbietti. V. Essenza, Mecessario, Pre dicato. È pure il fondamento delle proposizioni identiche, dapoichè tanto è dire che A è A, che A non è B, che quel che è, è, quanto l'enunciare come impossibile, che A sia e non sia A nel medesimo tem po. V. Identico, Proposizione. CoNTRARIETA' (dise.), opposizione di due proposizioni, delle quali una afferma, e l'altra nega la stessa cosa. Contrarietà pure dicesi la ripugnanza e l'incompatibilità di due qualità, che non possono stare nel medesimo subbietto; di due subbietti, che non possono stare nel medesimo genere; di due affetti o senti menti di cui uno esclude l'altro; e di due azioni, delle quali una distrugge l'altra. Gli scolastici facevano varie categorie delle cose contrarie, le quali in somma si riducono ad una di quelle che abbiamo quì divisato. a CoNTUMELIA (prat.), ingiuria che im porta disonore ad alcuno per parole, o per fatti. È più del convizio. V. Convizio. CoNvENIENTE (spec. e prat.), quel che ha conformità con un'altra cosa, con cui vien paragonata. Il conveniente nel linguaggio della filo sofia pratica ha un senso generale, che abbraccia il vero, il giusto e l'onesto. V. Convenienza. - CoNvENIENZA (spec. e dise.), eguaglianza o somiglianza di due obbietti paragonati tra loro. V. Comparazione. Applicata alle idee esprime la confor mità che aver possono due obbietti del pensiero, considerati a rispetto così delle qualità, come del modo loro di essere. V. Modo, Qualità. È termine consecrato dalla filosofia ai giudizi, che pronunziamo intorno alla ve rità o falsità di una proposizione, nel quale significato la convenienza equivale a ve rità. V. Verità. Loche definì le umane conoscenze per la percezione della connessione o conve nienza tra due delle nostre idee, e ridusse a quattro le diverse spezie di convenienza, che si possono ravvisare tra le idee, cioè l'identità o la diversità, la relazione - la coesistenza o la connessione necessa ria, e l'esistenza reale. Esempi di que sta partizione sono: 1.º ll turchino non è il giallo, è disconvenienza d'identità: 2.º due triangoli a basi eguali posti tra due parallele sono eguali, è convenienza di relazione: 3.º il ferro riceve impres sione dalla calamita, è convenienza di coesistenza: 4.º Dio esiste, è convenien za di esistenza reale. V. Cognizione, Re lazione. Abbiamo già detto altrove della poco utilità di tali categorie, nelle quali son ca duti quegli stessi, che le hanno rimpro verato a peripatetici, V. Categoria. CoNvERsIoNE (disc.), termine logico, per lo quale dinotasi la trasmutazione d'una proposizione in un'altra, che prende per suggetto il predicato, e per predicato il suggetto della prima. V. Predicato, Pro posizione. La conversione può farsi o tra due pro posizioni particolari affermative, o tra una particolare e una universale, o tra due universali, secondo le regole che danno i logici. La conversione delle particolari avviene, quando si può fare la stessa af, fermazione del predicato e del subbietto, 14 - 106 – e sempre che l'uno abbia un significato particolare o eguale a quello dell'altro, come per esempio: qualche uomo è giu sto: la sua conversa è, il giusto è pro prio di qualche uomo. La conversione della particolare e della universale si fa, trasmutando nel subbietto la nota di par ticolarità che è nel predieato, come per esempio: l'uomo è animale e sua con versa, uno degli animali è l'uomo. La conversione infine delle universali si fa, conservando la stessa generalità in ambo i termini, purchè quello dell'uno non sia maggiore dell'altro, come per esempio: gli uomini sono Esseri ragionevoli, sua conversa, gli Esseri ragionevoli sono uo mini. V. Affermativo. CoNvizio (prat.), detto ingiurioso, vero o falso che sia. Se il convizio è falso, incorre nella nota di calunnia. V. Calunnia. CoNvizIONE (spec. e disc.), assentimento dell'animo ad una proposizione dimostrata, o per se stessa evidente, che è accompa gnato dalla certezza della sua verità.V. As sentimento, Certezza, Vero. CooRDINARE (spec. e disc. ), far en trare le cose nell'ordine che loro conviene. V. Ordine. - Il coordinare presuppone la nozione del l'ordine già noto, o stabilito. CooRDINAZIONE (spec. e disc.), l'ope razione del coordinare. - È termine adoperato dal Segneri nel senso di collocamento in luogo eguale. CoRAGGIo (prat.), virtù, per la qua le la ragione o l'immaginazione vince il pericolo, il dolore, e per sino l'amore della esistenza. V. Dolore, Esistenza, Virtù. La ragione e l'immaginazione non so lamente possono essere ciascuna madre del coraggio; ma danno a cotesta virtù una tinta, o un carattere diverso, secondo chè dall'una o dall'altra proviene. Di qua nasce la distinzione tra la bravura e il coraggio propriamente detto, o sia tra 'I coraggio d'istinto, e di ragione. Quello prende il vigor suo dal temperamento e dalla forza dell'immaginativa: questo dal la ragione e dal vivo sentimento dell'obli gazion morale: quel coraggio è alimen tato dall'emulazione, dall'amor della ce. lebrità, o dall'ambizione: questo dal puro amor della virtù : l'uno si sostiene alla vista dell'inimico, delle armi, e degli spettatori, ma si perde nelle infermità, nelle sventure, e sovente ancora nelle an gosce della morte; laddove l'altro tran quillo e sereno, vede i mali e i pericoli quali sono, gli attende, e gli affronta con quella indifferenza, che mostrar non sa all'aspetto degli altrui mali. Non è già che in molti casi l'esaltamento dell'imma ginazione non possa accoppiarsi alla fer mezza della ragione, e produrre esempi di coraggio eroico, ne quali la costanza trascende ancora i confini della umana na tura; ma tanta forza d'impassibilità non può esser sostenuta, se non per la inter venzione d'una causa soprannaturale, che vinca gli ostacoli della sensibilità fisica. Nulla è nuovo nel mondo, e la storia è ricca di esempi d'ogni virtù, e d'ogni vizio! Delle tre spezie di coraggio, che abbiam divisato, cioè la prodezza, il co raggio della ragione, e l'eroico; la pri ma è illustrata dagli esempi della virtù militare, che gli uomini non cesseranno – 107 - mai di ammirare, come la sorgente della celebrità e della gloria. V. Gloria. Delle altre due, perchè più rare, più utili, e più onorevoli all'umana natura, giova tramandar gli esempi, come scin tille luminose per la colta umanità. Del coraggio della ragione niun esempio è de gno di maggior ammirazione della morte di Socrate, di cui Cicerone dice: cum paene in manu jam mortiferum illud le neret poeulum, locutus ita est, ut non ad mortem tradi, verum in coelum vi deretur adscendere. E se può prestarsi intera fede all'esempio della morte di Te ramone; questi condannato a morte dai trenta tiranni, bevve da sitibondo il mor tifero calice , e de resti ne asperse per libamento la terra, come per un brindisi al suo principal nemico Crizia, motteg giandolo propino hoc pulchro Critiae, del quale fatto lo stesso Cicerone disse: lusit vir egregius extremo spiritu, cum fam praecordiis conceptam mortem contine ret. Finalmente dell'eroico e divino co raggio, che trionfa della morte e detor menti, non è la filosofia, ma la pura e santa religione, che ne somministra gli esempi nella intrepida fine del martiri cri stiani. V. Martirio. CoRpo (spec.), sostanza estesa, impe netrabile, inerte, passiva, indifferente al moto o alla quiete, ma dotato di figura e di forma. V. Materia. Il corpo è la materia seconda, nel senso degli aristotelici. Giusta l'opinione decen nati filosofi era un composto di materia, di forma e di privazione. Secondo gli epi curei era un aggregato di atomi grezzi e adunchi. Secondo i cartesiani non è, se non una porzione di estensione. V. Atomo, Estensione, Forma, Privazione. Secondo i neutoniani, è un aggregato di parti solide, dure, pesanti, impenetra bili e mobili, disposte per modo, che dalla diversa disposizione di esse nasce l'indefi nita varietà delle loro forme, e quindi dei nomi che ad essi diamo. Secondo Locke, non abbiamo della sostanza del corpi una idea più chiara di quella che abbiamo de gli spiriti, comechè inchini egli alla dot trina degli atomi. Secondo Leibnitz, la ma tura corporea non ha elementi noti, nè può essere spiegata per la composizione di altri corpi più piccioli ed omogenei del compo sto, dapoichè la mente si perderebbe nel l'indefinita suddivisione, di cui i compo nenti sarebbero capaci. Per la qual cosa, non potendo egli spiegare fisicamente la sostanza del corpi, ricorse all'ipotesi meta fisica delle unità reali, o sia delle mo nadi, le quali separano nella natura i cor pi dalla materia bruta. V. Monade, Unità. Dalla difficoltà di spiegare la sostanza de corpi, passarono taluni filosofi della tra scorsa età a rivocare in dubbio la loro esistenza materiale. Partendo costoro dal principio della filosofia cartesiana, che non ammise altra certezza fuori dell'esistenza dell'Essere pensante, e trattando da ma terialisti coloro, i quali ammettevano l'esi stenza decorpi esteriori, cangiarono il dub bio di Cartesio in una assoluta negazione della realità loro. Credettero in somma, che essendo l'anima spirituale, e non aven do le idee degli obbietti esterni nulla di comune nè di analogo cogli obbietti stessi; ne derivasse che le idee non possono es sere prodotte dagli obbietti; imperocchè l'ob bietto d'una idea non può essere se non un'altra idea, e per conseguente non può essere una cosa materiale. Soggiunsero che l'obbietto dell'idea, che noi ci formiamo de corpi, è l'idea stessa che ne ha Dio, n - – os – idea che affatto non somiglia, nè somigliar potrebbe a corpi medesimi. Per tal modo Malebranche e Berkeley furono gli antesi gnani di quella famosa dottrina, cui Hume diede l'ultima mano, negando la realità delle idee e dello spirito stesso. V. Scettico. Questo cenno delle opinioni intorno alla sostanza o natura decorpi, dimostra come dal desiderio di spiegare le cause ignote del fenomeni naturali, si giunse in fine a negare la realità del fenomeni stessi. Così, l'ignorare come siam fatti, e come veg giamo o sentiamo, divenne una ragione per negare l'essere, il vedere, e il sentire. In un significato più speciale, intendonsi per corpi le parti della materia organiz zata, o sieno i corpi organici, che si di stinguono dagl'inorganici. I corpi organici, e tra questi l'umano, posson dirsi il capo lavoro della natura, dapoichè contengono il più sublime parto della sua sapienza, la gradazione di tutte le forme, delle quali la materia è capace, il saggio di tutte le forze, che un principio attivo può comuni carle, il saggio infine degli elementi delle macchine e degl'instrumenti tutti, co'quali può la mano dell'uomo giugnere persino a muovere le grandi masse della natura. La contemplazione delle innumerevoli spe zie del corpi organici svela all'uomo la sa pienza infinita del Creatore, insieme colle prime nozioni delle scienze e delle arti utili alla vita. Quis vero opifex, esclamò Cice rone, praeter naturam, qua nihil potest esse callidius, tantam solertiam perse qui potuisset in sensibus, al che giova ancora aggiugnere la grandiosa descrizio ne che fa Socrate, presso Senofonte, della s:ruttura dell'uomo per guidare Aristodemo dalla cognizione delle cose sensibili alla con templazione dell'Ente Perfettissimo. In ge merale la fabbrica del corpo umano, se non può dirsi la più maravigliosa opera dell'universo, è certamente per noi la più manifesta e immediata pruova della infi mita sapienza di Dio, e del fine benefico delle opere sue. Così in ogni tempo, a cominciar da Socrate, da Aristotele, da Galeno, e venendo insino a moderni, lo studio e l'analisi delle parti del corpo uma no, delle proporzioni loro, e delle leggi meccaniche che ne regolano le funzioni, han somministrato alla teologia naturale i più luminosi argomenti della esistenza d'una prima causa. Vorremmo, per onor della ragione umana, che l'ateismo e il materialismo non avessero mai trovato fau tori tra fisiologi, nè tra gli astronomi, e che costoro fossero stati sempre i primi ammiratori sì del piccolo, che del grande mondo. Ma tal'è la fallacia del nostro ra gionare, che l'errore trae spesso i suoi ar gomenti dalla luce stessa, che dovrebbe dissiparlo. L'ordine si astrae dalla intelli genza del suo autore, e si cangia in me. cessità: i fenomeni si separano dalla loro causa, e si attribuisce agli organi stessi la forza che gli produce. V. Fenomeno, Mecessità. CoRPUscoLARE (spee. e ontol.), nome dato a quella dottrina fisica, che ammette i corpuscoli come elementi della materia configurata. V. Corpo, Corpuscolo. Cotesta dottrina è una riproduzione di quella degli atomi, combinata non per tanto coll'esistenza della Divinità e delle sostanze spirituali: nacque ella dalla ipo tesi, che il corpo altro non fosse, che una massa estesa, conseguenze della qua le sono, la grandezza, la divisibilità, la figura, il sito, il moto, o la quie te. Ma il corpo è per se stesso incapace di qualunque azione, che non sia moto - 109 – locale, e molto maggiormente di vita e di pensiero; il perchè divenne necessario supporre altre cause intelligenti ed im materiali. Una tal filosofia abbagliò molti grandi ingegni, in cima a quali è Car tesio, perchè dava un'apparente ragione della meccanica struttura del mondo mate riale. Ma sopra qual fondamento ha ella assunto, che gli elementi delle cennate proprietà fossero i corpuscoli? E come può la ragione soffermarsi a questi elementi relativi, i quali per invisibili ed insensi bili che fossero, presupporrebbero sempre altri componenti primitivi? CoRPUscolo (spec. e ontol.), infima parte costitutiva del corpo. L'esistenza del corpuscoli è una ipotesi fisica e metafisica insieme, per ispiegare la composizione de corpi. Può dirsi ancora essere un concetto spontaneo della mente per ispiegare la natura del composto. Im perocchè coll'analisi, che ne fa il pensiero arriviamo a primi componenti, o sia alle prime particelle che debbon essere insepa rabili, e dall'aggregato delle quali risul tano la forma e la figura del corpi. Son queste le particelle, che i filosofi chiama rono atomi, o corpuscoli. Noi le conce piamo come invisibili, e però la realità loro sta nel solo nostro pensiero. Un tal concetto ci mena a stabilire un secondo ordine di particelle sensibili, da cui co mincia per noi la composizione, e in sino alle quali possiamo giugnere quando vogliamo scomporgli. Per distinguer que ste da quelle, chiamiamo le seconde mo lecule. A queste fermansi la fisica e la chi mica nella investigazione, che fanno dei primi componenti della materia, e delle forze loro. V. Atomo, Composto, Mo lecula. CoRRELATIvo (disc. ), il subbietto, che ha con un altro una relazione, che noi consideriamo in entrambi necessaria o co mune, per modo che l'idea dell'uno ri-, chiama costantemente quella dell'altro. Il padre e il figlio, il marito e la moglie, i gemelli, son voci correlative, allorchè consideriamo in essi la qualità che pro viene dalla paternità, dal legame coniu gale, o dal comune concepimento. Non bisogna confondere i correlativi co' con trapposti, comechè di questi ancora l'uno richiami l'idea dell'altro. Il bianco e il nero, le tenebre e la luce, il giovane e il vecchio, il simile e il diverso, son con trapposti e non correlativi, perchè non hanno la stessa relazione tra loro, sebbene l'esistenza dell'uno faccia necessariamente presupporre quella dell'altro. Se richia mansi a vicenda alla mente, questo è l'ef fetto dell'associazione delle idee, la quale avviene per diversi, e moltiplici motivi. V. Associazione, Contrapposto. CoRRELAZIONE (disc.), astratto del cor relativo, e vale scambievole attinenza o relazione, che risguardiamo come neces saria, o comune tra due subbietti. CoRRUTTELA (prat.), l'estrema depra vazione del costumi. CoRRUZIONE (spec. e prat.), la disso luzione de corpi. V. Corpo. È quel fatto di natura, per lo quale tutte le cose materiali son menate a fini mento, o sia è l'operazione opposta alla generazione o produzione degli Esseri cor porei: per questa i corpi si formano e divengono capaci di vita: per quella si scompongono e cessano di essere quel che sono stati. Sebbene niuna parte della – 110 – materia possa dirsi creata per la generazio ne, nè distrutta per la corruzione (la quale scioglie soltanto la forma che determina le diverse spezie degli Esseri); ciò non ostan te Aristotele, e tutti quelli i quali crede vano alla eternità della materia, afferma rono esser due i principi di tutte le cose, la generazione e la corruzione. Se la corru zione possa esser causa generatrice di ta lune inferiori spezie di Esseri organici, è una quistione grave, di cui non ha guari si è impadronita la Fisiologia, e intorno alla quale han variamente sentito gli antichi e i moderni naturalisti. Gli animaletti infusori, i vermi e gl'insetti, che nascono e vivono nello interno degli animali e delle piante, o che si formano per la putrefazione o seomposizione delle sostanze vegetabili e animali , sommini strano oggidì un nuovo argomento in favor della generazione spontanea, equivoca, o eterogenea decennati Esseri. V. Gene razione. CoRTESIA (prat.), benignità di animo, dimostrata con parole e con altri esterni modi. È più dell'affabilità e della civiltà.V. que ste voci. - CosA (spee. e dise.), tutto quel che è, o può essere; o sia quello, cui corrisponde una qualche determinata nozione. V. Es sere, Vozione. - Gli scolastici distinguevano l'ente o l'Es sere dalla cosa. Chiamavano ente il sub bietto, considerato per la sua esistenza; e lo dicevan cosa, se il concetto riferivasi alla qualità o essenza sua. Cotesta distin zione può essere risguardata come utile alla chiarezza, e alla precisione deconcetti filo sofici. V. Ente, Nella lingua latina il vocabolo res ave va i suoi derivati, a quali fu dato un si gnificato coerente a quello del nome ra dicale; il perchè la nozione della realità corrispondeva esattamente a quella della voce da cui era astratta. V. Realità. Nell'uso comune di tutte le lingue il vocabolo che corrisponde alla voce italiana cosa, ha un significato generalissimo, il quale vien determinato dal suggetto stesso del discorso. Il linguaggio scientifico, al pari del comune, ha bisogno di voci in determinate, ma determinabili per sup plire alla insufficienza de vocaboli, ed alla impossibilità di adattare un nome proprio ad ogni obbietto del pensiero. Della ne cessità di siffatte voci sono esempi gli stessi vocaboli generali, del quali fa uso la scienza, come quelli di obbietto, sub bietto, sostanza, ed altri. E però il vo cabolo cosa può essere adoperato nel lin guaggio filosofico per esprimere tutto quel che non può essere designato con un pro prio nome, semprechè riceva dalla natura stessa del discorso una chiara determina zione. V. Obbietto, Sostanza, Subbietto. CoscieNzA (spee. e erit.), facoltà del l'anima, per la quale l'uomo è consa pevole della sua esistenza, distingue il bene dal male, esamina le azioni sue, e giudica della qualità loro. V. Azione, Esistenza, Facoltà. È propria e privativa dell'uomo, per chè le sue funzioni presuppongono un agente morale, o sia libero ed intelligen te, capace di riflettere in se medesimo, fornito di giudizio, e di ragionamento. E però la coscienza è il primo di tutti i caratteri che distinguono l'uomo, animale ragionevole, da bruti. Per enunciare nei più brevi termini possibili cotesta diffe - 111 - renza, potrebbe dirsi, che gli animali si sentono, e l'uomo si conosce. V. Agente, Niuna mozione è più ovvia all'uomo della coscienza, e non pertanto per niuna altra come per questa, è stata la filoso ſia più lenta a riconoscerne l'importanza, e a sceglierla come principio investigatore dell'umana cognizione. Locke definì la coscienza, l'opinione che noi stessi ab biamo di quel che facciamo. Per verità, non potevasi fare un ritratto più povero della più luminosa delle nostre facoltà. Ma esso è altresì fallace. La sua definizione esclude la realità e la certezza, dapoichè la separa dal senso intimo, che n'è il prin cipio. Di vantaggio la confonde colla per cezione, mentrechè la coscienza presup pone l'atto della percezione ed abbraccia tanto questa, quanto tutte le altre opera zioni dell'anima. Purtuttavolta intese Locke la necessità d'un vocabolo che esprimesse il principal carattere di questa facoltà, che è appunto l'esser consapevole degli atti del pensiero, e credette trovarlo nel nome inglese conseiousness, del quale i fran cesi non hanno l'equivalente. A differenza della lingua francese, l'italiana ha il ter mine equivalente nella voce consapevo lezza. Vuolsi di tutto il concetto di Lo che intorno alla coscienza, ritenere soltanto quel che concerne la necessità del cennato vocabolo. V. Consapevolezza. Prendiamo ora dalla natura, o sia da noi stessi, la vera nozione della coscien za. Siccome noi non abbiamo altro mezzo di conoscere il fine che la natura ha avuto nell'averci dotato di tutte le facoltà pro prie della umana costituzione, se non l'uso e la destinazione, cui le ha ella stessa indirizzate; così giova prendere gl'inizi di cotesta analisi dalle funzioni, che la co scienza esercita. Gli uomini tutti ricono scono la coscienza come la guida, anzi come la direttrice e l'emendatrice depor tamenti loro. Esercita ella una tal dire zione per virtù d'una luce, che le fa di stinguere il vero dal falso, e d'un giudi zio severo, col quale discute e rischiara tutte le incertezze dell'intelletto e della vo lontà. Cotesto giudizio precede, accompa gna, e segue l'azione, per poi approvar la o disapprovarla. In somma la coscien za non solamente regola le azioni, ma giudica del nostro fatto, ci assolve, ci condanna, ci premia coll'interno contento dell'anima, e ci punisce col rimorso. Chi le ha dato una potestà cotanto autorevo le? E chi ha comunicato a suoi giudizi la certezza e l'evidenza di cui questi sono per loro essenzial carattere dotati? Di niuna verità noi siam tanto certi, quanto di quella che acquistiamo per l'in terno senso dell'animo. Per esso scopria mo l'errore del sensi, le suggestioni degli affetti e delle passioni; per esso sogget tiamo ogni nostro giudizio ad una preli minare disamina, onde accertarci, se l'ob bietto di cui giudichiamo, sia o no alla portata delle nostre facoltà; se i sensi no stri sieno retti, ovvero inceppati da un impedimento qualunque; se la volontà sia libera; e quando siam certi ch'ella è sce vra d'ogni ostacolo, discerniamo il vero ed il giusto senza tema di errore, e con tale assicuranza, che ogni altra dimostra zione prende da lei la pruova della sua verità. Chi ha dato e chi poteva dare alle facoltà finite dell'uomo l'infallibilità? La forza dunque e l'autorità della coscienza provengono da una ragione antecedente e superiore all'uomo, la quale l'ha im pressa in una delle facoltà dell'animo no stro. Cotesta conseguenza non isfugge a chiunque sente e conosce se stesso; ma – 112 – se non tutti la confessano, ognuno cer tamente nelle più importanti congiunture della vita si regola co dettami della co scienza. V. Certezza, Infallibilità. Dal ritratto delle funzioni, che in noi esercita la coscienza, scorgesi in lei un doppio carattere, cioè di facoltà intellet tuale, e di principio delle nostre azioni. Come facoltà intellettuale, ella è ispirata dal senso intimo, nel quale la natura ha riposto il germe del vero, o sia di quel discernimento morale, per lo quale noi raccogliamo tutte le idee del sensi e le nozioni della riflessione, e le parago niamo co tipi del giusto e dell'onesto. Questi tipi sono appunto quelle prime ve rità o principi, che sono connaturali al l'anima, e che la luce della ragione ci rivela non prima ch'ella giugne allo stato di sua maturità. V. Principio, Senso, Verità. - D'altra parte, come facoltà intellettua le , serve di sprone e di alimento alla memoria e alla riflessione, congiugne il passato col presente, e antivede il futuro. La connessione, che ella stabilisce nella successione de pensieri e delle azioni, apre alla mente la nozione della durata e del tempo, della unità, della continuità, e dell'identità del suo essere. V. Durata, Futuro, Identità. La nozione della identità le rende pro fittevole l'esperienza, e le somministra la cognizione delle relazioni tra le cause e gli effetti, o sia del grande ed universal prin cipio della causalità. Cotesta cognizione è quella, che le dà la norma per giudi care delle azioni future, per leggere nel possibile, per ischivare il male, per pre disporre il bene, per istabilire in somma tra l presente e il futuro quella stessa con nessione, che ha sperimentato tra il pas sato e il presente. I germi di una tale co gnizione, insiti nella coscienza, son quelli che fecondati dalla riflessione, e sviluppati dall'abito generano quella virtù morale, che è la direttrice della vita, cioè la pru denza. V. Causa, Causalità, Prudenza. Intanto a chi profondamente mediti so pra gl'invisibili legami che ci guidano alla cognizione del vero, non può non isfug gire un'altra grande verità, cioè che tra i doni, dequali la natura ci ha adornato, il maggiore è quello, che apre la mente a tanta cognizione del possibile e del fu turo, quanta è necessaria al retto porta mento della vita, ed al conseguimento di quella felicità morale, cui siamo destinati. Chi poteva dare all'anima, ristretta ne'can celli del sensi, i principi della scienza del futuro, se non l'Essere Infinito che ha la prescienza di tutte le cose? V. Pre scienza. - I materialisti han potuto credere, che la materia fosse capace del pensiero, per la sola ragione che il contrario non può essere dimostrato a priori. I filosofi sen sisti han potuto concepire l'ipotesi, che l'onnipotenza di Dio avesse potuto comu nicare alla materia una tal virtù. Ma gli uni e gli altri si arrestano innanzi a fe nomeni della coscienza. Il dire che la ma teria conosce se stessa, muove se stessa, e antivede le future relazioni di quelle leg gi alle quali obbedisce, è un concetto che implica contraddizione, e che sconvolge i principi fondamentali della ragione. Considerata in fine la coscienza, come un principio d'azione, intervenendo ella nella deliberazione delle nostre azioni, in dirizzandole al fine loro col senso del vero e del giusto, di cui è depositaria, e ri schiarando la mente colla guida della spe rienza; non è chi in lei non ravvisi la – 115 – - forza d'un istinto razionale, o sia della più efficace spinta, che possa determinare la volontà, e indirizzarla a fini della na tura morale dell'uomo. Le sue ispirazioni son quelle che ci dettano i nostri primi doveri, che ci suggeriscono le nozioni ele mentari della giustizia, della ricompensa e della pena, della lode e del biasimo, della virtù, del vizio, e dell'obligazione morale. Il complesso di tutti questi attri buti della coscienza menano la ragione a conchiudere che ella è un nume in noi presente, o una luce divina, che si mo stra a chiunque sappia contemplarla. CosMocoNIA (crit.), la dottrina che gli uomini formaronsi intorno all'origine e al nascimento dell'Universo. V. Universo. Cotesta vecchia dottrina proponevasi di spiegare la genesi del mondo per cause naturali, le quali presupponevano l'eter nità della materia, o de suoi elementi. Fu il primo studio, che gli uomini fecero della natura ; o sia fu la prima spiega zione, che la immaginazione suggerì dei principi di tutte le cose. Cotesta spiega zione fu ricavata dalle ipotesi, e ornata dalle finzioni; il perchè la cosmogonia di venne madre della mitologia. Nella storia della filosofia va considerata, come una parte della sapienza poetica delle nazioni. V. Materia. - CosMoGRAFIA (erit.), descrizione del l'universo, che ha per sue parti l'uranolo gia, l'idrografia, e la geografia. Differi sce dalla cosmologia, perchè si limita alla sola parte descrittiva, non altrimenti che la storia naturale differisce dalla fisica. CosMoLocIA (crit.), la scienza contem platrice della macchina del mondo, e delle leggi che lo reggono. V. Legge, Mac china, Mondo. Wolfio introdusse nelle scuole la cosmo logia, o sia imprese a considerare l'uni verso, come un ente composto, nato dalla combinazione delle sostanze semplici. Dal l' ordine e dall'armonia delle parti sue, non che dalla connessione e dalla analo gia del fenomeni naturali, ricavò la no zione delle leggi generali, colle quali si regge. Dalla contingenza poi del suo es sere, e dalla perfezione del suo tutto fece nascere la dimostrazione dell'esistenza e degli attributi di Dio. Cotesta dimostra zione non fu sua, ma suo fu il metodo, e il pensiero di formarne uno studio pre paratorio della teologia naturale. Così, la cosmologia comprender doveva le nozioni dell'essenza e degli attributi del mondo, considerato come ente composto, dell'es senza e degli elementi de'corpi, delle leggi del moto, dell'ordine e della perfezione delle opere del Creatore. Comechè bello in talune parti sia il con cetto di Wolfio, è manifesto nonpertanto, che la cosmologia non è in sostanza altro che la fisica generale del mondo, meta fisicamente trattata. In altri termini, è quella metafisica de'corpi, la quale nac que dalla partizione delle scienze, fatta da Bacone. V. Fisica, Metafisica. Or se alle astrazioni dell'ontologia non può essere conservato il nome e la dignità di scienza, ne segue che cader debba tutta la parte della cosmologia, che era da quella derivata. Lo stesso dee dirsi dell'altra parte, per la quale entrasi nel campo della fisica generale, e si anticipano le nozioni intor no alla matura de corpi, e alle leggi del moto. Ma non può certamente privarsi la teologia naturale de suoi più luminosi ar gomenti, di quelli cioè che ricavansi dal 15 - I 14 – l'ordine della natura, dalla perfezione del l'universo, e dalla contingenza della sua esistenza. E quì vuolsi notare, che tutto di Wolfio è il vanto di aver dato una scienti fica dimostrazione della creazione. V. Crea zione, Ontologia. L'includere nelle scienze metafisiehe la contemplazione dell'ordine e delle leggi ge: nerali dell'universo, è conforme ancora al concetto di Cartesio, il quale ne fece una parte della sua filosofia prima, ed è al tresì conforme al voto della ragion comu ne, perchè doppia è la scala per la quale salghiamo alla cognizione della Divinità, la conoscenza di noi stessi, e il teatro delle opere della natura; colla differenza non pertanto, che la prima è il frutto della contemplazione e della filosofia speculati va, la quale è di pochi; mentrechè il se condo è aperto a sensi di tutti, e contie ne la dimostrazione parlante della infinita sapienza del Creatore. La cosmologia dunque de essere conser vata tra le scienze metafisiche, limitandola alla sposizione del sistema dell'universo, considerato per rispetto alla sua immensi tà, all'ordine, e alla perfezione delle sue leggi, lasciando alla fisica l'esame delle proprietà generali e particolari decorpi. º - Costanza (prat.), la virtù che fa l'uomo permanente nel proposito del ben oprare. Cicerone fa di Catone il ritratto della costanza, e dalle doti dell'animo di lui ricava i requisiti di cotal virtù. Il primo è l'indole propria, o sia una naturale di sposizione alla fermezza della volontà: il secondo, la maturità del giudizio: il terzo l'abito della perseveranza nelle deliberazio ni una volta prese (de off lib. 1. c. XXXI). Da ciò risulta che la perseveranza dif ferisce dalla costanza, essendo quella il - - mezzo per lo quale si perviene a questa, cui propriamente conviene il nome di vir tù. Differisce dalla fermezza, essendo que sta uno del requisiti che presuppone la co stanza. V. Fermezza, Perseveranza. Gli stoici chiamavano costanza il per petuo ed equabile portamento della vita, accompagnato dalla imperturbabilità del l'animo, da serena fronte, e da impassi bile volto. Ma l'esagerazione di questa so vrumana costanza rende più plausibile la definizione di Cicerone, perchè più adatta alla umana natura; e rende più manife sta la differenza che il cennato autore sta bili tra la virtù scenica, e la vera. V. Virtù. CosTERNAZIONE (prat.), sentimento mi sto di spavento e di agitazione, che toglie all'uomo il consiglio e la deliberazione ne mali, de quali è minacciato. Seneca suggerisce i rimedi contra questa infermità dello spirito, che è la prontezza dell'ani mo, e l'abito del meditare e dell'antive dere, non i mali soliti ad avvenire, ma i possibili alla umana condizione: assuesca mus futuris malis, et quae ali diu pa tiendo levia faciunt, nos, diu cogitando. CosTITUZIONE (spec.), la disposizione na turale d'un corpo, la quale nasce dalle qualità e proporzioni delle sue parti. In senso traslato, si adopera anche per esprimere lo stato naturale di qualunque Essere, considerato a rispetto della sua primitiva formazione. CostRUzIoNE (dise.), l'ordinamento dei vocaboli d'una proposizione, secondo le regole del linguaggio. V. Linguaggio, Proposizione. Taluni hanno distinto la sintassi dalla costruzione, comechè la definizione del – 115 - nome, e il concetto della cosa definita sieno gli stessi. V. Sintassi. Consideriamole da prima come due voci omonime. La costruzione o sintassi si di slingue in concordanza e reggimento. La sintassi di concordanza consiste nel mettere nella dovuta corrispondenza di nu mero e di genere il subbietto col predi cato, e l'azione o la passione dello stesso subbietto col verbo. V. Concordanza. (Quella di reggimento serve a legare in sieme le diverse parti del discorso, per mezzo delle preposizioni, o della varia in flessione del casi. La costruzione è semplice o figurata: la semplice, chiamata anche da altri autori ordine analitico gramaticale, è quando le parole son collocate nello stesso ordine naturale delle idee: la figurata è quella, che recedendo da tale ordine, o riseca e lascia sottintendere qualche parola, o me aggiugne qualche altra che sarebbe super flua, o muta il naturale andamento del discorso: di qua le figure, delle quali la sciamo a gramatici la sposizione: l'iper bato, l'ipallage, e tutte le spezie loro. V. queste voci. - Le lingue moderne, tranne la tedesca, amano la costruzione semplice più della figurata. Per contrario i Greci e i Latini, e questi più di quelli, amavano le inver sioni, dall'acconcio uso delle quali face vano nascere l'eleganza del parlare. Co testa diversità di costruire indusse qualche altro autore a partire le lingue in due clas si, le analoghe cioè e le traspositive, ma per verità il diverso ordine della costru zione non sembra poter formare un ca rattere distintivo delle lingue. V. Figura. Quelli, che han distinto la sintassi dalla costruzione, han chiamato con questo no me quella parte di regole gramaticali la quale versa circa gli ornati del discorso, o circa la commozione degli affetti. A buon conto, chiamerebbero essi sintassi l'ordi ne analitico, e costruzione il figurato, dapoichè nelle figure principalmente è ri posto ogni discorso elegante o animato. Ma perchè proporre nuove distinzioni di vocaboli in un'arte, antica quanto la pa rola, e nella quale i gramatici non han lasciato nulla a desiderare in fatto di par tizioni e di categorie? CosTUME (prat.), abito del portamenti della vita, acquistato da ogni uomo per l'istinto, per la riflessione, e per lo stu dio. V. Abito, Istinto, Riflessione. È un prodotto, così delle disposizioni naturali, come dell'imitazione, dell'inse gnamento, e della cognizione speculativa che ciascuno si ha formato. E però può essere lodevole o biasimevole, e più o men perfetto, secondochè l'educazione abbia indirizzato l'uso delle nostre facoltà più o meno convenientemente al fine della natu ra, e a suggerimenti della ragione e della coscienza. Corrisponde a quel che i latini chiama rono mos, e i greci e 3os, da quali voca boli è nata la denominazione di morale, e di etica a quella scienza, che versa circa i doveri e i costumi, V. Morale, CRANIo (spec.), copertura ossea del cer vello. V. Cervello. CRANIoGRAFIA (grec. sup.), descrizione del cranio. E parte della notomia, e del la craniologia, se pure cotesta nuova arte meriti una particolare denominazione. CRANIoLoGIA (spec. e crit.), nuova arte di coloro, i quali pretendono conoscere m – 1iº – dalle protuberanze del cranio, gli organi del cervello, cui corrispondono le qualità sensitive e intellettive dell'anima. Fondatore di quest'arte, fu il Dottor Gall, di cui la dottrina ha per base la seguente ipotesi: « gli organi animali che comunemente credonsi dotati di sentimento e di percezione, non sono i soli, che ab biano ricevuto dalla natura una tale virtù, ma ve n'ha molti altri nascosi nell'inter ma massa cerebrale, i quali sentono e per cepiscono al pari dell'occhio, dell'udito, e del tatto: ciascuno di tali organi ha una naturale disposizione, propria delle fun zioni che de esercitare, la qual disposi zione chiamasi facoltà, l'uomo ha un nu mero maggiore di organi, e per conse guente di facoltà, perchè in se raccoglie capacità maggiori degli altri animali; ed essendo il sentimento e la percezione co muni a tutti i vari organi del cervello, ne segue che ognun di essi è capace d'idee e di passioni: in somma il pensiero e la sensibilità, non nascono da una forza unica dell'organismo del cervello, ma son sud divisi tra le diverse sue parti; il che spie ga come la cennata forza si sviluppi e si riproduca in ogni punto del medesimo, e come il piacere e il dolore si senta in ogni sito, dove l'istinto morale di ciascu ma facoltà vien favorito, o contrariato da una esterna causa ». Il Dottor Gall, come ognun vede, ris guarda il cervello come l'agente produt tore di tutte le operazioni dell'intelletto, nel che la sua dottrina è conforme a quel la degli altri fisiologi materialisti; ma da costoro discorda, in quanto che ammette nelle diverse parti di quel viscere i tipi delle facoltà intellettuali e sensitive del l'uomo, e in quanto crede che tali par ticolari disposizioni dell'organo cerebrale, corrispondano ad altrettante protuberanze del tavolato del cranio. Noi abbiamo al trove additato gli assurdi metafisici e fisio logici, ne quali un tal sistema si abbatte. (Vol. I. pag. 321). Gli assurdi metafisici sono: 1.º l'avere scambiato la potenza coll'organo: 2.º l'avere gratuitamente pre supposto, che la percezione e il sentimento fossero insiti in ciascun organo. I fisio logici poi sono : 1.º l'avere attribuito al cervello le funzioni organiche della vita vegetativa, comechè tali funzioni sieno co muni anche agli animali non vertebrati, che son privi di cervello: 2.º l'avere ri posto l'attività del sensorio nella sostanza cinerizia, o corticale del cervello; mentre che è dimostrato esser quella propria della sostanza bianca fibrosa, nella quale risie de la forza sentente: 3.º l'avere supposto che le sinuosità irregolari della superficie del cervello, le quali producono talune protuberanze nello interno tavolato del cra mio, corrispondano ad altrettante protu beranze nello esterno; mentrechè l'uno è separato dall'altro dalla diploe, che è una sostanza midollare intermedia, nella quale andrebbero a perdersi le interne impressio ni, quando anche queste fossero più pro fonde e rilevate di quel che in realtà so. no: 4.º l'aver fatto la stessa supposizione per rispetto a lobi anteriori del cervello, e l'avere in quelli collocato un maggior numero di organi e di facoltà riconosci bili al tatto, mentrechè nella regione fron tale, la quale corrisponde adetti lobi an teriori, i due tavolati non sono neppur contigui, per modo che da essi nasco no due cavità, che sono i seni frontali. V. Cervello. CRANIoscoPIA (gree. sup.), l'ispezione del cranio secondo il sistema di Gall. – 117 – Cararone (spee. e prat.), nome pro prio di chi forma un Essere dal nulla, e però conveniente soltanto a Dio. V. Dio. CREAzioNe (spee. e prat.), l'atto, che dal nulla fa qualche cosa. - È vocabolo consacrato all'opera del mon do e dell'universalità delle cose create dal l'infinita potenza e sapienza di Dio. V. Dio, Universo. L'idea della creazione ha per suo com trapposto quella dell'eternità della materia, che formò il fondamento della cosmogo nia, e per conseguente della metafisica de gli antichi. Conviene non pertanto distin guere l'eternità della materia da quella del mondo. Nella prima accordavansi tutti i sapienti del gentilesimo; mentrechè la se conda fu propria della filosofia greca. Gli atomisti furono i primi a scuotere nella Grecia la generalità della cennata opinio ne. Le invincibili difficoltà che nascevano dalle patenti tracce della novità del mon do, e da primordi stessi delle associazio ni de popoli, sembra che avessero sug gerito la dottrina del concorso casuale de gli atomi, dottrina per altro che presup poneva anche essa l'eternità della materia. V. Alomo, Eternità, Materia. La rivelazione ha radicato nella filosofia la dottrina della creazione, e ha dissi pato tutte le ipotesi, per le quali andò er rando la scienza del paganesimo. Cotesta dottrina de essere considerata, come la pietra angolare della moderna filosofia, e diremo della filosofia della ragione, tra perchè mette la storia fisica e la civile del mondo in perfetto accordo colla ragione, e perchè contiene in se il vero ed unico principio della filosofia morale. Laonde la professione di fede, fatta da Bacone, è divenuta la divisa della moderna filoso fia. Credo nihil absque principio esse praeter Deum : naturam nullam, mate riam nullam, spiritum nullum praeter solum Deum. CREDENZA ( spec. ), assentimento pre stato alla autorità dell'altrui detto. È proprio del giudizi che noi formiamo sopra le attestazioni desensi altrui, e però non esclude la dubitazione. In altri ter mini, conviene a soli giudizi probabili, il perchè la credenza produce non la cer tezza, ma l'opinione. V. Opinione, Pro babilità. - - È diversa dalla fede, comechè nell'uso comune del parlare questi due vocaboli sovente scambiansi tra loro. V. Fede. La credenza è un istinto naturale del l'uomo, datogli dal Supremo Fattore per supplire al difetto della cognizione, e però è la prima fonte delle umane conoscenze, nell'origine delle quali l'autorità precede sempre la ragione. Va ella distinta in ere denza d'istinto, e in credenza razionale. La prima è propria dell'infanzia, o degli uomini che non hanno acquistato l'abito di esercitare le proprie facoltà intellettuali: la seconda è figlia del giudizio e del ra gionamento in tutte le cose, nelle quali for miamo un'opinione per argomenti proba bili e verisimili. V. Verisimile. CREDERE (spec.), riputar vera una co sa da altri attestata. È il verbo che esprime l'atto della cre denza, e ha lo stesso significato proprio di quel vocabolo. CREDIBILE (spec.), quel che può essere creduto, o sia quel che è nella sfera del possibile e del verisimile. V. Possibile, Verisimile. – 118 – CarniniLITA' (spec.), astratto del credi lile, o sia il complesso de motivi, pe quali si può giustamente tenere per vera una COStl. Salvini. - La credibilità è un principio di critica nel giudizio della autorità, e della con venienza delle pruove. V. Critica, Pruova, CRITERIo (spec. e disc.), perspicacia e adequatezza della mente nel giudicare della verità de fatti, e della convenienza delle idee. V. Convenienza. - Comunemente concepiscesi il criterio co me un complesso delle doti, che aver deb be una ragione istruita ed esercitata, per giudicare rettamente. Nel linguaggio filosofico chiamasi crite rio la norma per discernere le vere dalle false opinioni. Ma siccome ogni sistema di filosofia è fondato sopra opinioni, am messe dagli uni e negate dagli altri; così ne segue, che diverso è il criterio di quelli o di questi. V'ha non pertanto una sana filosofia, la quale aver dee un criterio, o taluni principi inconcussi, sia per eviden za, sia per esperienza, i quali servano, come di regole del filosofare. Coteste re gole esser debbono di tal natura, o sia di tale certezza, che servir possano alla ragione di crogiuolo, onde saggiarvi tutte le altre verità, senza bisogno di essere elle stesse saggiate. Così pure ogni scienza ed arte aver dee il proprio criterio, nel quale riseggano i principi indubitati, so pra i quali son quelle fondate. Il criterio poi della filosofia intellettuale, comprende ancora in se quello di tutte le altre disci pline, perchè stabilisce la capacità delle umane facoltà, e con essa la possibilità, e la verità della nostra cognizione. È vocabolo adoperato dal Segneri e dal E però la parte di tale scienza, che versa circa la capacità ei limiti delle umane fa coltà, e circa l'origine e la partizione delle varie branche dell'umano sapere, è da noi detta filosofia ci itica (v. il disc. prelim.). CRITICA (spec.), giudizio severo della verità del fatti e della convenienza delle idee. V. Giudizio. Le regole per esercitare un tal giudizio son suggerite dal retto uso della ragione, e dalla sperienza. L'abito di bene appli carle, è quel che dicesi arte critica. Ogni scienza, arte, o disciplina ha la sua critica propria, di cui lo scopo è il disporre le parti convenientemente al tutto, ed al fine di ciascuna di esse. s CRITICISMo (crit.), l'arte del criticare, o l'esercizio della critica. È vocabolo adoperato dal Salvini, e di poi consacrato da Kant per dinotare quella parte di filosofia, detta trascendentale, cui dà egli per fine il saggiare la legitti mità della cognizione, e l'ampiezza delle facoltà dell'uomo mediante la luce di ta lune verità a priori, di cui presuppone che l'anima sia dotata. CRoNoLoGIA (crit.), la dottrina del tem po, la quale abbraccia la cognizione, tanto delle diverse epoche del mondo, della fon dazione degl'imperi, del monumenti su cui fu stabilita la misura civile del tempo; quanto delle misure naturali che nascono dalle periodiche rivoluzioni del pianeti, uni tamente all'arte di calcolare il moto di questi nelle orbite loro. V. Tempo. Dal diverso genere di conoscenze, che la cronologia abbraccia, nasce la sua par tizione in istorica e astronomica. Vien ella chiamata l'occhio della storia, perchè – 119 - senza di lei questa non avrebbe nè ordine nè lume. CRUDELTA' (prat.), inumano rigore nel punire, o nel vendicarsi. Conviene egualmente alle intenzioni e alle opere. È meno dell'atrocità, della fe rocia, della immanità, e della efferatezza, V. queste voci. - CULTo (teol. e prat. ), l'adorazione, che l'uomo presta a Dio, creator di tutte le cose, conservatore della sua esistenza, e giudice delle sue azioni. V. Dio. L'adorazione è un sentimento misto di ammirazione, di riconoscenza, di amore, e di aspettativa d'un futuro bene. L'ammirazione è dettata dalla contem plazione degli attributi di Dio, scolpiti nel le opere stesse della creazione. L'amore è suggerito dalla conformità della ragione dell'uomo con quella del suo Creatore, di cui sente essere un simulacro. La riconoscenza è un sentimento in lui suscitato dalla coscienza del benefizi, di cui vedesi ricolmato, e dalla dignità nella quale sente essere stato costituito, a rispetto delle altre creature, e di tutte le cose create. La speranza del bene futuro nasce dalla conoscenza di se medesimo; la qual co noscenza gli predice un'altra vita di cui dee rendersi meritevole. - - Inoltre il culto di Dio è un sentimento spontaneo, dettato da un bisogno dell'ani mo, il quale trova nel soddisfarlo il com pimento di tutti i desideri suoi. Tal'è la natural costituzione dell'uomo, che non sapendo vivere isolato, ha bisogno d'un sentimento che lo conforti e lo consoli della fugacità delle cose che lo circonda no. Nella vita esteriore corre dietro alla società domestica, e alla civile; e quando l'una e l'altra gli manchino, e si consi. deri come solo e sconosciuto tra simili suoi; una tristezza occupa il suo cuore, e gli rende penosa l'esistenza. Ridotto in tale stato, o afflitto da al tre calamità, rivolgesi al suo celeste pa dre, impetra da lui soccorso e forza da sostenere la sventura; e in questa nuova società del suo spirito con Dio, trova con forto e riposo. Nè solamente ottiene calma e pace, ma vince il dolore, e soffocando la tristezza perviene ancora a quella eroica virtù, che gli fa sprezzare persino i tor menti e la morte. Il culto divino dunque è un istinto, o predisposizione razionale in noi impresso dalla stessa natura. In due modi l'uomo soddisfa un tale istinto, internamente, o esternamente: internamente, quando rivolge a Dio i suoi pensieri, e fa dell'animo suo il tempio della Divinità: esternamente, quando lo fa pa lese colle preci e con altri atti di riverenza. Tal'è la ragione della distinzione, che i mo ralisti han fatto del culto interno, ed ester no : quello, in certo modo proprio del l'uomo isolato: questo, dell'uomo in società. Il culto interno ed esterno è una parte della religione, ma non è tutta la religio ne. L'onorare e il lodare Dio, è uno dei molti doveri, che in se comprende il con cetto e il nome di religione. Coordinare i propri affetti alla volontà e a fini del Crea tore; trarre da questi la norma delle pro prie azioni; e formarsi un costante pro posito di operare, conforme a dettami del la coscienza; compongono il complesso di quei doveri, che prende il nome di reli gione. V. Religione. CUome (spee. ), parte muscolare del corpo animale, situata nella cavità del petto, d'onde nascono le arterie, e dove – 120 – finiscono le vene; e che per la sua alterna contrazione e dilatazione, è il principal instrumento della circolazione del sangue, e per conseguente è il principio della vita. V. Arteria, Sangue, Vena. Noi non daremo una descrizione ana tomica di questo viscere, principio e sede del fluido alimentator della vita, perchè ne abbiam detto a bastanza (per quel che concerne il nostro scopo) nell'articolo arteria. Diremo soltanto, esser questo uno di quegli organi principali, sopra i quali niuno può fissare la contemplazione, senza rimanere stupefatto dell'artifizio, che la natura ha adoperato per creare il princi pio della vita, e per costrignere gl'inerti elementi della materia ad un continuo mo vimento. Del resto quale scrittore potreb be fedelmente ritrarre le maraviglie della natura nella fabbrica de corpi organici ? E però lo studio della motomia de essere considerato come necessario alla filosofia speculativa, del pari che alle scienze me diche. (V. il disc. prelim.). Il sito del cuore, l'importanza delle sue funzioni nella economia del corpo umano, e soprattutto l'essere stato sempre conside rato come il principio del moto, nel quale è riposta la vita animale hanno moltipli cato i sensi figurati della voce cuore. Di questi il più frequente è quello, che at tribuisce al cuore il principio del senti mento, degli affetti, e delle passioni. Co testo senso traslato, di cui la poesia ha fatto grandissimo uso, è passato ancora nel linguaggio della filosofia pratica; il perchè si distingue nell'uomo l'ingegno dal cuore, e a quello si riferiscono le doti dell'intelletto, a questo la forza del sentimento e delle qualità morali. L'origine di tale concetto mette forse capo nell'antica opinione di quelle scuole filosofiche, che riponevano la sede dell'anima nel cuore, e non nel cervello. Qua lunque essa sia, la forza morale, che nel comune uso di parlare si attribuisce al cuore, de essere risguardata nel rigososo linguaggio filosofico, come un senso tras lato, suggerito dalla immaginazione, e non da giusta analogia di ragione. CUPIDIGIA (prat.), smodato desiderio di conseguire un piacere, che non si ha, o di accrescere quello che si ha. È de nominazione propria della passione con siderata in un senso astratto: t O cieca cupidigia, o ira folle Che si ci sproni nella vita corta! DANTE. CUPIDITA' (prat.), smodata voglia di bene sensibile. Si riferisce sempre ad un particolare atto della volontà: Benigna volontade in cui si liqua Sempre l'amor, che drittamente spira Come cupidità fa nell'iniqua. DANTE. CURIOSITA' (spec.), vivo desiderio di conoscere i fatti e le verità ignote. L'ignoto è per noi di più sorte: o na sce da difetto d'idee, che possiamo ac quistare: o da difetto di riflessione intorno alle idee o nozioni già acquistate: ovvero da difetto delle nostre facoltà. La natura ci ha dotato d'una curiosità istintiva, appunto perchè potessimo com piere la nostra cognizione; e come istinto alla curiosità ci ha dato la vergogna della ignoranza. L'uomo cerca per la via dei sensi di accrescere la notizia de fatti ignoti e di tutti gli oggetti sensibili; percorre – 121 - il mondo per imparare nuovi fatti; legge nella storia quelli dell'età che l'hanno pre ceduto; ne forma una suppellettile alla me moria, e acquista per tai mezzi gli ele menti della sperienza. Applica poi la stessa curiosità alla conoscenza di se stesso e delle sue facoltà, riflette sulle interne operazioni dell'animo, e forma un altro ordine di fatti più importanti desensibili o esterni, per chè giugne per essi alla cognizione del fine, del doveri della vita, delle relazioni cogli altri Esseri, e delle leggi dell'uni verso. Sin qua esercita la curiosità secon do i fini e l'intenzione della natura, e ne fa il principale strumento delle scienze utili. Ma la curiosità, come ogni altro appe tito, s'irrita allorchè rimane delusa nelle sue investigazioni; sì che l'uomo non sa persuadersi che la natura abbia messo dei limiti alla vista della mente, che ricono sce facile, pronta, e acuta in tutte le al tre ricerche sue. Quì dunque in luogo di arrestarsi svaria, supplisce a fatti colle ipo tesi, all'attualità col possibile, e alla vo rità col verisimile; spiega i fenomeni dello spirito colle analogie delle cose materiali; crede penetrare nella cognizione delle cau se naturali, e legge persino nella mente del Creatore. Così, crea vane e chimeriche scienze, le quali lo rimuovono dalle utili, e il distolgono dalla contemplazione del l'universo, e dallo studio di se medesimo. La curiosità dunque è ad un tempo utile e dannosa. Quantunque sia il veicolo del la scienza, pure ha bisogno della scienza stessa, per essere contenuta ne'suoi limiti naturali: il conoscere tali limiti è la parte più difficile della sapienza. Due grandi riformatori della filosofia hanno tracciato que limiti, ma la sentenza loro mal si sopporta dagli adoratori della luce pro gressiva della ragione. Ciò non ostante forza è riconoscerla come vera: homo na turae minister et interpres, tantum facit et intelligit, quantum de naturae ordine re, vel mente observaverit; nee amplius seit aut potest. (Bacone). - MG - --- ……- - - - ------ |-·* |-|-|- |-----|-· |-|-·* |-·|- |-... •|- ··|- ----·|-|-· · …·---- *|-|-· ·|- |-·· | – *- |- |----- - ·*---- |- |-·- ·|- · ----· + |-- |-•• |- ||-*… · – 125 – CLASSI DE VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA C. FILOSOFIA CRITICA. Calcografia Calcolo Calligrafia Canonica Canto Caratteristica Catacustica Catadiottrica Catottrica Chimica Chironomia Chirurgia Cielo Commedia Coscienza Cosmogonia Cosmografia Cosmologia Craniologia Criticismo Cronologia Voci o NTOLOGICHE. Calore Calorico Cangiamento Caratteristica Causa Causalità Coesistenza Compiuto Composizione Compossibile Composto Condizionale Contiguità Contingente Continuità Continuo Contraddizione Corpuscolare Corpuscolo FILOSOFIA SPECULATIVA. Calore Calorico Canone Caos Capacità Capo Carattere Caso Cerebro o Cervello Certezza Certo Cielo Coesione Cogitativa Cognizione Collettivo Colore Comparazione Complesso Composizione Composto Comprendere Comprensibile Comprensione Comune Concatenazione Concepere e Concepire Concetto Concettualista Concezione Concreto Condizionale Condizione Confidanza e Confidenza Configurazione Conformazione Confusione Congruenza Connessione Conoscenza Conoscenza di seme desimo Consapevolezza Consecuzione Considerazione Consiglio Contemplazione Continuità Continuo Contraddizione Conveniente Convenienza Convizione Coordinare Coordinazione Corpo Corpuscolare Corpuscolo Corruzione Cosa Coscienza Costituzione Cranio Craniologia Creatore Creazione Credenza Credere Credibile Credibilità Criterio Critica Cuore Curiosità ºr – 124 - FILOSOFIA DISCORSIVA, Carattere Caratteristico Caso Categoria Categorico Classe Classificare Collettivo Comparativo Comparazione Complesso Composizione Comune Concatenazione Conclusione Concordanza Concreto Condizionale Condizione Conformità Confusione Confutazione Congettura Congiuntivo, Coniuntivo e Subiuntivo Congiunzione Coniugazione Connessione Conseguente Conseguenza Consonante Consonanza Contraddizione Contrarietà Convenienza Conversione Convizione Coordinare Coordinazione Correlativo Correlazione Cosa Costruzione Criterio Cataclismo Cielo TEOLOGIA NATURALE. Culto – 125 - FILOSOFIA Calunnia Candore Carattere Carità Caso Castità Certezza Certo Ciglio Circonspezione Circonvenzione Civile Civiltà Collera Collisione Colpa Commiserazione Compassione Compatimento Compiacenza o Compiacimento Compiagnere Compianto Compostezza Conato Concupiscenza PRATICA, GRECISMI SUPERFLUI. Concupiscibile Confidanza e Confidenza Conformità Confusione Conoscenza di seme desimo Consolazione Consuetudine Continenza Contumelia Conveniente Convizio Coraggio - Corruttela Corruzione Cortesia Costanza Costernazione Costume Creatore Creazione Crudeltà Culto Cupidigia Cupidità Caologia Chirologia Craniografia Cranioscopia LATINISMI SUPERFLUI. Cogitazione – 127 – - I D DABBENAGGINE (prat.), bontà dell'uomo semplice; comechè l'uso comune ne ag gravi il significato, e lo faccia inchinare alla sciocchezza, più che alla bontà. DANNo (prat.), il male, che risulta dalla violazione d'un diritto altrui. V. Diritto. È la conseguenza della infrazione del l'obligazione, e insiememente la base della giustizia delle pene. V. Obligazione, Pena. 7 DAPPoCAGGINE (prat.), insufficienza d'in telletto, o di conoscenze in quelli, che ra gionano o operano men rettamente del co mune degli uomini. DATISMo (disc.), grecismo superfluo, usato da Francesi, per la falsa ridondanza di coloro, i quali per esprimere un pen siero adoperano più sinonimi, che dicono la medesima cosa. DATIvo (dise.), terzo caso nella decli mazione del nome, il quale esprime la re lazione del dare ad altri. Cotesta relazione nelle lingue, che non hanno desinenze di casi, come sono le moderne, suol essere espressa con un se gnacaso o articolo, che equivalgono ad a e allo degl'Italiani; come simile a So crate, utile alla patria, pernizioso alla chiesa. - DATo (dise), fatto, o verità nota, che si pone nel discorso, come fondamento d'un'altra ignota, che si vuol trovare. È termine proprio della geometria, adot tato dalle altre scienze, e comune nell'arte discorsiva : equivale il più delle volte a quel che dicesi postulato. V. Postulato. DATTILOGRAFIA (gree. sup.), grecismo superfluo, col quale han voluto taluni esprimere la descrizione degli anelli, e delle altre pietre incise dagli antichi. È notabile, che il nome non esprime tutte le cose denominate. DATTILOLOGIA (grec. sup. ), altro gre cismo superfluo, col quale si è preteso esprimere l'arte di conoscere l'incisione degli anelli e delle pietre antiche. DATTILONOMIA (gree. sup.), altro gre cismo superfluo, col quale è stata da ta luni espressa l'arte di contar colle dita. DATTILOTECA (gree. sup.), altro grecismo superfluo, col quale si è voluto esprimere un gabinetto di antiche pietre incise. DECENZA (prat.), maniera di comportarsi, convenientemente alla dignità propria, o al rispetto dovuto a luoghi e alle persone. E la nozione stessa del decoro, applicata all'esterne forme del vivere civile.V. Decoro. DECEzIONE (prat.), frode usata per trarre alcuno nell'inganno. - È voce latina, adoperata dagli antichi maestri della lingua. DECLAMAZIONE (disc.), orazione detta ad alta voce, nella quale l'espressione della parola è animata dal volto, e dal gesto dell'oratore. V. Oratoria. - – 128 – È un genere dell'arte oratoria. Il suo nome per imitazione si applica ad ogni publico discorso o recitazione, in cui il linguaggio di azione accompagna quello della parola. V. Linguaggio d'azione. La declamazione presso i Greci divenne l'arte del sofisti, che sopra un argomento filosofico dato loro per tema, improvvisa vano un discorso spesso in contrario senso di quel che avevano in un altro antece dente sostenuto. Fu per essi una pruova d'ingegno e di prontezza d'immagini più che un esercizio di severa ragione. Presso i Latini fu un esercizio di pre parazione alle aringhe del foro, che gli oratori facevano nelle domestiche pareti; ovvero un esercizio di letteraria palestra, che facevasi fare a giovani. Nella seconda età di Roma, o sia al tempo dell'imperio, i declamatori romani imitarono i greci sofisti, e trattarono dia letticamente argomenti non meno della filosofia, che del foro, a quali diedero il nome ora di controversie, ora di sua sorie, ed ora di declamazioni. Tali son quelle di Calpurnio Flacco e le altre, che vanno sotto il nome di Quintiliano. Presso i moderni, e nel comune uso del parlare, il declamare un discorso proprio o altrui, sia in prosa sia in verso, vale recitarlo, accompagnandolo colla espres sione del gesto, e dell'azione. DECLINARE (disc. ), disporre, o reci tare per ordine i casi denomi. V. Caso, Aome. DECLINAZIONE (disc.), l'inflessione dei nomi secondo i vari loro casi. DECOMPosizIoNE, o ScoMPosIzIoNE (diso. e spec.), voce appartenente alla Chimica, che importa la riduzione de corpi neloro sensibili elementi. Siccome la decomposizione è a buon conto l'analisi chimica, così lo stesso no me per falsa similitudine si è da taluni applicato all'analisi del pensiero, il che è da evitarsi. V. Analisi. DECoRo (spec. e prat.), quel che eon viene alla moral dignità dell' uomo, in qualunque condizione o grado egli sia. Cotesto significato è affine al decus e al decorum de Latini, i quali lo scam biarono coll'onesto, col retto, col giusto e col vero. Cicerone disse verum decus in virtute positum est, e la definizione da lui data del decorum, è: quod consenta neum sit hominis excellentiae in eo, in quo natura eius a reliquis animantibus differt. Tal era il senso generico, presso i Latini, e tal è ancora presso di noi, che per decoro intendiamo il conveniente ad ogni stato della vita, e a ciascuna parte dell'onestà. DEDorro (spec.), tutto quel che per mezzo del ragionamento ricaviamo da una verità evidente per se stessa, o da prima dimostrata. - Verità dedotte propriamente diconsi quel. le che contrapponiamo alle intuitive. DEDURRE (spee. e disc.), verbo proprio del linguaggio filosofico, il quale esprime l'uso che facciamo del ragionamento, per passare da una verità all'altra, o sia per ricavare un giudizio da un altro che ab biamo già formato. V. Giudizio, Ragio namento. - DEDUZIONE (disc.), un giudizio ricavato da un altro che lo precede. V. Giudizio. - 129 – I nostri giudizi sono di due sorte, o intuitivi o dedotti, che pur direbbonsi de rivativi. I primi prendono la chiarezza da loro stessi: i secondi dagli antecedenti, per mezzo del ragionamento. E siccome il ra gionamento può essere immediato o me diato; così la deduzione può nascere da uno o da più giudizi, che sono l'uno all'altro legati. V. Intuitivo. Una deduzione logica aver dee tre re quisiti: 1.º che la verità da cui prende la sua chiarezza, sia per se stessa eviden te: 2.º che ne ragionamenti mediati, cia scuna delle proposizioni intermedie, discen da rigorosamente da quella che la prece de: 3.º che cotesta connessione sia chiara per tutti coloro, i quali debbono giudi carne. V. Connessione. DEFINIZIONE (spec. e dise. ), discorso che palesa le qualità, o l'essere, di chec chè sia. V. Qualità, - - Cotesto concetto è quello degli scolastici, che dissero est sermo explicans quid res sit. Lo stesso presuppone, che d'ogni cosa potessimo dire quel che essa è; il che per altro non è sempre vero, o almeno deb b'essere inteso con alcuni dichiarimenti e restrizioni. Adoperasi comunemente il vocabolo de finire, tanto per lo individuare le qualità d'un subbietto qualunque, quanto per lo spiegar che facciamo una idea con termini più chiari di quelli, coduali è stata enun ciata. È manifesto, esser queste due ope razioni della mente diverse tra loro; im perocchè con una spieghiamo la cosa, col l'altra i vocaboli, o sieno i nomi. A ri muovere dunque l'ambiguità, che nascer potrebbe dal doppio senso della parola de finire, sono state le definizioni distinte in nominali e reali. Le nominali sono ap parenti definizioni, le quali spiegano vo caboli poco noti, ambigui, o impropria mente adoperati; e servono a far distin guere la cosa definita da un'altra, senza far intendere qual'essa sia. Potrebbe an cora dirsi, che se gli uomini concepissero ad un modo unico tutte le cose, e si ser vissero d'un linguaggio sempre uniforme, cesserebbe la necessità delle definizioni no minali. Ma tal'è la varietà e la disugua glianza degli umani intelletti, e tale la difformità del linguaggi; che non è alcu no il quale riconoscer non possa l'utilità e la necessità delle definizioni nominali, per ottenere la chiarezza del discorso e la precisione delle idee. Più importanti ancora divengono le de finizioni determini tecnici delle arti e delle scienze, perchè per esse rendesi chiaro e certo un significato, che non è comune. Tali definizioni, siccome avvertì Aristote le, non sono assiomi, ma semplici tesi esplicative: son proposizioni chiare del con cetto che vuolsi esporre o dimostrare: so no le basi e le forme del discorso, le pri me chiavi del significato del vocaboli, le quali fan distinguere il senso loro primi tivo dal traslato, il determinato dal vago, e l'utile dal superfluo. L'uso di esse è so prattutto necessario nella filosofia, nella quale l'insufficienza della parola da una parte, e l'abuso del linguaggio dall'altra, sono state cagioni perenni di confuse no zioni, di false opinioni, e di vane con troversie. Di qua, la necessità d'un dizio nario filosofico, non per compendiare la scienza, ma per determinare il signifi cato determini scientifici, e per dare loro una comune accezione. V. Dizionario, Tecnico. Tornando ora alle definizioni reali, per esse noi conosciamo le qualità delle cose; 17 – 150 – distinguiamo le comuni a più individui dal le proprie a ciascuno; formiamo i generi e le spezie; riduciamo in classi le opere della natura; e dopo di avere così ordinato gl'individui, acquistiamo i caratteri per discernere le spezie, e le differenze loro. Da ciò seguono due verità: la prima, che di definizioni reali son capaci le sole idee di spezie, delle quali conosciamo il genere e la differenza: la seconda, che incapaci di definizione sono gl'individui e tutte le idee semplici, nelle quali non possiamo distinguere qualità di sorte alcuna. Fermandoci per ora alla prima delle due enunciate verità, le definizioni reali son dette ancora causali, quando dalla enumerazione delle qualità d'un subbietto siam guidati alla conoscenza della loro causa efficiente. Son dette pure definizioni logiche, quando in esse concorrano in sieme i tre seguenti requisiti: 1.º che la definizione sia chiara e tale da far cono scere il più ch'è possibile la cosa deſini ta: 2.º che sia universale per modo che convenga a tutto il compreso nella spezie definita: 3.º che sia propria e particolare alla cosa definita. In breve, uopo è che la definizione esprima il genere della cosa definita, e la differenza, per la quale la spezie definita si distingue da tutte le al tre spezie, che appartengono al medesimo genere. V. Differenza, Genere, Spezie. La definizione reale è diversa dalla es senza delle cose, nè dee con questa essere confusa. La nozione dell'essenza è un'astrazione della mente, per la quale conce piamo che ogni cosa ha un costitutivo pro prio, che la fa esser quella e non altra. “Quale sia il costitutivo degli Esseri, lo ignoriamo; ma dalle qualità, che ne sono a noi intelligibili ricaviamo i caratteri per riconoscergli e determinargli. L'essenza è unica e immutabile, mentrechè la defini zione reale potrebb'essere varia, se tra più qualità, che abbia un medesimo subbiet to, ci piacesse considerarlo per alcune di esse, ommettendo le altre. V. Essenza. Passando poi alla seconda verità, inde finibili son tutte le idee semplici, inten dendo per tali quelle degli obbietti, dei quali la natura ci fa conoscere l'essere, senza lasciarci intendere nè le qualità, nè le loro cause efficienti (v. il disc. prelim.). Tali sono le idee dell'odore, del dolore, del percepire, del volere, del sentire, del vivere. Di esse non possiamo far compa razione con altre simili, nè possiamo darne altrui una conoscenza più chiara di quella, che ciascuno ne acquista per lo senso della natura. Il concetto che di loro formiamo, è per se stesso unico e indivisibile. Da tutte le cose dette risulta ancora ma nifesto, che di qualunque confusa idea o nozione non può darsi veruna logica de finizione; e che siccome le sensazioni non possono per loro stesse produrre in noi idee chiare e distinte, così anche le idee complesse che acquistiamo per mezzo dei sensi non possono essere definite, prima che la riflessione non le abbia sceverate e distinte nelle varie idee semplici, delle quali sono il prodotto. V. Idea, Mozione. DEFoRME E DEFoRMITA' (spec. ), tutto quel che concepiamo, come contrario al l'ordine della natura, o alla idea del bello che ci abbiamo formato. Chiamiamo deformi i mostri, e le cose mostruose, perchè le consideriamo come degeneri, e come imperfetti prodotti della natura. Sin qua il cennato vocabolo sem bra adoperato propriamente, perchè espri me il difetto delle spezie, che escono dalla comune forma. V. Forma, lostro. – 151 - Deforme ancora chiamiamo tutto quello in cui troviamo difetto o assenza del bello. In questo significato la deformità è spesso relativa alla disposizione del nostri sensi, o alle qualità, nell'accordo e nella pro porzione delle quali abbiamo riposto l'idea normale della bellezza. V. Bellezza, Bello. DEFRAUDARE (prat.), il torre ad altri qual che cosa con inganno o fraude. V. Fraude. DEGNAZIONE ( prat.), benevolenza di mostrata, da chi non ne ha l'obligo. È voce propria della benevolenza, che dimostra il superiore all'inferiore, e a niun altro meglio conviene che a Dio, dapoichè tra gli uomini gli atti virtuosi son tutti di loro natura doverosi e reciprochi. DEGNITA' E DIGNITA' (prat. e disc.), ono revole condizione dell'Essere ragionevole, di cui i portamenti son sempre diretti dal sentimento dell'obligazione e del dovere. V. Dovere. Cotesto sentimento, che è lo stesso del senso morale, è quello che dirige e mo dera gl'istinti, gli appetiti, e gli affetti; che ci ritrae dalla indulgenza pel corpo, e c ispira il retto sentire e operare. Que sta è quella che chiamasi dignità morale dell'uomo. Gli scolastici chiamaron pure dignità ogni massima nota o assioma, nel quale significato è stato questo vocabolo adope rato ancora dal Vico. DEISMo (spec. e teol.), dottrina di quelli che, per unica loro religione, credono all'esistenza di Dio, e negano la rivela zione e la necessità del culto. Tal'è la definizione, che taluni scrittori francesi han dato del deismo, forse per fare da essa nascere un'altra spezie di deismo filosofico, o d'irreligione, che ap parve nel decimottavo secolo, e fu chia mato theismo. La definizione che ne die dero i suoi autori è : credenza all'esi stenza d'un Dio, reale, onnipotente e perfetto, che ha per suo contrapposto l'ateismo, ed è il fondamento della filo sofia religiosa. - Noi chiameremo filosofica irreligione l'uno e l'altro deismo; nè sapremmo ben discernere i caratteri che distinguono quel lo da questo. Certamente i primi propa gatori del deismo cercarono di dare tanta forza a questa religione, ch'essi chiama rono naturale, quanto bastasse a senso loro per dimostrare inutile la rivelazione. Her bert di Cherbury stabilì come precetti del deismo t.º il credere all'esistenza di Dio, 2.º il dovere di prestargli un cul. to , 5.º la pratica della pietà e della virtù, 4." il pentimento de propri fal li, 5" la credenza a premi e alle pene della vita futura. (Vol. I. pag. 97). Non regge dunque per fatto, che i deisti ne volessero men de theisti, e per conse guente cade la gloria, che costoro vorreb bero disputarsi sopra di quelli, di avere cioè ampliato i limiti dell'antico natura lismo. V. Vaturalismo. - Vuolsi infine notare, che la voce theis mo avrebbe nella lingua italiana una vi ziosa derivazione, e mal si accorderebbe colla sua ortografia. Ricusiamo dunque l'adozione ad un falso e doppio nome d'una setta, che disonora gli annali della filoso fia; e per onor di questa, a deliri di pochi superficiali ingegni opponiamo i contrari esempi che ci han dato gli uomini d'in gegno straordinario e trascendente, come Bacone, Cartesio, Newton, Pascal, Leib nizio, Eulero ed altri. Nè vogliasi con r – 152 – fondere le opinioni singolari de falsi filo sofi coveri frutti della scienza, alla quale è dato il determinare i giusti limiti del l'umana intelligenza, e il dimostrare non meno la necessità della rivelazione, che la perfetta concordanza tra la ragione e la fede. DeIsTA (teol. e spee. ), chi professa il deismo. DELIBERATIvo (dise.), uno de tre generi di eloquenza, detti deliberativo, giudicia le, e dimostrativo. V. Eloquenza. DELIBERAZIONE (spec.), atto del giudi zio, che accompagna la volontà nel discer nere la convenienza o disconvenienza del l'azione. V. Giudizio, Volontà. La deliberazione presuppone non sola mente la libertà dell'agente, ma anche l'assenza di tutte le cagioni che possono preoccuparla. E però le azioni involonta rie, e quelle che son determinate dagl'istinti animali, o dall'impeto delle passio ni, diconsi fatte senza deliberazione. V. A zione, Libertà. DELICATEzzA E DILICATEzzA (prat.), ha significati diversi, ma affini, secondo che è applicata agli obbietti morali, o a sen sibili: nel primi vale una sopraffina ricerca del perfetto: ne secondi squisitezza di gu sto, o morbidezza di costumi e di maniere. Lo stesso vocabolo applicato alle opere dello ingegno, o della mano esprime il compiuto, il perfetto, e il sopraffino. DELIRIo (prat.), alienazione della men te, nata da morbo, o da eccesso di pas sione, e manifestata con atti o con pa role; differisce dalla stoltezza e dalla de menza, in quanto che queste presuppon gono una causa permanente o durevole; laddove il delirio nascer suole da causa accidentale, che faccia uscir la mente dal retto sentiero. V. Demenza, Stoltezza. DELITTO (prat.), esterna azione, la qua le infrange una legge scritta e publicata. V. Legge. Cotesto vocabolo è correlativo della leg ge positiva, e non potrebbesi usare per gl'interni mancamenti della volontà, sen za pericolo di confondere due sorte di obli gazioni tra loro diverse. La legge natu rale, e per essa la filosofia pratica som. ministra non solamente le prime nozioni della obligazion morale, del diritto e del dovere, ma ancora quelle de mancamenti, del giudizio, e della pena. Imperocchè le infrazioni commesse dalla volontà, come chè seguite non sieno da esterna azione, sono notate, giudicate e punite dalla co scienza, che è l'interno foro. Sin qua le leggi positive non esercitano impero di sorte alcuna. La censura loro comincia dal punto in cui la volontà si manifesta per qualche atto di esterno eseguimento, che è quel che dicesi delitto. I latini, dai quali abbiamo ereditato il nome, davano a questo vocabolo un significato generico, che è quel di mancamento. Noi per con trario distinguiamo l'interno dall'esterno; e chiamiam quello, fallo o peccato, e questo, delitto. Ciò non vieta che nel senso traslato, non si scambino l'uno per l'altro; ma non però deesi confon dere il proprio coll'improprio. V. Fallo, Peccato. DELIZIA (prat.), godimento vivo, soa ve, e tranquillo. Vale più di diletto. V. Diletto. - 155 – DEMENZA (prat.), la privazione del sem no, per qualunque cagione intervenga, naturale o accidentale che sia. V. Senno. Differisce dalla pazzia, dalla follia, dal la stoltezza, dalla stolidezza e dalla fatui tà. V. queste voci. DEMERIro (prat.), valor d'un'azione riprensibile, perchè contraria all'obliga zione. È contrapposto di merito. V. Merito. DENOMINARE (spee. e disc.), esprimere un subbietto con un nome, ricavato da qualcuna delle sue qualità. V. Mome, ASubbietto. Gli scolastici distinguevano due sorte di denominazioni, interna o esterna, secondo che la qualità da cui il nome era preso, fosse inerente o estrinseca al subbietto ; distinzione la quale stabilisce una inutile categoria. Quali sieno state le prime denominazio ni, appartiene alla storia del linguaggio. V. Linguaggio. DENTALE (dise.), suono delle lettere pro nunziate con appoggiatura di voce su denti. DENTI (spec.), ossa dure, compatte, che forman parte della bocca, collocate nelle gengive, destinate in tutti gli ani mali principalmente ad afferrare, divide re, e triturare i cibi ; e nell'uomo, a modulare ancora il suono e l'articolazione della voce. V. Bocca. Lasciamo alla motomia il descrivere la loro conformazione, e le relazioni che la loro struttura ha co'diversi usi, a quali son destinati. Vuolsi solamente notare, che nel l'uomo i denti, sopra i quali si appoggia la lingua servono a modificare il giuoco della voce ; ed essendo duri e inflessibili producono i suoni forti, che son poi tem perati dalle vocali. DEPLoRARE (prat.), piangere o gemere sopra le proprie o le altrui miserie. È più del compiagnere.V. Compiagnere. DEPRAVARE (prat.), vale corrompere il sentimento morale. DEPRAvAzIoNE (prat.), ultimo grado del la malizia, e dell'abito del vizio. V. Vizio. DERIsIoNE (prat.), disprezzo manifestato alle persone con parole, o con altri ester mi segni. Talvolta contiene ingiuria, e talvolta ancora semplice giudizio di azioni ridevoli o disdicevoli, come nell'esempio di coloro che lodano publicamente se stessi e le cose loro; e però muovono il riso degli ascol tanti: deforme est, dice Cicerone, de se pso praedicare, et cum irrisione au dientium imitari militem gloriosum. DERIVARE (disc.), vale dedurre una pro posizione da un'altra. DERIVATIvo (disc.), quel giudizio o ra gionamento, che si trae da verità, per se stesse note, o precedentemente dimostrate. I giudizi derivativi appartengono alla classe delle verità dedotte. V. Dedotto, DERIVATo (disc.), dicesi del vocaboli che discendono da altri, che per contrap posto diconsi radicali o primitivi. DESIDERIO (spec. e prat.), voglia di qualche cosa che ci manca, e che ap prendiamo come un bene. – 154 – Il desiderio è suscitato così da bisogni naturali come da fattizi; e però ci presenta le immagini tanto de veri quanto de falsi beni. Considerato pe fini della natura, è una spinta all'operare, che è quel che chiamiamo principio d'azione. Cotesta spinta era necessaria dapoichè, come osserva Locke, se l'assenza del bene non fosse accompagnata da dolore o da molestia, e se chi n'è privo fosse egual mente contento di conseguirlo o di non averlo, non farebbe alcuno sforzo per pos sederlo. - Non si può affermare, nè negare se i bruti abbiano desideri, dapoichè non pos siamo segnare i termini della intelligenza e della sensibilità loro. Certamente i de sideri hanno origine dagli appetiti, i quali sono istinti animali, e comuni ad essi co me a noi, e però vanno annoverati trai principi d'azione, che diconsi animali. Ma d'altra parte l'inquietudine che nasce dalla privazione, e che propriamente for ma il carattere del desiderio, è un modo del dolore, o un semidolore procurato dalla immaginazione e dalla riflessione, il che lo fa proprio dell'uomo. Senza de cider questa controversia, per la quale con verrebbe legger dentro allo spirito e alla sensibilità de'bruti, si può certamente dire che è uno de principi d'azione animali e razionali insieme, e che diviene affatto razionale quando noi prendiamo a consi derare l'influenza che può esercitare sopra la volontà dell'agente morale. V. Agente, Principio, Volontà. Taluni hanno risguardato i desideri co me principi dell'egoismo umano, ed altri gli hanno distinti in due categorie, in in dividuali cioè e sociabili. Il Dottore Reid ne additò tre, come universali e conna turali all'uomo, cioè il desiderio del po tere, dell'esistimazione altrui, e della scienza o cognizione. Ma il volere ridurre in categorie i desideri, è lo stesso che vo ler determinare tutte le spezie del bene e del male relativo, o sia tutte le combi nazioni della immaginazione e della vo lontà, ordinata o disordinata che sia. D'al tra parte noi crediam proprio della filoso fia intellettuale il distinguere le nozioni semplici del principi naturali, dalle com plesse che ne formiamo, quando passiamo a farne l'applicazione a pratici portamenti della vita. Tale applicazione appartiene alla filosofia morale, o alla scienza civile, delle quali è proprio l'indirizzare i desideri al fine della virtù, o al bene della società, Per ora fa uopo considerare il desiderio, qual è nel fine della natura, astrazion fatta dalle diverse condizioni dell'uomo. Certamente i desideri forman la parte razionale degli appetiti, perchè contengo no un principio o conato di volontà. Essi dunque son men forti degli appetiti stessi, de quali la forza è subordinata all'imperio della volontà e della ragione. La disami na dunque del desideri utili, dannosi, o indifferenti si confonde con quella delle azioni, di cui son semplici elementi o principi. DESINENZA (disc.), terminazione di voi caboli, o di periodi. Ogni lingua ha un determinato numero di desinenze, le quali formano uno dei suoi caratteri costitutivi. DEsoLAzioNE (prat.), dolore intenso che abbatte l'animo, e veder non fa speranza di scampo o di conforto. È uno degli accrescitivi del dolore, e dice più di afflizione, e di tristezza. V. que ste voci. - – 155 - DESTINARE (spee. ), predisporre una co sa colla intenzione di farla servire ad un determinato scopo. Prende la sua radice dalla voce destino, per lo quale gli antichi dinotarono quella potenza superiore, che ha predisposto gli Esseri e le cose tutte. DESTINAZIONE (spee. ), l'atto per lo qua le è determinato il fine cui l'Essere, o la cosa dee servire. Così chiamiamo destinazione dell'uomo lo scopo cui è stato la sua vita indiriz zata da Dio; e destinazione degli animali il servizio che prestar debbono all'uomo secondo la rispettiva loro natura. DESTINO. V. Fato. DETERMINARE (spec. e ontol.), l'operar d'una causa, per produrre in qualche subbietto un cangiamento, o un modo di essere più che un altro. V. Cangiamento, Modo. DETERMINATo (spec.), quel che riceve una certa dimostrazione, o che vien con siderato come dotato di una qualità di cui è naturalmente capace. DETERMINAZIONE (spee. e ontol.), l'atto per lo quale la volontà accoglie o rifiuta l'azione. V. Volontà. La determinazione de essere considerata come un atto solenne del giudizio, che succede alla deliberazione, e come la sen tenza che l'animo pronunzia intorno alla convenienza o disconvenienza dell'azione. Ciò non ostante non può la determinazione essere scambiata coll'azione, dacchè la di stanza tra l'una e l'altra, può non essere riempiuta, o per volontà dello stesso agen ite, o per altrui fatto. Per volontà dello stesso agente, se una seconda determina zione figlia d'un nuovo giudizio, venga a ritrattare la prima; nel che è riposta una delle maggiori pruove del libero arbitrio. Per fatto altrui, se l'azione voluta dall'agente non riceva compimento per la re sistenza d'un ostacolo qualunque. V. Ar bitrio, Deliberazione, Giudizio. Gli scolastici diedero una definizione più generica della determinazione, perchè la riferirono non alla sola volontà dell'agente morale, ma all'azione di qualunque causa; e però la definirono, l'azione per la quale una causa opera in un modo più che in un altro. E per fare meglio intendere che fosse la determinazione, supponevano un agente indifferente ad eseguire più cose, il quale fosse obligato per una particolare causa a farne una in preferenza delle al tre ; e distinguevan poi questa causa in tre modi, ciascun de quali dava alla de terminazione un diverso nome: chiama vano effettiva la determinazione che pro cedeva dalla causa efficiente: formale, quando la materia indifferente a tutte le forme, venisse a riceverne una più che un'altra: materiale quando la causa fosse di quelle che operano secondo la natura, del subbietto, come, per esempio, il ſuo co, che indura l'argilla e liquefà la cera. Un'altra distinzione facevan pure della determinazione in fisica e morale. Per la fisica intendevano la prima e originaria causa, la quale ha dato l'essere alle cose, e l'attitudine a tutte le cause secondarie; il qual concetto somministrò poi occasione a dispute tra teologi, circa il modo, nel quale quella prima determi nazione fosse operativa. Morale chiamaron la determinazione d'un agente morale, ca pace di volere, di consigliare, e d'imperare. – 156 – Noi crediamo, che questo ultimo signi ficato sia il proprio della voce determina zione, e il solo che debba rimanergli nel linguaggio filosofico. E però chiameremo determinazione della volontà il maturo e deliberato consiglio, per lo quale l'agente morale è stato indotto all'azione. DETESTARE (prat.), l'avere taluno in odio per convizione delle sue perverse qualità. E una delle gradazioni dell'odiare, che ammette vari accrescitivi, come l'aborrire, l'abominare, l'esecrare. V. queste voci. DETRAZIONE (prat.), maldicenza, per la quale cercasi torre occultamente qual che cosa alla riputazione altrui. Differisce per gradi dalla maldicenza abituale, e dalla mormorazione; ma al pari di ogni altra ingiuria, può per gli accidenti del luogo, del tempo, e delle persone, essere più o meno grave. È sem pre odiosa, perchè occulta, il che le dà un carattere d'insidia. V. Ingiuria, Mal dicenza, Mormorazione. DETTAME (prat.), suggerimento della ragione, che comunemente si adopera per esprimere i consigli e le insinuazioni della coscienza. V. Coscienza. DEvozIONE ( teol.), ardente e sincero amor della religione. V. Religione. DIACUSTICA (crit.), la teorica delle pro prietà del suono refratto, allorchè passa per diversi mezzi di disuguale volume o densità. E detta ancora diafonica. DIALETTICA (dise, ), l'arte del disser tare. V. Arte. Le regole di quest'arte versano unica mente circa il giudizio del vero e del fal so, e non circa l'invenzione. Differiscono da quelle dell'oratoria, o sia dell'eloquen za; perchè è proprio dedialettici l'attenersi alla scelta degli argomenti, alla loro con nessione, e in generale alla struttura del discorso; che l'oratore amplia, e adorna, nascondendo colla spontaneità del dire, l'artifizio delle regole. Come arte discettatrice del vero e del falso, è stata più molesta, che utile al la filosofia, perchè ha nutrito i sofisti, gli scolastici, e gli scettici. Costoro col locarono la parola al disopra del giudizio, e ne fecero l'arte direttrice di tutte le fa coltà dell'intelletto. Allora, tutto divenne disputabile, e si aperse facile passaggio dall'argomento al sofisma: quae primo progressu festive tradit elementa loquen di, et ambiguorum intelligentiam, con cludendigue rationem : tum paucis ad ditis, venit ad soritas, lubricum sane et periculosum locum, V. Disputabile, ASofisma. DIALETTo ( disc. e spec.), linguaggio particolare di popolo, o di genti, che vien dalla degenerazione o corruzione di un linguaggio generale. V. Linguaggio. DIALoGo (disc. ), discorso di due o più persone, detto a voce, o per iscritto. È forse la più antica forma di scrivere, perchè la più semplice, e la più alta all'in segnamento. L'insegnamento stesso altro non è che un dialogo, il quale si prefigge di condurre l'allievo interlocutore alla com prensione delle verità che gli sono ignote per mezzo d'interrogazioni e di risposte. Gli esempi degli scrittori, che hanno meglio maneggiato questa forma di discor so, han somministrato le regole della elo quenza dialogica, e ne hanno determi nato i suoi vari generi. Platone e Cice rone, tra gli antichi, diedero la forma de perfetti dialoghi filosofici; Luciano, dei dilettevoli. Tra i moderni, Galilei ha dato i didascalici, Fénélon gli oratori ; e i grandi tragici e comici de due ultimi tra scorsi secoli, i modelli de dialoghi dram matici. Molti altri belli ingegni, e soprat tutto Fontenelle e Galiani han tolto al dia logo la sua naturale sterilità, innestando la severità de dialoghi filosofici alla va ghezza del dilettevoli e del poetici. Ciascuno de'cennati generi ha le sue regole proprie, ma tutti si accordano in taluni precetti generali e comuni. Il dia logo è una scena scritta, e come tale par tecipa dell'azione drammatica. Gli ascol tanti o lettori trovar debbono nel suggetto un interesse, che impegni l'attenzione loro: i suoi accessori, che sono gli episodi, o incidenti, debbono sostenerla, e non de fatigarla: la sua fine soddisfar dee l'aspet tativa, e portare seco la perfetta soluzio ne dell'argomento. Ciò nonostante nel dia logo è più facile il persuadere, che il di lettare, attesa l'aridezza della sua forma. Ha dunque bisogno di ornati, che v'in troducano una qualche varietà. Ma questa esser dee sobria, opportuna al discorso, e analoga all'argomento. DIDAsCALIA ( erit.), l'istruzione o l'in segnamento, detto con greca voce. DIDAscaLiCo ( crit.), addiettivo, che vuol dire istruttivo, o proprio della istru zione: è usato dal Casa. Pºrrico (erit.), grecismo delle scuo º, usato per esprimere la maniera del l'insegnare, lo stile, il metodo, o il lin guaggio dell'insegnamento. Direttivo (dise e prat.), nome o verbo che manca di alcuna delle inflessioni di numero, di caso, di modo, o di tempo. Vale ancora mancante di qualità. Pºrro (prat.), imperfezione naturale - errore, o colpa. in ciascuno de tre dinotati sensi il vo cabolo conserva il significato del verbo la tino, da cui è derivato. Il deficit, com prende egualmente un che di mancante all'opera della natura, all' accorgimento, o alla volontà dell'uomo. Nel senso di azione riprensibile, che è il più frequente, il difetto è un principio del vizio, il quale presuppone sempre l'abi to. V. Abito, Vizio. Drrrruccio E DIFETTUzzo (prat. ), di minutivo di difetto, che ha gli stessi signi ficati di quel vocabolo, ma in un sens minorativo. V. Diminutivo. - DIFETTUoso E DIFETToso (prat. ), addiet tivo di quel che ha imperfezione, errore, o colpa. DirrAMARE (prat.), togliere la fama al trui, o denigrarlo con publica maldicenza. La maldicenza praticata col fine della diffamazione è la più grave di tutte le in giurie. V. Ingiuria. DIFFERENZA (dise.), quel che la spezie ha di non comune col suo genere, o l'in dividuo colla sua spezie. V. Genere, In dividuo, Spezie. Da ciò segue, che nel vocabolo diffe renza son implicite due relazioni, una na: 18 - 158 – sce dalla comparazione di quel che manca al genere, e l'altra dalla conoscenza di ciò che appartiene alla spezie, il che di cesi proprio della spezie stessa. V. Proprio. Il determinare quel che una cosa ha di comune con un'altra, e ciò che ha di pro prio, o sia il distinguerla per lo genere e per la differenza, è quel che dicesi de finire. V. Definizione. DIFFERENZIALE (crit.), quantità infinita mente picciola, o particella di quantità sì picciola, che è minore di qualunque cosa assegnabile. Tal è il significato, che dà a questo vo cabolo la geometria sublime, la quale chia ma differenziale il calcolo che si vale delle differenze infinitesimali per trovare le quantità finite, le proprietà, e le rela zioni loro. Leibnitz considerò le quantità infinitamente picciole, come le differenze delle quantità finite. L'esempio di tali differenze può trovarsi in una linea, che rappresenti il moto d'un corpo in un dato tempo: l'impeto consi derato come il principio del moto, sarà una lineetta infinitamente picciola, o infi nitesimale: il conato, considerato come un atto, dal cui ripetimento infinite volte fatto nasce l'impeto, sarà un infinitesimo d'infinitesimo. Così procedendo da diffe renze in differenze nascono le grandezze differenziali del primo, del secondo, del terzo ordine e così successivamente. Il diſ ferenziale è espresso colla lettera d messa avanti alla quantità differenziata, e i diſ ferenziali di secondo e di terzo ordine col la stessa lettera due o tre volte ripetuta, o seguita (secondo la moderna ortografia) da un numero posto a diritta e in alto, per indicare il grado del differenziale. Il calcolo differenziale dunque altro non è, se non la maniera di differenziare le quan tità, o sia di trovare la differenza infini tamente picciola d'una quantità finita va riabile. V. Calcolo. Quel che Leibnitz chiamò calcolo diffe renziale fu da Newton denominato metodo delle flussioni, perchè egli considerò le quantità infinitamente picciole come ac crescimenti momentanei, a quali diede il nome di flussioni. Una linea, per esem pio, è generata dal flusso, o scorrimento di un punto; una superficie dallo scorri mento d'una linea; un solido dallo scor rimento d'una superficie. Tali flussioni fu ron da lui indicate con un punto messo al di sopra della lettera che le indica. Così la picciola varietà de segni, che si trova nel metodo di Leibnitz e quello di Newton, è che il differenziale di y o di ac, secondo l'uno è indicato per da, o dy, e secondo l'altro per a,g V. Flussione. DIFFICILE. V. Facile. DIFFIDANZA E DIFFIDENZA (prat.), stato dell'animo, quando il dubbio gl'impedi sce di raggiugnere la verità. V. Dubbio, Verità. Cotesta definizione è generica, perchè abbraccia il dubbio tanto del giudizio pro prio, quanto dell'altrui. Dal dubbio nasce l'incertezza e il timore d'ingannarsi, o di essere ingannato. DIFFORMITA'. V. Deformità. DIFFUsIoNE (ontol.), l'atto per lo quale un corpo dilatandosi, occupa un luogo maggiore nello spazio. - Gli scolastici fecero molto uso di que sto vocabolo, per ispiegare, come potesse avvenire la espansione del freddo, della – 159 - luce, del fuoco e delle altre qualità dei corpi; e distinsero tre spezie di diffusio ne, quella cioè, con cui una qualità pura si espande, come il freddo o la forza, un'altra che succede mediante il moto dei corpi, come l'espansione della luce, del suono, dell'odore, della elettricità, del magnetismo; la terza, che avviene in parte col moto de corpi, e in parte colla espan sione delle qualità, come nel fuoco. Ma cotesti nomi e distinzioni erano re lativi alle antiche idee, che i peripatetici avevano delle qualità e delle sostanze; e appartenevano propriamente alla metafi sica de'corpi; sì che non sono più di al cun uso nè nella Metafisica, nè nella Fi sica. Lo stesso dee dirsi dell'altro loro vo cabolo dilatazione, per lo quale spiegar volevano l'espansione delle diverse parti d'un corpo. , DILATABILITA' (spec.), qualità che ta luni corpi hanno di estendersi, di aumen tar di volume, e di occupare uno spazio maggiore, mediante una forza espansiva che sciolga la coesione delle parti. V. Coe sione, Espansione. DILEGGIAMENTo (prat.), atto offensivo, per lo quale taluno prendesi giuoco d'un altro. - È men grave della derisione, e può tal volta essere coperto dalla ironia. V. De risione, Ironia. DILEMMA (disc.), sorta di sillogismo ipotetico, per lo quale si propone la scelta di due o di più proposizioni tali, che qua lunque di esse sia scelta, porti seco una necessaria conseguenza: utrum eligas, velis, id contra le futurum. V. ASito gasmo. DILETTo (prat.), godimento, che l'ani mo, sente pel piacere sì del corpo, che dello spirito. In un senso improprio è usato ancora quando l'animo prova un certo contento nel dare sfogo al dolore; il perchè Pe trarca disse: - E per piangere ancor con più diletto. DILEzioNE (prat.), l'amore, che portar dobbiamo al prossimo. DILIGENZA (prat.), assidua cura, colla quale l'uomo va in cerca del vero, o ese gue una cosa che crede doverosa o utile. La diligenza acquistasi per l'abito, e po trebbe ancora essere definita per la virtù, che ci preserva dall'operare inconsiderata mente, tal essendo il suo principal carattere. Quel che Cicerone applica all'oratoria può dirsi di ogni altra opera dell'intellet to, o della mano dell'uomo: ars demon strat tantum, ubi quaeras, atque ubi sit illud, quod studeas invenire, reliqua sunt in cura, attentione animi, cogita tione, vigilantia, assiduitate, labore, complectar uno verbo, quo saepe jam usi sumus, DrLIGENTIA, qua una vir tute omnes virtutes reliquae continentur. DILUVIo. V. Cataclismo. DIMENSIONE (ontol.), l'estensione di un corpo, considerata come misurabile. V. E. stensione. r Considerando noi il corpo esteso, come misurabile in lunghezza, larghezza, e pro fondità; diamo al corpo tre dimensioni, dalla prima delle quali formiamo l'idea della linea; dalla seconda, l'idea della su perficie; e dalla terza, quella del solido. i; DIMENTICAMENTo E DIMENTICANZA (spee. e prat.), la perdita d'una idea o cono scenza, che si è una volta avuta. Il dimenticare può nascere, o da di fetto della potenza che ritiene le idee pas sate, ovvero da difetto di attenzione. Distinguevansi nelle antiche scuole tre spezie di dimenticanze, la mentale, la eorporale, e l'umana; e questa partizione corrispondeva a quella che facevasi della stessa potenza in memoria della mente, memoria del corpo, e memoria della mente e del corpo insieme. V. Memoria. Checchè sia di questa triplice distinzio ne, di cui parleremo a suo luogo, chia mavasi dimenticanza mentale la cessazione del pensiero, il quale presupponevasi con tinuo insino a che non fosse da altro con trario pensiero dislogato; corporale era detto il dimenticar de bruti, che secondo i cartesiani eran provveduti di solo cor po; umana poi era denominata quella che nasce dalla imperfezione o dal turbamento de naturali legami tra lo spirito e il cor po, il che si verifica nella infantile, e nella senile età. , Senza indagare in che sia riposta la virtù ritentiva della memoria, e da che nascer possa il suo difetto; certamente av viene, che spesso dimentichiamo le cose una volta sapute; che talvolta le richia miamo alla memoria allorchè la dimenti canza non è profonda; e che talvolta an cora non possiamo ritenerle, a dispetto di tutti gli sforzi che facciamo per conservare me la ricordanza. - È altresì indubitato, che spesse volte di mentichiamo per difetto di attenzione, o sia per avere leggermente e indifferente mente considerato un obbietto. Da questi due fatti ricaviamo i due generi di di menticanza, che possiamo ammettere co me sicuri, l'una cioè per difetto della no stra ritentiva, l'altra per mancanza di at tenzione, che con altri nomi potrem dire involontaria, e volontaria. Fermandoci alla seconda, come a quella cui l'abito dell'attenzione può dare riparo; vuolsi notare, che noi sogliamo dimenti care gli obbietti noti, o per non avere ben esaminato le qualità loro, nel quale caso manchiam di dare alla memoria caratteri sufficienti per riconoscergli e ritenergli; ovvero per poca intensità d'affetto, il che avvenir suole negli obbietti che sono in differenti al nostro sentimento. Questa par ticolare spezie di dimenticanza gl'Italiani esprimono col verbo scordare, che val quasi cacciar dal cuore, considerato come la sede del sentimento. Ma tanto il vocabolo dimenticare quan to l'altro scordare esprimono un atto ne gativo della memoria, non irreparabile; dacchè noi richiamiamo continuamente al pensiero le cose altre volte note, soprattutto per mezzo dell'associazione delle idee, la quale sembra avere la magica virtù di fare rientrare nella mente gli obbietti che n'erano usciti. Ora v'ha una dimenticanza più profonda, la quale obbedisce meno alla associazione delle idee, e talvolta an cora diviene irreparabile. A questa noi ab biam conservato il vocabolo latino oblivio e la diciamo obblio e obblivione. In som ma è quella intensa dimenticanza, che fu da Dante espressa colle parole ecclissar nell'obblio, e da Virgilio con più carat teristiche note - Lethaei ad fluminis undam Securos latices, et longa oblivia potant. DIMosTRABILE (spec. e disc.), quello che può esser provato vero, per mezzo del ra gionamento. - – 141 – È voce nelle scienze, e sopratutto nelle matematiche, destinata a distinguere le ve rità dimostrabili dalle indimostrabili, o sia quelle allo scoprimento delle quali si può pervenire per mezzo del ragionamen to, dalle altre che trascendono i mezzi della scienza. In un senso relativo, di consi ancora indimostrabili per un meto do quelle, che sono dimostrabili per un altro. V. Indimostrabile, Metodo. Il dimostrabile è anche contrapposto di quelle verità, che sono per se note, e che dobbiam tenere per autorità e per fe de: Di queste disse Dante: Li si vedrà ciò, che tenem per fede Non dimostrato, ma ſia per se noto A guisa del ver primo, che l'uom crede. DIMosTRATIvo (dise.), quel che dimo stra, o che è atto ad essere dimostrato. Così, dicesi metodo o genere dimostra tivo. V. Dimostrazione. Il dimostrativo è uno dei generi della umana cognizione, il perchè distinguesi la verità dimostrata dalla intuitiva o dalla sensitiva. Ciascuna di queste tre verità è il fon damento di tre diversi generi di certezza, i quali prendono gli stessi nomi, cioè di certezza dimostrativa, intuitiva, e sen sitiva. V. Certezza, Intuitivo, Sensitivo. Dimostrativo è anche termine dell'arte discorsiva, ed è aggiunto d'uno de tre generi dell'eloquenza, che sono il delibe rativo, il giudiciale, e il dimostrativo. Dimostrativi chiamano i gramatici quei pronomi, che indicano la cosa già nel discorso accennata, come questo, cote sto, quello, e altri simili. Dimostrativo chiaman pure i gramatici italiani quel modo del verbo, che comu nemente dicesi indicativo. DIMOSTRATo (disc.), quel che è provato per dimostrazione. Dimostrato, in forza di sostantivo, vale dimostrazione. DIMosraAzioNE (disc.), la pruova della ve rità d'una proposizione, ricavata per mez zo del ragionamento. V. Ragionamento. Ogni dimostrazione è un discorso, il quale si compone della sposizione del sug getto, che dicesi enunciazione, degli ar gomenti probanti, e della conclusione, da cui risulta la verità della proposizione enun ciata. Altra volta gli scolastici chiamaro no preparazione la seconda parte, nella quale noi poniamo gli argomenti proban ti, ammettendo come necessarie talune proposizioni preliminari o taluni dati che domandavansi per concessi; il che non for ma parte essenziale della dimostrazione. Se ben si esamina la natura del sillogis mo, che era allora la forma unica del dimostrare, ben si vedrà, che la mag giore sta in luogo della enunciazione, che la minore riassume gli argomenti proban ti, e nella conseguenza sta la conclusione. Cotesta forma di dimostrare è propria delle proposizioni stabilite come tesi dimo strabili, le quali dopo di essere state di mostrate, prendono il nome di teoremi. Ella è affermativa o diretta, quando pro cede per una serie di proposizioni affer mative ed evidenti, che dipendono l'una dall'altra, e dalle quali risulta la verità della proposizione, che volevasi dimostra re. La dimostrazione dicesi apogogica o indiretta quando, in luogo di dimostrar vera la tesi, si dimostra falsa la propo sizione contraria di chi volesse negarla. V. Teorema. Gli scolastici distinguevano due spezie di dimostrazioni, desumendo la loro diffe – 142 – renza dalla natura degli argomenti: chia mavano propter quod quella, colla quale provasi l'effetto per la causa prossima, e quia l'altra, con cui l'effetto era pro vato per la sua rimota cagione. Coteste distinzioni son ora giustamente risguardate come frivole ed inutili. Il sillogismo è in realtà la forma nuda della dimostrazione, per modo che que sta, per quanto lunga sia la serie de suoi argomenti, può essere sempre ridotta a uno o più sillogismi: a uno, se le pre messe sieno due proposizioni evidenti o dimostrate: a più, se ciascuna di esse ha bisogno d'essere provata, nel quale caso saran tanti i sillogismi, quanti saranno necessari per far delle premesse due ve rità note. Da ciò segue, che le dimostra zioni logiche non son diverse dalle ma tematiche, comechè queste sieno più com pendiose di quelle. La loro brevità nasce da che i sillogismi vi si trovano nascosi sotto la forma di entimeni, o vi sono sottintesi, perchè si presuppongono note le proposi zioni antecedentemente dimostrate. In fatti il Clavio ridusse in sillogismo la prima proposizione di Euclide; l'Erlino e il Da sipodio conversero nella forma sillogistica gl'interi sei primi libri dello stesso autore, e l'Enisichio tutta l'aritmetica. In conferma di che Leibnitz, Wallis, e Huygens non solamente proposero a matematici il sillo gismo come la forma della rigorosa dimo strazione, ma dimostrarono, che i paralo gismi ne quali talvolta incorrono le dimo strazioni matematiche nascono dalla inos servanza delle regole sillogistiche. Quel che abbiam sin qua detto, risguarda la sintesi matematica, o sia quel metodo col quale da una proposizione universale già nota, vuolsi pervenire allo scoprimento d'una ve rità particolare. V. Sillogismo, Sintesi. Ma la proposizione, che ne teoremi si enuncia come dimostrabile, può essere an cora proposta come dubbia, nel quale caso l'ufizio del dimostratore sta nel trovare quella verità che si propone come incerta. Questo è quel che dicesi problema, la dimostrazione del quale pure costa di tre parti, che sono: la proposizione o la guistione, la soluzione, e la dimostrazio ne. Nella prima si espone quel che de'es sere provato di potersi fare: nella secon da, i mezzi pe quali si può pervenire a quel che si cerca : nella terza, il come coproposti mezzi si giunga allo scopo de siderato, il quale rimane dimostrato pos sibile, e in taluni casi ancora impossibile, Ora da ciò segue, che ogni problema di mostrato che sia, può essere converso in un teorema, che prenda la forma d'un sillogismo ipotetico. In questo sillogismo, la soluzione diviene ipotesi, e la quistione tesi, sì che ammesso il procedimento in dicato nella soluzione, si dimostra la re lazione e la proprietà, in cui è stata con versa la proposizione. V. Problema. La vera distinzione da farsi nelle dimo strazioni è quella fondata nella doppia via, per la quale la ragione perviene allo sco primento del vero. Per una di esse suole la mente dalle verità generali e astratte venire alle particolari: per l'altra, dalle verità particolari che le sono note per espe rienza, suole giugnere alle universali. Co teste due vie son quelle che diconsi me todi, uno sintetico, l'altro analitico. Le due dimostrazioni che corrispondono a cia scuno dedivisati metodi furono dette dagli scolastici, a priori l'una, a posteriori l'altra. Col primo nome indicavano quella, colla quale l'effetto era provato per la sua causa, prossima o rimota che fosse, ov vero quella di cui la conclusione nasceva – 145 – da una verità antecedentemente stabilita; e col secondo dinotavano la dimostrazio ne, che per mezzo degli effetti perviene alla causa. Esempio della dimostrazione a priori è l'esistenza di Dio, provata per argomenti ricavati dalla natura e dagli attributi suoi; siccome l'esempio dell'altra a posteriori, è la stessa esistenza di Dio provata per le sue opere, o sia per la creazione e per le maraviglie dell'univer so. V. Metodo. Dalla dimostrazione nasce la convizione del vero, ed in tale convizione è riposta la certezza, che dicesi dimostrativa. E quando le proposizioni dimostrate sieno di quelle verità che diconsi necessarie, come sono le verità geometriche, la certezza di mostrativa è stata ancora denominata cer tezza metafisica, perchè ha per suo con trapposto l'impossibile. Da ciò non segue che sia questo il solo, o come molti han creduto, il primo genere di certezza; da poichè la dimostrativa ha per suo fonda mento l'intuitiva, e della intuitiva fa parte ancora la sensitiva. V. Certezza. La dimostrazione per sillogismo fu per lunghissimo tempo l'unica forma di ra gionare, di cui le scienze tutte fecero in distintamente uso. Ma Bacone fu il primo ad avvertire, che la forma sillogistica po teva convenire alla giurisprudenza e alle altre scienze dette positive, e non allena turali. Il suo avviso servì di lume a fisi ci, per distinguere l'arte di dimostrare dall'arte di trovare il vero; e però abban donata quella forma, abbracciarono per foro guida il motodo induttivo, o sia il ragionamento inverso dal particolare all'universale. Di qua è, che l'analisi, e la forma del dimostrare a posteriori sieno venute in maggior uso della sintesi, e della dimostrazione a priori. E per par lare più propriamente, mélle scienze fisico matematiche, la sola via per giugnere allo scoprimento del vero è l'analisi, la quale veste diverse forme, e prende di versi nomi, secondo la varietà degli ar gomenti, ma consiste sempre in questo, che la mente procede gradatamente dal noto all'ignoto. La sintesi non è che una maniera particolare di esporre le verità già trovate per mezzo dell'analisi, assumen dole come tesi, e rovesciando il ragiona mento adoperato dall'analisi per rinvenir le; sì che l'ultima conseguenza dell'ana lisi forma la prima pruova della sintesi, V. Analisi, Induzione. DINAMICA (crit.), la scienza delle forze e del moto de corpi duri, distinta dal l'idrodinamica, che versa circa il moto delle masse liquide. Dio (spee. prat. e teol.), la mente crea trice di noi e dell'universo. Questa è la prima mozione della Divi nità, che la ragione umana acquista, ri flettendo in se medesima, e guardando alle cose che ci circondano. L'esistenza di Dio è una verità imme diata che l'uomo ricava da se medesimo, e dalle cose fuori di se. La prima di queste due cognizioni precede l'altra, dapoichè ognuno vede non essere egli l'autore di se medesimo, o sia vede essere stato pro dotto da una causa superiore, capace di dargli l'essere e l'intelligenza. La seconda poi nasce dall'aspetto e dalla contempla zione dell'universo, o sia delle maravi gliose opere della natura, delle quali non si può trovare la ragion sufficiente se non in un Essere sapientissimo ed onnipoten te. Queste due fonti della cognizione di Dio corrispondono a due principi univer - – 14 - sali di dimostrazione, a priori l'uno e a posteriori l'altro. Grave è la disputa tra filosofi se l'esi stenza di Dio sia capace d'ambi i generi di dimostrazione, o solamente del secondo, il quale come più evidente e più aperto alla comune intelligenza, è stato più uni versalmente accettato. Quelli i quali si son fermati alla sola dimostrazione a posteriori, non hanno ris guardato l'esistenza di Dio come una ve rità intuitiva, ma si sono contentati desu merla dall'opera immensa della creazione, o sia dagli argomenti cosmologici. Altri non pertanto l'han considerata come una prima verità, innata, impressa in noi dalla stessa natura. Come tale risguardolla S.An selmo Arcivescovo di Cantorbery, Cartesio e Leibnitz, comechè le dimostrazioni da ciascuno di essi proposte non sieno esenti da difficoltà logiche. Se la nozione della esistenza di Dio debba dirsi ingenita, ov vero intuitiva, nel senso d'una immediata deduzione, che la ragione fa dalla cono scenza di se medesima, vedi le disserta zioni intorno alla esistenza di Dio, nelle note 48 e 133 Vol. I. DiortRica (crit.), la teorica della luce refratta, che passa per differenti mezzi, come per acqua, aria, vetro, o lenti. È parte dell'Ottica. DIPENDENTE (ontol. ), quel che è, o sta per un altro, e non di per se. Contiene una idea di relazione, la qua le può abbracciare o il subbietto tutto in tero, o le sue qualità, o anche gli acci denti, e i modi di essere: è una idea, la quale entra nella maggior parte dei giudizi, che formiamo intorno alle rela zioni, così degli Esseri materiali, come degli obbietti del pensiero, e degli atti della volontà. E però diciamo, essere l'ef fetto dipendente dalla causa; l'idea as sociata, dall'altra, cui si associa, la pro posizione subalterna, dalla principale, e il fatto, dalla volontà dell'agente. Gli scolastici ne formarono una nozione astratta e del tutto ontologica, avendo de finito il dipendente, quel che per esistere ha bisogno d'un anteeedente nel quale e riposta l'essenza del conseguente. Da tal definizione dedussero, che ogni eosa dipendente ha una causa, da eui ripete l'esser suo; che tanto vale il dire un Es sere dipendente, quanto dirlo imperfetto, perchè il bisogno, che ha d'un altro, presuppone l'insufficienza propria, sicco me l'insufficienza include l'imperfezione. L'imperfezione può nascere da qualunque cosa manchi al compimento dell'essere, o che il difetto sia nell'essenza, ovvero in alcuna qualità necessaria, o giovevole; d'onde poi le differenze tra le diverse spe zie del dipendente. Le creature dunque son tutte dipendenti dall'Autor loro, che solo può dirsi indipendente. Da ciò conchiusero ancora, che ogni accidente per rispetto alla sostanza è un che d'imperfetto, per chè dipende dalla cosa, cui è inerente , e dalla quale non può essere disgiunta. Ora tra vari significati de quali questo vocabolo è capace, convien distinguere il metafisico, dal logico, e dal morale, il che va meglio fatto nella definizione del suo contrapposto. V. Indipendente. DIPENDENZA (ontol.), l'astratto del dipen dente, che gli scolastici distinguevano in subbiettiva, effettiva, e obbiettiva. Chia marono subbittiva quella che è propria degli accidenti, i quali non possono stare senza, e fuori del subbietto; effettiva quel - 145 - la che esprime la causalità, come sarebbe la dipendenza delle creature dal Creatore; e obbiettiva, la dipendenza razionale, che noi scorgiamo nelle cose che hanno una necessaria relazione, come quella che i re lativi e i correlativi hanno tra loro. V. Cor relativo, Relativo. - Cotesta partizione è anche coerente al sistema di quella vecchia scuola, che tutto riduceva a categorie nominali, le quali for mavano l'antemurale dell'arte del pensare. DIPLOMATICA (crit.), arte di conoscere l'età, in cui furono scritti gli antichi di plomi, di distinguere i veri da falsi, e di assegnare i caratteri discernitivi degli uni e degli altri. Per nuovo significato derivato pure dalla voce diploma, è la cognizione del trattati e delle politiche negoziazioni, dalle quali nasce la scienza del diritto publico inter nazionale. V. Diritto. DIRETTo (spec.), nome di qualità, che taluni sogliono dare alla conoscenza piena e immediata d'un obbietto. In questo senso il diretto equivale all'ob biettivo, siccome l'indiretto al subbiettivo. V. queste voci. Diretta dicesi ancora quella dimostrazio ne, la quale procede dalla maggiore in sino alla conseguenza per proposizioni tutte affermative. V. Affermativo, Dimostra zione. DIRITTo (prat. e crit.), quel che a cia scuno è dovuto per la legge del giusto e dell'onesto. V. Giusto, Legge, Onesto. Dalla nozione del diritto nasce l'altra del dovere, che ci obliga di rispettare il diritto altrui in contracambio di quel che esigiamo per noi stessi; ond'è che questi due vocaboli sieno correlativi e recipro chi. V. Dovere, Tanto il diritto quanto il dovere espri mono gli effetti che ogni legge partorisce, quando concede ad uno la facoltà di esi gere una data cosa, imponendo ad un altro l'obligo di prestarla. Cotesto signifi cato secondario è una derivazione del pri mitivo; siccome ogni legge umana è un derivato della legge naturale. Il vocabolo Diritto si adopera ancora per esprimere un adunamento ordinato di leggi scritte. In questo senso anche le leg gi del giusto e dell'onesto prendono il no me di diritto naturale in contrapposizio ne del positivo, che poi suddividesi in publico, privato, civile, penale, mari timo ec. DISAFFEZIONARE (prat.), distorre taluno dall'affezione, V. Affezione. La particella dis, messa innanzi a nomi di qualità e al verbo, acquista forza di me. gare o di scemare; e però tanto in questo verbo, quanto in molti altri deseguenti vo caboli, forma contrapposti e peggiorativi. DISAMORE (prat.), contrapposto di amo re, proprio di chi ne manca, o se ne mostra incapace. V. Amore. DisAMOREvoLEzzA (prat.), cattiva dispo sizione d'un animo, che non sente quella umana e cortese benevolenza, che dicesi amorevolezza. V. questa voce. DisANIMARE (prat.), fare altrui perdere la forza dell'animo. V. Animo. DisAPPAssIONATEzzA (prat. ), integrità d'animo, incapace delle prevenzioni figlie delle passioni. V. Passione, 19 È la virtù propria di quelli ch'eserci tano l'ufizio di giudicare. DiscERNERE (spec.), conoscere e giu dicare rettamente. DiscERNIMENTo (spec.), l'atto della ra gione, per lo quale distingue il bene dal male, il vero dal falso, il simile dal dis simile, e il proprio dal diverso. V. D stinguere. E la funzione propria del giudizio, la quale, quando sia abituale forma quel che dicesi senso retto o comune. V. Giudi zio, Senso. DiscERNITIvo (spee.), che ha la qualità del discernere, o che è atto a discernere. Così diciamo, facoltà discernitiva per quella natural virtù che abbiamo di co noscere il vero delle cose; e carattere di scernitivo per segno atto a distinguere una cosa dall'altra. DiscTPLINA ( crit. ), istituzione o inse gnamento. - È voce propria della istituzione delle scienze, e delle arti dette liberali, che abbiamo ereditato da latini, presso i quali aveva lo stesso senso ampio e generico che oggidì le diamo; sì che possiam dire della età nostra quel che Cicerone diceva della sua, secolo d'arti e d' ogni buona di sciplina. DiscoLPA (prat.), dimostrazione di non essere in colpa. V. Colpa. - Dscorrimento (prot. ), il discolparsi. DiscoNFORTo (prat.), tristezza d'animo, accompagnata da sbigottimento. DisconosceNzA (prat.), volontaria igno ranza, e anche ingratitudine. DiscoNosCERE (prat.), il cessare volon tariamente di conoscere. DISCONSENTIRE (spec. e prat.), negare il proprio assentimento; contrapposto di acconsentire. DiscoNSIGLIARE (prat.), mal consigliare. DiscoNsoLARE (prat.), cagionare mesti zia ad alcuno; e nel passivo vale rice VCTInC : E tanto è lo mio cor disconsolato Ch'io fremo e ruggio come fa il leone Quanto e si sente preso, ovver legato. DANTE. DiscONTENTARE (prat.), far cosa dispia cevole, che produca disgusto. DiscoNTINUARE (prat.), perdere la con tinuità, adoperato dal Galilei. DiscoNvENIENZA E ScoNvENIENZA (spec. prat. e disc. ), difformità di relazioni tra due obbietti del pensiero. E negazione della convenienza. V. Con venienza. Ne pratici portamenti della vita si ap plica a tutto quel che è sconcio, inop portuno, o non adattato alla qualità delle azioni o delle persone. Applicata al discorso, esprime le irre golarità dello stile, o il difetto nella scelta degli argomenti o delle parole, e ogni peccato contro la regola scritta in quel pre cetto d'Orazio: Singula quaeque locum teneant sortita decenter. - 147 - DiscoRAGGIARE (prat.), fare perdere al trui il coraggio; e nel passivo, perderlo. DiscoRARE (prat.), far altrui perdere ogni forza d'animo in casi avversi; e nel passivo, perderla. È più del disanimare. Disconosa ( prat.), qualunque dissi miglianza di opinione, o di volontà. DiscoRDARE (spec. e dise.), il sentire o il giudicare diversamente da un altro. È vocabolo preso dalla dissonanza di due voci. Discono A (prat.), disunione d'animi, per contrarietà d'interesse, o di altra passione. Discorso (disc.), l'esercizio della fa coltà della parola. V. Parola. In un senso meno ampio vale un ragio namento recitato o scritto, che sia compo sto colle regole dettate dall'arte del parlare, e dalla convenienza dell'argomento. Cote ste regole son quelle che insegnano la lo gica e la dialettica. V. Dialettica, Logica, DiscoRTESIA (prat.), contrapposto di cor tesia. V. questa voce. DiscREDERE (spec.), cessar di credere quel, che s'è altra volta creduto. V. Cre denza, Credere. DisCREDITARE E SCREDITARE (prat.), torre altrui il credito, o la fama. È meno del diffamare, che in se con tiene la publicità. V. Diffamare. DisCREPARE (spec. e disc.), l'avere una opinione diversa da quella di un altro, DiscaEro (prat. e crit.), chi si com porta prudentemente e moderatamente, Come aggiunto di quantità, dinota quel lo, di cui le parti sono separabili, perchè uguali e simili, o sia il numero. Questa spezie di quantità forma l'obbietto dell'arit metica, e serve a distinguerla dalla geo metria, che versa circa le proprietà della estensione, la quale per contrapposto di cesi quantità continua. V. Quantità. DiscREZIONE (prat.), qualità dell'anima, o virtù pratica, di chi misura con pru denza e moderazione i suoi diritti, e dà a ciascuno quel che gli si conviene. DiscussioNE (dise. ), diligente disamina delle difficoltà e obbiezioni, nelle quali può abbattersi un argomento, onde ren derne compiuta e chiara la dimostrazione. V. Argomento, Dimostrazione. DisDEGNo (prat.), sentimento di dispre gio, accompagnato da ripugnanza, o av versione. Il disdegno entra nella scala del senti menti disamorevoli, che formano il genere dell'avversione. È diverso dal dispregio, dalla disistima, e dal dispetto. V. queste voci. DisDIcEvoLE (prat.), quel che non con viene per difformità o dissimiglianza di DisDIRE (disc. ), dire il contrario di quel che si è prima detto. È diverso dal negare, e dal ritrattare. V. queste voci. DisEGNo (crit. e spec.), l'imitazione, per tratti di scrittura, della esterna forma r degli obbietti, che si presentano al senso della vista. - È il principio e il fondamento della pit tura, della scultura, e di tutte le arti del disegno. Coteste arti forman parte delle così dette imitative. V. Arte. In senso traslato, il disegno vale pen siero, intenzione, o fine, che presiede al l'azione. V. Azione. DisEGUALE E DISUGUALE (spec.), quel che non ha il medesimo essere, nè le me desime qualità. È contrapposto di eguale. V. questa voce, DISFAvoRE (prat.), alienazione dell'ani mo, altra volta benevolo. È diverso dalla disgrazia, perchè può appena divenirne il cominciamento. DisCIUNTIvo (dise. ), nome di qualità, che si dà alle particelle che servono a di stinguere, o a separare i sensi di voci o di proposizioni diverse. DisGRAZIA (prat.), per suo significato proprio vale infortunio o sventura. In uno de suoi traslati vale ancora pri vazione o perdita di benevolenza, onde venire o cadere in disgrazia di taluno importa incorrere nell'avversione di lui. È proprio del superiore verso l'inferiore. DISGUSTo (prat.), nel suo significato proprio, vale ripugnanza o avversione del palato. In senso traslato, vale dispiacere rice vuto con rincrescimento, o risentimento. DISINGANNARE (disc. e prat.), torre se stesso o altri da una falsa opinione, in cui prima erasi. DISINGANNo (prat. e disc.), l'atto e l'ef fetto del disingannare. DisINTERESSE (prat.), la virtù che ci fa disprezzare le ricchezze, e riduce i desi deri entro i limiti del necessario. È il fondamento di tutte le altre virtù, perchè limita i bisogni, e porta nell'ani mo l'abito della moderazione, nella quale principalmente è riposto il giusto equili brio delle passioni. I latini la chiamarono abstinentia, e la predicarono come la prima di tutte le virtù publiche: il suo contrapposto è l'ava rizia e la cupidità: nullum vitium, dice Cicerone, tetrius quam avarilia, prae sertim in principibus rempublicam gu bernantibus: habere enim quaestui rem publicam non modo turpe est, sed sce leratum etiam et nefarium: nulla autem re conciliare facilius benevolentiam mul. titudinis possunt ii, qui republicae prae sunt, quam abstinentia et eontinentia. V. Continenza. DisINvoLTURA (prat.), naturale spedi tezza di portamenti e di maniere, senza veruno studio. DisIsrIMA (prat.), opinione sfavorevole, per la quale si cessa di avere in pregio colui, che si è prima stimato. È meno del dispregio. V. Dispregio. DisLEALE (prat.), chi manca di fede ad altri. DisMoDATo (prat.), tutto quel che esce da limiti decostumi e delle usanze di co loro, tra quali vivesi. DisoBBEDIRE, e DISUBBIDIRE (prat.) ne -149 –- gare volontariamente l'adempimento d'una obligazione, che ci viene imposta dalla legge. V. Legge, Obbedire. DisoBBEDIENZA (prat.), negazione di obbedienza a precetti d'una legge. Diffe risce dalla inobbedienza. V. questa voce. DisoBLIGARE (prat.), cavar d'obligo un altro, o se stesso, o reciprocamente l'un 'altro. V. Obligazione. E però l'anzidetto verbo è usato tanto nel significato attivo, quanto nel neutro passivo. Niuno può disobligare se stesso, nel sen so che non può cancellare la propria obli gazione, ma ciascuno si disobliga adem piendola. Laonde il Varchi notò, che que sto verbo non può aver luogo, se non tra due persone, sì che non può consistere in un solo, che non potrebbe disobligare se steSSO. DisoNESTA' (prat.), tutto quel che scon viene al concetto e alla nozione dell'one sto, di cui è il contrapposto. Corrisponde al dedecus de Latimi.V. One stà e Onesto. DIsoNoRE (prat.), vale perdita dell'ono re, che seco porta biasimo, vergogna e infamia. V. Onore. DisonErrANZA e EsoaErrAnzA (prat ), azione sconveniente, che dà nell'eccesso. DrsoRDINE (spec. e prat.), perturba mento di quella naturale disposizione del. le cose, che chiamasi ordine. Si applica nel senso morale ad ogni azione o portamento contrario alla buona regola del vivere. DisPARERE (dise. ), opinione contraria a quella d'un altro. Importa semplice diversità di giudizio, e però è meno di discordia e di discrepanza. DisPARERE v. (prat.), apparire malamen te, o diversamente da quel che converrebbe. DisPAREvoLE (prat.), fuggevole o ca duco, e vale per le cose sensibili, che pas sano e scompariscono. DispARI (spec. e prat.), non pari, non eguale, non simile. Nel primo senso è quel numero che non può essere diviso in parti eguali, ed intere. Nel secondo senso è meno del disugua le, perchè l'eguale presuppone sempre il medesimo essere e la medesima sostanza; laddove il dispari può trovarsi o nell'uno, o nell'altro. Nel terzo senso, è impropriamente usato per dissimile; dacchè la dissimiglianza ris guarda l'apparente, e non il costitutivo reale delle cose. V. Dissimile, Disuguale. DisPARISCENTE (spec.), contrapposto di appariscente. V. Appariscenza. DISPARITA' (spec. e disc.), la differenza tra due cose non pari. Vale ancora diversità di giudizio, o di opinione. DispERANZA (prat.), la perdita della speranza. DispERARE (prat.), uscire e fare uscire di speranza. Nel senso di neutro passivo vale per dere la speranza insieme colla tolleranza del dispiacere. - 150 – DrspER AzioNE (prat.), tristezza, che non è rattemperata da veruna speranza di mutazione in meglio. V. Tristezza. Cotesta definizione è degli stoici, e però secondo la partizione di quella scuola, è una delle spezie del dolore, il quale è uno de quattro generi delle passioni. V. Dolo re, Passione. Potrebbe ancora essere definita: smania che affligge l'anima per un bene, che crede non poter possedere o ricuperare, o per un male, che crede irreparabile. V. Bene, Male. Differisce dalla semplice disperanza, la quale non è accompagnata dalla intolle ranza del dolore. Disperro (prat.), dispregio dimostrato con risentimento, o animosità. E più del dispregio. V. Dispregio. DisPIACENZA E DISPIACERE (prat.), sen timento di molestia, di fastidio , o di dolore, che ci vien da'sensi, o dall'ani mo, per qualunque cosa che apprendiamo, come non gradevole, non utile, o non buona. L'uno e l'altro vocabolo sono adoperati per esprimere i diversi gradi d'intensità, che questo sentimento può avere, comin ciando dalla più lieve molestia, insino al più vivo dolore; siccome il piacere, che è il contrapposto loro, abbraccia ogni sorta di sentimento gradevole, sensitivo, o mo rale che sia. V. Piacere. DISPIACIMENTo (prat.), disapprovazione d'un fatto, accompagnato da un sentimento di dispiacenza. - DisposizioNE (prat. e disc. ), tendenza dell'animo a secondare un principio d'azio ne, in preferenza degli altri. V. Azione, Principio. Differisce dall'abito, di cui è un ele mento, o inizio. V. Abito. La disposizione può nascere, o dalla af finità che han tra loro i diversi principi d'azione, o dalla parte sensitiva di noi stessi. Taluni principi d'azione hanno tra loro una naturale somiglianza, la quale pro duce, che uno tragga dietro a se gli al tri, o perchè procedono dalla medesima causa, o perchè l'associazione delle idee chiama l'uno appresso dell'altro. Tali sono gli affetti benigni, i quali sono tra loro collegati o per la similitudine dello scopo che si prefiggono, o per lo desiderio che spigne l'animo alla pratica della virtù. Questo consenso di tutti gli affetti vir tuosi, è quel che forma il carattere di stintivo della perfetta virtù, e dell'uomo per ogni verso buono. La stessa connessione regna tra gli af, fetti maligni, i quali generano l'abito del vizio, e sono in aperta opposizione dei primi. V. Affetto. La disposizione poi che nasce dalla parte sensitiva, è un eſſetto che l'anima risente dallo stato sano o infermo del corpo, dal piacere o dal dolore, dalla speranza o dal timore, e da tutte le sensazioni gradevoli o disaggradevoli. Cotesta disposizione è quella che viene comunemente designata col nome di umore, e che è la sorgente della ilarità, o della tristezza. V. Ilarità, . Tristezza. Da ciò segue che la diversa disposizione dell'anima può nascere tanto dagli appe titi, quanto dagli affetti, e così da prin cipi d'azione meccanici ed animali, quanto da razionali; il che ha suggerito la distin zione tra disposizione fisica, e morale. V. Fisico, Morale. – 151 – Lo stesso vocabolo, nell'arte del parlare, vale ordinamento delle diverse parti del di scorso, acciocchè sia tra loro la debita con nessione, e tutte sieno coerenti al suggetto, e allo scopo del dicitore. V. Discorso. DisPREGIo E DISPREzzo (prat.), non cu ranza di persona o di cosa, che si reputa da poco. E il contrapposto di stima.V. questa voce. DISPUTABILE (dise. ), il probabile d'un argomento qualunque, che può esser per una parte affermato, e per l'altra negato. D'onde nasce, che tranne poche verità evidenti, tutto sia divenuto disputabile tra gli uomini; e che nell'applicazione delle stesse verità evidenti, essi discordino, e si scindano in sette e in partiti, del quali ciascuno, dal calore della parola trascorre a risentimenti e agli odi delle passioni? È lo spirito della disputa, che trasporta fuori dello scopo e de limiti suoi l'arte del ragionare, la quale esser dovrebbe l'arte di trovare il vero ! Nulla è più utile di quest'arte, tanto nella privata quanto nella publica vita; nulla è più di essa necessario al progresso delle scienze. La disputa apre alla verità mille aditi, i quali si nascondono alla muta meditazione d'un uomo concentrato ne'suoi pensieri; comunica allo spirito la vivacità per trovare nuove idee; gli mostra le ob biezioni e le difficoltà, nelle quali si ab battono i giudizi fondati sopra l'apparente verità delle cose; scopre i nodi di tutte le controversie; dilegua le ambiguità; chia rifica le idee; e spiana la via a quel ma turo giudizio, nel quale è riposta la per suasione. Cotesti buoni frutti del disputare nascer debbono dalla retta e ingenua in tenzione di trovare il vero, la quale al dir di Cicerone non si offende della ripren sione, e per contrario abborre la pertina cia e l'iracondia: quamobrem, egli sog giugne, dissentientium inter se repre hensiones non sunt vituperandae. ma ledicta, contumeliae, lum iracundiae, contentiones, concertationesque in dispu tando pertinaces, indignae mihi philo sophia videri solent. Ma se al disputare presieda in luogo dell'amor del vero, quello della propria opinione, o il desiderio di contraddire l'al trui; alla ragione sottentra la passione, la quale ci allontana interamente dal retto sentiero, e ci conduce all'errore e a so fismi. Ciascun de disputanti, cercando di vincere l'altro, trova argomenti per dare alla propria opinione il color della verità, d'onde segue che alla perfine tutto prenda l'aspetto della probabilità, e nulla resti di chiaro, o di certo. Così facendo, essi non corron dietro alla gloria di trovare il ve ro, ma a quella di mostrarsi l'uno più abile e più destro dicitore dell'altro; e spinti dal sentimento della rivalità muovon guerra prima agli argomenti, e poi alla persona dell'avversario. A tal modo le scuole di vennero teatri di gare e di convici ; nè trovossi più una verità, che non fosse co perta dal velo della probabilità. Per preservare la filosofia dalla incer tezza e dalla fluttuazione delle opinioni, e per restituirle la luce della verità, la quale non può essere che una, uopo è richia mare alle sue vere regole l'arte del di sputare. Coteste regole sono: 1.º l'enun ciare chiaramente le proposizioni che deb bon essere provate: 2.º il definire le idee e i vocaboli che ne determinano il senso: 3.º il convenire del principi co' quali le quistioni proposte debbon essere risolute: 4.º il risolverle co principi convenuti. – 152 - Se quest'ordine fosse seguito, non po trebbe avvenire, che una delle due se guenti cose: o che si disconvenisse dei principi, o che si discordasse intorno alle conseguenze. Nell'uno e nell'altro caso di verrebbe palese la causa dell'errore, e la disputa sarebbe utile agli altri, che dopo i primi venissero senza prevenzione a di rimere la medesima controversia. DISRAGIONE (prat.), contrapposto di ragio ne, usato nel senso dell'operar pazzamente. DISREGOLATo (prat.), licenzioso, che non sopporta il freno della regola. V. Regola. DissENSIONE (prat.), discordia nata per diversità di opinione. DISSENTIMENTo (spec.), atto del giudizio col quale neghiamo la verità d'una pro posizione. V. Giudizio. È negazione di assentimento. V. As sentimento, DissIMILE (spec.), quel che non ha la medesima forma, o le medesime qualità. È contrapposto di simile. V. questa voce. DISSIMULAZIONE (prat.), il nascondere altrui il proprio pensiero. Differisce dal simulare, che è fingere un sentimento non suo. Simula chi finge, e dissimula chi cela: simula l'aſſetto, chi mostra di sentirlo, e non lo sente: dissi mula, chi fa mostra di non sentirlo, e lo sente: in somma si simula quel che non è, e si dissimula quel che è: o in altri termini, il simulatore parla falsa mente, e il dissimulatore tace. Ma non sempre il tacere è riprensibile, e però non sempre il dissimulare può es sere ascritto a doppiezza d'animo. La dis simulazione è vizio, quando taluno tace quel che è obligato di manifestare; e per l'opposito è virtù, quando il palesarlo no cerebbe agli altri, o a se medesimo: nel primo caso v'ha dolo, e nel secondo v'ha prudenza. Malamente han taluni citato l'au torità di Cicerone per dare alla voce dis simulazione il significato di mendacio; im perocchè egli adoperolla così nel buono come nel tristo senso. E se in un luogo disse, nec quidquam simulabit aut dissi mulabit vir bonus, e in un'altro, dolus malus simulatione et dissimulatione con tinetur, per contrario adoperò pure lo stesso vocabolo nell'inverso senso, e chia mò dissimulazione la dimenticanza e l'ob blio del propri mali, come nel terzo del le tusculane, e nel secondo de oratore: valde ridentur, quae a prudentibus, quasi per dissimulationem non intelli gendi, subabsurde falseque dieuntur. Al che si aggiugne avere i latini chiamato dissimulazione anche l'ironia, ed averla Cicerone stesso commendata come la figu ra favorita da Socrate: Socrates libenter uti solitus est ea dissimulatione, quam Graeci epayetay vocant. Lo stesso doppio significato ha il voca bolo dissimulazione nella lingua italiana, siccome abbiamo dal Cavalca nel trattato de frutti della lingua, « che chi non sa » perdonare, e dissimulare discretamente, 2 non sa nè può punir giustamente ». Di remo ancora, esser cotesto doppio senso comune alle altre lingue volgari, che han no ereditato il latino dissimulare, come presso i francesi; e doversi per necessità distinguere il buono dal cattivo significato del pari che facciamo nel verbo tacere. Chi non sa che la riserva, la discrezione, ed il segreto sono i mezzi, de quali si – 155 - vale la prudenza nella direzione della vita privata; e che nella vita publica divengo no gl'instrumenti necessari del reggimento de popoli. Ognun conosce il famoso detto di Luigi XIV che l'arte di regnare sta nel saper dissimulare. Che se l'abuso di que st’arte è stato notato a vizio di taluni prin cipi, come di Tiberio, di Luigi XI, e di Filippo II; non è però, che perder debba il carattere di saggezza e di prudenza in quegli altri, che ne hanno rettamente, e senza fraude usato. V. Finzione. DissoLUTEzzA (prat.), rilassetezza di co stumi per lascivia. Vale tanto pe fatti, quanto pe'detti, e però diconsi opere dissolute, e lingua dissoluta. DissoLUzioNE (spee.), distruzione del composto, o separazione de suoi compo menti in minime parti, liquide o solide che sieno. V. Composto. È vocabolo proprio della fisica e della chimica; comechè il suo concetto appar tenga ancora alla filosofia speculativa, per chè le somministra l'idea del modo col quale si sciolgono i corpi, e spezialmente quelli degli Esseri organici. DissUAsIoNE (disc.), ragionamento fatto, per distruggere una convizione già prima formata, o per distorre l'animo da qualche sentimento, che in esso prevale. V. Con vizione. DISTANZA (spee. ), intervallo di luogo, o di tempo, che separa un obbietto da noi, o più obbetti tra loro. Il significato proprio di questo vocabolo risguarda la distanza di luogo, o sia la geometrica. Quantunque la conoscenza della distanza ci venga dalla visione e dal tatto uniti insieme, pure l'organo della vista è quello, che ci somministra i dati, per misurare gl'intervalli che separano gli obbietti lon tani, e per distinguere gli apparenti dai veri. V. Apparente. L'ottica ci spiega, come i raggi della luce passando a traverso dell'umor cristal lino degli occhi vengano a dipingere nel la retina l'immagine fedele degli obbietti esterni; come la grandezza delle immagini dipinte sulla retina sia proporzionale alla lontananza degli obbietti; come nella re tina si dipingano contemporaneamente le immagini de corpi intermedi tra l'occhio e l'obbietto più lontano; come la luce dia un colore a tutti gli obbietti, e come la maggiore o minor vivacità del colori sia ancor essa proporzionale alla rispettiva lon tananza loro. Da tali dati il ragionamento deduce, che la chiara o confusa visione degli obbietti, delle loro parti e del colo rito formino le diverse gradazioni degl'in tervalli, che li separano; e servendosi de gli obbietti intermedi, come di altrettanti mezzi di misura, perviene a determinare la distanza anche de più lontani, che l'oc chio appena giugne a raffigurare. V. Ol tica , Visione. Quanto poi alla distanza di tempo, che noi siam soliti assimilare a quella dello spazio, la memoria somministra gli ele menti per misurarla. La cronologia è l'arte che li raccoglie, e ne insegna l'uso. In fine, un terzo genere di distanza crea il pensiero tra gli obbietti puramente in telligibili, che potrebbe dirsi distanza di qualità. Così, chiamiamo distanza la dif. ferenza che passa tra le qualità dell'inge gno di due uomini, o quella che interce de tra le cose finite e l'infinito. Ma co 20 - 154 - testo modo di dire debbessere risguardato come un parlar figurato, e poco esatto, perchè ricavato da una similitudine di cose materiali. V. Similitudine. DISTINGUERE ( disc. e spec. ), separare il vero dal falso, l'onesto e il giusto dal l'ingiusto, il diverso dal proprio, e il si mile dal dissimile. V. queste voci. Il distinguere è una virtù propria del giudizio, e forma quel che dicesi discer nimento. V. Discernimento. DISTINTIvo ( spec. e dise. ), segno o nota per riconoscere una cosa, o una idea, onde non confonderla con un'altra, V. Segno. DISTINTIvo (spec. e disc. ), addiettivo, atto a distinguere; nel quale senso dicesi segno o carattere distintivo. V. Carattere. DISTINTo. V. Idea. DISTINZIONE (dise. spec. ontol. e prat.), proposizione, che separa le idee conve nienti dalle sconvenienti, per rispetto al vero, al falso, al certo, e al probabile. I logici riconoscono due spezie di di stinzioni, le verbali, e le reali. Le prime indicano le differenze del significati de vocaboli, tanto propri quanto traslati. Le seconde mostrano le differenze tra le spezie comprese in una nozione generale. Quelle appartengono alla gramatica delle lingue: queste alla logica, o sia al retto uso del giudizio. Aristotele fece delle distinzioni un sup plimento alle sue categorie, e pretese ri durle in determinate classi. Gli scolastici, seguendo le orme sue ne fecero una tri plice partizione, e chiamarono distinzione reale quella che passa tra le cose che poss sono esistere divisamente l'una dall'altra, come due sostanze, o due modi di que ste; distinzione modale, quella che è tra due cose, delle quali una non può esistere senza dell'altra, mentrechè l'altra può esi ster sola e di per se, come la sostanza e il modo, o l'accidente; distinzione ra zionale quella, che fa la mente tra due concetti della medesima cosa, de quali l'uno presuppone necessariamente l'altro, come la cosa e la sua essenza, o l'essenza e le proprietà delle cose, Immaginarono essi ancora una distinzione, detta metafisica, che è quella che passa tra due enti, l'es senza de quali è diversa. - Tutte le cennate spezie di distinzioni, eran figlie di quell'amore per le categorie, che allora regnava nelle scuole, e che for mavano il principal carattere della dialet tica scolastica. Distinzione nell'argomentare chiamavano pure i logici scolastici quella obbiezione, per la quale volevasi in parte ammettere, e in parte escludere, ovvero dichiarire un argomento, o non tutto vero, o ambiguo; il che rientra nel significato ovvio e comune del verbo distinguere. Distinzioni morali finalmente sono state dette, nella filosofia pratica, le nozioni del giusto e dell'ingiusto, considerate co me principi delle umane azioni. I dubbi promossi da coloro, i quali negano gli eterni principi del giusto e dell'onesto, e fan derivare i precetti morali dalle sole leggi positive, o dall'interesse e dall'amor di se medesimo, furono denominati con troversie intorno alla realità e alla im mutabilità delle distinzioni morali. Primo autore di tali dubbi nella moder ma filosofia fu Tommaso Hobbes, il quale ripose il principio e le regole della mora – 155 - lità nelle leggi umane, sol perchè la no zione del giusto presuppone quella della legge, l'origine della quale non puossi ripetere, che dalla istituzione del civile reg gimento. V. Legge. Consona a tal sistema è la dottrina di quegli altri, i quali riconoscono, come unico principio delle umane azioni, l'in teresse, o l'amor di se medesimo; e di quelli ancora, che escludendo ogni libertà o arbitrio, negano all'uomo una facoltà morale, e ammettono, come sola sorgente delle azioni, la necessità. V. Arbitrio, Libertà, Mecessità. º Cudworth fu il primo a combattere il pernizioso sistema di Hobbes, avendo di mostrato, che la nozione del giusto e del l'ingiusto deriva non dalle leggi positive, ma da quella stessa luce della ragione, la quale discerne il vero dal falso, e però diede alla filosofia morale, per suo fon damento, l'immutabilità delle morali di stinzioni. Grozio aveva prima fatto nel di ritto della natura e delle genti, quel che Cudworth di poi fece nella filosofia; il che restituì pure alle civili società la stabilità de principi, che la filosofia obbesiana ave va tentato di scuotere. V. Diritto. Locke fu accusato di aver dato nella dottrina di Hobbes, perchè avendo negato alle regole della morale la qualità di principi innati; e d'altra parte avendo am messo come sole sorgenti delle idee sem plici la sensazione e la riflessione; fu per una conseguenza sistematica di tai prin cipi, condotto a risguardare le cennate regole come verità dedotte dal ragiona mento, dall'esempio, e dalla sperienza, Leibnitz e Newton impugnarono la dot trina di Locke, come falsa ne principi, e pericolosa nelle conseguenze, sebbene queste oltrepassassero forse l'intenzione dell'autore. Le regole della morale, se condo Leibnitz sono innate, nel senso che la natura le ha raccomandato tanto alla luce della ragione, quanto all'istinto, da poichè quella le legge in se medesima, e questo ne forma altrettanti principi d'azio ne. Così l'amor paterno, la pietà filiale, il pudor naturale, la sensibilità per lo male e pel dolore altrui, l'abborrimento del sangue de viventi, il rispetto pecada veri, sono i principi di tutte quelle azioni che divengono virtuose non prima che la ragione può vederne la verità, e rimirare l'origine loro nella perfetta ed eterna legge dell'Autore di tutto l'ordine morale. Altri de moderni filosofi han cercato di spiegare la dottrina di Locke per modo da schivare le conseguenze perniziose che sembravano derivare da principi generali del suo sistema. Hutcheson volle, che le sensazioni (alle quali Locke riferito aveva tutte le idee semplici) comprender doves sero tanto le esterne quanto le interne; e però chiamò senso morale la percezione delle nozioni del giusto e dell'ingiusto. A questo modo l'intelletto e il ragiona mento non creano nuove idee semplici, ma scoprono le relazioni tra le idee, me diante quel senso acquistate. Cotesto siste ma non va esente da censura, dacchè la percezione del giusto sarebbe assimilata a tutte le altre impressioni che l'anima riceve dalle azioni gradevoli o disaggradevoli. Per evitare ogni altra ambiguità, può l' immutabilità delle distinzioni morali essere così enunciata: le regole della mo rale sono fondate sulle nozioni del giusto e dell'ingiusto: la nozione del giusto è una verità evidente, che ci somministra il senso morale, o sia la luce stessa della ragione: la sua denominazione è relativa, non alla legge, ma al dovere e all'obli a - 156 - gazion morale: è l'espressione d'una re lazione necessaria ed immediata dell'ani ma col suo Autore: è la nozione della convenienza, che le azioni umane aver deb bono co fini dell'ordine morale dell'uni verso: è la nozione che precede quella della legge, e nella quale trovansi il mo dulo e i tipi della legge stessa. V. Dove re, Obligazione, Senso morale. DisTRAZIoNE (spec.), passaggio che la mente soffre da uno o più obbietti, di versi da quello, al quale la nostra atten zione era rivolta. V. Attenzione. La distrazione prende origine dalla as sociazione delle idee, le quali a misura che si presentano allo spirito, e si succe dono le une alle altre, lo fan passare di pensiero in pensiero, e spesso lo traspor tano alle idee le più disparate, e alle im magini le più strane. È questa una imperfezione, la quale sebbene cominci da un atto involontario, pur tuttavolta può degenerare in abito per difetto di riflessione, e divenire un vizio pregiudizievole alla prontezza della com prensione, e alla maturità del giudizio. La riflessione è il solo rimedio efficace contra la spinta, che l'associazione delle idee dà verso la distrazione. V. Associa a 20726', DisTRIBUzioNE (dise.), la divisione delle parti d'una scienza, d'un'arte, o di un discorso, fatta per trattare di ciascuna separatamente. Ogni scienza, ha una distribuzione a se propria: l'oratore distingue le diverse parti del discorso, e assegna a ciascuna gli argomenti che le convengono: il poeta distribuisce il dramma in atti e scene : lo scrittore di qualunque libro lo divide in più parti e in più capitoli: l'architetto forma nel suo progetto lo scompartimento delle diverse parti dell'edifizio. In somma, senza distribuzione, non v'ha ordine, nè metodo. V. Metodo, Ordine. DITA e DITI (spec.), i cinque membret ti, che derivano dalla mano e dal piede. Le naturali attitudini di cui le dita sono dotate formano uno de più singolari pregi dell'umana conformazione. Son esse che danno alla mano, non solamente il po tere di difendere il corpo (dacchè non è parte di questo, cui non giungano le dita), ma ancora la destrezza e l'agilità per dare forma alla materia, e per costruire le mac chine e gl'instrumenti, per mezzo dequali crea l'uomo moto e forze artifiziali, che gareggiano colla natura. Le loro falanci, le giunture e le articolazioni di cui son provvedute, le rendono capaci delle di verse spezie di forza, delle quali il brac cio stesso è dotato. Son esse i principali instrumenti del gesto e del linguaggio di azione. Sono infine i ministri della parola, perchè nella loro conformazione aveva il supremo Autor della natura prenunziato all'uomo il dono della scrittura. Le dita dunque sono una di quelle parti del cor po, che più delle altre annunziano, es sere l'uomo un'opera di gran disegno, ed essere il mondo creato per l'uomo. DITTONGo (disc.), suono composto di due lettere vocali unite insieme. Il suono delle due lettere talvolta è di stinto, comechè spesso l'una preoccupi l'altra; e tal'altra volta le due vocali for mano un suono misto. L'uso e la pronunzia de'dittonghi varia secondo il particolar gusto d'ogni lingua. Tra le moderne l'italiana è quella che meno - 157 – ne abbonda, avendo essa per costume di ridurre in molte parole il suono delle due lettere ad una sola. DivERsITA e DIVERso (ontol. e dise. ), ogni cosa, che pel suo costitutivo, non può essere confusa con un'altra. La nozione del diverso è un contrappo sto di due altre nozioni, l'unità e l'iden tità; e per la stessa ragione il diverso è proprio del moltiplice. V. Identità, Mol tiplice, Unità. Il diverso può essere reale o apparente, assoluto o relativo, secondochè le diffe renze delle cose che si paragonano tra loro, versino circa le essenze, i modi, o gli accidenti loro. V. Accidente, Ap parente, Assoluto, Essenza, Modo. La nozione della diversità non de essere confusa con quella della differenza, o della distinzione. Il diverso nasce dalla natura delle cose; mentrechè la differen za, e la distinzione son due concetti che la mente forma colla comparazione di più obbietti del pensiero. V. Differenza, Di stinzione. ' DIVINAzioNE (teol.), arte superstiziosa, per la quale pretendesi conoscere il futu ro, e l'ignoto. V. Futuro. La divinazione è stato un prestigio di tutti gli antichi popoli, e quel che è più, di tutti i loro sapienti, non escluso So crate, il quale n'eccettuava soltanto le co se, che possono essere conosciute co mezzi naturali. I pregiudizi ereditati dagli an tichi, e l'ignoranza dell'età di mezzo la fecero perpetuare anche tra popoli cristia mi, comechè si fossero mutati gli artifizi divinatori. I così detti giudizi di Dio, gli esperimenti del fuoco, dell'acqua ed altri simili, non erano che spezie di divinazio me. Più memorabili ancora sono gli esempi che ne han dato l'alchimia, e l'astrologia; e ne restano ancora le vestigie nella cre dulità del sogni, e in molte popolari su perstizioni. Coteste vestigie son forse inde lebili nel volgo, tra perchè mancando della giusta idea della possibilità, corre dietro alle tradizioni maravigliose; e perchè v'ha nello spirito umano una maturale tendenza al credere, che una invisibile potenza pre sieda a giudizi della sorte. V. Sorte. Del resto tanto i prestigi degli antichi per le arti divinatorie, quanto le moderne volgari credenze possono essere spiegate, e talvolta ancora escusate per quel senti mento implicito, ma vero, che gli avve nimenti tutti, non esclusi quelli che noi consideriamo come i più eventuali e for tuiti, son sotto la mano della Divina Prov videnza, la quale regge e conserva il mon do. V. Provvidenza. DivINITA' (teol. ), l'essenza di Dio, o la divina natura. V. Dio, Essenza. DIVINo (teol.), ogni cosa che vien da Dio, o che a Dio si riferisce. V. Dio. Per una impropria similitudine suol chia marsi divina, qualunque cosa straordina riamente eccellente, che sembri sorpassare le comuni opere della natura, e l'ordinaria capacità umana. Così, diciamo divino in gegno, divina invenzione, o il divino Platone. DivisiEILITA' (spec. e ontol.), qualità della materia e d'ogni composto, per la quale possono le sue parti essere separate le une dalle altre. V. Composto, Materia. Dmosano (cri. e dise.), catalogo espli cativo del significato del vocaboli del lin – 158 – guaggio, de fatti degli uomini, o deter mini delle scienze e delle arti, disposto per ordine alfabetico. V. Arte, Linguag gio, Scienza. Da questa definizione risulta, che seb bene i dizionari possano essere diversi per la varia natura de nomi, che prefiggonsi di spiegare; purtuttavolta essi prendono dall'ordine alfabetico il nome caratteristico della loro forma. Dalla stessa definizione conseguita, che volendogli considerare per la materia, cir ca la quale versano, si può farne la se guente partizione: dizionari delle lingue o vocabolari: dizionari storici, dizionari delle scienze e delle arti. Senza ripetere quel, che di ciascun di essi abbiamo accennato nel discorso prelimi nare; anzi risguardando le cose ivi dette, come già note, o convenute; cerchiam di rilevare i caratteri propri di ognuna delle tre divisate spezie. - I. Dizionari, o vocabolari delle lingue. Son tre i requisiti principali che aver debbe un dizionario del linguaggio: un chiaro significato delle parole: l'etimolo gica loro derivazione: le regole del reg gimento del discorso. Altri pregi di se condaria utilità possono ancora renderlo compiuto e perfetto, come l'indicazione della quantità delle sillabe, il suono della pronunzia, e le varietà della ortografia. Chiamiam secondaria l'importanza di tai pregi, tra perchè non forman parte es senziale dell'opera, e perchè potrebbe ad essi supplire l'uso stesso del parlare, in difetto delle regole scritte. Quanto al significato, è necessario di stinguere il proprio dal traslato, e questo dal figurato o metaforico. Deesi avere per proprio significato del vocaboli quello che è il più vicino alle loro radici, che però dicesi ancora primitivo. Il traslato addita l'analogia o la similitudine, che ha fatto estendere il senso della prima denomina zione. Il figurato o metaforico dimostra per quale associazione d'idee l'immaginazione ha cangiato i primi nomi in altrettanti se gni di nuovi concetti. Son questi i tre si gnificati, che suppliscono alla scarsezza de vocaboli, e nell'opportuno uso de quali è riposta la precisione e l'eleganza del dire, tanto nel discorso naturale, quanto nella eloquenza, e nella poesia. - Le definizioni rendon chiaro il signifi cato delle parole, ma non sono le defini zioni reali quelle, che più si desiderano ne comuni vocabolari delle lingue. Cote ste definizioni son proprie de'dizionari delle scienze e delle arti, nelle quali vuolsi co noscere il costitutivo delle cose. Si vale di esse il comune linguaggio per bene inten dere e per ispiegare la formazione delle idee generali; ma in realtà appartengono all'arte logica e retorica più che al comu me uso della parola. Son le definizioni dei nomi quelle, che vengono più frequente mente adoperate per la chiara intelligenza del discorso, e delle quali l'artifizio è si mile all'altro delle definizioni reali. Im perochè scompongono esse l'idea del no me in altre idee di quella più intelligibili e così la rendono chiara e distinta. Da ciò segue, che rade volte un nome solo spie gar possa un altro nome, dacchè le spiega zioni contener debbono un numero d'idee, e per conseguente di nomi, maggiore dei vocaboli spiegati. E quì l'esempio potrà più acconciamente dimostrare quanto sieno in questo difettivi i comuni vocabolari. Chi volesse spiegare – 159 – la demenza per l'altro vocabolo scioc chezza, e questo per la stoltezza, e la stoltezza per la pazzia, tornando poi dalla pazzia alla demenza, non avrebbe fatto altro, che un circolo vizioso di cinque no mi, o tutti egualmente chiari, o tutti e gualmente ambigui. E per contrario chi definisse la demenza per la privazione del senno, spiegherebbe con due idee e con due voci l'idea complessa dello stato alte rato della mente, che in quel vocabolo si contiene. Similmente, un vocabolario, che spiegasse il desiderio per voglia, e la voglia per desiderio, non direbbe coll'uno più che coll'altro vocabolo; laddove se avesse detto, che il desiderio è la voglia di qualche cosa che ci manca, e che noi apprendiamo come un bene, avrebbe ado perato è vero più parole per ispiegarne una sola, ma avrebbe fatto chiaramente intendere l'idea, che nel nome si racchiu de. E se lo stesso vocabolario avesse spie gato la desolazione per lo desolare, e il desolare per lo disolare avrebbe fatto un ridevole rimbalzo della stessa parola, sen za nulla dire della differenza che passa tra l semplice dolor dell'animo e la desolazio ne. Che diremmo poi, se volendo definire il vero, avesse detto quel che ha verità, e spiegando la verità fosse tornato a quel che è vero? In somma, senza moltiplicare gli esempi, non è lecito il rimandare da un vocabolo ad un altro che esprime la medesima idea, se non quando si tratti di nomi verbali o di altri derivati, nei quali casi il significato del verbo, o del radicale immediato spiega e dichiarisce il nome, che da essi è formato. Circa poi l'etimologia, basta conside rare la struttura d'ogni lingua per cono scere, che i vocaboli forman famiglie, alle quali presiedono talune voci, dette radi cali, dalla diversa modificazione o dalla unione delle quali nascono i derivati e i composti. Ora l'idea espressa dal radicale fa conoscere non solamente il vero signi ficato delle parole da esso formate, ma le relazioni ancora espresse colle derivazioni del primo nome. E similmente le radici del composti chiaramente indicano le idee semplici del componenti, dalle quali sono nate le complesse racchiuse ne composti medesimi. In somma il ricorrere alle ra dici, è il far l'analisi del vocaboli e per conseguente delle idee, che essi esprimo no. E però i Greci composero il vocabolo etimologia, per esprimere, che in questa analisi appunto sta la perfetta cognizione del linguaggio; siccome pure lo stesso vol ler dire i latini quando, al dir di Cice rone, tradussero quel vocabolo per veri logium. Egli è vero, che l'arte etimolo gica è divenuta difficile per la mistura delle lingue, e il diverrà ancora di van taggio ne secoli futuri, se nuovi parlarina scessero dalla corruzione del presenti idio mi; ma la difficoltà non toglie pregio al l'arte, e non vieta il separare il facile e il noto dal congetturale e dall'incerto. È vero altresì, che gli etimologisti grama tici, per le sistematiche loro derivazioni rendettero sterile e noioso lo studio delle etimologie; ma di quanto quest'arte non si è cangiata nelle mani del filosofi poli glotti, e quanto lume non ha apportato, e non apporta tuttogiorno alla cognizione della archeologia, della storia, e della stessa filosofia? Del resto tutte l'esagerate difficoltà dell'arte etimologica possono es sere di qualche peso per chi voglia appro fondare lo studio delle origini delle lin gue, e risalire insino alle primitive; ma son vane per chi voglia limitarsi alle lin gue moderne, delle quali i monumenti - 160 - stessi della storia ci additano la successi va loro formazione. E quì giova rilevare quanto erronea, e mal consigliata fosse l'avvertenza inserita dagli aecademici della crusca nella prefazione alla quarta edi zione del vocabolario italiano, dove dis sero. « Ci siamo astenuti in tutto e per tutto dall'assegnare l'etimologie e l'ori gine di qualsivoglia voce, essendo per lo più incerte e dubbie, e sopra cui vi è bene spesso da piatire, e anche per non esser eosa appartenente a quest'opera; oltrechè omai ne è stato assai scritto da molti altri autori, e in particolare da alcuni nostri accademici » ; il quale ultimo tratto fa presentire, che i compilatori del diziona rio eredessero essere fuori del mondo let terario tutto quel che non proveniva da gli accademici loro confratelli. E pur fosse vero, che vorremmo menar buona la scu sa! Ma v'erano già al tempo, tanto della prima compilazione, quanto della forma zione delle giunte, molti lavori intorno alle origini della lingua italiana, ed altri ne vennero di poi, che avrebber potuto somministrare la materia d'un compiuto e perfetto dizionario etimologico. Tali erano quelli del Giambullari, di Ascanio Persio, del Ferrari, del Menagio, e del Salvini. E sebbene costoro avessero voluto tutto derivare dalle voci anniane, greche, e latine, e avessero dato in ridevoli e in tollerabili stiracchiature; pur tuttavolta ave vano le loro etimologie la parte vera, che avrebbe potuto essere separata dalla falsa. Qual tesoro poi nen avrebbero tro vato i successori del primi compilatori del nostro dizionario nell'egregio lavoro del Muratori, de origine sive etymologia ita licarum vocum, dove quell'insigne uomo diede un ragionato dizionario etimologico de vocaboli provenienti dalle lingue depo poli barbari, che invasero e tennero per secoli le nostre contrade; e dalla mistura de quali emerse la novella Italia, la sua lingua, gli abiti, ei presenti costumi suoi? In conclusione, una delle giunte necessa rie al dizionario della crusca, son l'eti mologie, delle quali gli stranieri ci han dato i primi esempi. Senza parlare degli egregi dizionari etimologici delle linguean tiche, come quelli di Errico Stefano, del Vossio, del Mazzocehi, gl'Inglesi, i Te deschi e i Francesi, nel vocabolari di Iohn son, di Adelung, e di Boiste sono stati i primi a supplire al difetto della parte eti mologica, ch'era stata interamente negletta in tutti i dizionari delle lingue viventi. Son questi gli esempi, che speriamo sien presi di mira ne'nuovi lavori che promette l'odierna accademia della crusca per la ri forma del suo vocabolario. V. Etimologia. Finalmente per quel che concerne il reggimento delle parole, comechè sia que sta propriamente la materia della grama tica; uopo è non pertanto che il diziona rio ne faccia conoscere le regole princi pali, spezialmente per determinare le re lazioni del verbi, e per indicare l'uso de gli articoli, delle preposizioni e delle par ticelle del discorso. Oltre le regole gene rali può ancora il Dizionario far quello, di cui la nostra crusca fu la prima a dare un felice esempio, il convalidare cioè le regole del reggimento cogli esempi de'buo ni scrittori. Riassumendo ora le cose dette, i principali requisiti d'un perfetto vocabo lario saranno: 1.º il significato proprio d'ogni voca bolo, espresso per le definizioni logiche dei termini generali, e per le nominali, a ri spetto de nomi singolari: 2.º il senso traslato : 3.º il figurato, o metaforico: – 161 – A.º le voci radicali del vocaboli derivati: 5.º i componenti d'ogni composto: 6.º le diverse relazioni del verbo: 7.º le regole per l'uso degli articoli, delle particelle, delle preposizioni, e d'ogni altra parte ausiliaria del discorsº. Un'opera cosiffatta meriterà la lode di compiuta e perfetta, a misura che sarà più corredata delle regole generali del discorso, la pratica applicazione delle quali è inse gnata dalla gramatica. II. - - Dizionari storici. e Entrano nella classe di cotesti dizionari due vastissimi argomenti, cioè la storia propriamente detta, e la geografia. Il pri mo versa circa i fatti dell'uomo e contiene in se il grande tesoro della sperienza ac compagnato dalla scienza del tempi, che distribuisce e ordina i fatti. Il secondo de scrive i luoghi, che possiam considerare come i teatri dove son quelli avvenuti; e i popoli, che vi figurano come attori o spettatori. Quanto alla storia, trovasi ella distri buita nel dizionari, per ordine alfabetico; ordine il quale è disadatto all'insegnamen to, ma utile alla memoria, cui serve quasi di supplimento scritto. Son essi altrettanti repertori, ne quali ognuno può facilmente trovare quello che con molta difficoltà do vrebbe andare cercando nella immensità delle biblioteche storiche. Ve n'ha dege merali e del particolari; siccome v'ha di quelli, che abbracciano o i fatti e i loro autori, o la sola vita degli uomini cele bri e notabili. Quelli che limitansi a que sto sol genere son detti scrittori di vite o biografi. V'ha poco a dire intorno a re quisiti di tali dizionari, che sonsi oggidì cotanto moltiplicati. L'unico pregio loro è la verità, nel qual requisito è compresa l'esatta descrizione de fatti. Un tal requi sito non pertanto non de'essere abbando nato ad una semplice presunzione, la quale terrebbe in sospeso la credenza del lettori, ma uopo è che sia dimostrata dal fatto stesso dello scrittore. Un dizionario storico di qualunque sor ta, potrà dirsi perfetto nel suo genere, e utile per lo scopo che si prefigge, se sarà tanto esatto nel descrivere, quanto nel ci. tare gli autori degni di fede, da quali ha attinto i fatti che narra. A questa esat tezza è spezialmente attaccata l'utilità dei suoi articoli, perchè non potendo essi con tener tutto quel che leggesi nella storia, e prestar dovendo l'ufizio di repertori; uopo è che rimandino il lettore alle fonti, dove trovar può più ampiamente esposti gli avvenimenti, dequali desidera istruirsi, o risovvenirsi. Una cosa è degna d'essere avvertita in un tempo, in cui è tanto cre sciuta la mole delle biografie, e la sma nia della celebrità ne viventi, cioè che gli elogi storici e le biografie degli uomini illustri si riservino a trapassati come un tributo di lode che accompagnar dee la ricordanza del nome loro, e non si pro dighino a presenti. La lode che si dispensa a viventi è sempre comperata, e non me rita fede: ella corrompe gli uomini vani tosi e leggieri, e non lusinga i meritevoli, dapoichè diviene una moneta senza valore, quando spendesi per tutti quelli che l'am biscono. Ritornino dunque gli elogi a quel che sono stati una volta, e si riservi alla posterità il decretargli, soprattutto a coloro, che hanno ornato colla modestia la virtù loro, e hanno ignorato di potergli meritare. V. Biografia, Cronologia, Elogio, Storia. 21 - 162 - Quanto poi a dizionari geografici, am pissima è la materia ch'essi abbracciano, e talmente collegata colla geografia fisica e astronomica, e colle scienze naturali, che non può essere considerato come un lavoro meramente narrativo o descrittivo. Infatti imperfetto sarebbe un dizionario geogra fico che si limitasse alla sola geografia ci vile o storica, ommettendo tutte le altre condizioni fisiche de luoghi che descrive. All'ampiezza dunque del suo argomento, che è vasto quanto la terra; alle varie vicissitudini, per le quali son passate le diverse contrade del globo; alle diverse denominazioni che hanno avuto; a diversi popoli che le hanno abitate, alle lingue che questi han parlato; uopo è aggiugnere le distanze, le misure itinerarie, le par tizioni del cielo corrispondenti alla sfera terrestre, le latitudini, le longitudini, la qualità del suolo, le produzioni naturali d'ogni genere, lo stato della popolazione, del commercio, delle arti, dell'agricoltu ra, le istituzioni civili particolari ad ogni popolo. Un dizionario corredato di tutte le cennate notizie, e accompagnato dalle rispettive carte geografiche, non solamente potrà dirsi perfetto nel suo genere; ma sarà per l'insegnamento più utile dello storico; imperocchè i fatti de quali si compone lo studio della geografia, son tra loro meno connessi di quelli della storia; e per que sta stessa ragione l'ordine alfabetico lungi dal separargli, serve d'un opportuno au silio alla memoria. V. Geografia. III. Dizionari delle scienze e delle arti. Il titolo di cotesti dizionari può conte ner due disegni di opere affatto diverse tra loro. Imperocchè può annunziare semplici lessici di termini scientifici, o tecnici, ac compagnati dalle loro definizioni; ovvero lun dizionario enciclopedico come quelli pei quali menossi tanto rumore nel secolo de cimottavp. Della utilità e necessità depri mi noi siam tanto convinti, che poco po tremmo aggiugnere a quel che ne abbiam detto nel discorso preliminare. Basta dire che le scienze e le arti ne riconoscono sempre più l'importanza e l'utilità. Le scienze matematiche, le scienze fisiche, la chimica, le arti mediche, le meccani che, le chimiche, le agrarie hanno cia scuna i loro dizionari, del quali il vo lume cresce insieme co progressi ch'esse fanno. Restava a darne uno agli studi dell'intelletto, il che ha dato luogo ai no stro tentativo. Imperfetto è debole com'è, servirà ad altri di sprone per perfezio narlo. Di esso altro non dobbiam dire. Quanto poi agli enciclopedici, non per rimescolare una controversia già annosa, e sopita; ma per l'onor dovuto ad un grande ingegno che difese la loro cau sa, senza esagerarne la utilità, ci li mitiamo a ricordare quel che ne scrisse d'Alembert : « Questa sorta d'opere è di soccorso ai dotti, e giova agl'ignoranti per diminuire l'ignoranza loro. Ma niun degli autori di simili dizionari ha mai preteso, che si po tesse in essi imparare a fondo le scienze, che vi sono trattate. Messa da banda ogni altra difficoltà, l'ordine alfabetico ne for merebbe il principale ostacolo. Un dizio nario ben composto, è un'opera che i veri dotti si limitano a consultare; men trechè gli altri la leggono per cavarne su perficiali lumi. Questa è la ragione, per cui un dizionario può , e spesso ancora dee non essere un semplice vocabolario, - senza che ne risulti verun inconveniente. Qual danno posson fare alle scienze i di zionari, ne quali gli autori non si limi tano a spiegare i termini, ma entrano a trattar delle materie insino a un dato se gno, spezialmente quando questi dizio nari contengono cose nuove? Favoriscono forse la pigrizia, ma di coloro solamente, i quali sarebbero stati incapaci della pa zienza d'imparare da libri che di propo sito trattano le materie scientifiche. Vero è , che il numero de veri dotti va ogni giorno sminuendo, e in proporzione con traria sembra che vada crescendo quello del dizionari; ma tanto è lontano che il primo de due cennati avvenimenti sia la conseguenza del secondo, quanto, a mio DocntAsTICA ( crit. ), arte che insegna il modo di saggiare le miniere, per cono scere la qualità de metalli, che esse con tengono. DoGLIA (prat.), sorta di dolore, che ha sempre significato corporeo, e il più delle volte proveniente da infermità. V. Dolore. DoGLIENZA (prat.), dolor manifestato con atti esterni. V. Dolore. DoGMA (teol e spee.), dottrina che ci viene dalla rivelazione, e ha per suo fon damento la fede. V. Fede. In filosofia dicesi dogma ogni principio di scienza o d'insegnamento, che si assume credere, è vero il contrario. È la smania come vero, o perchè dimostrato, o per del bello spirito quella che ha fatto di minuire l'amor dello studio, e con esso il numero del dotti; il che ha portato la necessità di moltiplicare e di render più facili i mezzi della istruzione ». In fine potrebbesi domandare a censori del dizionari, se essi credano alla utilità de giornali letterari, almeno quando sieno ben fatti. Ciò non ostante potrebbesi a que sta spezie di opere fare lo stesso rimpro vero, che si fa a dizionari, cioè l'esser essi cagione, che le conoscenze si esten dano in superficie a spese del vero sapere. La moltiplicità del giornali è ancora meno utile di quella del dizionari, almeno in un certo senso, perchè i giornali tutti per loro natura hanno, o aver debbono presso a poco il medesimo obbietto, quando che i dizionari possono variare all' infinito, sia nell'esecuzione, sia nella materia ». V. Giornale. - - - - , DocILE (prat.), volenteroso d'impa rare, e pieghevole all'altrui parere. chè tal si presume. V. Principio, Scienza. DoGMATIco (teol. e spec.), quel che appartiene al dogma, o Chi professa il dogma. In filosofia son detti dogmatici quelli, che danno come assiomi o canoni di scien za le proposizioni non dimostrate, o as sumono come tali le così dette massime generali. V. Assioma, Massima. - DoGMATIzzARE (teol. e spee.), il dettar dogmi, o il far da dogmatico, così nel senso retto, come nell'ironia. V. Dogma. È vocabolo adoperato dal Cavalca. DoLo (prat.), intenzione o proposito di commetter frode o inganno. º Differisce dall'una e dall'altro, perchè esprime il solo atto della volontà, e non l'effetto. V. Frode. DoLoRE (spec. e prat.), l'idea del do lore non è capace di definizione reale, per n - 164 - chè acquistata per pretta sensazione, di cui non può il ragionamento scoprire la causa efficiente, nè l'essenza. V. Definizione. - Ciò non ostante molte sono le nominali definizioni, che sono state date del do lore fisiologicamente, metafisicamente e moralmente preso. Fisiologicamente, il dolore è una sen sazione penosa, per un disordine, o per una lesione avvenuta nell'organico del cor po, la quale sensazione è più o meno sen : - : sibile, secondochè le parti lese sieno più o meno nervose. Taluni ancora il defini rono, la separazione delle parti conti nue del corpo. . . . . . Metafisicamente, è una modificazione del l'anima, cagionata dal senso della propria imperfezione. e . . . . . Moralmente, è la naturale intolleranza d'una sensazione che risguardiamo come un male. Il dolore, del pari che il piacere, si sente e si concepisce meglio di quel che si definisce. Certamente alla sensazione del dolore, comunque ella ci venga, noi at tacchiamo invincibilmente l'idea d'un male, dal quale ci teniam lontani per naturale ripugnanza. Se poi sia un male sempre reale, o talvolta ancora apparente, e in sino a qual segno debba essere temuto, o schivato, sono quistioni intrinsecamente connesse colla nozione del bene e del male. V. Bene, Male, Piacere. - - Il dolore, considerato come passione del l'anima, è una nozione complessa, del la quale gli stoici diedero una definizione imperfetta, come le precedenti, dapoichè tutte ricadono nella difficoltà di definire la sensazione: dissero essere l'opinione d'un mal presente, o imminente il quale tor menta l'anima. Ma in che il dolore dif ferisce dal tormento? V. Passione. Cicerone nella sposizione della dottrina stoica, fa del dolore uno del quattro generi di tutte le passioni, dapoichè lunga è la gradazione delle diverse modificazioni che lo stato dell'anima riceve dalle sue diverse impressioni. Laonde quei vocaboli, che nell'uso comune del parlare si hanno per suoi sinonimi, sono in realtà altrettante spezie dello stesso genere. Tali sono la tristezza, l'invidia, l'emulazione, la i commiserazione, l'angoscia, l'afflizione, il lutto, la mestizia, la pena, lo sten -to, il rammarico, la sollecitudine, la molestia, il tormento, la disperazione. V. queste voci. DoTTRINA (disc.), scienza, sapere, am maestramento. - Vale ancora senso riposto: sa s Mirate la dottrina che s'asconde Sotto 'l velame degli versi strani. DANTE. - a DorTRINALE (dise. ), che appartiene, e che si riferisce a dottrina. Termini dottrinali son quelli, de'quali fa uso la scienza; e stile dottrinale è quel che sente di scuola. DovERE (spec. e prat.), il sentimento della obligazione, impostaci da una leg ge. V. Legge, Obligazione. La nozione del dovere presuppone quella della obbedienza a una legge, scritta o non iscritta che sia. Che anzi cotesta no zione nasce in noi dalla legge non iscritta, qual è quella della natura, o sia della ra gione, da cui, come dice Cicerone, omne honestum decorumque trahilur. La partizione del doveri prende norma dalla qualità della legge; da cui quelli sono - 165 - imposti, e distinguonsi in naturali o pri mitivi, ed in secondari o derivati, i quali nascono dalle leggi costitutive della società. Di qua pure i doveri volontari, contratti per lo vincolo della parola e della promessa, o per la forza degli statuti e delle convenzioni, le quali sono il fonda mento d'ogni umana istituzione. V. Con venzione, Promessa. - Il dovere nel suo significato primitivo, è propriamente quello che nasce dall'obli gazione morale: la consapevolezza che ce ne dà la coscienza, ne fa uno de principi d'azione, che noi chiamiamo razionali. V. Azione, Principio. - - - DRAMMA (erit.), componimento teatrale, rappresentativo d'un'azione tragica o comica. DRAMMATICo (erit.), che è proprio del dramma. - - È nome di qualità, che conviene all'ar. gomento, allo stile, e ad ogni altro re quisito o pregio del dramma. º Distinguesi dal narrativo, nel quale non entra veruna rappresentazione di azione. s Dà il nome ad un genere di poesia. V. Poesia. - - a Dualismo (erit.), carattere dato ad ogni sistema, che ammette due principi opposti e due ordini di Esseri contrari. Altra volta fu chiamato dualismo quel de Manichei, che ammettevano due prin cipi, uno autor del bene, e l'altro del male, Oggi si applica a quelli che riconoscono i due diversi principi nella intelligenza e nella materia; nello spirito, e nel mondo esteriore; nell'io, e nel non io. V. Io. DuAustA (crit.), il partigiano del dua lismo. DUBBIEzzA (spec. e prat.), esitazione dell'animo nel determinarsi ad un giudi zio o ad un'azione, di cui non vede chiara la verità, o la convenienza. V. Azione, Convenienza, Giudizio, - L'esitazione nasce dalla contrarietà dei motivi del deliberare, che è quel che for ma il dubbio. V. Deliberazione, Motivo. DUBBro (spec.), contrarietà di motivi, per la quale l'animo sospende di formare il giudizio. V. Giudizio, Motivo. Per contrarietà intendersi dee l'equipon deranza di opposti motivi, i quali rendono incerta la determinazione dell'animo; e però il dubbio è diverso dalla ignoranza, la quale nasce da mancamento d'ogni op portuna conoscenza. V. Ignoranza. I logici distinguono il dubbio effettivo, che è quello di cui abbiamo parlato, dal metodico, per lo quale l'animo richiama ad esame i fondamenti delle credenze e delle opinioni, che ha tenuto per vere. Cotesta spezie di dubbio, del tutto scien tifico, è proprio d'ogni matura ragione, la quale non de'ammettere se non verità dimostrate, o certe in quel grado di cer tezza, di cui è capace l'umana cognizione. Ciò non ostante il dubbio metodico de es sere contenuto tra certi limiti, oltre i quali può degenerare in una volontaria nega zione della verità. Tali limiti sono: 1.º che il dubbio importi semplice sospensione di eredenza, per modo che sia seguito dalla sua soluzione: 2.º che nella soluzione la ragione non ammetta, come certi, principi men certi di quelli, dequali vuole scruti nare la verità: 3.º che i tipi della cer tezza sieno ricavati da uno de tre generi di cognizione, che la natura ci ha dato per discernere il vero, l'intuitiva, la di mostrativa, e la sensitiva. 4.º che la - 166 - probabilità determini il giudizio o la ere denza, quando non ci sia dato il conse guire la certezza. V. Certezza, Cogni zione, Probabilità. Il primo esempio del dubbio metodico è di Eraclito, siccome narra Diogene Laer zio; ma ignorasi qual cammino egli te. nesse per giugnere alla sua dottrina affatto dogmatica, Socrate tra gli antichi, e Car tesio tra moderni dimostrarono il legittimo uso, che può farsi di tale dubbio. La no stra cognizione è d'ordinario formata di elementi, che la ragione ha tenuto per veri, senza esaminargli, perchè l'autorità è il primo fonte da quali gli attigniamo: da questa prendono forza la tradizione, l'as sentimento che prestiamo a primi elementi del sapere, la credenza a fatti de quali corrediamo la memoria, e le opinioni che formiamo sopra i pensieri o gli esempi altrui. L'esperienza dimostra, che ne suc cessivi stadi della vita ogni uomo, più o meno, dura fatica a spogliarsi del pregiu dizi, degli errori, e delle false opinioni dell'età prima. Ma quante altre non ne acquistiamo senza accorgercene, e quante non ci accompagnano ancora insino alla vecchiezza? È questo il periodo, in cui la sperienza e la matura riflessione ci svelano le illusioni e gli errori pe quali siam pas sati. Necessario è dunque, nella età adulta il soggettare ad una rigorosa disamina le conoscenze che abbiamo acquistato col pri mo insegnamento, e il contrarre di buon ora l'abito di fondare i nostri giudizi so pra principi, della verità de quali si è la mente accertata. V. Errore. DUBITARE (spec.), essere incerto, per contrarietà di motivi, negli atti del giudi zio, o della volontà. V. Giudizio, Vo lontà. Duolo (prat.), il dolore accompagnato da penosa sofferenza. V. Dolore. DUPLICITA' (prat.), finzione, per la quale taluno dimostra secondo il bisogno, intenzioni, o sentimenti diversi. V. Fin zione, -Simulazione. E quel che ancora dicesi doppiezza d'animo, e falsità di carattere. V. Carattere. DURATA (ontol e spee.), continuazione dello stato degli esseri, paragonato colla distruzione, o col termine loro. La nozione della durata è una illumi nazione naturale, suggerita dalla memo ria, allorchè ci ripresenta un obbietto, che è stato altra volta presente al pen siero. V. Memoria. Per virtù di tal' illuminazione noi sco priamo un fatto, la realtà del quale è at testata dalla coscienza, l'intervallo cioè che separa l'obbietto altra volta percepito dalla ricordanza che lo ripresenta. La congiun zione di queste due operazioni dell'anima, avvenute nello stesso Essere pensante, o sia in noi stessi, rivela a ciascuno la con tinuazione del se medesimo. La cognizione dunque della durata, non è una nozione, che acquistiamo per astrazione, o per al tra operazione dell'intelletto, ma è un sen timento della coscienza, simile a quello dell'io: è una di quelle verità immediate, che l'uomo attigne dalla conoscenza del proprio essere pensante; e dopo di aver tra se detto, io penso, io esisto, passa a dire, ho una durata. . - Se la nozione della durata è una delle verità che deriviamo immediatamente dal la coscienza di noi stessi; la durata stessa non può dirsi che sia una sostanza, o un modo, o una relazione, vale a dire non è un Essere, nè un attributo dell'es - 167 - sere; il che basta a respignere tutte le ipotesi metafisiche, che han fatto per se coli delirare le scuole intorno alla natura della durata e del tempo, Locke derivò la durata dalla riflessione, la quale ci fa avvertire la successione delle nostre idee, e chiamò durata la distanza che passa tra due parti di tal successione. Ma egli scambiò manifestamente la misura della durata colla durata, dapoichè la suc cessione presuppone la durata. Da questo errore derivò l'altro, che la durata non ha in se nulla d'assoluto, non essendo altro che l'espressione d'una suc cessione più o meno rapida d'idee, la quale è sempre relativa a sensi ed alle fa coltà di quelli che la percepiscono. L'una e l'altra opinione, ma specialmente la se conda, trovaronsi all'unisono con Condil lac, che le fesue, e giunse per sino a riprendere Locke di aver voluto trovare una misura della durata. Coteste opinioni vanno rilegate tra quel le, che rinegano non solamente la cer tezza e l'esistenza di tutte le cose sensibili, ma anche la coscienza delle stesse nostre facoltà, e che sbandita per conseguente la verità assoluta, riducon tutto al relativo. Noi diremo, che la durata è un ordine naturale, o una legge, o condizione de gli Esseri, di cui non possiamo concepire altri limiti, se non quelli relativi alla sua quantità, di cui ella stessa è misura. La cognizione della durata congiugnen do un fatto presente con un passato, schiu de ancora all'anima la conoscenza dell'av venire, o sia d'una futura durazione; e da questa, considerata come continuazione del passato e del presente, nasce quella del tempo. V. Futuro, Passato, Pre Sente. Ma la memoria nel rivelarci la conti nuità dell'esistenza, ci manifesta un fat to complesso, cioè la durata, e la me desimezza dell'io il quale si sovviene di se stesso, che è quel che dicesi identità. V. Identità. - Considerata la durata come misura di se stessa e delle altre quantità commensu rabili, si scambia col tempo, ed è capace d'una indefinita divisione. V. Misura , Tempo. - DURAZIONE (ontol. e spec.), continua zione dello stato degli Esseri per rispetto alla loro distruzione, o al termine loro futuro, o possibile; nel che differisce dalla durata, la quale propriamente conviene al passato. V. Durata. DUREzzA (spec. e prat.), qualità del la materia, nata dalla maggiore coesione delle sue parti, comparativamente al molle ed al fluido, che formano i diversi gradi della coesione. V. Coesione, Materia, Qualità. In senso traslato si applica alle qualità della mente o del sentimento, e importa difficoltà di percepire o di comprendere, ostinazione, o mancanza di umanità. * |-·|- • •----|- · - ----· |-|- ·• • • ’ , · *|- ·---- -----·* -----· |-· · · * – 169 - CLASSI DE VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA D. FITOSOFIA CRITICA. Diacustica Disciplina Didascalia Discreto Didascalico Disegno Didattico Dizionario Differenziale Docimastica Dinamica Dramma Diottrica Drammatico Diplomatica Dualismo Diritto Dualista VOCI ONTOLOGICHE. Determinare Distinzione Determinazione Diversità e Diffusione Diverso Dimensione Divisibilità Dipendente Durata Dipendenza Durazione FILOSOFIA SPECULATIVA, Decomposizione o Scomposizione Decoro Dedotto Dedurre Definizione Deforme e Deformità Deismo Deista Deliberazione Denominare Denti Desiderio Destinare Destinazione Determinare Determinato Determinazione Dialetto Dilatabilità Dimenticamento e Dimenticanza Dimostrabile Dio Diretto Discernere Discernimento Discernitivo Disconsentire Disconvenienza e Sconvenienza Discordare Discredere Discrepare Disegno Diseguale e Disuguale - Disordine Dispari Dispariscente Disparità Dissentimento Dissimile Dissoluzione Distanza Distinguere Distintivo Distintivo ad. Distinzione Distrazione Dita e Diti Divisibilità Dogma Dogmatico Dogmatizzare Dolore Dovere Dubbiezza Dubbio Dubitare Durata Durazione Durezza - - 170 – FILOSOFIA DISCORSIVA. Datismo Dativo Dato Declamazione Declinare Declinazione Decomposizione o Scomposizione Dedurre Deduzione Definizione Degnità e Dignità Deliberativo Denominare Dentale Derivare Derivativo Derivato Desinenza Dialettica Dialetto Dialogo Difettivo Differenza Dilemma Dimostrabile Dimostrativo Dimostrato Dimostrazione Disconvenienza e Sconvenienza Discordare Discorso Discrepare Discussione Disdire Disgiuntivo Disingannare Disinganno Disparere Disparità Disposizione Disputabile Dissuasione Distinguere Distintivo Distintivo ad. Distinzione Distribuzione Dittongo Diversità e Diverso Dizionario Dottrina Dottrinale Deismo Deista Devozione Dio Divinazione TEOLOGIA NATURALE» Divinità Divino Dogma Dogmatico Dogmatizzare – 171 - Dabbenaggine Danno Dappocaggine Decenza Decezione Decoro Defraudare Degnazione Degnità e Dignità Delicatezza e Dilicatezza Delirio Delitto Delizia Demenza Demerito Deplorare Depravare Depravazione Derisione Desiderio Desolazione Detestare Detrazione Dettame Difettivo Difetto Difettuccio e Difettuzzo FI LO SO FI A PRATICA. Difettuoso e Difettoso Diffamare Diffidanza e Diffidenza Dileggiamento Diletto Dilezione Diligenza Dimenticamento e Dimenticanza Dio Diritto Disaffezionare Disamore Disamorevolezza Disanimare Disappassionatezza Discolpa Discolpamento Disconforto Disconoscenza Disconoscere Disconsentire Disconsigliare Disconsolare Discontentare Discontinuare Disconvenienza e Sconvenienza Discoraggiare Discorare Discordanza Discordia Discortesia Discreditare e Screditare Discreto Discrezione Disdegno Disdicevole Disfavore Disgrazia Disgusto Disingannare Disinganno Disinteresse Disinvoltura Disistima Disleale Dismodato Disobbedire e Disubbidire Disobbedienza Disobligare Disonestà Disonore Disorbitanza e Esorbitanza Disordine Disparere v. Disparevole Dispari Disperanza Disperare Disperazione Dispetto Dispiacenza e Dispiacere Dispiacimento Disposizione Dispregio e Disprezzo Disragione Disregolato Dissensione Dissimulazione Dissolutezza Distinzione Docile Doglia Doglienza Dolo Dolore Dovere Dubbiezza Duolo Duplicità Durezza – 172 - G R E CISMI SUPER FLUI. Dattilografia Dattilologia Dattilonomia Dattiloteca – T75 - 1 E Ear (ontol.), unità dell'anima umana, considerata per rispetto alla di sposizione e alla abitudine, che le dà il corpo. V. Abitudine, Anima. È termine scolastico, inventato da Sco to, e usato tra altri dal Gelli. EccELLENTE (prat.), quel che nel suo essere ha grado di perfezione. V. Perfe zione. - - Si applica alle doti naturali, alle virtù, e ad ogni cosa, che per merito di qua lità soprastà alle altre. Eccesso (prat.), sopravanzamento dei giusti termini, sì nel bene che nel male. Gli scolastici distinguevano il fisico, o naturale, dal morale, e dicevano essere il primo sovrabbondanza di perfezione, e il secondo mancamento di perfezione. L'ec cesso fisico nascer poteva, o dalla esten siene, o dal tempo, o dalla efficacia della causa, o dalla forza della resistenza. E per contrario il morale scontrarsi poteva, o nel l'appetito, di che sono esempi tutte l'estre mità, alle quali possono portarsi le passio ni, come l'odio, l'ira, l'amore ed altre simili; o nell'intelletto, quando l'animo contrae vizi opposti a suoi naturali pregi; ovvero nella volontà, del qual genere sonº tutti i vizi, contrari a buoni costumi. Ma di queste partizioni può dirsi lo stesso, che di tutte le altre categorie degli scolastici, i quali a forza di regole soggettar vole vano a determinate combinazioni la na tura, il pensiero, e la parola. E però da una idea e da un vocabolo comune qual dell'abuso che può farsi d'una cosa qualun que, fecero nascere una definizione scien tifica, e una logica partizione. ECCEZIONE (dise. e prat.), concetto, o discorso, per lo quale caviam fuori dal numero de'fatti simili quello, che credia mo da medesimi diverso. È vocabolo più frequentemente usato pei casi non contenuti nelle regole comuni, che dettan le leggi positive; nel qual senso dicesi, che non v'ha legge o regola senza eccezione. - Per similitudine i moralisti l'applicano alle leggi naturali, e affermano che la collisione di queste partorisca eccezione. Chiamano essi collisione lo scontro di due o più leggi naturali, alle quali non si può simultaneamente obbedire. Ma cotesta espressione è impropria, perchè non si dà mai vera collisione nelle leggi della natura. L'apparente contrarietà loro è un difetto o d'interpretazione, o di applica zione, che vien da noi e non dalla na tura. V. Collisione. - ECLETTIco (crit.), quegli, il quale ha una dottrina mista di opinioni di diversi sistemi di filosofia; così detto, dalla scelta che ne fa, per adattarle al proprio giu dizio. Cotesta spezie di filosofia, considerata come scuola, nascer suole nel tempi, i quali succedono alle estremità delle meta fisiche opinioni. - Allora la mente, stanca di creare o d'im maginare nuovi principi, cercando riposo, è quella della esuberanza d'una qualità, e si studia di trovare il vero in quelle opi - 174 - nioni che le sembrano più probabili, o alle sue più conformi. Così, dopo l'idealismo di Pitagora e di Parmenide, lo spiritualismo di Platone, e l'empirismo de peripatetici e degli stoici, nacquero gli eclettici alessandrini. Così an cora nella moderna filosofia, dopo il puro spiritualismo di Cartesio, l'idealismo di Malebranche e di Berkeley, il sensismo di Locke, ed il materialismo del metafisici fi siologisti, rinacque in molte parti dell'Eu ropa la scuola degli eclettici. V. Idealismo, Materialismo, Sensismo, Spiritualismo. Cotesta scuola ha pure le sue estremità, una delle quali è l'amor di conciliare in sieme le dottrine tra loro ripugnanti, il che dicesi sincretismo, l'altra, la non curanza di ricercare il vero, d'onde poi il dubbio e l'indifferenza per qualunque dottrina, che è quel che dicesi scetticismo. V. Seetticismo, Sincretismo. La sperienza così della prima come del la seconda età della filosofia dimostra uno de'due dinotati vizi, essere stato l'ultimo termine delle scuole eclettiche. Considerato poi lo studio degli eclettici, come l'esercizio del giudizio e della cri tica, che portiamo intorno alle opinioni altrui; siccome non è sistema, che non contenga qualche parte accettabile, mista ad altre ricusabili; così ogni vero sapiente non può non dirsi eclettico, nel quale si gnificato equivale a critico. Ma i nomi dati alle diverse filosofiche famiglie, pren dono origine da caratteri costitutivi delle rispettive dottrine, i quali caratteri appa riscono più manifesti, quando divien siste matica la falsa applicazione del loro prin cipi; o in altri termini, quando l'assurdo scopre l'errore. E però, chi per sistema è eclettico; chi nella scelta de principi e delle dottrine si determina per l'autorità altrui, e non per lo proprio criterio; e chi infine scoraggiato dalla moltiplicità e varietà delle opinioni, in luogo di discuterle, trova men penoso l'abbracciarle tutte, e il conside rarle sotto gli aspetti del probabile e del verisimile che eiascuna di esse presenta; sarà un sincretista, o uno scettico. EcoNomA (erit.), l'arte di ben ammi nistrare gli affari domestici, o publici. Le regole, per le quali cotesta arte si conduce, allorchè sono applicate alla pro duzione, alla distribuzione, e all'uso delle ricchezze sociali, formano la scienza, che dicesi economia politica. Le ricchezze sociali son capaci d'un va lor di opinione, determinabile per le di verse relazioni, che lo stato politico stabi lisce tra se e i suoi componenti, non meno che tra essi medesimi. Siffatte relazioni so no dalla scienza esaminate in tre diversi aspetti: 1.º della industria produttrice delle ricchezze, 2.º de bisogni creati dallo stato politico, 3.º del modo il più conveniente per soddisfargli. La qualità delle istituzioni politiche può più o meno favorire l'industria, influire diversamente nella misura e nella propor zione de bisogni; e può per conseguente promuovere o ritardare la prosperità del corpo sociale. E però l'economia politica, come la politica propriamente detta, ha due funzioni, l'una di determinare ipote ticamente le relazioni più convenienti ai progressi del corpo sociale; l'altra di adat tare a ciascuna forma, quale che sia, le regole che più le convengono: la prima si prefigge il bene assoluto: la seconda il relativo: quella può servire di norma a questa, che ne modifica i precetti secondo il bisogno, e la convenienza sua. V. Po litica. - 175 – Educazione (prat.), l'arte di allevare il corpo e di formare lo spirito della gioventù. Essendo che doppio è lo scopo della edu cazione, però siam soliti distinguerla in fisica e morale. Della prima son capaci tutti gli uomini in generale, perchè i pri mi tipi di essa sono stati dalla natura im pressi negl'istinti del fanciulli, e negli af fetti del genitori: suo scopo è il conservare la sanità, e il favorire la valida confor mazione del corpo. Della seconda le re gole sono attinte dalla sperienza. Ma la sperienza è varia e difforme, dapoichè è relativa al temperamento e alla forma in tellettuale e morale di ciascun uomo. Non vuolsi dunque parlare della sperienza in dividuale, ma della universale, che è la stessa della retta e comune ragione. V. Spe rienza. La formazione dello spirito, che è lo scopo della educazione morale, comprende in primo luogo l'insegnamento del doveri della vita, e in secondo luogo l'avanza mento delle facoltà intellettuali. I doveri della vita abbracciano le diverse relazioni dell'uomo verso Dio, verso se medesimo, e verso gli altri. E sotto l'ampia denomi nazione di altri, s'intendono primamente i suoi, o le relazioni di famiglia, ed indi quelle della patria, della società civile, e dello stato speciale, cui ciascuno può appartenere. V. Dovere. L'avanzamento poi delle faeoltà intellet tuali de'essere indirizzato al fine di rag giugnere il maggior grado di eccellenza, di cui son elle capaci, nel che è compresa pure la scelta di quelle scienze, discipline, o arti, alle quali le facoltà di ciascuno mostransi più pronte e l'ingegno più in chinevole. V. Facoltà, Ingegno. Ciascun genere di educazione presuppone un metodo, e ogni metodo le regole, che ne assicurino il fine. Coteste regole son varie, dacchè alcune risguardano la speculazione, altre la pratica, e sì nell'una che nell'altra son tali e tante le specialità di conoscenze, necessarie ad una profes sione e superflue ad un'altra, che non sa rebbe d'alcuna utilità l'esaminare partita mente la convenienza loro. Basta dire, che lo scopo d'ogni insegnamento è quel che ne determina le regole. Ma ven ha delle generali e comuni a tutti gli uomini, alle quali le particolari debbonsi attaccare, e però posson essere risguardate come il fon damento d'ogni genere di educazione. Non parliamo della educazione morale, i prin eipi e i precetti della quale sono immu tabili, e per conseguente comuni agli uo mini d'ogni stato e d'ogni tempo; ma sì bene dell'educazione intellettuale. Sue re gole cardinali son quelle che iniziano l'uso delle facoltà dell'animo, che cominciano a metterle in azione, e che preparano tutto il resto della istruzione teorica così delle scienze eome delle arti. Ciò non ostante da una parte la varietà delle opinioni, e dall'altra la moda son causa che anche circa tali regole propon gansi tuttogiorno nuovi metodi, e preten dasi nella decrepitezza del genere umano far credere, che siesi sinora ciecamente camminato. Per verità nelle istituzioni uni versali (e tali chiamiam quelle che ap partengono all'umanità in generale), non dovrebbesi immutar nulla di quel che è fondato sulla sperienza di tutte l'etadi; per chè niuno dee presumere che in cose, nelle quali tutti veggono, e in cui la natura stessa e indirizza a vedere, veggasi oggi meglio di quel che ha sinora veduto il senso, lo spirito e la sapienza di tutte le nazioni. D'altra parte la sperienza va correggen do gli errori e i pregiudizi fondati sul - 176 - l'autorità degli uomini e delle età, che ci fanno preceduto; nè il rispetto per le tempo antico de esser tale, da impedire il salutare frutto della riflessione. Noi ricu siam dunque i giudizi singolari e le opi nioni discordanti dal comun senso della umanità, ma ammettiamo una dottrina mi sta intorno alla educazione, la quale con cilia insieme la ragione l'autorità e la spe rienza. Conformi a tal dottrina sono le re gole seguenti: - 1.º Esercitare quelle facoltà che son pri me a svilupparsi secondo l'ordinario corso della natura, senza sforzare le altre avanti la maturità loro. Così la memoria sarà esercitata prima dell'intelletto, la facoltà di giudicare prima del ragionare, e la ri flessione intorno agli obbietti sensibili pri ma della speculazione e delle astrazioni. 2.° Accostumare i giovani all'esatta osser vazione degli obbietti e delle qualità loro, acciocchè sien chiare e distinte le idee che ne formano, e veri i concetti che di quelle pronunziano. 3.º Accostumargli alla più esatta e pre cisa espressione d'ogni idea, acciocchè la parola nasca in essi come fedel ministra del pensiero, e divenga poi instrumento di nozioni egualmente chiare e distinte. 4.° L'autorità essendo per la prima età una sorgente, a cui ella attigne le opi nioni e le credenze sue, fa d'uopo che le sue fonti sien pure il più ch'è possibile, acciocchè non sia l'intelletto, o preoccu pato dall'errore, o obligato di rifare in tempestivamente la propria educazione. Ma tal'è la natura delle cose, al dir di Ci cerone, ut paene cum laete nutricis er rorem sua isse videamur: cum vero pa rentibus redditi, demum magistris tra diti sumus, tum ita variis imbuimurer roribus, ut vanitati veritas, et opinioni eonfirmatae natura ipsa cedat. Adunque doppia è la cura dell'educazione: aprire la mente al vero, e prevenire l'errore; la qual seconda cosa, quando non riesca ottenere, conviene almeno estirpar di buon ora le false opinioni; dapoichè in età più adulta la verità invano combatterebbe col l'amor proprio, e coll'abito contratto dalla stessa ragione. 5.” Non prima che sia divenuto maturo il giudizio, render familiare al giovinetto il linguaggio della propria coscienza, ac ciocchè cominciando a ragionar con seme desimo conosca il primo fondamento della umana certezza, e possa così saggiare la verità di tutte le idee acquistate per mezzo de sensi. 6.” Entrato appena nel corso dell'in terno ragionamento, indirizzare la sua ri flessione alle verità intuitive della ragione, acciocchè conosca essere in quelle riposti i germi d'ogni scienza, anzi la sapienza naturale dell'uomo, di cui la scienza non è se non la sposizione e il comento. Giunto a cotesto stadio, riconoscerà egli la con nessione che lega le nozioni morali già acquistate colle prime verità della ragione: vedrà come dalla coscienza del sentire del volere e del pensare nasce la nozione del la propria esistenza; come da essa nasca quella dell'Autor della vita, e da questa l'altra delle relazioni morali verso di Lui, e delle altre creature. 7.” In fine per introdurre eotesto alunno nel cammino del sapere, come ultimo stu dio preparatorio della giovinezza, e primo dell'adulta ragione, uopo è richiamarlo alla riflessione e alla esatta analisi delle operazioni dell'animo e delle proprie fa coltà, per fargl'intendere di che sia ca pace, e a che possa egli pervenire. Sia cotesto fior di psicologia la logica del gio - 177 - vanetti, e serva d'introduzione a quello studio, che noi abbiam collocato nel pri mo atrio della filosofia. V. Filosofia, Psi cologia. - EFFERATEzzA (prat.), qualità d'animo non umano, ma ferino nell'offendere, o nel punire. - È più d'ogni altra sorta di crudeltà. V. Crudeltà. EFFERVESCENZA (prat.), significato traslato dall'interno movimento del sangue, e dal l'agitazione prodotta in ogni fluido da quel grado di calore, che precede l'ebullizione. Si applica al fermento delle passioni, non frenate dalla ragione. V. Passione. EFFETTo (spec. e ontol.), quel che l'azio ne della causa produce. V. Azione, Causa, Come correlativo necessario della causa e della sua azione, è soggetto alle stesse distinzioni che diversificano il significato del vocabolo causa. Effetto pieno o adeguato dicesi quello che è prodotto dall'azione tutta intera della causa efficiente; laddove se l'azione sia stata frenata da altra causa, l'effetto che ne risulta dicesi parziale. Così lo spazio per corso da un corpo lanciato nel vacuo, è un effetto pieno della sua spinta; e per con trario, se il corpo abbia dovuto superare la resistenza del mezzo, parziale è l'effetto. Dalla mozione dell'effetto pieno nascono diversi assiomi della fisica, che illustrano ancora il principio della nozione di cau salità. Tali assiomi sono: 1.º data la stessa causa efficiente, ne deriva il medesimo effetto; 2.º l'effetto è sempre eguale alla forza della causa eſficiente: 3.º degli ef, fetti naturali dello stesso genere, convien sempre presupporre le medesime cause, insino a che la sperienza non dimostri il contrario. V. Causa, Causalità. Gli scolastici riducevano ancora in al trettanti assiomi le idee contenute nella definizione della causa; il che era una con seguenza di quella scienza di parole, la quale in luogo di rischiarare, confondeva le comuni verità, e le convertiva in pro posizioni identiche e frivole. Tali erano le proposizioni: 1.º che l'effetto dipende dalla causa producente: 2.º che è per natura posteriore alla causa: 3.º che non si dà effetto, il quale sia causa di se stesso; nè sì danno più cause coesistenti, le quali possano essere effetti, le une delle altre. Il paragone tra questi pretesi assiomi, e quelli testè additati, basta a dimostrare la differenza tra 'l moderno e l'antico me todo della filosofia intellettuale. EFFICIENTE. V. Causa. EcoIsMo (spec. e prat.), immoderato amor di se medesimo, o della propria uti lità. V. Amore. Cotesto nome è dato a diverse spezie di errori e di vizi, che nascon tutti da un medesimo principio, e però appartengono allo stesso genere. Da prima, è stato nella moderna filosofia adoperato per esprimere l'opinion di quei filosofi, i quali non am mettono altra certa verità, che la propria esistenza, e negano per conseguente la realità di tutto quel ch'è fuori di noi. I filosofi idealisti, e in cima a questi Ber keley, sono l'esempio di tal dottrina. Co testa opinione mena dirittamente alla con seguenza, che l'uomo è senza compagni nel mondo, e può riferir tutto a se, e alla propria utilità. Ma il vizio di riferir tutto alla propria utilità, e di amar se a spese d'ogni altro 25 – 178 – dovere, è il più delle volte del tutto pra tico, e non già speculativo. Di quelli che professano praticamente l'egoismo, può dirsi, che se fossero filosofi, sarebbero se guaci di quella dottrina, che cangia il vizio in un principio di teoria. Certamente è il più deforme vizio, che degradar possa la natura umana; ed è nello stesso tempo il vizio distruttore della civil società. Il credersi solo nel mondo; il non riconoscer alcun dovere verso degli altri; l'avere per lecito tutto quel che può soddisfare le proprie esigenze, anche a spese de diritti e de'bisogni altrui, forma il ritratto d'una natura non umana, nè compatibile colla civil comunione. Egoismo è stato ancor detto l'orgoglio di riputarsi maggior degli altri, di cre dere dovuto al proprio merito più di quel che gli altri non son disposti a conceder gli, in somma d'idolatrar se stesso. Per designare con un nome speciale cotesto vizio, per isventura troppo frequente, è stato da moderni creato il vocabolo idio latria. La vanità, che è una gradazione dell'orgoglio produce ancora altri vizi a quello affini. Tal è il difetto di lodar se stesso, di allegar la propria autorità, di volere in ogni luogo e in ogni cosa pri meggiare, e di proporsi agli altri come esempio, o modello di perfezione. Cotai difetti provengono sempre da picciolezza d'animo, e da difetto di soda istruzione e di educazione; e sogliono essere la con seguenza delle premature ed esagerate lodi che ignoranti o deboli precettori prodigar sogliono a primi sperimenti della giovenile età. Niun altro vizio o difetto è più di questi capace di esagerazioni e di caricature, che son poi punite col ridicolo e col disprezzo. Il più profondo e il più modesto dei moderni filosofi (Pascal) l'ebbe in tanto orrore, che ne formò l'argomento d'un precetto di retorica. « Ogni onesto uomo, egli dice, debb evitare di citar se stesso e di servirsi dell'io e del me » « la pietà cristiana annulla l'io umano; e la civiltà umana lo nasconde ». Arnaldo che co menta i suoi detti soggiugne: « non è già, che cotesta regola debba essere scru polosamente osservata, dacchè v'ha de casi ne quali non potrebbesi senza imbarazzo evitar quei vocaboli; ma giova averla sem pre presente per evitare la prava consue tudine di taluni, i quali non parlano che di se medesimi; e citano se stessi, anche quando niuno li richiede della loro opi nione. Da ciò nasce, che quelli i quali gli ascoltano, accorgendosi della segreta com piacenza e dell'amor che hanno per se medesimi, concepiscono una segreta av versione per le persone loro, e per tutto quel che essi dicono ». V. Amor proprio. EgoistA (spec. e prat.), chi professa egoismo. Nell'uso comune del parlare si dà cotesto epiteto a pratici, più che a teorici egoisti; e però diverso è il senso che si dà alle parole uomo egoista, e filosofo egoista. EGUALE (spec. ontol. disc. e prat.), ter mine di relazione tra due o più cose della medesima sostanza, quantità, o qualità Nel senso della medesima sostanza, la nozione dell'eguaglianza appartiene alla metafisica, come quando chiamiamo eguali due cose che riputiamo di pari perfezione: nel senso della quantità, alla matematica, nella quale l'eguaglianza di due linee, di due angoli, o di due superficie nasce dalla loro misura: e nel senso della qualità, alla filosofia discorsiva e alla pratica. Per ri spetto a queste due scienze, l'eguaglianza – 179 - logica consiste in questo, che gli stessi attributi o predicati possono convenire a due subbietti, il che precisamente inter viene nelle proposizioni reciproche; e quan to alla filosofia morale, noi diciamo che la giustizia è una virtù riposta nella egua glianza, perchè attribuisce a tutti colla medesima proporzione quel che a ciascuno appartiene. V. Qualità , Quantità , So Stanza. ELAsTICITA' (spec.), proprietà o potenza in molti corpi naturali di restituirsi nella prima loro figura ed estensione, quando l'han perduta per l'impressione d'una cau sa esterna, e non prima che sia cessata l'azione della detta causa. Le corde armoniche di metallo presen tano l'esempio più facile della elasticità per estensione, dacchè stirate e distese, tornano alla prima loro dimensione, ap pena cessi la forza che avevale allungato. E le palle o sfere piene d'aria dimostrano l'elasticità per compressione di volume. Da questo stesso esempio risulta che l'aria e i fluidi aeriformi son di loro natura ela stici. Appartiene alla fisica lo spiegare le leggi naturali della elasticità così de'corpi solidi, come de fluidi, V. Fluido, Solido. ELEGANZA (disc. ), scelta maniera di dire, o di scrivere i propri pensieri. Può meritar lode, se non sia scompa gnata dalla naturalezza, e non faccia tra sparire un soverchio studio; nel quale caso degenera in ricercatezza e in affettazione. V. Affettazione. Applicato cotesto vocabolo a costumi e alle maniere del vivere, esprime pregio di civile esistimazione, e non virtù , e però è straniero alla filosofia morale. In conferma di che, notarono gli antichi che insino alla età di Catone l'eleganza del vivere non solamente non fu da alcuno scrittore lodata come virtù, ma fu ripresa come vizio. - ELEMENTARE (spec. e crit.), quel che appartiene alle parti primitive e originarie d'un corpo, o alle prime nozioni d'una scienza, o d'un insegnamento qualunque. V. Elemento. ELEMENTo (ontol. e spec.), parte pri mitiva, e originaria del composto decor pi, la quale non nasce da altri compo nenti. V. Composto. - Il concetto dell'elemento è tutto metafi sico o astratto, e non differisce da quello dell'atomo ; imperocchè se conoscessimo i primi componenti della materia, cono sceremmo ancora l'essenze del corpi. Per lungo tempo i filosofi han creduto di rav visare in quattro sostanze gli elementi di tutte le cose, per la sola ragione che queste parvero loro semplici a rispetto di tutti gli altri composti, e incapaci di es sere risoluti in altri componenti. La dottrina de primi elementi ci venne dagli autori stessi del sistema degli ato mi, cioè da Democrito e da Epicuro, i quali denominarono elementi incorrutti bili i loro atomi. Una scuola da questa diversa, e propriamente la Jonia aveva prima di essi creduto che gli elementi fos sero corruttibili, e gli andò cercando nel l'aria, nel fuoco, nella terra, e nell'ac qua. Aristotele conciliando insieme le opi nioni d'Ippocrate, della generalità degli Eleatici e di Pitagora, che fu di questi più antico, compose la teorica de quattro elementi, che spiegò al seguente modo. Quattro, egli disse, son le principali qua lità de corpi, che conosciamo per mezzo r - 180 – del tatto: calore, freddo, siccità, umi dità: coteste qualità possono diversamente combinarsi tra loro: quattro son pure le combinazioni, alle quali possono essere ridotti i principi di tutte le cose: una è del freddo e del secco, che si trova nella terra: la seconda, dell'umido e del freddo nell'aria: la terza, dell'umido e del caldo nell'acqua : la quarta, del caldo e del secco nel fuoco (de generat. lib. II. ). Cartesio, tornando al sistema degli ele menti incorruttibili, o sia degli atomi, suppose essere tre gli elementi, tutti so lidi, ma di diverse figure, regolari alcuni, irregolari e uncinati altri, oltre un terzo, che era una polvere atomistica, nata dalle fratture degl'irregolari. Newton inchinò anch'egli alla ipotesi degli atomi, diversi da Cartesiani, perchè credette probabile, che la materia fosse stata da prima creata in particelle solide, massicce, dure, im penetrabili, mobili, di tal grandezza e fi gura, e in tal proporzione collo spazio, che corrispondessero al fine della grande costruzione del mondo materiale. L'opi nione peripatetica prevalse a tutte, perchè più conforme al senso volgare, il quale concepisce il mondo plasmato cogli stessi materiali, che servir sogliono alla costru zione di un grande edifizio; e però è stata dominante insino a che la chimica non iscoperse, che i pretesi elementi sono an cor essi corpi composti, ciascun de'quali può essere risoluto in altri componenti, apparentemente semplici, di cui non per tanto ignorasi, se altri più semplici o men composti trovar si potessero. Laonde, più modestamente oggi la fisica chiama prin eipi quelle sostanze, le quali sembrano formare le prime parti costitutive de corpi, ma professa la sua ignoranza per rispetto alla essenza loro. Il concetto, che noi facciamo del prin cipio, e il senso che diamo a tal voca bolo, è diverso da quello dell'elemento, dapoichè per principio intendiamo un pri mo cominciamento della materia, per se stesso incompiuto; laddove concepiamo l'elemento per un che di compiuto, il quale contiene in se virtualmente tutto il com posto, che da se risulta. V. Principio. La voce elemento, applicata al pen siero, esprime le idee semplici e le in tuitive, dalle quali nascono le complesse e le dedotte. V. Complesso, Dedotto, Idea. Elementi delle scienze e delle arti di consi i principi generali, dall'applicazione de quali nascono tutte le verità partico lari, che ogni scienza espone e dimostra. Ma la sposizione di tali principi presup pone non solamente il chiaro significato de termini, del quali è composto il lin guaggio scientifico, ma ancora l'ordine e il metodo, che render possono più facile il passaggio dalle verità note alle ignote. E però parte degli elementi sono le defi nizioni così determini comuni o volgari cui la scienza dà un particolare signifi cato, come del proprio tecnici che voglian dirsi. Che s'intenda per definire, quali sieno le idee definibili, e quali i requisi ti, che aver debba ogni definizione, l'ab biamo già detto nel discorso preliminare. Per quello poi che concerne l'ordine, col quale le verità elementari debbon essere esposte, è manifesto che debbasi seguir uello, che è indicato dalla naturale con nessione delle idee o de fatti, i quali for mano l'argomento o il subbietto di cia scuna scienza; nel che non v'ha se non due vie sole, che la mente possa seguire, cioè il metodo analitico, o il sintetico. Ma quali sono le scienze, alle quali l'un me l - 181 – todo, o l'altro può convenire? Da quel che abbiam detto nell'articolo analisi ri sulta manifesto, che in ogni scienza o arte di cui il progresso dipende dalla riflessione e dalla sagacità della mente, non può farsi uso d'altro metodo, fuorchè dell'analitico, come quello che somministra le nozioni scientifiche, le relazioni loro, e l'ordine stesso con cui le une alle altre succedonsi. Tali sono le scienze naturali tutte, nelle quali non solamente conviene trovare il vero, rimontando dal particolare al gene rale, ma per ritenerle o per insegnarle è necessario seguire l'ordine stesso che han condotto gl'inventori allo scoprimento, pri ma delle verità particolari, e poi del fatti generali, o sia delle leggi della natura. Per contrario in tutte le scienze e arti, le quali si son formate per lo studio del fatti, o sia per la sperienza generale della umanità, e in cui questa medesima sperienza ha fis sato taluni principi o regole generali, da applicarsi a casi particolari; in tali disci pline è manifesto che niun altro metodo può meglio convenire del sintetico, come quello che conduce dal generale al partico lare, e dall'astratto al concreto. Tali sono tutte le scienze dette positive, come la giu risprudenza, le scienze e le arti mediche, le arti belle e di gusto, ed ogni altro studio o disciplina, fondata nell'applica zione di verità, che la ragione e la spe rienza riconoscono come certe ed immu tabili. Questa differenza è quella, che dà luogo alla partizione di tutte le scienze in due classi, cioè le dimostrative, e le induttive. V. Scienza. ELENco (dise. ), sillogismo di contrad dizione, simile al sorite, il quale sotto le apparenze del vero conduce a false con seguenze. V. Sillogismo, Sorite, Il Galilei, parlando di Aristotele ne'dia loghi sopra i sistemi del mondo, dice « essere quegli stato il primo, unico, e ammirabile esplicator della forma sillogi stica, della dimostrazione, degli elenchi, de modi di conoscere i sofismi, i paralo gismi, e in somma di tutta la logica ». V. Logica, Paralogismo, Sofismo. ELETTRICISMo o ELETTRICITA'(spec.), forza d'un fluido imponderabile sparso nel corpi della natura, e di cui la presenza si dimostra per le attrazioni e repulsioni de corpi mede simi; per la propagazione dello stesso flui do tra corpi messi in contatto tra loro; per la luce, che da se tramanda; per l'odore che di se lascia, allorchè è sviluppato dai corpi che ne sono impregnati; e per l'esplo sioni o scariche dette elettriche. Appar tiene alla fisica l'esporre i fenomeni di co testa misteriosa forza della natura, non che degli altri fluidi imponderabili, come il fluido galvanico, o del Volta che vo glia dirsi, o il magnetico, i quali seb bene vengano diversamente denominati, pure ignorasi da noi qual sia l'essenza loro, e se sieno fluidi diversi, o pure modificazioni dello stesso fluido elettrico. V. Fluido, Imponderabile. ELEvATEzzA (prat.), senso traslato dal l'altezza, che si applica alle doti dell'ani ma, d'un ordine superiore e non comune. ELoqueNZA (disc.), arte di persuadere, e di muovere gli affetti e le passioni altrui. Uno de moderni maestri del parlare ha ben detto, che l'eloquenza è nata, prima delle regole della retorica; perchè coteste regole altro non sono, che precetti rica vati dagli esempi de grandi oratori, i quali han sempre preceduto i retori. I primi ora - 182 - tori sono stati formati dalla natura, la quale rende gli uomini eloquenti per le vive emozioni dell'anima, e più ancora per la forza delle grandi passioni. Son esse che agitano l'immaginazione, la quale a volta sua accende del suo fuoco il discor so, e gli somministra metafore, allusioni, e figure d'ogni sorta. Tal è almeno l'ori gine del discorso animato e veemente, che spesso potrebbesi scambiar colla poe sia. Quelli i quali han detto, che i poeti nascono e gli oratori si formano, han pro nunziato una sentenza vera, ma relativa al solo genere della eloquenza artifiziale o studiata, e non applicabile al naturale linguaggio degli affetti e delle passioni. V. Poesia. V'ha non pertanto un altro genere di eloquenza, figlia della riflessione e d'un esatto giudizio, la quale è tutta intesa a persuadere, e a trasfondere negli altri la convizione propria dell'oratore. Questa for ma di discorso, non è meno spontanea del la precedente, perchè trovasi negli uomini anche volgari, dotati di retto senso e di naturale facondia: ella è anzi la prima e la più regolare maniera di parlare, per chè non ha nulla di mancante, o di so verchio; perchè vi è serbata l'esatta con venienza delle idee e delle parole, e per chè tutto è posto nel suo luogo. In som ma l'ordine naturale del discorso non è figlio delle regole, ma della buona atti tudine e disposizione delle nostre facoltà discorsive. - Aristotele, primo maestro di retorica, fece dell'eloquenza una partizione in tre generi, il deliberativo, il dimostrativo, e il giudiziale e deliberativo quello che esorta coloro, che debbon deliberare: di mostrativo, quello che si prefigge di di mostrare ciò ch'è degno di biasimo o di lode: giudiziale in fine quell'altro, che persuade ad assolvere, o a condannare l'accusato. Una tale partizione sembra so lamente ricavata dall'obbietto del discor so, e non dalle sue caratteristiche diffe renze. In fatti chi esorta, chi dimostra, e chi accusa o difende, spesso fa uso degli stessi argomenti e del medesimo genere di dire. Più ampia è la partizione di Cicerone, il quale prese i generi dell'eloquenza dalla intrinseca qualità del discorso, e la distinse in semplice, moderata, e alta o subli me. Acciocchè questa partizione sia ben voltata nella nostra lingua, convien mu fare i nomi di due de tre dinotati generi. Il semplice corrisponde all'ordine naturale del discorso. Ma qual sarebbe la differenza tra'l semplice o naturale, e il moderato? Cicerone chiamò modicum ae tempera tum orationis genus, il discorso sobria mente ornato, il quale si tenesse non per tanto lontano dalle esagerazioni del sofisti; sì che noi chiameremo ornato, quel che egli chiamò modico e temperato. Il terzo, che comunemente dicesi sublime, fu pure da Cicerone definito eo suoi propri carat ieri: huius eloquentiae est tractare ani mos, huius, omni modo permovere: haee modo perfringit, modo irrepit in sen sus, inserit novas opiniones, avellil in sitas (Orator ad M. Brutum). Ora Cicerone no 'l chiamò propriamente sublime, ma ampio, copioso, grave, ornato, acuto, ardente, e quando anche adoprato avesse l'epiteto sublime, cotesto vocabolo nella tino idioma non avrebbe espresso altra idea, se non quella dell'alto e dell'elevato. D'al tra parte evitarsi dee nella nostra lingua la voce sublime, perchè per essa inten diamo il perfetto in ogni genere. Infatti v'ha negli oratori, negli storici, e ne poeti - 185 – esempi del sublime così nel semplice, co me nello stile elevato. Laonde volendo ser bare il concetto di Cicerone, uopo è tra sportarlo in termini esattamente equivalenti a vocaboli latini e dire, che i tre generi dell'eloquenza sono, il semplice, l'ornato, e il nobile o elevato: il primo imita la naturale facondia: il secondo prende le sue figure dallo studio dell'arte oratoria: il terzo prende le sembianze dell'animato linguaggio delle passioni. In conclusione, diciam con Cicerone che chiamerassi elo quente, chi potrà parva summisse, mo dica temperate, magna graviter dicere. V. Sublime. La perfetta eloquenza, giusta la sen tenza del due più grandi oratori latini, è un di quegli archetipi, i quali si possono più facilmente concepire che imitare. Ci cerone comparolla alle forme o idee pla toniche, le quali stanno nel pensiero e re stano invisibili nella realità. Marco Anto nio, il retore (che Cicerone stesso cita, come il primo maestro della latina elo quenza) era solito dire, di aver egli in teso molti uomini facondi, ma di non averne trovato alcuno, che dirsi potesse eloquente: insidebat in eius mente spe cies eloquentiae, quam cernebat animo, re ipsa non videbat. Vir autem acerri mo ingenio ( sic enim fuit ) multa et in se, et in aliis desiderans, neminem pla ne, qui recte appellari eloquens possit, videbat. Cicerone, discutendo in che sia riposta la difficoltà dell'eloquenza, e quali sieno i mezzi per vincerla, conchiude, che non si può possedere la vera eloquenza senza la filosofia, e che il primo e princi pal frutto di questa è la maturità del giu dizio nello scegliere quel che è conveniente all'argomento e a quel genere di dire, col quale l'argomento stesso debb'essere trattato. EMANAZIONE (spec. e ontol.), derivazione della sostanza d'un corpo, composto di parti tenui e volatili. V. Corpo, Sostanza. È proprio della luce e delle materie odorifere, ed è termine adoprato dal Ma galotti. Trasportasi per analogia alla sostanza spirituale, nel quale senso racchiude una confusa e oscura nozione, ch'è stata al travolta sorgente d'ipotesi e di filosofiche chimere. Imperciocchè concependo noi lo spirito come semplice, e per conseguente indivisibile, ripugna a tal concetto la no zione d'una derivazione delle sue parti. Forse gli antichi, dal perchè comincia rono dal concepire lo spirito come una so stanza eterea o ignea, e non come affatto immateriale, rappresentaronsi gli esseri e i corpi tutti dell'universo, come emana zioni d'un'altra sostanza preesistente, dal seno della quale erano venuti in luce. In fatti il concetto dell'emanazione trae l'ori gine sua da quelle scuole precisamente, che professavano il principio ex nihilo ni hil.ſit. Ma cotesta dottrina per dirsi coe rente a suoi principi, doveva necessaria mente presupporre l'eternità della mate ria, e l'universalità della sostanza mate riale. Laonde fu propria della filosofia or fica, degli autori di teogonie, di quelli che fecero della Divinità l'anima del mon do, ed in generale di tutta la filosofia poe tica dell'antichità. Un tal concetto poi per de qualsivoglia coerenza di ragionamento in quei sistemi di filosofia, i quali ammi sero per loro fondamenta l'esistenza del l'Ente Infinito, e la creazione dell'univer so. Che se anche in queste scuole trovisi fatta menzione della emanazione, con vien dire o che difettuosa in esse fu la nozione della Divinità, o che erronea sia la tradizione che noi ne abbiamo, o che - 184 - in fine appartengano a quella spezie di eclettici, i quali senza scelta o giudizio accolsero sovente dottrine o termini tra loro incompatibili. Le prime due spiegazioni calzar possono alle emanazioni di cui parlano gli spositori della filosofia pitagorica, e la terza a quelle di cui fecero sfoggio i nuovi platonici. In conclusione il vocabolo emanazione può avere oggidì un significato vero nella fisica, ma non ne ha alcuno nella metafisica, senza restar di dire che falsa e pericolosa è la sua applicazione alla sostanza spirituale. EMENDA (spec. disc. e prat.), corre zione dell'errore, del fallo, o del vizio. L'emenda del proprio fatto è il primo di tutti gli argomenti, pe quali provasi la libertà della volontà e dell'azione. V. Azio ne, Volontà. - - - EMozioNE (prat.), interna sensazione che ci spigne ad un'opera pietosa, È voce adoperata dal Salvini. EMPIETA'(spee. teol. e prat.), contrap posto di pietà. E proprio di quel sentimento irreligioso, che rinega la Divina Provvidenza, o che l'offende con atti o con parole contrarie al rispetto e alla riconoscenza che le dob biamo. V. Pietà, Provvidenza. EMPIRIco (crit.), chi restrigne l'umana cognizione a soli fatti, provenienti dalle sensazioni, senza ammettere veruna con nessione tra gli effetti e le cause. Cotesta dottrina, meramente passiva, ha per suo unico fondamento l'istinto, dapoichè professa d'ignorare qualunque principio, che spiegar possa la connessione tra fenomeni e le leggi della natura, e in quelli non iscorge se non la materiale successione del fatti. - Altra volta, la qualità di empirica da vasi a quella spezie di medicina, che ave va per sua sola guida la pratica, senza teoria o ragionamento di sorte alcuna. Le moderne scuole di filosofia l'hanno appli cata alla dottrina del sensismo; e la scuola di Kant ne ha fatto un sinonimo dello spe rimentale, il che de essere evitato; altri menti la filosofia, la quale è fondata so pra l'osservazione del fenomeni così esterni come interni, resterebbe senza il suo pro prio nome; e la sperienza stessa, che è la guida della ragione, si confonderebbe colla pratica cieca e macchinale de bruti. V. Esperienza. EMPIRISMo (crit.), la dottrina degli em pirici. Non dee confondersi colla filosofia spe rimentale per le ragioni dette nell'articolo empirico, EMULAzioNE (prat.), desiderio d'un bene, eui altri aspira. V. Bene, Desiderio. È un affetto, e talvolta una passione, lodevole o riprensibile, secondochè il be ne è desiderato per se stesso, ovvero per malevolenza che si porti al competitore. Nel primo caso, l'emulazione è una imi tazione della virtù: nel secondo è una spe zie di dolore pel bene altrui, o sia è l'in vidia stessa; colla sola differenza che l'emu lazione si riferisce al tempo in cui il bene vien disputato, e l'invidia al tempo in cui un de competitori l'abbia già ottenuto. V. Dolore, Invidia. L'emulazione prende gl'inizi suoi dalla natura animale: i bruti sentono pure lo stimolo di questo appetito, per tutto quel che l'istinto li mena a desiderare; e però si disputano la preferenza nel soddisfaci mento del bisogni loro, ed anche alla be nevolenza dell'uomo. La gelosia stessa è un'emulazione. V. Gelosia. ENCICLoPEDIA (crit.), dizionario univer sale ragionato di tutte le parti dell'umano sapere. V. Dizionario. Quali sieno stati l'origine e lo scopo di tali dizionari, e quale il presente loro uso, vedi il discorso preliminare. ENoRMITA' (prat.), azione vituperevole che oltrepassa l'ordinaria misura del vizio. ENTE (ontol.), quel che è, o è possi bile che sia. La nozione dell'ente è un concetto ge neralissimo, che la mente forma di qua lunque cosa, alla quale non ripugni l'esi stenza, per esaminarne gli attributi e le relazioni. È la voce che dà nome all'on tologia. V. Ontologia. Nell'uso comune del linguaggio, è uno di quei termini generali, i quali suppliscono all'insufficienza denomi particolari, o al difetto della conoscenza degeneri e delle spezie, cui possano gl'individui essere ri feriti. Così il vocabolo ente è spesso ado perato come equivalente di sostanza, o di subbietto. V. Sostanza, Subbietto. Gli scolastici distinsero l'ente dalla cosa, avendo chiamato ente ogni subbietto con siderato in quanto all'esistenza, e cosa lo stesso subbietto, quando discorresi del la qualità o essenza sua. V. Cosa, Esi. stenza. - - Scolastica affatto e astrusa è la defini zione dell'ente, data dal Varchi: « ogni » cosa che sia, qualunque e comunque » sia e si comprende tra la materia pri » ma e lo primo motore ». Nell'uso del nostro linguaggio scienti fico il significato di ente è diverso da quello dell'essere. V. Essere. Ente suppositivo o finto dicesi quello che noi assumiamo come possibile, seb bene in realtà tale non sia: immaginario dicesi quell'altro, che noi formiamo per astrazione dell'animo, e di cui l'esistenza non è dimostrata impossibile, comechè non possa essere da noi concepita. Son questi quegli enti che nelle dimostrazioni possono esser presi come veri, perchè gli attributi che loro diamo e le conseguenze che da essi ricaviamo, convengono egualmente agli enti attuali e a possibili. Tali sono per esempio gl' infinitesimali del matematici. Tutte le altre partizioni dell'ente, come dell'attuale o potenziale, del necessario o contingente, del finito o infinito, del sem plice o composto, son relative alla natura de subbietti, a quali applichiamo la stessa denominazione, e son proprie della scienza che versa circa le qualità dell'ente. Vuolsi soltanto notare, che formando noi la nozione dell'ente da quel che è pos sibile, concepiamo nello stesso tempo gli attributi suoi propri. Propri son quelli, che l'uno all'altro non ripugnano, e che non sono l'uno dall'altro determinati. Per tal modo dalla nozione dell'ente passiamo a quella della sua essenza. Così per esem pio, il numero e l'eguaglianza de'tre lati sono gli attributi propri del triangolo equi latero: il numero de tre lati non sola mente non ripugna, ma è costitutivo del la natura del triangolo: cotesto numero non è quello che determina l'eguaglianza de lati, dapoichè questi esser possono di suguali tra loro. V. Attributo, Essenza. ENTELECHIA (ontol.), virtù attiva delle sostanze semplici, comunicata alla materia - - 186 - da esse informata. V. Materia, Sostanza, Virtù. i È termine aristotelico, ritenuto da Leib nitz, il quale applicollo alle sue monadi o unità reali. V. Monade, Unità. Aristotele concepì l'entelechia, come un quinto elemento: da primi quattro ripe teva la forma di tutte le cose materiali, e dal quinto le sostanze immateriali e l'amima stessa, che chiamò con questo vo cabolo. La ragione di tal denominazione sta in una similitudine presa dal moto, che è proprio de soli corpi, e non può essere conceputo in una cosa incorporea. Siccome nel corpo l'azione è impressa da una potenza estrinseca, così l'anima ha in se stessa una tal perenne virtù : xaro rou syrekes sxety. V. Anima, Elemento, ENTIMEMA (disc.), sillogismo tronco, nel quale una delle premesse è sottintesa, e di cui la forza stà nella connessione dell'antecedente col conseguente. V. An tecedente, Conseguente, Sillogismo. L'entimena è una forma d'argomento frequente nel comune uso di parlare, per chè delle tre proposizioni d'un sillogismo ve n'ha sempre una chiara, la quale può esser presupposta come nota. L'esempio dell'entimema comunemente citato da lo gici è quel verso di Ovidio, - Servare potui, perdere an passim rogas P Il sillogismo intero sarebbe : Chi può conservare una cosa, può distruggerla: ma io posso conservarla, dunque posso distruggerla. L'entimema, non solamente non forma difetto, ma serve alla brevità e anche alla grazia del discorso, perchè alla mente pia ce più il sottinteso del superfluo. E però l'entimema trovasi in tutti i detti sentenziosi. ENTIMEMATIco (dise.), detto o sentenza entimematica fu chiamata da Aristotele quella che racchiude in una le due pro posizioni dell'entimena, come dall'esem pio che egli stesso ne adduce. Odio immortale ad uom mortal disdice l ENTITA' (ontol.), astrazione dell'astratto, per la quale esprimevasi dagli scolastici l'essenza dell'ente, considerato qual è, o sia con tutto quel che ha di generico, di specifico, d'individuale, di proprio, di accidentale o di modale. V. queste voci. Il Gelli disse degli enti razionali, «che » hanno tanto poca entità, che sono stati » alcuni che hanno detto, che non sono ». È divenuto oggidì vocabolo di poco uso, e però può aversi come antiquato. ENToMoLoGIA (crit.), parte della zoolo gia, che tratta degl'insetti. ENTUSIASMo (prat.), sentimento veemen te, accompagnato da una forte persuasione della sua verità e convenienza. V. Senti menlo. - Locke ne diede una definizione imper fetta, avendo limitato l'entusiasmo alle sole false illuminazioni della superstizione; il che confonde l'entusiasmo col fanatismo. V. Fanatismo. v Un simile concetto ne formò Leibnitz. Altri hanno spiegato l'entusiasmo per lo furor poetico o sia per l'estro, e per ogni eccessivo amor del bello; il che restrigne rebbe la nozione dell'entusiasmo allo esal tamento dell'immaginazione. La forza del sentimento che dicesi entusiasmo, si co munica a tutte le facoltà dell'anima; e può nascere egualmente da causa lodevole o riprensibile, e dalla ragione come dalle - IS7 -4 passioni; d'onde segue che niuno decen nati concetti sia atto a comprendere tutti i caratteri, nè tutte le spezie dell'entusias mo, Laonde la definizione di sopra pro posta sembra, più di tutte le altre, con venire al generico significato di questo vo cabolo. ENUNCIAzioNE (disc.), discorso che espo ne quello, di che deesi far giudizio. Equivale a proposizione, nel senso che l'una e l'altra contengono la sposizione di tutto quel che conviene o disconviene al suggetto. V. Proposizione. : Gli antichi dialettici chiamarono l'assio ma enunciazione. V. Assioma. I Greci la dissero ex5eois, expositio, ond'è che gli scolastici chiamarono eete tico il discorso enunciativo. Questo vocabolo è proprio della sposi zione, che fanno i geometri di ciò che de essere dimostrato o risoluto. V. Pro blema, Teorema. EPICENo (disc.), addiettivo, che si dà a nomi di doppio genere, o sieno comuni a due sessi. EPICHIREMA ( dise. ), argomentazione composta di più proposizioni, delle quali ognuna è accompagnata dalla sua pruova, sì che le une dimostrano le altre. Suole addursi come esempio di tale ar gomentazione quel tratto dell'orazione di Cicerone pro Milone, in cui stabilisce il diritto d'uccidere chi si pone in aguato contra un altro, e passa a dimostrare che Clodio fu insidiatore di Milone, e che ben fu da lui ucciso. Errrrro (dise.), nome di qualità, che vale addiettivo, e che abbiam preso da Greci. EQUAmmie (spec.), moto, che in tempi eguali, scorre spazi eguali. Il moto equabile è la misura di tutte le altre spezie di moto, ed è quello che ci dà un'adequata mozione del tempo, di cui ogni astratta definizione, comunque vera o acuta, riesce sempre scabrosa per la co mune intelligenza. Le antiche clessidre, e i moderni oriuoli fondati sulla equabilità del movimento, ci rappresentano il tempo per mezzo dello spazio. Ed essendo che ogni moto costa di tre elementi, cioè il tempo, lo spazio, e la velocità, e de tre il più sensibile e più facile ad esser concepito è lo spazio; però il medesimo serve a dare ancora una chiara idea della velocità, la qual'è da matematici considerata come lo spazio descritto nella unità di tempo. I fenomeni del moto, e le leggi colle quali si comunica a corpi, e in quelli per severa, o si estingue, sono obbietti delle scienze fisiche, e spezialmente della mecca nica. Ma le nozioni del suo essere, delle forze o potenze che lo producono, e delle sue relazioni collo spazio e col tempo, son fondamentali per lo studio dell'universo, e però appartengon pure alla filosofia spe culativa. V. Moto, Spazio, Tempo. EQUABILITA' (prat.), senso traslato, per lo quale applichiamo alle inclinazioni del l'animo e a portamenti della vita l'umi formità e la eguaglianza del moto. In questo senso significa costante e uniforme maniera d'onesto vivere. Praeclara est, dice Cicerone, aequa bilitas in omni vita, et idem semper vul tua, eademque frons. EquANIMITA' (prat.), moderazione d'amimo, che rifugge da ogni estremo par tito. n - 188 - EQUILmeRro (spee, dise, e prat.), stato di quiete, nel quale si tengono due corpi, o per esatta egualità di peso, o per collisione di forze eguali. V. Forza, Peso, Quiete. Considerato il peso come una forza di gravità, i due casi testè espressi riduconsi ad un solo, alla collisione cioè delle forze eguali. La teorica dell'equilibrio è parte della dottrina del moto, e forma l'obbietto speciale della statica. V. Statica. In senso traslato si applica tanto alla egual forza degli argomenti, quanto allo stato dell'anima e delle passioni, che non trapassano i giusti limiti. EQUIPoLLENTE E EQUIPoLLENZA (dise. ), l'egual significato di due o più proposi zioni. V. Proposizioni. Gli scolastici distinguevano l'equipollenza delle cose e del nomi. La prima è quella che passa tra semplici e il composto, come tra le spezie e il genere. Le spezie prese insieme sono equipollenti del genere, che in se tutte le contiene. La seconda, o sia denomi, trovasi nelle proposizioni, le quali sebbene discordino ne termini, pure concordano nel signifi cato. E quì distinguevan pure la parte gramaticale dalla logica: gramaticale era l'equipollenza del vocaboli sinonimi: logi ca, quella delle proposizioni, nelle quali per mezzo della negazione accordavansi tra loro due contrarie affermazioni. La dottrina in somma della equipollenza, era un tes suto di definizioni e di distinzioni, le quali non dicevano niente di più di quelle no tissime due regole, negationis negatio est aſfirmalio: duae negationes unam valent affirmationem. E questo uno degli esempi di quell'apparato logico, o dialettico, del quale gli scolastici avevan fatto un ante murale allo studio del pensiero. EQUITA'(prat.), il giudizio della ragione intorno al retto e albuono.V. Buono, Retto. L'equità contiene tutto quel ch'è proprio del senso del retto e del buono, nè può mai allo stesso ripugnare: la sua forza è doppia, l'una di rischiarare e spiegare il fine della legge, l'altro di supplire al si lenzio di quella per tutte le azioni, che sono commesse alla libertà dell'agente morale, ma che pure debbon essere conformi al retto uso della ragione. Così la ricono scenza, la liberalità, la beneficenza, il per donare, il fare per gli altri quel che vor remmo che fosse a noi fatto, sono uſizi dettati dall'equità. Comechè Cicerone avesse inteso parlare dell'equità civile, pure ac conciamente distinse ambe le cennate parti: aequitatis vis est duplea: cufus altera directi, veri, et justi, et ut dicitur aequi et boni ratione defenditure altera ad vi cissitudinem referendae gratiae pertinet. V. Legge, Obligazione. Ambiguo e vario è il significato di que. sto vocabolo nel linguaggio del giurecon sulti, perchè costoro hanno sovente risguar dato l'equità come un correttivo dell'infles sibile rigore della legge. Ma le similitu dini son causa di molte confuse nozioni nel linguaggio pratico, il perchè debbono essere purificate dalle nozioni chiare e di stinte della filosofia. L'equità dee sempre presedere alla spiegazione e alla interpre tazione delle leggi secondarie, nel senso che l'applicazione loro corrisponda al fine de legislatori, piucchè al nudo e materiale significato delle parole. Cicerone stesso nel dare ad Aquilio Gallo la lode d'un per fetto giureconsulto additò il vero uso del la equità, che è: furis civilis rationem numquam ab aequitate segungere. I consigli dell'equità possono essere an cora una sorgente di perfezione per coloro, i quali credonsi obligati di fare più di quel che la legge impone per dovere. Quanti uomini sommamente virtuosi non credonsi obligati di fare tutto il bene, di cui son capaci, quando sentono di avere i mezzi per eseguirlo? Il senso del retto e del buono scambiasi in essi colla nozione della legge, e produce al pari di questa obligazioni mo rali, le quali acquistano un pregio inestima bile, appunto perchè sono volontarie. La coscienza, la quale rimane semplicemente soddisfatta per l'adempimento delle obli gazioni propriamente dette, esulta ed ac compagna col suoi plausi l'agente per tutti i gradi della lunga distanza, che passa tra la giustizia e la perfezione. V. Coscienza, Perfezione. Gl'incitamenti dunque che nascono dal l'equità sono anch'essi altrettanti principi razionali d'azione, i quali non differi scono dalle obligazioni, se non per la maggiore o minor forza colla quale deter minano la volontà. V. Determinazione, i7olontà. - EQUIVALENTE e EQUIVALENZA (disc. eprat.), l'egual valore di due cose. rº L'uso ha dato a queste due voci un si gnificato più ampio dell'equipollente, che suol essere adoperato soltanto nel senso logico. Gli scolastici distinguevan pure l'equi valente fisico dal morale, chiamavan fisi camente equivalente una cosa, che con tenesse in se le qualità di più altre cose unite insieme; e moralmente equivalenti le azioni di diverse persone, che avevano vo. luto lo stesso fine. In questo senso ancor noi diciamo equivalente il consiglio all'azione di colui, che l'ha mandato ad ef. fetto; e il mandato all'esecuzione, che il mandatario gli ha dato. EQUIvoco (disc. ), vocabolo comune a più cose di essere diverso. Cotesta definizione, che è pur quella del nostro vocabolario della crusca, è una let terale versione del significato che gli sco lastici davano a vocaboli detti equivochi: quorum nomen est commune, ratio vero essentiae secundum illud nomen diversa. Spogliandola del senso metafisico, l'equi voco è il nome stesso dato a cose diverse: è l'omonimo degreci, che ancora noi ab biamo adottato. Ma l'equivoco nel senso di addiettivo prende il significato di ambiguo, perchè la dubbietà del nome diviene qualità della cosa significata. Ora questa idea sempli cissima fu dagli scolastici espressa con un'altra astrusa distinzione di aequivoca aequivocantia, e aequivoca aequivocata. Gli equivocanti erano i nomi, e gli equi vocati, le cose espresse con nomi capaci di più significazioni. Sarebbe bastato il di stinguere il senso attivo dal passivo. L'uso non pertanto suole adoperare so stantivamente l'addiettivo, e render l'equi voco sinonimo dell'ambiguità. Una tal sorta di equivoco può nascere per negli genza di parlare, o per arte del parlatore: per negligenza, quando un nome messo tra altri due può riferirsi a ciascun di essi; quando lo stesso scambio possa farsi tra una proposizione, e due altre che la pre cedono; quando di due significati dequali il nome è capace, non si vegga chiara mente in qual de due abbia voluto il di citore usarlo; quando in fine nelle lega ture del pronomi e de relativi, sorga il dubbio, a qual de precedenti gli uni o gli altri si riferiscano. Può ancora l'equivoco essere un artifi zio del discorso, nel quale caso sommi nistra armi alla satira, e può altresì di. venire sorgente di arguti detti e di fini pensamenti! Non è lingua, che non si presti ad un tale uso, nè oratore che tal volta non si valga dell'equivoco per con dire il suo discorso. Ma niuna lingua è tanto feconda di doppi sensi, e di ambi gui detti quanto la francese, la quale ne fa anche un pregio di prontezza di spirito e di grazia, nel dialogo e nella conver sazione. La satira di Boileau intorno al l'equivoco può dimostrare il buono e il cattivo uso, che di esso può farsi. L'equivoco può esser dilettevole, e tal volta utile in ogni sorta d'argomenti, tran ne che in quelli della filosofia intellettuale, Nella stessa filosofia pratica, è permesso, al dir di Grozio, servirsi dell'equivoco, per eludere una interrogazione, cui non siamo obligati di rispondere. In questo caso, è un'arma di difesa, alla quale ricorre la desterità del giudizio di chi non vuole sodº disfare una pericolosa o importuna curio sità. La prudenza stessa consiglia alcune volte l'equivoco, e spezialmente quando conviene nascondere alla età innocente e incauta cose, delle quali potrebbe abusare, Per contrario la ragione dee condannarlo e proscriverlo nella espressione del pen siero, ch'ella dee rendere chiara a se stessa e agli altri. I nomi detti equivochi, spezialmente quando esprimono obbietti affini producono confuse e oscure nozioni, le quali a volta loro divengono cause di errori. Il vocabolo idea ne somministra un op portuno esempio. Con questo vocabolo si è per lungo tempo espressa la sensazione, la percezione, la facoltà di percepire, l'ob bietto percepito, la sua immagine, e il pensiero stesso. Di quante confuse nozio mi, e di quanti errori non è stata cagione la promiscuità d'un vocabolo, che mal conveniva ad operazioni de'sensi o della mente sì diverse tra loro? Cotesti errori divennero sistematici per modo, che ognu no credeva concepire chiaramente la per cezione, senza accorgersi del falso presup posito, da cui partiva. E per verità gli equivochi producono per loro natura certi errori ciechi, i quali divengono altrettanti prestigi, o falsi dati di ragionare, che la mente non soggetta più ad esame, perchè li ha come certi, e indubitati. Per questi vocaboli, più che per ogni altro vale tutto quel che abbiam detto della importanza del definire, o dello spiegare il senso nel quale intendiamo ado perargli. (V. il disc. prelim.). V. Defi. nizione, Errore, Prestigio. - ERMETICA (erit.), nome favoloso dato all'alchimia, e alla falsa chimica, suppo sta figlia di Ermete. E però filosofia ermetica fu detta la dottrina riposta del principi, pe quali gli alchimisti, pretesi filosofi della natura, cre devano aver trovato il segreto di tramu tare i metalli ignobili in perfetti, e di ri solvere in taluni elementi primitivi tutti i composti della natura. È oggidì scienza e nome deriso, come l'alchimia. V. Alchimia. - -- - ERoE (prat.), uomo di virtù più che umana. V. Virtù. - - - - Presso gli antichi colesto vocabolo di notava una spezie di Esseri superiori al l'umana, sì per lo spirito, come per le forze del corpo. Giusta la famosa defini zione di Jerocle, dicevasi eroe uno spirito sublime, abitatore d'un corpo luminoso; e giusta il sistema degli Orfici e de Pita gorici i semidei, gli eroi, i demoni, e le anime umane eran quattro spezie di – 191 - emanazioni della Divinità. V. Demone, Spirito. ERoico (prat.), quel ch'è degno d'un CI'Oe, È epiteto della virtù, che si solleva so pra i comuni esempi degli uomini. ERRORE (spec.), falsa opinione, cui prestiamo assentimento. La natura ha ispirato all'uomo l'amor del vero, e gli ha dato la facoltà del giu dizio per poterlo discernere. Ma quando i suoi sensi sieno infermi, o non sia libero e maturo l'uso del giudizio, o oltrepassar voglia i confini dell'umana capacità, il vero gli sfugge, ed è dalla stessa sua opi nione ingannato. Locke credette poter de terminare tutti i generi dell'errore, che ridusse a quattro; il difetto di pruove: il non saperne far uso: il non volerle usare : il seguire false regole di probabilità. Secondo Bacone ogni genere di errore è prodotto da una illusione che preoccupa la mente, e le impedisce il retto uso del giudizio. Son queste le cause dell'errore che egli chiamò idoli. Ma il suo concet to, quantunque in parte vero, non sem bra compiuto, dacchè spiega l'origine più che l'idea del nome. Siccome l'ignoranza è la causa dell'errore, se non unica, cer tamente la più comune, così non si può fare l'analisi delle cause dell'uno disgiun tamente dall'altra. V. Idolo, Ignoranza. ERUDIzioNE (erit.), il sapere degli uo mini, tramandato per le lettere e per la storia. Distinguesi dalla scienza, che è il pro dotto della riflessione e del ragionamento; e che l'uomo potrebbe acquistare, anche senza conoscere tutto quel che le passate generazioni han saputo, o scritto. E però tutto l'umano sapere può essere partito in due grandi rami, l'erudizione e la scien za. V. Scienza. L'erudizione è principalmente fondata nella memoria, e però abbraccia, come sue parti proprie la storia, l'archeologia, e la conoscenza delle antiche lingue. Quan do parliam di storia, intendiamo in essa comprendere non solamente tutte le parti sue, come la sagra, la civile, la militare, la letteraria, la filosofica, la biografica, e la bibliografica; ma ancora le conoscenze ausiliarie, senza le quali non può darsi un perfetto storico, come la cronologia, e la geografia. Similmente nella denomi nazione di archeologia comprendesi la co noscenza della storia non iscritta, come la tradizione illustrata da monumenti d'ogni genere, quali sono le iscrizioni, le mo mete, le medaglie, gli emblemi, i cippi, le pietre acherontiche, e i ruderi stessi, i quali ricordano fatti e usi del popoli, che non avevano lettere, nè certa misura de tempi, e del quali la vita appartiene alle rimotissime età del mondo. E final mente nella conoscenza delle lingue anti che debbesi principalmente includer quella delle lingue madri che han dato origine a parlari secondari del popoli, e dell'eti mologie nelle quali possono trovarsi le ori gini del linguaggio, e con esse le prime tracce della umana sapienza. Dal quadro di tutte le parti dell'erudi zione apparisce manifesto quanto difficile sia il trovare tra gli uomini che sonsi il lustrati per sapere, un perfetto erudito. Forse ognun di quelli che sono stati più ammirati per la vastità del sapere, meritar potrebbe una lode relativa e non assoluta, quando si facesse delle sue conoscenze il confronto con quelle altre, che si sareb – 192 – bero in lui desiderate. Forse ancora il concetto d'un vero e perfetto erudito è di tale e tanta ampiezza, che trascende le forze della più prodigiosa memoria. Ma tal'è la natura di tutte le umane perfe zioni, che la prima lode è dovuta a quelli, i quali più si approssimano al segno, che alle intelligenze finite è lecito di toccare; sì che i modelli di vera perfezione deb bonsi avere come stimoli a correre il più innanzi ch'è possibile. Riferendo l'erudizione alla memoria, e astraendola dalla riflessione e dal ragiona mento, noi abbiam seguito quella imper fetta partizione di Bacone, la quale pre suppone che ciascuna delle tre principali potenze dell'anima possa essere risguar data come l'unica sorgente di talune del le parti dell'umana cognizione. Ma ripe tiamo in questo luogo quel che abbiamo già detto nel discorso preliminare, cioè che simili partizioni debbon aversi come semplici punti di ordinamento, comodi per disporre in classi le varie sezioni del l umano sapere, senza risguardarle come esatte nè vere in natura. Imperocchè non si dà scienza, arte, o disciplina, nella quale non sia necessario il concorso della me moria, della ragione, o della immagina zione unite insieme. Della qual verità offre una luminosa pruova l'erudizione, che es senzialmente richiede esatto criterio, or dine, e sagacità d'investigazione. Di quale utilità esser potrebbe un ammasso di fatti, raccolti senza giudizio critico, e senza or dine tra loro? Se lo storico narrasse tutto quel che gli altri han detto o scritto, senza discernere il vero dal falso, e il credibile dall'inverisimile; se non sapesse egli stesso penetrare nell'antichità e nelle cause degli avvenimenti, ehe descrive; nè stabilire tra loro quella connessione logica, la quale prepara il giudizio del lettori; se in fine povero di lettere, di grazie e di stile, vol garmente descrivesse tutto quel che l'uom credulo e ignorante suole ingoiare come alimento della curiosità; in somma se si separassero interamente nello storico le fun zioni della memoria dalle altre potenze del l'anima, aver potremmo conti e popolari tradizioni, e non istoria. Ora il natural parentado che rende in separabili tra loro le potenze dell'anima, fa sì che i migliori eruditi sien quelli, i quali senza dedicarsi esclusivamente ad un sol genere di cognizione hanno insieme congiunto lo studio delle lettere e delle scienze. Ma quì si presenta una difficoltà, maggior di quella, che abbiamo testè di visato. Potrà la mente umana essere per fetta in due sì vasti generi, se non può conseguire la perfezione in un solo ? La risposta è facile. Lasciam da parte il per fetto metafisico, e prendiam l'umano: il più ci serva di guida a giudicare del meno. Un erudito filosofo varrà più d'un erudito gramatico. Non si nega, che difficilcosa sia il trovare in ambedue i generi un som mo e pari merito; e di quanta difficoltà sia, lo dimostra il picciol numero degrandi e straordinari ingegni, che han meritato una tale lode. Come primi in questo scelto drappello posson essere citati, Aristotele tra gli antichi, e Leibnizio tra moderni. Cer tamente la filosofia riceve tanto incremento e lustro dalla erudizione, quanto questa da quella. Imperocchè l'erudizione non so lamente le presenta tutto l'antico tesoro delle umane conoscenze, e le fa conoscere il punto da cui deella partire; ma le som ministra gli elementi della sperienza, la più sicura fiaccola degli umani giudizi. Resta solo, che la filosofia si preservi dai difetti, a quali suole condurre l'abito del – 195 - giudicar degli eruditi; siccome a volta sua l'erudizione guardarsi dee dal sistematico ragionamento a priori. Son diversi i prin cipi che guidano la ragion dell'erudito e del filosofo : l'un segue l'autorità, l'altro l'in duzione logica, o sia la naturale connes sione de fatti colle cause loro. Dalla giusta tempera di questi due principi può nascere quell'esatto criterio, che subordina l'autorità alla ragione e insiememente rende quella ausiliaria di questa. V. Autorità, Ragione. ESACERBARE (prat.), traslato dal dolor sensibile, che si applica ancora al morale, e vale irritare l'animo di alcuno con pun gente tormento. È meno dell' esasperare, e dell'esulce rare. V. queste voci. EsAGERARE (disc. e prat.), oltrepassare il vero e il naturale nelle parole, o nel sentimento. È diverso dell'ampliare e dello ampli ficare: l'uno e l'altro di questi due verbi indicano un'azione, che non trapassa i li miti del vero; laddove l'esagerare importa alterare una cosa in bello o in brutto che sia. V. Amplificare. EsALTAMENTo (spee. e prat.), innalza mento della immaginazione al di sopra della comune misura. Applicato anche a sentimenti dell'animo, vale eccesso, o straordinaria irritazione d'una passione, e spezialmente dell'ira. V. Immaginazione, Passione. EsALTAZIONE (prat.), condizione o stato d'un animo esaltato. L'esaltamento, esprime l'effetto della causa, che muove e agita l'animo: l'esal tazione, la conseguenza. ESAMINARE (spec.), atto della riflessio ne, che partitamente considera la conve nienza di chicchessia. EsANIMARE (prat.), lo stesso che disa nimare. V. questa voce. Nel senso passivo, è proprio di quel do lor d'animo, che intercetta il sentimento. EsANIME (prat.), vale esanimato, cioè uomo colpito da duolo sì intenso, che pare aver perduto la vita, ESASPERARE (prat.), irritare con nuovi motivi il dolore, o l'ira di alcuno. È più dell'esacerbare. V. questa voce. ESATTo (spee. disc. e prat.), quel che non ha più nè meno di ciò, che gli con viene. Si applica sempre nello stesso senso al pensiero, alla parola, e all'azione. È di verso dal preciso, il quale va al fine della idea, o a un punto determinato dall'azio ne. V. Preciso. EsAUDIRE (teol. e prat.), accogliere le preghiere altrui. - È proprio di Dio, che benignamente ascolta le preghiere dell'uomo, e le ri volge ad utilità di lui. Per similitudine si applica al benigno ascoltare d'ogni uomo rivestito di autorità, a rispetto delle preghiere che gli porgono gl'inferiori. - EscANDEscENza (prat.), violento movi mento dell'ira, che quasi accende e in fiamma l'animo EscogitARE (spec.), cavar fuori a forza di riflessione un pensiero riposte - 194 – EscusARE (prat.), rimuovere o smi muire la colpa per via di ragionamento. EsEcRARE (prat.), l'avere in abboni mio, e in orrore alcuno. E il maggior grado dell'abborrimento, perchè accompagnato da un sentimento di religioso dovere. È proprio di quella avversione, che c'ispira l'empietà o lo scandalo. EsEMPIo (spee. dise. e prat.), fatto al trui, che la riflessione considera per sug gerirne, o sconsigliarne l'imitazione. Sotto il nome di fatto comprendiamo tanto il pensiero o concetto dell'animo, quanto la parola, o l'azione ; il perchè l'idea dell'esempio appartiene del pari alla filosofia speculativa, alla discorsiva, e alla pratica. Gli esempi sono gli elementi della spe rienza, la quale ricava le sue conclusioni generali da fatti particolari simili e tra loro concordi. V. Esperienza. In logica, l'esempio dà luogo ad una sorta di argomento imperfetto, per lo quale da uno, o da pochi fatti singolari, stabi liti per antecedenti, si deduce come certo il conseguente. Tal sarebbe: la guerra tra Tebani e i Focesi fu calamitosa: ma i Tebani e i Focesi son finitimi: dun que calamitosa è ogni guerra tra fini timi; o pure: Dionigi domandò una cu stodia alla sua persona, per opprimere la patria: Pisistrato non prima ottenne ancor egli una custodia che impadro nissi del governo di Atene: lo stesso praticò Teagene a Megara: dunque tutti quelli, che domandano una custodia, vogliono opprimere la patria. Cotesto ar gomento di cui parla Aristotele (Rhetor. lib. II.), è falso, perchè la minore non è compresa nella maggiore, se non per una parte sola, e la conseguenza con chiude più, che non contengono le pre messe. Aristotele avvertì essere l'esempio diverso dall'induzione, perchè contiene una relazione non del tutto al tutto, nè d'una parte al tutto, ma d'una parte alla parte, e però non prova. V, Induzione. Ne pratici portamenti della vita l'esem pio è una molla assai più efficace, che in ogni altro astratto giudizio. Per esem pio intendiamo una onesta o viziosa azio ne, esposta all'altrui imitazione. E sic come noi cominciamo dal far tutto per imitazione, e la prima guida della ra gione è l'autorità; così i buoni o i cat tivi esempi decidono della nostra educa zione, o per lo meno le danno una tale tendenza, che a pochi è dato il mutarla o il vincerla, allorchè nella provetta età accorgonsi di essersi innoltrati in una falsa strada. V. Autorità , Educazione, Gio 07Cl7202,2 (Z. Risguardando prima gli esempi dal buon lato, son essi non solamente utili, ma ne cessari al reſto portamento della vita. Bello è intorno a ciò il precetto di Seneca: ali quis vir bonus nobis eligendus est, ae semper ante oculos habendus , ut sic tanquam illo spectante vivamus, et om nia tanguam illo vidente faciamus:.... elige Catonem: si hic videtur tibi nimis rigidus, elige remissioris animi virum Laelium elige eum cuius tibi plaeuit et vita, et oratio, et ipsius animum ante te ferens et vultus, illum semper tibi ostende, vel custodem, vel exemplum - opus est aliquo, ad quem mores nostri se ipsi erigante nisi ad regulam, prava non corriges. (Ep. XI. ). Nulla per l'opposito, di più pernicioso de cattivi esempi, sopra tutto per la in r – 195 - cauta età della gioventù. Quando si con sideri la tendenza, che la natura ci ha dato alla imitazione, e la necessità di camminar dietro all'autorità, come alla sola guida che abbiamo nel primo ingresso alla vita, chi non vede le conseguenze presso che irreparabili decattivi esempi? Che se questi invitassero i fanciulli e i giovani alla mol lezza, e aprissero loro prematuramente il cammino agli agi e a piaceri della vita sensitiva, l'educazione si cangerebbe in una scuola di corruzione, di cui nulla potrebbe più fermare il corso. Da ciò segue che ogni turpe azione, commessa al cospetto di altri, ha in se due caratteri di riprensibile: il primo, della infrazione del dovere, che la dichiara illecita e punibile: il secondo dell'esem pio, che invitar può all'imitazione quelli che ne sono spettatori. L'imputabilità che nasce dallo esempio, non solamente è mag giore, se questo ha offeso il senso di coloro i quali ignoravano che cosa fosse il delin quere, ma tocca l'apice della immoralità, se ha portato offensione alla innocenza o al pudore degiovani; il che è appunto quello che si denomina scandalo. V. questa voce. EsERCITAZIONE (prat.), il ripetimento dell'azione, fatto per acquistarne la faci lità, o l'abito. V. Abito. EsERCIzio (spee. e prat.), il passaggio dalla potenza all'atto. - 5 Per rendere più chiara cotesta defini zione, giova prenderne l'esempio dalla vo lontà. È questa una potenza data all'uomo, considerato come agente morale, la quale insino a che non si determina all'azione, rimane ne limiti d'una semplice facoltà. L'azione dunque non è altro che l'eserci zio della volontà. V. Azione , Volontà. Gli scolastici lo definirono, la reitera zione di qualunque operazione, fatta eol fine di conservare, o di confermare l'a- bito. Ma la loro definizione confonde il principio dell'atto colla sua continuazione, o sia l'esercizio colla esercitazione. Essi di stinguevano ancora l'esercizio per rispetto all'obbietto, al modo, alla origine, e alla continuazione; categorie inutili, che mol tiplicano i nomi, senza dichiarire le idee. EsisTENZA (ontol.), dell'esistenza, come d'ogni idea semplice, non può darsi una definizione reale; il perchè gli scolastici ne diedero una affatto nominale, che è il compimento della possibilità. Ma ciascu no concepisce più chiaramente l'esistere, che il compimento del possibile, V. Pos sibile, Possibilità. Altri la definirono, lo stato di una cosa un quanto esiste. Ma che è l'esistere? Questa seconda definizione, è una spiega zione viziosa, o sia non è definizione rea le o nominale, che voglia dirsi. Altri in fine credettero poterla definire, lo stato attuale d'una cosa che è fuori del nulla. Ma quest'altra definizione rac coglie insieme i vizi delle due precedenti, dapoichè è fondata sopra la nozione del nulla, o sia di quel che non esiste. Per meglio determinare la nozione del l'esistenza, fa uopo primamente distinguere gli enti contingenti dal necessario. L'ente necessario ha la ragion sufficiente dell'esi stenza nella sua propria essenza; laddove i contingenti l'hanno nella volontà e nella potenza di Lui. La nozione dell'esistenza include quella d'un cominciamento e d'una fine, mentrechè l'essenza dell'ente neces sario esclude ogni cominciamento ed ogni fine. Ora la nozione dell'essenza dell'ente necessario è maggior dell'umana capaei ris – 196 – tà, perchè si confonde col sempiterno e col l'infinito, sì che non può essere definita. Il sum qui sum è la sola nozione di cui è capace l'umana concezione ! Da ciò segue, che impropriamente il linguaggio scientifico ha associato la no zione dell'esistenza dell'Essere increato con quella delle creature, dovendosi dire che l'ente necessario è , e non già che esi ste. V. Contingente, Essenza, Neees sario. Quanto poi agli enti contingenti, il con cetto dell'esistenza non è lo stesso a ri spetto degli enti animati ed inanimati, e tra gli animati differisce per rispetto agl'intelligenti ragionevoli, e a soli in telligenti. L'esistenza dell'uomo sta nella coscienza del proprio essere: quella dei bruti nella durazione della vita: quella in fine di tutte le cose inanimate, è la du rata dell'esser loro insino al punto della distruzione. Se da questi tre diversi con cetti volesse formarsi una nozione gene rica a tutti comune, potrebbe l'esistenza definirsi, la durata dell'ente insino alla sua distruzione. V. Coscienza, Durata. Comunque si definisca l'esistenza, il con cetto che ne formiamo ha una relazione necessaria col possibile, ed è il contrap posto del nulla. Scambiasi sovente coll'al tuale e col reale, comechè il suo signi ficato proprio differisca dall'uno e dall'al tro. V. Attuale, Mulla, Reale. Siccome non è estremità, a cui non siesi trasportata l'umana ragione, così non è mancato chi avesse rivocato in dubbio la realtà della nostra esistenza, nel che gli scettici hanno uguagliato l'essere al non essere. V. Scettico. EsisteRe (ontol.), durare insino alla distruzione. - - - º È proprio degli enti contingenti. V. Esi stenza. EsTAzioNE (spec. e prat.), incertezza nel giudizio, o nella deliberazione della volontà. È più del dubitare, dacchè esprime un impedimento più di senso, che di ragio ne; laddove la dubitazione presuppone un conflitto di motivi, che tengono in sospeso l'assentimento o la volontà. V. Dubbio, Dubitazione. EsoRBITANZA (prat.), eccesso che tra passa i comuni limiti d'una passione, o d'un vizio. V. Eccesso. EsoRTAZIONE (dise. ), discorso per lo quale cerchiamo d'indurre alcuno con ra gioni o con esempli, a far quello che noi VOI'TGImmO. - È più del consiglio, il quale fermasi al proporre, senza sforzo di ragionamento. V. Consiglio. - EsoreRico (spec.), nome dato all'in segnamento arcano di quelle sette filoso fiche, che avevano iniziati per discepoli. È lo stesso che acroamatico V. questa voce. EsPANSIONE (spec.), azione d'una forza, per la quale le parti di taluni corpi, di latandosi, occupano uno spazio maggiore. Le forze espansive posson essere esterne, o interne: esterna è la rarefazione prodotta dal calore: interna, l'elasticità. V. Ca lore, Elasticità. L'aria e le sostanze capaci d'essere con verse in vapore, come l'acqua portata ad un grado di calore maggior di quello che produce il bollimento son dilatabili per espansione. Il passaggio di queste ultime - 197 – da uno stato all'altro dimostra che la forza di coesione, la quale le ritiene nel na turale loro stato, può essere considerata come una forza di compressione opposta alla forza espansiva, la quale tende a se pararne le parti. Cotesta forza è quella, che Newton ha talvolta denominato repulsiva. La dilatabilità, considerata come una pro prietà de corpi che ne son capaci, le cause che la producono, le leggi colle quali si sviluppa, e l'uso che di essa può farsi per acquistare nuove forze e nuovi motori, son tutti obbietti della fisica sperimentale. V. Fisica. EspERIENza (spec.), conoscenza de fatti e delle relazioni loro, acquistata per lun go abito di riflessione. V. Abito, Rela zione. Ogni fatto singolare è per se stesso ste rile; ma sono le sue relazioni cogli altri fatti simultanei o successivi, che aprono alla mente il giudizio della qualità e con venienza loro. L'abito di studiare tali re lazioni, è quel che forma l'esperienza. Al tra volta la sperienza riferivasi a soli fatti delle sensazioni, o sia a soli obbietti ester ni, nel quale aspetto solamente fu da Lo cke risguardata. E però pose egli la spe rienza al di sopra del giudizio, anzi la costituì emendatrice del giudizio, come se il conoscimento dell'esperienza fosse un che di diverso dal giudizio, o potesse senza di quello stare di per se. In somma egli presuppose, che le percezioni desensi sieno talvolta alterate o corrotte dal giudizio, il quale è spesso corretto dall'esperienza. Co testo concetto, che Locke pretende dimo strare coll'esempio del cubo e della sfera, che un orbo vedesse per la prima volta, dopo avere acquistato la vista, e de'quali eragli nota la differenza per lo tatto; co testo concetto dico, è falso, o almeno è impropriamente espresso. Imperciocchè vi ha delle idee complesse, le quali non si formano in noi, se non per mezzo di di verse sensazioni, o di più percezioni del medesimo senso. Tali sono le idee della sfera e del cubo, e di tutti i solidi dei quali la figura non si percepisce per un atto unico della visione. In questo caso è impropriamente detto, che il giudizio in ganna, e che l'esperienza emenda, se pure non si volesse scambiare il giudizio colla percezione. Dee per contrario dirsi, che una idea incompiuta è rettificata dal giudizio, mediante l'osservazione o l'esperienza. Nè l'improprietà sta solamente nel vocaboli, ma sì bene nel concetto; dapoichè l'espe rienza diverrebbe affatto meccanica, men trechè è di sua natura razionale. Tale per altro esser doveva il concetto d'una filosofia, che risguardava la sensazione, come l'unica sorgente della umana cogni zione, e che scambiava la sensazione stessa colla percezione e colla idea. V. Idea, Percezione, Sensazione. i Bacone non disgiunse la sperienza dal giudizio, che anzi le diede per compagna l'induzione, distinguendola così dalla nu da osservazione de fatti, che chiamò selva o labirinto. V. Induzione. - La moderna filosofia avendo applicato l'osservazione anche agl'interni fatti dello spirito, e riconoscendo il senso intimo, o sia la luce stessa della ragione, come la principal sorgente dell'umana cognizione, ha dato all'esperienza un doppio valore. Ella stabilisce come primo scopo della spe rienza la conoscenza di se medesimo. Così, seguendo le vestigie della natura, da mezzi da lei adoperati ne argomenta i fini tanto nel fisico, quanto nel morale; chiama in soccorso del senso individuale di ciascuno – 198 - il comun senso della umanità; e stabilisce due ordini di fatti, dalla concordanza dei quali fa dipendere la realità e la certez za dell'umana cognizione. Da ciò è nato, che la denominazione di filosofia speri mentale, esprime oggi il metodo comune alla investigazione del fatti esterni ed in terni dell'animo; laddove prima additava la sola dottrina delle sensazioni. V. Filo eofia, Sensazione. EspERIMENTALE (erit. e prat.), tutto quel che è fondato nell'accurata ed esatta os servazione de fatti. V. Osservazione. Diciamo accurata ed esatta, perchè la sperienza risulta non dalla semplice cono scenza del fatti, ma dalla comparazione che di essi facciamo, dalla somiglianza, dalla diversità, da modi, dalla connes sione, in breve da tutte le relazioni loro, diligentemente esaminate. V. Esperienza. Ogni scienza o arte, la quale ricava i principi e le regole sue dalla osservazione de fatti dicesi sperimentale. Tali sono per essenza loro le arti; tal'è la notomia, la fisiologia, la medicina, e tutte le arti mediche e chirurgiche. Noi diamo, quasi per eccellenza, il nome di sperimentale alla Fisica, o sia allo stu dio della natura, seguito per mezzo della osservazione. Ma deesi distinguere l'osser vazione volgare dalla scientifica: quella è diretta dal solo criterio naturale: questa dal metodo. Per queste due diverse ma niere d'osservare, i moderni distinguonsi dagli antichi. Sebbene costoro avessero de rivato lo studio della natura da fatti, e fossero stati diligentissimi osservatori; pur tuttavolta dieronsi a spiegare i fatti osser vati per congetture e ipotesi, e crearono una natura ipotetica, diversa dalla reale. Cotesto male provenne appunto dal di fetto dell'ordine e del metodo scientifico nell'osservare. I moderni per contrario, avendo abbandonato le congetture, ed es sendosi serviti de fatti ovvi della natura, come d'instrumenti per iscoprire un se condo ordine di altri fatti, che erano die tro a primi nascosi, e per la stessa via penetrando sempre più addentro; son per venuti alla conoscenza di pochi, ma im portanti fatti generali, o sia delle leggi naturali, le quali spiegano il moto, ta lune delle proprietà generali de corpi, e l'azione che gli uni esercitano sopra de gli altri. Di questi nuovi progressi della Fisica siam debitori al metodo scientifico, del quale l'onore è dovuto a due grandi nomi di Galilei, e di Bacone. V. Meto do, Osservazione. - Altra volta la Fisica distinguevasi in ma tematica e in particolare, o sperimen tale. La Fisica generale era la metafisica de corpi, e la particolare prendeva spezial mente il nome di sperimentale. Oggi, ge nerale chiamiam quella che versa circa le proprietà comuni a tutti i corpi; e parti colare quella che esamina le proprietà in dividuali di ciascuno. Ma sì l'una che l'al tra son divenute sperimentali. Le scienze matematiche sono ausiliarie della Fisica ge nerale, e intervengono nello insegnamento, o per applicare le verità teoretiche alle leggi e alle operazioni della natura, o per ispie gare teoricamente gli effetti delle cause na turali (V. il disc. prelim.). V. Fisica. Esperimentale ancora chiamiamo, in senso traslato, la filosofia dello spirito uma no che è fondata nella osservazione dei fatti dello spirito. E siccome i primi stru menti della sperienza sono i sensi; così spe rimentali furon anche chiamate le scuole filosofiche, che ammisero la sensazione, come l'unica sorgente della umana cogni - 199 - zione. V'ha dunque un doppio senso, che render potrebbe equivoco l'epiteto speri mentale, e però conviene dichiarirlo. Po teva questo convenire privativamente alla dottrina del sensismo, quando sua oppo sitrice era quella degli spiritualisti ideali, i quali escludevano la realità del sensi. Ma dopo che una più sana dottrina ( che è quella del buon senso) è venuta a conciliare insieme i due principi una volta dissidenti; uopo è riconoscere la spe rienza come madre comune della osser vazione, così de fatti esterni, come de gl'interni dell'animo; e l'epiteto speri mentale non indicherà più la dottrina di Locke o di Condillac ; ma sì bene quel la, che collo stesso metodo dell'analisi fisi ca, esamina le operazioni del sensi, del pari che quelle dell'intelletto, e dalle ve rità particolari si fa strada alle generali. V. Analisi. EsPERIMENTo (spee.), ricerca delle qua lità e delle relazioni d'un fatto, per ac certarci della sua verità, o per iscoprirne altri, che dallo stesso dipendono. Nelle scienze naturali chiamasi esperi mento l'operazione che l'osservatore intra prende per iscoprire i fatti riposti della na tura, servendosi d'instrumenti, o di so stanze a tal fine adatte. La decomposizio ne, per esempio della luce e dell'acqua e la loro ricomposizione, sono sperimenti, uno di Fisica, e l'altro di Chimica. EsPREssIoNE (disc.), la manifestazione del pensiero, fatta colla parola, o co se gni propri del linguaggio d'azione. V. Lin guaggio, Parola. In un senso astratto indica una qua lità del discorso o dello stile, e vuol dire vivacità. Così nell'oratoria, chiamiamo espressione la forza del sentimenti esposta con verità, e con discorso atto a commuo vere gli ascoltanti; nell'arte drammatica, l'azione accompagnata da caratteri propri dell'argomento; nella poesia, il verso fa cile e pronto a rappresentare le immagini del poeta; nella musica la corrispondenza tra l'armonia e il sentimento che vuolsi muovere, o imitare ; nella pittura, il sentimento e l'azione dipinti nel volto, e nell'atteggiamento delle figure. In som ma l'espressione, intesa in questo sen so, non è altro che la perfetta imitazione. V. Imitazione. EsquisiTEzzA (prat.), grado di perfe zione, che in qualche cosa si cerca con sopraffina diligenza. - EssENZA (ontol.), il costitutivo delle cose, ed il principio delle loro proprietà naturali. Secondo gli scolastici, è il primo radi cale ed intimo principio delle azioni e delle proprietà, che ad ogni cosa convengono. Secondo il P. Buffier, è la cosa stessa qual'è piaciuto a Dio farla. - Delle tre dinotate definizioni piace più la prima, perchè spiega quel che la cosa è. . L'idea dell'essenza si forma per mezzo della nozione delle qualità d'una cosa, e di quelle precisamente, che non sono de terminate da altre, e che non si determi mano reciprocamente, purchè non sieno ripugnanti e incompatibili tra loro. Per esempio le qualità che formano l'essenza del triangolo equilatero sono, che abbia tre lati e che questi sieno tra loro eguali. Dalla cognizione dell'essenza delle cose risulta necessariamente quella della possi bilità e della immutabilità dell'essenza me desima. L'una e l'altra verità sono una conseguenza del principio di contraddizio me, cioè che non può una medesima cosa essere e non essere nel medesimo tempo. V. Qualità. Locke distinse l'essenza in reale e no minale, e diede il primo nome all'aggre gato di tutte le idee semplici e delle qualità coesistenti, le quali formano il tutto d'una cosa, avendo assegnato il secondo alle qua lità, per le quali noi facciamo la parti zione degeneri e delle spezie; imperocchè soggiunse egli, « nell'uso del comune par dare il vocabolo essenza esprime non il primo costitutivo delle cose, ma il com plesso di quelle tali astrazioni, alle quali si è dato il nome del genere o della spe zie». Cotesta opinione, comechè seguita da altri, debbesi aver come erronea, avendo Locke confuso la definizione coll'essenza. Le definizioni possono essere distinte in no minali e reali, ma non l'essenza, la quale non esprime altra idea, se non quella della possibilità; e però l'essenza si confonde colla definizione reale, perchè questa, al par di quella contiene il concetto della pos sibilità della cosa definita. E per contrario quell'altra sorta di definizione, che spiega la sola convenienza del nome colla cosa, e non il costitutivo della cosa stessa, di cesi nominale. Una in somma è l'essenza, e una la definizione reale delle cose, men trechè posson darsi più definizioni nomi mali. V. Definizione, Possibilità. EssENZIALE (ontol.), quel che necessaria mente appartiene alla natura d'una cosa. Più attributi essenziali d'una medesima cosa (dicevano gli scolastici) sono uniti necessariamente tra loro, e non sono dis solubili per qualunque forza; per modo ehe la mente concependo un di essi, con cepisce la sostanza intera, sebbene non ſdequatamente. Così, l'estensione, la di visibilità, l'impenetrabilità sono attributi essenziali del corpo, e dallo stesso insepa rabili, ma il concetto di ciascun di essi s'identifica con quello del tutto. V. At tributo. EssERE (ontol.), come infinito del verbo sono, vale esistere. Sostantivamente preso, l'esser d'una co sa, è quel che la rende tale e non altra; nel quale significato confondesi spesso col l'essenza. Ma nel preciso senso filosofico, l'essere esprime l'idea della esistenza, e attualità congiunta coll'essenza. - Gli scolastici distinsero l'essere reale dal l'intenzionale o obbiettivo. Chiamaron rea le quel, che è attualmente esistente; e in tenzionale, intelligibile, o obbiettivo l'idea o la forma della cosa, qual'è nel nostro intelletto. Ognun vede esser questa distin zione un resto delle specie intelligibili di Aristotele. V. Specie. Ammisero parimenti gli scolastici una terza spezie di essere, cioè l'esse volitum, o sia l'esser delle cose future o lontane, che per effetto della volontà raffiguriamo come attuale o presente; distinzione inu tile, perchè il semplice nostro concetto non costituisce realità. Essere, applicato a persona, o indivi duo, vale ogni vivente che ha una du rata qualunque di esistenza. a È vocabolo comune alla lingua france se, e dalla stessa improntato, ma neces sario al linguaggio filosofico italiano : è usato dal Segneri e dal Magalotti, - Differisce dall'ente in quanto che si ado pera in senso meno astratto. Vale propria mente un ente dotato di vita, ed esistente; laddove al vocabolo ente dassi un signi ficato astratto, che abbraccia anche il po sibile. V. Ente. º i – 201 - EsrAsi (teol.), spezie di entusiasmo, per lo quale l'anima si astrae da sensi, e concentrandosi nella meditazione, crede, con verità o senza, mettersi in comuni cazione con Dio e cogli spiriti celesti. L'estasi può nascere da dono sopranna turale e non da filosofiche meditazioni. E però, umanamente parlando, va conside rato come affettazione, o come follia. EsTATIco (teol.), chi è assorto nella con templazione per virtù dell'estasi. Non sono mancate alla filosofia le sette degli estatici, tra quali principalmente si distinsero Ammonio, Plotino, Giamblico, Porfirio, Proclo, ed altri molti, i quali empierono il mondo di superstizioni e di falsi portenti. EsTENSIONE (spec. e ontol.), disposizione delle parti della materia, per la quale ella occupa una porzione continua dello spazio, corrispondente alla sua grandezza e figura. L'estensione ha tre diverse dimensioni, la lunghezza, la larghezza, e la profon dità. Essendo queste comuni a tutti i corpi, ne segue che l'estensione sia uno de ca ratteri discernitivi della materia, ed una delle qualità primarie della stessa. V. Ma teria, Qualità. L'idea dell'estensione apre alla mente la cognizione di quel che chiamiamo, re lativamente a noi, mondo esteriore, e da cui ricaviamo l'esistenza necessaria ed illi mitata dello spazio. V. Esteriore, Spazio. È una delle misure della quantità, e serve di misura a se stessa, il perchè ap partiene alla quantità propria. V. Misura, Quantità. -, ESTERIORE e EsTERNo (spec.), tutto quello che percepiamo per mezzo del sensi. È termine di relazione a noi stessi , per distinguere le idee che acquistiamo colla percezione, dalle nozioni che ci vengono dal senso interno e dalla riflessione. E però chiamiamo natura o mondo esteriore l'uni versalità delle cose materiali. La cognizione delle cose esteriori, seb bene ci venga da tutti i sensi, pure si acquista immediatamente da alcuni tra essi, come il tatto e la vista. Son questi i due sensi che ci fanno scoprire l'estensione e la solidità, come primarie qualità della materia : per esse acquistiamo l'idea del luogo, che le cose materiali coesistenti oc cupano nello spazio. La nozione dunque della natura este riore è complessa, ed è formata dalle tre idee della solidità, della estensione, e dello spazio. V. Estensione, Solidità. Riferendosi l'estensione a tutto quel che ci viene da sensi, è stato sovente scam biato coll'apparente. E però dottrina, o sa pienza esteriore fu detta dagli antichi quella che poteva essere insegnata alla moltitudi ne, a differenza della interiore, o riposta, o esoterica ch'era riservata agli eletti o iniziati. V. Esoterico. EsTETICA (crit.), arte critica del senso del bello, secondo alcuni. Secondo altri, tra quali Kant, è l'arte di ricavare dalle sensazioni le anticipate nozioni delle forme. L'uno e l'altro significato son contrari al valor primitivo del vocaboli atoSmois e ato5mux, che significano senso, e sen timento. Tal è il significato, nel quale adoperolli Aristotele nel trattato del senso e delle cose sensibili. I Tedeschi, che sono gli autori di questa nuova denominazione non ricavano l'idea, e le regole del bello dalla sperienza, o sia - 202 - r dalla osservazione de'sensi (nel qual caso vi sarebbe una certa analogia tra 'l nome e l'arte così denominata), ma da cono scenze a priori, che presuppongono tro varsi nella ragione; nel che precisamente sta l'improprietà del vocabolo. Del resto cotesto improprio significato potrà acquistare un valor di convenzione, se l'uso così vorrà. EsTIMATIvA (spec.), la potenza o virtù, per la quale l'anima conosce e valuta l'ob bietto della percezione. V. Obbietto, Per cezione. - º. I nostri italiani, tra quali il Varchi, l'hanno talvolta applicata a bruti, per di sfinguerla dalla cogitativa, ch'è propria dell'uomo. Altre volte l'hanno scambiata coll'immaginativa, o sia ne han fatto un sinonimo improprio di questa, il che dees sere evitato sopra tutto nel linguaggio scien tifico. V. Cogitativa, Immaginativa. - Piace più la distinzione del Varchi, come caratteristica della differenza, che passa tra la ragione umana e quella dei bruti. V. Bruto. EsTIMAZIONE (spec. e prat.), giudizio di cosa conosciuta e considerata. Cotesto vocabolo diviene equivoco nella lingua italiana perchè confonde due signi ficati, che i Latini distinguevano, delle voci existimatio, che voleva dire opinione o giudizio, e aestimatio, che significava valutazione. EsTREMITA'eEsTREMo(spee. dise. eprat.), ha avuto nelle scuole diversi significati, che sono ora di poco uso, tranne che nella filosofia pratica. Estremi metafisici dicevansi i punti di somiglianza, pe quali due cose diverse pa ragonavansi tra loro, come per esempio la neve e la biacca. Gli estremi logici eran di due sorte: la prima era quella degli opposti e dei contrari: la seconda, quella del membri sillogistici. Il predicato e il subbietto chia mavansi estremi per rispetto al termine medio, ch'era tra essi. E però il predicato messo nella prima proposizione dicevasi estremo maggiore, e il subbietto posto nella seconda, minore. Finalmente nella filosofia pratica, l'estre mo è un vocabolo relativo alla estimazione che noi facciamo delle azioni viziose e an che virtuose, e vuol dire un eccesso che trascende la comune misura. Così estremo chiamiamo ogni sentimento esagerato, che toglie alla virtù il carattere della perfezio ne; estremo, l'eccesso del vizio; estremo ancora, un vizio opposto all'altro, come la prodigalità a rispetto dell'avarizia, o la temerità in confronto della viltà. Nel senso di eccesso lo adoperiamo an che logicamente dicendo, che gli assurdi sono gli estremi dell'errore. EsTRINsEco (ontol. spee. e disc.), quel che non appartiene all'essenza o al costi tutivo delle cose. V. Essenza. E però la causa efficiente d'una cosa, o il fine per cui è stata fatta, diconsi dai metafisici estrinseci alla cosa stessa. Oltre questo significato principale ve ne ha altri ad esso affini: estrinseco chia masi ancora tutto quel che entra nella co sa, ma che non era nella sua naturale capacità, come il calore che il fuoco fa entrare in un corpo: estrinseco dicesi an cora l'accidente sopravvenuto alla cosa, o il diverso modo di essere ; il che en tra nel significato della prima definizione. V. Accidente, – 205 - Estrinseci chiaman pure i logici gli ar gomenti presi, non dalla natura del sug getto, ma da casi diversi, come le auto rità, gli esempi, ed altri simili. Cotesti argomenti son quelli che i Greci chiamavano arexya e i Latini assumta. V. Argomento. - EstRo (dise. ), impeto della immagi nazione, che anima il dire de poeti. EsUBERANZA (disc.), vizio del discorso che ridonda di pensieri non necessari al l'argomento. EsULTAzioNE (prat.), il giubilo mani festato con tutti i segni esterni, cioè colla voce, col gesto, e co moti del volto. Corrisponde alla letizia gestiente dei latini. V. Giubilo, Letizia. - . . . ETA' (prat.), parte della durata della vita umana, che si distingue pe graduali passaggi del corpo dalla infanzia alla vec chiezza, ed ha per suo termine la morte. V. Durata. Aristotele (nel libro de vita et morte) partì la vita in tre età; la prima, dell'in cremento delle forze vitali: la seconda, della consistenza loro: la terza, del de crescimento o sia della vecchiezza. Cice rone, pare che la dividesse in quattro, comparando le età alle stagioni dell'anno: Ver enim, tanquam adolescentiam si gnificat, ostenditaue fructus futuros: re liqua tempora detraendis fructibus, et percipiendis accomodata sunt. (de Se nect. c. 19). Ma questa è una similitu dine, più che una partizione; e d'altra parte arbitraria è ogni divisione di tempo nelle cose continuamente mutabili, come la vita; d'onde nacque quel detto di Era clito, cioè che un giorno è eguale a tutto il tempo. - Quale sia la più grata, o la più utile delle diverse età della vita, vedi l'ultima. V. Vecchiezza. ETERE (spec.), fluido aereo leggerissi mo, che per antica opinione del filosofi, occupa tutto lo spazio celeste, dall'atmo sfera in sopra. V. Atmosfera. Non potendo gli antichi fisici concepire, che vacui fossero tutti gl'immensi spazi del cielo; immaginarono che la celeste volta fosse piena d'un fluido aeriforme te. nuissimo, al quale sottostà l'atmosfera; e lo chiamarono etere dal greco ai3sty, che vuol dire accendere o infiammare. In questo concetto i moderni fisici segui rono l'opinione tramandata loro da Greci e da Romani, se non se questi credeſ tero ancora essere l'etere l'elemento del fuoco: aerem amplectitur immensus ae ther, dice Cicerone, qui constat ea al tissimis ignibus. Mutuemur hoe quoque verbum, dicaturque tam aether latine, quam dicitur aer. . . . omnia cingens et coèrcens caeli complexus, qui idem aether vocatur; extrema ora et determi natio mundi, in quo cum admirabilitate maxima igneae formae cursus ordina tos definiunt (de nat. Deor. l. 2. ). Circa la natura e le qualità di cotesto fluido, varie sono state le opinioni demo dermi fisici: taluni l'han creduto un fluido speciale, destinato ad empiere il vacuo, che s'interpone tra corpi celesti: altri se lo immaginarono dotato di tale tenuità, che penetrar potesse nell'aria, e persino ne pori degli altri corpi: altri finalmente gli negarono ogni qualità propria, e sup posero che fosse l'aria stessa, attenuata per effetto della virtù espansiva, di cui è dotata. r I Cartesiani nol chiamarono etere, ma si servirono determini materia sottile, la quale, secondo essi, empieva tutti i va cui decorpi per formare il così detto pieno cartesiano. Newton chiamollo pure spi rito sottile, e talvolta ancora mezzo sot dile ed etereo. - Per verità, diversi fatti sembrano indi care l'esistenza d'un fluido più tenue del l'aria, compreso nell'aria stessa. Imperoc chè, giusta l'osservazione dello stesso New ton il calore si comunica per lo vacuo così prontamente, come per l'aria. Ora una tal comunicazione non può avvenire senza un mezzo, il quale esser dee sottile al se gno da penetrare i pori del vetro. Stabi lito un tal carattere, è facile il dedurne, che lo stesso fluido può penetrare in tutti gli altri corpi, e diffondersi per ogni parte dello spazio, il che appunto forma la qua lità costitutiva dell'etere. Determinata così l'esistenza dell'etere, Newton passò ancora ad investigarne le proprietà. E non solamente credette, es sere lo stesso men denso e più fluido del l'aria, ma più elastico ancora e più at tivo. Dalle quali proprietà dedusse molti fenomeni naturali: dalla pressione di que sto mezzo fece dipendere la gravità decor. pi: dalla sua elasticità, la forza elastica dell'aria, delle fibre nervose e del moto musculare; del pari che la diffusione, la refrazione e la riflessione della luce. L'esi stenza dell'etere sembra alquanto meglio provata dalle sue proprietà, dapoichè le deduzioni di Newton, per quanto sieno verisimili ed autorevoli, non lasciano di essere congetturali. Intanto la filosofia che de'essere modesta così nell'affermare come nel negare i fatti probabili, attender dee dalla sperienza i lumi necessari per for marne un più sicuro giudizio. L'esistenza dell'etere ha acquistato un maggior grado di probabilità dopo la sco verta delle comete, dette di breve perio do, o sia di quelle che compiono in po chi anni il giro loro intorno al sole. Il celebre astronomo Enke, nel calcolare di ligentemente i ritorni successivi della co meta che porta il suo nome, si accorse che la sua orbita andava divenendo insen sibilmente più picciola. Per la spiegazione di tal fenomeno formò egli il concetto di una resistenza, che si oppone alla cometa nel suo cammino, di un mezzo etereo, tenuissimo, sparso uniformemente nelle re gioni dello spazio percorse da quel corpo celeste. La sua ipotesi è stata generalmente ammessa, non potendosi immaginare altra causa, cui possa essere attribuito il cen nato effetto. L'etere filosofico, qualunque sia, non ha nulla di comune con quei fluidi arti fiziali, che la chimica farmaceutica pre para, e che per la tenuità loro sono stati assimilati a quel preteso elemento della natura. ETEREo (erit.), nome dato alle supe riori regioni del cielo, che soprastanno all'atmosfera. E però regno etereo è stato da alcuni denominata quella parte della storia na turale, che abbraccia la descrizione dei corpi celesti, e i fenomeni loro. (V. il disc. prelimin.). ETERNALE (teol.), vale lo stesso, che eterno. V. Eterno. Tale scendeva l'eternale ardore, Onde la rena s'accendea com'esca Sotto focile a doppiarlo dolore DANTE, – 205 - ErERNITA' (teol. spec. e ontol.), esi stenza non limitata da tempo. V. Esisten za, Tempo. La ragione umana non può concepire l'eternità per quello stesso difetto di ca pacità, che le vieta di comprendere l'in finito. In altri termini, della eternità pos siam dire quel che non è, ma non quel che è; dapoichè non altrimenti la concepiamo, che come un contrapposto del temporale e del successivo. V. Infinito, Successivo. Che se dalle diverse gradazioni del tem porale e del successivo volessimo, come per una scala ascendere alla eternità, for meremmo un indefinito nel tempo, simile all'infinito relativo nello spazio. Cotesto concetto sarebbe difettuoso anche nel suo principio, dapoichè presupporrebbe un co minciamento di durazione, il che implica contraddizione colla eternità. V. Durata, Indefinito, Spazio. ETERNo (teol. spee. e ontol.), l'Essere, che ha per sua condizione l'esistenza ne cessaria e non creata. V. Dio, Eternità. In un senso più generico, vale tutto quel, che non è limitato da tempo. ETERocLITo (disc.), voce la quale nella declinazione, nella coniugazione, nelle con cordanze del generi o del numero, o nel reggimento, esce dalle regole comuni e forma a queste eccezione. ETERoGENEo (disc.), quel che è com posto di parti, o di spezie diverse da al tre, cui si compara. È contrapposto di omogeneo. V. Gene re, Omogeneo. ETICA (prat.), la dottrina de'costumi, che fa parte della filosofia morale. V. Morale. ETIMoLoGIA (crit. e disc.), la perfetta conoscenza del significato del vocaboli, ri cavata dall'origine loro. Per origine intendiamo i nomi radicali, la varia inflessione de quali esprime le modificazioni dello stesso significato primi tivo, applicato all'azione, al tempo, alle qualità del subbietti, e a tutte le altre com binazioni del pensiere. Per bene intendere l'importanza dell'arte etimologica, giova formare un giusto con cetto della struttura delle lingue, delle quali tutte, e di ciascuna in particolare, le parole posson essere considerate come individui di diverse famiglie, discendenti da un comune stipite. Stipiti chiamiamo i nomi radicali, del quali il numero può dirsi breve e limitato di rincontro alla mol titudine degli altri vocaboli, che compon gono il dizionario d'una lingua. La ragione della brevità del numero loro è, che essi non possono esser più delle possibili com binazioni de suoni della voce. La sezione o analisi del linguaggio, fatta per mezzo dell'etimologia, riesce as sai più facile nelle lingue antiche, che nelle moderne, perchè queste sono nate non solamente dalla scomposizione delle antiche, ma ancora dalla mistura di altri idiomi, e parlari secondari, il che rende più scabroso il cammino, che mena allo scoprimento delle prime radici de voca boli. Ciò non ostante avviene ne composti delle lingue quello stesso che osservarsi suole negli aggregati delle cose materia li, ne quali è facile discernere l'omoge neo dall'elerogeneo, che a quello tro vasi mischiato. Ora colla stessa facilità si può nelle viventi lingue europee discer nere l'omogeneo delle lingue madri dal l'eterogeneo, che vi ha portato la miscela degli altri parlari. Tal de essere l'ufizio d'ogni buon dizionario di lingua. V. Di zionario. - L'arte etimologica è antica, ma la glo ria di averne fatto una fiaccola della storia e dell'archeologia, è tutta de tempi mo derni, e spezialmente del decimottavo se colo. Ella ha per secoli camminato per una falsa strada , indicataci da Greci , de quali il linguaggio a confessione di Platone e di Aristotele era pieno di bar barici vocaboli. Ciò non ostante, gloriosi com'essi erano della loro sapienza, della civiltà cui erano pervenuti, e della per fezione alla quale i propri scrittori ave vano portato la loro lingua; sdegnarono di guardare intorno ad essi, o di pene trare nel tempo anteriore, e spiegarono se stessi pe propri loro fatti, senza nulla riconoscere dagli altri. Lo stesso cammino tennero i Romani, comechè fossero stati i primi a coltivare di proposito l'arte eti mologica. Al pari de Greci, trascuraron così le prossime e immediate origini del la lingua osca, della sannitica, dell'etrusca, come le più rimote delle lingue celtiche, della egizia, della siriaca, e della feni cia. In somma i Greci e i Latini insieme ignorarono l'archeologia, e chiusero alle età seguenti la via allo studio delle prime origini del linguaggio. - Nel rinascimento delle lettere, l'autorità dedue nominati popoli, che furono gene ralmente risguardati come i soli depositari dell'antico sapere, contribuì a perpetuare lo stesso errore. Le origini delle lingue mo derne furono studiate nella greca e nella latina: i tesori letterari e scientifici che tro varonsi negli autori di quelle due coltissime lingue fecero sprezzare lo studio delle altre: ognuno nelle origini della parola, come in quelle d'ogni altra parte del sapere, ambì l'onore della filiazione de' Greci, o de Romani. l primi, che aperto aves sero la via allo studio delle più antiche lingue del mondo, furon i libri della cri stiana religione. Lo studio della lingua ebraica, e del dialetti dell'antica lingua siriaca, aperse una nuova fonte di eti mologie, nella quale non pertanto gli eti mologisti eruditi corsero a quelle stesse estremità, che son rimproverate a fautori delle greche e delle latine origini. In fine i conquisti fatti dalle nazioni europee nel le regioni dell'Asia inferiore e superiore, le colonie quivi dedotte e il commercio con esse stabilito, avendo ampliato la co gnizione delle lingue ora viventi, delle relazioni di somiglianza tra loro, e delle tracce delle lingue madri, che ciascuna di esse conserva; hanno aperto all'arte eti mologica un larghissimo campo di com parazione, dal che è nata quasi una nuo va arte, che sdegnando il nome dell'an tica, ha assunto quello di Linguistica. Senza usurpare i diritti dell'uso, non pare che il nuovo vocabolo debba soppiantar l'antico, perchè si tratta, non di dare un nuovo nome ad una arte nuova, ma di proscrivere il già ricevuto per puro genio di novità. L'altro che vorrebbesi a quello sostituire, non solamente è meno espres sivo, ma è deforme, perchè non ha fi gura nè viso italiano. La Linguistica è da nostri moderni definita per lo studio comparativo e filosofico delle lingue, della origine, e della filiazione loro. Vediamo che di nuovo, o di più del l'arte etimologica ella contenga! Entrambe versano circa lo studio comparativo delle lingue, per conoscere l'origine delle voci di ciascuna, insieme colle loro derivazioni. Non vale il dire, che la Linguistica ab bracci le origini e la filiazione delle lin gue, e non devocaboli; tra perchè non - 207 - si può andare al generale senza la co noscenza del particolare, e perchè anche l'antica arte etimologica, per mezzo della somiglianza del vocaboli e delle loro ra dici, cercava di scoprire le prime fila del parentado delle lingue, e distingueva tra queste le primitive e originali dalle secon darie. Adoperava ella, è vero, minori dati, perchè aggiravasi tra il cerchio di poche lingue allora conosciute; ma qual ragione di cambiare il nome di un'arte, sol perchè è cresciuto il numero de fatti, so pra i quali son fondate le sue osservazioni? La sola cosa di nuovo che promette la definizione della linguistica, è lo studio comparativo filosofico, e non semplice mente erudito delle origini delle lingue. Noi conveniamo, che il discredito, nel quale era caduta l'arte etimologica, è una colpa degli eruditi, i quali trattato l'ave vano da puri grammatici. Ma domandia mo, se sia ancora questa una ragione suf ficiente per privarla del suo antico nome? Lo scopo dell'arte è rimaso lo stesso, ma si è meglio indirizzato il criterio dell'ar tista. Se ciò bastasse a cambiare i nomi ricevuti delle scienze e delle arti, avreb besi dovuto fare altrettanto della Fisica, della Chimica, e di tutte le altre, nelle quali si è mutato il metodo dell'investi gazione, e dell'insegnamento. Conchiu diamo, che all'arte etimologica sono egual mente necessarie le lingue, e la filosofia: quelle somministrano i fatti, questa il cri terio per giudicarne. Può l'erudito non es sere filosofo, ma l'arte etimologica sarà un instrumento inutile nelle sue mani: non vedrà egli nelle parole le relazioni, che queste hanno col pensiero; non saprà for marsi un giusto concetto del meccanismo di ciascuna lingua; non discernerà le dif. ferenze che passano tra l'una e l'altra; non potrà riportarle alle cause loro; non vedrà in somma nella collezione delle voci d'una lingua, se non una massa di vocaboli, che graveranno la sua memoria, senza verun profitto per le altre sue facoltà, anzi con sicuro loro discapito. E quel che non potrà vedere in una o due lingue, molto meno il vedrà nel paragone di tutte quante prese insieme e per conseguente rimarrà straniero alla vera cognizione delle origini del linguaggio. Per la qual cosa, senza punire l'arte etimologica della perdita del suo nome, e senza introdurre nella no stra lingua un nuovo derivato, contrario alle regole, e all'eufonia delle sue desi nenze; basta convenire, che ella appar tiene non solamente alle arti gramatiche, ma anche alla filosofia della storia ; e che per conservarla nel grado di digni tà, cui ora è salita, fa d'uopo asso ciare la profonda conoscenza delle let tere ad un sopraffino criterio filosofico. V. Filosofia. ETIOLOGIA (crit.), scienza delle cause. E vocabolo adoperato unicamente dalla medicina per esprimere le cause de'morbi, il che fa parte della patologia generale. (V. il disc. prelim.). EroLoGIA (grec. sup.), scienza del co stumi. Il nuovo nome non dice più del l'antico Etica. V. Etica. Superfluo ancora deesi riputare nell'al tro significato, di descrizione delle passioni e delle maniere di alcuno, che i retori le han dato. EroPEA (grec. sup.), dice lo stesso di etologia. Presso i retori dividevasi in etopea pro priamente detta, e in prosopografia, quel la destinata alla descrizione delle doti del l'animo, e questa del corpo. EUDEMoNoLoGIA (grec. sup.), vocabolo per lo quale volevasi esprimere quella parte della filosofia morale, la quale tratta della beatitudine, come premio dell'onesto e per fetto vivere. V. Beatitudine. EvENIMENTo ed Evento (prat.), successo qualunque, che non poteva essere antive duto, e di cui la cagione si cerca dopochè è avvenuto, EvioENTE (spec. e dise. ), quel che è manifesto per intuizione o per dimostra zione. V. Dimostrazione, Intuizione. EvIDENZA (spee. ), certezza manifesta d'una proposizione, cui l'animo presta un immediato assentimento. Essendo l'evidenza una qualità della cer tezza, o per meglio dire, essendo la chia rezza della verità quella che costituisce l'evi denza; ne segue che l'epiteto evidente può convenire a quei generi di certezza, i quali attiransi un assentimento immediato e di rem necessario e universale. E però, se condo la proprietà del vocabolo e la pre cisione del senso filosofico, l'evidenza tro vasi nella sola certezza intuitiva, o che questa nasca dalle sensazioni, o dalla luce de principi e delle prime verità della ra gione. La dimostrazione, la quale conduce la mente alla cognizione di verità dedotte, che ella non può ad un tratto concepire, produce certezza, e non evidenza. Egli è vero che le verità dimostrate, allorchè divengono familiari alla mente, prendono il luogo di assiomi, e ognuno ne conce pisce immediatamente la forza; ma l'atto dell'immediato assentimento de essere rife rito alla prima concezione delle cennate ve rità ; altrimenti l'evidenza diverrebbe un perfetto sinonimo della certezza. V. Cer tezza. Gli scolastici distinsero l'evidenza in ob biettiva e formale, e chiamarono obbiet tiva la certezza, che acquistiamo per mez zo della percezione degli obbietti esterni, quali essi sono, o secondo le loro natu rali qualità. Formale poi denominarono quella che accompagna l'atto dell'intellet to, allorchè è chiaro e distinto. Suddivi sero poi l'evidenza formale in immediata e mediata, attribuendo quella alle verità intuitive, e questa alle dedotte. Altri par tirono l'evidenza in fisica, metafisica, e morale, confondendola interamente colla certezza. In conclusione l'evidenza conviene alle verità intuitive, e la eertezza alle de dotte. V. Intuitivo, Dedotto. EUFoNIA (dise.), gradevole suono della parola. Ogni lingua ha la sua eufonia, la quale nasce non solamente dall'acconcia pronun ciazione delle parole, ma ancora dal rego lare accordo delle sue desinenze. EURISTICA (erit. e disc.), arte che som ministra i metodi più facili per l'inven zione. V. Invenzione. È stata da taluni così denominata quella parte della Logica che tratta de metodi per trovare la verità; siccome logica inven trice è stata chiamata quella parte della cennata scienza, che ci addita come si acquistino le idee o le conoscenze. Lo stesso nome han dato taluni mate matici a metodi generali che facilitano la via alla soluzione del problemi; essendo che l'invenzione, considerata come il pro cedimento istituito dalla mente per giu – 209 – gnere allo scoprimento del vero, non può essere soggetta a regole costanti ed im mutabili. Il nostro Fergola annunziò sin dall'anno 1791 la publicazione della sua arte euristica, la quale contener doveva la sposizione e l'uso del cennati metodi. Di quest'opera fu anche publicato un pro spetto nel 1809, ma essa rimase inedita, e sarà postuma, se uno de più chiari al lievi di quell'illustre matematico manterrà la promessa di farle vedere la luce. Una simile denominazione potrebbe da re la filosofia speculativa ad ogni metodo, che conducesse allo scoprimento della ve rità. I quali significati tutti, essendo per fettamente equivalenti dell'arte d'inven tare o d'invenzione, dimostrano essere l'euristica un pretto sinonimo del voca bolo proprio della lingua, e come tale an drebbe riposto tra grecismi superflui, se non fosse raccomandato dall'autorità di molti gravi scrittori che l'hanno adoperato. EUTIMIA (grec. sup.), che vuol dire si curezza e alacrità d'animo. EUTRAPELLA, o EUTRoPELIA (prat.), an tico grecismo, adottato dagli scrittori ita liani, per esprimere una certa virtù mo deratrice della gioia e del sollazzi, la quale li contiene tra giusti limiti. ExoTERIco (spee. ), nome dato allo in segnamento volgare ed esteriore per con trapposto dell'esoterico, o acroatico. V. que ste voci. 27 - 211 - CLASSI DE' VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA E. FILOSOFIA CRITICA. FILosoFIA spECULATIvA. - Eclettico Erudizione Effetto Esercizio Economia Esperimentale Egoismo Esitazione Elementare Estetica Egoista Esoterico Empirico Etereo Eguale Espansione Empirismo Etimologia Elasticità Esperienza Enciclopedia Etiologia Elementare Esperimento Entomologia Euristica Elemento Estensione Ermetica Elettricismo o Esteriore e Elettricità Esterno VOCI ONTOLOGICHE. Emanazione Estimativa Emenda Estimazione Ecceità Esistere Empietà Estremità e Effetto Essenza Equabile Estremo Eguale Essenziale Equilibrio Estrinseco Elemento Essere Errore Etere l'manazione Estensione Esaltamento Eternità Ente Estrinseco Esaminare Eterno Entelechia Eternità Esatto Evidente Entità Eterno Escogitare Evidenza Esistenza Esempio Evoterico –a12 – , a rosora pisconsiva a 1 , i Eccezione Equivoco Empietà Eguale Eleganza , Elenco Eloquenza , Emenda , i Entimema Entimematico i Enunciazione , Epiceno, Epichirema , Epiteto Equilibrio . . . Equipollente e , Equipollenza , i Equivalente e . Equivalenza, e Esagerare Esatto 1 Esempio Esortazione - Espressione, i Estremità e , Estremo Estrinseco Estro Esuberanza Eteroclito Eerogeneo Etimologia Evidente Eufonia Euristica º i 4 º i ai -. Esaudire Estasi Estatico TEoLoGIA NATURALE. , -- Eternale Eternità Eterno - 215 – FILOSOFIA PRATICA» Eccellente Eccesso Eccezione Efferatezza Effervescenza Egoismo Egoista Eguale Elevatezza Emenda Emozione Empietà Emulazione Enormità Entusiasmo Equabilità Equanimità Equilibrio Equità Equivalente e Equivalenza Eroe Eroico Esacerbare Esagerare Esaltamento - Eutropelia - Esaltazione Esaminare Esanime Esasperare Esatto Esaudire Escandescenza Escusare Esecrare Esempio Esercitazione Esercizio Esitazione Esorbitanza Esperimentale Esquisitezza Estimazione Estremità e Estremo Esultazione Età Etica Evenimento ed Evento Eutrapelia o Etologia Etopea - GRECISMI SUPERFLU1. Eudemonologia Eutimia → • *- ---- ****• • •|- ------ , - - ----**** |-· • . |-• • • · - 215 - I F FAcciA (prat.), la parte anteriore del capo degli animali, dalla fronte in sino al mento. Gli antichi diedero due diversi nomi alla faccia dell'uomo, e a quella degli altri animali; siccome pure nell'uomo so lamente chiamarono mento la parte estre ma del viso sotto la bocca : facies ho mini tantum , caeteris os , aut rostra. (Plin. hist. mat. lib. XI, cap. 51, e 6o). Gl'Italiani han confuso in una queste due denominazioni, comechè convenisse di stinguere con un nome speciale la parte, che è non solamente la più leggiadra del l'umana figura, ma la più caratteristica della sua spezie. In essa la natura ha collocato, insieme cogli aditi ai sensi, gli organi della voce, del canto, e del la parola; in essa, il colorito, il riso, l'espressione del sentimenti e degli affetti; e ha nella simmetrica disposizione delle sue parti, e nelle proporzioni loro riposto i tipi del bello sensibile. E per una pre rogativa, ad altra spezie non comune, ha in alto levato la faccia dell'uomo, e l'ha rivolta al cielo, sua patria. Laonde, non è altra parte del corpo umano, che più della faccia dimostri le attitudini dategli dalla natura per contenere e in se ospitare una sostanza intelligente. Sublimi sono le due descrizioni che Cicerone e Ovidio fe cero della umana figura: Figuram eor porie, dice Cicerone, habilem et aptam ingenio humano dedit: nam cum cae teras animantes abiecieset ad pastum, solum hominem erexit, ad coelique , quasi cognationis domieiligue pristini, conspectum excitavit. Tum speciem ita formavit orie, ut in ea penitus recon ditos mores effingeret; nam et oculi ni mis arguti, quemadmodum animo affe eti simus, loguuntur: et is qui appella tur vultus, qui nullo in animante esse, praeter hominem potest, indicat mores: cuius vim Graeci norunt, nomen omni no non habent (de leg. lib. 1 cap. 9). E Ovidio: Pronaque cum spectent animalia caetera terram, Os homini sublime dedit, coelumque tueri Jussit, et erectos ad sidera tollere vultus (Metamorph. lib. 1. fab. 2. ). Il significato di questo vocabolo quan tunque nel comune uso di parlare si con fonda spesso con quello di aspetto, di viso, di volto e di fisonomia; pure differisce da ciascun di essi per diverse gradazioni, che giova distinguere. V. Fisonomia, Viso, Volto. FacezIA (disc.), detto arguto e piacevole. È diversa dalla celia, che è più volgare e meno dilicata. Cicerone chiama la facezia il condimento così dell'oratorio discorso, come del pri vato conversare; ma nota che il dono della facezia vien dalla natura, e non dall'arte: natura fingit homines et creat imitatores et narratores facetos, et vultu adiuvan te, et voce, et ipso genere sermonie (de Orat. lib. lI c. 54). FAcIEE e FACILITA' (spec. disc. e prat.), quel che si può eseguire con nessuna, o con poca fatica. Gli scolastici dell'ovvia idea del facile formarono un concetto ontologico e astru so, sì che può dirsi aver essi cangiato il facile in difficile. La definizione loro era, modo di dipendenza, per lo quale un ente è prodotto speditamente dalla po tenza d'un altro. Da tal definizione face van essi nascere la dipendenza degli effetti dalle cause. Il difetto di questo, e di al tri simili concetti, era una conseguenza di quel categorico loro sistema, per lo quale volevano ridurre tutte le più ovvie idee di fatto e di esperienza ad altrettante nozioni a priori, come se ne pratici portamenti della vita le verità di ragionamento venis sero prima, e non dopo delle verità di fatto. L'idea dunque del facile e del dif. ficile è comune o sperimentale e non già scientifica, tranne la distinzione tra 'l fa eife naturale, e il facile acquistato. Il ma turale risulta dalla connessione stessa delle cose; nel quale senso facile dicesi ogni fatto, che sia la conseguenza dell'ordina rio corso degli avvenimenti, o delle re gole, che non soffrono eccezione; facile, ogni pensiero, che nasce dalle semplici e comuni relazioni delle idee; facile, ogni discorso, il quale segue il naturale ordine del pensieri. V. Difficile, In questo senso ancora il facile si scam bia molte volte col verisimile e col proba bile, allorchè vuolsi antivedere la possibi lità d'un fatto, d'una dimostrazione, o d'una pruova qualunque; e però dicesi, è facile, ehe un tal fatto avvenga, o che tale opera d'ingegno riesca qual si attende. - e Il facile poi, o la faeilità aequistata si confonde coll'abito, perchè presuppone tanto la conoscenza degli ostacoli che si frappongono tra la causa e l'effetto, quanto la reiterazione delle azioni, per le quali siamo stati soliti di scoprire le relazioni, che nascondevano la connessione de fatti o delle idee tra loro. Per mezzo di questa facilità ci rendiam familiari i principi ei teoremi d'una scienza, e ci apriamo la strada alla invenzione, o allo scoprimento di altre verità ignote, che dagli stessi prin cipi dipendono. Ella è in somma il fon damento dell'abito scientifico; e per l'at titudine che comunica allo intelletto, ha servito di origine al nome di facoltà, dato alle sue potenze. . . . - , - FACOLTA' (spec. e crit.), virtù del pen sare e dell'operare. . . . . , Nelle scuole fu per lungo tempo con fusa la facoltà colla potenza, e la potenza colla possibilità, tanto dell'azione quanto della passione; ma giova alla chiarezza del linguaggio filosofico il dare a due vo caboli facoltà e potenza diversi e distinti significati. V. Potenza. . . . I filosofi chiamarono facoltà e potenze dell'anima le proprietà o attributi, pe quali distinguiamo i diversi atti dell'intelletto e della volontà. Ma per la ragione testè def ta, conviene ritenere il solo vocabolo fa coltà, riservando all'altro quel senso che gli è più proprio, cioè di causa dell'azione. Cotesta precisione di linguaggio non vieta, anzi esige che ritengasi la distinzione del le facoltà in due spezie, cioè le cognosei tive o intellettive, e le atlive. Vuolsi inoltre distinguere le facoltà dalle operazioni, perchè queste esprimono pro priamente gli atti singolari dell'intelletto o della volontà, mentrechè quelle riferi sconsi sempre, alla capacità di produrgli. V. Operazione. . . . . » La nozione della facoltà, prendendo ori gine dalla capacità, che in noi sentiamo, di pensare e di agire; è manifesto, non - - - - - – 217 – essere altro che una pura astrazione da noi formata per comodo del ragionamento e dell'analisi, cui giova soggettare tutti gl'interni fenomeni dell'anima per poter gli meglio esaminare. Laonde potrebbe la partizione delle facoltà essere in certo modo considerata come arbitraria, e relativa al metodo che ciascuno si prefigge; o sia po trebbe essere risguardata come una sorta di categorie, delle quali il più o il meno risguardi l'ordine, e non il fondo della dottrina. Ma pure, prescindendo dalla conside razione, che ogni partizione debb esatta mente corrispondere alle spezie in essa con tenute; è sì stretta la connessione tra l'or dine e i principi d'una scienza, che da gli errori di metodo si passa facilmente a falsi concetti; imperciocchè i difetti del l'ordine e del metodo sogliono nascere da confuse nozioni, che prendiamo come chiare. Oltre a ciò non è cautela che basti per preservarci da un trascorso, a cui l'umana mente è pur troppo inchi nevole, cioè che a forza di risguardare le nozioni astratte, come fondamenta dei suoi ragionamenti, suole di poi passare a considerarle come realità ; e scambian done la natura, le converte in altrettanti enti immaginari, di che le scuole filoso fiche offrono innumerevoli esempi. Ora la partizione delle facoltà, ch'è stata sinora in uso, non solamente partecipa de'cen nati difetti, ma sembra essere troppo an gusta, perchè lascia fuori di se le più im portanti operazioni dell'animo, delle quali l'analisi forma lo scopo principale della psicologia. Platone fu il primo a proporre una par tizione delle diverse operazioni della mente in tre facoltà, la percezione, l'intelletto e la ragione; ma cotesta partizione è re lativa a principi e alle sorgenti dell'umana cognizione, più che alle diverse operazioni dell'intelletto. V. Intelletto, Percezione, Ragione. Aristotele e la sua scuola radicarono nella filosofia le denominazioni di potenze at tive e passive, d'onde nacque una simile distinzione tra le facoltà. Locke non sola mente ritenne il concetto aristotelico, ma per una sistematica conseguenza del prin cipi suoi, derivò la nozione delle facoltà dell'anima dalla sensazione e dalla rifles sione, e non dall'esercizio della volontà. Il cangiamento, che interviene in noi per l'impressione degli obbietti esterni, ci fa concepire, a suo modo di vedere, la pos sibilità, che le nostre idee semplici rice vano un cangiamento per la forza d'un agente; dal che, dicegli, ricaviamo l'idea d'una doppia potenza, dell'attiva che lo produce, e della passiva che lo riceve. Ma come potrebbesi assentire alla mani festa contraddizione che implica il concetto della passività con quello della causa che la produce. La denominazione di attivo nelle facoltà, come osserva Reid, ha un significato di relazione alle cognoscitive o intellettive, e non già al contrapposto dell'azione, che è il passivo. Una potenza passiva equivale ad una potenza impoten te, espressione contraddittoria, e per con seguente capace di generare altre nczioni false o confuse. - Wolfio riconobbe una tale contraddizio ne, ma volle giustificarla per una ragione che non può essere accolta, se pur non si voglia far del linguaggio filosofico un ger go proprio di coloro che coltivano la scien za, o sia una lingua artifiziale la quale con fonda in vece di dichiarire le nozioni sem plici. Le definizioni nominali, secondo lui, essendo arbitrarie, si può dare loro un si. 28 – 218 – gnificato convenuto, senza mancare alle regole logiche; in conferma di che intro dusse nella sua psicologia empirica anche il trattato delle passioni. In somma seguì egli interamente i principi di Locke, e ri ferì tutte le facoltà o a sensi o alla rifles sione, formandone due classi, cioè delle facoltà cognoscitive inferiori e superiori. Nella prima classe comprese la percezio ne, l'immaginazione, la memoria: nella seconda l'attenzione, la riflessione, l'in telletto e le disposizioni naturali. Colesta partizione insieme con tutte le sue deriva zioni cade, tosto che si muti il principio, da cui derivar debbesi la nozione della facoltà. La partizione proposta da Bacone è stata più lungamente ritenuta, ed ha servito di fondamento a quadri genealogici dell'uma na cognizione, dal tempo di lui in sino a quelli di Alambert. I tre tronchi da cui sono stati derivati tutti i rami delle scienze ed arti sono le tre facoltà dell'anima, la ra. gione, la memoria, e l'immaginazione. Ma la ragione stessa è stata dagli antichi distinta in tre diverse facoltà, dalle quali procedono le sue essenziali operazioni, cioè l'apprensione, il giudizio e il ragiona. mento. V. queste voci. Del resto diverso è lo scopo d'una par lizione atta a stabilire la connessione trai diversi rami delle scienze, e il comune loro tronco, da quella che può servire al l'analisi de fatti dello spirito. La moderna filosofia ha stabilito l'osservazione, come lo strumento naturale dell'analisi, e ha ampliato la partizione delle facoltà. Kant ridusse a tre le facoltà dell'anima, cioè la sensibilità, la ragione, e l'intel letto, ma la semplicità di cotesta partizio ne ebbe un compensamento nella molti Plicità delle sue forme. V. Forma. Reid e Stewart hanno considerato come facoltà le più importanti operazioni dello spirito, comechè molte di esse si riferissero ad un principio comune. Stewart sopratutto ha ampliato il catalogo delle facoltà, e dopo averle partite in due classi, consi dera come facoltà cognoscitive o intel lettive - 1.º la coscienza. 2.° la percezione degli obbietti esterni. 3.° l'attenzione. 4.º la concezione. 5.º l'astrazione. 6.º l'associazione delle idee. 7.° la memoria. 8.º l'immaginazione. 9.” il giudizio e il ragionamento; E come facoltà attive, 1.º gli appetiti. 2.º i desideri. 3.º gli affetti. 4.° l'amor di se medesimo. 5.º la cosiddetta facoltà morale, o sia il senso dell'obligazione e del dovere. Quanto alla prima parte di tal partizio ne, noi crediamo, che l'attenzione, l'ap prensione o concezione, l'associazione delle idee, e l'astrazione non possano essere con siderate, se non come altrettante opera zioni della mente, delle quali ciascuna può essere riferita alla volontà, all'immagina zione, e alla riflessione. V. Associazione, Astrazione, Attenzione, Riflessione. Per quel che concerne poi le facoltà at tive, la cennata partizione confonde i prin cipi d'azione colle facoltà, sì che queste diverrebbero tante, quanti sono i motivi che possono determinare o spignere la volontà all'operare. Il moltiplicare le facoltà ha i suoi inconvenienti, de quali non è il mi nore quello di scindere l'unità delle ope razioni dell'anima, che sono per natura - 219 - loro complesse. La stessa partizione con fonde pure le facoltà razionali colle ani mali; dapoichè si tratta di ordinare in classi non già le facoltà corporee o sen sitive, ma solamente quelle che possiamo risguardare come principi delle varie ope razioni dell'anima. Laonde pare a noi più conveniente il separare dalle facoltà i principi d'azione, i quali van meglio considerati come altrettante spinte della ma tura, per determinare la volontà ad es sere operativa. Altrimenti facendo, noi saremmo dall'ordine stesso del discorso obligati di confondere coll'azione gli affetti e le passioni, o sia di ammettere la di stinzione delle potenze attive e passive. Il che se ben si considera, vedrassi essere stato questo l'addentellato o il pretesto, cui i frenologisti si sono attaccati per prendere la divisa di seguaci della scuola scozzese, e per associare Gall e Spurzheim a Reid e Stewart. Infatti i frenologisti, confondendo le facoltà sensitive colle at tive ed intellettive, e subordinando queste a quelle, han ridotto lo spirito a senso, e a puro organismo. E però preferiamo di considerare la volontà, come la sola facoltà che presiede all'azione, e dà all'amima umana il doppio carattere d'una so stanza intelligente e attiva. V. Azione , Principio. Prima di proporre una partizione delle facoltà, la quale servir possa di fonda mento alla psicologia, giova anteporre ta lune considerazioni, utili a contener la mente ne limiti che aver dee l'astrazione, e a non farci oltrepassare lo scopo, che prefiggesi la partizione delle facoltà. 1.° Le operazioni dell'anima son com plesse, e non semplici. L'intelligenza e l'attività non trovansi mai disgiunte, da poichè niuno può volere senza concepire quel che vuole, o può concepire, acqui stare idee, formare nozioni, ricordarsi, o immaginare senza attenzione; nè può far uso della volontà senza la cooperazione della deliberazione, e del giudizio. La co scienza, che è lo specchio dell'anima altro non ci rivela, se non che questa ha una virtù propria, per la quale percepisce, ri flette, giudica, vuole e si ricorda delle conoscenze acquistate. ll voler conoscere le nozioni semplici, delle quali questa virtù è il complesso, è lo stesso che voler cono scere a priori l'essenza dell'anima, o sia il penetrare nel mistero della natura. 2.º La nozione delle facoltà essendo una deduzione della nostra capacità, e questo non essendo altro che la possibilità di agi re, ne segue che le facoltà sono mere pos sibilità dell'azione. E poichè coteste pos sibilità son tante, quante sono le diverse operazioni dell'anima, è manifesto che non possano essere da noi altrimenti con cepute, che come altrettanti modi, o mo dificazioni della virtù intellettiva o attiva dell'anima. 3.° Il concepire diversamente le facol tà, ed il crederle altrettanti parti distinte, dalla combinazione delle quali risulti la virtù intellettiva ed attiva dell'anima, sa rebbe lo stesso che concepirla come un aggregato di diverse sostanze, e per con seguente una sostanza composta, il che ripugna al senso della propria coscienza, la quale la rivela a noi, come semplice, una, e identica. Verissima è la osserva zione di Locke, che il discorrere a questo modo delle facoltà dell'anima, ha fatto in molti nascere la confusa nozione di altret tanti agenti, dotati delle diverse funzioni del comandare, dell'obbedire, dell'ese guire cose diverse; la qual cosa ha pro dotto vane disputazioni, o perniciosi errori. t - 220 – 4.º Gli autori di simili partizioni ne hanno ampliato o ristretto il numero in proporzione de principi di cognizione, che le dottrine loro hanno riconosciuto. Da ciò segue, che molte ne ammettono gli spiritualisti; che un minor numero ne conta la filosofia desensisti, e che a nulla le riducono i materialisti. Così Hobbes le ridusse al solo percepire ed all'immagi mare; ed Elvezio alla sola sensibilità fisica e alla memoria. In mano di costoro scom pariscono le facoltà intellettive e attive, e tutto in noi divien passivo. 5.º Una sana filosofia non può dare alla partizione delle facoltà altro valore, che il considerarla come un instrumento dell'analisi del pensiero. Laonde il voca bolo facoltà non dice altro per noi, se non la sorgente comune delle operazioni dello stesso genere; il perchè il numero loro non de'essere esteso al di là del fine che la scienza si propone, e che la necessità e l'ordine dell'analisi esigono. 6.° Nulla dicesi ora nella filosofia, che non sia stato già detto, comunque dagli stessi principi non si sieno sempre rica vate le medesime conseguenze; nè siesi sempre allo stesso modo veduta la con messione tra fatti della natura e i prin cipi, da quali quelli dipendono. La mo derna filosofia ha cangiato d'ordine e di metodo d'investigazione, ma non di prin cipi; si è spogliata del prestigi delle ipo tesi, ha rifiutato tutte le false o le confuse mozioni, ch'erano nate dalle definizioni no minali delle scuole, ha in somma più ri secato dalla vecchia scienza, che non le ha aggiunto. Il merito, di eui può van tarsi, è l'averla ricondotta sul cammino del vero, seguendo le tracce della ra gione e del comun senso naturale. Non ha dunque il diritto d'innovare, se non per quanto il comportano le nuove retti ficazioni ch'ella propone; che anzi sepa rati gli errori dalle verità, non può rinun ziare nè a lumi del primi pensatori, nè alle osservazioni fondate sulla sperienza della ragione. a 7.° Adattando allo stato attuale della scienza la partizione delle facoltà; siccome noi riconosciamo come elementi dell'umana cognizione, le sensazioni, il senso intimo, e la coscienza, così ne segue che la par tizione delle facoltà dell'anima debba es sere modificata e temperata alla forma dei cennati principi. Crediamo dunque, che la seguente possa soddisfare tutti gli ob bietti delle investigazioni e dell'analisi dello spirito umano. Facoltà intellettive. Percezione. Senso intimo. Coscienza. Riflessione. Giudizio. - Ragionamento. e Memoria. Immaginazione. , Facoltà attive. Volontà. - Senso interno, o facoltà morale. V. queste voci. La cennata partizione non esclude l'ana lisi di tutte le operazioni della mente, che sono da altri considerate come facoltà, ma le comprende come atti semplici, o com plessi, i quali dipendono dall'esercizio di quelle. Facoltà morale è stato detto l'interno senso del vero e del giusto, il quale pre siede alle nostre azioni, e le indirizza al – 221 – fine della natura, e all'ordine morale sta bilito dal suo Autore. Quantunque cotesta facoltà sia varia nel fatto, perchè varie sono le opinioni, le quali determinano le azioni degli uomini, purtuttavolta dobbiamo noi considerarla nei suoi tipi naturali, e quale dovrebbe essere, esclusa l'influenza delle passioni ed ogni causa di errore. La varietà delle opinioni appunto ha fatto credere a molti, che le regole morali non fossero altro che pure verità speculative e razionali, figlie del l'abito e dell'educazione. Ma costoro han no ragionato nella filosofia morale, come nella intellettuale, ammettendo l'esperienza per l'unica sorgente di tutte le umane cono scenze. Se così fosse, noi non sentiremmo alcuna differenza tra l vizio e la virtù, tra l'avarizia e la beneficenza, tra la ferocia e l'umanità, tra la vendetta e la genero sità, tra l'egoismo e la carità, tra la lus suria e il pudore, tra la vanità e la mo destia. Per quanto gli uomini sieno disposti alla indulgenza nel giudicare di se mede simi, non è uomo che non distingua negli altri la virtù dal vizio, che non ami e non ammiri le azioni generose e mobili, e non desideri di sperimentarne per se stesso gli effetti. E per l'opposito non è uomo, che non abborrisca le azioni atroci, e che non arrossisca di avere i mostri di crudeltà a compagni della propria spezie. Tutto ciò dimostra chiaramente, che v'ha de prin cipi nella natura, che l'abito delle prave consuetudini non può distruggere; e che noi, ancor quando erriamo nell'applica zione di essi, non sappiamo e non pos siamo rinegare l'evidenza loro. Nè l'edu cazione, di cui la forza è sì grande, può oltrepassare taluni limiti, che la ma tura stessa ha stabilito come ripari, con tra il poter fattizio degli uomini ; che anzi la pieghevolezza loro all'educazione, considerata come un carattere della natu ra, dimostra l'uniformità di taluni prin cipi primitivi e comuni a tutta la spezie umana. In somma l'immutabilità di tali principi, che furono nelle scuole denomi nati distinzioni morali è fondata nel senso stesso della natura e nella luce della ra gione, dalla quale dirittamente ed imme diatamente riconosciamo la nozione dell'ob bligazion morale e del dovere. V. Di stinzione, Dovere, Obbligazione, Senso. Tal essendo il giusto concetto della fa coltà morale, ne segue che alla stessa deb bansi riferire non solamente le azioni mo rali, ma i principi di quelle, cioè gli af fetti, le affezioni, e tutti gl'istinti razionali, ne quali la natura ci ha dato altrettanti vei coli alle azioni utili per la conservazione del proprio essere, e per lo conseguimento del sommo bene. V. Affetto, Affezione. FAcoNDIA (disc.), spontanea abbondanza di dire. - - È diversa dalla eloquenza, ma n è il fondamento, dacchè senza una naturale facilità, chiarezza, e proprietà di dire non si può divenire eloquente. La facondia in somma viene dalla natura, e l'eloquenza dallo studio. Tral significato di questi due vocaboli passa quella stessa differenza, che i Latini mettevano tra disertus, e eloquens. Cicerone fa dire a M. Antonio, il retore: eum statuebam disertum, qui posset sa tis aeute atque dilucide apud mediocres homines ea communi quadam opinione dieere: eloquentem vero, qui mirabilius et magnificentius augere posset, atque ornare quae vellet, omnesque omnium rerum, quae ad dicendum pertinerent, fontes animo ae memoria contineret (de orat. lib. 1 cap. 2). V. Eloquenza. FALLACIA (prat. spee. e disc.), appa renza di verità, artifiziosamente adoperata, per nascondere il mendacio, o l'inganno. L'artifizio consiste nell'abuso della ve rità, e della buona fede; il perchè la fal lacia, considerata come un mezzo per se stesso vizioso, supera in turpitudine il men dacio e l'inganno. V. Inganno, Mendacio. Cotesto vocabolo è stato ancora adope rato nella filosofia speculativa, per espri mere l'opinion di quelli, i quali osarono rivocare in dubbio la realità di tutti gli obbietti sensibili; e però si è discettato della veraeità o fallacia de'sensi, o sia della stessa natura. I puri sensisti credet tero fedeli i sensi e considerarongli come l'unica sorgente dell'umana cognizione e della verità di tutte le cose. I puri idea listi per contrario risguardarono i sensi, come deboli, infermi, e ingannevoli; e riposero la fonte della verità nelle idee, o sia nel concetti della mente. La sana filosofia non solamente ha fatto scompa rire queste estreme opinioni, ponendosi in mezzo ad entrambe, ma ha stabilito con uno invincibile argomento la realità del criterio della ragione. Fedele e vero è il ministero del sensi esterni, ma ne li miti della loro naturale condizione: vero e infallibile è l'interno senso dell'anima, o sia della coscienza: a questo interno senso è dato il contenere i sensi esterni ne limiti della capacità loro, il giudicare della rettitudine delle sensazioni, il co noscerne gli errori, e il distinguere l'ap parente dal vero. Se la natura ha im presso nella umana intelligenza il mezzo da distinguere l'apparente dal vero, non è assurdo e contraddittorio l'accusarla di fallacia, supponendo che siesi ella servita delle apparenze per nascondere il vero ? V. Apparente. In logica fallacia sillogistica chiamasi quell'argomento capzioso, che con proprio nome dicesi sofismo. V. Sofismo. Le fallacie nel discorso posson provenire o da vocaboli, o dalle idee: quelle dei vocaboli nascono dall'ambiguità denomi, la quale può essere prodotta, o dalla omo nimia, o dall'amfibologia. V. queste voci. Della fallacia poi delle idee è difficile po. ter determinare il numero. Ciò non ostante gli scolastici per amor delle categorie, ri dussero a sette le cause del sofismi, e le de nominarono interrogatio multiplex, elen chi ignoratio, limitatio vitiosa, principi petitio, falea causa, accidens, conse quens. Nel primo vizio cadevasi, quando una quistione unica, che formar doveva il tema della dimostrazione, suddividevasi in più; nel secondo, quando in luogo della pro posizione media, che è il mezzo da giu gnere alla conseguenza, se ne proponeva un'altra affine, nella quale è nascoso l'er rore; nel terzo, se la conseguenza si de rivi dalla proposizione media, ma colla giunta o colla detrazione di qualche pa rola, per modo che la conclusione devii dalla proposizione che formava il tema dell'argomento. Delle altre quattro cause de sofismi, è superflua la spiegazione, perchè note per la sola loro enunciazione. Noi diremo che le cause del sofismi son tante, quante posson essere le ambiguità, per le quali da una proposizione vera si passa ad una falsa conseguenza. FALLo (prat. e spee. ), mancamento commesso contra il giusto, o il vero. Nella scala delle azioni riprensibili espri me il minor grado d'imputabilità, il per chè è meno del peccato, e del delitto. V. queste voci. – 225 – Usato in un senso più generico, espri me ancora l'errore dell'intelletto, avvenuto per difetto di attenzione. V. Attenzione. FALSITA' (prat.), fatto commesso col proposito di mutare la verità. Per non confondere l'effetto dell'azione col concetto dell'animo, o col proposito della volontà, di cui quella è il prodotto; giova riferire la falsità a fatti, e riservare il nome di falso alla causa che li pro duce, comechè nell'uso comune di par lare, il falso, sostantivamente preso, si scambia con falsità. Nella categoria de fatti contrari alla ve rità, conviene distinguere la falsità dal mendacio, che si riferisce soltanto alla pa rola, e può non contenere il proposito di mutare la verità. V. Mendacio. FALso (spee. e disc.), sostantivamente preso, è l'atto dell'intelletto, o sia giudi zio, il quale rappresenta una cosa, nelle sue qualità, diversa da quel che è. Gli scolastici definivano il falso, atto dell'intelletto, che rappresenta una cosa altrimenti di quel che è, per rispetto agli accidenti suoi, e adducevano per ra: gione della limitazione, che se l'errore fosse caduto sopra le qualità essenziali, la cosa sarebbe stata diversa. La restri zione è vera, ma è impropriamente spie gata, perchè l'errore cader potrebbe an che sopra talune qualità essenziali, se non sopra tutte, nella quale ipotesi la cosa ri marrebbe apparentemente la stessa, quan tunque ad essa si attribuissero proprietà ripugnanti alla natura sua. E però va me glio sostituito al vocabolo accidente, l'al tro qualità. V. Accidente, Qualità. Dalla definizione risulta, che il falso, speculativamente considerato è un errore nel giudizio; laddove nelle azioni è un proposito volontario d'indurre altri nell'er rore. Risulta altresì, che cotesto errore è figlio d'un giudizio; d'onde segue, che non può darsi falso nella semplice appren sione, nella quale la mente concepisce, o avverte, ma non giudica. E però le idee, considerate come un fatto semplice dell'animo non possono mai riputarsi false. Le idee son sempre vere, quando il concetto dell'animo abbraccia l'obbietto, qual è. Possono sì bene essere chiare, di stinte o confuse secondo i diversi gradi della nostra comprensione, o dell'atten zione che abbiamo prestato all'obbietto me desimo. Che se il concetto dell'animo fosse erroneo per vizio del sensi; siccome i sensi non sono per natura loro fallaci, così que sta spezie d'errore, che interviene senza cooperazione dell'intelletto o della volontà, non potrebbe chiamarsi falso. V. Giudi zio, Idea. - Logicamente definito, il falso è la di scordanza del nostro giudizio dalle qualità proprie dell'obbietto; siccome per contra rio il vero logico è il giudizio conforme alle qualità dell'obbietto. In altri termini, se il predicato, affermativo o negativo che sia, convenga al subbietto, o assolutamente o sotto una data condizione, il giudizio, e per esso la proposizione che la enuncia, sarà vera; e per l'opposito sarà falsa, se vi sia disconvenienza o nell'assoluto, o nel condizionale. Il falso logico dunque è lo stesso dello speculativo ; e d'ogni pro posizione che affermi o neghi la conve nienza del predicato al subbietto, va detto lo stesso, che abbiamo accennato del giu dizio. Gli scolastici fecero ancora diverse altre distinzioni del falso, le quali tutte en trano in una delle definizioni testè propo – 224 – - ste: chiamarono artifiziale il falso defatti; formale il falso, per rispetto al giudizio dell'intelletto; obbiettivo, per rispetto all'ob bietto di tale giudizio; entitativo, quello fondato sulla apparente somiglianza delle diverse qualità; e finalmente denomina rono falso trascendentale o metafisico quello che interviene circa l'essenza delle cose, sì che vengano a scambiarsi tra loro obbietti, per natura diversi ; denomina zione affatto superflua, perchè secondo i termini stessi della definizione cotesta spe zie di errore, non debb esser compresa tra le spezie del falso. FAMA (prat.), grido onorevole defatti, e delle virtù altrui. - In un senso più limitato, la fama scam biasi colla esistimazione. - E in un terzo significato, addita la pu blica testimonianza d'un fatto, che è da tutti conosciuto. Le tre dinotate definizioni possono essere ridotte ad una sola: la fama è, la voce, o il giudizio della moltitudine , spetta trice defatti e deportamenti di ciascuno de' suoi componenti. Così definita, sottentra la distinzione tra la buona e la cattiva fama, la qual'è predicatrice de fatti biasimevoli, come la buona l'è de lodevoli. E però quei tre si. gnificati altro non sono, che gradazioni o passaggi dal particolare al generale. Noi abbiam detto voce o giudizio della moltitudine, perchè questa può prestare una semplice testimonianza d'un fatto ve duto o sentito da altri, e può ancora co gli elementi delle singolari opinioni che raccoglie, giudicare del merito defatti che tramanda. Ora per ben determinare il valor della fama per rispetto alla credibilità dei fatti che narra, e alla verità del giudizi che pronunzia; uopo è non solamente dichia rare, che s'intenda per moltitudine, ma distinguere altresì i fatti da giudizi, e i fatti presenti da passati. Quanto alla moltitudine, possiamo in questo nome collettivo comprendere o la generalità degli uomini presenti, o un par ticolar numero di persone, idonee a for mare testimonianza e giudizio defatti, ch'essi raccolgono co' sensi loro, e valu tano col proprio criterio. Da quella nasce la fama o il grido volgare; da questa, la sana opinione del publico. Parliamo pri ma della volgare. Due sono gli elementi di tutte le sue conoscenze, le apparenze de fatti esteriori e l'autorità. Le apparenze non vengono a lei per una diretta cognizione, dacchè la moltitudine, al pari d'ogni altra persona collettiva, non ha un proprio organo di visione; nè ha coscienza o identità personale, in cui prin cipalmente è riposto il retto criterio dei sensi. Ella dunque raccoglie solamente per l'udito i fatti percepiti dagli altri, e nel prestare ad essi credenza, deferisce alla autorità di coloro, i quali hanno il potere di farle sentire quel che essi sentono, o vogliono. Tali sono gli elementi della percezione della moltitudine, per rispetto a fatti, che sono intervenuti sotto gli occhi di quelli, di cui toglie a presto le sensazioni. V. Ap parenza, Autorità, Credenza. Ma insieme colle sensazioni la moltitu dine raccoglie i giudizi, le congetture, e le suggestioni di quelli, che le trasmettono la conoscenza de fatti; nel che intervenir suole una doppia alterazione della verità: l'una nasce dalle confuse idee, e dal va rio modo di apprendere deprimi testimoni: l'altra dal personale loro interesse, e dalle st diverse passioni, dalle quali ciascuno è animato : Hi narrata ferunt alio: mensurague feti Crescit; et auditis aliquid novus adjicit auctor. Illie credulitas; illic temerarius error Vanaque laetitia est, consternalique timores. Sin qua abbiam considerato la fama nel suo nascere: consideriamola ora ne suoi progressi. Ella tramanda non solamente i fatti presenti, ma ancora i passati, che ha ricevuto non immediatamente da primi te. stimoni, ma da altri, che da quelli gli ap presero: accompagna cotesti fatti di gene razione in generazione, e diviene secolare, anzi coeva al mondo. Per ogni età, per la quale passa, conservando sempre le impu rità della sua prima origine, non solamente perde qualcuno decaratteri della origina lità, che forse restava della primitiva mar razione; ma si veste de nuovi colori, che le danno i sensi e le fantasie de secondi, del terzi, e di tutti i successivi narratori. I poeti, che l'hanno descritta coll'imma gine d'un torrente, che va sempre ingros sandosi colle torbide onde che in se racco glie, hanno scelto la similitudine la più conveniente alla verità del concetto: i suoi caratteri sono, la levità e l'esagerazione: Mobilitate viget, viresque adauirit eundo. Da lei infatti nacquero le favole, la mi tologia, e la storia incerta delle prime na zioni del paganesimo; da lei, il maravi glioso e l'incredibile, di cui tanto dilet taronsi gli antichi; da lei, forse l'abito delle immagini e delle figure, che con trassero i popoli barbari, e che questi trasmisero a loro successori, i quali vivono come essi di tradizioni, e son rimasi stra nieri alle lettere e alla storia. V. Favola, Mitologia, Tradizione. Cangiamo ora la persona della moltitu dine, e consideriamola composta d'un pic ciol numero d'uomini, idonei a percepire i fatti, che cadono sotto i sensi, e a giu dicare della verità di quelli; supponiamoli scevri d'interesse e di passioni, atte ad in durgli in errore; dotati de mezzi propri per comunicare agli altri, e per trasmet tere a successori le testimonianze e i giu dizi, che avranno maturamente formato. Cotesti mezzi son le lettere e la scrittura, per la quale le opinioni e i pensieri con servano l'originalità e l'identità loro, e passano da una età all'altra, quali furon da prima concepiti e dettati. La fama, che nascerà dall'unanime consenso di que sta eletta moltitudine, porterà seco tali re quisiti di verità, e tali presunzioni d'im parzialità, che niuno potrà negarle fede: ella non avrà alcun de vizi, che rendono sospetta e mendace la fama volgare: la sua autorità sarà equivalente a quella, che meritar potrebbe il detto di molti testimoni concordi, i quali attestassero un fatto da essi veduto, o udito da altri degni di fede. I giudizi che questa fama trasmetterà, na sceranno da un sano criterio, non preoc cupato da veruna passione o errore: nulla detrarrà il tempo alle presunzioni della ve rità loro, perchè la tradizione scritta ne garantisce l'autenticità: l'uniformità infine del consenso di tutte le generazioni, che sono l'una all'altra succedute formerà per essi un invincibile argomento di autorità; per la regola che la prima di tutte le pruo ve del vero, che la sperienza può sommi nistrare, è quella che risulta dalla unifor mità del consenso degli uomini d'un sano giudizio di tutti i tempi, e di tutte le na zioni. Questa è la fama che Cicerone chia mò communis et consentiens opinio bo norum, che è fondamento della storia e 29 – 226 – della certa tradizione; che forma l'esisti mazione degli uomini; che è ricompensa della virtù sulla terra, e fondamento in sieme della vera gloria. V. Esistimazio ne, Gloria, Storia. FANATIco (prat.), uomo trasportato da passione, cui convengono i caratteri del fanatismo. FANATIsMo (prat.), esaltazione dell'ani mo, per eccesso di superstiziosa religione, o di altra passione, coltivata come sacra e meritoria. È più della superstizione, e può anche dirsi, passione di diverso genere. La su perstizione è una falsa ed esagerata cre denza, ma dubbiosa e timida; laddove il fanatismo è animoso, ed audace. Quella inoltre proviene da solo eccesso di religio ne; mentrechè questo può nascere da altre passioni, che un animo trasportato subli ma allo stesso grado d'una religiosa esal tazione. Tali sono i fanatismi di libertà, di servilità, di ambizion di potere, o di gloria, i quali ci portano a odiare, a di sprezzare, e talvolta ancora a perseguitar quelli, a quali attribuiamo una opinione diversa dalla nostra. V. Superstizione. FANTASIA (spec. e crit.), la facoltà dello immaginare, o sia la virtù tanto di ripre sentare le idee passate, quanto di com porne e di fingerne delle nuove. Il significato primitivo, che le ha dato la nostra lingua, è affatto identico a quello d'immaginazione. E se le fantasie nostre son basse A tanta altezza, non è maraviglia: Che sovra'l sol non è occhio che andasse. DANTE Ciò non ostante la varietà del significati, che le dà l'uso comune del parlare è tale, che può tra essi esserne scelto uno, il qua le meglio corrisponda alla etimologia del nome, senza confonderla colla immagina zione; tanto maggiormente, quanto molti chiamano l'immaginazione fantasia, ma non tutti i concetti della fantasia potrebbero essere attribuiti alla sana e retta immagina zione, quale noi la consideriamo nell'uomo ragionevole. - e In fatti fantasia chiamiamo ogni biz zarro e strano concetto; ogni invenzione o poetica finzione; i deliri de sogni, e della pazzia; i capricci e le improvvisate musicali. Fantasia in fine chiamiamo quel l'interno senso del bruti, che presiede alla loro memoria, ed eccita in essi i sogni. Ora non conviene certamente dare lo stesso nome a due facoltà sì diverse, ne bruti e nell'uomo; e molto meno potrebbonsi con fondere le operazioni complesse dell'umana immaginazione, colle fantasticherie de de liranti. E siccome è antica nelle scuole la distinzione tra l'immaginazione sensitiva, e l'intellettiva; così riservando a questa il nome d'immaginazione, chiamerem fan tasia la sensitiva. V. Immaginazione. FANTASIMA (spec. p e disc.),3 immagine o apparenza di cosa, conceputa dalla fantasia. FANTASTICAGGINE e FANTASTICHERIA (spec. e disc.), ogni strano pensiero, che si di scosta dalla comune ragione. FANTASTICARE (disc. e prat.), andarva gando colla fantasia, per trovare o finger cose dilettevoli o strane. Ovvero, stillarsi il cervello con istrane combinazioni del pensiero, e col credere possibile lo straordinario e l'inverisimile, – 227 - È proprio di sregolata fantasia, da cui prende il nome. FARE (prat.), verbo generalissimo, che esprime la virtù operosa di qualunque a gente morale, e però può convenire ad ogni sorta di azione. Il suo significato è tanto ampio, quanto l'operare e l'agire; ma differisce dall'uno e dall'altro in quanto presuppone l'azione se guita dall'effetto; laddove l'agire e l'operare comprendono soltanto l'azione. V. Azione, Operare. - ll fare, al pari dell'agire e dell'operare, ammette per suo contrapposto il patire. Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme, L'un disposto a patire e l'altro a fare Per lo perfetto loco, onde si preme. DANTE. FARMACIA (crit.), parte delle arti me diche, che tratta de'rimedi, e del modo di preparargli. FARMAcoLoGIA (erit.), trattato del rimedi. FARNETICARE (prat.), dir cose fuor di proposito. È proprio de'deliranti per morbo, o per alterata fantasia. V. Fantasia. Fasri (crit.), annali in cui descrivonsi i fatti publici, o le nobili ed eroiche ge ste di qualche illustre uomo. V. Annale. FASTIDIo (prat.), molestia prodotta dalla sazietà di cosa, che si è prima desiderata. È proprio degli alimenti e di tutto quel che può soddisfare gli appetiti animali. In senso traslato si applica alla sazietà del discorso, degli affetti, e delle passioni. In questo senso il fastidio nasce dalla intem peranza del desiderare i beni esteriori del la vita. Qual è l'uomo avido di onori e di agiatezze, cui queste non giungano insipide, e talvolta noiose, per l'abito di possederle? Certamente il possedimento di tali beni non empie e non soddisfa il cuore di alcuno, sì che non creda man cargli qualche altra cosa, ottenuta la quale ritorna al medesimo stato di prima. Nul la è più vero del detto di Seneca: Memo est, cui felicitas sua, etiamsi eursu ve nit, satisfaciat. - Per contrario l'equabilità è la virtù che nella prospera come nell'avversa fortuna contiene i desideri e il dolore, non estolle e non abbatte l'animo, e gli dà la giu sta misura per valutare le apparenze dei beni e demali della vita. V. Equabilità. Il fastidio, quantunque contenga lo stesso sentimento del tedio e della noia, pure espri me spezialmente l'indifferenza per la cosa che si è una volta desiderata.V. Moia, Tedio. FAsro (prat.), pompa di opulenza e di squisito gusto, fatta per desiderio di lode e di onore. - È una conseguenza del profuso lusso, e dello smodato amore delle ricchezze ; e insiememente è una meschina passione, propria di quelli, che non possono per al tra qualità o merito procacciarsi lode. I greci denominarono un pootMoruto le pas sioni di questa natura. Questa alimenta l'or goglio, e ispira il disprezzo per la pover tà, e pel modesto vivere. Inspice, dice Seneca, et disces, sub ista tenui mem brana dignitatis, quantum mali lateat. V. Onore, Orgoglio, Ricchezza. FATALIsMo (spec.), dottrina di coloro, che attribuiscono al fato tutto l'ordine del la natura. V. Matura, Ordine. º FATALIsTA (spec.), chi professa il fa talismo. - FATICA (prat.), l'esercizio della forza del corpo, o delle facoltà dell'anima, che ha per suo scopo un'opera materiale, o intellettuale. La fatica è il carattere costitutivo del l'umana condizione, e diremo ancora di tutti gli animali, a quali la natura non presenta spontanei gli alimenti, e gli al tri mezzi necessari a conservare la vita ; ma dà soltanto gl'istinti per cercargli, All'uomo in segno della superiorità della sua spezie, sono stati dati per coadiutori nella fatica i bruti. - La fatica è diversa dal dolore, come chè sia a questo affine. Cicerone diede dell'una e dell'altro una precisa definizio ne: labor est functio quaedam vel ant mi, vel corporis, gravioris operis et muneris: dolor autem motus asper in eorpore, alienus a sensibus. Haec duo Graeci illi, quorum copiosior est lin gua quam nostra, uno nomine appel lant royoy. O verborum inops interdum, quibus abundare te semper pulas, Grae cia / Aliud est dolere, aliud laborare (Tusc. l. 11. 15.). V. Dolore. FAto (spee.), la concatenazione delle cause naturali, che rende immutabili gli eventi. V. Causa, Evento. È voce presa da Latini, che corrisponde al nostro vocabolo destino. I greci deſi niscono il fato ovvroºts toy baay. Nella filosofia ha due significati: o in tendesi per la concatenazione delle cause, predisposta dalla suprema intelligenza di Dio, o sia per l'ordine delle cose natu rali, in cui tutti gli eventi trovano la loro ragione sufficiente, nel quale significato scambiasi il lato colla Provvidenza, ov vero prendesi come la naturale concate nazione delle cause, nel quale altro senso pure equivale all'eterna ragione di tutte le cose. Cicerone lo definì causa aeterna rerum , cur et ea quae praeterierunt facta sint, et quae instant fiant, et quae sequuntur futura sint. E più ac conciamente Crisippo : sempiterna futu rarum rerum veritas. Nonpertanto, InOra è mancato, tra gli antichi e tra moderni, chi abbia inteso la connessione delle cause naturali nel senso della necessità, o sia di un rigido meccanismo, il quale non riconosce principio nella volontà di qual sivoglia Essere intelligente. Cotesto con cetto, comechè contraddittorio perchè pre suppone una serie di cause seconde non rette da una prima causa, ha pur tro vato luogo nella mente di coloro, i quali veggono la natura nel fatto, e non vo gliono riconoscere nelle sue opere un or dine morale, nè una intelligenza supe riore. È la dottrina propria dell'ateismo o del materialismo, di cui Cicerone fa onore a Democrito, ad Empedocle, a Era clito e ad Aristotele. È una conseguenza necessaria della ipotesi della eternità del mondo, e della sostanza unica dell'uni verso. V. Hpotesi, Mondo, Mecessità , ASostanza, Universo. FATTo (spec. e prat.), ogni cosa che è, o è stata prodotta da qualsivoglia agente. V. Agente. È un derivato di fare, e al pari del verbo suo, è uno di quei vocaboli gene ralissimi, i quali servono in ogni lingua di supplimento alle denominazioni singo lari delle cose. V. Fare. Nel linguaggio filosofico serve ad ordi nare e distinguere i diversi generi di av venimenti e di fenomeni, i quali cadono - 229 – sotto fosservazione desensi esterni, e del l'interno senso dell'anima. Così noi siam soliti raccogliere tutti i cennati obbietti in tre classi generali: 1.º fatti della Divinità: 2.º fatti della natura: 3.º fatti dell'uomo. E in quelli della Divinità e della natura distinguiamo i necessari da contingenti V. Contingente, Mecessario. FATUITA (prat.), assoluta mancanza di discernimento e di giudizio. È più della stoltezza, perchè questa, quando provenga da difetto di natura, consiste in una certa ottusità di mente, più che in una intera privazione di sen no. V. Demenza, Stoltezza. FATUo (prat.), di ottusi sensi. Ha lo stesso significato nella lingua ita liana, che nella latina, e distinguesi dallo stolto per quella differenza notata da Afra mio presso il Forcellini : ego me ipsum stultum esse ea istimo, fatuum esse non opinor; onde il Forcellini fissa così i ca ratteri dello stolto e del fatuo: stultus est obtusis sensibus, fatuus nullis. V. Stolto. FAvELLA. V. Linguaggio. FAvoLA (erit. dise. e prat.), racconto d'un finto fatto, e secondo l'etimologia del nome, volgare o divolgata narrazione. Di questo vocabolo si è formato un nome di classe, nella quale si è compreso tutto il mitologico antico, l'allegorico, il poe tico, l'imitativo, e in una parola tutto quel, che l'immaginazione ha creato, o può creare per somiglianza o per imita zione del vero. Ma conviene distinguerne i generi che la compongono, per bene intendere che abbia ciascuno di comune coll'altro, e che di proprio. Il significato che comunemente dassi alla favola, è di una finta narrazione, che ha per suo ſine o il nascondere la verità, o l'istruire, o il dilettare. In questo senso la favola è un velo, col quale si copre un fatto o un pensiero per renderlo intelligi bile a quelli solamente che sanno solle varne la covertura. Molti dicono essere stato questo il primo scopo della favola, d'onde poi nacque la filosofia, la teologia, e tutto il saper poetico dell'antichità. Ma la prima epoca di tutte le nazioni del paganesimo è interamente coperta dal la favola, e la scienza comune, del pari che la riposta, trovansi oscurate dallo stesso velo. Tradizione, storia, successione di tempi, vite e fatti domestici, tutto è na scoso sotto la densa nebbia della favola. Se questa fosse stata una invenzione di sa pienti, per nascondere le verità troppo lu minose per lo volgo, dovremmo ora avere una parte di archeologia a tutti chiara, quella cioè che contenesse il corso civi le, o apparente delle nazioni. Donde av -viene, che nulla ci resti di quella età, che non sia falso, misterioso, o incerto? Se tutto è favola, conviene dire che que sta abbia una origine più rimota, o pro venga da una causa più generale della prudenza de sacerdoti e de sapienti? E ormai risaputo tra gli eruditi, che la maggior parte delle favole degli antichi riferivansi ad avvenimenti storici. E altresì nota l'antichissima partizione del tre tempi, proposta da Varrone, cioè l'ignoto, il fa voloso e lo storico. Comprendiamo in una classe sola l'ignoto e il favoloso, dacchè la favola non rispetta limiti di tempo, di luogo, o di causa. D'onde è nato che la fa vola preceda la storia? La risposta è facile! La favola nacque presso i popoli, che perduto avevano l'uso de caratteri e della - 250 - scrittura; sì che le azioni e i fatti degli uomini erano affidati alla memoria dei presenti, e alla nuda tradizione della pa rola. La mancanza della scrittura e deca ratteri portava seco il difetto della mi sura del tempo, il quale era distinto per generazioni; e la ricordanza di tal misura riposava egualmente nella memoria devi venti. Costoro ritener potevano i nomi del le generazioni immediate e vicine, ma quando erano obligati di risalire ad epo che più rimote, dovevano per necessità foggiare nomi, o nascondere altrimenti la propria ignoranza. Un'antichità rimo tissima era per essi un tempo indetermi nato e indeterminabile, che dovevano per necessità confondere colle origini del mon do. Nel lungo intervallo in cui i popoli vissero senza lettere e senza scritture, gli avvenimenti memorabili, e le geste degli eroi passavano da padri a figli, ed erano amplificate con tutti i colori del maravi glioso. E quando presso cotai popoli co minciossi ad ergere pietre e moli per tra mandare qualche fatto alle future discen denze, e pensossi di scolpire in esse se gni che lo ricordassero; qualche gerogli fico tutto al più, o qualche figura furono i primi caratteri, de quali essi fecero uso. Alla incertezza dunque della tradizione ver bale si aggiunse ancora l'oscurità e l'am biguità delle figure, o sia de'caratteri reali. Ma alla perfine cotesti popoli acquistarono la conoscenza delle lettere, e comincia rono a fare uso della scrittura alfabetica. Erasi allora già formata una tradizione, ed esistevano rozzi ma antichi monumenti, che ricordavan fatti delle antecedenti ge nerazioni; sì che i primi cronisti o anna listi, che voglian dirsi, cominciarono a tramandare le notizie, che raccolto ave vano dalle popolari dicerie. Per quel che concerne poi la misura del tempo, appena le lettere permisero che si potessero regi strare le periodiche rivoluzioni del sole e della luna, i nuovi cronisti cominciarono ad adattare la misura nuova al vecchio tempo, e ad allungare o ad accorciare la catena delle antecedenti generazioni, come me glio conveniva alla qualità delle loro co noscenze. In somma il tempo favoloso passò nello storico, e formò la base della tradi zione delle nazioni, che dalla barbarie pas sarono allo stato di civiltà. Supponiamo ora, per contrapposto, un popolo, che sin dalla prima origine del mondo avesse avuto lettere e scrittura; è manifesto, che per esso non sarebbe mai cominciata la favola storica, e che la tra dizione scritta del fatti e del tempi, a quali quelli appartenevano, avrebbe chiuso l'adito alle false e incerte supposizioni, nelle quali per necessità eran caduti i popoli che avevano innanzi a se un tempo ignoto. Potremmo quì soggiugnere che un tal con trapposto si è verificato nel popolo che con servò per eredità l'antica e originaria scrit tura del primi popoli asiatici; che cotesto popolo ebbe storia e non favola; ebbe cro nologia generale e particolare, suddivisa per determinato numero di generazioni. Ma noi non dobbiamo ripetere quel che è noto, bastando al nostro proposito l'accennarlo per conferma del nostro assunto, cioè che la prima di tutte le favole è la storica, la quale è nata dalla ignoranza delle lettere, e dal difetto della scrittura alfabetica. Passando agli altri generi della favola, gli eruditi han distinto dalla storica, la favola fi ica, la filosofica, l'allegorica, la morale, la mista, e la dilettevole o giocosa. Quanto alla fisica, ella nacque dalle spie gazioni del fenomeni della natura, fondate – 251 – nelle ipotesi e nelle analogie delle cose sen: sibili. Fu questo il campo delle finzioni, nel quale l'immaginazione prese il suo volo, e fu sì feconda d'immagini, che la poesia ne fece il suo tesoro. Di qua comincia l'età, o il regno poetico, che tinse de colori suoi tutto il resto delle umane conoscenze, e usurpò per sino la facoltà dell'invenzione; dapoichè il fingere e l'inventare divennero una medesima cosa. E a rendere l'imma ginazione più libera e licenziosa contribuì pure il difetto delle lettere e della storia; perchè gli obbietti naturali raffigurati sotto le favole divennero persone, e i loro favo losi nomi scambiaronsi co personaggi sto rici. Di qua la cosmogonia, la teogonia, e la mitologia pagana; di qua la varietà delle dottrine o delle ipotesi, che forma ronsi secondo il diverso gusto de popoli; di qua la miscela di tali dottrine, e l'ad doppiatura denomi de medesimi obbietti, prodotte dal passaggio, che le stesse fa vole fecero da un popolo, o da una lin gua all'altra; di qua in somma il labi rinto dell'antica mitologia, del quale an che i sapienti perderono il filo; per aver la favola inviluppato e la storia e la natura. Non parliamo della così detta favola filo sofica, perchè questa non è diversa dalla fisica. Ognun sa, che il primo nome di filosofia fu dato alla scienza della natura, la quale pretendeva spiegare le origini di tutte le cose visibili e invisibili; sì che di venne la scienza madre della metafisica e della stessa teologia. In un senso solo po trebbesi forse dire che la filosofia speculativa ebbe una favola a se propria, se sotto que sto nome si comprendesse il linguaggio figu rato o allegorico, di cui le antiche scuole fecero uso per nascondere l'insegnamento arcano. Ma impropriamente chiamerebbesi favola il significato apparente d'una dot trina, che il maestro non professa e non riconosce come sua. Sarebbe questa una finzione, o una odiosa impostura senza avere i caratteri della favola. E se si par lasse del senso apparente della mitologia, che nello insegnamento palese o esteriore davasi come vero, non il linguaggio, ma la dottrina era favolosa, e questa era ap punto la favola fisica, di cui abbiamo te. stè parlato. Tutti gli altri generi di favole, cioè l'allegorico, il morale, il giocoso, e di ciamo ancora il fantastico, sono allego rie, similitudini, o imitazioni, le quali po trebbero esser prese dal vero, come dal finto o favoloso. Certamente il finto si pre sta più del vero alle allusioni e alle figure, tra perchè quello è più vario e moltiplice di questo; e perchè l'immaginazione è più libera nei crearlo, e nell'adattarlo alla convenienza del suggetto che tratta. Ma pure i poeti e i pittori traggon al legorie e similitudini da fatti storici; che anzi nella imitazione della natura, l'im maginazione loro è dalle regole dell'arte obligata di prendere per guida la ragione, e di dare al finto le sembianze del vero. Tal è il genere del favoloso, che alimenta la poesia, l'arte drammatica, e tutte le arti imitative, i romanzi, gli apologhi, i conti morali, e le novelle, nelle quali produ zioni il verisimile prende il luogo del vero; e tal è il senso del precetto del grande maestro della moderna arte poetica: Rien n'est beau que le vrai: le vrai seul estaimable. Il doil regner par tout, et méme dans la fable. De toute fiction l'adroite faussetè Ne tend qu'à faire aua yeua briller la veritè. (Boileau Ep. IX). Laonde la favola ha ingrandito, ma non creato il genere delle similitudini e – 252 - delle allegorie; d'onde segue che se quello fosse mancato, non però sarebbe mancata la poesia. L'immaginazione sì bene sareb besi aggirata in un campo più limitato; e se non avesse potuto essere sì svariata e amena, qual'è stata, avrebbe preso un carattere del tutto diverso, quello cioè della severità; carattere che ella in realtà prende in quelle spezie di composizioni, nelle quali la gravità del suggelto, o la nobiltà delle passioni di cui si veste, sono incom patibili colle finzioni e colla favola. Da ciò risulta ancora, esser falso il concetto di quelli i quali definiscono la poesia co me finzione, sol perchè questa le sommi nistra una parte d'immagini, onde arric chire il suo linguaggio. Del resto, conviene non confondere il significato proprio del vocabolo favola coi sensi figurati e metaforici, che gli dà l'uso, sopra tutto del poeti: favola dicesi ogni rappresentazione di fatto vero o finto, che ha il fine di dilettare, o d'istruire: favola è il poema, la commedia, la tragedia, l'allegoria, l'apologo, e la vita stessa, V. Finzione, Poema, Poesia. La mia favola breve è già compita Efornito il mio tempo a mezzo gli anni, PETRARCA. In conclusione la vera origine della fa vola, propriamente detta, dee ripetersi da due ragioni, dalla ignoranza della scrit tura, e dalle ipotesi della filosofia naturale. Quella generò la favola storica; queste la fisica; l'una e l'altra dieronsi la mano, e loro ibrido parto fu la sapienza poetica, che per lunga serie di secoli dominò nel mondo, e fu la madre della teologia e della religione del paganesimo. V. Sa pnenza. sa - a - FAvone (prat.), benefizio che si con cede senza debito di prestarlo. È men di grazia, che è proprio del be nefizio concesso dal superiore all'inferiore. V. Grazia. I nostri scrittori hanno spesso scambiato il favore colla protezione, la quale è men generica. V. Protezione. Fecon vioNe (spee.), operazione della natura, per la quale il germe della ripro duzione si sviluppa nella generazione, così, degli animali, come delle piante. Il modo come si operi la fecondazione è il mistero della generazione. V. Gene 7 (I22072e. FEDE (teol. spec. e prat. ), assenti mento che prestiamo alla testimonianza di Dio, eome dell'Essere che non può ingan nare, nè essere ingannato. V. Testimo-, nianza. Differisce dalla semplice credenza, per chè la fede esclude ogni dubbio, ed è per se stessa un principio di certezza e di co gnizione superiore a tutte le altre. La testimonianza di Dio si manifesta per la rivelazione, di cui è propria la fede, V. Rivelazione. - Lo stesso vocabolo, nel significato che gli dà l'uso comune del parlare, vale ferma credenza in alcuna cosa , ed è proprio dell'assentimento, che prestiamo all'autorità altrui. Ma siccome diversi sono i gradi dell'autorità umana, e questa pro duce probabilità più che certezza; così le due voci fede e credenza possono avere eiascuna un senso proprio, cioè la fede per l'autorità divina, e la credenza per l'umana. V. Autorità, Credenza. Fede in senso morale significa ancora vincolo e obligazione di fedeltà, d'onde – 255 – nascono diversi derivati, che portano lo stesso significato. Vi giuro, che giammai non ruppi fede Al mio signor, che fu d'onor si degno. DANTE. FEDELE (prat.), chi sta alle promesse, espressamente o tacitamente fatte. E in un senso di maggiore perfezione, chi religiosamente custodisce l'obligazione contratta, interiore o esteriore che sia. È proprio di questo vocabolo anche l'esterna dimostrazione della osservanza, nel che differisce dal significato degli altri vo caboli costante, e leale. V. queste voci. FEDELTA' (prat.), l'abito dell'esser fedele. È propria del vincoli, che legano i di pendenti e gl'inferiori a loro superiori, nel quale senso presuppone sempre un'obli gazione contratta, solenne o privata che sia. In ciò differisce dalla costanza, che indica un proposito dell'animo, indipen dente dalla obligazione. V. Costanza. FEDrrA (prat.), è proprio di quella bruttezza e deformità del corpo, la qual produce disgusto. Si applica al morale per dinotare l'av versione e il disgusto che proviamo dal la bruttezza d'un animo depravato. Così l'usiamo nel senso stesso, in cui l'ado prò Cicerone: si turpitudo in deformitate corporis habet aliquid offensioni, quanta illa depravatio et foeditas turpificati ani mi debet videri? (de oſf. c. 3). È uno di quei sinonimi che la nostra lingua prende da latinismi, i quali le co municano nomi perfettamente equivalenti ad altri vocaboli suoi propri. Tali sono quelli di bruttura, di sozzura, e di tur pitudine, che vanno usati nel medesimo senso. V. Turpitudine. - FELICITA' (prat.), durevole stato di go dimento, e di piacere. Ma qual è il piacere che può essere du revole, e quale il bene che può produrlo? La natura ha impresso nel cuore del l'uomo l'amore e l'istinto della felicità: noi cen formiamo un idolo , dietro al quale corriamo tanto nella vita individuale, quanto nella civile: crediamo trovarlo in ogni piacere, che l'immaginazione ab bellisce di lusinghevoli apparenze; e sic come questa ci fa scambiare i veri co'falsi piaceri, così ci fa confondere il piacere colla felicità. Allo stesso modo la società civile chiama sua felicità, l'opulenza, la potenza, la gloria : i suoi rettori ono ramo dello stesso nome la dominazione, la fama, e per sino i frutti della cupi dità e dell'ambizione. E quando da un de siderio passano all'altro, reputano felicità il conseguire la nuova cosa desiderata, ob bliata la prima. Laonde l'idea della feli cità applicata a bisogni e a piaceri della vita sensitiva, non solamente non è dure vole, ma è un'ombra, che si diletta di illuderci, e di fuggirci d'innanzi quando crediamo di tenerla nelle mani. La filosofia, o per meglio dire la ra gione non soffre che il piacere usurpi il nome di felicità, e però distingue l'uno dall'altra. Se la nozione della felicità pre suppone la durevolezza e l'immutabilità del piacere, è manifesto che non possia mo cercarla in tutto quel che di sua na tura è temporale e caduco. Gli antichi molto disputarono intorno alla causa effi ciente della felicità, che essi chiamarono sommo bene, perchè il suo conseguimento non lascia luogo al desiderio di altri beni. 50 – 254 - I filosofi di tutte le scuole unanimemente pensarono, che la felicità non potesse tro varsi se non in quell'interno piacere, che si acquista per la pratica della virtù. Gli stessi epicurei, i quali riponevano il som mo bene ne piaceri e nell'assenza del do lore; dicevano non potersi quello conse guire senza la virtù, e chiamarono virtù la forza che l'animo ha di soggettare alle sue determinazioni il piacere e il dolore. In somma il loro sommo bene, se da una parte supponeva lo stato sano del corpo; richiedeva dall'altra la fortezza e la pace dell'anima. Gli stoici riposero il sommo bene nel retto operare, sprezzato affatto il piacere e il dolor de sensi. I peripatetici disputarono intorno alla qualità del beni, ma al pari degli stoici, riposero nel giu sto e nell'onesto il sommo del loro beni. Una è stata l'opinion della filosofia, per chè uno è il senso della natura morale dell'uomo ; una la voce della ragione e della coscienza. Qual'è dunque la felicità, e quali sono i mezzi per conseguirla ? Prendiamone il concetto e la definizione dalla stessa filosofia del paganesimo: Quid quid ea universi constitutione patien dum est, magno ercipiatur animo ad hoc sacramentum adacti sumus, FERRE IroRTALIA: nec perturbari his, quae vi tare nostrae potestatis non est. in re gno nati sumus: Deo parere libertas est: in virtute posita est vera felicitas: quid haec tibi suadebit ? neguid aut bonum, aut malum existimes, quod nec virtute, nec malitia continget: utsis immobilis, et contra malum ea bono, ut qua fas est Deum effingas. Quid tibi pro hac expeditione promittitur? Ingentia et ae qua divinis : nihil cogeris: nullo indige bis: liber eris, tutus, indemnis e nihil frustra tentabis, nihil prohibeberis. Om nia tibi ex sententia cedent: nihil ad. versum accidet, nihil contra opinionem ae voluntatem. Quid ergo ? Virtus ad vivendum beate sufficit, perfecta illa et divina? Quidni sufficiat? imo superfluit. Quid enim deesse potest extra deside rium omnium posito? Quid eatrinsecus opus est ei, qui omnia sua in se col legit? (Seneca de vita beata c. XV e XVI). FENOMENO (spec.), fatto della natura, quale ce l rappresentano i sensi. È significato proprio dell'osservazione de sensi esterni, ma per analogia e per necessità di linguaggio si applica ancora a fatti osservati dall'interno senso dell'ani mo. Per la qual cosa v'ha due generi di fenomeni: gli esterni che osservano i sen si: gl'interni che scopre la riflessione, e a quali diamo lo stesso nome, perchè li consideriamo come fatti della natura. Ciascuno de due generi può essere sud diviso in tante spezie, quante può sugge rirne la diversità o degli organi conside rati come instrumenti dell'osservazione, o delle qualità de'fatti, che richiamano l'at tenzione dell'osservatore. Così la vista, l'udito, il tatto, l'odorato, il palato han cia scuno i suoi fenomeni ; siccome la filoso fia intellettuale ha pure i suoi. I Fisiologisti distinguono in ogni feno meno cinque particolarità o caratteri, che chiamano costitutivi, perchè necessari alla perfetta cognizion di quelli: l'organo con siderato come principio del fenomeno: l'oc casione eccitante, che determina l'organo a produrre il fenomeno: l'operazione per la quale il fenomeno è prodotto: il fenomeno stesso o sia l'effetto: la causa finale, o sia lo scopo, per lo quale il fenomeno è prodotto. Cotesta partizione può essere ricevuta come utile per l'investigazione della scien – 255 – za, e non come regola d'assoluta veri tà; essendo che i Fisiologisti riguardano come causa l'organo, il quale non è se non il luogo, e diremmo il teatro dove il fenomeno si manifesta. Un tale scambio de'essere ancora risguardato come insidio so, perchè attribuisce all'organo la forza produttrice, e confonde l'organo stesso colla causa del fenomeno, nel che giace il principio del materialismo organico. Quelli che così ragionano, vogliono ve der meno di quel , che videro i fonda tori stessi della notomia e della fisiologia. Erasistrato e Galeno distinsero il principio pensante dalla vita organica, o animale; la quale non fu da essi altrimenti risguar data, se non come un instrumento fatto per somministrare a quello i mezzi del l'azione. Rettificando la partizione de caratteri no tabili in ogni fenomeno, e adattandola tanto a fatti esterni, quanto agl'interni, puossi così stabilire gli elementi costitutivi d'ogni fenomeno: la causa, l'effetto, o sia il prodotto: il mezzo o sia l'opera zione: il fine o sia la ragione sufficiente. V. Causa, Fine, Mezzo. Nell'uso comune di parlare, accettato anche da fisici, per fenomeno s'intende un fatto naturale o morale, di difficile o d'impossibile spiegazione. FERINITA' (prat.), crudeltà propria di animal feroce, e non di uomo. È più della crudeltà, e di tutte le sue gradazioni. V. Crudeltà. FERINo (prat.), qualità d'animo non umano, ma di fiera. FERITA' (prat.), crudeltà di barbaro, o di uomo rozzo e non incivilito. FERMENTAzioNE (prat.), vocabolo pro prio della Fisica e della Chimica, che di nota quello intestino movimento delle parti d'un corpo, per lo quale la natura opera la sua trasformazione, o dissoluzione. Una sorta di calore o di bollore, che sviluppasi dallo intestino movimento delle parti, osservato da prima nella pasta lie vitata, e indi nella alterazione spontanea di molte sostanze; fece dare da Latini a cotesta operazione della natura un nome, che le lingue volgari han poi adottato. La somiglianza inoltre del fenomeni, che osservaronsi nella fecondazione delle pian te e degli animali, nella digestione degli alimenti, e nella stessa putrefazione dei corpi vegetabili ed animali, ne estesero il significato, ed introdussero nella filosofia l'opinione, che la fermentazione fosse l'in strumento unico delle due cardinali opera zioni della natura, la generazione cioè, e la corruzione. V. Corruzione, Generazione. La chimica ha dato lo stesso nome ad operazioni simili, che l'arte procura, met tendo in combinazione tra loro più so stanze che agiscono le une sopra le altre, dalla qual combinazione ottiene, o un nuo vo composto, o lo scoprimento d'un prin cipio attivo, che trovavasi nella composi zione del primi corpi nascoso. Distingue in oltre varie sorte di fermentazioni se condo le diverse sostanze, che queste pro ducono, e specialmente assegna i carat teri e i moltiplici prodotti della fermenta zione putrida. V. Chimica. Siccome dalla fermentazione naturale è nata l'artifiziale; così da questa, per tras lazione di significato, e per una imma gine ricavata dal sensibile, è nata la fer mentazione morale, prodotta dal lievito, o sia dal bollore delle passioni. V. Bol. lore, Passione. º – 256 – FERMENTo (prat.), il lievito, o la ma teria, che produce la fermentazione, di cui prende i vari significati. FERMEzzA (prat.), traslato della solidità e durezza del corpi, che si applica alla stabilità degli atti dell'intelletto, o della volontà. Ridotta in abito, diviene una vir tù, la quale chiamasi fermezza d'animo. La fermezza delle determinazioni del la volontà presuppone una risoluzione pre sa con matura deliberazione; siccome la fermezza nello adempimento degli atti do verosi, è la conseguenza d'una perfetta conoscenza del principi delle proprie obli gazioni. Laonde questo vocabolo ha sem pre un senso lodevole, diverso dalla osti nazione, la quale nasce dal persistere in una determinazione che non vuolsi richia mare ad esame. Differisce ancora dalla durezza, che nasce dalla inflessibilità del temperamento, o dalla tenacità d'un abi to più materiale che razionale. V. Abito, Durezza , Ostinazione. La ferruezza è diversa ancora dalla co stanza, la quale esprime soltanto la per severanza in un proposito, speculativo o pratico che sia, astrazion fatta dalla qua lità lodevole o riprensibile di quello. E però si può aver costanza nel sopportare il do lore o il male anche volontariamente pro eurato o meritato. V. Costanza. FERocIA e FERocrtA (prat. ), crudeltà che ha vinto ogni ritegno di compassione, o dell'altrui biasimo. È più della ferità, e della fierezza. V. queste voci. - FERvENTEzzA, FERvIDEzza, e FERvoRE (prat.), veemenza di affetto, o di pas sione, lodevole o biasimevole che sia. Son traslati del caldo e del bollore pro dotto dal fuoco, e son capaci di buono e di sinistro significato. Nel senso morale non pertanto andrebbero usati fervidezza e fervore, più che ferventezza. FIAMMA (spec.), la parte più tenue e volatile del fuoco. V. Fuoco, FIBRA (spec.), lungo e dilicato fila mento che si ottiene dalla meccanica di visione del tessuti organici, portata insino alle ultime loro parti divisibili. Per molto tempo, e quasi insino a giorni nostri, si è creduto, che la fibra fosse la parte elementare decorpi organici, e per tale considerolla l'illustre Haller, comechè molti grandi notomisti avessero prima di lui conosciuto, essere le fibre muscolari composte di esilissimi tubolini, ripieni di vescichette e di globetti, i quali potevano con maggiore ragione meritare il nome di parti primitive. Ciò non ostante l'opi nione di Haller e de suoi seguaci è durata insino a che le osservazioni microscopiche, e gli sperimenti fisiologici non han dimo strato, che l'ultimo prodotto, cui può giu gnere l'analisi, sono i globetti, che con vertonsi in cellule, e delle quali l'unione forma la prima orditura del tessuto orga nico. Ed una tal conclusione è stata raf fermata, così per l'analisi degli organi de vegetabili, ne quali i rudimenti dell'or ganismo, attesa la maggior semplicità del le loro forme, appariscono più manifesti; come per le osservazioni fatte sopra gli or gani imperfetti degli animali, ne quali, seguendo il graduale loro passaggio dal l'imperfetto al perfetto stato di loro forma zione, scorgesi ancora chiaro l'indicato passaggio. Guardiamoci non pertanto dal credere definitivi gli ultimi prodotti delle – 257 – analisi della materia, e risguardiamoli sol tanto come i punti estremi della linea, che separa il visibile dall'invisibile. V. Cellula, Elemento, Globetto. Ora senza considerare le fibre come parti semplici ed elementari, giova risguardarle come i rudimenti del sistema nervoso, la cognizione del quale spande lume sopra le funzioni del cervello, o sia sull'orga nico meccanismo della vita sensitiva. Le fibre nervose sono i minuti filamenti de quali son composti i nervi, e son quel le che formano la massa del cervello. Da ogni punto di questa sorgon fibrille, che unite insieme compongono la sua sostanza midollare. Le fibrille che nascono dalla parte cor ticale formano la sostanza del cerebro, del cerebello, e della midolla allungata ; e a volta loro le fibrille delle varie parti del cervello formano la midolla spinale. I nervi dunque altro non sono, che unioni e combinazioni di fibre, di cui le radici son tutte rinchiuse in una comune mem brana. A queste radici vanno a finire le impressioni che ricevono i nervi dalle sen sazioni, e son esse per conseguente le de positarie della sensibilità. Per adattarle al ministerio, che è loro destinato, la natura le ha fatte molli, flessibili, elastiche e ca paci di vibrazioni, non meccaniche, ma vitali; di che principalmente faceva uopo, acciocchè le sensazioni, le quali cominciano dall'esterno, fossero prestamente trasmesse alla ultima estremità loro; e potessero nei fenomeni della visione e dell'udito esatta mente adempiere alla comunicazione de gli effetti prodotti dalla luce e dal suono. Siffatte qualità tengon le fibre in uno stato di continuo distendimento e di fles sibilità, mediante la circolazione de'fluidi. Questi mentre le obligano di distendersi, impediscono ch'esse cedano alla forza di contrazione. In questo contrasto di forze appunto è riposta la conservazione e l'at tività della vita. V. Cervello , Mervo. FIDANZA (prat.), sicurezza d'animo nel l'aspettativa d'un fatto che si desidera. È meno della confidanza o confidenza, ed è più della fiducia. V. queste voci. FIDo (prat.), qualità d'ingenua fedel fà, la quale nasce da benigna disposizione dell'animo, più che da abito o da studio. E però ha nel suo significato proprio un che di diverso da fedele. V. questa voce. FIDUCIA (prat.), speranza di conseguire una cosa che si desidera. E men di confidenza. V. questa voce. FIEREzzA (prat.), disposizione alla inu manità, propria del selvatico, o del bruto. FIGURA (spee. e disc.), l'effetto sensibile della estensione terminata di un corpo. È una delle qualità della materia, ed è il mezzo per lo quale ci si rende chiara l'idea del corpi. La figura diviene sensi bile, o per la vista, mediante i colori, o per lo tatto, che fa distinguere i ter mini della estensione del corpo. V. Esten sione, Materia, Qualità. Figura, chiamano i gramatici, ogni maniera di dire, per la quale si orna il discorso, risecando, o trasponendo le pa role che entrar dovrebbero nella costru zione piana del discorso medesimo, o a quelle aggiugnendo altre per sovrab bondanza. La gramatica generale riduce a quattro le figure principali, che sono l'ellisse, il pleonasmo, la sillessi, e l'iperbato. Tutte le altre figure retoriche – 258 – possono essere ad una di queste riferite. V. Costruzione. FIGURATo (dise.), quel che è espresso con figure, o sia con segni, a quali si dà un senso allegorico, o convenuto. Altra volta la filosofia dilettavasi delin guaggi figurati. Ma questi non conven gono se non alle sette. Le sue dottrine es ser debbono publiche, popolari, e non arcane o esoteriche. V. Esoterico. FILANTROPIA (prat.), amor dell'umanità. Quantunque venga da taluni notato, co me un grecismo dottrinale, pure è voca bolo caratteristico di tutte quelle azioni, che non hanno una particolare causa di beneficenza, ma son dettate dal desiderio e dall'amore del bene generale. FILAUZIA (grec. sup.), disordinato amor di se medesimo. FilologiA (crit.), studio o amor delle lettere. Abbraccia la parte del sapere umano, detta ancora erudizione, comechè la filo logia, nel senso che comunemente se le dà, restringasi alla sola cognizione delle antiche lingue. Ma l'erudizione è sì insepa rabile dalla filologia, che non si può dare perfezione nell'una, quando sia disgiunta dall'altra, e ambedue non possono essere divise dal filosofico criterio. V. Erudizione. FILoLoGo (erit.), chi professa filologia, intesa nel suo vero senso. FILOSOFANTE (prat.), chi ostenta filosofia. . FilºsofARE (spec.), attendere allo stu dio della filosofia. FILosoFAccio (prat.), peggiorativo di filosofo. È termine di dispregio. FILosopAsTRo (prat.), filosofo di poco conto e valore. FiLosoFEGGIARE (prat.), dilettarsi di fi losofia. FilosoFETTo (prat.), chi ha pretensione di filosofo. È pure termine di dispregio. FilosofiA (crit. e spec.) lo studio della sapienza. La scienza del vero e del giusto. Il perfetto conoscimento dell'uomo, di Dio, e della natura. La scienza delle divine ed umane cose. La cognizione delle leggi della vita. Di tutte le cennate definizioni la prima è affatto nominale; le altre posson dirsi reali, perchè spiegano, più o men chia ramente, gli oggetti e lo scopo delle va rie parti delle scienze filosofiche. V. De finizione. Del vocabolo filosofia, al dir di Cice rone, fu inventore Pitagora, il quale mutò il fastoso titolo di sapiente in quello di stu dioso, o di amator della sapienza. Ma che è quel, che gli antichi chiamarono sapien za? Da prima fu di questo nome onorata l'investigazione delle cause naturali e delle origini dell'universo: indi fu così deno minata la cognizione del fine e dedoveri della vita: per ultimo abbracciò ella tutte le discipline, le quali tendono a svilup pare e perfezionare le facoltà dell'umano intelletto. I Greci e i Romani la divisero in tre parti: la scienza del costumi: lo studio della natura: l'arte del dissertare. – 259 – Comechè l'uso del comune parlare ab bia perduto di mira l'etimologia della pa rola, e scambia la filosofia colla sapien za; giova non pertanto distinguerle, per chè un significato promiscuo all'uno e all'altro vocabolo confonderebbe quello che è proprio di ciascun di essi: la ricerca e lo studio del vero non può confondersi colla perfetta cognizione del vero stesso. V. Sa pienza. - - Considerata oggi la filosofia come lo studio della ragione e del pensiero, ha ricevuto da moderni una più ampia par tizione. Tre sono i punti intorno a quali aggiransi tutte le speculazioni della men te: l'uomo, Dio, e la natura. Da cia scuno di questi tre obbietti, come da al trettanti tronchi derivano i vari rami del l'umano sapere. Dalla conoscenza dell'uomo nasce la scienza delle sue facoltà intellet tuali ed attive, o sia la filosofia specula tiva e la pratica, dalla cognizione degli attributi di Dio, la teologia naturale; dal lo studio della natura le così dette scienze naturali. A tutte le quali parti della filo sofia presiede quel poter direttivo della ra gione, che assegna a ciascuna scienza, o arte il proprio subbietto, e ne determina i limiti, e lo scopo. Questa è quella parte generale della scienza altra volta detta filo sofia prima, che ora noi distinguiamo col nome di filosofia critica (V. il disc. prelim.). Filosofia dello spirito umano è stato, con nuova denominazione chiamato lo stu dio della psicologia, o della filosofia intel lettuale, trattata da una moderna scuola col metodo analitico. La scuola, di cui in tendiamo parlare è la seozzese, che ri conosce per suo fondatore l'illustre dottor Tommaso Reid. Ricalcando le orme di co stui, Dugald Stewart ha comentato e il lustrato la scienza del suo maestro, e le ha dato il nome di filosofia dello spirito umano. Entrambi sentirono la necessità di ristaurare lo studio della filosofia, dan dole per sue fondamenta le verità intui tive della ragione, e l'analisi degl'in terni fatti dell'animo. Loro scopo fu di sbandire il dogmatismo e le ipotesi della vecchia metafisica; di soggettare a nuova discussione i principi dell'umana cognizio ne; e di farne risultare una dottrina ragio nevole, la quale rispondesse da una parte alle opposte opinioni desensisti e degl'idea listi, e dall'altra resistesse alla perniciosa dottrina dello scetticismo, che aveva per le mani di Hume ricevuto l'ultimo compimen to. Gl'idealisti avevano distrutto l'esistenza del mondo materiale; i sensisti la causa in telligente, la legge e l'ordine morale della natura. Hume ragionando sopra i principi degli uni e degli altri, erasi sforzato di di mostrare, nel trattato della natura uma na, che i sensi ci dan fantasime e appa renze; che la memoria è una facoltà ri produttrice del perpetuo sogno nel quale viviamo, e che il ragionamento si pasce di principi, i quali non hanno altra realità di quella che noi stessi loro concediamo. Gli epiteti di filosofia dello spirito uma mo, o del senso comune furono da due riformatori della filosofia adoperati come contrapposti delle dottrine che abbattevano i principi d'ogni credenza e d'ogni cer lezza. Ciò non ostante i due cennati epiteti, non possono togliere alle scienze intellet tuali il proprio loro nome, e possono tutto al più esprimere una qualità che distin gue l'antica dalla nuova metafisica. For mano in somma un titolo transitorio, utile a indicare comparativamente quel che la scienza era, e quel che è. Servono in fine ad additare l'onorevole posto che i suoi – 240 – riformatori occupar debbono nella storia della filosofia. V. Idealismo, Metafisica, AScetticismo, Sensismo. Filosofia della storia è stato detto lo studio del corso che han fatto le nazioni, ricavato dall'avvicendamento delle cose, che si sono regolarmente succedute. Giam battista Vico, fondatore di questo studio, decorollo col nome di nuova scienza. Po trebbe ella ugualmente dirsi scienza della umanità, o della civiltà, o ancora cri tica della storia, e quando fosse in questo aspetto risguardata, l'argomento del Vico non sarebbe stato nuovo, comechè nuovo apparir possa qualunque argomento nelle mani d'un pensator profondo come lui. Ma è questa una scienza? In altri ter mini, può la sperienza de fatti contingenti acquistare il carattere di scienza? La so luzione di cotesto problema, par che nasca dal determinare se i fatti particolari degli uomini possano dirsi di loro natura varia bili; o se in apparenza variabili, sieno in realtà capaci d'essere da una certa legge determinati ? La quistione ci menerebbe dirittamente all'altra della contingenza, o della necessità delle azioni umane. Per la qual cosa, se lo studio della storia vuolsi dare come la scuola della sperienza, di rettrice del costumi, del gusto, e del sa pere; se per non confondere un tale stu dio nel vasto pelago della critica, vogliasi per mezzo suo formare un criterio speciale, il quale ci faccia meglio conoscere il si mile cammino che gli uomini percorrono, allorchè son collocati nella medesima si tuazione; in somma se si vuol dimostrare, che l'uomo somiglia all'uomo, ognuno la considererà come la più utile parte del l'umano sapere, come quella che reassu me le lezioni della sperienza. Ma se si vuol dare alle azioni degli uomini (indi vidui o nazioni che sieno) una legge eter ma come a fatti della natura; se vuolsi di chiarare necessario uno più che un altro or dine di fatti, ognun vede le conseguenze, alle quali precipitosa correrebbe cotesta fi losofia. E siccome da ogni falso principio puossi logicamente giugnere ad un assur do, così giova additar quello a cui tender potrebbe la recondita sapienza che oggi cer casi scavare dalla storia. Se le nazioni, e l'umanità, debbano in determinate cir costanze trovarsi necessariamente in date situazioni, se il corso della natura morale è regolato da una legge invariabile, come la fisica, sarebbe tolto alla Provvidenza il governo del mondo; il libero arbitrio sarebbe una illusione data all'uomo per coprire i decreti immutabili del fato; la legge morale si troverebbe scritta nell'or dine fisico dell'universo; e le leggi positive non sarebbero più una derivazione di quel la, ma porterebbero soltanto impresso in se stesse la traccia dell'umana o storica sapienza. V. Arbitrio, Legge, Universo. - Frosoncine (prat. ), il correr dietro alle sottigliezze della filosofia. FILosoFISMo (spec. e teol. ), vocabolo nuovo, introdotto dagli oltramontani per esprimere la filosofia inreligiosa. FILosoro (spec.), chi coltiva le facoltà dell'animo, eol fine di acquistare la sa pienza. V. Facoltà, Sapienza. - Il filosofo, secondo Pitagora, è uno spet tatore, nel grande mercato del mondo, il quale vede gli altri correr dietro alla gloria, all'avarizia, all'ambizione; e per se nulla altro riserva, fuorchè la contem plazione delle opere della natura, e la co gnizione del vero. - 241 - FiLosoroNE (prat.), accrescitivo di filo sofo, capace del significato vero, e del l'ironico. FilosoFUoLo e FiLosoFUzzo (prat.), di minutivi e disprezzativi insieme di filosofo. Val povero e falso filosofo. FINALE. V. Causa, Fine. FINE (prat.), la meta dell'azione. V. Azione. - Ogni azione presuppone un fine, sicco me ogni fatto contingente presuppone una causa, o sia un atto della volontà, che l'abbia prodotto. Il concetto dunque che la mente forma del fine, è diverso da quello della causa, comunque il fine possa essere il motor della causa. V. Causa. Ciò non ostante cotesto vocabolo ha nel linguaggio filosofico diversi altri significati, che posson dirsi impropri. Considerato il fine, come un motivo determinante, vien da taluni scambiato colla causa, nel quale senso è un equivalente della causa finale. Considerato poi come lo scopo, cui la vo lontà indirizza l'azione, il fine suol essere risguardato come l'effetto dell'azione stessa. In ognuno dedinotati significati, il con cetto del fine presuppone l'altro del mez zo, che è suo correlativo. V. Mezzo. Le categorie che facevano gli scolastici intorno al fine non erano minori delle al tre loro dialettiche distinzioni. Distingue vano essi il fine dell'opera dal fine del l'operante, il fine cujus da quello detto cui, e il fine ultimo dallo intermedio. Il fine dell'opera sta nella relazione della causa coll'effetto: il fine dell'operante sta nella intenzione di costui: il fine cujus è quello cui corrisponde il mezzo che si adopera: il cui è il mezzo stesso: l'ultimo è quello che non serve ad altro fine, a diversità dell'intermedio o subalterno, che è nello stesso tempo fine, e mezzo. Data l'idea del fine e del mezzo, la mente non ha bi sogno di altre regole per distinguere le cennate differenze. FINEzzA (spec. e prat.), qualità di pre cisione e di squisitezza, che si applica alle opere dell'intelletto. - Vale ancora nelle azioni pratiche, af, fettuosa cortesia. FINITo (ontol.), quel che è capace di accrescimento nella quantità, o nella qua lità. I matematici lo definiscono: quello cui possono assegnarsi i termini, donde comincia, e dove finisce. Ma questa de finizione è prettamente nominale, perchè spiega il nome, e non la cosa. Andiamo alla cosa, e primamente os serviamo, che il vocabolo finito è capace di due significati analoghi, uno nella quan tità propriamente detta, l'altro nelle qua lità di qualunque sostanza o subbietto: in quello esprime una data misura di esten sione o quantità: in questo una misura di potenza, di virtù, o di perfezione. Cotesta differenza è quel che gli scolastici espres sero colla distinzione del finito di esten sione, e del finito di perfezione. Il nu mero e la linea somministrano gli esempi più facili del finito di quantità e di esten sione: qualunque numero coll'addizione di altre unità può crescere insino all'indefi nito : similmente qualsivoglia linea, ag giugnendo sempre ad essa un'altra, può divenire sterminata ; il che può dirsi an cora delle superficie e desolidi. Laonde noi concepiamo il numero, l'estensione, e la materia in generale, come cose finite. Il finito poi di perfezione, si concepisce ad - 242 - un dipresso come quello della estensione, dacchè il più o il meno sono applicabili tan to alle cose concrete, quanto alle astratte. Ogni subbietto o sostanza che si concepisca dotata d'uno o di più gradi di forza, o di altra qualità o virtù, potrebbe averne una maggiore; il che fa, che tutto quel che noi concepiamo come possibile è di sua natura finito. Nè altra è la ragione, per la quale definiamo noi stessi Esseri fini, ti, se non perchè sentiamo che molte per fezioni ci mancano, che posson darsi al tri Esseri più perfetti di noi, e che tale certamente è l'Essere supremo, da cui ri conosciamo l'esistenza e le condizioni che l'accompagnano. Vuolsi in secondo luogo osservare che il concetto del finito è un'idea di paragone con una cosa maggiore; il che è vero tanto nel finito di estensione, quanto in quello di perfezione. Ora questa cosa maggiore, che noi concepiamo come contrapposto del finito, è quel che dicesi infinito, di cui la definizione de essere per necessità l'in versa di quella del finito. Diremo dunque che l'infinito è quel che è incapace di qualunque accrescimento, o quello, cui non possono assegnarsi termini di co minciamento, o di fine. V. Infinito. Domandiamo ora, se il finito sia una negazione dell'infinito, o l'infinito lo sia del finito? Una tal quistione facevasi da gli scolastici, e fu sorgente di molte sot tigliezze. Lo scioglierla giova non sola mente a dimostrare la necessità di schivare i giuochi delle parole, ma anche a far me glio comprendere la nozione del finito e dell'infinito. La stessa quistione, che a prima vista sembrar potrebbe del tutto gra maticale, enunciata in altri termini, ac quista una maggiore importanza, e serve a rischiarare l'astratta mozione di quei due - termini. Concepiam noi prima il finito o pur l'infinito? Alla qual quistione succede l'altra, se l'infinito esista, e se di esso aver possiamo una chiara nozione. Fermia moci alla prima, dapoichè nella seconda non potremmo entrare, senz'aver prima, e nel suo luogo, parlato dell'infinito. . Un termine negativo non è altro, che un vocabolo il quale separa un'idea dal l'altra. L'infinito, che vuol dire non finito o sterminato, non importa altro, se non l'affermazione, che è diverso dal finito ; siccome e converso il vocabolo finito è un'altra affermazione, che esprime essere diverso dall'infinito. L'uno dunque è ne. gativo dell'altro; nè dal considerare un de due come positivo o negativo dell'al tro possiam pervenire a conoscere quale delle due idee sia la prima a nascere nel la nostra mente; sì che alla soluzione di tal quistione dobbiamo andare per altra via. Chi dice, che il finito è diverso dal l' infinito, esprime una idea di relazione tra una cosa minore e una maggiore, e anche, tra una cosa presente e un'al tra non presente, a buon conto dice, questo corpo è minor di quello, o gue sto spirito è men perfetto di quell'altro. Ora le idee di relazione son tra loro con nesse per modo, che l'una non può stare senza dell'altra, o sia che dall'una nasce l'altra. Per la qual cosa la nozione del fi mito e dell'infinito nasce da un atto simul taneo della mente; il che non toglie la priorità dell'idea della esistenza delle cose finite. Noi conosciam certamente le cose, che chiamiamo finite, prima di quel che diciamo infinito, ma l'astratta nozione del finito e dell'infinito la formiamo non pri ma che dal difetto, o dalla imperfezione di quel che ci è noto, passiamo a conce pire l'esistenza del compiuto e del perfetto. - 245 - Da quel che abbiamo sin qua detto ri sulta ancora, che la nozione del finito contenga implicitamente quella dell'imper fetto; e per l'opposito, che l'infinito, co me quello che è incapace di qualsivoglia accrescimento di qualità, o di bontà, è per se stesso perfetto. V. Perfetto. FINzrone (crit. e spee.), l'inventare un fatto, un pensiero, o un sentimento, per cavarne una conseguenza vera, o utile. Tal è il significato proprio che la lin gua italiana dà al vocabolo finzione. E sebbene lo avessimo preso da Latini insieme col suo radicale fingere, pur tutta volta abbiam dato all'uno e all'altro un senso speciale, quando che entrambi ne avevano in quella lingua uno generico. I Latini davano al fingere il significato di forma re, o creare, e per una traslazione lo ado peravano per simulare; laddove noi gli diamo unicamente quello di supporre, e d'inventare di fantasia una cosa che non è. Ciò non ostante la lingua italiana ha conservato al suo derivato finzione una parte del significati latini, i quali corri spondono all'antica, e non alla sua pre sente radice. Cotesta confusione di significati, parte antichi e parte nuovi, è stata cagione della oscura e non esatta definizione, che è stata in fino ad ora data della finzione; ed una tale oscurità ha a volta sua ingenerato con che l'ingannare. Quest'ultima spezie di fine zione si riferisce a mendaci e alle azioni dolose, che la filosofia morale condanna, e le leggi positive puniscono; ma che pur entra nella definizione, la quale abbracciar debbe il genere tutto intero. Ciò non ostante dopo averla compresa nella definizione, la sciamone l'analisi a moralisti, e limitia moci alle finzioni speculative. Noi fingiamo, quando formiamo una ipotesi, o un caso finto, del quale voglia mo esaminare le relazioni, o gli effetti; quando, parlando, prendiamo i segni per le cose significate; quando esprimiamo con figure, con allegorie, e con allusioni i nostri pensieri; quando nella storia fac ciam dire o fare a personaggi storici quel, che conviene al rispettivo loro carattere; quando scriviamo un poema o un dram ma; quando componiamo suggetti ideali; quando per rappresentare il bello, e anche il deforme, raccogliamo ne delineamenti o negli atteggiamenti d'un uomo, d'un animale, o anche d'una pianta i tratti con venienti a caratteri propri di ciascuno. Fin ge in somma tanto la ragione, quanto l'immaginazione: fingono i geometri, gli oratori, gli storici, i poeti, e i pittori. Finge ancora la legge, quando suppone un fatto, comechè avvenuto non sia ; e quando lo interpreta in un senso sempre benigno, quantunque in realtà tale non fosse ; il che chiamasi con proprio nome fusione nelle definizioni della poesia, e di finzione, e presunzione di diritto. Non tutte le arti imitative. Rischiariamo siffatte ambiguità, le quali son comuni a Fran cesi, che pure han tolto a Latini la loro voce fiction, e le hanno dato gli stessi si gnificati che le diamo noi. Niuno finge senza lo scopo di fare ser vire la finzione a qualche cosa, com'è l'istruire se o gli altri, il dilettare, o an parliamo di queste particolari spezie di fin zioni, perchè proprie delle leggi positive, le quali non pertanto entrano ancor esse nella generalità della definizione. V. Fi gura, Ipotesi, Presunzione, Segno. Tutte le divisate spezie di finzioni son tra loro diverse, così per lo scopo che la mente si prefigge, come per la qualità s – 244 - della supposizione. Quanto allo scopo, può questo esser triplice: la ricerca del ve ro, l'istruzione, il diletto. E siccome la ricerca del vero è compresa nella istru zione; così possiamo ancora ridurre a due i fini d'ogni finzione, l'istruire cioè o il dilettare. Ma potrebbe la mente fingere ogni fatto qualunque, e crear fantasime, che non avessero alcuno de tre dinotati fini? Gli scolastici, all'acume de quali nulla sfug gì, esaminarono una tal quistione sotto l'aspetto d'una controversia morale e teo logica, perchè la collegarono colla dottri ma del libero arbitrio. Domandarono essi, se la mente abbia, o pur no, la facoltà di fingere tutto quel che le piaccia; e se negando una tal facoltà, vengasi a negare la libertà della volontà? La soluzione fu, che siccome la volontà si determina per motivi ragionevoli; così la mente non può fingere tutto quel che resiste alla verità nota, o che involve contraddizione. Usciamo ora da termini del caso, e svi luppiamo i principi, che si trovano na scosi nella scolastica soluzione. Ripetiamo, che tranne i dementi, niuno finge senza uno scopo, il quale può essere o la ve rità, o l'insegnamento, o il semplice di letto. Da questa regola non è esclusa la stessa poesia, come che più ardita nel fin gere di tutte le altre arti: Aut prodesse volunt, aut delectare poetae Aut simul et jucunda, et idonea dicere vitae. Ora tanto all'uno quanto all'altro scopo è necessario che la cosa, che si finge, sia possibile. Il geometra, che per la solu zione d'un problema, suppone tirata una linea, o descritta una figura, domanda che si ammetta un fatto possibile, cui non manca altro, se non la realità della esi stenza. Similmente il filosofo, che ragiona, e vuole per induzione, o per argomenti giugnere ad una conseguenza certa o pro babile, de aver cura che le ipotesi, delle quali si serve per trovare la verità, sien tutte possibili; dacchè se supponesse cose, che sono fuori dell'ordine naturale, sco prirebbe subito il punto falso del suo ra gionare. Sin qua basta la sola possibilità. Ma se vogliamo chiamare a parte della fin zione ancora gli altri, è necessario, che questa abbia un altro requisito, cioè che sia credibile, e per essere credibile, uopo è che sia verisimile. L'oratore e il poeta i quali fingono un fatto per cavarne una similitudine o un'al lusione, debbono saperlo presentare in modo, che non abbia nulla di disconve niente al vero; altrimenti non potrebbero essi stabilire comparazioni con cose che niuno sarebbe disposto a concedere come vere, e rimarrebbero fallati nel proposito loro. Cotesta regola è comune al discorso grave e al giocoso, dacchè la finzione per tanto piace, per quanto più riesce in con traffare la verità: - Ficta voluptatis causa sint proxima veris Mee quodeunque volet, poscat sibi fabula eredi. Lo stesso è delle finzioni fatte per muo vere il sentimento degli ascoltanti o degli spettatori; imperocchè noi ci commoviamo e piangiamo all'aspetto del finto come del vero, purchè la corda della pietà sia toc cata all'unisono del nostro cuore; della qual conformità l'oratore e il poeta uopo è, che dieno essi stessi l'esempio. Di qua, il noto precetto, dato da Cicerone agli oratori: negue ad misericordiam addu cetur, nisi ei tu signa doloris tui verbis, – 245 – sententiis, voce, vultu, collacrimatione tizione delle finzioni in quattro generi: il denique ostenderis (de Orat. Lib.ll. C.V.); perfetto, l'esagerato, il mostruoso, e e da Orazio a drammatici e a poeti: Si vis me flere, dolendum est Primum ipsi tibi. - In conclusione la finzione mancherebbe al suo scopo, se supponesse cose non pos sibili e non credibili: la possibilità e la credibilità formano quella verità, che tutti i maestri dell'arte critica e poetica han det to essere il primo e principal requisito delle finzioni e della favola. Ma in che la favola è diversa dalla fin zione? In niente altro, che nel rapporto della spezie al genere. Le spezie della fin zione, che abbiam detto essere diverse per la qualità della supposizione, possono es sere ridotte a due, cioè alla composizione e alla imitazione. Le ipotesi e le figure vengono dalla ragione quando ella vede essere facile il ricavare la verità più dal caso finto, che dal vero: l'immaginazione compone e imita: la composizione e l'imi tazione formano il campo di tutte le arti belle e imitative. Tali sono la poesia, l'arte drammatica, la favola, la pittura, la scul tura, l'architettura. Coteste arti non sono finzioni, siccome sono state da taluni fal samente definite, ma vivono e si nutri scono di finzioni, o sia d'immagini e di figure da queste imprestate. La poesia so prattutto, che è il linguaggio degli affetti e delle passioni, attigne più delle altre dalle finzioni le sue immagini. Ma la re gola a tutte comune è, che la finzione sia calcata sopra i tipi del vero, i quali, sic come abbiam detto, sono la possibilità e la verisimiglianza. V. Arte, Favola, Poesia, Possibilità, Verisimiglianza. Quegli stessi scrittori, che scambiarono la finzione colla poesia, proposero la par il fantastieo. Cotesta classificazione ab braccia più i vizi che le spezie del finto e del favoloso. Lasciando stare il perfet to , che corrisponde alla finzione fondata sopra la possibilità e la verisimiglianza ; gli altri generi comprendono le estremità della fantasia, quantunque anche in que ste, abbiano gli autori di quella parti zione confuso le gradazioni del passaggio dal vero al falso. Imperocchè nel genere dell'esagerato compresero essi il maravi glioso, il quale sebbene esca dalle regole e dalle ordinarie proporzioni della natura; pure ha la sua parte di vero e di bello, che non oltrepassa i limiti della credibilità. Allorchè facciamo intervenire la Divinità ne fatti umani; e quando spieghiamo per la sua soprannaturale potenza tutto quello, di cui non possiamo assegnare una causa sensibile, noi entriamo nel maraviglioso, ma nel maraviglioso credibile, e non so lamente verisimile, ma spesse volte vero. I poemi intorno alla creazione ci descrivono una verità, ornata da immagini, che non possiamo spiegare, ma alla quale prestiamo piena fede. Allorchè noi personifichiamo gli spiriti, l'anima umana, o le sue qualità, e quando ci trasportiamo col pensiero agli obbietti invisibili, che sono al di là della vita, noi entriam pure nel maraviglioso, senza cadere nel vizio della esagerazione. Qual poeta, o quale critico chiamerebbe esagerati i poemi di Omero, e di Virgi lio, perchè fan prendere agli Dei una parte nelle guerre e nelle passioni degli uomini; o la divina comedia di Dante, perchè in questa, come in quelli passano i viventi a visitare il regno demorti? Chi darebbe un simile giudizio de dialoghi de morti di Luciano o di Fenelon? E quì conviene di – 246 – stinguere il maraviglioso desensi da quello della ragione; anzi riserviamo l'epiteto di maraviglioso a quel che sorprende i sen si, e chiamiamo trascendente ciò che è inesplicabile per la ragione. Cotesto tra scendente ha una credibilità tutta propria, la quale è fondata sopra un altro genere di verisimiglianza, che è l'opinione. Le dottrine comuni de popoli, le credenze re ligiose, la civile e volgare mitologia for-. mano il credibile e il verisimile del tempo in cui le cennate dottrine o credenze erano accolte o professate. E però i poeti ei pittori prendono dalla storia, e anche dalla favola il verisimile di quel tempo, quando voglio no descriverlo, o al medesimo alludere. Quanto poi al maraviglioso desensi, seb bene gli obbietti che il poeta o il pittore descrive o imita, si allontanino dalle ordi narie regole della natura; pure non esce da limiti della possibilità, e della comune verisimiglianza. Tal è quel genere di gran dioso, nel quale i pittori, gli scultori, e gli stessi poeti colle descrizioni loro, oltrepas sano le ordinarie proporzioni delle forme umane. La natura ha serbato tra queste una varia misura, adattandola a luoghi, a cli mi e forse ancora alle diverse età del ge nere umano: ha ella creato talvolta uomini di straordinaria grandezza, che chiamiamo giganti: è verisimile ancora, che cotesti esempi più frequenti fossero nel tempo del primo vigore delle umane razze. In con ferma di tal congettura, la storia naturale ci dimostra le ossa di animali d'una straor dinaria grandezza, che non han più alli gnato sulla terra. Tal è l'origine de colossi, che l'arte ha poi imitato, e de quali gli antichi spezialmente si servirono per rap presentare le divinità maggiori, o gli eroi, quando vollero mettergli in un confronto di superiorità col comune degli uomini. La grandezza delle forme per essi fu una espressione figurata della maggior potenza de numi, e delle eminenti qualità degli eroi. Le ombre stesse del trapassati crede vano essi, che ci rapparissero maggiori di quel che erano stati i corpi loro, sic come Virgilio fa dire di Creusa: Visa mihi ante oculos, et nota major inago. Ora chi oserebbe chiamar esagerate le opere de'bei colossi antichi e moderni, come il Giove olimpico di Fidia, l'Apollo di Belvedere, o il Mosè del gran Miche langelo? Diciamo dunque che il maravi glioso non solamente non esce dal vero e dal bello naturale, ma può ancora ap partenere al perfetto, e al sublime. Laonde l'esagerato, va interamente rilegato tra i vizi e non tra le spezie delle arti imitative. L'argomento cresce, quando parliamo del mostruoso e del fantastico. Distinguiamo l'immagine dalla fantasima, e l'immagi nare dal fantasticare. L'uso delle imma gini è regolato dal criterio della ragione, sì che esse formano la più bella parte de gli ornati delle arti imitative; laddove le fantasime dipendono dal capriccio, e non si sottomettono ad alcuna regola. V. Fan tasima, Immagine, La finzione, applicata a pratici porta menti della vita, è capace di due signifi cati, dacchè si può o nascondere il proprio pensiero, o dimostrarne uno per un altro Cotesto doppio senso ha dato origine ai due vocaboli dissimulare, e simulare. Il dissimulare entra nella classe delle azioni libere e indifferenti; e non solamente non contiene vizio, ma può talvolta essere sug gerito dalla virtù che dicesi prudenza: è impropriamente chiamato finzione, dapoi chè è un atto negativo, che equivale alla - 247 – taciturnità e al silenzio. Il simulare per contrario è una pretta finzione, perchè sostituisce un pensiero supposto ad un al tro vero. Ciò non ostante, non acquista il carattere dell'illecito, se non quando è fatto coll'animo di giovarsi dell'errore o dell'inganno altrui; che è quel che può darle la qualità di dolo. V. Dissimulare, Dolo, Simulare. - FisicA (crit.), lo studio della natura, detto dagli antichi, filosofia naturale. La natura e i fenomeni suoi, insino a Galilei a Bacone e a Newton, furono stu diati con un fine e con un metodo assai diversi da quelli, che sono stati di poi in trodotti da quei tre grandi e celebrati in gegni. Prima di essi si vollero spiegare gli effetti per le cause e per le ipotesi: dopo di loro, si sono spiegate le cause per gli effetti, e da questi si è risalito in sino a quelle. Quantunque Cartesio fosse stato il primo, che da fenomeni del moto avesse cercato ricavarne le leggi; pur tutta volta vide la verità nel particolare, e non nel generale, avendo nel suoi principi della filosofia stabilito come regola, che dalle cause conviene dedurre gli effetti, e non dagli effetti le cause. Una massima del tutto opposta stabilì Newton nel suo aureo libro, che porta il titolo di principi della filosofia naturale, avendo dichiarato mere ipotesi tutte le spiegazioni, che non erano dedotte dagli effetti. Questi dunque è stato il vero riformatore dello studio della na tura, e la sua riforma fu operata col solo cambiamento del metodo. Da lui in poi la Fisica ha abbandonato l'investigazione delle cause a priori, ed è divenuta spe rimentale. - · Altra volta la Fisica distinguevasi in ge nerale, e particolare, e questa dicevasi ancora sperimentale. Ma la fisica gene rale era la metafisica de corpi, che cono scer voleva la possibilità, le essenze, le cause, le relazioni, e gli accidenti degli Esseri materiali. Noi abbiam conservato per abito delle scuole le antiche denomi nazioni, ma diamo loro diversi significati. La fisica tutta intera è sperimentale: chia miamo generale quella, che versa circa le proprietà comuni a tutti i corpi: par ticolare l'altra che entra nella disamina delle proprietà speciali de corpi e del loro componenti: le proprietà comuni sono l'estensione, l'impenetrabilità, la divisibi lità, l'inerzia, la mobilità: altre non meno generali, ma per così dire più recondite, perchè richiedono un maggiore studio per esser poste in evidenza, sono la gravità, l'attrazione, la compressibilità, e l'ela sticità: tra le proprietà generali la mobi lità è quella che apre alla mente la co noscenza del moto e delle forze motrici, per le quali perveniamo a spiegare le leg gi, d'onde nasce la possibilità, l'ordine e la uniforme e costante successione dei fenomeni naturali. E però la Meccanica non solamente è la principal parte della Fisica generale, ma è il fondamento di tutte le altre scienze fisiche. Suo scopo è lo spiegare i fenomeni del corpi, che sono in istato di movimento, o di ten denza al moto; il determinare la misura delle forze, la velocità decorpi mossi, le resistenze loro, l'equilibrio che può risul tare, tanto dalle dette resistenze, quanto dal concorso e dalla composizione di più forze, applicate o ad un medesimo punto, o ad un sistema di punti diversi. Abbrac cia ella ancora ogni sorta di moto rettili neo, o curvilineo, e qualunque forza acce leratrice o motrice, il vapore, le pressioni defluidi liquidi o aeriformi; potendo ancora essere applicata a valutare gli effetti di qualunque altro agente della natura. Parli di questa scienza sono, la Statica, che, versa circa i corpi duri, i quali sono in istato di equilibrio; l'Idrostatica che trat ta dell'equilibrio de'corpi fluidi; la Dina mica che si occupa del moto de corpi duri; l'Idrodinamica, che risguarda il moto del le masse liquide. Riducendo in due classi generali le scienze che risguardano il moto La ſisica generale prende ancora il no me di fisica matematica, perchè senza il concorso e l'aiuto della geometria e del calcolo non potrebbe valutare nè spiegare i fenomeni, i quali dipendono dalla mi sura della quantità. Per tale concorso la meccanica è stata denominata, ora mate matica mista in considerazione dell'appli cazione che facevasi degli astratti principi della quantità a fenomeni naturali, e ora de corpi solidi, e de fluidi, si assegnano, fisica matematica in grazia della necessa oggidì i primi alla Meccanica, e i secondi alla Idraulica. V. Idraulica, Meccanica. Altra parte delle scienze del moto e della Fisica generale, è la Meccanica celeste, la quale ci spiega le leggi del moto, che regolano il corso periodico degli astri, ed è con particolar denominazione chiamata l'astronomia geometrica. V. Astronomia. Appartiene finalmente alla fisica gene rale anche l'Acustica, la quale versa circa quella particolare spezie di moto, che ma nifestasi nelle vibrazioni del corpi sonori. Suo obbietto è lo spiegare il fenomeno del suono prodotto da quelle vibrazioni, le quali passando a traverso dell'aria atmo sferica, o di altro fluido compressibile ed elastico, vengono a ferire l'esterne mem brane dell'udito. V. Acustica. Quanto poi alla Fisica particolare, ver sando ella circa le proprietà speciali dei corpi, abbraccia in primo luogo lo studio de'fenomeni prodotti dalla varia azione, che esercitano su corpi i fluidi imponderabili, come il calorico, l'elettricità, il magne tismo e la luce; ed in secondo luogo la Chimica e la Fisiologia, delle quali l'una discende insino alla investigazione delle molecule de corpi d'ogni sorta ; e l'altra svolge il tessuto e l'economia della vita sen sitiva e animale decorpi organici. V. Chi mica, Fisiologia, Fluido. ria associazione di ambedue quelle scienze. liteniamo questa seconda denominazione come più generica, e più atta insieme a comprendere la meccanica celeste, cono sciuta col nome di astronomia geometrica. (V. il disc. prelim.). Fisico (crit.), addiet. Tutto quel che appartiene alla natura, o alla scienza fisi ca. V. Fisica. Si adopera ancora in signifieato di cor poreo o materiale, nel quale senso ha per suo contrapposto il morale. V. Morale... FISIoGRAZIA (grec. sup.), il poter della natura, -,- - FISIoGNOMONIA (erit.), arte di conoscere le qualità intellettuali e morali dell'uomo per la ispezione del delineamenti del viso. Vuolsi distinguere quest'arte dall'altra più antica di congetturare le qualità del l'animo da tratti e dalla disposizione della fisonomia. La così detta fisiognomonia ri conosce per suo primo autore il dotto me dico e notomista olandese Pietro Camper (n. nel 1724 e m. nel 1789), il quale pretese misurare e graduare la perfezione dell'intelletto per mezzo d'un angolo ch'ei chiamò faciale. Cotesto angolo formavasi da una linea, che dal vertice scende verso – 249 – la radice del naso, e da un'altra orizzon tale tirata dall'orecchio, che veniva con quella a scontrarsi. L'angolo di novanta gradi era per l'autore l'indice della per fezione. Le pruove della veracità di tal mi sura furono da lui ricavate dagli esempi del bello delle greche fisonomie più, che dal perfetto intellettuale e morale. Ma il suo assunto era altresì fondato sopra una falsa supposizione anatomica. La linea ver ticale sarebbe caduta ad angolo retto sopra l'altra orizzontale, se massima fosse stata la protuberanza dell'osso frontale, la qual protuberanza era da lui data come una pruova del maggiore sviluppamento dei lobi anteriori del cervello. Ora è dimostrato tra motomisti, che la protuberanza dell'osso frontale non sempre corrisponde a quella del cervello, perchè la distanza che inter cede tra due tavolati del cranio è varia, d'onde segue che varia è pure la capacità de seni frontali. Non v'ha dunque una naturale corrispondenza tra l'esterne pro tuberanze del cranio e le interne del cer vello. In somma, il sistema di Camper fu un preludio di quello di Gall, che apparve alquanti anni più tardi. V. Cranio, Cra niologia, Cerebro. - FisioGRAFIA (grec. sup. ), descrizione della natura. FisIoLoGIA (crit. e spee.), scienza del l'organismo, e della economia animale. È parte della fisica, detta particolare, ed è la scienza madre di tutte le arti me diche, perchè somministra loro la cogni zione delle leggi, le quali presiedono alla economia, o sia alle funzioni vitali, na turali, o animali di tutti gli Esseri orga nici, dotati di vita. Chiamansi vitali le funzioni che dipendono dalla sana costi tuzione del cuore, devasi sanguigni, e del polmone: naturali quelle degli organi nu trimentali: animali, quelle del cervello, de nervi e degli organi delle sensazioni. Tutte le cennate funzioni son da questa scienza considerate quali esse sono nello stato di perfetta sanità, che è lo stato nor male della vita; d'onde poi ricava le sue regole generali intorno alla economia del la vita, così sensitiva, come vegetativa, e animale. La teorica formata con tali regole è quel che taluni han denominato biologia. V. questa voce. Abbracciando ella i fatti e le leggi na turali, relative alla formazione, e alle funzioni di tutti gli Esseri dotati di organi e di vita; prende il nome di fisiologia generale, di cui son considerate come parti la fisiologia umana, o antropologia, la comparata o sia quella degli animali inferiori all'uomo, e la filologia, nome speciale, dato alla cognizione dell'orga nismo delle piante, e dell'economia de gli Esseri dotati di sola vita vegetativa. I fatti, sopra i quali fonda i suoi ragiona menti le sono somministrati dalla noto mia generale, dalla comparata, e dalla fitotomia, che è la notomia delle piante. (Disc. prelim.). V. queste voci. La fisiologia è stata da alcuni filosofi sensisti risguardata come uno studio pre paratorio della psicologia; e da materia listi è stata con essa confusa e identificata. Non neghiamo l'utilità che può questo stu dio apprestare alla psicologia, facendole chiaramente distinguere i fenomeni delle sensazioni, e il meccanismo, per lo quale la natura porta gli esterni obbietti alla co noscenza dello spirito. Ma non può altresì negarsi, essere stato il medesimo perni zioso per tutti coloro, i quali preoccupati da una dottrina sistematica, o dal falso 52 – 250 - spirito della filosofia, non han saputo, o voluto distinguere due ordini di fatti tra loro diversi, i sensitivi cioè, e gl'in tellettuali. Cotesti fatti son tanto diversi, quanto non hanno e non possono avere verun punto di contatto tra loro. Ciò non ostante, dal perchè la sensibilità è ripo sta me nervi, i quali portano le impres sioni ricevute in sino al cervello; e dal perchè, per la sensibilità sviluppasi l'in telligenza, conchiusero i materialisti che l'intelligenza e tutte le facoltà dell'animo stanno ne nervi. Una tal dottrina fu spinta tant'oltre, che la psicologia fu considerata parte della zoologia; che le facoltà dell'anima anda ronsi cercando nelle protuberanze del cra nio e del cervello; e che delle due scienze, la fisiologia e la psicologia, ne fu fatta una sola, col nome di frenologia. Tali sono l'estremità alle quali son corsi i mo derni materialisti, per aver confuso i fatti della sensibilità con quelli della intelligen za. V. Cervello, Cranio, Frenologia, Psicologia. FisioLogistA (spec.), nome dato a quei filosofi, che han portato nella fisiologia lo studio della psicologia. FISIoLoGo (spec.), chi coltiva la fisiologia. FIsIoNoMIA e FIsoNoMIA (erit.), arte di congetturare le qualità dell'anima da li neamenti, e dall'aria del volto. Come arte congetturale, somministra se gni e indizi verisimili delle interne dispo sizioni dell'animo, spezialmente per lo mo vimento degli occhi, che ne sono lo spec chio. Cotest'arte ebbe credito presso i Gre ci, i quali la denominarono fisiognomia; e fu spezialmente trattata da Aristotele, come un'arte che dicifera i segni, dalla natura impressi in ogni spezie di animali, a guisa di altrettanti caratteri delle quali tà, che sono loro proprie. Presso i moderni Giambattista Porta pretese rinnovare que si arte ne libri della umana fisiognomia, de quali molto giovossi il Lavater ; sic come il Porta erasi giovato depensieri di Aristotele e de suoi comentatori Polemone e Adamanzio. In somma dalla influenza delle affezioni dell'anima sul corpo, e dalle differenze caratteristiche delle diverse parti del corpo, pretese il Porta ricavare i se gni cognoscitivi del carattere morale de gl'individui. Roberto Fludd inglese, coe taneo di lui, insiem con tutte le arti mi steriose, coltivò nel medesimo senso la fi. siognomia. Dopo di costoro Lavater nei saggi fisiognomonici ed altri tornarono a trattar della fisonomia e del volto come indice delle qualità, o almen di certe di sposizioni dell'animo; il che può essere ammesso per vero, senza pretendere di trovare regole d'una certa e determinata corrispondenza tra le forme materiali, e quelle dello spirito e della intelligenza. Chi può dubitare, che nel movimento e nello sguardo degli occhi non si vegga la pietà, l'ira, o la tristezza? Che nel moto stesso delle ciglia e della fronte non si legga la modestia, o l'arroganza? Che il colore del volto non annunzi il pudore? Che il moto delle labbra non manifesti la disposizione dell'animo all'allegrezza, o alla mestizia? I passaggi che il volto fa da uno decennati movimenti all'altro op posto, sono altrettante tinte o gradazioni de due manifesti segni stabiliti dalla ma tura nel volto dell'uomo, il riso, e il pianto. . D'altra parte, chi potrà negare che spes so le più belle forme esterne nascondono – 251 - la fierezza e l'inumanità, e che per con trario la più pura e candida virtù alber ghi ne più deformi corpi? V. Volto. FirocRAFIA (grec. sup.), la descrizione delle piante, la quale non può separarsi dalla Botanica e dalla Fitologia. FroLocIA (crit.), scienza delle piante, nel quale generico significato sarebbe un addoppiatura del nome botanica, comu nemente ricevuto, e potrebbe anche dirsi un grecismo superfluo. - º In un senso meno ampio si adopera per denominare la fisiologia del vegetabili, la quale giova che sia distinta dalla gene rale, e dall'antropologia. FitoNoMAToTECNIA (gree. sup.), barba rismo, per lo quale si è voluto da taluni recenti scrittori denominare l'arte di im porre i nomi alle piante. - FIroToMIA (crit.), la notomia delle piante. FloRILEGIo (crit.), scelta di amene com posizioni. E vocabolo perfettamente equivalente ad antologia, dacchè contiene la stessa cosa espressa ora con due voci greche, e ora con due altre latine; e per conseguente è un di quei sinonimi, che ci vengono dalle nostre lingue madri. (V. il disc. prelim.). FLUIDITA' (spec.), lo stato del corpi, che chiamiamo fluidi. - Si considera come il contrapposto della durezza e della solidità. V. Durezza, Flui do, Solidità. FLUIDo (spee.), corpo di cui le parti son libere e indipendenti tra loro, e però muovonsi in ogni senso per qualunque pic ciola pressione. Lo stato di fluidità è l'opposto della so lidità, quantunque la partizione de corpi in solidi e fluidi nasca da un concetto più comune, che scientifico. Tra la soli dità, la mollezza, e la fluidità la natura ha messo una tale gradazione, che non si può assolutamente risguardare la soli dità, o la fluidità, come una delle due condizioni necessarie di tutti i corpi. Se la cennata comune partizione s'intendesse in un senso rigoroso, resterebbero fuori dell'una e dell'altra classe i liquidi viscosi, le polveri, i corpi molli, i quali più o meno partecipano della solidità e della flui dità insieme. La distinzione non pertanto delle due cennate classi è fondata non solamente so pra una verità di senso, che possiamo prendere a guida nell'analisi del fenomeni propri dell'uno o dell'altro stato, ma an cora sopra la verità della causa, da cui nasce, tanto la differenza del solido e del fluido, quanto la gradazione tra essi. Que sta causa è la forza della coesione, di cui il massimo grado produce la solidità, e l'infimo la fluidità. Scelgansi gli estremi dell'una e dell'altra, e facciansi da essi rappresentare le rispettive loro classi, il granito, e l'acqua pura. Niuno potrà non ravvisare una differenza caratteristica tra l'uno e l'altra, e ciascuno riconoscerà la necessità di andare con altri nomi spie gando gli stati intermedi tra quello e que sta. V. Coesione. La perfetta fluidità dell'acqua è provata dall'esatto livello della sua superficie, al lorchè è in riposo; a differenza de fluidi viscosi e delle polveri, le quali possono stare in riposo sopra una obliquità più o meno grande. Una tal differenza nasce, º – 252 – dacchè le molecule perfettamente libere e disunite non possono stare in equilibrio alla superficie, se questa non è perfetta mente orizzontale, o per meglio dire per pendicolare alla direzione della forza di gravità in ogni suo punto. Parlando dunque dell'acqua pura, co me del perfetto fluido, noi siamo soliti considerarlo come il primo agente della natura, o sia come l'instrumento princi pale, per lo quale si operano la compo sizione e la trasformazione de corpi solidi; come l'elemento necessario alla vita degli animali aquatici, terrestri, e volatili; co me il principio fecondante della vegeta zione; e come il motore e l'instrumento insieme delle arti e della industria dell'uo mo. A differenza della materia solida, la natura genera, e fa nascere l'acqua sotto i nostri occhi, ne forma i mari, i fiumi ei laghi; e non è in questa parte delle opere sue men grandiosa, varia, e ammirabile, che nelle altre produzioni dell'universo. E però non è scienza o arte, in cui non en tri per qualche parte lo studio del fenomeni e delle proprietà dell'acqua. La geologia osserva l'andamento de suoi corsi, e gli effetti delle sue infiltrazioni per conoscere come fu il mondo plasmato: la geografia, per circoscrivere le grandi masse d'acqua, che circondano la terra, o che scorrono per la sua superficie: la Fisica generale, per ispiegare le leggi del moto e dell'equi librio de fluidi: la chimica per conoscere i componenti dell'acqua insieme colle pro prietà di questi; la fisiologia per applicarle alla economia del corpo umano. Infine le arti tutte fanno dell'acqua quello stesso moltiplice uso, che ne ha fatto la natura. Qual maraviglia, che l'antica Filosofia spe culativa la quale cercava d'investigare l'es senza di tutte le sostanze naturali, avesse preteso ancora conoscere la causa della fluidità ? I democritici pretendevano, che gli ato metti i quali compongono i fluidi, doves sero essere lisci e rotondi, siccome cel dice Lucrezio: Illa autem debent ea levibus atque rotundis Esse magis fluida, quae corpore liquido constant. I peripatetici e gli scolastici andarono ancora lungamente vagando intorno alla causa della fluidità: taluni l'attribuirono alla forza d'un agente esterno: altri al moto perpetuo: altri al fuoco: altri all'at trazione: altri alle affinità chimiche. Il vero è, che ignoriamo del pari la causa della fluidità, e della durezza o coesione de'so lidi. Lasciamo alla Fisica l'analisi delle proprietà dell'acqua e del loro effetti, e li mitiamoci alla sola indicazione del caratteri, che distinguono le varie spezie de fluidi. Son questi di tre sorte, liquidi, gassi, e vapori, le quali ultime due spezie per talune qualità che son loro comuni, pren dono spesso il nome di fluidi aeriformi. Il carattere proprio e discernitivo del primi è la incompressibilità, laddove gli aeri formi hanno per loro qualità caratteristica la compressibilità, da cui nasce ancora la dilatabilità, e l'elasticità. V. Gas, Vapore. - Si distinguono poi i gassi da vapori, per essere i primi permanenti, e i secondi temporanei. L'idrogeno, l'azoto, l'ossige no ec., considerati isolatamente, non la sciano mai lo stato loro aeriforme, quan dochè i vapori dell'acqua, o di altre so stanze liquide, col solo abbassamento della temperatura ripigliano lo stato liquido dei corpi, da quali furono emanati. Quanto alla compressibilità si può dir di essa quello stesso, che abbiam detto – 255 – della fluidità, e che diremo della solidità, cioè che è una qualità non assoluta ma relativa a nostri sensi, e alle ordinarie forze di pressione. L'Accademia del Ci mento fu la prima a stabilirla, mediante l'esperimento dell'acqua rinchiusa in una sfera d'oro, che soggettò ad una fortissi ma pressione. L'effetto di tale sperimento fu, che in luogo di restrignersi di volu me, l'acqua trapelò pe'pori di quel com pattissimo metallo; il che venne a confer mare quell'altra comune sperienza, che si fa chiudendo un liquido in un vaso, e eser citando su di esso una forte pressione me diante uno stantuffo; ovvero avvicinando le pareti d'un vaso, in cui l'acqua tro visi rinchiusa per diminuire lo spazio dallo stesso fluido occupato. Nell'uno e nell'altro caso non si perviene mai colla forza delle ordinarie pressioni a diminuire il volume del fluido; ma per contrario gli effetti di quella forza mostransi sopra le pareti del vaso, o facendo trasudare l'acqua pepori di quelle, o vincendo la forza della loro resistenza. - In contrario delle cennate sperienze non sapevano i fisici persuadersi, che l'acqua non fosse per nulla obbediente alla forza di compressione, dapoichè ella dimostra avere una certa elasticità, allor quando trasmette il suono. Alla perfine gli esperi menti del più recenti fisici, e spezialmente l'apparato del celebre signor Oersted, sem brano aver dileguato il dubbio, e dato la giusta misura della compressibilità dell'ac qua. Mediante il cennato apparato dimo strasi, che sotto la pressione d'una colonna di mercurio dell'altezza di 76 centimetri (il che equivale al peso d'un'atmosfera), ottiensi la diminuzione di quarantasei mi lionesimi di parti del volume dell'acqua. Cotesta infinitesimale diminuzione scioglie forse il dubbio scientifico, circa l'incom pressibilità assoluta, ma non vieta che que sta si stabilisca come il carattere discerni tivo de fluidi liquidi, o sia dell'acqua. Ma l'acqua, come corpo soggetto all'azione del calorico presentasi a noi in tre diversi stati, cioè di solido, o sia di ghiac cio, di fluido liquido, e di fluido aerifor me, o sia di vapore. Checchè ne abbian pensato taluni fisici, a noi sembra, che lo stato fluido debba essere considerato come il naturale, e gli altri due come modi di essere, cagionati dall'abbassamento della temperatura, o dall'azione del calore. Im perocchè o si riguardi la maggior quan tità del fluido che la natura ha distri buito per le diverse parti del globo , o la maggior importanza degli usi e de bi sogni, a quali il fluido provvede; o la proporzione tra le basse e le elevate tem perature dello stesso globo, non può non considerarsi come ordinaria la fluidità in un corpo, che sotto questa forma è ne cessario e indispensabile non meno alla economia della natura, che alla vita de gli Esseri destinati a popolare la terra e le liquide masse del mare. Che se lo stato di fluido dovesse essere considerato come accidentale, e come primitivo e naturale quello del gelo e del ghiaccio, falsa ed erronea sarebbe la partizione de corpi in solidi e in fluidi, e di questi dovrebbero i Fisici trattare, non come di un genere di sostanze diverse dal solido, ma come di semplici modificazioni prodotte dalla forza repulsiva del calorico. V. Gelo, Ghiaccio. FLUssioNE (crit.), la differenza delle quantità matematiche variabili, così chia mata da Newton. Quel che nell'algebra infinitesimale Leibnitz chiamò differenza, fu detto da Newton flussione, dacchè avendo egli con siderato le quantità matematiche, come generate dal moto, determinar volle il rap porto delle velocità variabili, colle quali tali quantità vengon descritte. Tali velo cità sono quelle, ch'egli chiamò flussioni delle quantità. Le quantità infinitamente picciole furono dal Newton chiamate momenti, perchè con siderate come incrementi o decrementi di quantità variabili, dette fluenti. Tranne i nomi e i segni caratteristici delle differenziali, i metodi di Newton e di Leibnitz sono gli stessi. V. Differen ziale. - FLUTTUAMENTo e FLUTTUAZIONE (prat.), senso traslato, per lo quale esprimiamo tanto l'incertezza e i dubbi dell'animo, quanto la variabilità della vita, e della fortuna. È più dell'agitazione, e dell'on deggiamento. V. queste voci. FoLLEzzA e FoLLIA (prat.), levità di mente, che fa cader l'uomo in vani pen sieri, e in azioni non giuste. Ha diversi gradi, dacchè comincia dalla leggerezza, e quando sia divenuta abi tuale, mena alla perdita del senno. Quando non è considerata come abitua le, si riferisce alle azioni, e non a vizio della persona; nel quale senso chiamansi folli anche le azioni dell'uomo sano, che son fatte senza avvedimento. Nello stato abituale poi val meno di demenza, dac chè non esclude qualche lucido intervallo. V. Demenza. FoMrre (prat.), incentivo a soddisfare gli appetiti viziosi. E termine adoprato da moralisti per espri mere l'accensibile delle passioni. FoNICA (gree, sup.), lo stesso che Acustica. FoNoLoGIA (gree. sup.), altra addop piatura dell'Acustica, per la quale si vuol dinotare l'arte di dedurre da principi geo metrici la natura, la cagione, gli effetti, e le proprietà del suono. l principi geome trici intanto possono determinare la mi sura e per essa le regole del suono, in quanto ne calcolano il moto a traverso dell'aria, o di altro fluido compressibile; il che appunto è l'oggetto dell'Acustica. V. Aeustica. - FoRcosTUMANZA (prat.), costume illibe rale d'uomo non educato, e vile. FoRMA (ontol. e spec.), la naturale disposizione delle parti costitutive de corpi, d'onde derivano la figura e le qualità loro. Scambiasi talvolta la forma coll'essenza, comechè nel linguaggio filosofico l'essenza sia diversa dalla forma; dinotando quella l'idea astratta del costitutivo del corpi, e questa il complesso attuale delle loro qua lità essenziali, a giudizio del sensi. V. Es S627220. Altra volta si è data a questo vocabolo un significato astruso e metafisico, che è stato sorgente di vane scolastiche qui stioni. - Aristotele chiamò forma, atto, o per fezione il principio compagno della mate ria nella generazione di tutte le cose. Per forma intese egli una spezie di anima for matrice, dalla quale le cose ricevono l'es senza, le qualità, le facoltà, l'attività, il perchè fu detta ancora forma sostanziale per distinguerla dalle forme accidentali, o sia dalla figura, dalla grandezza e dalla disposizione artifiziale delle parti d'un cor po. In somma la forma sostanziale de corpi 5ù – pesanti, è quel che gli fa discendere giu sta le leggi della gravità loro, siccome quella del corpi leggieri gli fa montare. Similmente dalla forma sostanziale dell'oro nasce la duttilità, la fusibilità, il peso, il colore, ed ogni altra delle qualità che gli sono proprie. Il cangiamento delle for me accidentali produce una semplice alte razione; laddove quello della forma so stanziale produce distruzione, o sia corru zione e nuova generazione. V. Materia. I platonici chiamarono forme le idee o i tipi immutabili, sopra i quali i corpi fu rono modellati, il perchè le considerarono come esseri eterni, di per loro stessi esi stenti. V. Idea. I Latini scambiarono la voce greca tèsx. co vocaboli species e forma. Ma Cicerone desiderò che ben si distinguesse il signifi cato de tre nomi species, notio, e for ma. Per forma egli intese quella idea uni versale, nel cui concetto sta il principio costitutivo del genere: genus est notio ad plures differentias pertinens: forma est notio, cuius differentia ad caput ge neris, et quasi fontem referri potest notio est, quod Graeci evyoto, dicunt, insita, et ante percepta cujusque formae cognitio, enodationis indigens: formae igitur sunt hae, in quas genus dividitur sine ullius praetermissione, ut si quis jus in legem, morem, aequitatem divi dat. (Topica S.VII.). V. Genere, Idea, Mozione, Spezie. - - , Bacone indicò la nozione della forma, come una di quelle confuse e indetermi nate idee della scuola aristotelica, che con veniva sbandire, onde richiamare la filo sofia dal fantastico alla realità. Rant ha richiamato in uso il vocabolo forma, che adopera tanto per lo mate riale, quanto per le qualità costitutive de gli Esseri intelligenti; il perchè ogni fa coltà cognoscitiva ha le sue forme. Cotesto significato, del tutto metafisico, ha la sua radice in una similitudine impropria, ri cavata dalla tempera, o dalla impronta, la quale lascia la sua orma sopra quella materia molle che la riceve. Laonde for me dello spirito, o dell'intelligenza son per lui le verità inerenti alle facoltà intel lettive, che determinano la natura e la ca pacità loro. E siccome egli ammise tre fa coltà cognoscitive, cioè la sensibilità, l'in telletto e la ragione, così assegnò a cia scuna le proprie forme, delle quali formò un catalogo di nuove categorie. V. Ca tegoria, Intelletto, Ragione, Sensibilità. La percezione degli obbietti sensibili, è sempre accompagnata dall'idea del tempo e dello spazio, dapoichè tutto quel che dai sensi ci viene, si concepisce da noi nel tempo e nello spazio. Il tempo dunque e lo spazio son due forme necessarie della sensibilità. V. Spazio, Tempo. I giudizi, che sono gli atti propri del l'intelletto, han pure le forme loro, le quali sono la quantità, la qualità, la re lazione, la modalità, o sia la nozione del modo. Imperciocchè ogni nostro giu dizio risguarda o il più e il meno delle cose, o la qualità loro, o la relazione de gli obbietti che tra loro compariamo, o il modo col quale l'animo concepisce l'esi stenza delle relazioni, che formano l'ob bietto dello stesso giudizio, che è quel che Kant chiama modalità. Ma ciascuna delle cennate quattro spe zie di giudizi ha le sue categorie. I giu dizi di quantità possono versare o circa uno, o circa più individui, o circa la ge neralità, il perchè essi presuppongono in noi le nozioni di unità, di pluralità, e di totalità. I giudizi di qualità poi, o di - 256 - rettamente affermano la qualità del sub bietto, o la negano; ovvero l'affermano indirettamente, negando cioè la proposi zione contraria; dal che nascono tre sorte di giudizi, l'affermativo, il negativo, e il determinativo, i quali presuppongono tre altre nozioni primitive, cioè la realtà, la negazione, e la determinazione. Quanto a giudizi di relazione, questi versano, o circa un attributo che si considera come esistente nel subbietto; o circa una propo sizione la quale è collegata ad un'altra, considerata come principio, da cui quella deriva; o circa due o più proposizioni, delle quali ammessa una, restano le altre escluse. Cotesti giudizi son chiamati da Kant positivi, de quali i primi son detti ipotetici, i secondi disgiuntivi, e reci prochi i terzi. Ciascuno di essi presup pone in noi le nozioni primitive di so stanza, di causa, di reciprocazione. In fine ne giudizi di modalità le cose sono considerate, o come solamente possibili, o come attualmente esistenti, o come me cessarie, dal che nasce una triplice par tizione di giudizi problematici, di giudizi da asserzione, e di giudizi dimostrativi, o apodittici. Ciascuno di cotesti giudizi presuppone una mozione primitiva, cioè la possibilità, l'esistenza, e la necessità. Segue poi la ragione, la quale non ha altra forma se non la generalità, dapoi chè ella va sempre risalendo dall'effetto alla causa per trovare un principio gene rale, che non dipenda da altro. Ora il concetto della generalità presuppone l'al tra mozione primitiva dell'assoluto, e non condizionale. In conclusione Kant ripro dusse un nuovo catalogo di categorie, non degli obbietti del pensiero (come facevano gli aristotelici), ma delle verità primitive, inerenti a ciascuna delle facoltà dell'ani ma, che egli chiamò forme. Tali sono, il tempo, lo spazio, l'unità, la plura lità, la totalità, la realtà, la negazione, la determinazione, la sostanza, la causa, la reciprocazione, la possibilità, l'esisten za, la necessità, l'assoluto. V. queste voci. In sino a che i filosofi non parleranno una lingua comune, e non converranno intorno al significato del vocaboli propri alla scienza, quel che questa potrebbe gua dagnare pe pensieri di qualche profondo pensatore, si confonderà nel senso miste rioso delle astrazioni e nell'ambiguità delle neologie. A buon conto, Kant chiama for me della sensibilità e dell'intelligenza quelle nozioni primitive, che gli altri han chia mato primi principi, verità intuitive, prime verità, o verità del comun senso. Se poi le sue forme abbiano il carattere di prime verità, è una quistione, di cui la soluzione dipende dalla disamina della genesi loro, o sia dal vedere, se sieno per loro stesse evidenti, o se nascano da altre di loro più chiare, ed intuitive. V. Principio, Senso, Verità. FoRMALE (ont. e spec.), quel che na sce dalle qualità che noi risguardiamo, come costitutive delle cose. , Differisce dall'essenziale, come l'essenza dalla forma. V. Essenza, Forma. - Causa formale è stata detta quella che rende ragione dello stato decorpi per ri spetto alle parti che li compongono, nel quale senso la forma stessa potrebbe dirsi causa dell'essere loro. V. Causa. - FoRMIDABILE (prat.), la forza o l'uomo che si teme con ispavento. - È più del terribile, perchè questo vo cabolo si riferisce all'atto, e quello alla potenza. V. Terribile. - FoRmDINE (prat.), latinismo ricevuto nella nostra lingua che prende il suo si gnificato dall'antico, e vuol dire timor vee mente che ispira orrore. - Cicerone ne dà la definizione stoica, cioè di timore permanente. E però il timor della pena è stato detto formidine. V. Timore. FoRMoLA (dise. e spee. ), sentenziosa enunciazione d'una generalità, atta a spie gare o a risolvere molti casi particolari. Altravolta i giureconsulti davano le for mole per la regolarità del loro atti legitti mi. Coteste formole eran pure generalità, ricavate da atti particolari simili, capaci di formare un genere o una spezie, a quali volevasi dare un carattere di esteriore uni formità. - Indi l'aritmetica, e soprattutto l'alge bra, cominciò a chiamare formole quei prodotti generali del calcolo, i quali con tengono la soluzione di molti casi partico lari, e sono enunciati con poche cifre nu meriche, o letterali. L'uso di tali formole ha grandemente contribuito a progressi del le scienze matematiche; tra perchè ha som ministrato un mezzo facile per ritenere e diffondere le verità trovate; e perchè è stato uno de mezzi pe quali il metodo ana litico ha scoverto la connessione tra i fe nomeni particolari e le leggi generali della Ilatura. Dalla matematica e dalla fisica, l'uso delle formole è passato ancora nella filo sofia speculativa, e per sino nelle scienze positive, alle quali si è applicato il crite rio filosofico. La storia, la politica, l'eco nomia publica, l'erudizione, e in una parola sola, l'esperienza sonsi al nostro tempo invaghite dell'uso delle formole, e credon pregio dell'opera il ridurre a verità generali anche le coincidenze de'fatti par ticolari. Noi non condanniamo una tale' tendenza, ma crediam vedere la ragione dell'abuso che se ne fa, in taluni falsi prin cipi della moderna filosofia. Le generalità per esser vere, uopo è che sien logicamente dedotte da una ragione comune a tutti i fatti particolari i quali voglionsi in essa comprendere. Cotesta ra gione comune esser dee la loro causa eſ. ficiente, o la origine dalla quale ripetano la somiglianza delle relazioni loro. Allor chè da particolari si sale al generale è fa cile trovare il punto di connessione nel quale tutti si scontrano; ma quando da una causa presunta vogliansi far discen dere i particolari, facilmente stabilisconsi false somiglianze ed erronee connessioni. La conseguenza è , che le generalità deb bon essere formate a posteriori, e non a priori, della verità della qual conclusione troviamo una pruova nelle categorie della antica logica, e ne pretesi assiomi della dogmatica filosofia. Del resto la ricerca delle cause diviene assai più ardua per que gli effetti, i quali possonsi ripetere da più cause coefficienti. In tal caso essendo com plicata e composta l'azion di queste, è dif. ficile tanto nell'un metodo quanto nell'al tro il determinare, la parte di ciascuna di esse; ma la cennata difficoltà è incom parabilmente maggiore, se tali cause vo gliansi stabilire a priori. Ora sembraci di vedere, che l'amor delle formole nella filosofia speculativa e nel cri terio filosofico siesi introdotto precisamente dal tempo, in cui talune scuole filosofiche, han cominciato a spacciare una facoltà tra scendente, per la quale l'animo crede di vedere a priori la ragione di tutte le cose, e sistematicamente spiega anche i fatti con tingenti dell'uomo. A senso loro il passato, il presente, e il futuro sono concatenati in 35 sieme per una necessaria connessione, la quale procederà sempre insino ad una com piuta perfezione di tutte le umane facoltà. Con tale assicuranza l'animo in ogni par ticolare vede la conseguenza d'una causa già determinata, e però astrae, genera lizza, e riduce in formola per sino i fatti figli della libera volontà dell'uomo.V. Eco nomia, Filosofia, Storia. - FoRMoLARE (disc. e spec.), il ridurre in formole. - - È vocabolo nuovo, introdotto dall'uso e dalla moda di ridurre tutte le verità ge nerali in formole. FoRTEzzA (prat.), virtù per la quale sopportiamo pazientemente la fatica e il do lore, ed affrontiamo il pericolo senza ti IllOre, Cotesta definizione è di Cicerone. La for tezza, dice Seneca è l'imperio che eserci tiamo sopra i propri affetti; ingens par que deis regnum: imperare sibi, maxi mum imperium est. - , FoRTUIro (prat.), quel che interviene contra la nostra espettazione, o di cui non troviamo ragione nel natural ordine delle COSC. Il fortuito è una qualità, che diamo a tutto quel che consideriamo avvenuto per caso. V. Caso. FoRTUNA (prat.), Essere immaginario, che dispensa i beni e i mali, e presiede a fortuiti avvenimenti, lieti o tristi che sieno. - L'idea, o per meglio dire, la fantasi ma di quest'Essere ci vien dalla supersti zione degli antichi, e dalle immagini dei poeti. L'uso l'ha fatta passare ne moderni, - idiomi, ne quali è adoperata, come un vocabolo di vago significato, che esprime ora l'occulta ragione degli avvenimenti na turali, ora la mutabilità delle cose uma ne e la caducità del beni esteriori della vita, e ora la stessa condizion dell'uomo. De'quali vari significati, che gli dà l'uso del parlar comune, quello che più si ac comoda ad un giusto senso morale, è l'in visibile ragione, che presiede all'ordine del le cause naturali, e di cui disse Dante: Ordind 9eneral ministro e duce - Che permutasse a tempo li ben vani - Di gente in gente, ed uno in altro sangue Oltre la difension de'senni umani. Fonza (ontol e spec.), virtù di muo vere, o di produrre un cangiamento nello stato de corpi. V. Cangiamento, Moto, Wolfio definì la forza, un continuo co nato dell'azione, la quale tende a can giare lo stato esterno o interno del sub bietto, sul quale si esercita. Noi concepiamo nel moto de corpi due forze contrarie: una, che imprime il moto, l'altra, che resiste alla impressione rice vuta. La prima fu detta da Newton vis impressa, la seconda vis inertiae. Per forza impressa egl'intese l'azione esercitata sopra qualche corpo, per mutare il suo stato di resistenza: per forza d'inerzia la qualità propria ad ogni corpo di per durare nello stato di quiete o di moto, insino a che un altro corpo non venga a sturbarnelo. Ma lo stesso nome di forza, dato al prin cipio dell'azione e della resistenza, con fonde il significato attivo col passivo. In fatti lo stesso Newton avvertì che la forza dell'inerzia è un principio passivo, per lo quale i corpi persistono nello stato di quiete e di moto, e resistono alla forza impressa colla stessa proporzione, colla quale que sta tende a mutare lo stato loro. Ciò non ostante Leibnitz introdusse la distinzione e la denominazione di forze vive o morte, considerato avendo la forza, o nello stato libero di azione, o nello stato di semplice potenza, perchè frenato da un ostacolo. Ma di ciò la Meccanica.V. Conato, Inerzia. La forza è diversa dalla causa, e dalla potenza, comechè gli scolastici l'abbiano spesso scambiata coll'una e coll'altra. Per causa intender vogliamo l'azione produt trice del cangiamento, o sia dell'effetto; per potenza, la capacità di produrla; e per forza, il comato ridotto in atto, col rimovimento dell'ostacolo, o sia della re sistenza. V. Causa, Potenza. Lo stesso vocabolo trasportato alle cose morali, e agli obbietti intellettuali, riceve uno di quei significati di similitudine, dei quali l'intelligenza è determinata dalla na tura stessa del subbietto, cui vengono ap plicati. Così diciamo la forza dell'ingegno, dell'immaginazione, del ragionare, o la forza degli affetti, degli appetiti, delle passioni, ed altro. FossILE (crit. e spee. ), sostanza natu rale, che giace riposta nel seno della ter ra. V. Sostanza. - - - Distinguonsi i fossili in nativi e stra nieri. Mativi sono, i generati nel seno stesso della terra, come le pietre, i cri stalli, le gemme, i metalli. Stranieri di consi gli altri i quali vi si trovano per accidente, che gli ha ivi trasportato. Son questi i fossili, lo studio de'quali somministra alla geologia i principali ar gomenti, sopra i quali ella fonda le sue congetture intorno alla prima formazione della Terra, e alle sue successive muta zioni. Tra questi ella spezialmente consi dera i corpi organici petrificati, i terre stri, i marini, e quelli che in epoche ri motissime hanno abitato il nostro globo, e ora più non si trovano tra le spezie co nosciute. V. Geologia. - I fossili formano, nella partizione del le produzioni naturali, uno de così detti regni della natura, cioè l'animale, il vegetale, e il fossile. Se questa partizio ne possa dirsi compiuta, vedi il discorso preliminare. - i Faase (dise), locuzione considerata per rispetto al buono o cattivo assortimento del le parole. È diverso dalla proposizione, la quale può essere espressa con più e diverse frasi. V. Proposizione. - FRAUDE e FRoDE (prat.), violazione del diritto altrui, commessa con astuzia, o in ganno. - E diversa dal dolo, che esprime l'in tenzione più che l'atto. V. Dolo. FREDDEzzA (prat.), senso traslato dal ghiaccio, che esprime privazione di senti mento, o pigrizia nell'azione. . FREDDo (spee.), sensazione contraria al caldo, prodotta dalla privazione del ca lorico. V. Caldo, Calorico. FREMERE e FREMITo (prat.), senso tra slato dal romore che fa l'aria, o il vento racchiuso, per esprimere l'interno moto, che suscita la rabbia, o lo sdegno vee mente. FRENESIA (prat.), delirio continuato, o pazzia accompagnata da furore. V. Furore, it – 260 – FRENoLoGIA (erit.), e nuova dottrina, che spiega le varie funzioni dell'intelletto, e le sue più minute operazioni, per le ana tomiche disposizioni dell'encefalo; e spe zialmente per le forme geografiche della superficie di quello, e per la estensione comparata delle sue piegature ». Ovvero, « dottrina dello spirito, della in telligenza, e delle facoltà intellettuali ». La prima definizione spiega la natura della scienza, e potrebbe dirsi reale, la seconda spiega solamente il nome. Tali sono le definizioni che si danno della frenologia, da suoi fautori, da quali con viene prenderle per formare un giusto con cetto del sistema loro, e del principi, so pra i quali è fondato. Il dottor Gall fu il primo suo fondatore: Spurzheim gli diede il nome di frenolo gia, per poter meglio identificare la psi cologia colla fisiologia: l'identità dell'una e dell'altra scienza credesi già dimostrata dapresenti frenologisti: la psicologia è ri caduta nelle mani del fisiologisti, dal che è nata non solamente una psicologia fisio logica, ma ancora una psicologia pato logica, la quale ne fenomeni della pazzia ci dimostra le sorgenti delle facoltà e delle operazioni dell'intelletto: i sezionatori e i preparatori anatomici son divenuti profes sori di psicologia, della quale se taluno volesse compiangere lo stato, potrebbe ben dire, di essere stata confinata all'ospedale. Scorriamo rapidamente, e senza antici pazione di giudizi, la serie delle nuove idee frenologiche, secondo la sposizione di un recente libro, nel quale l'autore ha detto di voler determinare il vero valore delle antiche e delle nuove dottrine psico logiche, purgandole ancora da quel che di falso e di esagerato vi hanno intruso le nuove scismatiche società di frenologisti, che sonsi allontanati dalla purità della dot trina di Gall e di Spurzheim. Noi non ci tiamo l'autore di tale libro perchè lo sup poniamo vivente; e per quel che concerne le idee elementari della dottrina di Gall, ci riferiamo a quel che ne abbiamo accen nato nell'articolo cerebro. (V. ancora il primo vol. di questi saggi pag. 322). Principi della Frenologia. « Sin da primordi dell'umano sapere, i filosofi ammisero una pluralità di facoltà nello intelletto, alle quali riferirono le sue diverse operazioni. Agli antichi han fatto eco i moderni, tra quali gli ultimi hanno ampliato il numero e le partizioni delle facoltà. La generalità del filosofi di tutti i sistemi conviene essere coteste facoltà in mate. Bene intendendo gli autori che han più fortemente pugnato per le idee innate, e tra questi Platone, Cartesio, e Leibnitz, non hanno essi inteso concedere come in nate le idee o le facoltà intellettive, ma sì bene le inelinazioni, le disposizioni, le virtualità, in una parola il sentimento e non l'intelligenza ». « Per molto tempo la psicologia ha cer cato d'isolare l'uomo nella natura, e di dare risalto agli attributi o facoltà che lo distinguono da bruti; quasi che volesse pro durre i titoli della superiorità della spezie umana a rispetto delle altre creature, e giustificare l'imperio che sopra di quelle esercitava. Dopo il trascorrimento di molti secoli, e quando aveva già acquistato la sicurezza di non perdere una tal superio rità, ha cominciato a cedere ad una parte delle sue pretensioni, ed ha consentito di scendere di qualche grado nella scala, che lo avvicina ad altre spezie di animali più immediate. Ciò non ostante sin da tempi – 261 – della rimota antichità apparisce qualche barlume di quelle rettificazioni che fa oggi la frenologia. Aristotele, attesa la mag gior cognizione che ebbe della storia na turale e delle scienze morali, ammise, ol tre l'anima razionale, un'altra anima irra zionale o sensitiva, nella quale si svilup pano i vizi e le virtù. Quelli che non hanno espressamente riconosciuto la pluralità del le anime, hanno più o meno distinto le fa coltà concupiscibili o irascibili dalle razio mali; l'appetito dalla volontà; il sensitivo o materiale dall'immateriale; l'intellettivo dall'attivo. Intanto la psicologia continua va a considerare l'uomo intellettuale di verso dall'uomo pratico; in pruova di che gli appetiti, gli affetti, la volontà non en travano per nulla nella considerazione, e nell'analisi delle sue interne operazioni. In somma in tutti i sistemi di filosofia apparsi insino a Reid e a Gall (e quì preghiamo Reid di sopportare per poco la colleganza di Gall) si è fatta l'analisi della sola parte intellettuale del pensiero, e non si è tenuto alcun conto degli appetiti, delle inclinazio ni, degli affetti e delle passioni. La scienza psicologica ha ricevuto il suo compimento quando è stata trattata sotto l'uno e l'altro aspetto insieme, il sensitivo cioè e l'intel lettivo. Un tal progresso della scienza co mincia da Hutcheson, ma è poi compiu tamente sviluppato da Reid e da Gall». « Il sistema di psicologia di Reid vince tutti gli altri, perchè non ha ommesso la parte sensitiva; perchè l'ha compresa tra le facoltà, delle quali ha dimostrato la qua lità d'innate; perchè tratta delle facoltà, non come di pure astrazioni, ma come di generi e di serie di azioni, che da quelle ripetono il principio loro; e finalmente per chè le facoltà attive e morali dell'uomo son considerate come anteriori e maggiori ancora delle intellettive. La parte più no tabile del suo sistema è quella, che ris guarda le facoltà attive, tra le quali entrano i così detti principi d'azione, gl'istinti, gli abiti, gli appetiti, i desideri, gli af, fetti, e dopo questi i principi razionali, come l'interesse bene inteso, e il senso del dovere. Le facoltà che ci son comuni co bruti, dice il cennato autore, manife stansi prima della ragione: noi siamo ani mali irragionevoli, e non pertanto dotati di volontà, molto tempo prima che meri tassimo il nome di animali ragionevoli: sebbene la ragione e la virtù sieno le pre rogative dell'uomo, pur tutta volta son le ultime a svilupparsi: sviluppate non fanno nascere in noi nuove facoltà, perchè re stiamo con quelle che Dio ci ha dato. Inol tre nell'esame del rapporto che lega insieme l'intelletto e la volontà Reid non solamente considera queste due facoltà come insepa rabili, ma sempre suole risguardare l'in telletto, come un modo di azione della vo lontà. In una sola cosa Reid è rimaso puro psicologista, e non si è dimostrato buon fisiologista, nell'applicazione cioè degli esposti principi alle pratiche quistioni della libertà, o sia del libero arbitrio ». « Unendo insieme quel che gli antichi psicologisti avevano separato, cioè la vo lontà e l'intelletto; e ritenendo tutto quel che Reid aveva detto intorno alle facoltà attive, Gall venne a spiegare gl'intimi rap porti tra l'intelletto e la volontà, anzi a dimostrare, come quello dipenda da que sta. L'uomo non vive per fare uso dell'at tenzione, della memoria, del giudizio, e della immaginazione; ma vive per obbe dire alle impulsioni della natura sensitiva, che vuol dire, de suoi bisogni, de desideri e delle passioni. Le grandi facoltà intellet tuali altro non sono che interni instrumenti - 262 – di quelle potenze, siccome i sensi ne sono gl'instrumenti esterni. La volontà e non l'intelletto prender dee il primo posto tra le umane facoltà; nè può più ammettersi quel doppio ordine di fatti, dipendenti dal l'intelletto, e dalla volontà che han for mato lo studio della vecchia psicologia. Che se ancora da taluni si distinguano, ciò si pratica per comodo dell'insegna mento, ma non perehè cotesta dottrina abbia veruna realità di natura. Non so lamente non v'ha di fatti isolati; ma il sentimento è il primo motore di tutte le facoltà. I caratteri, che aver debbe una fa coltà, per dirsi primordiale, furon fissati da Spurzheim, e sono: - 1.º de'esistere in una spezie di animali, e non in un'altra: - 2.º dee variare nel due sessi della me desima spezie : - - - 3.º de'essere proporzionata alle altre fa coltà dello stesso individuo: 4.° Non dee manifestarsi contempora neamente colle altre facoltà, ma dee ap parire o disparire prima o più tardi delle altre: - 5.º dee poter agire, o riposarsi da se sola: 6.° dee propagarsi da padre in figlio distintamente dalle altre, e per se sola: 7.º sola dovrà conservare il suo stato di sanità, o sola infermarsi ». « Queste facoltà debbon essere come il centro di moto intorno a cui dovransi unire tutti i fatti immediati e primitivi dell'in telligenza: sensazioni, idee, inclinazioni, desideri, affetti, passioni, virtù, vizi, do lore, piacere; del pari che tutti i modi in tellettuali, come l'attenzione, la memoria, l'immaginazione, il giudizio. Da questa sistematica associazione, dovrà attignersi una teorica più ragionevole, e più appli cabile alle quistioni di filosofia pratica in torno alla ragione, al libero arbitrio, alla educazione, a delitti e alle pene. Gall aveva da prima designato tali facoltà, ma conomi variabili distinti, d'inclinazioni, di attitudini, e anche di sensi. Spurzheim le ha disposte per classi, distinguendole in due ordini. Il primo ordine racchiude le facoltà dette affettive, il secondo, le intellettuali. Quel primo ordine contiene due generi, le inclinazioni e i sentimen. ti, il secondo ne ha tre, le facoltà im mediale o i sensi esterni, le facoltà me, diate, dette percettive, e le facoltà ri flessive ». - Da questa prima, e generica partizione nascono i tanti organi del cervello, cia scuno de quali presiede ad uno istinto, ad un desiderio, a una passione o ad una virtù. E quì rientrasi, come ognun vede nella craniologia di Gall. Questi aveva ammesso ventisette organi cerebrali comin ciando dallo istinto venereo, e terminando agli organi della teosofia e della perseve ranza. Spurzheim ne riconobbe trentacin que, avendo aggiunto agli organi di Gall quello della fame e della sete; e prima della sua morte altri, tra quali quello detto del l'amor della vita. I più moderni, o alme no gli ultimi che abbiam letto, son giunti a quarantasei organi. Lasciamo tutta que sta parte descrittiva, e torniamo alla parte teoretica, nella quale stà il nuovo paren tado stretto tra la psicologia e la fisiolo gia. Vediamo prima la soluzione della grande quistione del libero arbitrio, e pas Serem di poi alla conclusione del corollari generali i quali determinano, per servirci dell'espressioni dell'autore, il valor com binato dell'una e dell'altra scienza. « Conviene mettersi nel mezzo tra l'esa gerazioni della filosofia puramente intel lettuale, la quale vagheggia le illusioni d'una libertà troppo assoluta, e l'opinione de partigiani della necessità, i quali spie gano allo stesso modo l'azione dell'uomo, che sente, si determina, ed opera, e l'azion della pietra, la quale cade con una velocità, matematicamente proporzionale al tempo. Tutti i principi di determinazione delle azioni possono essere partiti in due generi: principi di egoismo, e principi di benevo lenza. Questi due generi rappresentano l'anima concupiscibile, e la razionale; l'anima inferiore e la superiore, la car ne, e lo spirito. Ora noi siamo più forte mente strascinati da principi dell'egoismo, che da quelli della benevolenza. Ma i pri mi non sono per se stessi efficaci a darci la spinta all'azione, e per divenire prin cipi d'azione han bisogno ancor essi del sentimento, che gli spinga, cioè del pia cere o del dolore. D'altra parte, non è vero, come il pretendono i fautori della necessità, che l'uomo sia un agente ne cessario; dacchè è una verità di senso co mune, che noi non operiamo senza un mo tivo che ci determina all'azione. L'una e l'altra opinione sono incompatibili colla dot trina delle facoltà innate ». E quì l'autore va cespicando per non dire nettamente quello che vuol fare intendere, e che in altro luogo più chiaramente spiega, dopo di aver dichiarato, che i moralisti ei teo logi hanno con accorgimento stabilito co me dogma la dottrina del libero arbitrio, giacchè non potrebb'essere razionalmente dimostrata. « Le deliberazioni morali sonº figlie delle inclinazioni istintive: coteste inclinazioni sono impresse nel nostri orga mi: non sono le stesse in tutti gli uomi mi: non v'ha nulla di più falso della pre tesa eguaglianza delle facoltà naturali; nè del poter che si attribuisce all'educazione di correggere le naturali inclinazioni. La natura sensitiva in somma trae a se l'in tellettuale, dacchè questa non è che un modo di quella. Collins, ha trattato me glio degli altri la quistione della libertà delle umane azioni, siccome ha ben detto Voltaire. Ma Galli ha dato moto e vita ai pensieri di Collins, e ha trasportato la qui stione della libertà dal campo delle sotti gliezze metafisiche in quello della verità e della vita pratica. Dalla sua dottrina dovrà nascere una riforma delle leggi penali, le quali sono alla distanza di mille secoli da noi. Dovranno queste graduare con una migliore scala le azioni che ora inesora bilmente perseguitano; ed essere calcate sul principio, che le cause naturali ora lente e ora rapide conducono gli uomini a delitti più spaventevoli. A questo modo solamente potremo accostumarci a risguar dare i delinquenti, non come Esseri che me ritano d'essere crudelmente puniti, ma co me uomini attaccati da una malattia mo rale, degni di compassione, che bisogna curare, rendendoli migliori ». Conchiudiamo questo quadro cocorollari generali, ne'quali trovasi formolata tutta la scienza frenologica. « I. L'uomo è spinto da una curiosità innata a conoscere se stesso e tutta la na tura. Per conoscere se stesso dee penetrare nel costitutivo essenziale del pensiero. II. Acciocchè questa conoscenza sia com piuta, conviene che lo studio delle sue fa coltà non si limiti all'età adulta della vita, ma abbracciar dee i diversi periodi della sua esistenza. Conviene inoltre, che sia questo uno studio comparato della sensi bilità e della ragione, considerate in tutte le spezie degli animali, nelle diverse razze umane, nelle malattie mentali, e ne di - 264 – versi ordini di fatti, che costituiscono il pensiero, cioè fatti istintivi, fatti di sensa zione esterna e interna, e fatti intellettuali. III. Per conoscere i fenomeni dell'intel letto, l'uomo far dee più che non fa per quelli de sensi. Conviene, che divida, astragga, formi generi, classi, e creiter mini generali; che supponga potenze, for ze, facoltà, e formi sistemi di psicologia. Questo apparato di scienza, non gli dà motivo d'insuperbire, nè di esser sicuro de propri concetti; ma è piuttosto una pruo va della sua debolezza, e degli errori dai quali dee difendersi. IV. Un sistema di psicologia dee ren dere ragione di tutti i fatti dell'intelletto, dal più oscuro sentimento insino al più pronunziato fatto della coscienza; e dee per conseguente discendere insino a'mo vimenti istintivi e meccanici; siccome per l'opposito dee risalire, da una parte in sino al senso morale e alla coscienza, e dall'altra, in sino al giudizio e al ragio namento. Due sono i sistemi più compiuti, tra quali può cadere la scelta, uno di Reid e l'altro di Gall. Ma questo è a quello pre feribile, perchè ha riannodato le facoltà in tellettuali, i desideri e le passioni alle fa coltà primordiali, cioè alle sensitive. V. Peristabilire una teorica vera e scien tifica intorno alla ragione, alla volontà e al libero arbitrio, conviene ammettere, come principi fondamentali di essa, la qualità innata delle facoltà sensitive (af. fettive), la diversità, e spesso la contra rietà loro nello stesso individuo, il grande loro potere, affatto indipendente dall'azio ne degli esterni obbietti. Cotesta teorica sarà la base della educazione, cui darassi da ora innanzi men di potere, e più di varietà. Col valutare giustamente i motivi di determinazione, il nuovo metodo restri gnerà tra giusti limiti la libertà morale, e d'altra parte, stabilirà più indulgenti relazioni tra gli uomini, e introdurrà una giustizia meno eguale, e più giusta nella estimazione del delitti, e nella applicazione delle pene. VI. La riunione del due sistemi della scuola Scozzese e della frenologica, rende compiuta la psicologia per rispetto a suoi principi; coltivando i quali, conoscerassi la necessità di rimpastare la parte che risguarda le facoltà attive primordiali, e le facoltà intellettuali, che son modi di quelle. Converrà piegare le partizioni scoz zesi a quelle di Gall e di Spuraheim ; riconoscere che la memoria si confonde colle facoltà percettive, alle quali Gall diede giustamente il nome di sensi o di memoria di luoghi, di cose, e di per sone, che l'immaginazione non è altro, se non il talento poetieo e l'idealità dei due cennati maestri ; che il giudizio e il ragionamento si confondono eollo spirito di comparazione e di causalità ; e che questa ultima facoltà è, a buon conto, la stessa cosa dello istinto della curiosità. Ri formati i principi, la psicologia si andrà di mano in mano riformando, in sino a che giunga a toccare l'apice dello scopo della frenologia, che è il conoscere l'in terno per mezzo dell'esterno, e l'antive dere le attitudini e le facoltà di ciascuno dalle forme dell'encefalo. VII. Non ostante le cose dette, tutta la luce che potrassi acquistare nella teorica dell'uomo morale e attivo, non farà per nulla avanzare o ritardare la marcia del miglioramento progressivo dell'umanità, la quale cammina colla ruota del destino, ruota che schiaccerebbe lo stesso Gall e Saint-Simon, se questi pretendessero di ar restarla. L'educazione, la morale, la le – 265 – gislazione, la politica progrediscono senza la filosofia, e spesso ancora in un senso tutto opposto a suoi precetti. Tutto al più, se la filosofia saprà rappresentare l'uomo qual è, spezialmente per le sue facoltà attive; e se mediante le formole dedotte dalle teorie riuscirà a favorire e ad ac crescere la nostra invincibile tendenza a conoscere la verità, avrà fatto tutto quel lo, che si può da lei attendere, e a cui può ella aspirare ». Le sottilità e le fallacie di cotesto si stema si manifestano di per se stesse. I frenologi prendono la maschera di spiri tualisti, per illudergli, e per giovarsi dei principi e delle partizioni loro come dali già concessi, con tal veste voglion fare alleanza con Hutcheson, Reid e Steteart, e recitar da continuatori delle dottrine di questi: la loro alleanza non pertanto è temporanea e durabile insino alle ulte riori modificazioni che il progresso della frenologia dimostrerà necessarie alla dot trina delle facoltà: il principio cardinale di tal dottrina è, che le facoltà sieno in genite o innate, ma la conseguenza che ne cavano è tutta in favor delle facoltà sensitive, e non delle intellettuali: dicono i frenologi esser due i principi delle umane conoscenze, il senso esterno e l'interno, e sembrano voler fulminare i puri sensi sti: vogliono subordinare l'intelligenza al senso, e dichiarar quella un modo di que sto: son seguaci di Reid e di Stewart in sino a principi d'azione meccanici o ami mali, ma dichiarano difettiva e corta la loro dottrina in quanto a principi d'azione razionali, ammettono i motivi di deler minazione istintivi, e negano ogni prepon deranza a volontari e intellettuali: non ri conoscono altra libertà nella volontà, se non quella che può nascere da una sem plice modificazione delle facoltà sensitive e appetitive: dichiarano la dottrina del li bero arbitrio (egregiamente dimostrata da Reid e da Stewart), una verità teologico dogmatica, e non razionale: dichiaran pri mordiali le sole facoltà sensitive e appeti tive, perchè da queste ripetono l'essenza, la forma, e il carattere discernitivo del l'uomo morale e intellettuale: le sue pri mordiali facoltà son quelle, che nascono. dal suo interno organismo: tal è la cor rispondenza dell'esterne e dell'interne for me dell'organismo, che da quelle nasce la conoscenza di queste: l'educazione e qualunque altro abito razionale possono se condare, ma non mutare la necessaria de terminazione delle forme sensitive dell'uo mo: le leggi sono ingiuste, e sconoscono la natura umana, allorchè puniscono co me volontarie le azioni criminose: queste possono, alle peggiori, esser considerate come una infermità dello spirito, simile alla follia. Ma a che giova lo studio del l'uomo e la conoscenza di se medesimo? A null'altro, che ad osservare e a formo lare le operazioni della natura. L'uomo e la società segue un cammino istintivo, e necessario, e però indipendente dalla guida e dalla direzione della ragione: l'uo mo è un animale pratico: la filosofia spe culativa non ha alcun potere sulla morale: è uno studio di curiosità, e non di vera o utile istruzione! Che altro è la Frenologia se non la dot trina del senso e della necessità? V. Azio ne, Facoltà, Libertà, Mecessità, Senso. FRIvoLEzzA (prat.), qualità di uomo, che fa o dice cose di niuna importanza. È diversa della leggerezza, di cui per altro può esser conseguenza. V. Legge rezza. 54 – 266 – PRodE e FRoDo. V. Fraude. FRoNTE (spec.), parte anteriore della faccia sopra le ciglia. È una delle grandi parti della faccia, che più contribuisce al bello della umana fisonomia, e i movimenti della quale, per la natural facilità di cui è dotata di con trarsi e di distendersi, manifestano le in terne disposizioni dell'anima. Per questa medesima ragione la sua immobilità di viene segno d'impudenza, di ostentazione e di simulazione in quelli, che hanno sog giogato la modestia, o che studiano di nascondere gl'interni affetti dell'animo. V. Fisonomia. FRUGALITA' (prat.), temperanza negli alimenti. È una parte della virtù di temperanza. V. questa voce. FRUIRE (prat.), servirsi di qualche cosa con giovamento, o con soddisfazione del l'animo. È diverso dal godere, tra perchè si ap plica più volentieri alle cose sensibili, e per chè il fruire contiene implicitamente l'idea del consumo della cosa, di cui si fa uso. V. Godere. FUCATo (prat.), epiteto d'uomo finto, che prende sembianze di virtù, o di pia cevolezze. E una delle spezie della finzione, ed è men generico di altri epiteti che si usano nello stesso senso, come mascherato, im bellettato, e orpellato. V. queste voci. FUNZIONE (prat.), l'azione considerata come l'esercizio d'una facoltà intellettiva, o attiva che sia. E però diconsi funzioni le operazioni dell'animo, dell'intelletto, della volontà, e anche delle potenze sensitive. FUoco (spec. ), la sostanza che con tiene e tramanda calore e luce. La parte più tenue e volatile di tale so stanza è la fiamma. I suoi fenomeni son quelli che abbiamo esposto negli articoli calore e calorico. V. queste voci. FURBERIA (prat.), azione di chi con iscaltrezza ed inganno vuol conseguire un fine.È più della scaltrezza, la quale include soltanto finezza. FURENTE (prat.), chi è nell'atto del fu TOTe. È diverso da furibondo, e da furioso. FURIA (prat.), violenta perturbazione dell'anima, cagionata da collera, o da al tra passione. Indica uno stato passeggiero, e non per manente. FURIBONDo (prat.), pien di furore. E più di furente e di furioso. FURIoso (prat.), colui che è abitual mente nel furore. FURoRE (prat.), eccesso di collera, che non può essere dalla ragione contenuto. Indica lo stato permanente o l'abito della furia. V. Collera, Ragione. L'impotenza di contenerlo, può nascere dalle stesse cause che producono la pazzia, o da violenta perturbazione delle passioni. Nel primo caso il furore è una esacerba zione della insania: nel secondo è un vi – 267 – zio, che opprime la ragione. E siccome in tal vizio si può cadere per la veemenza di qualunque passione, così ogni loro tra sporto suol essere qualificato col nome di furore. In generale la conseguenza del fu rore, come dice Cicerone, è la cecità della mente, qualunque sia la causa da cui pro venga. V. Insania, Passione. FUTURo (spec. e ont.), la durazione dello stato presente degli Esseri e delle cose insino alla distruzione loro. È una induzione naturale, che la mente ricava dalle nozioni del passato e della sue cessione delle idee, dalle quali rileva, che quel che ora è presente, è stato altra volta futuro. V. Durata, Passato, Presente. – 269 – CLASSI DE' VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA F. FILOSOFIA CRITICA. FILOSOFIA SPECULATIVA - Facoltà Fisico Facile e Filosofia Fantasia Fisiognomonia Facilità Filosofismo Farmacia Fisiologia Facoltà Filosofo Farmacologia Fisionomia e Fallacia Finezza Fasti Fisonomia Fallo Finzione Favola Fitologia - Falso - Fisiologia Filologia Fitotomia Fantasia Fisiologista Filologo Florilegio - Fantasima Fisiologo Filosofia Flussione Fantasticaggine e Fluidità Finzione Fossile Fantasticheria Fluido Fisica Frenologia Fatalismo Forma Fatalista Formale VOCI ONTOLOGICHE. Fato Formola Fatto Formolare Finito Forza Fecondazione Forza Forma Futuro Fede Fossile Formale Fenomeno Freddo - Fiamma Fronte Fibra Fuoco Figura Futuro Filosofare - 270 - FILOSOFIA DISCORSIVA, Facezia Facile e Facilità Facondia Fallacia Falso Fantasima Fantasticaggine e Fantasticheria Fantasticare Favola Figurato Formola Formolare Frase Fede TEoLoGIA NATURALE. Filosofismo – 271 – FILOSOFIA PRATICA. Faccia Facile e Facilità Fallacia Fallo Falsità Fama Fanatico Fanatismo Fantasticare Fare Farneticare Fastidio Fasto Fatica Fatto Fatuità Fatuo Favola Favore Fede Fedele Fedeltà Fedità Felicità Ferinità Ferino Ferità Fermentazione Fermento Fermezza Ferocia e Ferocità Ferventezza, Fervidezza e Fervore Fidanza Fido Fiducia Fierezza Filantropia Filauzia Filosofante Fisiocrazia Filosofaccio Fisiografia Filosofastro Fitografia Filosofeggiare Filosofetto Filosoficare Filosofone Filosofuolo e Filosofuzzo Fine Finezza Fluttuamento e Fluttuazione Follezza e Follia Fomite Forcostumanza Formidabile Formidine Fortezza Fortuito Fortuna Fraude e Frode Freddezza Fremere e Fremito Frenesia Frivolezza Frugalità Fruire Fucato Funzione Furberia Furente Furia Furibondo Furioso A Furore GRECISMI SUPERFLUI. Fitonomatotecnia Fonica Fonologia - 275 - G Gemi (prat.), ingannare per tra dimento, per ischerzo, o per celia, nel quale senso dicesi ancora farsi gabbo di alcuno, - Differisce dal burlare, che più si avvi cina al trastullare. V. queste voci. GABINETTo. V. Museo. GAGLIARDEzzA e GAGLIARDIA (prat.), for za che nasce da vigore e da robustezza. È dote del corpo, che impropriamente si applicherebbe all'animo. GAIEzzA (prat.), contentezza dimostrata con parole, e con ilare disposizione del volto. - Differisce dall'allegrezza, la quale è un sentimento spontaneo e naturale; laddove la gaiezza proviene d'ordinario da educa zione, o da riflessione. V. Allegrezza, Fducazione. GALLERIA. V. Museo. GALLoRIA (prat.), eccesso di allegrezza, manifestata con gesti e moti del corpo. t. - GALvANISMo (spec.), elettricità che si manifesta al contatto dei nervi e de mu scoli, così negli animali viventi, come in quelli che hanno di recente perduto la vita, ma che conservano ancora un resto di ca lor vitale. Cotesto fatto, avvertito la pri ma volta dal medico Galvani, diede oc casione alle scoverte del celebre Volta, per le quali la Fisica e la Chimica son tanto avanzate. Sul fenomeno della rana osservato dal Galvani, sostenne il Volta, che l'elettricità sviluppasi col contatto dei metalli in quello sperimento adoperati, dovendosi considerare la rana come un sensibilissimo elettroscopio. Replicò il Gal vani che l'elettricità dovevasi attribuire all'animale; ed avendo una tal contro versia aguzzato l'ingegno del Volta, lo condusse alla costruzione della sua pila. Questo maraviglioso instrumento, nel qua le l'elettricità si sviluppa col concorso di metalli di diversa natura, aperse alla Fi sica un immenso campo di nuovi feno meni elettrici; e ridotto poi a maggiore perfezione, è divenuto uno de più potenti mezzi, che abbia la Chimica nella scom posizione de corpi. Il caso dunque pre sentò a Galvani quella nuova spezie di elettricità, ed il genio di Volta ne appro “fittò, per creare una nuova scienza elet trica. Nulla dimeno non si sa, perchè i Fisici spesso preferiscano il nome di Gal vani per indicare fenomeni elettrici, inte ramente dipendenti dalla pila, i quali però sarebbero meglio detti voltaici. Così si è dato il nome di galvanometro ad un altro prezioso instrumento, inventato dal Nobi li, e perfezionato dal chiarissimo Melloni, quantunque il concetto di quella costruzione sia fondata su fenomeni della pila, e ri conosca la sua origine dall'antica osserva zione del Volta, cioè che l'elettricità può svilupparsi da un solo metallo, riscaldan dolo in una parte e non nell'altra. Si imilmente una recente scoverta del celebre fisico Jacobi, il quale ha osservato che l'azione della corrente elettrica della pila determina le particelle metalliche, tenute 55 – 274 – in dissoluzione da un reagente chimico, a congregarsi su di una forma apposita mente situata in uno de fuochi della pila; ha ricevuto pure impropriamente il nome di metodo galvano-plastico. º Doppio è l'oggetto della presente nota: primamente pare a noi, che sia un do vere degli scienziati il guarentire gelosa mente a grandi uomini il merito delle loro invenzioni: in secondo luogo, se è vero che i nomi debbon darci la vera idea delle cose denominate, uopo è dire che impro pri sien quelli i quali non adempiono un tale ufizio; il che è sopra tutto notabile nel linguaggio scientifico, chesser dovreb be ad ogni altro parlare esempio di esat tezza e di precisione. V. Elettrieità. GANGLIo (spee.), rigonfiamento di co lor bigio, di consistenza dura, e alquanto elastico, e di omogeneo tessuto, che la natura ha situato in diversi punti in tutta la lunghezza del nervi. I gangli pare che sieno i centri dell'azione nervosa in tutti gli animali, i quali mancano del sistema cerebro-spinale; e però formano il carattere distintivo della classe a quelli opposta. Un tal carattere è comune ancora agli animali, ne quali i due si stemi nervosi coesistono insieme, e ciò a rispetto di quello, di cui l'influenza serve a regolare l'economia delle funzioni vege tative. Gall malamente credette aver tro vato gangli nella midolla spinale. Chiamò egli con questo nome talune masse di ma teria grigia, più molle e più polposa della materia bianca e fibrosa; e suppose che vi fosse un rigonfiamento di tal materia nel punto d'onde ha origine ogni paio di ner vi. Ma la sua supposizione non regge, per chè non v'ha rigonfiamento alcuno ne siti d'onde sorgono i nervi, nè v'ha nel seg mento corrispondente a detti siti più copia di materia grigia, che nel loro intervalli. V. Cervello, Nervo. Alcuni moderni anatomici hanno esteso la denominazione di ganglio alle così dette glandule conglobate o linfatiche, per la ragione che i vasi linfatici comportansi organicamente verso di queste, come i nervi verso i gangli. Ma quelli che ama no l'esattezza del linguaggio, han ripu diato una tal denominazione, atteso che eterogenee sono le funzioni del sistema assorbente ed assimilante, per rispetto a quelle del sistema nervoso. GARBATEzzA e GARBo (prat.), cortesia dimostrata con maniere esteriori. Sono diversi dalla affabilità, dall'avve nenza, dalla civiltà, dalla cortesia, dalla gentilezza, dalla grazia, e dalla leggia dria, perchè ciascuna delle dinotate qua lità ha un carattere proprio, che la distin gue dalle altre. V. queste voci. La garbatezza e il garbo verso degli altri, è una dote acquistata per lo studio e per l'abito, quando che quelle che ab biam testè mentovate presuppongono tutte il concorso d'una disposizione naturale. GAs (spec.), fluido aeriforme, compres sibile, elastico, dilatabile, capace di re frangere la luce, di cui le molecule sono incessantemente spinte da una forza ripul siva ad allontanarsi le une dalle altre; forza la quale vince l'altra opposta della coesione, Il principal carattere che distingue i gassi da fluidi liquidi è la compressibilità, co mechè in natura non si dia alcun fluido, che possa dirsi veramente o assolutamente incompressibile. Ma diciamo della compres sibilità, e del suo contrapposto quello stesso che abbiam detto della solidità e della flui – 2 A ) - - dità. La legge di continuità che la natura ha seguito ne diversi gradi o passaggi da uno stato all'altro della materia, ci vieta di formare esatte classificazioni. Ciò non ostante cotali partizioni sono utili, anzi ne cessarie allo studio delle qualità de corpi, e al metodo col quale dobbiam procedere per conoscerne gli effetti. E in ciò la Fi sica fa quello stesso che pratica la geome tria, cioè suppone i corpi dotati di qua lità assolute ed uniformi, e da tale ipo tesi deduce conseguenze rigorosamente ve re. E siccome cotesto stato normale o scien tifico non si trova mai nella condizione de composti; così dal più o dal meno con cui questi si approssimano al vero, ne va luta e misura i prodotti. V. Fluido. I gassi differiscono ancora da vapori, comechè gli uni e gli altri si confondano sotto la denominazione di fluidi aeriformi. La proprietà, che principalmente distingue i gassi da vapori è, che i primi non pas sano facilmente allo stato liquido, come fanno i secondi, per modo che senza gran di pressioni, o forti diminuzioni di tem peratura non si mostran capaci di tal can giamento. Cotesta proprietà ha fatto dare a gassi l'aggiunto di permanenti; seb bene debba dirsi della permanenza del gassi quello stesso, che di sopra abbiam detto dell'incompressibilità del liquidi. Imperoc chè molti gassi permanenti sono stati ri dotti allo stato liquido, mediante grandi pressioni; d'onde si desume, che lo stesso avverrà degli altri, quando si potrà per essi ottenere una conveniente pressione. L'ela sticità degassi differisce pure da quella dei vapori, quando questi ultimi sien posti a contatto col loro liquido generatore. Con siderati isolatamente, i vapori come i gas si, obbediscono alla legge detta di Ma riotte, cioè che i volumi occupati da una stessa massa di fluido, sono in ragione in versa delle pressioni da questa sopportate, V. Vapore. Distingue ancora la Fisica i gassi in sem plici e composti; e chiama semplici quelli de quali insino al presente non è ancora riuscita a trovare altri principi di essi più semplici. Tali sono l'ossigeno, il cloro, l'azoto e l'idrogeno. Ma può forse affer marsi, che sien questi, altrettanti principi semplici della natura ? Noi abbiamo per più secoli erroneamente creduto, che l'ac qua, l'aria, e il fuoco fossero gli elementi o principi semplici di tutte le cose, per chè per mezzo loro si operano tutte le tras formazioni della materia. Laonde dall'avergli considerati come gli agenti imme diati della natura, passammo a dichia rargli gli elementi primitivi di tutti i com posti. Alla perfine quando la Chimica ci fece scoprire ch'essi possono risolversi in altri elementi più tenui e volatili, noi de ridemmo la propria ignoranza, e siam passati ad allungare alquanto la scala di quelle particelle, che chiamiamo molecule. Chi può antivedere le altre scoverte, alle quali l'analisi potrà condurci? Certamente la natura ha stabilito un segno, oltre il quale non permetterà, che noi le involia mo il segreto del suo magistero. Vuolsi conchiudere il presente articolo con una osservazione gramaticale. Perchè non dare al vocabolo gas, la terminazione italiana. La lingua nostra per le regole della sua eufonia, non soffre terminazioni straniere, e a somiglianza di quel che ave vano sempre praticato i Greci e i Latini per rispetto alle voci barbariche, ha italia mato i termini che le scienze, le arti, o l'uso ci han portato da altri idiomi. Per chè non diremmo il gasso al singolare, e i gassi al plurale? ri – 276 – GAUDIo (prat.), placido commovimento dell'animo, prodotto dal conseguimento d'un bene. Cotesta definizione, che è pur quella della nostra Crusca, è tolta da Cicerone: Quum ratione animus movetur placide atque eonstanter, tum illud cat Drva dicitur. Cum autem, soggiugne, inaniter et ef fuse animus exsultat; tum illa laetitia gestiens, vel nimia dici potest, quam ita definiunt: sine ratione animi elationem. (Tusc. IV. S. 6). - Seneca fece la stessa distinzione tra gau do e letizia, imperfecta adhue intersein ditur laetitia, sapienti vero conteaitur gaudium. Quel che i latini chiamarono letizia ge stiente, gl'italiani denominano gioia, o esultazione. V. queste voci. Abbiamo non pertanto conservato al vo cabolo gaudio lo stesso significato latino, di che fa manifesta pruova Dante, il quale chiama il regno celeste: Questo sicuro e gaudioso regno. E parlando dello spettacolo del paradiso: Di che stupor doveva esser compiuto l Certo tra esso, e'l gaudio mi facea Libito non udire e starmi muto. V. Letizia. i - - - GELo (spec.), la temperatura dell'ac qua, che è passata allo stato solido del ghiaccio. V. Ghiaccio. Se lo stato naturale dell'acqua sia il soli do, o pure il liquido, vedi l'articolo fluido, º GELosIA (prat.), inquietudine dell'ani mo per lo timore di perdere, o di non ot tenere una cosa che si ama. Differisce dalla invidia, quantunque ab bia taluni de caratteri di questa passione: l'uom geloso cerca di mantenere illeso il ben che possiede, e sta guardingo a cu stodirlo e a difenderlo: l'invidioso brama la cosa che non possiede, e si consuma di non possederla. Ma due gelosi i quali aspi rano ad un bene, che niun de due possiede son due perfetti invidiosi. V. Invidia. Nel significato più ovvio, la gelosia è propria della passione dell'amore, nella qua le suole progredire dalla semplice inquietu dine insino alla febbre ardente e alla sma nia. I suoi eccessi nascono da un doppio esaltamento della immaginazione, e della sensibilità irritata. GEMERE (prat.), lentamente piangere, e con lamento. GEMITo (prat.), la voce ch'esce fuori dal lento lamentarsi. GENERALE (spee. e dise. ), tutto quel che comprende più cose singolari, o una qualità comune a più individui. V. Indi aviduo, Qualità. Siccome concepiamo il generale per mez zo de nomi che diamo alle cose, e alle qualità loro; così giova indagare, come si Iſormino da noi tali nomi. Comechè le cose esistenti sien tutte singolari; pur nondimeno l'astrazione logica ci procura un'altra sorta d'idee, di loro natura complesse, le quali abbracciano le qualità comuni a più indivi dui, o più cose singolari complessivamente considerate. I nomi dati alle cose singolari son detti propri, quelli che designano qua lità comuni a più individui, son chiamati appellativi: gli altri che indicano plura lità di Esseri o di cose, diconsi collettivi. V. Appellativo, Collettivo, Proprio. ll nome di uomo dato al primo della spezie umana che fu sulla terra, fu un nome proprio ; e tale fu ancora quello dato al primo albero, o al primo fiume, o alla prima montagna, che l'uomo vide, quando aperse la mente alla percezione degli obbietti esterni. Ma non prima vide altri viventi a se simili, o altri alberi fiumi e montagne, che cotesti nomi da propri che erano divennero appellativi. 0uanto a collettivi, la pluralità degli ob bietti simili suggerì i nomi, che espri mono l'idea del più, dalla quale nacque ancora quella del numero. V. Mumero. Fermandoci a nomi appellativi o di qua lità, la mente non altrimenti li forma, se non astraendo le qualità dal subbietto cui sono inerenti, e considerando queste par titamente, o come necessarie ed inerenti a quel tale subbietto, o come accessorie e passeggiere. Così astraendo le qualità dai subbietti; e comparando le une alle altre, forma nuove idee generali delle qualità ne. cessarie o costitutive d'ogni Essere, delle simili, delle diverse, e a ciascuna di tali sorte d'idee assegna il nome di essenza, di attributo, di accidente, di simile, di diverso, e così delle altre della stessa na tura. L'idea generale dunque è il prodotto d'un'analisi, che la mente fa degli obbietti individuali del pensiero; e il nome che le dà è un segno, il quale esprime due idee ad un tempo, l'una delle qualità del sub bietto, l'altra della somiglianza del sub bietti che hanno le medesime qualità. Que sto è quel doppio significato, che i logici chiamarono comprensivo, e estensivo. Intesero essi per significato di compren sione l'espressione delle qualità necessarie e costitutive del subbietto, come l'idea del triangolo, la quale include in se quella della figura, e del tre lati rettilinei, e per significato di estensione vollero esprimere, che lo stesso nome abbraccia tutti i sub bietti, a quali conviene la medesima idea. Ma chi non vede quanto vaga sia l'espres sione di significato di comprensione, e quanto impropria sia l'altra di estensione, applicata ad un atto del pensiero? Pare dunque che l'uno e l'altro concetto possa essere meglio espresso denominando l'uno significato di qualità, e l'altro di somi 9lianza. Un'altra distinzione han fatto i logici per rispetto a nomi generali, la quale sembra appartenere più alla gramatica ge nerale, che all'analisi delle operazioni dell'intelletto. Distinguono essi i termini generali univochi dagli equivochi. Univo chi son quelli che hanno medesimezza di suono e di significato: tali sono i nomi di uomo, di città, di fiume, di monta gna; equivochi son quegli altri, che con un nome stesso esprimono idee diverse ; come il vocabolo abito, che significa ad un tempo la veste per coprirci, e la rei terazione dell'azione; o come la voce gallo che dinota o il pollo, o l'uomo nato nel le Gallie. E tra siffatti equivochi, che i Greci chiamarono omonomi, distinguono pure i gramatici, i così detti nomi ana loghi, i quali sebbene abbiano due signi ficati diversi, pure l'uno dipende dall'al tro per affinità o per somiglianza di rela zioni. Tali sarebbero per esempio il nome di sanità applicato ora alla naturale co stituzione d'un corpo vivente, ora alla qualità dell'aria o de'cibi, ed altri simi li. Le quali distinzioni non appartengono all'analisi del pensiero, ma son proprie dello studio del linguaggio, e dell'origine de vocaboli. V. Equivoco, Univoco. GENERALITA' (disc.), qualità di voca bolo, o d'idea che comprende più cose o idee singolari. - 278 - Abbraccia tanto il collettivo quanto l'astratto; e però nel primo senso vale uni versalità di Esseri o di cose; e nel secon do, un'idea che conviene a più subbietti, o anche una massima o una verità gene rale, non soggetta a restrizioni, GENERALIzzARE (spec. e dise.), rendere comune a più subbietti la qualità di uno, È vocabolo che esprime 

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