Thursday, August 13, 2020
IMPLICATVRVM -- in IV -- I
ABBOMINARE e ABOMINARE (prat.), l'aver in odio una persona, o un'azione col
desiderio di tenerla da se lontana. L'abominazione presuppone un'avver sione
riflettuta, da che il sentimento nasce da un giudizio formato intorno alle
cattive qualità dell'obbietto, che si vuol evitare. ABBORRIRE e ABoRRIRE
(prat.), l'aver in odio l'azione e 'l suo autore, senza po terne sopportare
l'aspetto. In questo sentimento il sinistro giudizio delle qualità
dell'obbietto è accompagnato da una naturale e istintiva ripugnanza. ABDUZIONE
(disc.), sorta di argomento (detto da Grecia rayaº m), nel quale la con
seguenza è compresa nella minore, men trechè questa non discende manifestamente
dalla maggiore, e però potrebbesi esigerne pruova. I notomisti gli danno altro
significato. ADiTo (spee. e prat.), facilità di ese guire un'operazione,
acquistata per la rei terazione delle medesime azioni. V. Azione. È comune alle
operazioni meccaniche e alle mentali, il perchè gli abiti si distin guono in
meccanici ed intellettuali. Il fondamento di ogni abito intellettuale sta nella
memoria, per la quale ritenia mo così le conseguenze ricavate dal ra
gionamento, come la convizione della ve rità loro, senza ripeterne le
dimostrazioni. Laonde ogni abito intellettuale è volonta rio nella sua origine,
comechè spesso ap parisca necessario. V. Memoria. Per contrario gli abiti
puramente mec canici possono nascere da azioni nella ori gine loro
involontarie, come son quelle che provengono dagl'istinti meccanici, nel quale
caso sono ancor essi involontari. V. Istinto. ABITUDINE (spec. e prat.),
inclinazione a reiterare le stesse azioni, acquistata per lo frequente
ripetimento di quelle. Differisce dall'abito, in quanto che questo si riferisce
all'atto, e quella alla potenza, o al modo di essere. V. Atto, Potenza.
L'abitudine è uno de principi d'azione, ora meccanico, ed ora razionale: mecca
nico, quando nasca dall'istinto della na tura: razionale, quando sia la
conseguenza d'un abito intellettuale. V. Azione, Istin to , Principio. Molti
han creduto che le scienze, le arti, le virtù e i vizi dovessero essere con
siderati come altrettante abitudini, il che può esser vero nel solo senso, che
l'abito è necessario a rendere familiari alla mente le verità d'ogni genere e i
principi delle cose, a collocare l'une e gli altri in un dato ordine, e a
confermare colla pratica le azioni mutabili e passeggiere dell'uomo. V. Arte,
Scienza, Virtù, Vizio. ABLATIvo (disc.), sesto caso del nome, tra Latini e
nelle lingue volgari, che espri me principalmente il tor via. 1 I casi servono
ad esprimere le relazioni delle cose, le une verso le altre; e nelle lingue che
hanno casi declinabili, le di verse desinenze del nome sogliono indi care la
differenza delle cennate relazioni. Dove poi queste non bastino, si ricorre
alle preposizioni messe avanti il nome. Così, l'ablativo è di quel casi, che
presso i Latini era sempre retto da preposizione. V. Caso, Mome, Preposizione.
ABNEGAZIONE (teol.), disposizione del l'animo, per la quale rinunziando taluno
ad ogni interesse della vita sensitiva, ri volge tutti gli affetti suoi a Dio.
AcATALEPSIA. V. Incomprensibile. AccADEMIA (crit.), adunanza d'uomini, o
letterati, o filosofi, o artisti, i quali operano insieme per l'utilità e
l'incremento delle lettere, delle scienze, e delle arti. Significa ancora il
luogo, dove i dotti si adunano. Vale pure, per significato speciale, stu dio
publico, università, ginnasio, liceo, o altro simile. AccanENmco (crit), membro
d'una ac cademia. AccENTo (disc.), inflessione della voce sopra una delle
sillabe della parola, la quale serve a raccogliere il suono di quel le. V.
Sillaba. Tutte le lingue hanno avuto gli accen ti, e la necessità di averne par
che na sca dalla stessa conformazione dell'organo della voce. Ipsa enim natura,
dice Ci cerone, quasi modularetur hominum ora tionem in omni verbo posuit
acutam vo cem, nec una plus, nec a postrema syl laba citra tertiam, quo magis
naturam ducem ad aurium voluptatem sequatur industria. (Orat. c. 18).
Moltiplice è l'uso dell'accento in ogni lingua: serve primamente all'armonia, o
sia all'unità della parola: distingue le di verse parti del periodo, e i
passaggi del pensiero da un obbietto all'altro: imprime alla parola il
carattere del sentimento e del l'affetto, che l'animo vuol esprimere: ser. ve
infine a rendere vario il significato dei nomi, dando così alle lingue, negli
stessi vocaboli, un nuovo corredo di espressioni. Quanto al primo, lo
chiameremo na tivo, o comune, perchè non è parola di più sillabe, che non abbia
il suo accen to, il quale può essere considerato come il centro o il punto
d'appoggio, intorno al quale le sillabe si formano. Circa il secondo, consiste
esso in una posa maggiore, che fa la voce sopra la parola che distingue un
inciso del discorso dall'altro. Per esempio, chi dice, la più importante
verità, è l'immortalità del l'anima, ferma la voce sopra il verbo è, che
distingue il primo dal secondo mem bro del discorso. Cotesto accento, che di
stingue le parole e non le sillabe, è stato da taluni detto enfatico,
denominazione, che in difetto d'altra, potrebb'essere dal l'uso confermata. Per
rispetto alla terza spezie di accento, che chiameremo di espressione, vuolsi
notare che vari ne sono i suoni, e tanti, quante sono le mutazioni, che può la
voce ricevere dalle interne commozioni dell'ani mo; nel che vale il detto dello
stesso Ci cerone: Vocis mutationes totidem sunt, quot animorum, qui mazime voce
com moventur. E per quel che concerne la quarta spe zie di accento, lo
chiameremo di quan – 5 – tità, perchè dalla lunghezza o dalla bre vità della
pronunziazione nascono due si gnificati, affatto diversi. Così la posa della
voce trasportata dalla prima alla seconda sillaba fa variare il significato di
ancora e di ancòra, di ambito e di ambito, e di altri simili. Quali sieno i
segni, che rappresentar pos sano gli accenti, e con quali regole deb bano
essere adoperati, son queste idee pro prie della particolar gramatica delle
lingue. Sovente chiamasi accento l'arte di ac centuare, e dicesi accento
poetico quello che fa sentire il ritmo de'versi; e accento oratorio l'acconcia
e armoniosa pronunzia zione dell'oratore. V. Eloquenza, Poesia. AccEssoRio
(dise. e spec.), che s'arroge e aggiugne ad altra cosa più considerabile, la
quale però dicesi principale. In questo senso vale ancora aggiunto. V. Aggiunto
AcciDENTALE (spec.), epiteto di quell'ef fetto, che proviene da una causa non
de terminata da leggi costanti e generali della natura, nel quale senso è un
contrapposto di costante o di principale. V. queste voci. La posizione del sole
per rispetto alla terra è la causa costante e principale del calore della state
e del freddo dell'inver mo; laddove i venti, le nevi, e le piogge son le cause
accidentali, che spesso alte rano e modificano l'azione della causa principale.
V. Causa. AcCIDENTE (ontol.), modificazione, per la quale una sostanza acquista
una, più che un'altra maniera di essere, senza rice vere mutamento nell'essenza
sua. V. Modo. Il moto p. e, è un accidente del cor po, il quale movendosi nulla
perde della propria essenza. V. Essenza. In un senso men rigoroso, è ogni qua.
lità aggiunta, la quale non si regge per propria natura, ma dee stare in altro
sub bietto. V. Qualità, Subbietto. Differisce dal modo, in quanto che di nota
un cangiamento sopravvenuto, il qua le sta senza dipendenza dal subbietto.
ACCUSA (prat.) della coscienza. V. Co scienza, Rimorso. AccusATIvo (disc.), il
quarto de casi del nome, il qual esprime l'obbietto del l'azione del verbo
attivo transitivo, come amo Pietro, o batto Sempronio. Oltre questo uso
principale ne ha un altro, che è il servir da compimento delle preposi zioni,
quando per mezzo di queste vuolsi esprimere una relazione di un obbietto ad un
altro, come per te otterrò una tal cosa, o per amor tuo mi adoprerò. V
Preposizione, Relazione, Verbo. AcQUIESCENZA (prat.), è propria della
coscienza, che soddisfa a se medesima. E vocabolo usato dal Magalotti.
ACROAMATIco, o AcRoATIco (spec.), voce greca, che dimota insegnamento arcano, o
senso oscuro espresso con figure, e con termini convenuti, per farlo noto a
disce poli capaci d'intenderlo. AcuME (spec.), qualità dell'intelletto, per la
quale o distinguiamo più qualità in un subbietto, o dal concreto ricaviamo
l'astratto, o dal particolare sagliamo all'universale. L'acume è la principal
qualità degl'in gegni metafisici. Cicerone spiegollo per un translato: ut
oculorum, sic ingenii acies. r – 4 – ActsTICA (erit.), scienza, o teorica del
suono, prodotto dalle vibrazioni de corpi sonori nell'organo dell'udito. E
parte delle scienze del moto, e delle matematiche ap plicate alle scienze
fisiche. ADDIETTIvo (disc.), nome di qualità, che accoppiasi al subbietto, di
cui il nome di cesi sostantivo. V. Qualità, Sostantivo, Subbietto. Gli
addiettivi, detti ancora italianamente aggiuntivi, contengono una indicazione
di qualità, che si dà ad un nome appellativo per ampliarne o per meglio
determinarne il significato. Cotesta ampliazione può ris guardare o le qualità,
o il numero degli obbietti denominati ; il che ha dato ori gine ad una varia
partizione degli addietti vi, che quasi ogni autore di gramatica generale ha
proposto, discordemente dal l'altro. Taluni gli hanno distinto in ad diettivi
fisici, o metafisici; altri in ad diettivi di comprensione e in articoli; altri
in addiettivi di comprensione e di estensione. Noi crediamo che la partizione
più semplice e più generica sia quella di addiettivi di qualità, e di numero.
V. Ap pellativo, Mumero, Qualità. Gli addiettivi diconsi predicati nel lin
guaggio logico, e son compresi tra gli universali. V. Predicato, Universale.
ADEQUATo (spec.). V. Idea. ADESIONE (dise.), assentimento che pre stiamo al
giudizio altrui, per conformità di opinione. V. Assentimento. Gli scolastici
distinguevano la certezza speculativa dall'altra detta di adesione, e dicevano
convenire la prima alla convi zione della evidenza, e la seconda all'assen
timento che si presta per ragione della im portanza della proposizione o
dell'interesse, che taluno abbia di accettarla come vera. Cotesta distinzione
pecca di logica esat tezza, dacchè pone il pregiudizio e la falsa opinione nel
luogo dell'assentimen to. E però va meglio detto che l'adesione corrisponde a
quell'assentimento implicito, o abituale che prestiamo al giudizio al trui per
autorità, o per propria credenza. V. Autorità, Credenza. ADORAZIONE (teol.),
onore e riverenza renduta a Dio. ADULAZIONE (prat.), atto vizioso di chi
maliziosamente, e con falsa lode lusinga alcuno. AEROGRAFIA (grec. sup.),
descrizione delle proprietà dell'aria; sinonimo di ae rologia, e però va tra
grecismi superflui. AERoLoGIA (erit.), descrizione o trattato delle proprietà
dell'aria, e de suoi feno meni, i quali appartengono al regno ete reo o
celeste, e di cui alcuni vengono esaminati nella scienza generale del moto e
delle forze motrici, e altri nella chi mica. V. Aria. AFFABILITA' (prat.),
abituale piacevo lezza nel conversare, dimostrata col volto e colle parole.
AFFERMATIvo (disc.), da affermare. Affermative diconsi da logici le propo
sizioni, colle quali giudichiamo, essere una qualità conveniente ad un subbietto;
o sia riconosciamo la convenienza del pre dicato al subbietto. V. Predicato. Il
predicato conviene al subbietto, quan do gli si può dare tutta quella ampiezza
– 5 – di significato, di cui il subbietto è ca pace. Per esempio, dicendo, che
l'uomo è animale, il predicato animale è preso in un senso tanto generico e
universale, quanto l'è il subbietto uomo. E per con trario, quando dico,
qualche uomo è giu sto, io do al predicato giusto un signifi cato tanto
ristretto quanto l'è il subbietto qualche uomo. Ora i logici, i quali vol lero
ridurre a regole astratte tutte le va rie combinazioni del discorso, espressero
cotesto requisito del predicato col seguente canone, cioè, che la proposizione
affer mativa determina il senso del predicato in quella stessa ampiezza di
significato che ha il subbietto, vale a dire, che se il subbieſto è universale,
il predicato lo sarà pure ; e per contrario se particolare l'uno, tale sarà
ancora l'altro, Di queste e di altre regole dilettavasi l'antica logica, quando
non conosceva al tra forma di ragionare del sillogismo, e quando al discorso
naturale erasi surro gato l'artifiziale. Noi vedremo, come que ste regole
oscuravano e isterilivano l'in telletto, in vece di guidarlo e di rischia
rarlo. V. Logica, Sillogismo. AFFERMAZIONE (dise.), giudizio col quale
pronunziamo, essere una idea conveniente ad un'altra, come quella del predicato
al suo subbietto. I logici la chiamavano ancora enun ciazione. V. Enunciazione.
AFFETTAZIONE (prat.), studio di appa rire diverso da quel che taluno è. E una
sorta di simulazione, commessa per vanità di lode, ugualmente disaggra devole
nel parlare, nello scrivere, e ne gli esterni portamenti del vivere, V. Si
mulazione. AFFETTo (prat.), emozione dell'anima, per la quale siam portati a
desiderare il bene o il male, ad un Essere sensibile capace del piacere e del
dolore. V. Bene, Dolore, Male, Piacere. Gli affetti essendo movimenti della
parte sensitiva di noi, più che della intellettua le, son comuni all'uomo e a
bruti; e considerati per rispetto al principio che li desta, comprendono tanto
le azioni be nefiche, quanto le malefiche. Cicerone li definì: impulsio, quae
sine cogitatione per quamdam affectionem animi facere aliquid hortatur, ut
amor, iracundia, et omnino omnia, in quibus animus vi detur affectus. - Sono
principi d'azione come gli appe titi e i desideri, e al pari di questi sog
getti all'imperio della ragione, sì che se da una parte danno un impulsione
all'azione, servono dall'altra come instrumenti della ragione per indirizzare i
portamenti della vita a fini della natura. V. Appetito, Azione, Desiderio.
Differiscono dagli appetiti, in quanto che questi risguardano la cosa
desiderata; laddove gli affetti hanno per loro obbietto immediato gli Esseri, a
quali il bene o il male si desidera. Così la fame, la sete e tutti gli altri
appetiti naturali o fattizi che sieno, spingono a bramare quel che possa
soddisfargli; mentre l'odio, l'amo re, l'ira, la pietà presuppongono sempre un
Essere sensibile, verso del quale in tendiamo esercitarlo. Nelle impulsioni,
che la natura ha dato alla nostra potenza attiva, onde renderla operosa, ha
ella messo una tale gradazio ne, che corrisponder potesse alla diversa -
sensibilità del particolari temperamenti. A tal gradazione corrispondono le
idee devo caboli inclinazione, affetto, e passione, de quali il significato de
essere l'uno dal l'altro distinto. V. Inclinazione, Pas sione. L'uso comune del
parlare scambia nel significato l'affetto coll'affezione, ma queste due voci
debbono essere distinte, tra perchè il linguaggio scientifico non dee conoscer
sinonimi, e perchè impropria mente chiamerebbesi affezione l'ira e la vendetta,
o almeno sarebbe un tal signi ficato produttivo di ambiguità. La copia de
vocaboli italiani permette senza impro prietà, che all'affetto diasi il
significato generale, riservato il particolare all'affe zione. V. Affezione.
Gli affetti vanno distinti in benefici e malefici, coteste due classi
riferisconsi ai due universali principi delle umane azio ni, l'amore, e
l'avversione. Tutti gli af fetti, qualunque sia la denominazione che loro diamo
per rispetto, o alle persone che ne sono gli obbietti, o alla causa che li
produce, o alla diversa intensità loro, non sono, se non altrettante deri
vazioni, o modificazioni de due cennati principi. V. Amore, Avversione.
AFFEzioNE (prat.), emozione benigna dell'anima, per la quale desideriamo il
bene d'un Essere dotato di sensibilità. Le affezioni tutte, delle quali siamo
ca paci, considerate a rispetto della naturale tendenza loro, sono ancor esse
altrettanti principi d'azione, i quali servono o alla nostra conservazione, o
ad un portamento della vita conveniente a fini della natura. La diversa
denominazione, che ad esse diamo o in grazia di coloro che ne sono gli
obbietti, o in grazia della causa che le muove, o in grazia finalmente della
diversa intensità, colla quale ci spingono ad operare, sono l'espressione di
quel vin colo generale, per lo quale la natura ha associato i viventi d'ogni
spezie ad un comune destino. Delle affezioni talune son dettate dal l'istinto,
e son quelle appunto che con trassegnano il primo stadio della vita. L'af.
fezione degenitori per la prole, soggettata ad analisi, così per gli uomini
come pei bruti, è una delle più maravigliose di mostrazioni della sapienza
infinita, colla quale l'Autor della natura ha nell'uomo chiamato la sensibilità
in soccorso della ragione, per tutte le cure necessarie alla conservazione
della prole, quando faccia uopo che l'azione fosse più pronta e più costante
del consiglio; e ha ne bruti im presso un affetto macchinale, di cui la loro
intelligenza non può penetrare il fine o le conseguenze. V' ha poi delle affe
zioni razionali, proprie dell'uomo, le quali son fondate nella opinione del
bene che questi si forma, e per conseguente seguono l'indole dell'opinione
stessa, in sieme con tutte le modificazioni, di cui que sta è capace. V. Bene,
Opinione. In fine l'affezione, come ogni altro prin cipio d'azione, è madre
dell'abito e del l'abitudine, la quale in tal caso prende il nome di simpatia.
Cotesta disposizione benefica è sorgente fecondissima di azioni, che posson
dirsi miste dell'affezione istin tiva e della razionale insieme. V. Sim patia.
AFFINITA (ontol.), forza della natura, per la quale le molecule de corpi, messe
in contatto, tendono ad unirsi tra loro. V. Molecula. Da tale forza noi
concepiamo che nasca la combinazione delle cennate molecule, e la composizione
de corpi, più o meno tenace secondo la diversa loro formazione, - 7 - Cotesto
vocabolo è proprio della chimi ca, ma esprime una verità generale, la quale
appartiene alle scienze fisiche del pari che alle metafisiche, come l'attrazio
ne, la forza, il moto. Sebbene sia stata introdotta da chimici francesi, pur
tuttavolta altri di essi hanno notato, essere questa denominazione vizio sa,
perchè ricavata dalla immagine d'una natural parentela tra le sostanze, che han
no maggior disposizione ad unirsi insieme. E però le affinità sono state da
altri chia mate attrazioni elettive, o èhimiche. Non pertanto trattandosi di un
vocabolo ricevuto dall'uso, ed essendo necessario distinguere diverse sorte di
attrazioni mo leculari, giova ritenerlo insieme cogli al tri testè dinotati. V.
Attrazione. AFFLIzIONE (prat.), dolore tormentoso, che seco porta abbattimento
di animo. AroRISMo (dise.), detto sentenzioso, che in breve sermone racchiude
un prin cipio, una regola, o una massima gene rale, a qual si sia dottrina
appartenente. V. Massima, Principio, Regola. AGENTE (spec.), l'Essere capace di
volontà, considerato come la causa del l'azione. V. Azione, Causa, Essere.
Nella filosofia intellettuale questo voca bolo è proprio dell'Essere dotato
d'intelli genza e di volontà, capace di esercitare un potere sopra le proprie
determinazioni: per distinguerlo dagli altri agenti della natura, chiamasi
agente morale. La no zione dell'agente morale dunque è pro pria dell'uomo. V.
Morale, Potere, Vo lontà. AGGErrivo, e Acciu Nrivo.V. Addiettivo. AGGIUNTo
(spec.), tutto quel, che con sideriamo come soprapposto all'essenza d'un
subbietto. In questo senso vale estrinseco, o accessorio. V. Accessorio,
Estrinseco. Ma aggiunto può dirsi tanto un subbiet to o sostanza, unita ad
un'altra, quanto una qualità accidentale, o un modo di essere anche
contingente, unito al subbiet to. Nel primo caso chiamasi sostanziale, e tal
sarebbe l'unione dell'anima col cor po: nel secondo dicesi accidentale, come la
figura nel corpo. Nella filosofia morale son intese colla denominazione di
aggiunti le circostanze, che possono diversamente qualificare l'azio ne, come
la persona, il fatto, il luogo, i mezzi adoperati, il fine, il modo, e il
tempo. V. Azione. AGIRE (spec.), esercitare la potenza, per la quale un Essere
ha la virtù di pro durre un cangiamento in un altro. V. Po denza. Differisce
dall'operare, perchè l'uno si adopera nel senso neutro, e l'altro nel l'attivo
e nel neutro insieme. V. Operare. È vocabolo necessario al linguaggio
scientifico, usato dal Magalotti. AGITAZIONE (prat.), inquietudine d'ani mo,
accompagnata da incertezza di evento o da dubbio. V. Inquietudine, Dubbio.
AGRARIO (erit.), nome di qualità dato a quel genere di arti, che pone in opera
le forze vegetative e generatrici della na tura. E però le arti agrarie
distinguonsi dalle meccaniche e dalle chimiche. V. Arte, Meccanico, Chimico. -
AGRICOLTURA (crit.), arte di coltivare e di rendere fertile la terra. - 8 -
Molti hanno distinto l'agricoltura dal l'agronomia, dando a questa le regole, e
a quella la pratica applicazione delle re gole stesse. Ma se una tal
distinzione reg gesse, il nome di arte passerebbe alla agronomia, e l'agricoltura
resterebbe un semplice mestiero. AcRoNoMIA (crit), teoria della coltura della
terra. Non è diversa dall'agricoltura, la quale resterebbe un semplice
mestiere, se i prin cipi e le regole scientifiche dell'arte si vo lessero da
lei separare. ALACRITA' (prat.), prontezza d'animo volenteroso, la quale nasce
da uno stato di calma e di contentezza. Differisce dall'allegrezza. V. questa
voce. ALCIIIMIA (erit.), arte che si prefigge, per mezzo di operazioni
chimiche, d'imi tare i prodotti della natura, e di eseguirgli più prestamente
che la natura stessa non fa. Esempio di simili prodotti potrebbessere il
cinabro artifiziale, che imita perfetta mente il naturale. E però fu detta
chimi ca sublime, da che tanto suona la voce alchimia. Il desiderio di produrre
dell'oro, e di trovare un rimedio curativo di tutti i mali, ne fece il mestier
decerretani e degl'illusi; il perchè è scomparsa dal catalogo delle arti. -
ALFABETIco. V. Ordine. ALFABETo (disc.), lista delle lettere, o degli elementi
della parola, disposte nel l'ordine, che loro ha dato l'uso della lingua.
Cotesto vocabolo è formato dal suono del le due prime lettere della lingua
greca, ma come nome universale è adoperato per espri mere la serie de caratteri
elementari d'ogni lingua, comechè quelle due lettere iniziali sieno ne moderni
idiomi diversamente pro nunziate. Gl'Italiani danno alla serie delle loro
lettere il nome di abbicci, ma cote sto nome non esprimerebbe neppure nella
nostra lingua l'idea generale d'un cata logo delle lettere di qualunque idioma.
V. Carattere, Idioma, Lingua. Gli alfabeti delle lingue, così antiche come
moderne, variano nella quantità del le lettere; dapoichè dal numero di venti
due, di quante era composto l'ebraico e il latino, e di ventiquattro che ne
aveva il greco; giungono insino a dugento e più, quanti dicesi che ne abbia
l'alfa beto etiopico e l'arabico. Una sì grande differenza nasce, dacchè si
sono confusi i suoni semplici co composti, e son con tati come suoni principali
le semivocali, e i suoni delle vocali modificate dalle aspi rate o dalle
consonanti. Bastano due os servazioni per dimostrare la superfluità di molte di
tali lettere: una che le lingue de popoli barbari ne abbondano più che quelle
del colti: l'altra, che il numero delle lettere non contribuisce all'accresci mento
del vocaboli radicali, ne quali è principalmente riposta la ricchezza delle
lingue. Infatti la greca, comechè avesse avuto sole ventiquattro lettere, è
riputata come la più ricca di radici, che oltre passano il numero di tremila e
dugento, e dalle quali è nato il prodigioso numero de composti e del derivati
loro. Una terza ragione, ricavata dalla spe rienza, e dalla natura stessa
de'caratteri, ci dice, che gli alfabeti non poterono for marsi, se non per la
invenzione della scrit tura; d'onde segue che incerti e indeter minabili sien
quelli de popoli, che non han no scrittura; e imperfetti quegli altri delle
nazioni, le quali ne hanno tolto a presto uno da genti di diverso parlare,
senza averlo potuto per lunga esperienza adattare abisogni della propria
lingua.V. Serittura. Molti di coloro, i quali credono che si possa colla lima
della ragione emendare e rifare tutto quel che abbiamo ricevuto dall'uso e
dalla sperienza, hanno notato negli antichi e ne moderni alfabeti diverse
irregolarità ed imperfezioni, di cui han proposto la riforma. Tali sono, per
esem pio, le lettere che danno lo stesso suono, i diversi suoni che dà una
stessa lettera, le aspirazioni non necessarie a distinguere un suono
dall'altro, e gli scambi che la pronunzia fa delle lettere e del dittonghi. E
però han proposto di sbandire talune let tere, d'introdurre nuove vocali, e di
met tere in armonia la pronunzia colla scrit tura. Distinguiamo la correzione
degli al fabeti dalla pronunzia. Per dichiarare superflue talune lettere,
converrebbe prima dimostrare, ch'esse non sono di verun altro uso fuor di
quello, che è notato come soprabbondante; e per introdurre nuove vocali
bisognerebbe pri ma trovare nuove inflessioni di voce, tanto chiare e distinte,
quanto quelle che la pa rola e il canto han sinora dimostrato pos sibili ;
siccome per sopprimere le aspira zioni, e i suoni nasali e gutturali, fa rebbe
uopo di una nuova sorta di ortope dia, la quale rendesse egualmente fles sibile
e armoniosa la voce de popoli siti sotto le diverse zone del cielo. La rifor ma
dunque degli alfabeti è una di quelle utopie, per le quali vorrebbesi non sola
mente distruggere la forza dell'abito, ma emendare la natura. La parte più
plausibile di tal riforma sarebbe forse lo stabilire la conformità tra l suono
della voce e la scrittura, per la ra gione che ne adduce Quintiliano: hio est
usus litterarum ut custodiant voces , et velut depositum reddant legentibus;
ita que id ea primere debent, quod dieturi sunt. Ma un tal voto di uniformità
può avere un doppio scopo: o rendere più fa cile agli stranieri la lettura de
libri scritti in una lingua loro ignota: o quell'altro filantropico desiderio
(proposto da Ludewig e inserito nelle transazioni filosofiche del l'anno 172o)
di ridurre a suoni comuni le pronunzie di tutte le lingue viventi. La prima
idea sarebbe umana, sebbene poco verisimile sia, che una nazione in tera
violentar volesse l'inveterata abitu dine della scrittura, per rendere più ap
prendevole agli stranieri la propria lin gua. La seconda poi sente d'una utopia
ancora più esagerata, qual sarebbe il vo ler dare al genere umano un linguaggio
universale. Per la qual cosa più ragione vol partito è il lasciare star le
riforme, e il tenere per fermo, che simili concetti ci vengon da quelli, i
quali non credono che le lingue e la scrittura ci son venute dall'uso e dalla
tradizione, ma hanno per vero che sieno l'opera del supposti in ventori della
parola ; il perchè possono essere disfatte e modificate nella stessa ma niera
come furono formate. V. Parola. La gramatica generale, considerando l'alfabeto
come la prima base della parola e del discorso, ne distingue le parti, ed
esamina la natura di ciascuna di esse: ella divide in due classi principali le
let tere, che lo compongono, le vocali cioè e le consonanti. V. Consonante,
Vocale. ALGEBRA (crit.), scienza che insegna il calcolare le quantità d'ogni
sorta, rappre sentate con segni universali. 2 – 10 – Ella è di due spezie,
numerale e let derale. La numerale, o volgare versa circa la soluzione del
problemi aritmetici, valendosi di talune lettere o di altri se gni per dinotare
le quantità ignote, e del le cifre numeriche per esprimere le quan tità date o
note. La letterale o speciosa poi, non solamente imprende a risolvere pro blemi
aritmetici, ma è l'instrumento gene rale per la soluzione del problemi, e per
la dimostrazione, non che per l'inven zione deteoremi di qualunque natura essi
sieno, aritmetici, geometrici, o meccanici. V. Aritmetica, Mumero. Un'altra
partizione dell'algebra nasce dal diverso aspetto, sotto il quale ella consi
dera la quantità. L'algebra finita risguarda la quantità sempre nel medesimo
stato di grandezza, che distingue in grandezze cognite, e incognite. Il calcolo
differen ziale e integrale al contrario distingue le quantità in costanti e
variabili, perchè con sidera i diversi stati di grandezza, pequali possono
passare, crescendo per gradi più o meno piccioli, e spesso infinitesimi. Per
questa ragione il calcolo differenziale e in tegrale prese in origine i nomi di
calcolo znfinitesimale, di calcolo delle flussioni, e di analisi degl'infiniti.
L'algebra è il maggiore instrumento dell'analisi, perchè il suo metodo e il suo
linguaggio favoriscono non solamente la soluzione del problemi, ma l'invenzio
ne altresì: il metodo, perchè procedendo sempre dalle conseguenze alle cause
per viene facilmente alle conclusioni genera li: il linguaggio, perchè
sostituisce i se gni alle idee e dà alla mente una ma ravigliosa prontezza per
iscoprire le re lazioni delle cose tra loro paragonate , senza distrarla con proposizioni
incidenti. V. Analisi. ALGORISMo (crit.), arte del numerare così
nell'aritmetica come nell'algebra. È voce proveniente dall'arabo, di cui gli
spagnuoli han fatto maggior uso, e che è stata per antica adozione ricevuta da
gl'italiani. ALLEGREzzA (prat.), contentezza d'ani mo, di cui il volto ancora
dà segno, nel quale caso dicesi letizia, onde Dante disse: Come letizia per
pupilla viva. Differisce per gradi dal giubbilo o dalla gioia, e dalla
esultazione. V. queste voci. ALTERNATIvo (disc.), epiteto dato alle
proposizioni opposte, delle quali una deles sere ammessa, l'altra esclusa. V.
Propo sizione. AMBASCIA (prat.), difficoltà di respirare, che impropriamente si
trasporta a travagli dell'animo; tanto maggiormente, quanto non manca la lingua
di altri vocaboli per esprimere l'affanno, che ci viene dal do lor morale. V.
Angoscia. AMBIGUITA' (dise), difetto d'una propo sizione o d'un discorso,
capace di doppio SCIlSO, AMICIZIA (prat.), amore scambievole tra eguali, che
han conformità di principi e di affetti. L'amicizia ha il suo fondamento nella
benevolenza, che la natura ha ispirato agli uomini, come veicolo alla unione, e
come istinto della comunione, alla quale gl'invita. V. Benevolenza. Acquista il
carattere di virtù, e diviene utile alla pratica de'doveri verso degli al tri,
allorchè è ridotta in abito, ed è fon data nella scambievole esistimazione.
Cicerone, eloquentemente ritrasse l'in dole e i caratteri dell'amicizia: omnium
divinarum humanarumque rerum cum benevolentia, et caritate summa consen sio:
qua quidem haud scio, an exce pta sapientia, quidquam melius homini sit a diis
immortalibus datum. Divitias alii praeponunt, bonam alii valetudi nem, alii
potentiam, alii honores, multi etiam voluptates: belluarum hoc quidem extremum
est : illa autem superiora, caduca et incerta, posita non tam in nostris
consiliis, quam in fortunae te meritate. Qui autem in virtute summum bonum
ponunt, praeclare illiquidem : sed haec ipsa virtus amicitiam gignit et
continet: nec sine virtute amicitia esse ullo pacto potest. AMIco (prat.), chi
ci è caro per la virtù sua, e verso del quale pratichiamo per somiglianza
d'inclinazione e per abito, i doveri e gli ufizi della benevolenza. Per non
dipartirci da concetti di Cicero ne, l'amico è un altro se stesso. AMMIRAZIONE (prat.),
maraviglia colla quale osserviamo un fatto, che credevamo o non possibile, o
difficile ad avvenire. In un senso traslato si adopera per espri mere il
piacere, che in noi desta il bello e il buono non comune. AMoRE (prat.),
godimento dell'anima per l'altrui bene. V. Bene. È l'affetto, per lo quale la
natura ha invitato gli uomini all'unione, e di cui ha impresso il germe
nell'istinto. L'istinto è riposto nel bisogno e nel desiderio scam bievole di
soddisfarlo. Così, se si cercano i primi tipi dell'amore, si trovan questi
nelle prime congiunzioni, che la natura stessa ha preparato per la formazione
delle famiglie e della domestica società, o sia ne legami coniugali, e in
quelli della ma ternità, della paternità, e della figliuo lanza. V. Affetto, Bisogno,
Istinto. Siccome l'amore comincia dal bene sen sibile, ed è poi rischiarato e
perfezionato dalla ragione; e siccome le voci tutte del parlare prendon
principio dagli obbiettima teriali, e son di poi trasportati agl'intel
lettuali; così l'uso ha attaccato a questo vocabolo, quasi per suo principal
signifi cato, l'idea della natural propensione per la quale l'un sesso inchina
all'altro. In questo senso l'amore è stato risguardato, come comune a bruti; e
da poeti è stato raffigurato come l'anima della natura, o sia come il primo
veicolo della genera zione, per la quale la materia si forma e si riproduce. Ma
tra l'amor sensitivo e l'amor razio nale, v'ha quella medesima differenza che
passa tra l'istinto e l'affetto, e tra 'l pia cere e il bene. In questa differenza
ap punto è collocato il limite, che distingue l'amor de'bruti da quel
dell'uomo. Che se la natura ha ne sensi impresso un istinto o una spinta
all'azione, da lei predispo sta per la conservazione e per la riprodu zione
degli Esseri; ha d'altra parte dato alla ragione la cognizione per subordinarlo
al suo fine e per moderarne l'impeto. L'amore, considerato come passione, è un
vocabolo di genere, il quale in se comprende molte spezie di affetti, che con
diversa gradazione contengon tutti il prin cipio della benevolenza. Laonde le
passioni sogliono essere partite in quattro classi, nella suddivisione delle
quali può trovarsi la scala di tutte le altre. Tali sono l'amo ar - 12 - re,
l'avversione, la gioia, e la tristezza. V. Avversione, Gioia, Tristezza.
Comechè l'amore contenga implicita mente l'idea d'una relazione ad un al tro
Essere, purtuttavolta si applica ancora alla propria persona; nel quale caso di
cesi amor di se il sentimento, per cui discerniamo e desideriamo il mostro mag
gior bene. In questa discernenza è riposta una delle maggiori pruove della
esistenza in noi d'una sostanza spirituale, la quale distingue le diverse parti
del suo essere composto, e giudica di se come fa de gli altri Esseri. La
conoscenza di questo maggior bene, cui ella provvede, è quel che è stato detto
proprio interesse. V. In iereS8e. L'amor di se, è stato con ispezial nome
chiamato ancora amor proprio, quando siam da esso spinti, a preferire la pro
pria utilità ad ogni altro bene, o a pre sumer troppo di noi e delle qualità no
stre. Quantunque l'interesse o l'utilità propria, sia uno di quei principi
d'azio ne che diconsi istintivi, perchè nasce dal desiderio della nostra
conservazione; pur tuttavolta, quando diviene l'unico mo tore delle nostre
azioni, degenera in un vizio, che distrugge le altre inclinazioni della natura,
e spezialmente il principio della sociabilità. Questo è quel che dicesi
egoismo. V. Egoismo. “ Similmente un falso sentimento del pro prio merito
degenera in un'altra estremità biasimevole e odiosa, più dell'egoismo,
imperocchè alimenta l'orgoglio, nasconde noi a noi stessi, e ci rende a tutti
dispre gevoli. V. Orgoglio. D'altra parte l'amor di se, moderato dalla ragione
diviene un principio di at tività e di virtù, ci fa distinguere quel che
dobbiamo a noi stessi e agli altri; c ispira il sentimento della emulazione al
lorchè trattasi o di sostenere i propri diritti, o d'imitare le nobili azioni
degli altri; e nel ben fare, ci fa amare il bene altrui, come il nostro, e
schiude la mente a quel divino precetto, che ci comanda di fare per gli altri
quel, che desidereremmo per noi stessi. Guidato poi dalla modestia, o sia dalla
conoscenza di noi medesimi, ci dimostra, non quel che abbiamo di so verchio, ma
quel che ci manca; e quanta sia l'insipienza di quelli, che pavoneg giansi
nella gratuita opinione di loro stessi. V. Emulazione, Modestia. AMOREvoLEzzA
(prat.), benevolenza figlia dell'amore, o della amistà, che si dimo stra con
cortesi maniere. V. Benevolenza. AMoRFo (spec.), nome dato alle sostanze materiali,
che non hanno veruna forma regolare. AMPLIFICARE (disc.), dilatare con pa role
un pensiero o un argomento, per metterlo in un aspetto più favorevole. È
diverso dall'esagerare, perchè quel l'azione si contiene ne limiti del vero, e
questa lo trapassa; ond'è che l'amplifi cazione diviene una figura del retore e
dell'oratore. V. Esagerare. ANAcLASTIco (crit.), vocabolo antiqua to, che
esprime la dottrina della luce re fratta, ora comunemente denominata diot
trica. V. questa voce. ANAGoGIA (teol.), assorbimento dell'ani ma in Dio, e ne
pensieri celesti. ANALISI (disc.), metodo di ragionare o di operare col fine di
trovare il vero. Il nome di analisi è stato promiscua mente dato a metodi tra
loro diversi, il che ha ingenerato ambiguità e false defi nizioni. A rimuovere
la confusione delle idee, uopo è distinguere il significato di cinque nomi dati
allo stesso metodo; e sic come mutar non possiamo i vocaboli ri cevuti, così
continueremo a distinguere, l'analisi logica, la matematica, la fisi ca, la
chimica, e l'intellettuale. Analisi logica è stato detto quel ra gionamento,
per lo quale esaminiamo le varie proposizioni d'un discorso, e col ridurle a
principi loro, giudichiamo del la verità delle conclusioni da essi dedotte.
Qualunque sia l'ordine che il ragionamento segue, per iscoprire la verità e la
coerenza del discorso; o che si parta dalle verità generali, e si discenda alle
particolari; o che da queste si rimonti a quelle; una tal disamina vien sempre
chiamata ana lisi. Infatti così è stata ancora denominata quella operazione che
i logici fanno, di ridurre l'imperfetto a perfetto sillogismo. In somma hanno
essi chiamato analisi il critico sminuzzamento delle parti del di scorso, e non
il metodo di procedere dal particolare al generale. - Assai diversa è l'analisi
matematica, la quale consiste principalmente in questo, che da una proposizione
certa, o per tale ammessa, cercasi discendere a tutte le con seguenze, che
possono dalla medesima es sere dedotte, insino a che si giunga ad una verità
nuova, nella quale si trovi la solu zione d'un problema, o la dimostrazione
d'un teorema. Tutta l'analisi matematica degli antichi consisteva nell'analisi
geometrica, la quale non suggeriva che pochi precetti, e non aveva regole, che
dirittamente conduces sero allo scoprimento della verità ignota. Il geometra
camminava quasi a tentone nella incertezza di trovare, o di smarrire la via; sì
che faceva uopo di grande forza di mente per inventare, dovendo ella ser virsi
d'un instrumento cotanto imperfetto. L'algebra è quella, che ha somministrato
regole e facilità, per procedere con mag gior sicurezza allo scoprimento delle
con seguenze, che nascer possono dalle verità note. Così l'analisi algebraica
ha aperto una nuova e più ampia strada alla inven zione. V. Algebra, Invenzione.
Dell'analisi fisica prendiamo la defi nizione da Newton : « ella consiste nelle
osservazioni e negli sperimenti, da cui per induzione ricavansi le conseguenze,
contra le quali debbon essere ammesse le sole obbiezioni, che nascer possono da
contrari sperimenti, o da verità certe : per mezzo di tale analisi si può
procedere da composti a componenti, da movimenti alle forze che gli producono,
dagli ef fetti alle cause, e dalle cause generali alle generalissime. La
sintesi poi parte dalle cause già scoverte e ammesse come prin cipi, spiega per
mezzo di esse i fenome ni, che ne sono i prodotti, e dimostra le sue
spiegazioni ». Da questa definizio ne, e dal contrapposto della sintesi risul
ta, 1.º che l'analisi fisica procede sempre dal particolare al generale;
laddove la ma tematica nella ricerca delle verità ignote procede ancora dal
generale al particola re; 2.º che i prodotti dell'analisi mate matica son
sempre perfetti, perchè per essa si perviene allo scoprimento di ve rità
assolute e immutabili; laddove i pro dotti dell'analisi fisica sono imperfetti,
o relativi, perchè per essa giugnesi soltanto a scoprire quelle leggi generali
della na tura, la conoscenza delle quali è compa tibile colla capacità desensi
e della uma ma comprensione, 3.º che l'analisi, pro priamente detta, contiene
in se l'arte di trovare il vero, e però non ha bisogno di dimostrare i
risultamenti delle sue inve stigazioni; mentrechè la sintesi, seguendo un
procedimento contrario de essere per necessità coadiuvata dall'arte di dimostra
re. V. Induzione, Sintesi. L'analisi chimica è la scomposizione decorpi, fatta
per conoscere i componenti loro. E questa una analisi di cose mate riali, che
più di tutte le altre corrisponde al significato etimologico della voce ana
lisi (che vuol dire seiorre o risolvere); dapoichè contiene la risoluzione o
ridu zione delle combinazioni della materia in talune molecule o principi, che
noi cre diamo primitivi, e che ci fan conoscere molte qualità del loro
composti. Ella ha di comune coll'analisi fisica il metodo del l'investigare e
del ragionare, perchè al pari di quella sperimentalmente procede da composti a
componenti; ma più im perfetti ancora sono i suoi prodotti, per chè ci
conducono appena alla cognizione de componenti secondari, lasciandoci nel la
oscurità de principi costitutivi delle cose, e dell'ordine naturale. Cotesta
analisi non pertanto distinguesi in perfetta e imper fetta perfetta è quella,
che ha luogo ne composti binari, quando di due so stanze l'arte riesce a
volatilizzare l'una o a procurarne la combinazione con una terza; lasciando
l'altra intatta per modo, che re stituendole il componente volatilizzato, ri
torna il corpo nel suo stato primiero: im perfetta è quella, che si applica a
compo sti ternari e quaternari, quando separato uno dei componenti, gli altri
si uniscono tra loro con proporzioni diverse da quelle che la natura aveva
stabilito nel suo pri mitivo composto, V. Chimica, Composto, L'analisi
intellettuale finalmente è un metodo nuovo, introdotto per analogia del
l'analisi fisica; dacchè per essa cerchiamo di passare dalla conoscenza del
complesso al semplice, del particolare all'universale, e dallo effetto alla
causa. Essendo l'animo, per sua principal qualità, dotato della vir tù di
vedere se stesso, di conoscere e di distinguere le sue interne operazioni, noi
applichiamo il metodo della osservazione a fatti del pensiero, per discernere i
suoi atti semplici, per indagarne le varie com binazioni, e per istabilire così
taluni fatti generali, i quali ci guidano alla cogni zione delle principali
qualità della sostanza spirituale, e delle leggi della umana intel ligenza. Un
tale ordine di ragionare esclude le ipotesi e le opinioni anticipate, o pre
giudizi, i quali formavano il fondamento dell'antica filosofia, e soggetta lo
studio dell'intelletto, come quello della natura esteriore, alla guida della
sperienza, sola fiaccola dataci per conoscere noi stessi, e le cose che ci
circondano. Ma dal metodo in fuori, la filosofia sperimentale dello spi rito
umano non ha nulla di comune colle scienze fisiche; che anzi è tanto da esse
diversa, quanto diversi sono i fatti mate riali dagl'intellettuali. Niuna
induzione o analogia prende ella dalle cose sensibili; nè presuppone altra
connessione tra quelli e questi fatti, fuori della corrispondenza e dell'ordine,
che la natura ha stabilito tra la passiva materia e la intelligenza, che la
muove e dirige. Uno dunque è il me todo del ragionare, ma due e diversi sono
gli ordini de fatti, a quali cotesto me todo è applicato. Regola, o canone ge
nerale dell'analisi intellettuale è, il non ispiegare mai gli atti del pensiero
e del la intelligenza, per quelli che formano il subbietto dell'analisi fisica.
Cotesta regola – 15 – non de essere giammai adombrata dalla promiscuità
devocaboli. A rimuovere l'am iiguità, che nascer potrebbe dalla comu nione del
linguaggio, uopo è ricorrere alle definizioni, acciocchè resti chiaramente de
terminata la differenza del significati, nei uali debbon essere intesi i
termini del l'una o dell'altra scienza. V. Analogia, Definizione, Induzione.
ANALITIco (dise), che appartiene all'analisi. Metodo analitico vien detto
l'ordine, che serba la mente nel procedere dalle verità particolari alle
generali. Un tal metodo fu nelle scuole chiamato a posteriori, perchè
l'osservatore prende il fatto, come principio delle sue investigazioni. V. 08
servazione, Posteriore. Molti han disputato intorno alla preſe renza da darsi
al metodo analitico per ri spetto al sintetico; e taluni lo han pre dicato,
come il metodo unico della ra gione. - Bacone e Newton sembrano avere indi cato
il pregio caratteristico sì dell'uno che dell'altro. L'analitico serve alla
invenzio ne, il sintetico alla dimostrazione. L'uno e l'altro non pertanto sono
egualmente necessari al ragionare, e non solamente son connaturali all'intelletto,
ma alterna mente soccorronsi, prima per formare le verità generali, e di poi
per conoscerne le relazioni, e per ricavare dalle verità generali tutte le
particolari conclusioni, che da quelle possono essere dedotte. Uti lissimo
inoltre è il metodo sintetico per saggiare la verità delle conclusioni gene
rali, alle quali perviene l'analitico, e per dimostrare con un inverso
ragionamento la connessione tra i principi e le conse guenze. V. Dimostrazione.
- ANALOGIA ( spee. ), principio dettato dalla natura, per lo quale conosciamo,
che le sue leggi sono costanti ed unifor mi; dal che ricaviamo, che ne fenomeni
dipendenti da queste leggi il passato è stato come il presente, e il futuro
sarà come il presente ed il passato. V. Legge, Matura. Cotesto principio ci è
rivelato dalla co scienza, e dall'interna osservazione di noi stessi; e
convinti che siamo della sua ve rità, lo trasportiamo fuori di noi, e ne
formiamo una regola di ragionamento. È il fondamento del metodo detto d'induzio
ne. V. Induzione. Risguardata l'analogia come regola di ragionamento, è la
somiglianza, che ri caviamo dalla comparazione delle cose tra loro. Cotesta
somiglianza può stare o nel le qualità essenziali, o ne loro accidenti. V.
Accidente, Essenza. Applicata a nostri giudizi intorno alle cose contingenti, è
il fondamento della probabilità delle umane congetture per tut to quel che non
cade sotto i sensi. Una tale analogia presuppone non solamente la possibilità,
ma ancora la verisimiglianza. Il ragionamento per analogia, accioc chè sia
concludente aver dee due requisi ti: uno, che le cose insieme comparate abbiano
la maggiore possibile somiglianza tra loro: l'altro, che sia applicato alle
cose, le quali non sieno capaci d'altra spezie di certezza, fuorchè della
semplice probabilità.V. Certezza, Verisimiglianza. Gli scolastici definivano
l'analogia, una somiglianza, giunta a qualche diversi tà, e distinguevano tre
spezie d'analogia: l'analogia, d inegualità, di attributo , e di proporzione:
la prima verificavasi quando la ragione della comune denomi nazione era fondata
nella natura, sebbene – 16 - le cose comparate fossero diverse nell'or dine o
nel grado: tal'era l'analogia tra l'uomo e il bruto: la seconda, quando la
ragione del nome è la stessa, ma diversa è la capacità del subbietto, come
quando dicesi un uomo sano, e un sano alimen to: la terza, quando si trovi
somiglianza nell'effetto, sebbene sia diversa la ragione del nome, come quando
si dicesse, che le squame della testa del pesci sono ana loghe a polmoni degli
animali terrestri. Ma coteste distinzioni del pari che tutte le altre
scolastiche definizioni, erano relative più all'uso del vocaboli ricevuti, che
alle vere relazioni delle cose tra loro comparate. ANALocISMo (dise.),
argomento dalla causa all'effetto, o da questo a quella. V. Causa. ANATOMIA,
ANoToMIA, e NoToMIA (crit.), arte di dividere e ridurre in pezzi le parti
solide de corpi animali, per conoscerne l'interna struttura. Molte sono le
partizioni di quest'arte, la quale nella sua generica denominazione abbraccia la
dissecazione di ogni corpo or ganico. La più antica divisione fu in no tomia
umana, e comparata, la prima ver sava circa l'organico dell'uomo: la secon da,
degli animali bruti; dalla unione del l'una e dell'altra nacque la notomia e la
fisiologia generale. Oggi piace dare a cia scuna delle sue spezie un proprio
nome; il perchè è stata da taluni chiamata an drotomia e antropologia la
notomia del l'uomo; zootomia quella de'bruti, e fito tomia quella delle piante,
o sia decorpi organici vegetabili. Dedue nomi dati alla notomia umana,
scegliamo il secondo, e rifiutiamo il primo, perchè il vocabolo androtomia
esprime più l'opera del sezio nare, che lo scopo scientifico di cotesta arte.
(V. il disc. prelim.). V. Antropo logia, Fitologia , Zootomia. La motomia, come
abbiamo altrove ac cennato, è il primo fondamento di tutte le scienze e arti
mediche, dacchè per co noscere l'alterazione degli organi o dei fluidi, da
quali nasce l'economia animale, uopo è aver conosciuto la struttura degli uni,
e il modo come circolano gli altri; siccome per la terapeutica è necessario
l'adattare e il determinare l'azione de rimedi alle varie condizioni degli
organi stessi. Maggiore ancora è il bisogno, che l'arte chirurgica ha della
notomia, perchè co noscer dee non solamente l'interno tessuto del corpo, ma le
facce, gli angoli, le mar gini, e i rapporti d'ogni organo coll'al tro; sì che
la notomia chirurgica, di rin contro alla medica, rappresenta quella me desima
differenza, che passa tra una carta corografica speciale, e una geografica ge
nerale. - Un'altra importante divisione fu fatta sul finire del passato secolo
tra la noto mia generale o fisiologica, e la patologi ea, la quale per mezzo
delle sezioni dei cadaveri, scopre le condizioni decorpi in fermi, e guida
l'osservatore medico alla cognizione delle cause del morbi e della morte:
cotesta arte speciale, per la sma mia, che molti hanno di moltiplicare i gre
cismi, è stata ancora chiamata nosotomia e necrosomatoscopia: il suo nome carat
teristico è di notomia morbosa, o pato logica. La sua utilità è grande, ma per
essa non cesserà di esser congetturale l'etio logia medica, o sia la scienza
delle cause delle malattie, perchè la morte suole il più delle volte confondere
gli effetti delle cause morbose con quelli della dissoluzione della vita. E
però non è criterio che ba – 17 – º sti, per distinguere gli uni dagli altri,
quando le infermità abbiano lasciato tracce riconoscibili della origine loro.
Se la motomia è il fondamento delle arti curative, lo è pure della storia natu
rale e di quella parte delle scienze fisi che, le quali versano circa le
qualità dei corpi organici. Non è poi straniera alla filo sofia speculativa per
lo studio, e per la con templazione della natura: è il mezzo per farci
conoscere il sapiente e maraviglioso magistero della fabbrica dell'uomo, e del
le prerogative della sua spezie. Di quanto la natura non ha distinto l'uomo,
cui ha dato la più elegante e dilicata struttura, per custodir la quale ha
lasciato alla sua propria intelligenza quella cura, colla qua le provvede ella
stessa alla conservazione delle altre spezie de viventi? Quantunque l'economia
della vita animale sia rego lata da leggi a tutte comuni, e una so miglianza si
scorga negli organi della re spirazione, della digestione, e della ge nerazione;
pur tuttavolta paragonati gli or gani caratteristici della vita sensitiva del
l'uomo con quelli de bruti, quanto mani festa non apparisce la sua sublime
desti nazione? Se parliamo dell'apparato degli organi sensori, questi
raccolgono nel mas simo grado di squisitezza e di perfezione le attitudini e le
capacità, che sono sin golarmente e inegualmente distribuite alle diverse
spezie degli animali bruti. Che di remo del tatto, cui la pelle è stata pre
disposta; dell'udito, che riceve i suoni, e forma gli elementi dell'armonia;
dell'odo rato e del gusto, i quali ci son di guida non solamente per la scelta
degli alimen ti, ma ancora per distinguere tra loro le produzioni della natura;
della visione in fine, la quale penetra nel cieli, e rende visibile persino le
invisibili molecule della materia ? Se parliamo poi dell'apparato locomotore,
qual ingegnoso contrasto non si scorge tra la destrezza e l'agilità, che la
natura ha dato all'uomo, e la forza degli animali, che servir debbono a suoi
bisogni? Laonde non può dirsi, se mag giori sieno i lati delle somiglianze, o
le dif. ferenze, che caratterizzano la spezie uma na. Alle quali differenze
aggiugnendo il divino apparato degli organi discorsivi, chi non ravviserà
nell'uomo la creatura del cielo, destinata a portar sulla terra l'in telligenza
del Creatore? Chi non confes serà per lo meno, essere l'uomo, un'opera di gran
disegno, la quale serve alla mente di scala per salire alla conoscenza del suo
perfettissimo Autore? s In conclusione lo studio della notomia de essere
considerato come fondamentale, e preparatorio di tutte le parti della filo
sofia, naturale, speculativa, o pratica che sia. V. Antropologia. ANDRoToMIA
(erit.), notomia del corpo umano, grecismo superfluo che dà un dop pio nome ad
un'arte conosciuta sotto una denominazione comunemente ricevuta. ANELANZA e
ANELITo (prat.), desiderio sì intenso e ardente di una cosa, che in terrompe
persino la parola. V. Desiderio. ANGELo, e ANGIOLo (teol.), nome di ufizio,
dato a quelle sostanze spirituali e intelligenti, che son le prime per ordine e
per dignità tra gli Esseri creati. V. Es scre, Sostanza, Spirito. Non potendo
noi concepirne l'essen za, li dinotiamo col nome di messag giero o di nuncio
della volontà, che per mezzo loro Iddio ha manifestato agli uo mini. 5 – 18 –
AncosciA (prat.), dolor d'animo ac compagnato da sollecitudine e affanno. Diſ
ferisce dall'angustia non come l'iracondia dalla ira, al dir di Cicerone, ma
come l'aspettativa del dolore dal dolore stesso. Ella è un sentimento composto
dell'una e dell'altro insieme. V. Angustia, Solle citudine. - ANGUstiA (prat.),
travaglio d'animo, o affanno, che si prova nell'aspettativa del male. È meno
dell'angoscia, e più dell'ansietà. V. Ansietà. ANIMA (spec.), la sostanza
intellettuale, capace del pensiero e della volontà. V. Pen siero, Sostanza,
Volontà. Prende diverse denominazioni secondo la diversità degli obbietti,
sopra i quali eser cita le potenze sue. Dicesi intellettiva o razionale, quando
trae il pensiero dal riflettere in se medesima, o sia quando esercita la pura
intelligenza; e vien detta sensitiva quando versa circa gli obbiet ti, che le
vengono da sensi. V. Sensa ztone. - Nel significato del sensitivo, lo stesso
vocabolo conviene pure a bruti, ne'quali si distinguono egualmente le due
sostanze, cioè la spirituale e la materiale. Aristotele definì l'anima, l'atto
primo del corpo naturale organico, avente la vita in potenza, nella quale
definizione intese comprendere le anime di tutti gli animali ed animanti
insieme. Spogliando una cotal definizione dal mistero del vo caboli, proprio
del suo autore, ebbe egli l'anima, come il principio motore, e come la forma
sostanziale di quel composto, che dicesi animal vivente; nel quale concetto non
si trova per nulla l'anima intellettiva. ltisguardolla in somma come una forza
attiva, o come quella sua entelechia, che è comune a tutte le sostanze anima
te. V. Entelechia. Ben altro è il concetto , che la men te, di per se sola
forma della natura del l'anima e degli attributi suoi. Vede, es sere diversa
dal corpo, dal che forma la nozione d'un'altra sostanza, che chiama spirituale,
o immateriale, conosce es sere dotata del pensiere, della volontà, e
dell'azione, la quale è figlia d'una po tenza attiva, capace di produrre cangia
menti in se stessa, e fuori di se; scopre che non solamente gli altri Esseri,
ma anche le sue interne operazioni, possono essere obbietti del pensiero; o sia
che ella è intelligibile a se stessa; sente di ricor dare le idee altra volta
acquistate, di poterle richiamare a se, di poterle comparare tra loro, e di
conoscerne le qualità. Dal com plesso delle quali operazioni forma ella il
concetto delle sue proprie facoltà. E non prima ha acquistato una chiara
conoscenza di quel che è, e di quel che può, che vedesi rischiarata da una
luce, la quale le fa discernere il vero dal falso, la di rige ne suoi giudizi,
e le fa scoprire le relazioni che la natura ha stabilito tra se e gli Esseri
tutti che la circondano. Una tal cognizione le svela non solamente l'or dine
ammirabile dell'universo, e la mente infinita del suo Autore, ma il fine ancora
della sua esistenza; fine non caduco, nè circoscritto dalla durata delle cose
materia li, ma eterno ed indissolubile, perchè fon dato nelle relazioni, che le
intelligenze create aver debbono colla intelligenza del Creatore. In questo
fine è scritta a chiare note l'immortalità dell'anima, e la feli cità d'una
vita futura. Le nozioni che l'anima ricava dalla sua propria natura,
perfezionate dall'osserva - 19 - zione e dallo studio delle proprie facoltà,
son quelle che formano la scienza del l'anima, o sia la psicologia. V. Psico
logia. Ma qual'è l'essenza di cotesta sostanza, diversa dall'Essere materiale?
Cicerone ri spondendo a tal quesito, dice propria et sua, il che è modestamente
detto, dapoi chè ignorando noi l'essenza reale così del le cose materiali, come
degli spiriti, pos siamo meglio dire quel che non è, di quel che è. Ut Deum
noris, soggiugne Cicerone, etsi eſus ignores locum et fa eiem, sic animum tibi
tuum notum esse oportere, eliamsi eſus ignores locum et formam. Certamente
l'opinione dominante in tutte le scuole dell'antica filosofia fu, che le anime
umane fossero una emanazione del la Divinità; e una tal dottrina fu profes sata
tanto da quelle, che ammettevano un Ente Perfettissimo, autore di tutte le cose,
quanto dalle altre che credettero ad un'amima universale, la quale informasse
il mondo e tutte le parti sue. Locke fu il primo, che pretese dimostrare la
possibile materialità dell'anima, nel senso che potrebbe Dio colla sua onnipo
tenza aver dato alla materia, tra le altre qualità, anche quella del percepire
e del pensare. Ma cotesta opinione, se da una parte rileva l'onnipotenza di
Dio, detrae dall'altra alla dignità dello spirito, e alla natura stessa della
Divinità. L'ipotesi della materialità, oltre all'essere falsa, è perni ziosa,
perchè apre un largo varco al ma terialismo, di che per altro non può Locke
essere accusato. V. Immaterialità, Im mortalità. ANIMALE (spee.), Essere
organico, do tato d'anima sensitiva. Buffon lo definì, materia vivente ed organica,
la quale sente, opera, si muove, si nutrisce e si riproduce. Lo stesso autore
chiama la qualità sen sitiva, il primo grado differenziale del l'animale,
considerandolo per rispetto agli altri Esseri organici, dotati di sola virtù
vegetativa. Cicerone deſinì l'animale per lo moto volontario, e per questo
carattere solo lo distinse dalle cose inanimate, quod motu cietur interiore et
suo. Ma la sensazione è certamente più caratteristica del moto. E però delle
tre addotte definizioni, la prima sembra meglio corrispondere all'es senza del
definito. - ANIMALE (spee. ), addiettivo. Nel suo significato proprio, quel che
è dell'anima. L'uso non pertanto gli dà ancora il si gnificato di addiettivo
derivato da anima le, per distinguerlo da animalesco, che suol esser preso in
senso di brutale. Così diciamo natura animale, istinto anima le, e simili. È
vocabolo in questo senso adoperato da Fra Guittone, dal Segneri, e da altri buo
mi scrittori. - ANIMALIzzARE (spec.), far passare nella sostanza animale, una
cosa che tal non è per natura. - I fisiologisti l'adoperano nel senso pro prio
; i filosofi speculativi nel traslato. ANIMo (spec. ), la qualità intellettiva
dell'anima considerata, o nella sua po tenza, o nell'atto del suo esercizio, e
come la più nobile parte dell'uomo vi Vente. Molti del moderni idiomi mancano
di questa voce. as - 20 - Leibnitz vuole che la definizione dell'ani mo
prendasi dal senso, che gli diedero i Latini. Cicerone (Tuscul. Lib. I Cap.
IX), ab anima dictum esse, hoc est a vita, quia eatenus in nobis animus
intelligi tur, quatenus in vita sumus. A tal si gnificato corrisponde la
distinzione di Se neca (Ep. 58). Animantia quemadmo dum divido ? ut dicam,
quaedam ani mum habent, quaedam tantum animam. Più chiaramente Lucrezio (lib.
III v. 137). TVuncanimum, atque animam dico coniuncta teneri Inter se, atque
unam naturam conficere ea se: ASedcaput esse quasi, et dominari in corpore toto
Consilium, quod nos animum, mentempue vocamus. Nel linguaggio comune si adopera
come equivalente di spirito, e si scambia col vo cabolo anima. V. Anima,
Spirito. ANIMosITA' ( prat), l'ardire che ispira, o la confidenza del proprio
coraggio, o l'odio dell'inimico. V. Coraggio, Odio. ANNALI (erit.), relazione
storica di av venimenti e di fatti, disposta per ordine d'anni. Differisce
dalla storia, in quanto che questa narra non solamente i fatti, ma ancora le
cagioni e le origini di essi; lad dove gli annali son prette narrazioni, senza
ragionamenti, e senza ornati. V. Storia. ANNICHILAZIONE. V. Annientamento.
ANNIENTAMENTo (spee.), l'atto per lo quale distruggesi l'esistenza d'una cosa.
È termine usato dal Magalotti. Gli antichi dissero annichilazione per
annientamento, e le diedero l'identico si gnificato. Un nome di radice e di
desi menza italiana, sembra preferibile ad un latinismo. L'annientamento o
l'annichila zione è un concetto metafisico, dapoichè i corpi, naturalmente
parlando, ammet tono cangiamenti e alterazioni di forma, e non distruzione e
annichilazione. L'an nientamento è l'atto contrario alla crea zione. V.
Creazione. ANSIETA' (prat.), inquietudine dell'ani mo, che nasce o dal
desiderio d'un bene che si vuol conseguire, o dal timore d'un male che si vuol
cansare. - ANTECEDENTE (spec. e disc.), fatto che precede un altro, col quale
ha relazione. Se cotesta relazione è necessaria per modo, che dato l'uno debba
per necessità seguire l'altro, l'antecedente prende il nome di causa, e il
conseguente, di effetto. V. Causa. - Nella logica artifiziale l'antecedente di
nota la prima proposizione d'un entime ma, siccome la seconda prende il nome di
conseguente, per la ragione testè det ta, cioè che de due membri di quel sil
logismo, il secondo è una conseguenza necessaria del primo. V. Entimema. Ne
sillogismi composti, la proposizione condizionale dicesi antecedente, e la cate
gorica che la segue chiamasi conseguente. V. Categorico, Sillogismo. ANTILOGIA
(dise.), contraddizione nel discorso. ANTIPATIA (prat.), abituale avversione,
per la quale giudichiamo sfavorevolmente di chiunque crediamo non avere con noi
conformità di opinioni o di affetti. V. Av. versione. L'antipatia è una
prevenzione dell'ani mo, la quale è d'impedimento al retto – 21 – e maturo
giudizio, e però è sorgente di volontari errori. L'abito le dà la forza
dell'istinto, dapoichè la fa operare senza fondamento di ragione. Può sì bene
es sere giusta, o scusabile, quando nasca dalla opinione delle altrui qualità
maleſi che, nel quale caso, ragionevole essendo il principio dell'avversione,
diviene an cora razionale l'abito, che per essa si ac quista. Suo contrapposto
è la simpatia. V. Simpatia. - ANTIPENSARE (spee.), premeditare un'a- zione,
prima di effettuarla : equivale al praeeogito de Latini. Domanderebbesi a
nostri vocabolari per chè abbiano ammesso il participio antipen sato, senza
volere riconoscere il verbo º ANTIPERISTASI (spec.), adoperato da gli
scolastici per esprimere l'azione di due qualità contrarie, delle quali l'una
som ministra forza maggiore all'altra, come il calore che si concentra nella
terra per effetto della neve che la ricopre : il fred do che rianima il fuoco.
Quantunque nel suo senso proprio cotesto grecismo appar tenesse alla Fisica,
pur tuttavolta i pe ripatetici lo adoperarono spesso per ispie gare il sistema
delle loro specie sensibili. V. Specie. ANTIPREDICAMENTI (dise. ), prenozioni
utili per meglio intendere la dottrina dei predicamenti di Aristotele: voce
scolasti ca, che vuolsi notare per coloro che col tivano la logica
aristotelica, non intera mente, nè universalmente sbandita dal l'odierno
insegnamento. Tali prenozioni sono le definizioni, le partizioni determini
comuni in equivo chi, univochi, e denominativi; le parti. zioni delle cose, le
regole del predicati, e delle differenze loro. Furon dette anti predicamenti,
perchè Aristotele per ordine, e per chiarezza le antepose alla dottrina delle
sue categorie. V. Categoria , Pre dicamento. - ANToLogIA (crit.), scelta, o
raccolta di fiori, sotto il qual nome si è inteso di notare epigrammi, poesie
d'ogni genere, molti sentenziosi, e altre composizioni pia cevoli ed istruttive.
- Taluni l'han chiamata altresì florilegio, termine affatto equivalente.
ANTROPOGRAFIA, grecismo superfluo. V. Antropologia. ANTROPOLOGIA (crit.), fu da
prima ado perato per esprimere il linguaggio umano, che si appropria alla
Divinità, onde ren dere agli uomini sensibile la sua parola. Indi più
propriamente fu usato nel sen so di scienza dell'economia animale del l'uomo. -
Il suo significato è stato ancora più am pliato da moderni, i quali hanno
abbrac ciato sotto lo stesso nome la scienza ge nerale dell'uomo. In questo
senso l'antro pologia dovrebbe considerare l'uomo: 1.° Come rivestito di un
corpo che cre sce, vegeta e si riproduce, nel quale aspetto entra in
comparazione cogli altri Esseri dotati di funzioni vegetative; 2.” Come formato
di organi capaci di azione, di passione, e di sensibilità, nel quale aspetto
entra in comparazione cogli altri animali dotati di moto volontario, di
sensazioni, d'istinto, di piacere, e di dolore; 3.° Come dotato di organi più
perfetti, destinati a soddisfare maggiori bisogni, t e a servire a più
importanti fini, tra quali l'impero sopra tutte le cose create: in que sto
aspetto, i sensi suoi formano un par ticolare subbietto di ricerche e di
studio; e l'umana struttura è esaminata come la prima di tutte le sue
attitudini all'impero delle altre creature, del pari che all'asso ciazione con
una sostanza di più eccellente natura, quale è l'anima ; 4.° Come dotato del
pensiero, che eser cita tanto sopra gli obbietti esterni, quanto sopra
gl'interni; nel qual argomento re sterebbe assorbita tutta la filosofia
intellet tuale. In una parola l'antropologia così trattata, diverrebbe
l'enciclopedia delle co IlOSCCInze umane. Convenendo darle un significato
certo, e meno universale, sembra plausibile li mitarlo ad esprimere quella parte
della scienza dell'uomo, che manca d'un nome speciale. Tal è il principale ramo
della zoologia, che versar dee circa l'organico dell'uomo, il quale quando
venisse com preso nella denominazione generale, re sterebbe confuso con tutte
le altre spezie di animali. Così ancora l'antropologia divie ne sorgente della
serie nobilissima di tutte le scienze e arti mediche. (disc. prelim.). V.
Anatomia. ANTRopoMoRFISMo (teol.), il rappresen tare la Divinità sotto le forme
umane. ANTRoPoMoRroLoGIA, grecismo superfluo e intollerabile, che dice lo
stesso di ana tomia. ANTRoPoNoMIA, altro grecismo superfluo, che dice lo stesso
di fisiologia. ANTRoPoPATIA (teol.), l'attribuire alla Divinità gli affetti e
le passioni umane. ANTnoroscopia (erit), arte di scoprire, o di congetturare
l'indole, le propensioni, e le passioni dell'uomo dagli esterni deli neamenti
del corpo. - ANTRoPosoFIA, grecismo superfluo.V.An tropologia.
ANTRoPosoMATOLOGIA, grecismo super fluo. V. Antropologia. - ANTROPoToMIA,
grecismo superfluo, che dice lo stesso di anatomia. A PAGOGIA (dise.),
dimostrazione d'una proposizione per via dell'assurdità della contraria
proposizione: è quel che i lo gici dicono riduzione all'impossibile, o
all'assurdo. - APAGogico (dise), addiettivo di apago gia, qualità della dimostrazione
indiretta, la quale prova l'assurdità o l'impossibi lità della proposizione
contraria a quella che si assume come vera. APATIA (prat.), malattia
dell'anima, che la priva del senso delle naturali pas sioni; vocabolo
necessario, adoperato dal Salvini. APATISTA (prat.), chi professa apatia;
vocabolo adoperato dal Salvini. APoDITTIco (disc.), argomento o dimo strazione
chiara e convincente d'una pr posizione, - APoLoGETICA (disc. e teol.),
addiettivo d'apologia. In un senso speciale, comunemente ri cevuto, si adopera
pe discorsi detti, o scritti per la verità della religione cristia ma, ad
esempio dell'apologetico di Ter tulliano. - ApologiA (dise.), discorso in
difesa di che che sia. ApoLoco (prat.), favola morale, o fin to racconto, di
cui lo scopo è il ripren dere i vizi, e riformare i costumi. A PosTERIORI. V.
Posteriore. APPARENTE (spec. ), quel che è visi bile o sensibile, nel quale
significato vale ancora esteriore; dacchè non può fare im pressione su sensi,
se non la sola esterna superficie degli obbietti materiali. V. Este riore. -
L'apparente de sensi può essere diverso dalla realità degli obbietti, o per la
in capacità relativa di quelli, o per loro vi zio accidentale: per incapacità
relativa, quando vogliamo adoperargli fuori della misura stabilita dalla
natura: per vizio, quando gli organi nostri trovansi in uno stato di
alterazione: la prima cagione può dirsi normale, la seconda, di eccezione.
Vuolsi dichiarire per gli esempi sì l'una che l'altra. L'apparente della
visione ci serve di gui da per intendere e spiegare l'apparente degli altri
sensi; siccome i fenomeni dei corpi celesti son quelli, che ci fan cono scere
la differenza tra le distanze visibili, e le effettive. Noi vediamo gli
obbietti lontani d'una grandezza tanto minore, quanto maggiore è la distanza di
quelli; perchè l'apparente grandezza degli obbietti nasce dalla maggiore o
minore grandezza dell'angolo visuale, sotto del quale live diamo. Angolo
visuale, o ottico è quello che si forma da due raggi di luce, i quali partono
da due punti estremi dell'obbietto veduto, e vanno ad unirsi nel centro del la
pupilla. Da ciò nasce, che le grandezze degli obbietti lontani son sempre
propor zionali all'angolo, sotto del quale son essi veduti alla medesima
distanza. A ciò si aggiugne, che la lontananza fa apparire diversa non
solamente la gran dezza de corpi, ma la distanza stessa, per chè i mezzi da
misurar questa sono gli ob bietti intermedi, i quali quando manchi no, avviene
che i sensi ce la rappresen tano minore di quella che è. La medesima cosa
interviene quando la picciolezza degli obbietti intermedi sia tale, che non
possa l'occhio avvertirgli. E siccome nelle grandi lontananze tali obbietti
divengono impercet tibili, così i sensi ci nascondono una par te della
immensità de cieli, e della gran dezza de corpi celesti. Abbiamo in somma
un'apparente grandezza del sole, della luna, e di ogni altro pianeta; anzi ab
biamo per ognun di essi diversi apparenti diametri di grandezza, perchè varia è
la quantità dell'angolo, sotto del quale live diamo alle varie distanze in cui
si trovano dalla terra; abbiamo un apparente orizzon te, il quale separa la
parte visibile del cie lo, dall'altra invisibile, che ci vien tolta dalla
rotondità della figura della terra. Que sto apparente orizzonte è quello che
deter mina relativamente a noi l'apparente nasci mento e il tramontar del sole,
della luna, e degli altri pianeti, comechè gli astronomi mol chiamino
apparente, se non per di stinguerlo dal vero o astronomico , che passa per lo
centro della terra, e a cui riferisconsi le posizioni degli astri. Così, essi
lo spogliano del difetto o della differenza variabile, detta parallasse, la
quale na sce dalle diverse posizioni dell'astro, a ri – 24 – spetto
dell'osservatore. Abbiamo infine di stanze, e luoghi apparenti, diversi dagli
effettivi e reali, o per tali considerati da gli astronomi, nella veduta di
spogliargli del sensibile e del variabile, e di ridurgli ad uno stato costante,
il quale nel lin guaggio della scienza prende il nome di vero, o di medio. Le
cennate apparenze son determinate da rapporti certi, costan ti, e talvolta
proporzionali alle grandezze e distanze reali, per modo che, se le di stanze di
due pianeti son eguali, i loro veri diametri son proporzionali agli appa renti;
e se gli apparenti diametri sono eguali, i veri diametri saranno come le
distanze dall'occhio dello spettatore. E per l'opposto se le distanze e i
diametri ap parenti non sono eguali, i veri diametri saranno in una ragione
composta dalla diretta della distanza, e dalla diretta de gli apparenti
diametri. Da ciò segue pure, che, data la grandezza dell'angolo visuale, e data
la vera distanza dell'obbietto visi bile, può essere calcolata e determinata la
grandezza reale dell'obbietto medesimo. Un altro errore della visione può na
scere dal mezzo, a traverso del quale ve diamo l'obbietto, sì che l'azione
diretta di esso sul nostro organo riceve un impe dimento, o un'alterazione, la
quale di pende dalle qualità conosciute della luce. Tal è il caso del bastone
che apparisce rotto nell'acqua, perchè l'acqua rompe la linea del raggio, che
dal bastone viene a ferire i nostri occhi. Quel che abbiam detto della visione
spie ga ancora la differenza, che passa tra l'ap parente ed il reale nelle
altre sensazioni, di che possiam prendere gli esempi dallo spazio, dal moto e
dal tempo. Noi di stinguiamo lo spazio visibile dal tangibi le; la qual
distinzione corrisponde all'ap parente e al reale, perchè il fatto ci serve per
determinare la misura delle distanze, che limitano la capacità della vista. In tanto
la natura ha stabilito una costante corrispondenza tra l'una e l'altra sensa
zione per modo, che la grandezza visi bile ha una determinata relazione colla
figura e colla grandezza tangibile, e ogni modificazione nell'una ha una
modifica zione parallela nell'altra. Così pure di stinguiamo nel moto e nella
quiete l'as soluto dal relativo, o il proprio dall'im proprio; nelle quali
spezie di moto i sensi possono soltanto distinguere il cangiamento del luogo
prodotto dalle forze esterne, ma non valgono per loro stessi a percepire
distintamente i cangiamenti, che nascono dalle forze interne de corpi stessi,
nè quelli prodotti da cause esteriori, le quali agi scono complessivamente su
corpi non meno che su sensi dell'osservatore. Tal è il caso dell'uomo, che non
avverte il suo cam biamento di luogo nello spazio, nè quel lo de corpi che lo
rircondano, prodotto dal moto comune della terra. Similmente distinguiamo il
tempo assoluto dal rela tivo o apparente, e consideriamo l'asso luto come
costante e invariabile; mentre chè chiamiamo apparente o relativa quella parte
di durata che misuriamo per mezzo del moto. A tal modo giudichiamo eguali i
tempi, ne quali un corpo percorre spazi eguali, e stabiliamo come misure comuni
del corso del tempo le periodiche rivolu zioni del sole o della luna, come
l'anno, il mese, o il giorno solare, comechè il moto loro non sia esattamente
uniforme, In conferma di che possiamo ancora dire, che noi non avremmo alcuna
idea del tem po assoluto, o del moto uniforme, se il Creatore non ce ne avesse
dato un mo dello perfettissimo e invariabile nel giro - 25 - della terra
intorno al proprio asse ; il quale giro equivale in durata al tempo, che una
stella impiega a ritornare in due giorni successivi allo stesso punto del cie
lo. V. Moto, Spazio, Tempo. E per quanto concerne i vizi accidentali desensi,
noi veggiamo tinti di color giallo tutti gli obbietti, quando la bile si è
sparsa per gli occhi; e sentiamo amaro tutto quel che gustiamo, quando la bile
è sulla lin gua; e quando i nervi sono internamente agitati, vediamo scintille
e colori soprap posti, o sentiamo confusi romori, tintinni, e bucinamenti
estranei agli obbietti este riori. Non solamente la ragione, ma gli altri
sensi, che son rimasi nello stato di sanità, ci avvertono esser queste illusioni
prodotte da infermità, o da altre cause accidentali. Adunque l'apparente non è
una falla cia della natura, ma è un effetto della condizione del nostri sensi:
l'apparente è una parte di verità, che ha la sua cor rispondenza col tutto: se
da un lato la natura ha limitato la capacità del sensi; dall'altro ha dato
all'intelletto l'acume ne cessario per supplire a ciò che loro man ca, e per
servirsi dell'apparente come di scala al vero. V. Senso, Vero. Sin qua
dell'apparente de sensi. Ma a questo stesso vocabolo si dà ancora il si
gnificato traslato di comprensibile, o di verisimile. Cotesto apparente degli
obbietti intelligibili, non contiene alcuna certa re lazione col vero, ma è un
anticipato giu dizio che formiamo della verità d'un con cetto, senza conoscerne
tutte le sue intrin seche qualità. E però la nozione del vero apparente non è
mai distinta, nè chiara, ma va tra le confuse, se pur non si trat tasse di
quella spezie di verisimile, che si scambia col vero. V. Vero, Verisimile.
APPARENZA (spec.), esterno aspetto d'un obbietto sensibile, che ne determina la
per cezione. V. Percezione. Nel senso traslato è una sembianza del vero,
prodotta da anticipati giudizi. V. Giu dizio. APPARISCENTE (prat.), di grande e
bella forma. E diverso dall'apparente, ed è proprio delle sole cose sensibili,
quantunque l'uso lo abbia talvolta trasportato a significare le cose facilmente
visibili, e anche gli atti del pensiero, e le forme eleganti del discorso.
APPELLATIvo (dise.), nome di genere, che esprime un'idea comune a più ob bietti
presi insieme. Gli obbietti delle no stre idee sono o singolari, o al numero
del più. Singolare è l'idea d'un determi nato uomo; generale e collettiva è
quella dell'uomo genericamente preso, o d'una spezie di animali o di piante. I
nomi, de stinati ad esprimere le idee singolari o sie no gl'individui sono
stati detti propri ; laddove quelli che dinotano genere, o spe zie chiamansi
appellativi. V. Mome. I nomi appellativi han fatto in ogni lin gua risparmiare
il numero de nomi propri, ed hanno accresciuto quello delle nozioni generali;
nel che principalmente è ripo sta la perfezione del linguaggio e dell'arte del
pensare. Imperocchè se ad ogni cosa singolare si avesse voluto dare un nome,
non solamente la memoria non avrebbe potuto ritenere tanto numero di parole, ma
si sarebbe con ogni generazione per duto il linguaggio del nostri predecessori.
Ogni famiglia, e ogni città avrebbe avuto nomi diversi, i quali non sarebbero
du rati, che per una età sola. E dall'altra parte, mancando i nomi appellativi,
non 4 avremmo avuto proposizioni generali, e per conseguente mancate ancor
sarebbono le verità astratte, che vuol dire principi, e scienze. Qual è l'uomo
che ebbe l'antivedimento di formare con tanta sapienza un linguag gio, che
servir potesse a tutte l'età, e a tutta la spezie umana? V. Linguaggio.
APPERCEZIONE (spec. e crit.), avvertenza dell'animo alla percezione, o
consapevo lezza che l'anima acquista della percezio me, mediante l'attenzione.
È vocabolo introdotto da Leibnitz tanto per dinotare l'avvertenza ad una idea,
quanto per distinguere la percezione co mune a bruti da quella, che è propria
del le intelligenze superiori. Locke intese la necessità di ammettere
l'appercezione, per distinguere le idee che ci vengono dalla riflessione. Tali sono
l'av vertire o appercepire (appercevoir), il pensare, il dubitare, il credere,
il ra gionare, il conoscere, il volere, e tutte le operazioni dell'anima, che
scorgiamo in noi stessi. V. Riflessione. Il dottor Reid non ammette la distin
zione di percezione ed appercezione, tra perchè considera l'idea di Leibnitz,
come una parte del sistema delle sue monadi, e perchè non sa concepire come
possan darsi operazioni dell'anima, le quali non sieno note alla coscienza ; sì
che tanto sarebbe il percepire, quanto il pensare senza coscienza del pensiero.
Le ragioni di Reid non sembrano suffi cienti per escludere una distinzione fon
data sopra due fatti, della cui realtà non si può dubitare, qualunque sia la
deno minazione che vogliasi dar loro. La percezione distinta è certamente di
versa dalla confusa; per modo che se si volesse chiamare l'una appercezione e
l'al tra percezione, potrebbesi disputare del nome e non della cosa. Ma la
ragione umana è dotata di una facoltà superiore, per la quale può rendere
distinte tutte le percezioni, che ne bruti sono necessaria mente confuse. Ora
questa qualità carat teristica può e dee formare suggetto d'in vestigazione e
di analisi, siccome l'atten zione, la riflessione e la coscienza vanno
considerate come diverse dalla percezione, e come qualità proprie e private
dell'uma na ragione. Potrebbe forse dirsi essere l'appercezione non altro, che
l'attenzione o la riflessione applicata alla percezione. Ma nulla vieta, che
per meglio render conto a noi stessi di questa importante operazione della
mente umanale si dia una speciale denominazione. Condannare poi un concetto
vero, per chè collegato con una ipotesi metafisica, è una ragione che vale
ancora meno della precedente. Se non sono le monadi che formano i diversi
ordini delle intelligenze, è certamente distintiva della ragione uma ma la
facoltà di riflettere in se stessa e nelle operazioni sue, così esterne come
interne. E però giova ritenere la distin zione di Leibnitz, purchè al vocabolo
si dia quel significato che corrisponde alla sua propria mozione, cioè d'un
atto della riflessione, mediante il quale rendiamo di stinta una confusa o
insensibile percezione. V. Attenzione, Intelligenza, Monade, Percezione,
Riflessione. APPETITIvo (crit.), addiettivo proprio della facoltà di appetire.
I nostri moralisti, tra quali il Passa vanti han partito in tre le potenze
dell'anima, intellettiva cioè, sensitiva, e appe titiva. Ma cotesto coneetto è
una trasfor - 27 - mazione delle cinque potenze ammesse da Aristotele, secondo
la qual dottrina l'ap petitiva era parte della sensitiva, e da quella non
diversa. V. Potenza. AppErrro (prat.), stimolo di natural bisogno, accompagnato
dalla voglia di soddisfarlo. Limitando il significato di questo voca bolo a
bisogni naturali, noi nescludiamo i fattizi, comechè questi possano per l'abi
to acquistare la medesima forza di quel li. L'esempio dichiarirà meglio la na
tura degli uni e degli altri. La fame, la sete, il bisogno della riproduzione
sono appetiti naturali: l'uso del liquori, del tabacco, e qualunque altro
bisogno che abbia per l'abito acquistato un impero so pra di noi, vanno
noverati trai fattizi. È inutile fare l'analisi di questi, tra per chè i veri
caratteri degli appetiti trovansi ne naturali, e perchè dobbiamo conside rare
come tali quelli solamente, che gli animali portan seco per una legge della
propria costituzione, la quale corrisponde sempre ad un fine utile, e alla
stessa ine rente. V. Abito. I caratteri degli appetiti naturali sono: il
produrre in noi una incomoda sensazione, giunta al desiderio di soddisfarla; il
non esser costanti ma ricorrenti, secondochè ri corre il bisogno, di cui sono
una espressione. Gli appetiti sono altrettanti principi d'azione impressi in
tutti gli animali, onde indirizzare l'esercizio della potenza al fine della conservazione
della vita, e della ri produzione della spezie; e perchè propri della parte
animale dell'uomo, e comuni a bruti, entrano nella classe decosì detti istinti
animali. V. Azione, Istinto. Manifesto è il fine della natura nell'aver dato
cotai stimoli per compagni alla vita, dapoichè non potrebbero i bruti razional
mente conoscere la qualità e la quantità di nutrimento che loro conviene; nè po
trebbe l'uomo per solo calcolo di ragione stabilire la necessità, l'utilità, o
la mi sura de suoi alimenti. Molto meno il po trebbe nella sua infanzia; e
quando anche potesse a ciò bastare un istinto meramente razionale, sarebbe
questo rimaso insuffi ciente, semprechè ne fosse stato l'uomo distornato da una
più potente distrazione. Tal'è l'indole de bisogni naturali, che crescendo essi
per gradi giungono insino al segno di costringerci a soddisfargli. Ammirabile è
la natura in questa parte delle sue leggi, essendochè ha dotato tutti gli
animali del gusto e dell'odorato, ed ha per modo predisposto la conformazione
degli organi di ciascuna spezie, che ognu no, dall'elefante insino al più
impercettibile insetto, trova per un giudizio pratico l'ali mento che più gli
conviene. Quel che di ciamo della fame va con perfetta parità di ragioni
applicato ancora agli altri bisogni. Ma acciocchè l'impulsione di tali stimoli
non turbasse l'ordine morale, al quale ser vir debbono tutte le spezie degli
animali, la natura non ha dato agli appetiti una forza invincibile. Ne bruti
può questa for za essere dominata da una più forte pas sione, e soprattutto dal
timore, che li con tiene nella dipendenza propria della con dizione loro.
Nell'uomo è temperata e di retta dalla volontà, o sia dalla ragione, che è
l'arbitro supremo delle sue azioni. V. Volontà. APPLICARE (disc.), dicesi dell'adattare
la definizione al definito, il predicato pro prio al subbietto, il genere alla
sua spe zie, il principio alle cose dal medesimo dedotte, la teoria alla
pratica. V. Defini r s- 28 - zione, Genere, Predicato, Principio, Subbietto,
Teoria. AppRENsIoNE (spec.), operazione del l'intelletto, per la quale formiamo
l'idea d'un obbietto, che ci presentano i sensi, o l'immaginazione. - Taluni
l'hanno confusa colla semplice percezione, ed altri hanno adoperato que sto
vocabolo per esprimere la percezione, accompagnata dalla attenzione. Gli scola
stici chiamarono altresì nuda o semplice apprensione l'operazione, per la quale
la mente richiama una idea già conceputa, spogliata d'ogni altro modo di luogo
o di tempo, e scompagnata dal giudizio. Da ciò nacque la partizione delle tre
funzioni dell'intelletto nell'apprensione, nel giudizio, e nel ragionamento. Co
testa partizione presupponeva che le idee sensibili fossero i soli elementi
delle uma ne conoscenze; siccome il vocabolo ap prensione trae la sua origine
dalla mate riale similitudine del contatto dell'obbietto coll'intelletto. Quel
che le antiche scuole chiamarono apprensione, è stato da moderni detto con
cezione. Per non moltiplicare termini, e per non richiamare all'uso quelli,
ch'era no collegati con principi ora non più am messi, giova servirsi del nuovo
vocabolo. V. Concezione. APPRENSIVA (spec.), potenza dell'ap prendere, o che
esercita l'apprensione. Il Passavanti dà come pregi dell'anima, l'immaginativa,
l'apprensiva, e la remini scenza.V. Immaginativa, Reminiscenza. APPRovAzioNE
(spec. e prat.), assenti mento ad un giudizio, accompagnato dalla persuasione
della sua verità. V. Giudizio. Approvazione morale diciam l'assenti mento, che
la coscienza presta alle nostre azioni, e da cui nasce l'interna soddisfa zione
dell'anima. Iddio ha renduto la co scienza depositaria della luce del vero, e
l'ha rivestita del potere di giudice, ac ciocchè avessimo in lei una guida ed
un censore insieme. Come guida, l'approva zione ch'ella pronunzia serve di
spinta e di principio all'azione; come censore, il suo giudizio, o ci rassicura
del ben fat to, o ci riprende del mal fatto. L'appro vazione dunque è la
ricompensa del retto operare, siccome il rimorso è la pena delle infrazioni
alle leggi, che regolano l'or dine morale dell'universo. V. Coscienza, ARALDICA
(erit.), arte, che interpreta i caratteri emblematici del blasone, e spiega le
regole della sua composizione. V. Ca rattere. ARBITRIO (spec. e prat.), potestà
di fare, o di scegliere tra più cose quella che giudichiamo esserci utile, o
gradevole. Arbitrio dell'uomo è stato detto il potere datogli dalla natura di
scegliere il bene o il male, o sia la facoltà di determinarsi all'azione, la
quale facoltà, perchè presup pone la libertà del volere e dell'operare, è stata
detta libero arbitrio.V. Bene, Libertà. La certa nozione del libero arbitrio è
il fondamento dell'obligazione e del do vere, della realità delle nozioni del
giu sto e dell'ingiusto, e di tutta la filosofia morale. V. Dovere,
Obligazione. Comechè la realità e la certezza della nozione del giusto sia una
di quelle pri me verità, che sono attestate dal senso in terno e dalla
coscienza; purtuttavolta tra gli altri traviamenti della filosofia specu lativa
nacque ancora la dottrina di coloro, i quali risguardarono la determinazione
dell'uomo come una conseguenza neces saria della sua natura, e delle cause che
meccanicamente muovono la sua potenza, Così le buone o le ree azioni non sareb
bero altro, che gli effetti d'una necessità preparata dal nostro proprio
temperamento; e la moralità di quelle sarebbe un voca bolo di qualità, relativo
allo stato ed all'in teresse degli altri uomini. V. Meeessità, Volontà. Una tal
dottrina rovescia dalle sue ſon damenta ogni obligazione morale, scio glie
l'uomo da ogni dovere verso Dio, verso se medesimo, e verso gli altri; gli
toglie qualunque speranza di ricompensa; lo assolve da ogni timor di pena; lo
pri va dell'aspettativa d'una vita futura; nega all'universo una causa
intelligente, o per lo meno un fine benefico all'Autor suo ; distrugge la
realità dell'umana cognizio me; e apre le porte al materialismo e allo
scetticismo. La cennata dottrina, seguita già da fautori del fatalismo, e
rinnovata nella moderna filosofia da Hobbes, fu nel le scuole enunciata colla
denominazione di controversia intorno alla realità delle di stinzioni morali.
V. Distinzione. L'assurdità della dottrina del fatalismo, o sia della
necessità, è dimostrata dalla coscienza, la quale ci detta gli argomenti per
combatterla. Tali argomenti sono: 1.º La convizione che abbiamo della propria
libertà. 2.” Quella della nostra morale respon sabilità. - 3.° La facoltà del
pentimento, per lo quale possiamo ritrattare la nostra deter minazione, e
disfare ciò che abbiam fatto. 4.º II potere prefiggerci un fine, e di sporre i
mezzi per conseguirlo, mediante una lunga serie d'azioni. Circa il primo,
ciascuno è consapevole che quando opera, ha in se la sicurezza di esser padrone
dell'azione. I fautori del la necessità non negano, nè negar po trebbero una
tal verità, perchè ciascun di essi nel portamento di sua vita, sentesi padrone
delle proprie azioni. Ma essi af, fermano, che noi crediamo esser liberi,
quando nol siamo, o sia che la nostra convizione è fallace. Cotesta obbiezione
non può esser limitata ad un atto solo del giu dizio; dapoichè se fosse vera,
sarebbe co mune a tutte le funzioni e a tutte le fa coltà dell'anima.
L'obbiezione dunque è capitale: o la convizione in forza della quale operiamo è
vera: o noi viviamo in un mondo di spettri e d'illusioni. Il sup porre che veggiamo
e non veggiamo, sen tiamo e non sentiamo, crediamo e non crediamo, è un
delirio, che può cadere in una mente inferma, e non può trovar luogo nella
retta e sana spiegazione dei fenomeni della mente umana. Se quel che è, è
diverso da quel che non è, se sono veri i fenomeni naturali, se vere sono le
nostre sensazioni, vera è pure la convi zione la quale ci fa sentire, che
abbiamo un giudizio, una volontà, ed una scelta. V. Giudizio. Circa il secondo,
la coscienza ci muove per un sentimento di morale responsabi lità alla scelta
del bene e alla riprova zione del male. Allorchè ci determiniamo a questo, più
che a quello, dobbiam com battere con noi stessi, e dopo di avere soggiogato
l'interna resistenza, il rimorso del mal fatto ci accompagna, ci ripresenta i
motivi del contrario operare da noi ri fiutati, ci giudica e ci condanna. E per
l'opposito, allorchè seguiamo i dettami della coscienza, ci presenta ella i
pericoli che avremmo corso, se fossimo stati in - 50 - lei men confidenti, ci
ricompensa col con tento dell'anima, e c'incoraggia ad averla sempre a
direttrice delle nostre azioni. Ora noi tenghiamo la coscienza non solamente
come verace, ma come infallibile, ed una tal credenza è in noi infusa; anzi è
una legge della umana costituzione, tra perchè ci è data dalla natura, come
guida dei portamenti nostri, e perchè non potremmo supporla fallace, senza
creder tale l'Ente Perfettissimo, di cui siam l'opera. V. Co seienza. - - Circa
il terzo, il pentimento, di cui siam capaci nelle stesse azioni da noi de
liberate, dimostra che la volontà non è serva d'una fatale determinazione,
dapoi chè ella torna indietro, risamina i mo tivi del deliberato, ed emenda il
fatto, ora nel senso del bene, ed ora del male. Contraddittoria sarebbe stata
la natura, se volendo toglierci la libertà dell'operare, ei avesse dato il
potere di aggirarci ora nel vero, ed ora nel falso. Una tal filo sofia non
potrebb'essere giustificata, se non per la ipotesi d'una natura ingannevole e
seduttrice, la quale non avesse avuto altro scopo, che di farsi giuoco dell'uma
na debolezza. V. Determinazione. E circa il quarto, i sofismi de fautori della
necessità perdono ogni prestigio, al lorchè si contrapponga loro la ferma e co
stante volontà di quegli uomini, i quali si prefiggono un fine, a cui predispon
gono i mezzi, mediante una serie di azioni coerenti e coordinate al fine
medesimo. Di tal natura sono i propositi e i progetti, speculativi o pratici, a
quali gli uomini impiegano o il tempo intero della vita, o una gran parte di
essa, V. Fine, Mezzo. In somma tutto lo spirito della dottrina della necessità,
allorchè si giugne alle sue estreme obbiezioni, è nato così dalla im pazienza
degli uomini nel non aver potu to spiegare l'origine del bene e del male, come
dal desiderio di scagionarsi del cat tivo uso della volontà, e di farne una
colpa della natura. A PRIORI V. Priore, ARCANo (spec.), addiettivo di senso o
significato, proprio di quelle dottrine che insegnavansi con figure, o con
altro lin guaggio misterioso. Vale quanto acroama tico ed esoterico. V. queste
voci. ARCHÉo (ontol.), grecismo formato dal vocabolo ero principio. È stato
usurpato dalla fisica, dalla chimica, dalla medicina e persino dalla
metafisica. I fisici, han preteso spiegare, per tal vocabolo l'in termo calor
della terra; i chimici il fuo co; i medici, e principalmente Van-Hel mont, il
principio della vita; e i metafi sici la causa efficiente del tutto, e pro
priamente l'anima del mondo. Siccome in ognuna delle dinotate scien ze cotesto
vocabolo serviva a spiegare una oscura e indeterminata nozione, così l'uso lo
ha da tutte sbandito. ARCHEOGRAFIA (crit.), descrizione demo numenti antichi.
Siccome la descrizione de monumenti è una parte preliminare della illustrazione
loro; così la denominazione di archeogra fia può aversi come un grecismo
superfluo, e come un'addoppiatura dell'archeologia. ARcHEoLoGIA (crit.),
dottrina della ri mola antichità e del monumenti suoi. ARCHETIPo (spec.), forma
primitiva. Cotesto vocabolo esprime una idea, che – 51 – non è più chiara di
quella che dice la parola forma. È stato odoperato, e lo è ancora talvolta, per
dinotare la primitiva forma del mondo, e della intelligenza, significati del
tutto ideali. V. Forma. ARCHITETTURA (crit.), arte di costruire, di scompartire
e di ornare gli edifizi. È uma delle arti belle o imitative, e prende tra esse
il primo luogo, non solamente perchè attigne le sue regole dal bello della
natura, e dalla euritmia della ragione ; ma ancora perchè applica nelle sue
costru zioni le più importanti verità della geo metria e della meccanica. V.
Arte. ARDIRE (prat.), prontezza d'animo nello intraprendere cose difficili e
pericolose. Va usato in senso buono e non vizioso, come l'audacia, E tanto buon
ardire al cor mi corse Ch'io cominciai come persona franca DANTE. V. Audacia. ARDoRE
(prat.), intenso desiderio, pro prio delle veementi passioni. V. Deside rio,
Passione. AREroLoGIA (erit.), grecismo superfluo, col quale si è voluto
esprimere la parte del la filosofia morale, che tratta della virtù.
Potrebb'esser questo il nome della stessa filosofia morale, se gli antichi e i
moderni non avessero voluto con miglior senno de rivare la sua denominazione da
costumi, o sia dal pratico esercizio della virtù, piut tosto che dal suo
concetto speculativo. ARGOMENTAZIONE (disc.), forma di di scorso, per la quale
cercasi dimostrare la verità d'una proposizione, con argomenti disposti per
modo, che dalla loro conclu sione risulti la verità, di cui vassi in cerca. Gli
scolastici non mancarono di distin guere nell'argomentazione la materia e la forma,
riponendo la prima nelle parole, e la seconda nella disposizione degli
argomenti. Per essi non fuvvi altra forma di argomenti, che quella del
sillogismo. V. Sillogismo. ARGOMENTo (disc.), ragionamento logico, per lo quale
si ricava una conseguenza da una o più proposizioni. V. Conseguenza,
Proposizione. - Cicerone definì l'argomento probabile ºnventum ad faciendam
fidem. Due sono le fonti, d'onde traggonsi gli argomenti, la ragione, e
l'autorità. Da ognuna delle due può nascere la certezza, o la proba bilità,
secondo che vere o verisimili sono le proposizioni, dalle quali la conclusione
è stata ricavata. E però gli argomenti sono fondamenta tanto di certezza,
quanto di probabilità, e così di scienza, come di opi nione.V. Opinione,
Probabilità, Scienza. Allorchè nelle scuole non conoscevasi al tro genere di
ragionamento fuori del ca tegorico, la forma comune a tutti gli ar gomenti era
il sillogismo. E siccome face va uopo intessere ogni sillogismo ad una massima
o definizione; così per agevolare il ragionamento tanto i logici quanto i re
tori formavansi un apparato di generi di verità, da quali deducevano al bisogno
i loro particolari argomenti. Cotesti generi, che eran considerati come le sedi
degli argo menti eran detti luoghi logici. Tali sono per esempio la forma, la
similitudine, la differenza, il contrapposto, l'antece dente, il eonseguente,
la causa, l'ef fetto, la comparazione dal più dal meno o dal pari, l'analogia
delle parole, l'eti mologia, ed altri. V. Luogo. - 52 - AnirMErica (crit.),
scienza la quale versa circa le proprietà e le relazioni del numero, e dà le
regole del numerare. V. Vumero. - Siccome il numero rappresenta quella spezie
di quantità che dicesi discreta, per chè composta di parti separabili, quali
sono le unità considerate come suoi com ponenti; così l'aritmetica prende
ancora il nome di scienza della quantità disere ta. V. Discreto, Quantità.
ARMONIA (spec.), concordanza di cose dissimili, che è comunemente applicata
alle consonanze de tuoni acuti e gravi della musica. V. Musica. - Armonia delle
sfere è il supposto con cento, che, a senso di molti, dee pro durre il regolare
e rapido movimento dei corpi celesti nell'atmosfera che li circonda. Armonia è
detta in ogni arte l'effetto d'una composizione, di cui l'ordine e la varietà producono
un gradevole effetto. Così nella pittura la voce armonia è adoperata per
esprimere il piacevole effetto, tanto della composizione de colori, quanto
della disposizione delle figure, e delle diverse parti del quadro. E in ogni
scienza o di sciplina lo stesso vocabolo è usato per di notare l'accordamento
delle diverse parti d'un tutto, o delle proporzioni loro. V. Pro porzione. - -
Armonia chiamarono i filosofi la ma ravigliosa connessione delle membra del
corpo e de movimenti loro; il quale sen timento trasportato poi alla
composizione di tutte le parti della natura, produsse l'altro concetto
dell'armonia e de numeri, cagioni di tutte le cose. Armonia prestabilita è
l'ipotesi di Leib nitz, per la quale spiegasi il commercio dell'anima col
corpo. Secondo questa ipotesi, ciascuna delle due sostanze non influisce sopra
dell'altra; ma l'anima ha una virtù propria essenzia le, che in ogni sua azione
è secondata dal corpo, predisposto dal Creatore per modo, che corrisponde
esattamente alle determina zioni di quella. Cotesto accordamento per
fettissimo, prodotto, non dalla interven zione divina nelle particolari
funzioni di quella o di questo, ma da un premeditato disegno della Infinita
Sapienza, è quel che a Leibnitz piacque chiamare armonia pre stabilita. Una
tale armonia è a suo cre dere preparata persino nel primi e più te nui elementi
della materia, la quale non potrebbe uscire dalla inerzia del suo pri mo stato
senza il concorso delle sostanze spirituali, o sia delle unità reali, o mo
nadi. V. Monade. A tal modo innestando la metafisica alla meccanica, credette
Leibnitz avere scoperto il mistero della natura. V. Ipotesi. ARRoGANZA (prat.),
gonfiamento d'ani mo, che taluno ha in riputarsi più degno e maggiore di quel
che è. È più che pre sunzione. V. Presunzione. ARTE (crit.), ogni sistema di
regole for mato per conseguire un determinato sco po, intellettuale o pratico
che sia. V. Re gola, Sistema. In un senso più speciale, arte dicesi la
collezione delle regole proprie all'esecu zione delle opere materiali dell'uomo.
Qualunque sia lo scopo d'un'arte, o che risguardi l'industria necessaria a biso
gni e alle comodità della vita, o che si prefigga l'imitazione dell'operar
della na tura, o che tenda a soddisfare in qualun que modo la curiosità
dell'uomo; debbe avere due requisiti, senza i quali non può l meritare una tal
denominazione, 1.” che il fine sia vero, o utile, 2.º che a con seguirlo sieno
adattati i mezzi più semplici e più brevi. Cotesti requisiti ci vengono
suggeriti dall'esempio della natura, che è stata a noi prima maestra delle
arti. Cicerone, i cui concetti son sempre lumi nosi, espose in brevi detti
l'origine delle arti tutte: notatio naturae, et animad versio peperit artem. V.
Connessione, Fine, Mezzo, Ordine. Nella partizione dediversi rami del sa pere
umano debbonsi distinguere le arti dalle scienze. Arte è propriamente il me
todo di operare con ragione; e scienza, è la serie ordinata de principi e delle
ve rità necessarie alla perfetta cognizione del suo obbietto. Ma v'ha un punto,
nel quale le scienze e le arti toccansi insieme, che è appunto la cognizione
del principi, dai quali dipendono le regole della pratica; nè altro è
quell'operar con ragione, che forma il principal requisito d'ogni arte.
Distinguiamo per conseguente nelle arti la parte speculativa dalla pratica, e
diciamo e converso che in ogni scienza trovasi l'arte, o sia l'ordine, col
quale procediamo allo scoprimento o alla dimostrazione della ve rità, che è il
metodo. Il metodo dunque è pure un'arte. V. Metodo, Seienza. Sebbene l'imitazione
e l'abito dieno all'uomo l'attitudine d'imparare molte arti senza il soccorso
della scienza; purtutta volta cotesto modo sperimentale dista tan to dallo
scientifico, quanto il senso dalla ragione, o il particolare dal generale. Il
pratico artigiano conosce le relazioni im mediate de fatti, ma non generalizza,
nè scopre i principi, i quali rendono ragione del processo delle sue
operazioni; crede anzi aprire gli occhi ad una nuova luce, allorchè intende per
la prima volta spie gare le verità teoriche, delle quali quelle son figlie.
Cotesta differenza è la sola che giustificar potrebbe la distinzione ricevuta
dalle arti in liberali, e meccaniche.V. Abi fo, Imitazione. La cennata
distinzione fu comunemente derivata da diversi oggetti, che le arti si pre
figgono. Di esse talune esigono più la coo perazione dell'intelletto, che della
mano, e più l'uso delle facoltà dell'animo, che della forza corporale; il
perchè quelle fu ron dette liberali, e queste meccaniche. Ma una tal
denominazione rende servili molte arti prestantissime, e nasconde quel la parte
di scienza, che le anima ed in forma. Certamente maggior onore è dovuto alle
opere dell'ingegno, che a quelle della mano; ma se l'ingegno e la mano con
corrono insieme all'invenzione o alla per fezione d'una macchina degna d'essere
ris guardata, come l'ultimo sforzo dell'umana sagacità, crederemo però
contaminata la dignità dell'inventore, per aver fatto un sì nobile uso
dell'istrumento col quale mi sura egli ed imita le forze stesse della na tura?
Adunque più esattamente parlando, chiameremo liberali le arti tutte, quando
sono animate e dirette dalla scienza ; e siccome l'utilità vera risulta da
fatti, piuc chè dalla nuda speculazione; così daremo il primo onore agli
artisti, i quali con giungono l'opera dell'intelletto a quella della mano. V.
Invenzione. La mano dell'uomo è lo strumento della natura, che in se contiene i
tipi di tutti gl'istrumenti artifiziali, e gli elementi di tutte le forze, che
per lei si comunicano alle macchine le più complicate. Forte, agile,
pieghevole, attaccata per mezzo de mu scoli ad una leva, qual è il braccio,
ella divide, scompone, ricompone, combina la materia, avvicina ed allontana i
corpi 5 - 54 - tra loro, e si crea gl'istrumenti, come altrettanti muscoli
accessori, per muovere le grandi masse, nel che toglie ella a pre slito una
parte delle forze stesse della na tura: Quam vero aptas, dice Cicerone, quamque
multarum artium ministras ma nus natura homini dedit/ Ma la sola at titudine
della mano e del braccio, non basterebbe ad operare tanto maravigliosi effetti
senza la sagacità, o sia senza le attitudini della mente, per mezzo delle
quali, al dir dello stesso Cicerone, adin venta animo, percepta sensibus, adi
bitis opificum manibus, omnia nos con secutos. Di qua la necessità della
scienza e delle osservazioni sopra le opere della natura, della geometria delle
arti, e del la meccanica. V. Macchina, Mano. Più plausibile è la partizione e
la sud divisione delle arti per rispetto alla diversa qualità dell'obbietto,
che ciascuna di esse si propone. In questa partizione prendono il primo luogo
le arti, che prefiggonsi d'imitare il bello della natura, e però son dette
belle o imitative. Tali sono la pit tura, la scultura, insieme colle accesso
rie, dette arti del disegno. A queste va congiunta pure l'architettura, comechè
abbracci un obbietto composto di diverse spezie di bello (V. il disc. prelim.).
V. Bel lo, Imitazione. - Quanto alle altre arti, elle sono sì nu merose e sì
varie, che difficile sarebbe il farne una categorica partizione. Ritor nando al
principio, che le scienze dan vita e pregio alle arti, seguiamo la gene rica
divisione oggi ricevuta di arti agra rie, meccaniche, e chimiche. Le agrarie
son quelle, che si prefiggono di secondare le forze naturali della vegetazione
e della riproduzione de vegetabili e degli animali. Le meccaniche son quelle
altre che met tono in opera le diverse spezie del moto prodotto dall'azione
delle macchine. Le chimiche o fisiche, quelle che si servono delle forze degli
agenti naturali, come il calore, la luce, l'elettricità, il magne tismo ec. Per
quanto imperfetta sia una tale partizione, ella è la sola che possa dirsi
coerente al principio, che annoda le arti alle scienze (V. il disc. prelim.).
V. Chimica, Fisica, Meecanica. Innalzando le arti a quel grado di di gnità, che
loro dà l'intelligenza direttrice dell'opera, non però debbon queste essere
confuse co mestieri, che son figli dell'abito materiale, e della nuda
imitazione. V. Mestiere. Le arti hanno, come le scienze, un linguaggio proprio,
che dicesi tecnico, e distinguesi dal comune e dallo scientifico per due
caratteri, i quali nascono dal la qualità delle idee, che esprimer debbe. I
suoi vocaboli son tutti arbitrari e con venzionali, e variano spesso da lingua
a lingua: essi non sono capaci che di sem plici definizioni nominali, dapoichè
non esprimono se non qualità relative ed ac cidentali. Cotesto vocabolario è
più nume roso dello scientifico, perchè le combina zioni e gli accidenti de
fatti sono maggiori e più svariati delle idee astratte e demodi loro. Comechè
sia più sterile per l'intel letto e più penoso per la memoria, non è però meno
necessario al progresso delle arti. E siccome l'industria de diversi po poli
non è costante, nè la stessa tra tut ti; così nulla può tanto giovare alla con
servazione, alla propagazione e alla per fezione delle arti utili, quanto un
dizio nario comparato del vocaboli delle arti e de mestieri delle diverse
lingue, sì anti che che moderne. Adempiano cotesto voto coloro, che coltivano
una sì importante - 55 - parte dell'umano sapere! V. Dizionario, Linguaggio,
Mestiere. ARTErice (erit.), chi professa le arti puramente manuali, o sieno i
mestieri. V. Arte, Mestiere. ARTERIA (spee.), vaso membranoso ed elastico, che
riceve il sangue dal cuore e lo distribuisce per le diverse parti del corpo,
onde dar loro il nutrimento, il calore, e la vita. V. Cuore, Sangue. Cotesta
definizione è di quelle, che ap partengono alla notomia generale; ma lin
dustrioso lavorio della natura, che si tro va nascoso nel sistema arterioso e
venoso, appartiene eminentemente alla contempla zione del filosofo speculativo.
Le arterie e le vene, mentrechè por tano e riportano il sangue per nutrire le
altre parti del corpo, son esse stesse piene d'altre piccole arterie e vene,
destinate a nutrire le loro proprie membrane; e que ste alla volta loro hanno
altri simili va sellini, i quali giungono insino ad un infimo e quasi
impercettibile grado di vo lume. Le arterie ricevono il sangue dal cuore, e le
vene ve 'l riportano; il per chè all'apertura delle arterie, e alla im
boccatura delle vene dalla parte del cuo re, v ha delle valvule le quali
apronsi per un sol verso; e secondo la direzione alla quale son collocate
aprono il passag gio al sangue, e ne impediscono il ritor no. Le valvule delle
arterie son disposte in modo, che ricevono il sangue all'uscire dal cuore; e
quelle delle vene in modo che debbono restituirlo al cuore, senza poterlo da
esso direttamente ricevere. V'ha inoltre lungo il corso delle vene, e di tratto
in tratto, di altre valvule, le quali non permettono al sangue, una volta che
passato, di tornare indietro; per modo che esso è costretto dal nuovo sangue,
che sopravviene di correre incessantemente e di compiere il suo corso per tutte
le parti del corpo. A tale rapida circolazione con tribuisce il continuo
battimento delle stes se arterie, il quale corrisponde ad un si mile movimento
del cuore, e da cui na scono le battute de polsi. Le arterie tutte del corpo
escono in due larghi tronchi da due grandi cavità, det te dagli anatomici destro
e sinistro ven tricolo del cuore: dal destro nasce l'ar teria pulmonare,
destinata a trasportare il sangue nel polmoni : dal sinistro, la grande
arteria, detta aorta, la quale suddividesi in due principali tronchi, det ti,
l'uno ascendente, e discendente l'al tro: quello destinato a tramandare il san
gue al capo e alle parti superiori del cor po: questo, alle parti inferiori. Il
cuore stesso è nutrito da una particolare arteria, la quale non ha veruna
immediata comu nicazione coll'aorta, ma riceve il sangue dal sinistro
ventricolo, e lo restituisce nel destro per mezzo d'una particolar vena, che
non ha altra immediata comunicazione col cuore. Il tessuto delle arterie e
delle vene, la ramificazione loro, e tutta la tela de nervi, che dal cervello
si diffonde in sino alle ultime estremità del corpo, sono la parte più
maravigliosa di tutte le opere dell'Autor della natura; perchè danno del la sua
sapienza nel picciolo, una dimo strazione tanto luminosa quanto è quella, che
ha Egli dimostrato nella struttura e nelle proporzioni di tutte le grandi masse
del cielo. V. Cuore, Vena. ARTIcolo (disc.), particella declinabile aggiunta a
nomi comuni e appellativi, per determinare il significato loro, così nel a
singolare, come nel plurale. I Greci eb bero gli articoli per ciascuno de'tre
gene ri. I Latini non lo conobbero affatto. Le lingue moderne lo hanno, e di
esse ta lune lo distinguono in due spezie, il de finito, cioè e l'indefinito.
Per l'indefinito adoperano il nome numerale uno. Gl'italiani non contano per articoli,
se non il , lo, li, la , le , ed all'indefinito uno danno la qualità di
accompagnanome, il che forma una differenza di termini più che di cose. Le
regole del come usarlo ap partengono alla gramatica particolare. ARTIGIANo
(crit.), chi trae la giornata dall'esercizio delle arti manuali. ARTISTA
(crit.), chi professa le arti belle, o le arti meccaniche e chimiche. V. Arte.
AsPETTo. V. Faceia, Viso, Volto. AssEGNABILE (spec.), la parte della ma teria,
o quantità, che si può dalla mente concepire tra dati limiti. E però diciamo la
parte dello spazio asse gnabile, quella cioè che concepiamo come finita, o
relativa ad una data estensione. È diverso dal determinato, che è quel che
riceve una certa dimostrazione. V. De ierminato. - AssENso. V. Assentimento.
AssENTIMENTo (spee.), giudizio che la mente pronunzia intorno ad ogni proposi
zione, che ammette come vera. V. Giu dizio, Proposizione. Gli scolastici
prendevansi il fastidio di esaminare, se unico o doppio fosse il no stro
giudizio, allorchè assentiamo alle pro posizioni congiunte, come le
condizionali, le copulative, le disgiuntive, le causali, l'esclusive; e
notavano essere unico l'atto della mente, perchè le relazioni tra le
proposizioni son tali, che ammessa l'una dee necessariamente essere ammessa o e
sclusa l'altra. Così, come unico propone vano l'assentimento, che diamo alle
pro posizioni, se il sole risplende, è gior mo, se è giorno, non è notte, Tizio
stu dia, o non istudia ec.; quistioni inutili, e forse ancora mal risolute,
perchè cia scuna di tali enunciazioni contiene altre proposizioni sottintese,
le quali se si spie gassero formerebbero un argomento o sil logismo, di cui
ciascuna premessa è ca pace di essere affermata o negata con se. parato
giudizio. E però la celerità, colla quale la mente passa da un giudizio all'al
tro non dimostra l'unità dell'atto, ma pro va un'altra virtù dell'intelletto,
che è quel la di correre innanzi alle conseguenze, al lorchè chiaramente
concepisce le relazioni tra le premesse. Da ciò nasceva l'altra di stinzione,
che pur facevano gli scolastici, tra l'assentimento esplicito e l'implicito, e
tra l'attuale e l'abituale, che sono lo stesso: attuale è il giudizio singolare
e presente, che pronunziamo intorno ad una proposizione: abituale è
quell'altro, che la mente concepisce e non ripete perchè na sce da atti
reiterati e noti. È manifesto, per quel che abbiamo testè detto, che nelle
proposizioni congiunte il giudizio attuale racchiude in se l'abituale.
Dell'assentimento abituale è propria l'adesione. V. Adesione. L'assentimento in
fine può avere diversi gradi o misure, le quali formano la gra dazione tra la
certezza e la probabilità. V. Certezza , Probabilità. AssICURANZA (dise. e
prat.), stato della mente, allorchè si riposa sopra la certezza – 57 – d'una
idea o nozione chiaramente e di stintamente percepita. V. Idea, Mozione. AssoMA
(spec.), proposizione generale evidente, per intuizione, o per dimostra zione.
V. Intuizione, Dimostrazione. Tal è il significato, comunemente rice vuto, del
vocabolo assioma, che noi cre diamo non esatto, perchè abbraccia due generi di
verità tra loro diverse. Se si volesse chiamare assioma ogni principio, o prima
verità, sarebbe que sto vocabolo superfluo, dapoichè esprime rebbe una nozione,
la quale ha un altro termine proprio e più caratteristico. Gli assiomi ci
vengono dalle scienze, e spe zialmente dalle dimostrazioni geometriche, ad
esempio delle quali sono stati nelle al tre scienze introdotti. In questo senso
altro non sono, che generalità ricavate da verità particolari, precedentemente
dimostrate. Locke fu l'antesignano di coloro, che han voluto proscrivere gli
assiomi come inutili, e dannosi a progressi della umana cognizione. La sua
opinione è una con seguenza della dottrina, che riconosce le verità particolari
acquistate pesensi, come l'unica sorgente di tutte le nostre idee. I suoi
principali argomenti son due: 1.º co teste verità non nascono con noi, nè sono
le prime ad entrare nella mente, dapoichè ogni proposizione generale è il
prodotto delle idee particolari, le quali sono certa mente ad ogni altra
anteriori: 2.º le mas sime, dette assiomi non sono, nè esser possono i principi
o le fondamenta dell'u- mana cognizione, dapoichè ve n'ha delle altre, di esse
più chiare, e molto prima conosciute: molti infatti e forse tutti cono scono
che uno e due sono eguali a tre, prima che sappiano, essere il tutto eguale
alle parti sue insieme prese, che anzi l'idea del tutto e della parte sono più
oscure di quelle dell'uno, del due e del tre. Da ciò segue secondo Locke, che
se i cennati assiomi potessero essere conside rati come principi dell'umana
cognizione, dovrebbero essere nella medesima classe arrollate tutte le altre
proposizioni della medesima, o di maggiore evidenza ; sì che la quantità di
tali principi non so lamente sarebbe innumerevole, ma an drebbe sempre
crescendo in ogni periodo della vita, perchè abbraccerebbe tutte le verità di
esperienza, per la sola ragione, che sono per se stesse evidenti. Da tali
argomenti egli dedusse, che gli assiomi non sono utili per provare o confermare
le proposizioni particolari, nè hanno servito di fondamento ad alcuna scienza,
come credettero gli scolastici, e molto meno fa voriscono l'invenzione di nuove
verità. Se condo lui, gli assiomi possono solamente essere ammessi nemetodi
d'insegnamento per fare conoscere il segno, insino al quale le scienze sono
giunte; o essere adoperati nelle dispute scolastiche per frenare l'in
temperanza dei disputatori. Per contrario un'altra classe di filosofi
spiritualisti avendo voluto rilevare le veri tà, che in noi nascono per
l'intimo senso della ragione, senza veruna dipendenza da'sensi, hanno confuso
nel nome di as siomi tutte le verità per se stesse evidenti, senza distinguere,
se l'evidenza loro na sca dalla naturale intuizione della ragione, ovvero dalla
sperienza e dalla dimostra zione; il che facendo hanno scambiato le verità
intuitive colle dedotte, e han messo gli assiomi geometrici a canto alla
nozione del proprio essere pensante. Distinguiamo cotesti due generi di verità,
e diamo a ciascuno un nome, che lo faccia discer nere dall'altro. - – 58 – V'ha
una serie di verità, che la luce della ragione ci rivela, e che noi sco priamo
coll'uso stesso delle proprie facol ià. Coteste verità formano la prima guida
del nostro giudizio per discernere il vero o il falso di qualunque
proposizione, e sono per loro stesse evidenti, non perchè nascano da
generalità, o da astrazioni di altre particolari proposizioni, ma perchè la
certezza e l'evidenza loro ci viene dal sen so della natura; per modo che niun
uomo potrebbe diversamente concepirle. Son que ste, quelle prime verità, o
verità imme diate, che diciamo essere in noi origina rie e connaturali alla
ragione, e risguar diamo come uno de principi dell'umana cognizione. - -
D'altra parte v'ha un secondo genere di verità, che noi acquistiamo per dedu
zione, o sia per ragionamento, le quali divengono tanto certe o evidenti quanto
le prime, ma che senza di quelle non avremmo mai acquistato. Di tal natura sono
gli assiomi geometrici, e tutte le verità che chiamiamo necessarie, per le
quali il ragionamento e la dimostrazione ci dicono, che esse non possono essere
diverse da quelle che noi concepiamo. Le une differiscono dalle altre tanto,
quanto l'intuizione differisce dalla dimostrazione. Prendiamo dunque da questi
due voca boli una denominazione caratteristica, che distingua l'origine loro; e
chiamiamo ve rità intuitive quelle che nascono dall'in timo senso della
ragione, e assiomi le verità scientifiche, che sono evidenti per dimostrazione.
V. Principi, Verità. AssoCIAZIONE (spec.), operazione del l'animo, per la quale
un pensiero richia ma l'altro che a quello si lega, per vera o apparente
relazione tra loro.V. Relazione. Molte idee si seguono e associansi co
stantemente tra loro per modo, che l'una richiama l'altra, o che si trovi tra
esse una naturale connessione di relazioni, o che sien queste suggerite da
estrinseci ac cidenti. Il senso proprio dice ad ognuno, che l'associazione può
nascere, o dalla ra gione, o dalla immaginazione, o ancora dall'abito. Quella
che vien dalla ragione, è sorgente feconda di ragionamento e d'in venzione; e
però la facilità e la pron tezza di scoprire un maggior numero di relazioni tra
le idee presenti al pensiero, è qualità propria di acuto e profondo in gegno.
L'associazione poi che suggerisce l'immaginazione, abbraccia più le rela zioni
estrinseche ed apparenti, che le rea li, e per tal motivo è l'anima della poe
sia, e delle arti imitative. Quella infine, che nasce dall'abito può esser vera
nel solo caso che sia fondata nella sperienza, e non negli accidenti, o nelle
illusioni del sensi. Invece di considerare l'associazione delle idee in questo
triplice aspetto, Locke ris guardolla come un falso abito della men te, che
ingenera pregiudizi ed errori, i quali poi producono strane e bizzarre com binazioni
di pensieri. Laonde andò a cer care nell'associazione delle idee la causa delle
animosità delle sette così di filosofia, come di religione. Più giustamente la
moderna filosofia con sidera l'associazione delle idee come una delle
operazioni della mente, che spande maggior lume sopra gl'interni fatti del
pensiero, e come la più feconda sorgente della invenzione scientifica. Non è
man cato tra moderni chi l'abbia considerata, non come una semplice operazione
dello spirito, ma come una delle principali po tenze dell'anima. Cotesta
distinzione non accresce la facilità dell'analisi degli atti del – 59 –
pensiero; e d'altra parte aumenta senza necessità il numero delle facoltà, e
indur potrebbe in errore chi non formasse un chiaro concetto di quel che noi chiamiamo
facoltà. V. Facoltà. - Altri han preteso determinare i casi, nei quali avviene
l'associazione delle idee, riducendo a date categorie le relazioni, che quelle
aver possono tra loro. Ma la sperienza ha dimostrato quanto imperfette sieno
tali sorte di partizioni, per le quali vorrebbesi antivedere e circoscrivere
tutte le possibili combinazioni del pensiero. Ciò non ostante, se si volesse
tra molte sce gliere una partizione generica, la meno in compiuta sembra esser
quella proposta da Dugald Stewart, cioè di associazione spon tanea, o di
attenzione. Nella spontanea entrano le relazioni di somiglianza, di analogia,
di contrarietà, di contiguità di tempo e di luogo, ed anche di acci dentale
somiglianza di vocaboli, in quel la prodotta dall'attenzione entrano le re
lazioni di causa e di effetto, di mezzi e di fine, di premesse e di
conseguenze. V. queste voci. AssoLUTo (ontol), quel che non dipende da altra
cosa, nè è limitato da alcuna con dizione, o modo. - È una nozione astratta
ontologica, la quale trova il suo archetipo nella Divini tà. Dio è l'ente
assoluto, perchè indipen dente da ogni altro Essere, onnipotente, infinitamente
sapiente, e scevro da qua lunque legame di causa a se estrinseca, e da ogni
restrizione. V. Dio. La definizione dell'assoluto è puramente nominale, perchè
non fa altro che spie gare il vocabolo latino, che vuol dire sciol to, o libero
da altro legame; e però è stato lo stesso vocabolo adoperato per esprimere
tutto quel che conviene ad un subbietto, senza veruna limitazione. Per la
stessa ragione gli scolastici distin sero quattro spezie dell'assoluto: 1.º
quel lo detto a termino, che conviene ad ogni Essere considerato come perfetto
nel suo genere, e da altro genere non dipendente: 2.º quello detto a
restrictione, che aveva per suo contrapposto il secundum quid ; come quando
dicevasi l'anima è immor tale, e l'uomo è immortale e la prima proposizione era
vera assolutamente, e la seconda secundum quid 3.º quello detto a conditione,
come quando la necessità assoluta vien contrapposta alla condizio nale: 4.º
quello delto a causa, cioè che ha causa da se stesso, e non da altri, nel quale
senso cotesta spezie di assoluto non può convenire che al solo Dio. Siccome i
requisiti dell'assoluto trovansi tutti nel semplice, così queste due no zioni
si scambiano l'una per l'altra. Il semplice è un'altra mozione ontologica, che
la mente concepisce per astrazione, e fuori della natura sensibile. V.
Semplice. La nozione dell'assoluto applicata alle cose sensibili e alle idee
finite, riceve un più ampio significato, e diviene capace del più o del meno;
come quando dicesi che un attributo conviene assolutamente ad un subbietto, o
più ad uno, che ad un altro. In questo senso l'assoluto ha per suo contrapposto
il relativo. V. Relativo Di niun altro vocabolo, più che di que sto, hanno
abusato i moderni filosofi tra scendentali. Kant prese l'assoluto nel senso
degli scolastici, come quello che è scevro d'ogni condizione, ma ne fece un
attri buto dell'anima umana, considerata que sta, come una delle tre unità,
alle quali pare che ridur volesse la natura di tutte le cose, cioè l'anima, il
mondo, e Dio, – 40 – Come poi trovar potesse l'unità nel mon do, nel quale egli
ravvisa l'unità assoluta della serie di tutte le condizioni delle intuizioni,
ne lasciamo l'investigazione agli amatori di quella dottrina. V'ha non pertanto
ad osservare, che delle tre cen nate unità, egli non ammise se non una
conoscenza subbiettiva, vale a dire, non evidente, non dimostrabile, e per
conse guente incerta. Il suo discepolo Fichte, mutando inte ramente la dottrina
del maestro, trovò l'assoluto nell'unico principio generatore di tutte le cose,
che è l'io. Come l'io pro ducesse il non io, che è la materia, e se cotesto io
debba essere considerato come una sostanza unica, universale, nella qua le si
confondono tutti gli spiriti e le in telligenze create, riserviamolo ancora a
quelli, che avessero vaghezza di appro fondare il senso di quell'oscuro e fanta
stico sistema. V. Io. Altri finalmente calcando le orme, ora dell'uno, e or
dell'altro del due nominati fondatori dell'odierno idealismo, riposero
l'assoluto nell'io, e ne fecero pure un at tributo della ragione, la quale per
altro non può pervenire a tale stato, se non quando abbia imparato a
dimostrare, che il non io è identico dell'io, perchè pro dotto dall' io. Se
questa è l'idea dell'assoluto, uopo è dire, che in niun'altra ragione risiede
tanto chiara, quanto nella mente di quei matti, i quali sono impazzati per
eccesso di filosofia. - Assu EFAzioNE (prat.), tolleranza solita, per la quale
ci accostumiamo a sostenere l'incomodo e il dolore. E diversa dall'abito, il
quale presup pone l'azione, mentrechè l'assuefazione esprime piuttosto la
passione. Nella nostra favella è diversa ancora dalla consuetudi ne, la quale
abbraccia l'idea del solito, comune all'attivo e al passivo. Per l'op posito
nella lingua latina il vocabolo con suetudo, perchè capace dell'un senso e
dell'altro esprime esattamente il concetto dell'assuefazione; ond'è che Seneca
disse: nullo melius nomine de nobis natura me ruit quam quod cum sciret, quibus
ae rumnis masceremur, calamitatum molli mentum consuetudinem invenit, cito in
familiaritatem gravissima abducens (de tranquil. an.). AssuNZIONE (disc.),
abbreviazione d'un sillogismo, quando si pone la seconda pro posizione, o sia
la minore, in luogo del la prima, sottintendendo questa. V. Sil logismo.
AssURDo (disc.), sorta di errore, il quale mena ad una conseguenza univer sale,
che impugna una comune verità. V. Errore. AsTRARRE (spec.), separare
mentalmente le idee congiunte o connesse, e considerare l'una divisamente
dall'altra. Si astrae quando si esamina uno degli attributi d'un subbietto,
senza considerare gli altri a quali è unito ; quando si se para l'attributo dal
subbietto medesimo; quando si concepisce l'attributo senza il subbietto, al
quale è inerente; quando si concepisce il subbietto, come scevro da ogni
attributo; e quando l'attributo si tra sforma in subbietto. Esempio del primo
modo di astrarre è il considerare la lun ghezza, separatamente dalle altre dimen
sioni del corpo; del secondo, quando esa miniamo il calore, senza risguardo
acorpi, - 41 - ne'quali è riposto; del terzo, quando par liamo dell'ente in
generale; del quarto, quando parliamo dell'umanità senza del l'uomo. V.
Attributo, Qualità, Subbietto. La facoltà di astrarre è una condizione
necessaria dell'ente finito, perchè non po tendo la mente abbracciare ad un
tratto tutte le qualità d'un subbietto, uopo è , che le sceveri per acquistare
di ciascuna una idea chiara e distinta. Così, formando tante idee particolari,
quante sono le qua lità sue, può dalle stesse comporre l'idea complessa del
subbietto, che le racchiude. V. Idea. AsTRATTo (spee. e dise.), quel che il
pensiero concepisce come separato da una cosa, cui è congiunto. Gli scolastici
distinsero l'astratto reale dall'intellettuale o metafisico, dal logi co, e dal
fisico o sostanziale. V. Astra zione. Scienze astratte diconsi quelle, le quali
versano circa le qualità desubbietti consi derate di per se stesse. Coteste
scienze son di doppia natura, e si distinguono in me tafisiche e matematiche.
Le prime abbrac ciano i subbietti e le qualità, considerate come obbietti del
pensiero. Le seconde trat tano della quantità considerata per se stes sa, e
senza riguardo ad alcun corpo par ticolare, come la geometria e l'aritmetica.
Hanno esse per loro contrapposto le ma tematiche miste, e le scienze
fisico-mate matiche, che applicano le verità astratte alle cose sensibili, come
la meccanica e l'astronomia. V. Matematica, Metafisica. AsTRAZIONE ( spec. e disc.
), l'opera zione della mente, per la quale sepa riamo le cose naturalmente
congiunte, e formiamo di ciascuna un concetto distinto dalle altre.
L'astrazione è il mezzo, per lo quale passiamo dalle conoscenze parti colari
alle generali, e formiamo le no zioni del genere e della spezie. V. Gene re,
Spezie. Per essa, generalizzando, formiamo il pensiero, nel che l'astrazione si
vale del soccorso de nomi, e adopera il linguag gio come instrumento dello
stesso pensie ro., V. Linguaggio, Pensiero. - E il fondamento delle scienze
metafisi che, e delle matematiche pure, delle quali crea i subbietti; è
l'instrumento principale del ragionamento; serve alla immagina zione, del pari
che alla ragione; sommi nistra le immagini alla poesia, e alle arti imitative.
Se l'astrazione debba essere considerata come una operazione dell' intelletto,
o come una facoltà dell'anima; è questa una quistione di nomi, che dipende dal
significato, che meglio conviene al voca bolo facoltà. V. Facoltà. Gli
scolastici distinsero l'astrazione in reale e razionale, avendo chiamato reale
quella, che separa le cose non solamente col pensiero ma ancora col fatto, la
quale sorta di astrazione appartiene propriamente alla notomia. E quanto alla
razionale, piacque a taluni suddividerla in obbiettiva e formale, colla quale
suddivisione in tesero distinguere l'obbietto dell'astrazione dalla operazione
della mente che astrae. Ma questa ed altre simili distinzioni ripu gnano al
sano criterio filosofico, perchè contengono prette differenze nominali, le quali
mentre sminuzzano il concetto della mente servono a confonderlo, e non a
rischiararlo. Di tutte le partizioni fatte dalle antiche scuole la sola utile
sembra quella, che di stingue l'astrazione fisica dalla matema 6 tica, dalla
metafisica, e dalla logica. La fisica astrae la materia in generale e con
sidera il corpo qual è in natura, e non qual si trova negl'individui; la
matematica astrae la quantità, senza avere rispetto alla materia, cui è
inerente; e la metafisica, i concetti propri del pensiero, come l'ente, la
sostanza, l'esistenza, la possibilità, ed altri. Diversa dalle cennate spezie
di astrazioni è la logica, la quale separa nesuoi vocaboli le proprietà comuni
a più individui, e ne forma i suoi universali. V. Logica, Universale. Locke
risguardò l'astrazione, come la qualità caratteristica dell'umano intelletto,
per rispetto a bruti, che son capaci soltanto d'idee particolari. Certamente è
questo un carattere distintivo della ragion dell'uomo, ma non è il solo,
siccome egli credette. Del resto la facoltà di astrarre è una del le più grandi
prerogative della mente per chiunque convenga della verità e della cer tezza
delle nozioni universali, il che non può con asseveranza affermarsi della dot
trina di Locke. AsTRoLoGIA (erit.), qual oggi è intesa, è l'arte di predire i
futuri avvenimenti dalle posizioni, dagli aspetti, e dalle influenze diverse
decorpi celesti, La predizione decangiamenti dell'atmo sfera, delle meteore,
delle inondazioni, fondata sulla contemplazione delle stelle fu il primo scopo
di quest'arte; e come chè congetturali fossero i suoi pronostici, erano non
pertanto fondati nella sperienza del fenomeni della natura, e però naturale era
ella denominata. Ma quando vollesi estendere i pronostici e le influenze degli
astri a fatti umani, e all'astrologia natu rale si aggiunse la giudiziale,
cotesta arte tutta intera divenne una sorgente di pre stigi e di superstiziose
fantasime, le quali corruppero ancora la filosofia, perchè ri vocarono in
dubbio la libertà delle azioni. Allora ne fu condannato persino il nome, e
l'astrologia ebbe una sorte comune all'al chimia. AstRoNoMIA (crit.), la
scienza degli astri, e del movimenti loro. - È annoverata tra le scienze fisico
ma tematiche, perchè da una parte giovasi nelle sue ricerche della geometria e
della mec canica, e partecipa dell'esattezza di queste due scienze; e
dall'altra le sue speculazioni son fondate, come nelle altre scienze na turali,
sopra i fatti e le ipotesi; le quali sebbene acquistino, per la concorrenza dei
fenomeni e per un profondo studio di essi, la maggiore verisimiglianza
possibile, pur tutta volta non sono capaci di dirette di mostrazioni. Colla
osservazione e col caleolo l'astro nomia determina le posizioni, le orbite, le
distanze, le grandezze del pianeti, e le periodiche loro apparizioni; e spinge
le misure ed induzioni sue insino all'indagar la più probabile distanza delle
stelle fisse, delle quali cerca di spiegare i piccioli mo» vimenti,
sceverandoli dalle apparenze. ATEISMo (leol), opinione di quelli, che negano
l'esistenza di Dio, creatore e con servatore dell'universo. V. Dio, Universo.
Per onore della umanità deesi dire, che non è stato popolo, per quanto barbaro
e feroce fosse, che non abbia avuto la sua Divinità, comechè abbia ignorato
qual es. ser dovesse. E d'altra parte, per vilipen dio della falsa filosofia,
dobbiam confes sare, non essere mancato chi rivolgesse tutto l'acume della
ragione a negare l'esi stenza d'una causa intelligente di tutte le – 45 – cose.
Molti scrittori han creduto dover tra mandare alla posterità i nomi de più insi
gni atei speculativi, quasi per proporgli come obbietti della publica
esecrazione. Ma cotesta condanna, la più spaventevole di quante possano essere
pronunziate con tra la memoria d'un uomo, dovrebb'es sere fondata sopra
innegabili testimonian ze, il che non sempre è avvenuto. Im perocchè per
invidia o per giudizio for mato sopra ambigui delti, o sopra leg giere e false
testimonianze, l'enciclopedia francese divulgò come atei molti celebri uomini,
comechè per parecchi di costoro una tale accusa fosse stata tra dotti rico
nosciuta come calunniosa. Se convien desiderare, che una simile empietà non
fosse mai penetrata nella men te e nel cuore di qualunque uomo; me glio sarebbe
il nascondere i nomi de fau tori di quella perniciosa opinione; e molto più
converrebbe, non esser facile allo ac cusare, e piuttosto esser benigno nell'in
terpretare in un senso favorevole e non odioso, tutto quel che a prima vista
può sembrar dubbio, o ambiguo. E quando l'empietà dedetti fosse manifesta,
sarebbe forse util cosa non onorare della confuta zione gli argomenti degli
atei; dapoichè abbastanza rispondono loro la natura, l'or dine dell'universo,
la coscienza, e il sen so generale della umanità. Quid enim est verius quam
neminem esse oportere tam stulte arrogantem, ut in se rationem et mentem putet
inesse, in coelo mundoque non putet? Quem vero astrorum ordines, quem dierum
noctiumque vicissitudines, quem mensium temperatio, quemque et quae gignuntur
nobis ad fruendum, non gratum esse cogant, hunc hominem om nino numerare qui
decet? In somma, sic come gli aborti e i mostri non formano spezie, ma restano
nel numero degl'indi vidui; così una opinion singolare, la qua le ripugna alla
natura della umanità, non de'essere annoverata tra i possibili conce pimenti della
umana ragione. Giova non pertanto osservare, che due son le vie, per le quali
si trascorse nel l'ateismo; pratica l'una e speculativa l'al tra. La pratica ha
i suoi inizi nella sre golatezza de'costumi, e il suo incremento nell'abito
della depravazione. Ma di cote sti atei avviene quel che Platone narra di tutti
gli uomini accostumati a conculcare le voci e i rimorsi della coscienza.
Sull'in chinare del viver loro cominciano a suspi car, che forse vero non sia
quel, che era sta to loro detto depremi e delle pene d'un'al tra vita; sì che
finir sogliono col rendere omaggio alla verità, che avevano sprezzato. La
speculativa poi è propria del così detto filosofismo, o sia di coloro che hanno
una falsa tinta di filosofia; dapoichè non si tro va tra i luminari della
ragione umana chi non sia stato più profondamente degli al tri penetrato dagli
argomenti dell'ordine e della provvidenza, che regge l'universo. V.
Filosofismo. ATEISTA (teol.), chi professa l'ateismo speculativo. V. Ateismo.
ATEo (teol.), l'uomo privo della cogni zione di Dio. - È vocabolo adoperato dal
Segneri e dal Salvini. ATMosfenA (spec.), la massa d'aria che circonda da ogni
parte la terra. V. Aria. L'atmosfera non è composta di pura aria, dapoichè
questo fluido vi si trova combi nato colle evaporazioni volatili della terra, e
delle acque, delle quali rade la superfi si – 44 – cie. Da tali evaporazioni
prendono origine molti fenomeni conosciuti col nome di me teore. V. Meteora. I
Fisici non han potuto con certezza de terminare l'estensione dell'atmosfera. La
sperienza dimostra, che l'aria va dive nendo meno densa in proporzione della
sua altezza, ma non potendo l'osserva zione desensi pervenire a determinare
l'ul timo grado di tenuità delle molecule del l'aria atmosferica, la scienza si
limita a calcolare approssimativamente i gradi del la sua densità a
considerabili altezze. Il fenomeno del crepuscolo, che avviene per la
riflessione della luce del sole verso la terra, operata dagli alti strati
dell'atmosfera; ha dato l'opportunità di misurare, se non l'altezza totale
dell'atmosfera stessa, quella almeno degli ultimi suoi strati, capaci per la
densità loro, della riflessione della luce. Una tale altezza è stata trovata di
quaranta miglia all'incirca. È verisimile per l'esperienze de fisici, fondate
pure sopra i fenomeni della rifles sione della luce, che il sole e i pianeti
abbiano ciascuno il proprio atmosfera, di cui suole determinarsi anche
approssimati vamente l'estensione; il che propriamente appartiene
all'astronomia fisica. AToMo (ontol.), minutissimo corpo, che per la sua
picciolezza non può essere di viso, nè sentito. V. Corpuscolo. Fu celebre tra
Greci la scuola di Demo crito e di Leucippo per la dottrina degli atomi,
comechè di essa si avessero più antiche vestigie presso i Pitagorici. Le opi
nioni di costoro riferite da posteriori scrit tori fan credere che le unità di
Pitagora fossero la stessa cosa degli atomi. V. Unità. Gli atomi furon creduti
gli elementi o sieno le parti primitive di tutti i corpi na turali. La
sposizione di questa dottrina si ha tutta intera in Lucrezio. L'antica dottrina
degli atomi, nella quale si distinse pure Epicuro, ammetteva la ma teria come
eterna e come nuovo il mon do, che dicevasi composto dal concorso degli atomi,
i quali scorrendo per lo va cuo, e traversandolo in ogni direzione, avevano per
diverse fortuite combinazioni formato i corpi. Cotesto sistema è stato
riprodotto da moderni filosofi, detti corpu scolari, i quali l'hanno associato
e con ciliato colla dottrina della creazione. Ba cone stesso considerò come
connaturale alla mente umana l'ipotesi degli atomi, quan do vogliasi
razionalmente concepire i prin cipi della creazione. Infatti noi concepiamo i
composti della natura come formati da particelle elementari, dotate di forma e
di dimensioni, capaci di luogo, e fornite d'impenetrabilità di forze, e di
moto. E siccome i composti son soggetti a innu merevoli dissoluzioni, ma non
periscono; così crediamo che i primi componenti ri mangano immutabili, e sono,
secondo l'espressione di Bacone, una spezie di cen tro, o un che di potenziale,
infinitamente picciolo. Gli atomi dunque sono, secondo il concetto della
ragione, le particelle ve dute dal pensiero, e non da sensi: il pen siero li
distingue dalle molecule, che son le particelle sensibili, dalle quali comincia
il magistero visibile della natura. Laonde i vocaboli atomo e molecula hanno
nel lin guaggio filosofico un significato convenuto, il quale separa l'analisi
visibile della ma teria dalla invisibile. V. Materia, Mo lecula. ATRoce, e
ATRocrra (prat.), qualità d'animo, o di atto crudele, che ferisce il senso
della natura, e desta abborrimento, – 45 – - È più del crudele e della
crudeltà, la quale può non oltrepassare i termini del rigore e della severità.
V. Crudeltà. In un senso speciale, atroce dicesi l'ingiu ria, che ferisce
l'onor di ognuno.V. Ingiuria. ATTENzioNE (spec.), atto della volontà, per lo
quale l'intelletto è richiamato a con siderare un qualche obbietto del
pensiero. V. Volontà. L'attenzione è necessaria per l'osserva zione così degli obbietti
esterni, come del le interne operazioni dell'anima. Piacque a Reid chiamare
attenzione la sola avvertenza agli obbietti della percezio ne, per distinguerla
da quella, che pre stiamo alle interne operazioni dell'anima, da lui chiamata
riflessione. Ma giova me glio distinguerla per una differenza più
caratteristica. L'attenzione indica la scelta dell'obbietto; laddove la
riflessione espri me l'azione del pensiero intorno all'obbietto scelto. Molti
son capaci di attenzione, e non di riflessione. V. Riflessione. Taluni han
considerato l'attenzione come una facoltà dell'anima, più che come l'esercizio
d'un atto della volontà. Ma il con siderarla nell'uno o nell'altro modo dipende
dal senso, che voglia darsi alla voce facol tà. Certamente l'attenzione è un principio
d'azione inseparabile dalla volontà.V. Azio ne, Facoltà. ATTITUDINE (spec.),
disposizione di na tura ad usare delle potenze e facoltà, delle quali gli
animali e l'uomo sono stati ri spettivamente dotati. Secondo Dante, è il
fondamento che na. tura pone: E se il mondo là giù ponesse mente Al fondamento,
che natura pone, Seguendo lui, avria buona la gente, ATTIVITA' (spec.), la
virtù dell'operare o dell'essere attivo, ridotta in abito.V. Abi to, Attivo.
ATTIvo (spec.), quel che ha virtù di muovere, o di comunicare l'azione ad un
altro; nel quale senso è contrapposto del passivo, o sia di quel che soffre
l'impres sione e il cangiamento di stato. V. Azio ne, Cangiamento, Passivo.
Principi attivi, o di azione, nella filoso fia pratica, son dette quelle naturali
spinte o tendenze, per le quali l'uomo si deter mina all'azione. V. Azione,
Principio. Arro (spee. e dise. ), l'esercizio del la potenza, che ogni essere
intelligente ha, di agire per virtù della volontà. V. Po tenza. - In questo
senso l'atto è correlativo del la potenza, che in se contiene la capa cità di
operare. Gli scolastici fecero molte ed astruse par tizioni e definizioni
dell'atto, che non sono più del gusto della moderna filosofia. Considerarono
essi l'atto come la pre senza dell'azione per rispetto alla potenza, e per
analogia chiamarono ancora alto la perfezion presente per rispetto alla nuda
possibilità. E però Dio fu chiamato atto purissimo, perchè presenti sono in Lui
tutte le perfezioni contenute nella sua es Senza. Per simili anologie di
significati distin sero l'atto infinito dal finito; l'elicito dal l'imperato;
il transitorio dal permanente, le quali distinzioni contengono una sorta di
categorie, relative alla diversa indole delle azioni, ma affatto inutili al
concetto e alla definizione del vocabolo. Atto chiamano i logici ogni
operazione dell'intelletto. V. Intelletto. – 46 – ATTRAZIONE (ontol.), forza
naturale, per la quale i corpi tendono gli uni verso de gli altri. Cotesta
forza opera, o a sensibili distan ze, o nel contatto delle molecule della ma
teria; la qual differenza costituisce due di verse spezie di attrazione, l'una
detta di gravità, l'altra chimica. - Quanto alla attrazione de corpi distanti,
i fisici distinguono la celeste dalla terre stre, e chiamano attrazione celeste,
o gravitazione universale la causa produt trice della tendenza, che i corpi
celesti coi loro movimenti dimostrano di avere gli uni verso degli altri. Per
attrazione terrestre poi intendono quella, che si esercita dalla massa della
terra sopra i corpi posti sulla superficie di essa. Questa forza, detta
gravità, è qualità ingenita della materia; e però le grandi masse, come le
montagne, eser citano sopra i corpi un'attrazione laterale, non dissimile dalla
verticale del globo ter restre, ma proporzionata alle loro masse; e gli stessi
corpi attratti non son passivi soltanto, ma attraggono ancor essi in ra gione
della loro massa. Newton diede il nome di attrazione alle forze, colle quali i
corpi tendono reciprocamente ad unirsi tra loro, e distinse le attrazioni di
gravi tà, di magnetismo, e di elettricità, le quali tutte agiscono a sensibili
distanze. Ma suspicò nello stesso tempo, che potes sero darsi altre forze
attrattive, le quali agissero a picciole o insensibili distanze, e spiegar
potessero i fenomeni che presen tano le molecule de corpi, allorchè, sepa rate
da una forza prevalente, vengono a formar composti diversi da quelli, a quali
erano prima unite. Seguendo il concetto di Newton i fisici de tempi seguenti
han chiamato attrazione moleculare o prossima la forza che le uni sce, e la
distinguono in due spezie: la mo leculare di aggregazione, o di coesione, e la
moleculare di composizione: la prima non muta la natura del composto, ma pro
duce un semplice aggregato: la seconda for ma un nuovo composto, perchè unisce
insie me parti tra loro eterogenee. Questa è l'at trazione che è detta pure
elettiva, chimica, o affinità. V. Affinità, Chimica, Molecula. Del resto uopo è
avvertire, che noi ignoriamo la causa, che produce la ten denza del corpi e
delle molecule ; e che dagli effetti a noi noti per una conoscenza diretta,
abbiamo formato il concetto e il nome della ignota forza che li produce. Lo
stesso Newton notò di aver egli usato le voci attrazione, impulso, tendenza al
centro indistintamente, senza avere inteso spiegare il modo dell'azione, o la
causa efficiente di essa, quasi che si dessero po fenze proprie del centri (i
quali altro non sono che punti matematici), o come se que sti avessero la virtù
di attrarre; e però egli considerò le potenze centripete come attra zioni,
quantunque naturalmente parlando avrebbero potuto chiamarsi impulsi. E quan do
fossero state così chiamate, sarebbe sem pre rimaso il dubbio, se l'impulso
nascesse da una materiale impressione, ovvero da altra cagione a noi ignota
(philosoph. nat. princip. lib. I.). Le diverse forze della natura, come chè
ignoti ci sieno l'esistenza loro, e il modo col quale operino, sono gli
elementi da quali ricaviamo le idee della potenza, dell'azione e del moto, che
sono i prin cipi animatori della materia. V. Forza, Moto, Potenza. t ATTRIBUTo
(ontol. e disc.), proprietà costante dell'Essere, la quale vien determi - 47 -
nata dalle sue qualità essenziali, ed è quel che caratterizza le sostanze. V.
Sostanza. I Logici distinsero l'attributo in proprio e comune. Chiamaron
proprio quello che risulta da tutte le qualità essenziali: co mune quell'altro,
che risulta da talune di esse. Ma questa ed altre distinzioni delle scuole
rimangono superflue, quando nei significati si serbino le differenze tra l'at
tributo, la qualità, il modo, e l'acci dente. V. queste voci. ATTUALE (ontol. e
spec.), quel che pre sentemente esiste. V. Esistere. Siccome l'esistere è
l'avveramento del possibile, così l'attuale prende per la stessa ragione il
significato di contrapposto del possibile. V. Possibile. ATTUALITA' (ontol e
spec.), l'esistenza presente delle cose. Si adopera nel linguaggio scientifico
come contrapposto della possibilità, o sia come il suo compimento; e però tanto
l'attualità, quanto l'esistenza servono ad esprimere la realità delle cose
contingenti, paragonata colla semplice possibilità loro. V. Esistenza,
Possibilità, Realità. AUDACIA (prat.), ardimento sconvene vole alla modestia, o
alla dignità morale dell'uomo. V. Ardimento, Modestia. AviDrrA' (prat.), desiderio
smodato di falso bene. V. Bene, Desiderio. AUTONOMIA (prat.), grecismo
superfluo, adoperato da taluni per esprimere la li bertà della volontà. V.
Libertà, Volontà. AUTORITA' (spec. e prat.), presunzione di verità, per la
quale assentiamo al giu dizio, o alla testimonianza altrui. V. Giu dizio,
Testimonianza. È il fondamento della credibilità delle pruove. V. Pruova. È
maggiore o minore, secondochè cre diamo più o men capaci di errore il giu dizio
o i sensi di colui, al detto del quale deferiamo; sì che l'autorità porta seco
l'as sicuranza della certezza, quando risguar diamo come impossibile l'errore.
V. Errore. In un significato più generico, chia miamo autorità la testimonianza
de propri sensi, o della coscienza. E siccome ris guardiamo tutte le nostre facoltà,
come rette per natura, quando in esse non iscor giamo alcuna causa di errore;
così ci ser viamo di questa autorità, per norma nel giudicare della veracità
del sensi e delle testimonianze altrui. V. Senso. AvvENENTEzzA e - AvvENENZA
(prat.), piacevolezza dimo strata comoti delle labbra e del volto. AvvENIRE. V.
Futuro. AvvERBIo (disc.), parte del discorso in declinabile, che esprime un
modo dell'azione, o che serve a determinarla; come il combattere valorosamente,
importa com battere con valore. Gli avverbi sono stati introdotti nelle lin gue
per amore della brevità, e per rispar miare due voci, che sarebbero necessarie
per esprimere la stessa idea ; d' onde na sce che tutti gli avverbi possono
essere ri soluti in un nome ed in una preposizione Infatti tanto è dire
prudentemente, quan to con prudenza, tanto moderatamente, quanto con
moderazione ec: Ed essendo il principal ufizio loro quello di modificare e
delerminare l'azione del verbo; però so – 48 - no stati denominati avverbi. V.
Azione, l'erbo. AvvERsIoNE (spec. e prat.), ripugnanza de sensi per tutto quel
che apprendiamo come male. V. Male. È proprio desensi, ma per analogia e per
necessità di linguaggio si trasporta ancora al senso morale. V. Senso.
L'avversione è il contrapposto dell'amo re, e siccome questo genera l'appetito
e il desiderio, così quella desta la ripugnan za, che può essere considerata
come un istinto animale negativo, dato dalla na tura agli uomini e a bruti,
acciocchè pos sano schivare il dolore, e tutto quel che essi apprendono come
male. Il tatto, l'odorato, il palato sono spezialmente circon dati da questo
riparo, mediante il quale ogni animale fugge e rifiuta il disgustevo le, e il
dannoso alla economia della vita. V. Istinto. Il senso morale ha pure le sue
avver sioni per tutto quel, che ripugna a prin cipi del giusto e dell'onesto,
il perchè va considerato come un istinto negativo ra zionale. L'avversione
razionale può nascere tanto dalla natura e dalla ragione, quanto dal
l'opinione, la quale ci ritrae da tutto quel che giudichiamo difforme dal
nostro modo di sentire e di ragionare; nel che può l'av versione essere
qualificata come giusta o ingiusta, secondochè sia bene o mal fon data. V.
Opinione. Qualunque spezie di avversione, tra sportata dalle cose sensibili o
dagli ob bietti del pensiero alle persone, genera l'odio, o l'antipatia. V.
Antipatia. In fine l'avversione, elevata dal grado di semplice ripugnanza alla
forza di pas sione, genera la malvoglienza, e va con siderata come uno de
principali generi della passioni. V. Malevolenza, Passione. AzIONE (spec. e
prat.), l'esercizio, o la manifestazione della potenza. V. Po tenza. O secondo
altri, il cangiamento ope rato da un ente in un altro, considerato nel momento
in cui vien quello operato. V. Cangiamento. La seconda delle due proposte
defini zioni è scolastica; la prima è più confor me al naturale e comune
concetto dell'azione. L'idea, che cotesto vocabolo espri me è di quelle, che
possono dirsi logica mente indefinibili, perchè di sua natura singolare,
siccome l'è quello del potere o della potenza. Lo spiegarla, giova per ben
conoscere i principi che la producono. L'azione presuppone un agente morale,
dotato di potenza attiva, val quanto dire, che da noi si concepisce come un
effetto, che ha la sua causa efficiente nella vo lontà dell'agente medesimo.
Laonde i ter mini di azione, di agente, di causa e di effetto son tutti
correlativi della nozione della potenza, o del potere. V. Causa, Effetto,
Potere. E siccome prendiamo da noi la nozione del potere, che la natura ci svela
come a noi stessi inerente, così chiamiamo pro priamente azione ogni fatto
deliberato dal la volontà. Ma tra la potenza e l'atto è una distanza, la qual
de essere empiuta da chi considerar voglia l'azione in tutti i suoi passaggi
dal cominciamento insino all'esecuzione. Tra l'una e l'altro stanno quegli
eccitativi naturali, i quali servono a rendere operosa la potenza. Tali
eccitati vi, o stimoli che voglian dirsi, son quelli che diconsi principi
attivi, o di azione. La maggiore o la minore influenza che – 49 - questi
esercitano sopra la nostra delibera zione ha suggerito la partizione di tutte
le azioni in tre generi: le volontarie, le involontarie, e le miste. Volontarie
son quelle precedute dalla deliberazione, o sia dalla disamina demo tivi, che
han determinato il giudizio. Tali sono le azioni, che traggon seco. la così
detta imputabilità morale, e del merito delle quali si fa giudice la
coscienza.V. Im putabilità, Motivo. Involontarie son quelle, le quali ven gono
comandate dalla forza delle impul sioni naturali, o nascono da uno stato del
l'anima, nel quale tace l'uso della volontà. Miste infine diconsi quelle altre,
le quali sebbene per loro indole dipendano dalla nostra potenza attiva, sono
non pertanto eseguite senza l'adesione della volontà. V. Deliberazione,
Volontà. Ma i principi d'azione operano sopra -, di noi in ragione della
diversa loro na tura, e però sono ancor essi capaci d'una generica partizione.
Ve n'ha di quelli, che non ammettono alcuna intervenzione della volontà,
dapoichè nascono da una legge della natura, la quale ha voluto per tal mezzo
rendere attuosa la potenza. Tali principi son detti meccanici, o mac chinali,
ed in questo genere si compren dono l'istinto, e l'abitudine istintiva. V.
Abitudine, Istinto. Ve n'ha degli altri propri della natura animale, e però
detti principi animali, come gli appetiti, il desiderio, gli afº fetti, le
passioni. V. Affetto, Appetito, Desiderio, Passione. Ve n'ha in fine di quelli,
che son pro pri dell'uomo, considerato come agente morale, o sia come Essere
dotato di ra gione e di volontà, che piace chiamare razionali, de quali è
doppio l'ufizio: l'uno d'iniziare le azioni libere e volontarie, l'altro di
dirigere e purificare gl'istinti animali. Son questi i principi, che co
munemente si confondono col significato del vocabolo ragione, ma che meritano
di essere designati con diverso nome nel l'analisi del gradi, pe'quali passiamo
dal concepire l'azione, al deliberarne la con venienza, e al risolverne
l'eseguimento. Laonde chiameremo principi d'azione ra zionali, l'opinione del
bene, il senti mento della obligazione morale, o del de vere, e l'interna voce
della coscienza, che ne inculca l'adempimento e ne puni sce l'infrazione. V.
Coscienza, Obligazio ne, Principio. – il - CLASSI DE VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA
LETTERA A. FILOSOFIA CRITICA, FILOSOFIA SPECULATIVA, Accademia Abito Apprensiva
Accademico Appercezione Abitudine Approvazione Acustica Appetitivo Accessorio
Arbitrio Aerologia Araldica Accidentale Arcano Agrario Archeografia Acroamatico
o Archetipo Agricoltura Archeologia Acroatico Armonia Agronomia Architettura
Acume Arteria Alchimia Aretologia Adequato Assegnabile Algebra Aritmetica
Agente Assentimento Algorismo Arte Aggiunto Assioma Anaclastico Artefice Agire
Associazione Anatomia Artigiano Amorfo Astrarre Androtomia Artista Analogia
Astratto Annali Astrologia Anima Astrazione Antologia Astronomia Animale
Atmosfera Antropologia Animalizzare Attenzione Animo Attitudine VOCI
ONTOLOGICHE. Annientamento Attività Antecedente Attivo Accidente Attrazione Antipensare
Atto Affinità Attributo Antiperistasi Attuale Archèo Attuale Apparente
Attualità Assoluto Attualità Apparenza Autorità Atomo Appercezione Avversione
Apprensione Azione Antroposcopia - 52 - FILOSOFIA DISCORsIVA. Abduzione
Ablativo Accento Accessorio Accusativo Addiettivo Adesione Affermativo
Affermazione Aforismo Alfabeto Alternativo Ambiguità Amplificare Analisi
Analitico Analogismo Antecedente Antilogia Antipredicamenti Apagogia Apagogico
Apodittico Apologetico Apologia Appellativo Applicare Argomentazione Argomento
Articolo Assicuranza Assunzione Assurdo Astratto Astrazione Atto Attributo
Avverbio A e a e o o TEOLOGIA NATURALE. Abnegazione Adorazione Amagogia Angelo
Antropomorfismo Antropopatia Apologetico Ateismo Ateista Ateo FILOSOFIA PRATICA,
Abbominare Abborrire Abito Abitudine Accusa Acquiescenza Adulazione Affabilità
Affettazione Affetto Affezione Afflizione Agitazione Alacrità Allegrezza
Ambascia Amicizia Amico Ammirazione Amore Amorevolezza Anelanza e Anelito
Angoscia Angustia Animosità Ansietà Antipatia Apatia Apatista Apologo
Appariscente Appetito Approvazione Arbitrio Ardire Ardore Arroganza Assicuranza
Assuefazione Atroce e Atrocità Audacia Avidità Autonomia Autorità Avvenentezza
e Avvenenza Avversione Azione GRECISMI SUPERFLUI, Aerografia Antropografia
Antropomorfologia Antroponomia Antroposofia Antroposomatologia Antropotomia –
55 – Barna (teol.), ostentazione di superstiziosa religione. V. Religione.
BARBARIE (prat.), crudeltà d'uomo non civile nè educato. V. Crudeltà.
BARBARIsmo (dise.), errore di linguag gio nel parlare o nello scrivere,
commesso contra le regole e l'uso della lingua. È diverso dal solecismo: quello
pecca nella scelta e nella giuntura del vocaboli: questo nel senso e nella
sintassi. V. So lecismo. BARBARo (prat.), qualità d'uomo, che non sente i
vincoli della umanità, e si comporta da selvaggio. - È più dell'inumano, perchè
questo vo cabolo, rigorosamente parlando, esprime soltanto negazione. Chi nega
gli ufizi della umanità, può non pertanto non essere cru dele. V. Inumano.
BEATITUDINE (prat.), contentezza dell'ani ma, cui non resta desiderio di altra
cosa. V. Desiderio. In un significato men proprio, dicesi an che beatitudine la
calma e la pace, che l'anima prova per ogni bene morale che consegue, o per
l'approvazione morale, che la coscienza dispensa a buoni portamen ti. V.
Approvazione, Bene, Coscienza. Ma qual è l'uomo, che può durevol mente godere
di tale stato, o che possa dir soddisfatto ogni suo desiderio? Si può dunque
concepire più che pos sedere la vera beatitudine, e se ne può delibare
l'immagine in quella interna sod disfazione, che accompagna il costante eser
cizio della virtù. Così concependola, noi la prenunziamo a noi stessi, come lo
stato in cui ci troveremo, allorchè conseguito avremo il sommo bene e la vera
felicità. V. Felicità. BEATo (prat.), lo spirito che possiede beatitudine. V.
Beatitudine. Per la stessa immagine, per la quale chiamiamo beatitudine la
soddisfazione, che produce nell'anima l'approvazione della coscienza, Cicerone
chiamò beato l'uomo sapiente e virtuoso, il quale apre la mente alla
contemplazione di se medesimo, del l'universo, e del suo Autore; e per tal cam
mino perviene alla perfezione della virtù. V. Perfezione, Virtù. BEFFA e BEFFE
(prat.), atto di scherno commesso con fatti, parole o gesti. Può essere atto
d'ingiuria, o di sem plice piacevolezza. BEFFARDo (prat.), chi si diletta di
far beffe, e d'uccellare, non per ischerno nè per disprezzo, ma per
piacevolezza. BEFFARE (prat.), mettere in derisione o in ischerzo il male o il
difetto altrui. È capace, come il nome, del senso inno cuo e del riprensibile,
BEFFEGGIARE (prat.), frequentativo di beffare, usato sempre nel significato
d'in giuriare. È men forte dello sbeffeggiare, che porta seco livor d'animo e
villania. V. Sbeffeggiare. – 56 – BELLEzzA (spec. ), il grato aspetto, che
risulta dall'accordo delle parti e delle qualità proprie d'ogni corpo. È
proprio degli obbietti esteriori e del l'umana figura, in cui la natura ha im
presso i tipi del bello. Due generi di bellezza (al dir di Cice rone) presenta
l'umana figura, la venu stà, e la dignità: la venustà propria del sesso
femminile, e la dignità del maschile. La sensazione, che la bellezza produce ha
due caratteri essenziali: una gradevole impressione dell'obbietto: una credenza,
che siffatta impressione nasca dalla perfe zione dell'obbietto medesimo.
Entrambi i cennati caratteri sono una conclusione del giudizio, che l'animo
forma intorno alla convenienza, che l'obbietto ha coll'ordine e colle forme
della natura. V. Forma, Matura, Ordine, Perfezione. Per analogia la nozione
della bellezza si trasporta all'ordine e alla proporzione delle opere della
mente; e per una dispo sizione comune a tutti gli uomini, ed uniforme in tutte
le lingue, cotesta no zione è espressa con un vocabolo, comune al senso
traslato e al proprio. Cicerone addusse di ciò una ragione, ricavata dal
l'effetto della sensazione : « Siccome la » bellezza del corpo, egli disse,
eccita lo sguardo degli occhi per l'acconcia di sposizione delle membra, e
piace sol perchè le parti sono con certa grazia insieme accordate, così
l'onestà che dà splendore alla vita, produce l'approva zione de nostri
conviventi, per l'ordine, » per l'uniformità, e per la modestia dei » discorsi
e delle azioni nostre ». In realtà la somiglianza del nome nasce da quella del
giudizio che l'animo forma, perchè così negli uni, come negli altri obbietti la
mente scorge la convenienza dell'ob ; bietto cotipi della natura, ne riceve una
grata impressione, e ravvisa in essi i ca ratteri della rispettiva loro
perfezione. Nell'uso di tutte le lingue la bellezza si scambia col bello, di
cui è l'astratto. V. Bello. BELLo (spee), tutto quel che ha un'ap parenza
d'ordine e di simmetria nelle sue parti. V. Ordine, Simmetria. Adoperato come
sostantivo, ha un senso più ampio del nome astratto di bellezza, dapoichè
comprende tanto il bello desensi, quanto quello della ragione e dell'immagi
nazione. Distinguesi non pertanto il bello fisico dal morale, o sia il bello
della natura esteriore, da quello degli obbietti intellettuali. V. Esteriore,
Intellettuale. Le qualità sensibili decorpi, il pensie ro, la parola, le
scienze, le arti tutte, le azioni pratiche, ed il carattere morale dell'uomo,
han ciascuno il proprio bello. La nostra inclinazione al bello nasce non meno
da una disposizione naturale desen si, che da una proprietà dell'umano giu
dizio; il perchè il sentimento del bello è stato da molti distinto in istintivo
e ra zionale. Ambo questi sentimenti, insie me combinati e perfezionati dalla
sperien za, forman quella dote, che dicesi gusto. V. Gusto. La ricerca del vero
e del bello ha creato le scienze e le arti, che formano il tesoro dell'umana
cognizione, e ne ha moltipli cato la suddivisione. L'imitazione poi del bello
della natura ha formato lo studio delle arti dette belle, siccome la facoltà di
sentirlo e di applicarlo, ha dato nome a quella scienza, che i moderni han chia
mato estetica. V. Estetica. Il bello ci piace e ci trasporta, e quando tocchi
l'apice del perfetto e del grande, - 57 - prende l'epiteto di sublime, nel
quale caso il piacere di sentirlo si cangia in un senti mento più forte
dell'ordinaria approvazio ne, che è l'ammirazione. V. Ammirazione. Ma il bello
è una pura sensazione, o è una relazione al vero, e in che questo vero
consiste? Per isciogliere una tal quistione, fa uopo scomporre la nozione
complessa del bello. Cotesta nozione contiene una sensa zione ed un giudizio
insieme: la grata im pressione che riceviamo dell'obbietto, è la sensazione,
mentrechè la credenza della sua perfezione è un giudizio. Comechè noi diamo un
nome unico alla nozione del bel lo, sono purtuttavolta varie e forse innu
merevoli le spezie, che ne ravvisiamo nei diversi obbietti, a quali lo
riferiamo; sì che è unico il nome che diamo alla impressio ne, ma son vari i
giudizi, che formiamo intorno alla qualità degli obbietti. La va rietà del
giudizi presuppone altrettante re lazioni tra l'apparenza e le qualità reali de
gli obbietti medesimi: tali relazioni presup pongono dalla parte loro una
somiglianza nel modo, col quale l'animo le concepi sce; dapoichè per un
consenso unanime di tutte le lingue diamo loro lo stesso nome di bello. Sotto
questo nome noi compren diamo tutto quel che ha una connessione d'ordine e di
simmetria ; sì che bello è per noi non solamente ciò che somiglia al grande e
al perfetto della natura, ma anche quel che è conveniente o coerente ad una
disposizione di parti, fatta da noi stessi per un fine utile, qualunque esso
sia. La somiglianza dunque che da noi si concepisce nella nozione generale del bel
lo non è altro, che una convenienza di connessione e di accordo, la quale sod
disfa l'animo, e in esso produce una gra devole sensazione. Ma d'onde la
soddisfazione dell'animo nel giudicare di tal convenienza ? Per isciogliere
questa seconda quistione, giova premettere un'altra comune distin zione del
bello assoluto e del relativo. Cotesta distinzione è fondata nella diver sità
de tipi, a quali l'una e l'altra spezie di bello si riferisce. I tipi del bello
assoluto son quelli del la natura, i quali sono per se stessi co stanti ed
immutabili. Ma il bello, preso nel senso del conveniente, (o sia di quel bello
che noi scorgiamo ne'fatti dell'uomo); può essere vario e mutabile, senza che
una tal varietà offenda la realità dell'as soluto, di cui prende le sembianze.
Que sto è quel che dicesi relativo. V. Asso luto, Relativo. Prendendo ora a
considerare i tipi della natura, non è la prima materia, per se stessa passiva
ed inerte, quella che muo ve la sensazione del bello, ma è la sua maravigliosa
conformazione, che ci empie di ammirazione e di stupore. Questo è lo
spettacolo, nel quale veggiamo la mate ria trasformata da una mente infinita, e
da una mano onnipotente, che le dà or dine, moto, e vita; che ne forma gli
elementi delle piante e del corpi dall'in setto insino all'uomo; che da lei
cava la luce, il calore, il fuoco, l'armonia dei suoni, l'accordo de'colori; e
che dalle sue grandi masse forma l'immensa opera del l'universo. La
soddisfazione dunque del l'animo nasce dalla scoverta de due tipi universali, a
quali la mente perviene, la perfezione cioè dell'opera dell'universo, e
l'infinita intelligenza del suo Autore. A somiglianza di questo bello primiti
vo, di cui la natura ci ha fatto spetta tori, quella stessa materia che ha
sommi nistrato gli elementi all'universo, è nella 8 – ss – mano dell'uomo
l'instrumento della sua industria, delle arti, e di tutte le sue mec caniche
produzioni. Colla distanza che pas sa dal commensurabile all'immenso, e dal
finito all'infinito, l'uomo imita e plasma modelli sopra le grandi opere della
natu ra, adattandogli a tutti i bisogni della vita. In queste imitazioni pone
egli con nessione, ordine, simmetria, e forma un bello artifiziale, il cui
merito sta nella coe rente disposizione delle parti, e nell'esatta
coordinazione de mezzi al fine, che si pro pone di conseguire. Di quest'ordine
il bello sta nella perfezione relativa, di cui il sug getto è capace. Le regole
che indirizzano queste opere al fine loro, non sono sola mente attinte dal vero
e dal costante del la natura, ma dalla qualità del fine che l'autore si
propone: prendon parte in esso l'immaginazione, l'abito, l'associazione delle
idee, la moda, e tutto quel che rende sì svariato l'utile e il dilettevole de
gli uomini. In conclusione, anche la sod disfazione che procura questo bello
nasce dalla scoverta, che l'animo dello spettatore fa della intelligenza di
colui che lo ha di sposto. Il bello dunque non è una pura sensazione, o una
idea, ma una nozione fondata sul vero, di cui i tipi impressi dal l'Autor della
natura nell'ordine delle cose materiali ed intellettuali, servono di norma alle
opere, alle azioni, e al pensieri degli uomini. V. Perfetto, Perfezione, Vero.
BENE (spee. e prat.), quel che con duce alla conservazione e alla perfezione
dell'Essere. V. Essere. La prima idea del bene proviene dai sensi, a rispetto
de quali il bene scam biasi col piacere; sì che la tendenza da taci dalla
natura a desiderar questo, e a fuggire il suo contrario, il dolore, può dirsi
l'istinto regolatore della vita animale. V. Dolore, Istinto, Piacere. Ma la
prima idea del bene vien rettifi cata, non prima che comincia a svilup parsi in
noi la ragione e la facoltà mora le, dapoichè sottentra allora la ricerca di
quel che conviene alla condizione dello spi rito, e alla perfezione di tutte le
facoltà sue. A questa seconda ricerca la natura ha pur congiunto una tendenza
razionale, la quale ci viene dal senso morale, ed una siffatta tendenza ci mena
altresì ad un'interna soddisfazione, che per simili tudine chiamiamo piacer
morale. L'in terna soddisfazione altro non è, che l'ap provazione della
coscienza, cui la natura stessa ha dato il potere di giudicare delle no stre
azioni. V. Approvazione, Coscienza. Il piacer morale sovente non si accorda col
sensuale, e in siffatta collisione con viene che quello rattemperi questo. ln
al tri termini conviene che la ragione segni il confine tra essi, acciocchè
l'uomo ch'è un Esser composto trovi il bene nel per fetto accordo di entrambi.
In somma l'idea del bene si confonde ne bruti colla sen sazione del piacere,
laddove diviene ne. gli Esseri ragionevoli un'idea complessa o mista, gli
elementi della quale sono, da una parte il bene del corpo, conside rato come
mezzo, e quello dello spirito, come fine. Cotesto fine è quello, che nella
filosofia morale prende il nome di sommo bene, da cui derivano le altre due no
zioni della virtù e della felicità. Il som mo bene, al dir di Cicerone, est
rerum expetendarum ea tremum, nella cui co gnizione è riposta tutta l'umana
sapienza. V. Felicità, Sapienza, Virtù. La ragione non altrimenti rattempera
l'istinto del piacere, se non contrappo nendo al bene presente, la ricordanza
del passato e l'antivedimento del futuro. Il ato le somministra i lumi della
spe rienza, e il futuro quelli dello scopo cui dee pervenire; sì che la
differenza carat teristica tra 'l piacer de sensi e il morale consiste in
questo, che l'uno si limita al presente, e l'altro abbraccia la durazione della
vita, così presente come futura. V. Fu turo, Passato, Presente. Ciò non
ostante, l'imperio che eserci tano in noi i sensi, l'abito delle cure con tinue
che prestiamo al corpo, le attrattive del piacere, l'opinione di stabilità che
siam disposti concedere agli obbietti sensibili, più che agli speculativi, e la
preferenza che diamo al presente di rincontro al fu turo, rendono la generalità
inchinevole a considerare il bene presente, se non come il solo, almen come il
principale, cui dob biam vacare. V. Abito, Obbietto, Sen sibile, Senso. E
siccome la filosofia speculativa e la pratica si modellano l'una sopra dell'al
tra; così le varie scuole del filosofi sensi sti, son quelle, che in ogni tempo
sonsi più delle altre allontanate dalla vera no zione così del bene, come del
sommo be ne. Gli Epicurei, gli Stoici, i Peripatetici disputarono più degli
altri intorno al som mo bene. I primi riposero il bene nel pia cere, e nel
dolore il male: i secondi nella rettitudine dell'operare secondo la natura, e
però chiamarono bene quidquid seeun dum naturam est: gli ultimi congiunsero
insieme il piacere de'sensi col piacer mo rale. Ma qual'è, secondo gli Stoici,
l'idea della natura ? E qual è, secondo i Peri patetici, l'origine del piacer
morale? I sistemi tutti degli antichi filosofi sensisti son difettivi nel
principio del bene e del piacer morale, dapoichè dalla sensazione, considerata
come sola sorgente dell'umana cognizione, non si dà passaggio alle ve. rità
intuitive della ragione, nè alle no zioni del giusto e dell'onesto. V. Giusto,
Onesto. Che se v'ha degli antichi, i quali in nestarono qualcuna delle cennate
verità al sistema del sensismo, il fecero per poca coerenza di ragionamento, o
per confuse nozioni; d'onde poi avvenne che altri più acuti ragionatori,
partendo dalle medesime premesse, trascorsero insino alle estreme conseguenze
del materialismo. Quel che di ciamo degli antichi, va pur detto de mo derni che
han ricalcato le medesime orme. V. Materialismo, Sensismo. Da ciò segue, che il
solo principio da cui possa derivarsi la nozione del sommo bene, è l'esistenza
d'una legge morale, prodotto della mente perfettissima del Crea tore, il quale
ha nelle sue creature impresso la conoscenza del doveri necessari alla con
servazione e alla perfezione dell'essere loro. Nel cammino della vita la Sua
mano le guida mercè delle impulsioni naturali, e la Sua ragione le rischiara,
tosto che di vengon capaci di volontà, di arbitrio, e di determinazione. Ogni
filosofia che non parta da questo principio, o che senza ri conoscerlo me
ammetta soltanto le conse guenze, è falsa o erronea. Così conceputo il bene,
può la sua definizione esser quella degli Stoici, cioè tutto quel che è conve
niente all'ordine fisico e morale della ma tura, congiuntamente presi. Dalla
convenienza che il bene aver dee coll'ordine della natura, risulta pure, che la
sua perfezione consiste nell'accordo di tutte le relazioni che l'uomo acquista,
na scendo, con Dio con se medesimo e co gli altri. Laonde il bene
dell'individuo, o di se medesimo, disgiunto dalle altre due obligazioni, perde
ogni suo pregio, ri e cangia ancor di nome, dapoichè acqui sta quello di utilità
d'interesse o di ego dsmo. L'utilità e l'interesse non rattempe rati dagli
altri doveri, divengono come il piacer de sensi di rincontro al morale. E però
generalizzando l'idea del piacere, e considerando l'utilità come un parto dello
stesso istinto desensi, l'uno e l'altro voca bolo sono atti ad esprimere la
medesima idea. V. Egoismo, Interesse, Utilità. Le diverse spezie del bene, che
gli Sco lastici, e Bacone stesso, distinsero, come l'individuale, il
conservativo, il per fettivo, il moltiplicativo, il comunica tivo, ed altri,
sono altrettante categorie, per le quali può quello essere considerato nelle
diverse relazioni con noi stessi, o cogli altri, e son tutte comprese nelle no
zioni generali sin qua esposte. In un senso più ampio e più comune dicesi anche
bene ogni vantaggio o como dità della vita, che sia un contrapposto di
qualunque incomodo o privazione. V. Pri vazione. BENEriceNza (prat.), naturale
virtù del l'anima, per la quale siam portati a gio vare agli altri. ll ben
fare, nel senso dell'essere soccor revole, può esser suggerito da due senti
menti: o da debito di obligazione, o da quella natural pietà, che sentiamo per
le altrui necessità: nel primo caso quel sentimento si confonde colla
giustizia, nel secondo è dettato dalla benevolenza e dal la liberalità. V.
Benevolenza, Giustizia, Liberalità. Il dover di giustizia può nascere dalla
legge positiva o dalla naturale. Se dalla positiva, il contravvenire produce
colpa o reato: tal è il debito di alimentare il pa dre, i figliuoli, o coloro
verso i quali ab biamo volontariamente contratto una tale obligazione. Se dalla
naturale, prende nor ma dalla equità e dalla reciprocazione degli uffizi, che è
il vincolo della umana so cietà. La gratitudine pel benefizio ricevu to, è il
primo del doveri che suggerisce la giustizia naturale, o l'equità. V. Equità,
Gratitudine. Quando poi il ben fare nasca dallo spon taneo amore de nostri
simili, è il più no bile di tutti i sentimenti, e può avere tanti gradi
d'intensità e di merito, quanti sono i limiti che distinguono la virtù umana
dalla divina. Qual più sublime e divino pre cetto del beneficate quelli che vi
odiano? BENEFIzIo (prat.), l'azione, colla quale gratuitamente gioviamo altrui.
BENEvoLENZA (prat.), costante e ferma disposizione dell'animo per comunicare
agli altri i beni, sì esterni che interni della vita, e per prevenirne,
ripararne, o diminuirne i mali. V. Bene, Male. La benevolenza, considerata come
virtù, formata per la volontà e per l'abito del retto operare, è più che un
affetto benefico, di cui il germe è stato in noi impresso dalla natura, come
per uno stimolo alla comu nione, a cui l'uomo è invitato. V. Affet to, Azione.
Ella è la virtù fautrice e conservatrice della civil società, e in se contiene
le altre virtù, le quali versano circa l'adempimento delle obligazioni e
dedoveri, cioè la giusti zia e la liberalità. V. Giustizia, Liberalità. BENI
(prat.), le cose desiderabili per conseguire la felicità. V. Felicità. Questa
voce adoperata in senso plurale esprime gli elementi di quel bene, che è lo
scopo della vita. Va dunque ad essi ap plicato tutto quello ch'è stato detto, o
che può dirsi intorno alla natura del bene. La stessa voce è comunemente adope
rata per esprimere i vantaggi, i piaceri, e le opportunità del vivere; il
perchè di stinguonsi i beni interni dagli esterni e i primi risguardano i
sensi, o sia la parte materiale di noi: i secondi lo spirito: gli uni relativi,
assoluti gli altri. V. Ester no, Interno. Sin dal nascimento della filosofia, i
sa pienti han cercato di graduare l'utilità e l'importanza delle cose
desiderabili per lo buono e beato vivere, e ciascuno ne ha disputato nel senso
della propria dottrina. Gli epicurei credettero, che le sole cose desiderabili
fossero i piaceri del corpo: gli stoici per l'opposito non risguardarono come
desiderabile, se non l' onesto ed il giusto, e predicarono l'indifferenza pei
beni esterni. I peripatetici in fine conce derono la preferenza a beni morali,
senza peraltro escludere gli esterni. Crantore, al dir di Sesto Empirico,
scrisse un libro intorno a beni della vita, nel quale gra duò in primo luogo il
coraggio, indi la sanità, le dovizie, e la voluttà. Ma qual'è la comparazione
che può farsi tra beni interni e gli esterni? La filosofia morale non predica
l'indifferenza stoica ; determina sì bene il giusto valore degli uni e degli
altri. I primi sono per loro stessi desiderabili, laddove i secondi rice vono
ogni loro pregio, o dalla utilità che arrecano al corpo, o dalla opinione degli
uomini: quelli sono durevoli, eterni ed inseparabili da noi, questi
accidentali, mutabili, e caduchi: degli uni Cicerone ha detto, quod laudabile
bonum est, in se habeat quod laudetur necesse est, ipsum enim bonum non est
opinionibus, sed natura, degli altri, quae et cum adsunt perparva sunt, et
quamdu aſ futura sint, certum sciri nullo modo poteste e della voluttà, at in
ea quidem spernenda et repudianda virtus vel mari me cernitur. V. Matura,
Opinione. Ciò non ostante il corpo ha una con venienza propria, siccome l'anima
ha la sua ; e dal perchè questa de essere cer cata in preferenza di quella, non
segue che esser debba sprezzata la contempla zione tanto della maravigliosa
intelligen za, colla quale la natura ha dotato il cor po di tutte le attitudini
e opportunità ne cessarie a conseguire la felicità o il som mo bene, quanto
della industriosa corri spondenza stabilita tra le doti dell'anima e quelle del
corpo. Che anzi la filosofia morale ha per rispetto a beni esterni due parti
d'insegnamento, uno che concerne il retto e moderato uso da farne; l'altra, che
apprende a non desiderargli se non come ausiliari e accessori de primi. Della
relazione che gli uni hanno cogli altri Ba cone osservò: « V ha una relazione e
ana » logia tra l bene dell'anima, e quello » del corpo, dapoichè il bene del
corpo consiste nella sanità, nella bellezza, nel vigore, e nel piacere; e del
pari il ben dell'anima, considerato secondo i prin cipi della morale, tende ad
un quadru plice scopo: a rendere l'anima sana e scevra da perturbazioni, bella
e ornata di vere grazie, forte e presta ad ese guire tutte le funzioni della
vita, ed in fine capace d'un vivo sentimento di quel vero piacere, che nasce
dal godimento dell'onesto. BENIGNITA' (prat.), abituale disposizione dell'animo
a giovare altrui. - L'esercizio degli atti di benevolenza, ai quali l'uomo è
per natura inchinato, pro – 62 – duce quella costante disposizione a fare il
bene, che si cangia in costume. Cotesto costume non de essere confuso colla
bene ficenza e colla liberalità, che si riferiscono all'esercizio pratico della
volontà. E però poco esatto sembra il detto di Cicerone, che risguarda come
sinonimi la benignità, la liberalità e la beneficenza; se pur non avesse inteso
dire, che tutte tre nascono da un comune principio. V. Beneficenza, Liberalità.
BESTEMMIA (teol.), parola empia, detta contra l'onor dovulo a Dio. BiAsiMo
(prat.), giudizio di morale di sapprovazione, che la coscienza pronunzia
intorno alle azioni contrarie all'onesto e al giusto. V. Coscienza,
Disapprovazione. Applicato a fatti altrui, è un giudizio, che la ragione
pronunzia intorno alla qualità delle azioni, prendendo per norma il proprio
senso morale. V. Giudizio, Senso morale, BIBLIOGNOSIA, grecismo superfluo, per
chè esprime una idea compresa nell'arte, detta bibliografia, che è la
conoscenza dei libri e delle loro edizioni. BIBLIOGRAFIA (crit.), arte
descrittiva dei libri, degli autori, e delle edizioni loro. BioGRAFIA (erit.),
storia della vita d'una o di più persone. BIoLoGIA (crit.), scienza, o trattato
dei principi della vita animale. Può esser con siderata come parte della
fisiologia gene rale, e può essere ancora risguardata come una inutile
suddivisione di quella scienza, e come un grecismo superfluo, perchè la
significazione di vita è in questo vocabolo presa in un senso diverso da
vocaboli pre cedenti. V. Fisiologia. BisogNo (prat.), mancamento di cosa
necessaria o utile alla vita. Il bisogno è un male, siccome l'abbon danza è un
bene. Adoperiamo lo stesso vo: cabolo tanto pe'mali e pe beni esterni, dei
quali è proprio, quanto per gl'interni, ai quali si adatta per similitudine e
per ne. cessità di linguaggio. Così, diconsi bisogni dell'animo le conoscenze
che desideriamo di acquistare, gli affetti che vorremmo sod disfare, le
inquietudini che cerchiam di cal mare, e le consolazioni al dolore d'un bene perduto.
Ogni bisogno eccita un desiderio, e però è un principio d'azione. V. Azio. ne,
Inquietudine, Principio. Bocca (spee.), organo degli alimenti, della
respirazione, della voce, e della pa rola. La sua conformazione, nell'uomo, va
considerata principalmente a rispetto della voce e della parola. L'instrumento
vocale è un organo composto di molti altri organi subalterni, per mezzo
de'quali manifestia mo i pensieri colla parola, le sensazioni e gli affetti
colla voce e col canto. V. Canto, Parola, Voce. E la parte della faccia, che
insieme cogli occhi, palesa l'indole, gli affetti, e lo stato dell'animo. V.
Faecia, Occhio. BoLLORE (prat.), traslato del gonfia mento e del gorgoglio
d'ogni fluido che bolla, il quale si applica al sollevamento e all'infiammamento
delle passioni. V. Pas sione. BONARIETA' (prat.), semplice e schietta benignità
d'animo, la quale giudica e opera – 65 – senza malizia, e senza sospettare
della ma lizia altrui. - Può nascere da virtù, e ancora da tar dità d'ingegno,
ma è sempre indizio di poca sperienza. BoNTA (spee. e prat.), abito di one ste
e benefiche azioni. a - Applicata alle azioni esterne, siam so liti darle un
significato più speciale, l'adempimento cioè de doveri verso degli al tri. La
somma di questi doveri è : gio vare e non nuocere altrui, o più chia ramente,
fare agli altri quel che desi deriamo, sia fatto a noi stessi. La bontà
differisce dalla benevolenza, in quanto che questa risguarda la disposi zione
ad operare, e quella l'operato. L'una dunque è il principio motore dell'altra.
V. Benevolenza. Nel linguaggio del metafisici la bontà è stata distinta in tre
spezie: la bontà di essenza, la bontà animale, e la bontà razionale.
Quest'ultima è la stessa bontà morale, di cui abbiamo testè parlato. La bontà
di essenza è la convenienza degli attributi, i quali determinano che una cosa
sia quella che è, e non altra. Cotesta bontà è quella che dicesi assoluta, nel
quale senso scambiasi ancora colla per fezione. Laonde i tipi della bontà
trovansi in Dio, e nelle opere sue, che non potreb bero non esser tali. A
differenza dell'asso luta, la bontà relativa sta nell'ordine, nella
disposizione e nelle relazioni, che legano insieme la catena degli Esseri, i
quali com pongono l'universo. Tali Esseri non sono tutti egualmente perfetti, o
sia non sono, della medesima condizione, nè son dotati delle stesse qualità; ma
ciascun di essi ser ve alla bontà assoluta e alla perfezione del tutto. V.
Ordine, Relazione, Universo. La bontà animale è un significato di similitudine
dato a qualunque Essere sen sibile, di cui le qualità, l'attitudine delle
membra, la conformazione del corpo, e l'istinto corrispondono al fine della
natu ra, e alla destinazione che hanno essi ri cevuto nella generale economia
della stessa natura. BoTANICA (ertt.), scienza che tratta delle piante,
considerate come Esseri naturali, delle proprietà loro, e de caratteri propri
per distinguere le une dalle altre: ab braccia tutto il regno vegetabile: è
stata denominata ancora fitologia, V. Fitologia, Vegetabile. BoTANOGRAFIA,
grecismo superfluo, e addoppiatura della botanica, la quale non potrebbe
trattare delle piante, senza de scriverle. BoTANOLOGIA altro grecismo
superfluo, che dà una doppia denominazione alla bo tanica. BRACCIO (spec.),
membro del corpo uma no, che partendo dalla spalla va a termi nare alla mano.
Quantunque questa definizione apparten ga alla notomia umana, pur tutta volta
non è parte del corpo umano, che per le sue attitudini non somministri gravi e
belle considerazioni alla filosofia specula tiva, tanto per iscoprire tutte le
previ sioni della natura a rispetto del nostri bi sogni; quanto per comparare
le differenze tra l'organismo umano, e quello de'bruti. In questi le membra,
che tengono luogo di braccia, servono a sostenere la pesante massa del corpo
loro, rivolto verso la terra; laddove nell'uomo servono ad ese – 64 – guire i
comandamenti della volontà, a di fendere il corpo, a prendere le cose lon iane,
e a vincere tutti gli ostacoli così delle distanze, come delle forze maggiori
del la sua. Gli anatomici osservano che il braccio è dotato di cinque sorte di
movimenti, a quali son destinate altrettante paia di mu scoli, cioè il moto in
su, in giù, d'avan ti, da dietro, e d'intorno. Di tanto fa ceva uopo per
potergli dare l'attitudine di abbracciare, di respignere, di muovere, di
trasportare, e sopra tutto di reggerla ma no, il più bello ed industrioso
strumento della natura. V. Mano. BRACHIGRAFIA (disc.), arte di scrivere
compendiosamente, e per abbreviatura. BRACHIoLoGIA (disc.), arte di esprimersi
brevemente per sentenze, o per proposi zioni sottintese. Cotesta arte favorisce
la memoria, e rende più spedito il ragiona mento, quando le proposizioni sieno
bene intese, o perchè dimostrate, o perchè ma nifeste per loro stesse. BRAMA
(prat.), desiderio ardente. V. De siderio. BRAvURA (prat.), coraggio e gagliar
dia, dimostrata colle opere. BRUTo (spec.), animale privo di ragio ne, il che
forma il contrapposto dell'uomo. V. Animale, Ragione, Uomo. BRUTTo (spec.), il
difforme dall'ordine e da tipi naturali delle cose. È contrapposto di bello. V.
Bello. BUgìA (prat.) detto contrario a ciò che l'uomo pensa o sente. È una
spezie di falso, che resta nella parola. E capace di molta gradazione, po tendo
essere l'effetto di sola sbadataggine, di leggerezza, o ancora di malizia e di
mal vagità. È compresa nel genere demendaci. V. Falso, Mendacio. BUoNo (prat.),
tutto quel che concepiamo come dotato di bontà, così nel significato morale,
come nel metafisico. V. Bontà. – 65 – CLASSI DE' VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA
LETTERA B. FILOSOFIA CRITICA a FILOSOFIA PRATICA. Bibliografia Biologia
Barbarie Beni Biografia Botanica Barbaro Benignità Beatitudine - Biasimo
FILOSOFIA SPECULATIVA, Beato Bisogno Beſſa e beffe Bollore Bellezza Bontà
Beffardo Bonarietà Bello Braccio Beffare Bontà Bene Bruto Beffeggiare Brama
Beni Brutto Bene Bravura Bocca Beneficenza Bugia FILOSOFIA DISCORSIVA -
Benefizio Buono Benevolenza Barbarismo Brachiologia Brachigrafia GRECISMI
SUPERFLUI. TEOLOGIA NATURALE. - - - - - - Bibliognosia Botanologia
Bacchettoneria Bestemmia Bolanografia C Ca. V. Causa. CALcoGRAFIA (crit.), arte
d'incidere in rame e in ottone. È parte delle arti del disegno. CALcoLo
(erit.), detto letterale, è l'arit metica speciosa, o sia algebra. V. Algebra.
CALDo. V. Calore. CALLIGRAFIA (crit.), arte di scrivere net tamente e in bella
forma. Va pure considerata come una delle arti del disegno, che dà le regole
per la for mazione del caratteri, e di ogni altro de lineamento. º CALoRE
(ontol. e spec.), idea semplice indefinibile, d'una sensazione, di cui il nome
esprime soltanto gli effetti, che per essa proviamo. Che questo vocabolo sia
indefinibile, il dimostra la stessa spiegazione, che ne davano le scuole al
tempo, in cui tutto volevasi spiegare per l'essenza delle cose: Essere fisico,
di cui conosciamo la pre senza e misuriamo i gradi per la rare fazione
dell'aria, o di qualche liquore rinchiuso in un termometro. Ora dovendo
spiegare per gli effetti la sensazione del calore, ed avendo noi tre nomi i
quali esprimono tre idee affini, cioè caldo, calore, e calorico, il dare a
ciascuno di tai vocaboli un certo signi ficato, renderà più chiaro il concetto,
che di essa puossi formare. Chiamiamo caldo la sensazione che proviamo, e la
qualità che per essa acquistano i corpi ; calore l'impressione che la produce,
e calorico la causa da cui proviene. La sensazione del caldo è propriamente
eccitata ne'nostri sensi dall'azione del fuo co; d'onde abbiamo per molto tempo
rica vato, che ogni altra materia, la quale pro duce in noi una sensazione
eguale o simi le, contenga in se del fuoco latente. Ma il calore è una qualche
cosa di simile che si trova nel fuoco, o è una modificazione del nostro proprio
sentire, prodotto dal moto o da altra causa? Questo è il proble ma, che ha
esercitato l'acume delle anti che e delle moderne scuole di filosofia, in sino
a che i fisici avendo rinunziato alla pretensione di spiegare la natura e
l'essenza del calorico; si sono limitati alla osserva zione de fatti, e alla
pretta analisi del fe nomeni naturali. E conviene anche dire, che l'opinione di
coloro, i quali afferma vano essere la sensazione del caldo una emanazione del
fuoco, era bipartita; cre dendo taluni che il calore fosse una qua lità, e
altri una sostanza; sì che tre erano le ipotesi, intorno alle quali aggiravansi
le filosofiche discordanze: se il calore fosse una qualità o accidente del
fuoco: se, una sostanza: se, un semplice modo del nostro sentire. Lasciamo alla
storia della filosofia la narrazione delle varie opinioni desapienti; e
riserviamo alla fisica e alla chimica gli argomenti, o le congetture, intorno
alla natura e alla essenza del calorico. Diciamo soltanto, che rimane ancora
indecisa la quistione, se il calorico sia una materia per se stessa esistente
(un corpo sui ge sº - 68 - neris), o un semplice moto delle mole cule de corpi;
comechè i chimici inchi mino più alla prima sentenza, e i fisici alla seconda.
Per quel che appartiene alla filosofia speculativa, il concetto ch'ella forma
del calore è di una sensazione, la quale non può aver nulla di simile al fuoco,
perchè non essendo il fuoco dotato di sentimento, non può concepirsi rassomi
glianza tra l'effetto e la causa che lo produce. E però quando diciamo che il
fuoco è caldo, non intendiamo dire, che il fuoco senta come noi la sensazione
del calore, ma solamente affermiamo, che colesta sensazione procede da una
causa o da una qualità che è nel corpo caldo. Molto meno intendiamo dire, che
il ca lore sia una semplice modificazione del nostro sentire, e che non tragga
origine dal corpo caldo che lo tramanda; che anzi riconosciamo nel fuoco una
qualità pro pria a suscitare in noi la sensazione del calore. Qual è dunque la
cosa, che chia ramente percepiamo nella sensazione del calore, e qual è quel
che ignoriamo ? Conosciamo l'effetto, e ignoriamo il come questo effetto sia prodotto:
sappiamo che il calore proviene dal fuoco, ma igno riamo quale sia la natura e
l'essenza sua. In somma l'idea, che noi formiamo del calore, è simile a quella
del colore, del l'odore, del sapore, e di tutte le qualità secondarie della
materia, delle quali ab biamo una conoscenza soltanto relativa, e non diretta.
V. Diretto, Materia, Qua lità, l'elativo. - Gli scolastici distinguevano il
calore at tuale dal potenziale, e chiamavano attuale quello del fuoco,
potenziale l'altro che è latente ne corpi, come nella calce, nel pepe, nello
spirito di vino, ed in altri. Per ispiegare pci come cotesto calore si
sviluppasse, ricorrevano all'antiperistasi, o sia alla forza maggiore che
spiegano gli elementi omogenei per la resistenza degli eterogenei. Ma una tale
distinzione era una conseguenza delle definizioni pe ripatetiche del calore e
del fuoeo. Coteste definizioni, del pari che quelle del filosofi corpuscolari e
del cartesiani, appartene vano al loro sistema fisico, che è estraneo al nostro
argomento. V. Antiperistasi. I fisici moderni chiamano calorico la tente ne
corpi quello, di cui non è dub bia l'esistenza, quantunque non si mani festi
per mezzo del termometro. Il calorico latente ha luogo principalmente ne can
giamenti di stato dei corpi. Così l'acqua, giunta alla temperatura di ottanta
gradi di licaumur, si conserva nello stesso grado, non ostante il continuo
aumento del calo rico, dapoichè l'avanzo di esso, che di viene latente e non si
palesa al termome tro, è impiegato dalla natura a ridurre in vapori una parte
del liquido in ebullizio ne. V. Calorico. - CALORICO (ontol. e spee.), la
materia che produce la sensazione del calore. Noi concepiamo colesta materia
come un fluido aeriforme, sottilissimo, elasti co, che è sparso per lo spazio e
in tutti i corpi, e che obbedisce alle leggi dell'at trazione, dapoichè si
accumula in diverse proporzioni ne corpi medesimi, e passa, dagli uni agli
altri, e da medesimi si ri tira ; la qual contraria azione, che in somma è
privazione di calore, produce il freddo, che è il principio della congela
Zl0Ile. Il calorico passa da un corpo all'altro in due modi: o per diretta
comunica zione, o per irradiazione e il primo av – 69 – viene allorchè un corpo
è messo in con tatto dell'altro, mediante il quale contatto il calorico scorre
successivamente per tutte le molecule più o men prestamente, se condo che è
maggiore o minore la dispo sizione del corpo che vuol essere riscal dato: nel
secondo modo il calorico si diſ fonde e si comunica, come la luce, vale a dire
si spande nell'aria, o nel vacuo per raggi, che son capaci di essere riflessi o
refratti, e che per conseguente possono essere raccolti per mezzo degli specchi
con cavi, o di cristalli lenticolari. Il solo mezzo, per lo quale possiam
concepire più chia ramente l'idea del calorico, è il conoscerne le proprietà,
che ci sono dalla sperienza rivelate. Tali qualità sono: - 1.° Il calorico
penetra tutti i corpi, tra quali non ve n'ha alcuno che per esso non sia
permeabile. Distinguonsi soltanto tra corpi, quelli ne quali il calorico più
rapidamente e più egualmente si diffonde, dagli altri che più lentamente e
disugual mente lo ricevono. 2.° Penetrando i corpi, il calorico ne disgrega le
particelle e ne aumenta i pori, sì che dilata i solidi, e rarefa i liquidi;
facendo passare i primi allo stato liqui do ; e i secondi allo stato aeriforme
o vaporoso. 3.° I corpi così dilatati, liquefatti o ra refatti, van considerati
come modificati, e non come in uno stato di nuova com posizione, perchè, nella
generalità de casi, separandone il calorico tornano al primiero Stato. 4.º A
misura che le molecule de cor pi sono allontanate le une dalle altre per mezzo
del calorico, diminuisce la loro re ciproca attrazione, e per contrario si ac
cresce quella eh'esse hanno per le mole cule degli altri corpi; il perchè la
chi mica si serve del fuoco per eseguire le combinazioni di diverse sostanze.
5.° Corpi diversi ammettono differenti quantità di calorico tra le loro
molecule, per giugnere ad uno stesso grado di tem peratura ; dal che nasce la
loro diversa capacità di calorico. La fisica e la chi mica insegnano il nodo,
onde misurare e graduare una tal capacità. 6.” I corpi passando dallo stato
solido al liquido, e da questo allo aeriforme o vaporoso cambiano di capacità
di calorico. E però l'acqua congelata, l'acqua liquida, e l'acqua in vapore,
non ha in ciascuno de tre dinotati stati la medesima capacità; o sia esige
diverse quantità di calorico per essere innalzata a uno stesso numero di gradi
di temperatura. Questo è quel che i fisici chiamano stato, o cambia mento de
corpi per rispetto al calorico. 7.” Facendo agire il calorico libero, o il
fuoco sopra corpi composti, l'allontana mento delle molecule costituenti, che
in ciascuno di essi avviene, ne produce la scomposizione in due diversi modi, o
non alterando le materie scomposte, il che av viene quando una materia volatile
trovasi unita ad un'altra fissa; o alterandone la massa, per modo che le
sostanze le quali formavano il primo composto si uniscono tra loro in
proporzioni diverse da quelle che erano state dalla natura determinate. La
prima operazione chiamasi analisi per fetta, e la seconda imperfetta: quella ha
luogo ne composti detti binari, e questa ne ternari o quaternari. Da tutte le
cennate proprietà del calo rico risulta, che ogni corpo può lasciarne passare
la quantità compatibile colla sua capacità; che il calorico obbedisce alle
altrazioni chimiche, e ha affinità elettive, le quali variamente si combinano
cocorpi – 70 - medesimi; che in tutte le combinazioni chimiche vi è assorbimento
o sprigiona mento di calorico; e che quella quantità la quale se ne trova ne
composti, ne esce allorchè questi si scompongono, e vi ri entra quando essi si
ricompongono. Son questi gli argomenti pe quali i chimici conchiudono essere il
calorico una sostanza per se stessa esistente, e non una modifi cazione, di cui
tutti i corpi sieno indistin tamente capaci. Quantunque cotesti teoremi sieno
propri della Fisica e della Chimica, pur tutta volta servono grandemente a
formare il concetto metafisico, non meno del calori co, considerato come un
principio attivo della natura, che delle forze dell'attra zione e della
affinità, alle quali obbedi sce. Le enunciate verità sono utili ancora a
distinguere le diverse spezie dell'analisi fisica e chimica, di cui abbiamo di
sopra parlato. V. Analisi, Affinità, Attrazione. CALUNNIA (prat.), falsa
imputazione, o detrazione ad altri fatta. CANDoRE (prat.), purità e sincerità
del l'animo, che negli esterni portamenti si dimostra qual è, senza veruno
studio. È il contrapposto dell'affettazione, e della simulazione. V. queste
voci. CANGIAMENTo (ontol.), passaggio delle cose da uno stato all'altro, per
qualunque modo o accidente esso avvenga. V. Ac cidente, Modo. - Si adopera
questo vocabolo nel linguag gio scientifico per esprimere qualunque mu 'tazione
che la cosa riceva nel suo modo di essere, salva la sua sostanza. Così, l'ef
fetto è un cangiamento operato nel sug getto dalla causa che lo produce; ed in
un senso più speciale il moto è un cangia mento che il corpo riceve per la causa,
da cui è impresso. V. Causa, Effetto, Moto. CANONE (spec.), regola, o massima
invariabile, la quale de essere applicata agl'identici casi. Ogni scienza o
arte ha i suoi canoni: ne ha la geometria, l'alge bra, la musica, e ne ha pure
la filosofia intellettuale e morale. Tali sono le regole, che dirigger debbono
il criterio dell'investi gazione filosofica per contenerla ne limiti del vero e
del possibile: sono in somma le così dette regole del filosofare. V. Regola.
CANONICA (crit.), legge così detta, dal nome di canone, dato per un significato
speciale alle leggi della chiesa. È una parte del diritto positivo. CANTo
(crit.), voce modulata con suoni e intervalli misurati, co quali esprimiamo i
diversi sentimenti, de quali l'animo è affetto. ll canto, al pari della poesia,
è un lin guaggio di affetti e di passioni, è conna turale all'uomo, e può
credersi nato in sieme col ritmo del verso. Coloro, i quali credono esservi
stato un tempo, in cui l'uomo rimanesse senza paro la, hanno altresì pensato,
che il puro suono della voce avesse servito a primi uomini, come d'una sorta di
linguaggio d'azione; ipotesi la quale li avvicina agli uccelli; siccome in
generale quella dell'assenza della parola li confonde co'bruti. Noi, che col
lochiamo la parola come compagna della esistenza, e che non supponiamo nulla di
preesistente all'una come all'altra; dicia mo che l'uomo animato dalla gioia o
dalla tristezza, dalla speranza o dal timore, trovò nelle inflessioni e nelle
cadenze delle pa - 71 - role i primi rudimenti della melodia. Tale è pure
l'origine della poesia, la quale non può dirsi se sia più o meno antica della
musica. Certamente, i primi poeti dell'an tichità non recitarono, ma cantarono
i loro versi, e il nome di cantore e di poeta fu per lungo tempo sinonimo. Certamente
an cora, i canti sagri furono i primi saggi del talento musicale dell'uomo; nel
che trovasi un'altra grande affinità di origine tra la poesia e la musica. Gli
avanzi de gl'inni sagri, degli antichi, e soprattutto quelli degli Ebrei,
dimostrano che il primo uso del canto fu per indirizzare a Dio inni di lode e
di riconoscenza, o per impetrare nelle calamità le sue misericordie. La se
parazione dunque della musica dalla poesia non avvenne se non quando gli uomini
si volsero a trovar le regole dell'una e del l'altra. Ciò non ostante la musica
vocale (nella quale gl'Italiani giustamente ravvi sano la più bella parte
dell'arte musicale) ha continuato e continuerà ad essere un'arte ausiliaria
della poesia. (V. il discorso pre liminare). V. Filosofia, Musica, Parola.
CAoLocìA, grecismo superfluo, col quale si è voluto esprimere la descrizione
della materia nello stato del Caos. Faceva parte della antica cosmogonia, ed è
stato ancora usato da moderni, che han proposto teorie intorno alla formazione
della terra. V. Caos. CAos (spec.), stato della materia, an teriore alla
formazione del mondo. Cotesto stato fu dagli antichi immagi nato e descritto,
come una sorta di atmo sfera tenebrosa e turbolenta, nella quale trovavansi
confuse e sciolte le minime par ticelle della materia, e d'onde sviluppa ronsi
le molecule, che han dato forma ai corpi. - Le opinioni del paganesimo intorno
alla cosmogonia possono essere ridotte in due classi: l'una di quelli che
credettero la ma teria eterna, e il mondo nato nel tempo: l'altra di coloro che
dissero eterno il mondo, come la materia. Costoro, in cima a quali sta
Aristotele, formano il minor numero. Quelli che credettero il mondo nato, come
un frutto della materia, giunta al punto di sua maturità, espressero il
concetto del Caos, colla figura o dell'uovo, o del se me della natura, e lo
denominarono ar cheo, o sia principio primario di tutte le cose, to afxxoy
xxos. Infatti dallo stesso principio derivarono la generazione degli dei, la
sostanza de quali ne colse il più bel fiore. Così il caos somministrò i prin
cipi, tanto alla cosmogonia, quanto alla teogonia del paganesimo. V.
Cosmogonia, 7'eogonia. CAPACITA' (spee.), la virtù di produrre l'effetto,
insita in ogni causa. V. Causa, Effetto. Applicata alle operazioni dell'anima, è
l'attitudine di acquistare qualche cosa che non abbiamo. Differisce dalla
facoltà in quanto che que sta è propria delle doti, che abbiamo per nostra
natural costituzione; laddove la ca pacità conviene a quelle conoscenze, ad
aver le quali abbiamo dalla natura rice vuto una semplice disposizione, che
de'es sere sviluppata per l'uso delle stesse facoltà naturali. E però diremmo,
che le operazioni del l'animo son figlie delle sue facoltà, e la scienza figlia
della sua capacità. V. Fa coltà, Operazione. Capo (spee.), la parte superiore e
prin cipale del corpo degli animali, che rac - 72 - chiude il cervello, e nella
esterna superfi cie della quale apparisce il viso o la faccia. In questa la
natura ha collocato le aper iure, per le quali gli obbietti esterni pas sano ne
sensi. All'uomo, per una special prerogativa è stato dato il capo in alto sol
levato, e rivolto al cielo, mentrechè gli altri animali lo tengono inchinato
alla terra. In lui questa parte del corpo annunzia prin cipalmente la
superiorità della sua spezie: nel viso è impressa la dignità sua: nella
fisonomia trasparisce l'immagine dell'ani na: gli occhi riſlettono la luce
divina, di cui lo spirito è irradiato: il movimento e lo sguardo loro danno al
suo portamento quel nobile contegno, che è indizio del do minio e dell'imperio
datogli dalla natura sopra tutte le cose create. Esso soprastà ianto alla
terra, quanto appena la tocca con quella picciola estremità che serve di base
alla bella e svelta mole del suo corpo. Nulla di più bello del capo dell'uomo ha
fatto la natura in tutta l'immensa varietà delle forme degli animali, e tra le
parti del capo nulla di più sublime del viso, e di quel che diciamo aspetto, o
volto. V. Faccia , Volto. CARATTERE (diso. spec. e prat.), segno proprio d'una
cosa, per lo quale vien que sta distinta da un'altra. ln cotesto senso si
adopera per dinotare le qualità distintive degl'individui, onde possano essere
ordinati sotto un dato ge nere. V. Genere. In un senso più speciale, vale segno
o figura, delineata sopra carta, o impressa sopra altra materia, per esprimere
o rap presentare un nome, una idea, o un'altra cosa qualunque. V. Segno. È una
denominazione propria de segni, ehe rappresentano i suoni articolati, o le
lettere dell'alfabeto. Il determinare il va lore e l'uso di tali segni in
ciascun alfa beto appartiene alla gramatica particolare delle lingue; laddove
il considerare l'uso generale del caratteri, insieme colle regole comuni agli
alfabeti di tutte le lingue, ab braccia tutta intera l'arte de segni e della
parola, che è la più sublime parte della gramatica generale, o sia della
filosofia discorsiva. V. Gramatica. I caratteri, considerati nel senso gene
rico di segni rappresentativi così della voce come delle idee, van divisi in
tre generi: i letterali, i numerali, e gli emblematici. I letterali, che son le
lettere de'comuni al fabeti possono essere suddivisi in due spe zie: i nominali
e i reali. I caratteri nomi mali esprimono i nomi delle cose: i reali dinotano
le cose stesse o le idee, come quelli de Cinesi e del Giapponesi. Tra i let
terali son compresi tutti i caratteri enigma tici, le varie combinazioni de
quali ricevono per convenzione un significato arbitrario, ma certo e
determinato tra quelli che gli adoperano. Tra caratteri reali debbon es sere
annoverati i segni o simboli, de quali fanno uso molte scienze ed arti per
espri mere quantità note o ignote, corpi celesti o terrestri, sostanze o
modificazioni loro, proporzioni, e misure di tempo e di spa zio. Tali sono i
segni che adoperano l'al gebra, la geometria, la trigonometria, l'astronomia,
la musica, e le arti mediche e chimiche. Caratteri reali sono pure le ab
breviature, per le quali così gli antichi co me i moderni hanno inteso
facilitare la com prensione del discorso, o dare alla scrit tura una celerità eguale
alla parola. Esempi di queste abbreviature sono le note e le sigle de Romani, e
i vari trovati della ta ehigrafia e della stenografia. V. Steno grſia,
Tachigrafia. - – 75 – I caratteri numerali sono i segni, pei quali esprimiamo i
numeri, o che questi segni sieno diversi dagli alfabetici, come gli arabici; o
che sien presi dallo stesso alfabe to, come i romani, i greci, e gli ebraici. I
caratteri emblematici son quelli che esprimono le idee e le cose con figure ed
allusioni, di che possono servire di esem pio i geroglifici Egiziani, i runi
degli Sve desi, i segni allegorici d'ogni sorta, e tra questi gli emblemi
araldici. V. Araldica. Un'altra partizione di caratteri fu proposta da quei
filosofi che desiderarono di avere una lingua universale, spezialmente per
comodo delle scienze. Costoro chiamarono particolari i segni alfabetici comuni,
e universali quelli, dequali avrebbe dovuto essere composta la nuova lingua
filosofica, e che formato avrebbe una nuova spezie di caratteri reali. - Il
primo tentativo di tali nuovi caratteri fu fatto dal vescovo inglese Wilkins, e
da Dalgarno. Lo scopo che entrambi si pro posero fu di trovar de segni i quali
dino tassero le cose e non i nomi, per modo che ciascuno, qualunque lingua egli
par lasse, potesse concepire la cosa o l'idea, che quei segni dinotavano. Così
nel ca rattere destinato ad esprimere l'idea del bere, il greco avrebbe letto
il suo verbo rivery, il latino bibere, il francese boire l'inglese to drink, e
il tedesco trincken. A questo modo pensavano essi, che la di versità
degl'idiomi e delle scritture, la quale è il principal ostacolo all'avanzamento
delle scienze, sarebbe stato rimosso; ed ognuno ritenendo il natio linguaggio,
avrebbe po tuto comunicare con tutti i popoli della ter ra. Leibnitz vagheggiò
la stessa idea, ma credette che i due nominati scrittori inglesi, non si
fossero bene apposti circa il mezzo da essi scelto. Più opportuna credette una
sorta di carattere reale, che somigliasse a quelli dell'algebra, i quali sono
semplici, espressivi, e non hanno nulla di superfluo o di ambiguo. Promise egli
un alfabeto dell'umano intelletto al quale da più tempo lavorava, e di cui la
morte sua impedì il compimento. Un altro più ingegnoso pro getto apparve nel
giornale letterario del l'anno 172o per la formazione d'un carat tere
universale, composto colle sole cifre dell'arabico algoritmo. Cercavasi con
quel lo dimostrare, che se le combinazioni delle sue nove figure bastano ad
esprimere la smi surata quantità de numeri, possono a mag giore ragione essere
sufficienti a significare i fatti, i bisogni e i pensieri umani. L'es sere le
cifre arabiche a tutti note, rimove va, a senso dell'autore, le difficoltà che
si sarebbero scontrate con nuovi segni; sic come la semplicità del linguaggio
avrebbe offerto altri inestimabili vantaggi. Tali van taggi sarebbero stati:
1.º l'incorruttibilità di cotesto linguaggio, inalterabile nelle sue
espressioni: 2.º la facilità che ogni nazione avrebbe avuto di pronunziarlo a
suo mo do, senza che i caratteri scritti avessero potuto presentare idee
diverse ad uomini di diversa lingua: 3.º l'unità del vocaboli, dacchè la stessa
cifra avrebbe dimotato il genere e il caso del nome, il modo o il tempo del
verbo, e così di tutti gli altri accidenti della parola: cotesti accidenti sa
rebbero stati indicati con una delle lettere comuni, delle quali una particolar
grama tica avrebbe indicato l'uso. Dopo di quel tempo i voti d'un carattere
universale scientifico hanno taciuto. Noi non sapremmo dire se cotesti voti
dovessero es sere annoverati tra le utopie de filosofi, o tra i desiderati
della filosofia. Lo stesso vocabolo ha ancora un signi ficato morale e
intellettuale, e vale o se 10 – 74 – gno di un dato sentimento; o nola di
stintiva dell'indole degli uomini o degli eroi; o costante maniera di pensare e
di operare; o un coerente proposito dello in telletto nella scelta de pensieri
e dell'espres sioni, adattate all'obbietto del quale si oc cupa. Nel primo
senso, diciamo che ogni sentimento o passione ha il suo carattere: nel secondo,
han parlato i diversi scrittori de caratteri, come Teofrasto, Du Mou lin,
Pascal, De la Chambre, e La Bru gère: nel terzo, lodiamo o biasimiamo, coloro,
i quali non ismentiscono mai nei loro pratici portamenti un principio lode vole
o riprensibile che li muove: nel quarto finalmente parliamo del carattere del
bel lo, della poesia, del dramma, dell'epo pea, della musica, e d'ognun'altra
delle arti belle. Gli altri significati di questo vocabolo appartengono al
dizionario comune della lingua. CARATTERISTICA (crit. e ontol.), arte o scienza
immaginata da Leibnitz, come la sorgente delle nozioni nelle quali è fon data
l'algebra sublime, o sia il calcolo degl'infiniti. E però fu anche da lui de
nominata arte combinatoria delle gran dezze, o arte speciosa generale. V. Cal colo,
Infinito. Per meglio dichiarire una tal definizio me, giova riportare il
concetto del cen nato autore ne termini stessi, ne'quali fu da lui espresso:
«Tutto quel che l'alge bra dimostra è un prodotto di quella supe riore scienza,
che io chiamar soglio com binatoria caratteristica, che è ben diversa da quella
che cader può sotto la comune intelligenza. Incerta e oscura è per noi la
nozione dell'infinito, del minimo, del massimo, del perfettissimo, e di quel
che ne costituisce l'essenza. Coteste nozio ni debbono essere scrutinate da
quel cri terio, che per singolar benefizio della na tura ci è stato concesso.
Coll'aiuto di tal criterio, e con una quasi meccanica ope razione noi possiamo
rendere manifesta e invincibile la verità delle cennate nozioni. L'algebra, di
cui meritamente facciam tam to caso, è una parte di tal metodo: l'utile ufizio
ch'ella ci presta, è di farci vedere la verità, dipinta sulla carta, quasi per
opera d'una macchina. In somma cotesta scienza caratteristica è superiore alla
ma tematica, pari a lei in certezza, maggiore in virtù ed efficacia, perchè
separa le ra gioni speculative dalle figure sensibili, e dalle immagini ». Non
potè Leibnitz in tutto il corso di sua vita adempiere il voto, in che egli era,
di dettare i principi e le regole di quest'arte, e si dolse nella vecchiezza,
che le forze più non gli bastassero per vacare a tanta opera. CARATTERISTICo
(dise.), che ha un se gno atto a farlo distinguere da ogni altra COS0, , È
proprio de'segni, o delle qualità che distinguono il genere, come il proprio fa
distinguere la spezie. V. Spezie. CARITA' (prat.), amore illuminato da virtù.
V. Amore, Virtù. E proprio dell'amore che portiamo a Dio, e a nostri simili.
CAso (diso. spec. e prat.), termina zione del nome, introdotta da gramatici per
esprimere le diverse relazioni, che le cose possono avere tra loro. Coteste
rela zioni sono nel discorso espresse, o colle preposizioni, o co casi. V.
Preposizione. - 75 - Le varie terminazioni date ad uno stesso nome furono
introdotte nel linguaggio per non moltiplicar parole in ogni esigenza del
discorso. E però i nomi son diversamente terminati, ora per distinguere il
genere, ora per indicare il numero, e ora per espri mere qualche grado di
comparazione nella loro qualità o quantità. Lo stesso si è pra ticato in talune
lingue per esprimere le re lazioni da cosa a cosa; essendosi in altre
provveduto a tal bisogno colle preposizioni. La lingua italiana e la francese
son di que ste, perchè conoscono una sola termina zione, e si valgono delle
preposizioni per distinguere le cennate relazioni. La lingua inglese ammette
due terminazioni; l'ale manna quattro; altre lingue moderne un numero maggior
di queste. Tra le anti che la greca e la latina fecero maggior uso del casi,
avendone quella avuto cin que, e questa sei, in ogni nome. I casi de greci eran
cinque, compreso il caso ret to, cioè nominativo, genitivo, dativo, vocativo, e
accusativo. I latini aggiun sero a questi il sesto, che è l'ablativo, V. queste
voci, La denominazione di caso è rimasa an cora nelle lingue, che non conoscono
di verse terminazioni ne nomi; tanto perchè l'hanno adattata agli articoli e
asegnacasi, che accompagnano il nome; quanto perchè tali diverse terminazioni
sono generalmente riconosciute come indispensabili ne promo mi. V. Articolo,
Pronome, Segnaeaso. Caso vale pure specie del fatto, di cui deesi ragionare o
giudicare. Il trattare le materie per casi, essendo stato una nota distintiva
degli scolastici, ha fatto loro dare il nome di Casisti. V. Sco lastico. Caso
significa ancora l'effetto, di cui non sappiam discernere la causa, neces saria
o libera che sia; o che nascendo da una causa mista di necessario e di libero,
non possiam discernere da qual parte del le due provenga. V. Causa, Effetto,
Li. bero, Mecessario. CASTITA' (prat.), costante astinenza dai disordinati
appetiti della voluttà. Gli antichi filosofi la predicarono come il principal
fondamento della virtù: eum homini Deus nihil mente praestabilius de disset,
huie divino muneri ae dono nihil esse tam inimicum, quam voluptatem, nee enim
libidine dominante, temperan tiae locum esse, negue omnino in volu platis regno
virtutem posse consistere. Di questo argomento fece il suggetto del suo
discorso Archita, allorchè Platone volle ascoltarlo. CATACLISMo (teol. ),
inondazione delle acque che copersero la terra dopo la sua prima creazione. V.
Creazione. Che la terra abbia sofferto la catastrofe d'una generale
inondazione, è un fatto di cui la verità è concordemente attestata dal la
divina autorità, dalla storia naturale, e dalle vestigie, che ancora ne scopre
la geologia. - - CATACUSTICA (crit.), parte dell'acustica, che tratta della
ripercussione de suoni, e spezialmente dell'eco. - CATADIoTTRICA (crit), voce
composta per esprimere la cognizione degli effetti, tanto della luce riflessa,
quanto della refratta. CATALEPSIA. V. Comprensibile. CATEGORIA (dise. ),
partizione logica, introdotta da Aristotele o da Porfirio, per n la quale gli
obbietti tutti della umana com prensione, erano ordinati e ridotti in dieci
classi, cioè la sostanza, la quantità, la qualità, la relazione, l'azione, la
pas sione, il tempo, il luogo, la posizione, la maniera. V. queste voci. Locke
pretese di ridurre a tre le dieci ca tegorie degli aristotelici, cioè la
sostanza, il modo, e la relazione. Ma cotesta par tizione, siccome osserva il
dottore Reid, è certamente più incompiuta della prece dente, dapoichè mancano
in essa il tempo, lo spazio, il numero, tre importanti ob bietti dell'umano
pensiero. Più plausibile sembra il dire, che una partizione generale di tutti
gli obbietti del pensiero, può essere approssimativa, e non esatta, dapoichè
non potrebbe esser fatta, che da una mente la quale avesse a se presente tutto
l'aggregato del cennati obbietti, il che oltrepassa la capacità delle umane
facoltà. E quando simili partizioni, forse oppor tune alla memoria, fossero
dimostrate egual mente utili all'arte di ragionare, dovreb besi confessare, che
la partizione degli ari stotelici è preferibile a tutte le altre da se guenti
riformatori proposte. Le categorie furon dette ancora predi camenti, perchè
proprie a spiegare la natura di tutti i termini che entrar pos sono in
qualunque proposizione, o come subbietti, o come predicati. V. Predica mento,
Predicato, Proposizione, Sub bietto. Bacone credette utile l'uso delle catego
rie, o predicamenti, per evitare la con fusione e la trasposizione de limiti
stabiliti dalle definizioni e dalle partizioni. Circa l'utilità in generale di
queste e del le altre partizioni della logica artifiziale, ne sarà parlato
altrove. V. Logica, CATEGORICo (disc.), semplice, assoluto, e non condizionale.
V. Assoluto, Condi zionale. I logici chiamarono categorico il sillo gismo
positivo, come contrapposto di con dizionale. V. Sillogismo. - Categorico è
stato comunemente detto ogni ragionamento, il quale presuppone dimostrati i
principi, che assume come veri. CAToTTRICA (crit.), scienza della luce
riflessa. E quella parte dell'ottica, che ricava dallo specchio le leggi della
riflessione della luce. CAUSA (ontol.), l'azione produttrice del cangiamento, o
sia dell'effetto. V. Can giamento, Effetto. - Dalla varietà del significati,
che questo vocabolo ha nell'uso comune del parlare, han preso occasione i
filosofi di formare tanti diversi generi di cause, quanti sono i sensi, ne
quali la stessa voce è adoperata. Noi chiamiamo causa non solamente il
principio operatore del cangiamento, ma ancora il fine dell'agente, e qualunque
ragione o circostanza connessa coll'effetto, ed allo stesso antecedente. E però
gli ari stotelici distinsero le cause in quattro ge neri, cioè l'efficiente, la
materiale, la formale, e la finale. Causa efficiente dissero essere l'ente,
dalla cui azione nasce l'esistenza d'un altro, come per esempio l'architetto è
causa effi ciente dell'edifizio: causa materiale chia marono il suggetto
stesso, sul quale opera l'agente, come per esempio il marmo per rispetto alla
statua, che da esso è formata: formale fu detta la causa che determina una cosa
ad essere quel che è, onde la for male unita alla materiale produce il corpo o
sia il composto: finale dissero quella, la quale muove l'agente verso lo scopo
suo, come la scienza è la causa finale dello stu dio, la cura del corpo l'è
della sanità, il lucro, della industria economica e della negoziazione. - Sopra
questo esempio le scuole moltipli carono la suddivisione delle cause; e di
stinsero la causa efficiente in prossima o rimota, e le altre cause in fisiche,
mo rali, interne, esterne, mediate, imme diate, subordinate, impulsive, prinei
pali, ausiliarie, instrumentali, prima rie, secondarie, uniche, concomitanti
ec. Tutte le cennate distinzioni sono impro priamente risguardate come generi
di cause, dapoichè non hanno tra loro somiglianze di qualità tali, che possa
fare in esse rav visare nulla di comune; ma sono piuttosto diverse
significazioni date dall'uso al me desimo vocabolo per analogie ricavate da
prette apparenze. E però giova risguardare qual significato proprio del
vocabolo causa quello dato alla efficiente; siccome conviene riferire il vero
principio della causa alla volontà, e alla potenza attiva degli Esseri
intelligenti. V. Potenza, Volontà. - Ma la volontà degli Esseri creati presup
pone quella del primo Essere, il quale è la vera causa efficiente della
esistenza loro; ed è insiememente la prima causa dell'uni verso e delle leggi
sue. Avendo Egli im presso moto, forme e vita alla materia, gli effetti
naturali che risultano dall'ordine generale riconoscono altrettante cause se
condarie o immediate, le quali debbono essere considerate come mezzi o
instrumenti della prima causa efficiente, che è nella volontà del supremo
Fattore. Son queste le cause dette fisiche o secondarie, delle quali la
distinzione, se non propria a ri spetto del vocabolo, è utile alla chiarezza
del linguaggio. - - L'investigazione delle cause fisiche è pro pria della filosofia,
la quale ne fa un dop pio uso, o per derivare dall'ordine dell'uni verso
l'esistenza di Dio, e per ispiegare le leggi generali de fenomeni de quali l'uo
mo è spettatore: coteste leggi considerate, come la scala per la quale
ascendiamo alla cognizione del supremo Autor loro, son quelle, che da
metafisici son dette cause finali. - Lo studio delle cause fisiche, indirizzato
al solo fine di conoscere le leggi e l'ordine col quale avvengono e si
succedono i feno meni naturali, ha, secondo Newton, due parti: una, si propone
di scoprire le leggi della natura, mediante l'osservazione e la sperienza:
l'altra, di applicarle alla spie gazione de'fenomeni naturali. Per dare dun que
della causa fisica una definizione la quale meglio corrisponda alla realità della
cosa definita, diremo ch'ella è una legge della natura, di cui è un effetto
necessa rio il fenomeno che ne dipende. V. Leg ge, Natura. Cotesta legge non
pertanto non è la vera causa dell'effetto, dapoichè ci lascia igno rare
com'ella operi, e qual connessione mediata o immediata albbia colla volontà del
primo agente. Da ciò segue, che le sole cause efficienti, delle quali abbiam
certezzza, son quelle che partono dalla volontà e dalla potenza nostra; sì che
da queste ricaviamo la prima nozione della causa. V. Potere. l sapienti
antichi, i quali vollero tutto ridurre al principio della necessità, e ta luni
de'moderni, che han con diversi nomi riprodotto gli antichi errori, non han con
siderato la causa se non pel suo collega mento sensibile coll'effetto, e l'han
definita come un fatto antecedente, che è costante mente seguito da un altro
seguente. Tal'è la definizione di Blume! Ma costoro deſini - 78 - scono
l'effetto e non la causa, e per non definirla, rinegano un principio della na
tura, ed insiememente la stessa loro con vizione. A rispetto di costoro
conviene rad drizzare la definizione; e prima di accer tarsi se vogliano essi
entrare nell'investi gazione del principi d'ogni fenomeno na turale, conviene
proporre loro l'avvertenza di Cicerone: non sie causa intelligi de bet, ut quod
cuique antecedat, id ei cau sa sit, sed quod cuique efficienter an tecedat (de
Fato C. XV.). V. Mecessità. Cause occasionali furon dette da me tafisici
quelle, che operano mediatamente, o sia che ricevono la forza loro per mezzo
d'un altro agente. In un senso più spe ciale son quelle, che secondo la
dottrina del P. Malebranche spiegano il commercio tra l'anima e il corpo.
Cotesta dottrina ri duceva tutte le cause naturali del fenomeni a pure cause
mediate, alle quali soprastà la volontà di Dio, che le fa agire per la sua
immediata intervenzione. Siccome gl'inconvenienti della dottrina dell'influsso
fisico diedero origine a quel la delle cause occasionali; così gl'incon
venienti di questa ipotesi suggerirono a Leibnitz l'altra dell'armonia
prestabilita, V. Armonia, Influsso, Ipotesi. CAUSALITA' (ontol. ), la nozione
della causa, astrattamente considerata come la virtù operatrice dell'effetto. E
però principio della causalità è stato denominato il noto assioma, che tutto
quel che ha cominciato ad essere, è prodotto da una causa. Della verità di tal
massima l'uomo at tigne in se stesso la convizione, dapoichè d'ogni nostra
azione riconosciamo come causa la volontà e l'attività di cui la na tura ci ha
dotato. E siccome non possiamo altrimenti risguardare la volontà, che co me
attributo di Essere intelligente e li. bero, così la ragione si serve di tal
verità quasi di grado per ascendere alla cogni zione di altre cause ignote. In
fatti la co scienza ci rivela la connessione necessaria tra la nostra esistenza
e la volontà d'un Essere maggiore che l'ha prodotta, donde quell'altra verità,
compagna dell'io esisto, cioè v'ha un autor della mia esistenza. V. Io. Facendo
di poi uso dell'induzione, si connaturale alla ragione, noi trasportiamo il
principio della causalità dagli obbietti interni agli esterni, il che può dirsi
che intervenga in uno de tre seguenti modi: o quando gli obbietti esterni
esercitano un'azione sopra i sensi nostri, nel quale caso risguardiamo gli
obbietti stessi come cause delle nostre sensazioni: o quando giudi chiamo del
fatti degli altri conviventi, co me facciam de nostri propri: o finalmente
quando dalla connessione di due fatti che si succedono necessariamente l'uno,
all'al tro, giudichiamo che avvenuto l'uno, debba avvenire ancora l'altro. V.
Induzione. Così il principio di causalità è la fiac cola che rende utile la
sperienza, ed in siememente ci è guida all'investigazione di tutte le verità
ignote. Dalla continua ap plicazione che di esso facciamo, ricavia mo una conclusione
generalissima, cioè che non si dà effetto senza causa. In fine quando colla
guida di tal princi pio ci rivolgiamo alla contemplazione della grande opera
dell'universo; e quando con sideriamo che la volontà del Primo Es sere,
contiene in se la causa di tutte le creature, e dell'ordine maraviglioso col
quale le parti dell'universo son tra loro collegate; che quella volontà ha
impresso le sue leggi non solamente allo spirito, - 79 - ma anche alla materia,
e che ha dato ai corpi forze attive individuali, le quali si spiegano secondo
l'ordine universale; da questa contemplazione apprende la ragione a distinguere
le cause immediate, le quali operano per una virtù loro comunicata, dalla
primitiva ed originale. Da tal distin zione ricava ella la partizione delle
diverse cause, partizione che in sostanza non è se non l'espressione del
principio della cau salità, considerata ora nella potenza del l'agente, ed ora
ne mezzi predisposti e adate tati al suo fine. V. Causa. - Da tuttociò segue
che il principio di eausalità, è una verità insita nell'animo, o una
illuminazione della natura, manife stata dalla coscienza, e generalizzata dalla
sperienza e dal ragionamento. Per esso pe netriamo nella cognizione della
natura este riore; formiamo le prime induzioni che possiamo risguardare come i
tipi de mostri giudizi intuitivi; acquistiamo la nozione della sostanza, o sia
d'un subbietto nel quale riseggono le qualità sensibili delle cose;
distinguiamo le qualità de corpi, e formiamo le nozioni delle essenze loro ;
spieghiamo le cause immediate del feno meni naturali, e ci apriamo la strada a
conoscerne le leggi. V. Induzione, Prin eipio, Qualità, Sostanza. Newton ricavò
dal principio della cau salità due delle sue cardinali regole del filo sofare,
cioè che nella spiegazione de fe nomeni debbono essere ammesse quelle sole
cause, che sono le più semplici e le più atte a produrre l'effetto; e che agli
effetti na turali dello stesso genere conviene, per quanto è possibile,
assegnare le cause me desime. V. Effetto, Fenomeno, i - º i CEREBRo o CERVELLo
(spee. ), viscere composto da sostanza corticale e midolla re, racchiuso nella
cavità del cranio, nel la quale han centro tutti i nervi della vita animale ; e
però è sede delle sensazioni. Cotesta definizione appartiene propria mente
all'antropologia e alla notomia ge nerale, perchè il cervello è l'organo ca
ratteristico di tutti gli animali vertebrati. Ma siccome nel punto d'onde muove
l'azione de'nervi, che è il principio della sen sibilità e della vita
sensitiva, si è creduto che risedesse ancora il sensorio comune, o sia il
principio e la sede delle facoltà percettive dell'anima; così la filosofia spe
culativa richiama a se la conoscenza delle funzioni di quest'organo, tanto per
distin guere il fenomeno sensibile dall'intellet tuale, quanto per dileguare
gli equivochi che nascer potrebbero dalle opinioni di co loro, i quali hanno
riposto l'origine del pensiero nelle materiali funzioni dell'or gano medesimo.
Per evitare gli errori che nascer potreb bero da tal confusione, e per rispondere
a quelli che lasciansi illudere dalle mate riali apparenze, gioverà stabilire
due or dini di fatti, uno che appartiene alle fun zioni de sensi, e l'altro
all'azione dello spirito. Ma prima di venire a tal compa razione uopo è
conoscere alquanto meglio la struttura dell'organo, di cui vogliam conoscere le
proprietà. Il cervello è rivestito di due meningi o membrane principali, una
crassa detta dura madre, l'altra te nue denominata pia madre, tra queste una
terza sottilissima e trasparente, deno minata aracnoide, lo involge interamente
senza contrarre con esso aderenza. Delle due la prima esterna e crassa situata
im mediatamente dopo il cranio, cui serve di periostio interno, lo riveste in
tutti sensi e forma una spezie di tunica ai tronchi de nervi più grandi; la
seconda fina e di - 80 - licata situata sotto l'aracnoide, è perfetta mente
aderente al cervello, di cui abbraccia anche le parti sinuose. La sua massa per
una duplicatura della dura madre, detta falee, resta divisa in due lobi, che
son detti destro e sinistro emisfero, comechè tuttaltro che sferica sia la
figura del cervel lo. Le sue parti principali son tre: il cerebro propriamente
detto: il cerebello o cervel letto, che è diviso dal cerebro per un'altra
duplicatura della dura madre: e il midollo allungato, che è un prolungamento
del cerebro e del cerebello nel punto di loro congiunzione. Tutte tre le
denominate parti son quelle, che con termine più generieo i notomisti chiamano
encefalo. Parlando prima delle moltiplici coperture, colle quali ha voluto la
natura custodire la parte de licata e fibrosa di questa sostanza, sede della
vita, vuolsi notare, che doppia è la qualità della sostanza cerebrale, una este
riore, detta corticale, l'altra interiore: quella molle, umida e di color
cinerizio, questa più secca della corteccia, bianca, e fibrosa, nella quale
risiede la forza sen tente. Entrambe sono involte sotto un'altra esterna
copertura, che è il cranio, com posto di due tavole o lamine ossee, messe l'una
sopra dell'altra, e tra le quali è la diploe, sostanza spugnosa, composta di
fibre ossee, distaccata dalle due lamine, e piena di cellulette di varia
grandezza. Passando poi alle interne parti dell'orga no, null'altro di certo ci
dice la scienza del notomista, se non quel che l'occhio osserva. Due grandi
sorgenti di fibre bian che , ed altre accessorie ed innumerevoli si diramano
pel cervello. Una di quelle due ha per suo tronco il midollo allungato, ed è
composto di sei fascetti strettamente uniti, i quali diramansi prima per lo cer
relletto, e poi per lo cervello, espanden dosi come dal centro alla periferia.
Le fi bre dell'altra sorgente prendono origine da tutti i punti della sostanza
corticale, come radici dalla terra, e camminano verso le parti centrali,
seguendo una direzione del tutto opposta a quella delle fibre della pri ma
sorgente, co fascetti delle quali s'in crociano. Colesti due ordini di fibre ac
compagnati dagli altri fascetti fibrosi che provengono da numerosi gruppi della
so stanza corticale, co quali scontransi cam min facendo, non solamente vanno
dal centro alla periferia, e tornano da questa a quello, ma passano dall'uno
emisfero all'altro del cervello, e dall'altro all'uno, formando così le
numerose commessure, che uniscono le due parti della sostanza cerebrale. - In
questa tela nervosa i notomisti distin guono diverse paia di nervi, che presie
dono rispettivamente alle sensazioni, come i nervi ottici, i motori degli
occhi, gli ol fattori, i patetici, i gustatori, gli auditori, ed altri. Per
quel che concerne le funzioni di cia scuna delle parti del sistema cerebro-spi
nale, noi abbiamo più congetture che co noscenze; e tutto quel che v'ha di men
dubbio, lo desumiamo dalle deduzioni del l'anatomia comparata, e dalla notomia
pa tologica. Certamente, reciso un nervo, o impedita la sua comunicazione col
cervello, le parti insino alle quali quel nervo si esten de, perdono in un
istante sensibilità, e moto; siccome pure compresso il cervello, ogni animale
cade subitamente nel letargo. Adunque il fatto sicuro è, che quest'organo sia il
centro delle sensazioni e del moto; ma in qual modo esso eserciti tali
funzioni, e in qual parte spezialmente risieda la sua virtù, è un mistero. Se
misteriosa è l'azione meccanica de nervi, più impenetrabile è - 81 -
l'associazione del pensiero al movimento di quelli. Taluni fisiologisti per
molto tempo han fatto credere, che siccome i lobi del cervello formano l'organo
necessario del pensiero, così il maggiore o minor volume di essi fosse
l'indizio della maggiore o mi nore perfezione delle facoltà intellettuali del
l'uomo. Altri han dato alla estensione delle superficie del cervello, quel che
i primi conceder volevano al volume. Ma la con gettura del primi (se potesse
istituirsi pa ragone tra l'intelligenza dell'uomo e quella de bruti) sarebbe
smentita da un fatto, dimostrato dalle osservazioni del più accu rati
naturalisti, che talune scimie del nuovo mondo hanno un cervello in proporzione
più grande di quel dell'uomo, mentrechè non hanno veruna superiorità
d'intelligenza a rispetto di tutti gli altri loro congeneri. La seconda poi è
distrutta da due radi cali ragioni, che rendono falsa ogni com parazione tra le
facoltà sensitive e le in tellettive, e molto più escludono il para gone tra i
bruti e l'uomo. Imperocchè se è affatto ignoto il punto in cui si scon trano le
sensazioni coll'azione dello spiri to, non v'è alcuna analogia a stabilire tra
quelle e questa. Potrebbero forse le os servazioni della notomia stabilire per
cer to, che quanto maggiore è il volume o l'estensione de lobi del cervello,
tanto più grande sia l'eccitabilità nervosa e la fa coltà sensitiva d'un uomo,
o d'un altro animale mammifero qualunque; ma dopo di aver dimostrato questo
fatto, resterebbe un altro grande salto, che è il passaggio dal senso
all'intelletto. Con quali regole d'analogia potrebbesi da quello a questo
argomentare ? E siccome le osservazioni de notomisti sono state fatte tutte
sulle qua lità del cervello, che distinguono le spezie e non gl'individui; così
dobbiamo tenerle come inconcludenti nella dimostrazione del fatto da essi
presupposto. Il rapporto tra l volume o l'estensione del cerebro, e l'in
telligenza umana potrebbe solamente ac quistare qualche grado di
verisimiglianza, quando essi ci presentassero la sezione del cervello di
Bacone, di Galilei, di New ton e di Leibnitz, con una serie di con trapposti,
cioè di uomini tanto noti per bassezza di mente, quanto quelli furon ce lebri
per chiarezza e sublimità d'ingegno. Sin qua noi escludiamo l'analogia per la
ragione, che logicamente non se ne può istituire alcuna tra le cose ignote. Ma
v' ha un'altra via, per la quale dalla di versità degli effetti si può
dimostrare la di versità delle cause che li produce. E per tal via camminando,
se non potremo spie gare l'essenza delle sensazioni, nè inten dere l'intima
relazione, che queste hanno colle funzioni del pensiero, riusciremo al meno a
conoscere la diversità della ori gine loro, e a stabilire una verità certa,
cioè, che non è permesso confondere quel che la natura ha distinto. Tal è lo
scopo de due ordini di fatto, del quali abbiamo testè parlato. Un di essi
dimostra quel che può riferirsi a sensi; l'altro quel che appartiene
esclusivamente alla sostanza pensante. Primo ordine de fatti sensibili. 1.º Gli
obbietti esterni feriscono i no stri sensi: ferire i sensi altro non è che
scuotere i nervi portatori delle sensazioni: i raggi del sole, o di altro corpo
lumi moso diretti o riflessi che sieno, scuotono i nervi ottici; l'aria mossa
dalle vibrazioni de corpi sonori scuote i nervi acustici; gli odori, quelli
dell'odorato; il sapor delle vivande, quelli del palato. II 2.º Lo scuotimento
denervi si comunica insino alla radice, o al principio (come voglia dirsi), che
è nel cervello. Simili ad un minutissimo filo ben teso, mosso uno de suoi
estremi, muovesi ancora l'al tro. Nel sonno, stato in cui i nervi sono men
tesi, le impressioni o non giungono insino al cervello, o leggermente lo toc
cano, il perchè o non sono avvertite, o avvertite, ci ridestano. 3.° Lo
scuotimento denervi produce la sensazione, la quale dura per quanto con tinua
l'impressione che i nervi han ricevuto. 4.° L'impressione che i nervi ricevono
per tanto è avvertita, per quanto ne sono toccati gli estremi del nervi stessi,
che stanno nel cervello. Parlando ora di quella sola avvertenza, che è propria
della potenza sensitiva; l'uomo del pari che ogni bruto riferisce la sensazione
non al cervello, ma al punto in cui succede l'impressione: ri ferisce
l'obbietto veduto all'occhio, il sa pore alla lingua o al palato, la puntura
alla estremità del piede punto, e così via discorrendo. 5.° Le impressioni
sensitive e lo scuo timento del nervi possono intervenire an cora nell'interno
del nostro corpo, come nel caso della fame, della sete, e d'ogni dolore
cagionato sia da infermità, sia da alterazione degli organi interiori. In que
sta spezie di sensazioni noi non vediamo nè l'obbietto che le produce, nè il
modo col quale esso agisce sopra di noi; ma non pertanto riferiamo l'esigenza o
il do lore all'organo che n'è affetto. Da ciò se gue che nelle sensazioni
esterne l'Essere sentente avverte due cose, cioè l'obbietto e l'impressione,
nelle interne la sola im pressione; e d'altra parte ignora come l'obbietto
abbia operato su sensi, e come i nervi trasmettano l'impressione ricevuta al
cervello. La stessa intelligenza umana non conosce come sentiamo, nè quel che
succede nenostri organi interni, e ignora persino che il cervello abbia una
parte nelle sensazioni. La sensazione è per se stessa muta nell'uomo, come ne
bruti: ella non può intendere nè spiegare se stessa; e se l'impressione
rimanesse nel cervello, noi non conosceremmo altro che il piacere o il dolore
sensibile, o saremmo indiffe renti spettatori degli obbietti che ci ven gono da
sensi esterni; o tutto al più teme remmo quelli che ci hanno una volta offe so,
o che ci spaventano per la loro novità, e ci addimesticheremmo con quegli
altri, che per esperienza conosceremmo non es serci nocevoli. Per intender
dunque che è la sensazione, e per penetrare nella cogni zione del corso ch'ella
fa per mezzo dei nervi insino al cervello, noi abbiam biso gno del
ragionamento, che è certamente fuori de nostri organi. Senza di esso non
avremmo potuto fare l'autopsia di noi stes si, e molto meno conosceremmo, che
sono i nervi e il cervello. Ora il ragionamento è la proprietà d'un Essere certamente
di verso dagli organi, il quale raccoglie i fatti, ne scopre le relazioni,
conosce l'uso che dee fare degli organi stessi, e da que sta conoscenza
perviene a quella de fini per cui ne siamo stati dalla natura prov veduti. Un
tale ragionamento si va in noi sviluppando per un'altra serie di fatti pa
ralelli, i quali successivamente si presen tano alla intelligenza dell'Essere
pensante. Secondo ordine defatti intellettuali. 1.° La prima funzione
dell'Essere pen sante è l'avvertenza dell'obbietto esterno, che la sensazione
gli presenta. L'Essere che avverte è l'anima, lo spirito, la ragione – 85 –
umana: l'operazione poi dell'avvertire, è quel che dicesi percezione: nella
percezione l'anima non solamente avverte l'obbietto, ma forma l'idea dell'esistenza
di esso, co me d'un altro Essere posto fuori di se. 2.° Noi abbiamo testè
detto, che nelle interne sensazioni sentiamo l'impressione e non l'obbietto. Ma
non prima la ragio ne ha acquistato conoscenza della interna sensazione, che
ricava ancor quella del l'obbietto. Sentendo una impressione pe. nosa o
gradevole, ella forma l'idea del dolore e del piacere, e le dà un nome,
acciocchè possa o ripresentarla a se stessa, o comunicarla agli altri. Che è
dunque quest'obbietto, che la potenza sensitiva non vede, e che la ragione
distingue? È l'idea generale ricavata dalla stessa sensazione. 3.° Il primo uso
che la ragione fa della sensazione è il dedurne quel, che debba ella ricercare
o evitare per la conservazione del corpo, che l'è dato per compagno. Il do lore
ci fa conoscere, che il corpo o una parte di esso è indisposta, acciocchè l'ani
ma si affretti di apprestarvi rimedio, e di evitarlo per l'avvenire. Ciò spiega
perchè la sensazione è stata in noi predisposta dalla natura in modo, che
potessimo rife rirla alla causa esterna che l'ha prodotta, e al punto della sua
impressione. Lo stesso è del piacere: quando il corpo ha bisogno di nutrirsi o
di dissetarsi, la fame e la sete genera un dolore, al quale accorre la ra
gione. In generale il piacere e il dolore servono di eccitamento all'anima,
accioc chè conosca quel che il corpo esige da lei, e contenga gli appetiti
istintivi ne limiti di quel che è utile e salutare. - 4.° L'anima avvertita
dalle sensazioni non solamente giudica di quel, che è utile al corpo, ma
corregge ancora ed emenda l'errore del sensi. Lo stesso obbietto, quan tunque
veduto alla medesima distanza, sem bra ora più grande e ora più picciolo; come
per esempio la luna a vista dell'orizzonte sembra più grande, e più in alto
apparisce più picciola; il bastone diritto in terra, sem bra rotto nell'acqua;
l'acqua tepida, toc cata da una mano più calda, sembra fred da; l'occhio a
traverso d'un vetro colora to, vede tutti gli obbietti del colore stesso del
vetro. In questi e in tutti gli altri casi d'illusione del sensi, che sono
innumere voli, noi resteremmo illusi, se l'anima non ci svelasse l'errore, il
quale nasce dalla impotenza desensi, o dagli ostacoli, che li mettono fuori
dello stato loro naturale. 5.° Ma l'anima fa un uso assai più im portante delle
sensazioni, perchè per mezzo loro si solleva molto più sopra della sfera de
bisogni del corpo, e spigne i sensi a guardare nella immensità degli spazi del
cielo, e a toccare con mano il Creatore de sensi, di se medesima, e di tutta la
ma tura. Prendiamo questo quadro da un pit tore maggior di noi: « Quest'anima
che raccoglie le nostre sensazioni è rischiarata da principi di eterna verità,
ed è dotata di uno spirito investigatore delle relazioni di tutte le cose, e
dell'arte di ragionare, e di dedurre conseguenze. Così formata, e piena di
tanti lumi, trovasi unita ad un corpo sì picciolo che può essere risguardato
come un nulla a rispetto dell'immenso uni verso. Cotesto corpo non pertanto è
messo in relazione con quel gran tutto, di cui è una minima parte; e potrebbe
dirsi essere un tessuto di fibre finissime, disposte con tale artifizio, che i
più forti movimenti non possono alterarlo; nel mentre che non man ca ancora di
sentire le più dilicate im pressioni. Notabili son quelle che riceve dal sole,
dalla luna (almeno per quel che risguarda l'organo della vista), e dalle r – 84
– più alte sfere, quantunque da noi lontane per incomprensibili distanze. Ora
l'unione dell'anima e del corpo è opera di sì buona mano, di tale ordine, e di
tal buona cor rispondenza, che l'anima è avvertita dalle sensazioni di quel che
succede nel corpo, ne' suoi dintorni, e ad immensurabili di stanze. In ogni
sensazione ella scorge nuovi obbietti, o nuove relazioni, delle qualita lune
risguardano la sostanza del corpo, cui è unito, e altre gli obbietti che lo cir
condano; in modo che da picciol chiuso, in cui trovasi ristretta, estende al
tutto le sue relazioni, e vede, per così dire, trac ciato l'universo nel suo
picciolo corpo, co me il corso del sole in un quadrante. Per tal mezzo ella
acquista conoscenze impor tantissime, come il corso del sole, il flusso e
riſlusso del mare, la generazione, la moltiplicazione e le proprietà degli
animali, delle piante, e de minerali, ed altre innu merevoli notizie, tutte
concatenate tra loro, le quali, e nella generalità e nel partico lare di
ciascuna, annunziano il Creatore, a chiunque sappia bene contemplarlo. Da tali
notizie compone l'anima la storia della natura, di cui i fatti sono altrettanti
ob bietti che feriscono i nostri sensi. E per quello spirito di relazione, di
cui è do tata, ne vede la connessione, paragona l'una coll'altra, numera,
misura, osserva le opposizioni o il concorso delle forze mo trici, gli effetti
del moto e della quiete, l'ordine, le proporzioni, le corrispondenze, le cause
particolari, le universali, e le ap plicazioni loro a diversi stati del vivere
so ciale. Così, combinando insieme i principi universali suoi propri col fatti
particolari, acquistati per mezzo del sensi, penetra ad dentro nella natura, e
ne conosce tanto quanto basta per giudicare che il più bello di essa è quel che
non l'è permesso di ve dere. Tanta è l'utilità del meccanismo dei nervi, capaci
di esser toccati da obbietti sì lontani! E tal'è l'opportunità delle sen
sazioni, per mezzo delle quali ella perviene a sì grandi conoscenze (Bossuet) »
! Ora chi potrebbe confondere le opera zioni sensitive colle intellettuali, le
une dipendenti dal moto e dalle alterazioni degli organi; le altre da uno
spirito su periore al corpo, destinato a governarlo? Se da una parte l'anima
dipende nelle sensazioni dalle disposizioni del corpo ; dall'altra, lo
trasporta, e ne muove le membra colla volontà e colla intelligenza. Se l'anima
fosse solamente intellettuale, sarebbe tanto superiore al corpo, che non
potrebbe aver con esso alcun punto di contatto. Ma dall'essere ancora
sensitiva, vale a dire unita al corpo, e destinata alla custodia, alla
conservazione e alla tutela del corpo medesimo; era necessità che la loro
unione fosse durante la vita tale, che si potessero distinguere le sue
operazioni intellettive, senza scindere la sua essenza che è indivisibile. E
siccome le due sostanze son di natura sì diversa tra loro, che l'una non
avrebbe alcun potere sull'altra, se Dio creatore di entrambe, non le avesse,
per virtù della sua suprema volontà, messe in una mutua dipendenza; così v ha
una spezie di miracolo perpe tuo e permanente, il quale si riproduce in tutte
le sensazioni che pervengono all'ani ma, e in tutti i movimenti volontari del
corpo. V. Anima, Corpo , Sensazione. CERTEzzA (spee. e prat.), convizione della
verità d'una o di più proposizioni. V. Proposizione, Verità. Secondo Leibnitz
dovrebb'essere defini ta, la cognizione della verità, tale che eseluda ogni
dubbio in contrario. Secondo altri, l'adesione dell'animo ad una proposizione
che si considera come VOI'a. - Delle tre dimotate definizioni piace più la
prima, perchè non confonde l'atto del giudizio colla conseguenza, che si riferi
sce allo stato dell'animo. Locke distinse due spezie di certezza: certezza di verità,
e certezza di cogni zione, di verità, l'esatta convenienza o disconvenienza
devocaboli colle cose quali in realtà sono: di semplice cognizione, la
convenienza o disconvenienza de voca boli colle idee, quali si concepiscono. E
siccome noi non possiamo conoscere l'es senza reale delle cose; così ne derivò
egli, che tutta la nostra certezza riducesi a quella di cognizione e non di
verità. Ecco aperta la porta allo scetticismo, e distrutta la cer tezza di
tutta l'umana cognizione! V. Co gnizione, Essenza. Il concetto di Locke è una
conseguenza dell'unico principio di cognizione ch'egli ammise, cioè la
sensazione. E siccome sta bilì che delle sensazioni non possiamo dare alcuna
dimostrazione, così ne ricavò l'al tra conseguenza, che non possiamo avere certezza
di quello, che imperfettamente i sensi ci fan conoscere. E quì v'ha uno scambio
di due mozioni essenzialmente di verse, certezza cioè e dimostrazione. Se è
vero, che gli elementi dell'umana co gnizione sien due e non uno, cioè la sen
sazione, e la cognizione di se medesi mo, o sia il senso esterno e l'interno, e
se è altresì vero, che la natura ha in noi collocato una facoltà speciale
dotata di propria luce, o sia la coscienza, la quale ha in se i tipi della
verità, e ci sommi nistra i mezzi da assicurarci della veracità dell'esterno e
dell'interno senso; non po trà non ammettersi una sola spezie di cer tezza,
comechè ella parta da diverse sor genti. V. Coscienza, Sensazione. La certezza,
considerata a rispetto delle diverse sorgenti, per le quali si acquista, è
stata distinta in metafisica, fisica, e morale. La metafisica è quella che
esclude la contraria proposizione per una impossibi lità assoluta, come per
esempio, sarebbe impossibile che tre angoli d'un triangolo non fossero eguali a
due retti, e così di tutte le altre verità matematiche. Tale spe zie di
certezza è propria delle verità ne cessarie , e dicesi anche dimostrativa ,
perchè quelle verità solamente son capaci di logica dimostrazione. V.
Dimostrazione. La certezza fisica è fondata sopra la realità della natura, o
sia sopra un triplice fondamento: la sperienza desensi, l'infal libilità della
coscienza, e la verità deprin cipi intuitivi. Ha per suo contrapposto l'im
possibile fisico, come sarebbe per esempio, che il contatto del fuoco non bruci
la ma no, che il sole non nasca domani, che la coscienza e inganni, che io
pensi, ragioni, dubiti, e non esista. V. Matura, Realità. La certezza morale in
fine è fondata sopra l'autorità, o sia sopra la credenza che prestiamo alle
sensazioni altrui, o che queste sieno il solo fondamento del nostro giudizio, o
che vengano da noi chiamate in soccorso delle sensazioni proprie, quando
abbiamo motivo di dubitare del retto stato de sensi. V. Autorità, Credenza.
Taluni han voluto sconvolgere quest'an tica partizione, limitando la certezza
alla sola dimostrativa, e facendo un'ampia classe della probabilità, che han
poi suddiviso in diverse spezie di evidenze. Ma cotesta nuo va partizione è
impropria, imperfetta, e forse anche tinta degli stessi vizi di quella di Locke,
perchè fa scomparire la certezza – 86 - fisica, sopra la quale è fondata
l'economia della natura, e che trae seco l'adesione del nostro animo con una
forza non mi nore, e diremo anche maggiore della cer tezza dimostrativa. V.
Evidenza. Siccome la certezza morale non esclude l'impossibile, nè il dubbio
del contrario, così prende il nome di relativa in con fronto delle altre due
spezie di certezza, che consideriamo come assolute. Relativa ancora dicesi la
certezza nel senso, che l'adesione del nostro animo è sovente determinata, non
da tutti gli ele menti necessari alla cognizione della ve rità, ma da quelli
solamente che hanno l'apparenza del vero. In questo caso l'as sentimento,
fondato unicamente nella ve risimiglianza, produce quella fallibile cer tezza,
che è propriamente detta probabi lità. V. Probabilità, Relativo. CERTo (spec. e
prat.), addiettivo, quel che seco porta la convizione della verità, Il certo,
sostantivamente usato, vale cer tezza. Ne significati soliti del parlar comune,
vale reale, determinato. V. Certezza. CHIARo. V. Idea, Mozione. CHIMICA
(erit.), arte di conoscere le interne proprietà del corpi per la scompo sizione
delle loro molecule. V. Molecula. Una tale scomposizione è quel che di cesi
analisi chimica. V. Analisi. La chimica applicata alle diverse produ zioni
della natura, è stata una delle prin cipali sorgenti del progressi delle
scienze naturali e delle arti. V. Arte, Scienza. CHIRoLoGIA (grec. sup.), arte
di espri mersi col gesto. - CmoNoMIA (erit.), arte de pantomimi che si esprimono
co gesti. E una delle arti imitative. V. Arte. CHIRURGIA (crit.), arte
salutare, che coll'aiuto degl'instrumenti e de rimedi detti topici, cura le
ferite e le alterazioni delle membra, e d'ogni parte del corpo umano. E una
delle arti mediche maggiore delle altre, tra perchè i suoi giudizi son fondati
sopra fatti, e non sopra congetture; e per chè manifesti sono gli effetti delle
sue ope razioni. E l'arte riparatrice della esisten za, la quale dà all'uomo un
poter simile a quello della natura. Ella presuppone, come tutte le altre
scienze mediche, una perfetta cognizione della notomia e della fisiologia; e
siccome non opera altrimenti che sostituendo un male curabile ad un altro
incurabile, o di più difficile cura gione; così non può essere la chirurgia
scompagnata dalle conoscenze patologiche e terapeutiche, che son proprie della
me dicina. In conferma di che può essere ad dotto l'esempio d'Ippocrate, che fu
ad un tempo il fondatore della medicina e della chirurgia. Il composto dell'una
e dell'altra arte è quel che dicesi la medicina chirur gica, e questa è quel
che distingue lo scien tifico dal pratico operatore. Del semplice operatore
volle Celso additare i requisiti allorchè disse: esse chirurgus debet ado
descens, aut certe adolescentiae provi mus, manu strenua, stabili, nec un quam
intremiscente, acie oculorum acri claraque, animo intrepidus, immiseri cors. V.
Medicina. CIEco. V. pensiero. CIELo (spee. teol. e erit.), lo spazio che
contiene gli astri, e che a noi apparisce co – 87 – me una volta azzurrina, e
diafana, la qua le copre la terra. V. Spazio, Terra. La teologia di tutti i
popoli lo ha con siderato come la sede della Divinità, e co me il più rimoto
luogo dello spazio infi nito, nel quale perverrassi a vedere Dio più da vicino;
dove Egli manifesta la sua gloria, e dove acquisterassi una più chiara
conoscenza degli attributi suoi. Per un naturale istinto lo spirito umano lo
risguarda come la sua patria di origine e di destinazione; e l'uomo conta tra
le sue prerogative di aver solo tra le crea ture ricevuto un aspetto
naturalmente ri volto al cielo. V. Aspetto, Spirito. Il cielo degli astronomi è
quella immensa regione eterea, che occupano il sole e le stelle, e nella quale
compiono i pianeti il corso loro. - Nel comune parlare scientifico per cielo
intendesi tutta la parte dello spazio, che è tra la terra e le più lontane
regioni delle stelle fisse. In questo senso suol essere di viso in due parti,
cioè il cielo aereo, e l'etereo: il primo più vicino alla terra, è posseduto
dall'aria, e forma quel che di cesi atmosfera: il secondo suol esser con
siderato, come pieno d'un fluido più leg giero, più chiaro, e meno resistente
del l'aria, che è l'etere. V. Aria, Etere. In questo senso noi distinguiamo le
pro duzioni della natura in celesti e terrestri, e ci serviamo di tal
partizione per distri buire sotto queste due grandi classi leva rie branche
della storia naturale e delle scienze fisiche. V. Fisica. Storia naturale.
CIGLIo (prat.), corona di peli, che ve stono le palpebre, e i quali sembrano de
stimati a preservare gli occhi dagl'insetti, e dagli altri corpicciuoli, che
aggiransi nell'aria. V. Occhio, Palpebra. Le ciglia son caratteristiche di
tutti gli animali mammiferi: nell'uomo servono an cora a contornare l'occhio, e
a dargli gra zia ed espressione: ne giovani contribui scono a rendere lo
sguardo più soave, e ne vecchi più grave. CIRCONSPEZIONE (prat.), prudenza, che
ha risguardo a più motivi di convenienza. CIRCONVENZIONE (prat.), insidia prepa
rata con rigiri, o altre macchinazioni. CIVILE (prat.), tutto quel che si rife
risce alla società, o all'uomo, considerato in questo stato. Come addiettivo di
storia, V. Storia. CivILTA' (prat.), abito di maniere cor tesi, per le quali si
rende ad ognuno il debito onore. CLAssE (disc.), ordine di generi o d'in
dividui, che noi formiamo per la compa razione delle qualità loro. Cotesto
vocabolo ha due significati, uno antico e comune, l'altro moderno e scien
tifico. Classi chiamarono gli antichi le cin que sezioni del popolo, formate
per pro porzioni di censo: classi chiamò Cicerone gli ordini de filosofi,
paragonati per me rito di dottrina: classi chiamò Quintiliano le compagnie
degli scolari messi sotto la scorta d'un comune precettore: classi in fine
furono chiamate altre ragunanze e collezioni di cose. In questo primo signi
ficato è notabile che lo stesso vocabolo si dà sempre ad una collezione
d'uomini o di cose comparate per le qualità loro, comechè talvolta comprenda
moltitudine d'individui, ed altra volta pluralità di generi. – 88 – Il
significato moderno e scientifico ci viene dalla storia naturale, la quale per
abbracciare in una metodica partizione l'immensa varietà degeneri, delle
spezie, e degl'individui, che formano la materia delle sue investigazioni; fece
tre grandi partizioni di tutte le produzioni della na tura, che chiamò regni,
l'animale, il ve: getabile, e il minerale, e suddivise cia scun di essi in
classi, generi e spezie. In questo senso dunque la classe è un ge nere
superiore, che ne ha molti a se su bordinati. Così gli animali presi insieme,
paragonati a vegetabili e a minerali, for mano un regno; ma di questo regno for
mano altrettante classi i quadrupedi, i pe sci, gli uccelli, che poi
suddividonsi in molti e diversi generi. Vuolsi notare, che cotesto secondo
significato differisce dal primo, sol perchè raccoglie generi, e non individui;
ma ha collo stesso di comune, che i generi son più, e che l'unione loro nasce
del pari dalla comparazione delle qualità simili. Qual de due significati
riterrà per se il linguaggio scientifico? È manifesto che il secondo è più
logico del primo. Adope rare la voce classe per collezione d'indi vidui,
sarebbe un'addoppiatura del gene re; riservarla per quei generi che hanno tanto
di proprio e di diverso dagli altri, che indur potrebbe errore o confusione, è
una necessità. V. Genere, Individuo, Spezie. - CLAssIFICARE (disc.), vocabolo
nuovo ne dizionari, ma comune nell'uso, che vuol dire, ordinare le cose per
classi o per generi. Non somministrando il linguaggio un altro equivalente, ed
essendo la sua de sinenza affatto italiana, non è chi possa farsi uno scrupolo
della novità. Se diciamo dannificare, comechè avessimo un verbo equivalente nel
danneggiare, perchè non diremo classificare, che non potrebb'es sere altrimenti
espresso? CoESIONE (spec.), forza per la quale le parti d'un corpo sono tra
loro unite. V. Corpo. La coesione non è uguale in tutti i cor pi, o sia, le
particelle elementari di essi non sono sempre unite insieme con egual forza ;
d'onde nasce, che i diversi gradi della coesione producono i tre differenti
stati, in cui si trovano i corpi, di soli dità o durezza, di liquidità, e di
flui-, dità aeriforme. La coesione è una delle qualità prima rie della materia:
senza di essa i corpi non esisterebbero, perchè le loro particelle elementari
sarebbero disgiunte e sperpe rate nello spazio. - Noi concepiamo la materia
come com posta di molecule impercettibili aderenti tra loro, dall'unione delle
quali risultano le parti sensibili del corpi. Cotesta maniera di concepire i
composti presuppone necessariamente l'idea d'una forza, che faccia perseverare
i componenti nello stato d'unione, ed impedisca ad altra contraria forza il
separargli. Questa è quel la forza, che dicesi di coesione. V. Mo lecula.
Giacomo Bernulli spiegò la coesione per mezzo della pressione uniforme
dell'atmo sfera, e addusse in pruova di tal conget tura l'esempio delle facce
levigate demar mi, le quali sono perfettamente aderenti all'aria libera, e sono
poi facilmente sepa rabili nel vacuo. Una tal'esperienza è fon data sopra un
falso presupposito, e quando fosse vera, potrebbe tutto al più provare – 89 –
la coesione delle grandi superficie, e non già l'unione delle molecule. Newton
spiegò la coesione per mezzo dell'attrazione, e cre dette che le molecule de
corpi si attrag gano a vicenda con una forza, che nel con tatto immediato è
grandissima, e che poi va gradatamente scemandosi, insino a per dersi
interamente nelle grandi distanze. I chimici ammetton pure l'attrazione mole
culare, che chiamano coesione o affinità, secondo che ha luogo tra molecule
della stessa, o di diversa natura. V. Affinità, Molecula. Qualunque del
dinotati vocaboli da noi si adoperi per ispiegare l'unione delle parti della
materia, non facciamo altro che espri mere un puro concetto della mente. La
vera causa di quella unione, che dà alla materia le forme e gli aspetti, che si
os servano netre stati decorpi sopra cennati, è uno de misteri della natura. Se
potessimo giugnere a scoprirlo, avremmo per metà conosciuto l'essenza della
cennata sostanza. V. Essenza, Sostanza. CoEsisTENZA (ontol.), la contemporanea
durata delle cose, considerate nella attua lità loro, e non come causa l'una
dell'altra; o come antecedente l'una e susseguente l'altra. V. Attualità,
Durata. Nell'ordine delle cose sensibili distin guonsi le cose coesistenti
dalle successive, delle quali è proprio l'antecedente e il con seguente, o la
causa e l'effetto. V. An tecedente, Causa. Inoltre le cose coesistenti, comechè
di verse e non dipendenti l'una dall'altra, hanno non pertanto una connessione
d'or dine tra loro, che le fa tutte servire ad un fine della causa prima. Tal è
quel che i metafisici e i teologi han chiamato nesso delle cose coesistenti,
nel quale è riposto il più luminoso argomento delle cause fi nali, o sia della
suprema intelligenza, au trice e conservatrice dell'universo. V. Dio, Universo.
Nell'ordine poi delle idee astratte, i me tafisici han chiamato coesistenza la
con nessione necessaria di due o più qualità nel medesimo subbietto.
Coesistenti per esempio possono dirsi le qualità caratteristiche o es senziali,
per le quali definiamo le sostanze, come il ferro, l'oro, e gli Esseri ciascuno
nella natura loro. Locke fece della nozione della coesistenza una delle quattro
classi, nelle quali possono essere ridotte tutte le nostre idee di relazione.
V. Relazione. Leibnitz chiamò concorso quel che Lc che aveva detto coesistenza;
ma la diffe renza del vocabolo nulla aggiugne al me rito del concetto, il quale
sembra restri gnere senza alcuna utilità i nostri giudizi di convenienza, e di
relazione. CoGITATIvA (spec.), virtù o potenza del l'anima, per la quale l'uomo
conosce gli obbietti delle percezioni insieme con tutte le relazioni loro. V.
Percezione, Rela zione. - ll Varchi l'adoperò come caratteristica della ragione
umana, avendo per con trario chiamato estimativa la potenza più limitata
de'bruti, i quali non hanno idee universali, nè astratte; il che sembra poter
essere ritenuto come vero. V. Estimativa. CoGITAZIONE (lat. sup.), vocabolo
latino adoperato da nostri antichi per pensiero, siccome pure adoperarono essi
il cogitare per pensare. V. Pensiero. CoGNIZIONE (spec.), il corredo delle uma
ne conoscenze, secondo la naturale capa cità dell'animo. V. Animo, Conoscenza.
12 – 90 – È un vocabolo adoperato promiscuamente per esprimere, ora la somma
delle como scenze acquistate, e ora la capacità di acqui starle. Locke la
definì: la percezione della connessione e della convenienza di due sdee; e dopo
di averla così definita, si valse dello stesso vocabolo per esprimere, ora la
facoltà cognoscitiva, ora le cose co nosciute, ed ora l'atto per lo quale l'ani
mo giudica della convenienza loro. E ma nifesto, che la sua definizione o non
ab braccia tutta la cosa definita, o confonde tre diversi significati. - Per
bene intendere quanto difettuosa e ambigua sia la definizione di Locke, gio sa
in primo luogo distinguere la cogni zione dalla semplice conoscenza, dacchè
questo vocabolo più propriamente si ado pera per esprimere la comprensione
delle verità singolari, dal complesso delle quali risulta tutta l'umana
cognizione. A tal distinzione prestasi la lingua italiana più della francese,
che nel solo vocabolo con naissance confonde i tre significati. In secondo
luogo, il giudizio per lo quale l'animo accoglie o rifiuta la conve nienza
delle idee e delle relazioni loro ( qualunque sia il significato che possa
darsi alla voce cognizione), de avere un significato distinto, perchè
necessaria mente interviene nella cognizione, anzi la precede, non potendosi
concepire as sentimento alla convenienza o disconve nienza delle idee, o in
altri termini, non potendosi affermare o negare, senza il giu dizio. V.
Giudizio. Ma quali sono secondo Locke le idee della convenienza, dalle quali
risulta la cognizione? Le idee, per lui, sono l'unico obbietto del pensiero:
quelle sole l'animo contem pla: non contempla le cose, perchè le co nosce non
immediatamente, ma per mezzo delle idee: le idee non sono se non le im magini
delle cose: la realità dunque del l'umana cognizione è riposta unicamente nella
conformità che le idee hanno con le cose che rappresentano. Prescindendo dalle
conseguenze, cui co testo sistema conduce; certamente la de finizione lascia
fuori del definito tutti gli obbietti del pensiero, che non possono es sere
qualificati come idee, e tutte le verità che noi conosciamo per esperienza,
delle quali verità spesso non ci è dato conoscere le relazioni che esse hanno
con altre. La de finizione dunque non è compiuta nè esatta. Ma Locke fece della
cognizione una fa coltà doppia, avendo dato all'animo due potenze per le quali
giudica della conve nienza o disconvenienza delle idee: per una, della
cognizione, scopre la conve nienza e la disconvenienza, e ne acquista la
certezza: per l'altra, detta giudizio, unisce insieme due idee o le separa, e
ne presume la convenienza quando non possa con certezza discernerla. In somma
diede le verità intuitive e le dimostrate alla co gnizione, le opinioni e le
presunzioni al giudizio. Lasciando di ripetere quel che abbiamo testè detto del
giudizio, la cennata distin zione restrigne per altra via l'umana co gnizione,
dapoichè la limita alle sole ve rità intuitive o dimostrate, escludendone
l'opinione, la verità o la certezza relativa, la semplice probabilità, la
verisimiglianza, o sia quel che ne forma la parte maggiore. Ora la somma di
tutte le umane cono scenze, considerata quale esser può per la naturale
costituzione della mente umana, sembra meritare un nome distinto. Un tal nome
si trova nella comune accezione del vocabolo cognizione; e però conviene rite –
91 - nere più il significato comune, che quello datole da Locke. V. Certezza.
CoLLERA (prat.), vocabolo proprio della medicina, che vuol dire bile. In senso
traslato, vale sentimento di sdegno, occasionato da un qualche fatto per noi
dispiacevole. È meno dell'ira e del furore. V. Furore, Ira. CoLLETTIvo (disc. e
spec.), nome che esprime la moltitudine, o l'aggregato di più individui. V.
Individuo. Taluni filosofi, e tra questi i puri no minali, han considerato come
collettivi tutti i nomi generali, e gli hanno avuto come vocaboli introdotti per
comodo del linguaggio, privi di qualunque realità. Cotesto scambio contiene un
error di prin cipi, perchè distrugge l'essenze reali, e riduce i nomi del
generi e delle spezie a puri segni arbitrari. E però deesi distin guere il
collettivo dal generale nel senso, che sarà spiegato negli articoli concettua
lista, essenza, generale, nominale, e reale. V. queste voci. CoLLISIONE
(prat.), senso traslato, preso dal mutuo percuotimento de corpi, mossi per
contraria direzione; e vuol dire con trarietà di doveri o di leggi tra loro in
compatibili. La collisione delle leggi può esser vera o apparente: è sempre
apparente nelle leg gi della natura, e per l'opposito scontrasi sovente nelle
positive. Lo stesso è de do veri, che ci vengono dalle leggi naturali; dacchè non
può per esse darsi contrarietà di obligazioni, ma solamente opposizione di un
dovere imperfetto ad un altro per, fetto; nel quale caso il maggiore esclude, e
spiega il minore. Quelli che han trattato della collisione delle leggi
naturali, hanno per lo appunto inteso spiegarne le apparenti contraddizio ni, e
mostrare l'applicazione di ciascuna legge al proprio caso. In generale
l'apparente collisione delle leggi naturali può nascere o dallo scon tro di due
precetti che non posson essere simultaneamente eseguiti, e de quali uno dee
cedere all'altro ; o da nostro difetto d'interpretazione, quando erriamo circa
il senso, nel quale la ragione comanda o vie ta un'azione. V. Azione, Dovere,
Leggi. CoLoRE (spec.), idea semplice e inde finibile, che può in altri termini
spiegarsi, come una sensazione in noi prodotta dalla luce riflessa da corpi. Le
spiegazioni di tal fenomeno son pro prie della Fisica. E una delle qualità
secon darie della materia. V. Materia, Qualità. CoLPA (prat.), mancamento al
dovere. In un senso più mite, accettato anche da'moralisti, è il fallo nato da
negligenza o ommissione. V. Megligenza, Ommis sione. CoMANDAMENTo. V. Precetto.
Con EDIA (crit.), immagine o rappre sentazione della vita domestica o civile
degli uomini, fatta per dilettare, o per istruire gli altri. È una delle arti
drammatiche e imitative. Commissaazione (prat.), sentimento di tristezza e di
benevolenza, che in noi su scita l'altrui male. Cotesto sentimento è proprio
della na tura umana per una provvida disposizione del suo Autore : è una
riflessione o ri n - 92 – percussione del male altrui sopra noi stes si , onde
lo riguardassimo come un mal comune: è un presidio dato al debole e
all'innocente, che son sopraffatti dalla SVentura. In questo sentimento è
riposto il ger me di quel sublime precetto, nel quale son racchiusi tutti i
vincoli dell'umanità: fa per gli altri quel che vorresti, che fosse fatto per
te stesso. ComPARATA. V. Motomia. CoMPARATIvo (disc.), grado medio tra il
positivo e il superlativo de nomi di qua lità, che in talune lingue esprimesi
con una diversa inflessione de nomi stessi; e in altre colle particelle più o
meno, che pur diconsi comparative. V. Comparazione. CoMPARAzioNE (spee. e
disc.), conoscenza di due obbietti, considerati in quanto alla somiglianza o
dissomiglianza delle qualità loro, o al rispettivo modo di essere. V. Mo do,
Qualità, Somiglianza. È il fondamento delle idee di relazione tanto nelle cose
sensibili, quanto negli obbietti del pensiero. E una operazione
dell'intelletto, caratteristica della ragione superiore dell'uomo, dapoichè è
il mezzo per lo quale formiamo i generi, sceveria no le qualità da subbietti, e
torniamo a paragonare tra loro le nozioni generali, così formate. Non è già,
che i bruti non abbiano una certa virtù comparativa, ma essa è limitata alle
cose sensibili, e alle qualità apparenti o manifeste di quelle; non potendo
essi generalizzare, nè astrar re. La differenza tra la virtù comparativa
dell'uomo, e quella del bruti può essere con bastante precisione spiegata co
due contrapposti di facoltà intellettiva ed esti - mativa, o con quelli altri
proposti da Leibnitz, di deduzione, voce propria della facoltà ragionatrice, e
di consecuzione, espressione conveniente alle quasi neces sarie conseguenze,
delle quali è capace l'intelligenza degli animali irragionevoli. V.
Consecuzione, Estimativa. CoMPAssIoNE (prat.), pietà viva del male altrui, e
tanto viva che ci fa patire con quei che patiscono. E più generica della
commiserazione, che conviene soltanto al male de simili a noi; laddove il
compas sionare si usa per ogni animal sensitivo, CoMPATIMENTo (prat.),
indulgente escu sazione, che concediamo a difetti, o a falli altrui. Il
compatire è diverso dal compassio nare, che è sentire compassione. V. Com
passione. CoMPIACENZA e CoMPIACIMENTo (prat.), diletto, di cui taluno si
allegra, sentendolo. CoMPIAGNERE e CoMPIANGERE (prat.), con dolersi, o
lamentarsi. Si adopera anche in senso attivo, come quando dicesi di compiagnere
qualcuno. CoMPIANTo, sost. (prat.), condoglienza, o lamento. CoMPIUTo (ontol.),
quel che non manca di alcuna delle sue parti. Nel senso ontologico, vale
perfetto, sì che adattasi ancora agli Esseri immateria li, che consideriamo
come perfetti nell'es senza loro. In questo stesso significato vale assoluto, e
Dio dicesi essere un Ente per ogni verso compiuto. Ciò spiega la definizione
data da Aristotele del completo, cioè di quello, – 95 - che non può trovare
fuor di se nulla di ciò che gli è proprio. CoMPLEsso (spec. e disc.), la
combina zione di più idee semplici di diversa spe zie. V. Valea. Giova
distinguerlo dal composto, ch'è proprio delle cose materiali, e adoperarlo per
le sole combinazioni del pensiero, on d'evitare le false analogie tra 'l
materiale e l'intellettuale. V. Composto. CoMPONENTE. V. Composizione, Com posto.
CoMPosIzIoNE (ontol. spec. e disc.), ag gregato di parti, che formano un tutto,
il qual dicesi composto. V. Parte. È proprio della materia, a rispetto del la
quale la filosofia pretese concepire e immaginare il modo col quale fu forma
ta. A questo concetto appartengono le di verse ipotesi fatte intorno alla
natura degli atomi e delle molecule, considerati come suoi componenti. V. Atomo
, Molecula. Composizione d'idee è stata detta l'unio ne di più idee semplici, o
sieno i diversi modi del pensiero; ma a rimuovere l'am biguità giova meglio per
gli atti del pen siero surrogare il complesso al composto. V. Complesso.
Composizione logica, dicesi l'unione del predicato col subbietto, del pari che
la congiunzione degli argomenti per giugnere alla conseguenza. Gli scolastici
chiamarono eomposizione metafisica l'unione del genere e della dif. ferenza,
d'onde poi nasce un tutto, che di viene spezie. L'idea dell'uomo, per esem pio,
è una composizione delle due idee di animale, che è il genere, e di ragione eole,
che è la differenza, la quale lo di. stingue dagli altri animali. Senza entrare
nella utilità di simili categorie, vuolsi no tare che ogni combinazione di
generi, di spezie o di differenze, appartiene alla lo gica, e non alla
metafisica. -- CoMPossIBILE (ontol.), vocabolo scola stico, usato ancora dal
Segneri, e dinota quel che può esistere insieme con un'altra cosa, e che
comunemente direbbesi com patibile, o non ripugnante. CoMPostezza (prat.),
modestia negli esterni portamenti. Composto (spec. e ontol.), l'aggregato di
più parti, per sua natura divisibile o dissolubile. È proprio della materia, e
ha per suo contrapposto il semplice. V. Com posizione, Semplice. CoMPRENDERE
(spec.), esercitare l'atto della comprensione. V. Comprensione. - Adoperato nel
senso del comune parla re, vale intendere, e conoscere. CoMPRENSIBILE (spec.),
quel che è alla portata della umana capacità. V. Capacità. La capacità
dell'umana mente è deter minata, o dalla qualità delle cose, alle quali
vogliamo applicarla, o dalla natura delle nostre facoltà. Ella è finita, tra
per chè la natura l'ha limitata a quel che può essere utile alla nostra
esistenza, e perchè l'intelligenza d'un Essere finito, non può esser capace
dell'infinito. Il primo requi sito dunque dell'umana sapienza sta nel conoscere
quel che è comprensibile, e quel che tale non è. Questo è il senso della
massima che Socrate esprimeva col cele bre detto: il sapere sta nel conoscere
che nulla sappiamo. La modesta confes - 94 - sione della nostra ignoranza
contiene im plicitamente la conoscenza delimiti di quel che sappiamo. I
Pirronisti e gli Scettici vollero distruggere anche la conoscenza di siffatti
limiti, convertendo in un dub bio tanto quel che crediamo di conoscere quanto
quel che ignoriamo. Da ciò nac que l' incomprensibile, o l'aealalepsia, che è
l'impossibilità di comprendere o di conoscere qualunque cosa. -
All'incomprensibile di Arcesila, Ze none cogli stoici opposero il comprensi
bile loro, o sia il catalettico. Avendo essi ammesso, come unica sorgente del
l'umana cognizione, la percezione delle idee sensibili, ne stabilirono la
realità con cedendo alla cennata facoltà la virtù di concepire l'obbietto qual
è, e tale da es sere distinto da un obbietto diverso. Così la catalepsia degli
stoici divenne il con trapposto dell'acatalepsia degli scettici. V.
Incomprensibile, Percezione. CoMPRENSIONE (spec.), l'atto della men te, per lo
quale conosciamo l'obbietto del pensiero. La comprensione precede sempre
l'affer mazione o la negazione, ch'è propria del giudizio. V. Giudizio.
Differisce dall'apprensione, per quanto questo vocabolo si adopera per
esprimere la facoltà, che noi consideriamo come la sede della virtù comprensiva
dell'anima. V. Apprensione. CoMUNE (spec. e disc.), quel che è del la natura, o
dell'essenza di più individui; o quel che può egualmente convenire a più
subbietti, a più predicati, o accidenti. È quel che forma i generi e le spezie,
ed è contrapposto di proprio. V. Genere, Individuo, Proprio, Spezie. CoNato
(prat.), forza per la quale un corpo che si muove, tende a produrre un
cangiamento in un altro. V. Forza, Can guamento. È vocabolo proprio della
fisica, ma per similitudine si adopera per dinotare la for za di un principio
di azione, il quale non ha ricevuto compimento, o per mancata determinazione della
volontà, o per estrin seco impedimento. Nel primo caso il co nato si confonde
collo stesso principio di azione: nel secondo è un'azione compiuta per volontà
dell'agente, comechè non sia stata dall'effetto seguita. V. Azione, Ef. fetto,
Principio. Concatenazione (spec. e disc.), ordina mento di cause, o di
proposizioni, delle quali una nasce dall'altra. V. Causa, Pro posizione. Nella
filosofia speculativa questo voca bolo conviene principalmente alla connes
sione delle cause seconde, dalle quali na sce l'ordine e la conservazione
dell'uni verso, e che dipendono, l'una per mezzo dell'altra, da Dio, o sia
dalla prima di tutte le cause. Nella logica la concatenazione è propria di
quell'argomentazione, nella quale più proposizioni sono talmente cofinesse tra
loro, che il predicato della prima diviene subbietto della seconda; il
predicato della seconda subbietto della terza, e così delle successive, insino
a che nella conclusione si giunga ad un predicato che conviene egualmente al
subbietto della prima propo sizione. La coneatenazione logica ha luo go
spezialmente nel sorite. V. Sorite. CoNCEPERE, e Concepiae (spec.), for mare
un'idea, o una nozione, per mezzo degli elementi della percezione, della im -
95 – maginazione, o della riflessione. V. Im maginazione, Percezione,
Riflessione, Diſferisce dal percepire, in quanto che le cose che concepiamo,
non sono ac compagnate dalla convizione della realtà ed esistenza loro; ed in
quanto abbraccia ancora le cose non presenti a sensi, le pos sibili, o anche le
supposte. V. Concezio ne, Percezione. CoNCETTo (spee.), la nozione, o l'idea
che risulta dal concepire. - Secondo il Varchi, è tutto quel che ab biamo
pensato di volere dire o fare. In proposito di tal vocabolo lo stesso autore
nota. «Questo vocabolo il quale non è men » bello che generale, significa
appresso » i Toscani quello che appresso i Greci 2 syvotx e i Latini notio 2.
V. Mozione. CoNCETTUALISTA (spec.), nome di qua lità dato a quel filosofi
scolastici, che non ammettendo niuna delle due estreme opi nioni del nominali e
del reali, credevano all'intrinseca verità del così detti univer sali. V.
Mominali, Reali, Universali. Cotesta controversia non appartiene so lamente
alla storia della vecchia filosofia scolastica, ma si riproduce tra moderni
sotto altro aspetto, e con diversi nomi. Le idee generali che la mente forma di
quel che è comune a più individui, e le astratte nozioni ch'ella ricava dalle
qua lità de vari subbietti della natura, son puri nomi, o segni del concetti
della nostra mente, ovvero hanno una realità di esi stenza? La quistione così
stabilita racchiu de in se un'ambiguità che può dar luogo all'errore e al
sofisma. Che s'intende per realità di esistenza ? Sono Esseri che stan no nella
sostanza dell'anima, o son segni di nozioni vere, l'esistenza delle quali tro
vasi negl'individui e ne subbietti, da quali la mente le astrae? I nominali e i
reali ne facevano una quistione doppia: i con cettualisti la fanno triplice:
son segni ar bitrari, son Esseri o forme innate del'o spirito, o son tipi di
verità? Costoro si attengono alla terza, allontanandosi affatto da fautori
delle prime due. La loro dot trina in somma è quella della verità e del la
certezza dell'umana cognizione. I generi e le spezie non sono mere partizioni
logi che, nè sono arbitrarie collezioni d'indi vidui fatte per comodo della
mente ; ma rappresentano qualità vere, esistenti nella natura, le quali
risiedono negl'individui, che sono i componenti delle spezie: le no zioni del
giusto, dell'onesto, del bello, e del vero, non sono semplici nomi di con
venzione, ma hanno i tipi loro nella mente dell'Autor della natura, e nella
stessa ra gione umana. Tolte dunque di mezzo le denominazioni e le forme
scolastiche, le cennate quistioni servono ancor oggi ad illustrare le due più
importanti verità della filosofia speculativa: la realità del mondo sensibile:
l'esistenza d'un vero eterno e immutabile, che regola tutte le nostre rela
zioni colle altre parti dell'universo. V. No minale, Reale. CoNCEzioNE,
operazione dell'animo, per la quale conosciamo o richiamiamo alla mente
l'obbietto d'un'idea. V. Concepire, Concetto. Siccome il conoscere l'obbietto
dell'idea è il fondamento di ogni operazione del l'animo, così è manifesto che
la conce zione si trovi sempre e nel percepire, e nel ricordarsi, e nell'immaginare,
e nel giudicare, e nell'astrarre, e nell'esser con sapevole di qualunque delle
dinotate ope razioni; comechè non possa essere confusa – 96 - con alcuna di
esse. Quel che da queste la distingue, è che non è mai accompa gnata dal
giudizio della sua verità o real tà, potendosi anche concepire un obbietto
ideale creato dalla immaginazione. La scuola di Reid ha fatto della con cezione
una facoltà speziale, per la quale l'anima richiama a se l'idea, o la perce
zione passata d'un obbietto lontano, scom pagnandola dalla reminiscenza del
tempo e del luogo, le quali reminiscenze sono riposte nella memoria. Secondo
tal divisa mento, la concezione non è memoria nè immaginazione, quantunque
talvolta si confonda con queste facoltà, e sebbene in molti casi non si possa
discernere, se la percezione richiamata alla mente, sia ope ra della
concezione, della memoria, o del l'immaginazione. In somma, la concezio ne,
considerata come la facoltà di ritrarre le idee passate, spogliate da ogni
altro modo di luogo e di tempo, corrisponde a quel che gli scolastici
chiamarono ap prensione pura (simplea apprehensio). V. Apprensione. Il
considerare le diverse operazioni del l'animo, trasformandole in facoltà, o sia
in altrettanti principi d'azione tra loro di stinti, non è stato, e non può
essere ge neralmente ricevuto. V. Facoltà. Per evitare le similitudini del
vocaboli, ed insiememente lo scambio della facoltà coll'atto, noi chiamiamo
l'atto, concezio ne, e la facoltà, comprensione. V. Com prensione. CoNCLUSIONE
(disc.), l'ultima parte del ragionamento, colla quale si compie il discorso. La
conclusione può essere o immediata, o mediata. L'immediata è quella che si
deduce da una proposizione unica antece - dente: la mediata è quella che si
deduce da più proposizioni antecedenti, legate in sieme per mezzo del
ragionamento. Se il ragionamento è in forma di argomenta zione, la conclusione
che ricavasi dalle premesse, dicesi con particolar nome conse guenza. V.
Conseguenza, Ragionamento. CONCORDANZA (disc.), parte della sin tassi, o sia
della costruzione delle parole d'un discorso, la quale regola tanto la naturale
corrispondenza che aver debbono gli addiettivi co sostantivi nel numero, e nel
genere del nome; quanto la correla zione che aver dee il nome col verbo, o sia
il subbietto coll'azione, e la passione col paziente. V. Mome, Sintassi, Verbo.
CoNCRETo (spec. e disc.), vocabolo di significazione composta, che dinota il
sub bietto congiuntamente ad una qualità, o ad un accidente che lo distingue,
come pio, duro, bianco. Il suo contrapposto è l'astratto, che considera la
pietà, la due rezza, o la bianchezza separatamente dal subbietto. E quando la
qualità o l'accidente dia il nome al subbietto, cotesto concreto fu dagli
scolastici detto logico, a diffe renza del primo, che fu chiamato meta fisico.
V. Astratto, Qualità, Subbietto - i CoNcUPIscENZA (prat.), inclinazione della
natura corrotta, la quale ci porta al male e a piaceri illeciti. CoNCUPIscIBILE
(prat.), addiettivo pro prio dell'appetito, o sia dalla inclinazione, da cui
prende origine la concupiscenza. CoNDIZIONALE (dise. ontol. e spec.), tut to
quel che è capace di limitazione, e che presuppone una causa del suo esistere.
In - 97 - questo senso, tutto ontologico, è il con trapposto dell'assoluto. V.
Assoluto, Causa. Da ciò segue, che tutto il possibile e le cose contingenti
sono di lor natura con dizionali; e per l'opposito, che il solo Es sere
assoluto è Dio. La filosofia speculativa distingue il con dizionale dal
causato, essendochè diversa è la causa dalla condizione. V. Condizione. I
logici chiamano condizionali le pro posizioni connesse, delle quali una non può
stare senza dell'altra; e sillogismi con-. dizionali gli argomenti che han per
base una proposizione condizionale. Il condi zionale logico dunque è un
postulato, per lo quale concessa una proposizione, deesi ancora concedere la
seguente, che da quella dipende. V. Postulato, Propo sizione, Sillogismo.
Diverso è il condizionale dall'ipotetico, il quale nasce pure da due
proposizioni connesse, ma ambedue vere, dette cate goriche, delle quali ammessa
l'una, deesi per necessità ammettere ancora l' altra. V. Categorico, Ipotetico.
I gramatici finalmente chiamano condi zionali le congiunzioni, che servono a le
gare una proposizione coll'altra, come il se, e le altre al se equivalenti;
ond'è, che il carattere del condizionale nel di scorso nasce da tali
congiunzioni. V. Con giunzione. - - - - CoNDIzroNE (spec. e disc.), è un pre
supposito, senza del quale la causa non potrebbe operare il suo effetto. V.
Causa. Per distinguere la condizione dalla causa gli scolastici dicevano, che
la condizione non costituisce principio efficiente, ma ope-. ra, o rimuovendo
l'ostacolo, o applicando il principio all'azione, come per esempio: l'uomo
vede, se tien aperti gli occhi: le due coppe d'una bilancia si equilibrano, se
son gravate dello stesso peso. Per esporre con maggior chiarezza la differenza
tra la causa e la condizione, valeva meglio dire che la condizione è una
relazione di una cosa ad un'altra, stabi lita dalla mente, la quale nulla aggiu
gne al principio efficiente dell'azione. Da ciò segue, che se la relazione è
presa da una qualità estrinseca alla cosa, la con dizione non ha nulla di
comune colla cau sa; ma se la mente ponesse in condizione lo stesso principio
efficiente, allora la cau sa s'identificherebbe colla condizione. In fatti
nell'esempio della bilancia l'eguaglian za depesi è causa e condizione insieme
dell'equilibrio. Così ancora la vita può essere conside rata come causa e
condizione del moto; la potenza come causa e condizione del l'azione. E siccome
la volontà può sce gliere qualunque motivo per determinarsi all'azione; così
possono essere considerate come cause e condizioni insieme tutti i mo tivi,
senza i quali la volontà non si sa rebbe determinata. Tal'è l'indole della con
dizione sine qua non. CoNFIDANZA, e CoNFmENZA (spec. e prat.), ferma
aspettativa della verità del proprio giudizio, della propria credenza, o del
fatto altrui. - - - È un sentimento spezialmente suggerito da quel genere di
autorità, cui prestiamo una intera fede. V. Autorità, Fede. - CoNFIGURAZIONE
(spec.), forma esteriore de corpi, la quale è determinata dalle superficie, che
li circoscrive. V. Figura, ASuperficie. - Varie sono state le opinioni del
filosofi intorno alla maggiore o minor influenza 15 che la figura ha potuto
avere nella con formazione decorpi. Verisimile forse è l'opinion di quelli i
quali affermano, essere gli stessi tutti gli elementi decorpi, e che la loro
specifica differenza nasca dalla va ria situazione e configurazione delle parti.
L'oro e il piombo per esempio son com posti delle stesse parti primitive, e la
loro differenza nasce dal diverso ordinamento delle parti medesime: di qua il
famoso detto di Cartesio, datemi della materia e del moto, ed io formerò un
mondo; detto il quale debb'essere inteso, non che la materia non fosse creata,
e per essere ordinata non avesse avuto bisogno d'un primo Fattore, ma sì bene
nel senso, che quel Supremo Fattore adoperò solamente la figura e il moto come
instrumenti e mezzi della sua composizione. Ma, o che si ammettesse questa,
ovvero un'altra ipotesi, conosceremmo però la na tura della materia, e potremmo
risolvere le insolubili quistioni, che nascerebbero da ciascuna delle ammesse
ipotesi? Gli ele menti primitivi della materia son essi cor pi, ovvero sostanze
di altra natura? Se si risponde che son corpi, la medesima qui stione farassi
pe loro componenti: e se si dice che non son corpi, si domanderà co me potrà
formarsi un corpo con quel che corpo non è. E quando anche loro si con cedesse
la qualità del corpi, domandereb besi d'onde nasce la coesione delle parti, che
li rende duri ed impenetrabili, se dal l'attrazione, se da altra forza, se da
un fluido, se da una virtù primitiva, ciascu na delle quali supposte cause
sarebbe in capace d'una adequata definizione. Da ciò risulta, che noi
conosciamo ap pena la superficie de corpi; e che se la natura ci ha dato il
potere di sciorre i loro tessuti per conoscerne le proprietà utili a noi; non
però ci ha dato quello di ricom porgli. La conseguenza dunque è, che l'uso di
tutti i corpi formati dalla natura ci è dato in grazia de'nostri bisogni; e non
per chè ella avesse creduto necessario o utile il farci conoscere la interna
loro struttura. CoNFORMAZIONE (spee. ), la struttura e la disposizione delle parti,
dalle quali ri sulta il composto del corpi. Le difficoltà esposte nello
articolo con figurazione son comuni ancora a questo. Non pertanto allorchè la
mente forma il concetto del composto, passa necessaria mente a quello del
componenti, de quali non potendo conoscere la natura, li con cepisce
ipoteticamente, e dà loro le deno minazioni di atomi, di corpuscoli, e di
molecule. V. queste voci. CoNFORMITA' (dise. e prat.), eguale di sposizione
d'indole, o di qualità in diversi subbietti. - - -. Differisce dalla
somiglianza, da che que sta si desume dall'apparenza, e quella da una più
matura conoscenza delle qualità de subbietti medesimi. CoNFUSIONE (spec. prat.
e disc.), tutto quel che manca d'ordine o di chiarezza. V. Ordine. La
confusione è un vizio, che può nascere da imperfezione o di natura, o di abito
in tellettuale o logico. E però può scontrarsi o nelle facoltà, o nelle idee, o
nel discorso. CoNFUso. V. Idea. CoNFUTAZIONE (disc.), parte del discorso colla
quale rispondesi alle obbiezioni del l'avversario, e si sciolgono le difficoltà
dell'argomento. V. Argomento. CoNGETTURA (disc.), opinione, o anti cipato
giudizio di cosa ignota, formato sopra apparenti indizi di verità. E meno della
presunzione. V. Apparenza, Pre sunzione. CoNGENERE (disc.), termine di relazio
ne, che conviene all'individuo dello stesso genere. È vocabolo adoperato dal
Salvini e dal Magalotti. V. Genere. CoNGIUNTIvo, CoNIUNTIvo, e SUBIUNTIvo
(dise.), modo del verbo, così detto dal l'essere sovente preceduto da una
congiun zione. V. Verbo. CoNGIUNZIONE (dise.), la parte del di scorso, che lega
insieme le proposizioni, e i periodi de quali è composta. CoNGRUENZA (spec.),
vocabolo proprio della geometria, o sia del materiale com baciamento di due
superficie, adoperato per esprimere la perfetta conformità di qualità, o
d'idee. V. Conformità. CoNIUGAZIONE (disc.), l'ordinata parti zione delle
diverse terminazioni del ver bo. V. Verbo. CoNNESSIONE (spec. e dise.), quel
lega me di ragionamento, che nasce da una seguenza di relazioni. V. Relazione.
Se questa seguenza sia tra cause ed ef fetti, del quali gli uni dipendano dagli
al tri, la connessione che da essi risulta, prende ancora il nome di
concatenazione. V. Causa, Concatenazione. Connessione dicesi pure la serie de
ca ratteri simili, che formano la gradazione tra le spezie degli Esseri, e ciò
nel senso - - - - -, di coloro, i quali ammettono la legge di continuità. V.
Continuità. ConosceMZA, proposizione vera concepita dall'animo, o acquistata
per mezzo del ra gionamento. Cotesto vocabolo abbraccia l'idea, la nozione, e
il giudizio, e per conseguente è più generico di ciascuno di essi. Le
conoscenze, o sieno le verità par ticolari, son gli elementi dell'umana co
gnizione. V. Cognizione. CoNosCENZA DI SE MEDESIMo, è la cardi nale verità della
filosofia, anzi è la som ma del sapere umano. È il nosee te ipsum degli
antichi, precetto comune alla filoso fia speculativa e alla pratica. Imperocchè
doppio è l'uso che di esso facciamo; sia investigando le qualità dell'animo, le
sue facoltà, e in una parola la sua capa cità; sia esaminando quel che dobbiamo
praticare. La prima parte risguarda la filosofia intellettuale, la seconda la
preti ca. La natura ha voluto che noi divenis simo prima pratici moralisti, e
poi sa pienti speculativi, e però ci ha dato lo specchio della coscienza, nel
quale guar diamo noi stessi, e pesiamo il merito, o il demerito d'ogni nostra
azione. V. Co scienza. Ma la coscienza ci rende del pari con sapevoli di tutte
le operazioni dell'intel letto, e dee servirci di guida nella inve stigazione e
nella conoscenza di tutte le qualità, di cui l'anima è dotata. Sebbene la
generalità del filosofi, incominciando dalla più rimota antichità, avesse cono
sciuto e predicato l'importanza di tal pre cetto; pur tuttavolta la filosofia
specula tiva è stata tarda nel seguirlo, o per lo meno, si è da esso
frequentemente de 10 - 100 – viata. Sarà dunque merito d'ogni scrit tore il
ricordarlo, e appoggiarlo all'auto rità del primo de sapienti dell'antichità,
cioè di Socrate, che così definì l'arte di conoscere se stesso: se l'animo vuol
co noscere se stesso, debbe in se riflettere, se spezialmente in quella virtù
sua, in cui è riposta la sapienza, il che ha in se del divino. E però il
riflettere nel l'animo ci mena a conoscere ad un tem po tutto quel, che in noi
è di divino, cioè Dio e la sapienza. Tanto importa al conoscere se stesso.
Consapevolezza (spee), la contezza che abbiamo d'un fatto interno, del quale di
ciamo essere consapevoli. È adoperato dal Bellini e dal Redi. - - È proprio
della coscienza, la quale ac compagna e ritiene le idee e le nozioni che
provengono così dalle sensazioni, come dall'interna osservazione. V. Coscienza.
CoNsEcuzioNE (spec.), vocabolo adope rato da Leibnitz per esprimere quel grado
d'immediata deduzione, di cui è capac l'intelligenza del bruti. - « Questi,
dice Leibnitz, son sempre empirici, e si regolano solamente per l'e- sempio;
dapoichè, per quanto si può di essi giudicare, non mai pervengono a for mare
proposizioni necessarie. Gli uomini per contrario son capaci di scienze dimo
strative, nel che appunto è riposta l'in feriorità del bruti, a quali è
concesso sol tanto il fare semplici consecuzioni. Cotesto vocabolo sembra che
debba es sere ricevuto nel linguaggio filosofico, se pure non ne sia proposto
altro più adatto, per esprimere quella spezie di conseguenza, che non è figlia
del ragionamento, ma è l'effetto necessario della percezione. Esso non è
estraneo alla lingua italiana 9 co mechè questa l'adoperi soltanto come un
derivato del verbo conseguire. Ma che vie ta estenderne il significato ad
un'azione propria dell'intelligenza de'bruti? Una tale ampliazione sarebbe
ancora fondata nel l'autorità di Cicerone, da cui pare che Leibnitz lo
prendesse: in iis in quibus earilus perspicuus est, oportet consecu tione uti (de
invent. 1. c. 4o). CONSEGUENTE (disc.), la proposizione che corrisponde alla
premessa, astrazion fatta dalla verità o falsità della conseguenza. È vocabolo
correlativo di antecedente che conviene alla proposizione che prece de. V.
Antecedente. - - - CoNSEGUENZA (dise. ), conclusione che si deduce da più
proposizioni legate insie me per necessaria connessione tra loro. V.
Conclusione: E proprio della forma sillogistica, la quale costa di premesse e
di conseguenze. V. Premessa, Sillogismo. CoNSIDERAZIONE (spec.), disamina delle
qualità d'un subbietto, cui abbiamo por tato attenzione. V. Attenzione,
Qualità. La considerazione presuppone l'attenzio ne, ed è un grado per lo quale
si giu gne alla conoscenza del subbietto, o al giudizio delle qualità sue.
CoNSIGLIo (spec.), suggerimento della propria, o dell'altrui ragione per
determi nare la volontà all'azione. V. Delibera zione, Volontà. Il consiglio
parte dalla luce del vero, di cui è essenzialmente dotata la ragione, e serve a
rischiarare, o a temperare la forza del principi di azione, che la natura - - -
- - - 101 - ha riposto negl'istinti, negli appetiti, e negli affetti. V.
Affetto, Appetito, Istinto. Consiglio pure dicesi qualunque sugge rimento della
ragione altrui, nel quale caso il nostro assentimento è figlio dell'au torità.
V. Autorità. - º - - - Consolazione (prat.), conforto che nelle sventure diamo
a noi stessi, o agli altri. La sapienza somministra i più efficaci argomenti
contra il dolore e le sventure che circondano la vita: distingue ella i mali,
che ci vengono dalla nostra natu ral condizione, dagli altri che ci fa la for
tuna: risguarda i primi come l'esperimento della vita, e sprezza i secondi,
come a se stranieri. Omnia illa, dice Seneca, quae in me indulgentissime
conferebat (for tuna) pecuniam, honores, gloriam, eo doco posui, unde posset ea
sine motu meo repetere: intervallum inter me et illa magnum habui: itaque
abstulit illa, non avulsit. Meminem adversa fortuna comminuit, nisi quem
secunda decepit. (de consol. ad Helviam). Non è argomento tanto trattato dagli
antichi e da moderni sapienti, quanto quel de rimedi contra le avversità.
Prendia mone il compendio da Cicerone: Qui re rum naturam, qui vitae
varietatem, qui imbecillitatem generis humani cogitat, non moeret cum haec
cogitat, sed tum vel maxime sapientiae fungitur mune re. Utrumque consequitur,
ut et con siderandis rebus humanis proprio philo sophiae fruatur officio, et
adversis ea sibus triplici consolatione sanetur: pri mum quod posse accidere
diu cogitave rit, quae cogitatio una maxime mole stias omnes extenuat et
diluit, deinde, quod humana ferenda intelligit: postre mo, quod videt malum
nullum esse, nisi culpam , culpam autem nullam esse, cum id , quod ab homine
non potuerit praestari, evenerit. (Tusc. III. c. 16). CoNsoNANTE (disc.),
lettera dell'alfabe to, che rappresenta il suono delle vocali, modificate nel
loro passaggio dalle labbra, o dalla lingua, o da denti, o dalla re spirazione
delle narici, o dalla gola. La gramatica generale fa l'analisi del suono loro,
e dimostra com'esse nascano dal di verso movimento delle varie parti della
bocca. Son dette consonanti, perchè non possono far suono, se non sieno unite
alle vocali. V. Vocale. CoNsoNANZA (disc. ), cadenza di voce simile nelle
frasi, negl'incisi, o nel perio di, ehe secondo il diverso gusto delle lin gue
forma parte dell'eufonia della parola. Gli antichi, e soprattutto i latini ave
vano le loro regole di consonanza, delle quali Quintiliano dà diversi esempi.
Le lin gue moderne han pure le proprie conso nanze nella prosa, le quali son
regolate dall'uso. Ma oltre a queste noi le abbia mo moltiplicate ne'versi,
introducendovi la rima. V. Rima, Verso. CoNSUETUDINE (prat.), usanza, per la
quale ci accostumiamo a fare, o a sop portare qualche cosa, comechè incomoda o
dolorosa. Differisce dall'abito per due essenziali caratteri: 1.º perchè
l'abito pre suppone per suo principio un'azione vo lontaria : 2.º perchè
riferendosi l'abito alla volontà trova il suo significato pro prio, nelle
operazioni intellettuali, più che nelle meccaniche o sensitive. Per con trario
la consuetudine ripete il principio suo dalla parte sensitiva di noi, o sia
dalla forza o virtù, dataci dalla natura, di - 102 - sopportare e di vincere le
sensazioni mo: leste, quando crediamo che per esse pos siamo conseguire un
bene, o evitare un male maggiore. Cotesta forza o virtù, è quella che dicesi
assuefazione. V. Abito, Assuefazione. CoNTEMPLAZIONE (spec.), intensa rifles
sione sopra le verità, che ci manifesta l'interno senso dell'anima. V. Anima ,
Riflessione. CoNTIGUITA' (ontol.), quel contatto delle superficie di due corpi,
che non confonde la rispettiva loro estensione. È una definizione che
appartiene alla Fisica. Fu usurpata dall'antica ontologia, per ispiegare che
l'esistenza di due corpi contigui non esclude l'esistenza d'un terzo, che venga
ad interporsi tra loro; e per di mostrare la differenza che passa tra 'l con
tiguo e il continuo. L'idea della contiguità trasportata da fatti sensibili
agl'intellettuali, ha dato nascimento a molti sofismi ed erro ri. Per una falsa
similitudine ricavata dal moto, e dalla vicendevole azione de'corpi contigui,
si è preteso argomentare alla ne cessità del contatto degli obbietti cosensi, e
delle impressioni di questi nella sostanza pensante. Rimandiamo dunque la
contiguità alla fisica, e astenghiamoci da qualunque si militudine delle cose
materiali per ispie gare i fatti dell'intelletto. CoNTINENZA (prat.), virtù per
la quale l'uomo riesce a temperare gli appetiti sen sitivi. V. Appetito.
Cicerone definì la continenza, pars temperantiae, per quam cupiditas con silii
gubernatione regitur, e ridusse a due le virtù delle quali debb'essere fre
giato l'uomo publico, l'astinenza, o il disinteresse, e la continenza. V. Disin
teresse, , - CoNTINGENTE (ontol.), quel che poteva non essere, o essere
diversamente da quel che è; ovvero quel che è possibile. Astruse e ambigue sono
le distinzioni fatte dagli scolastici, intorno alle diverse sorte del
contingente. Distinguevano essi il contingente quoad esse, o sia, che quel che
esiste, poteva non esistere: il contingente quoad acci denº, cioè tutto quel
che è mutabile nel modo di essere: il contingente aequaliler, cioè l'eguale
possibilità dell'esistere e del non esistere; il che si verifica in tutte le
cose che dipendono dalla nostra volontà: il contingente ut plurimum, che dicesi
delle cose le quali ordinariamente avven gono, comechè talvolta si verifichi
una qualche eccezione: il contingente ut raro, o sia quel che può avvenire o
per una straordinaria eccezione di natura, o anche per caso. Rendiamo più
semplice l'idea del con fingente per quella del suo contrapposto, che è il
necessario. Tutto quel che può intervenire per ef fetto della libera volontà di
un Essere in telligente, è contingente; siccome per con trario, quel che niuna
volontà può impe dire che sia, è necessario. Per conseguente tutte le cose che
hanno avuto un comin ciamento per la volontà del Creatore sono contingenti; e
per contrario l'esistenza del Creatore, che non riconosce altra causa fuori di
se, è necessaria. Contingente è pure tutto quel che inter viene per effetto
della libera volontà del l'uomo. Ma tra 'l contingente umano e il naturale v'ha
la seguente differenza. - 105 - L'umano può cessar di essere, ed è mutabile per
effetto di quella stessa vo lontà che gli dà l'essere; laddove il natu rale
poteva non esistere, ma stabilite una volta dal Supremo Fattor di tutte le cose
le determinazioni, dalle quali nasce l'es sere, l'effetto di quelle
determinazioni di viene necessario, nè potrebb'essere mutato se non mutate le
cause che lo producono. Così, poteva Dio non creare il sole o gli altri
pianeti; ma avendo quelli creato con determinate leggi, debbono i pianeti se
condo queste leggi apparire sul nostro oriz zonte, e compiere il corso delle
orbite loro insino a che quelle leggi non vengano ri vocate dalla stessa
Suprema volontà che le ha dettato. Similmente, poteva Dio non creare la
materia, ma avendola creata con date determinazioni, ne risultano talune leggi
necessarie, delle quali gli effetti non possono essere diversi di quel che
SOnO. Da tali prenozioni nascono molti corol lari, utili a rimuovere la più
parte delle ambiguità, che il linguaggio metafisico scolastico aveva introdotto
nelle nozioni del contingente e del necessario. 1.° Dal contingente naturale
nasce un ordine di cose, necessario per le deter minazioni che hanno dato loro
l'essere. 2.” Quest'ordine è figlio d'un'altra causa superiore, nella quale sta
il vero neces sario assoluto. - a 3.” L'ordine dunque delle cose naturali è
contingente nella sua origine, ma è ne cessario in quanto a suoi effetti, e per
conseguente immutabile. - - 4.” La sua immutabilità è condizionale, e non
assoluta, perchè trova la ragione sufficiente di se nella volontà e nella sa
pienza del suo Autore. 5.” Per contrario il contingente umano è mutabile, come
mutabile è la volontà, che determina l'essere da lei prodotto. 6.° Tanto nel
contingente umano quanto nel naturale, se questo vocabolo si ado pera per
esprimere l'essenza d'una cosa attualmente esistente, altro non vuol dire, se
non che, quella tal cosa che ora esi ste, ha avuto un cominciamento, e però
poteva non esistere; e quando lo stesso vo cabolo si adatta alle cose future,
il signi ficato del contingente si confonde intera mente col possibile. V.
Determinazione, Mecessario, Possibile. Le cennate conclusioni spiegano altresì
in qual senso i vocaboli contingente, e necessario sieno stati applicati alle
idee e alle nozioni dell'intelletto. Contingenti so no state chiamate le verità
di fatto, le quali provengono da sensi; e necessarie quelle che nascono dalla
cognizione della causa prima, o dall'ordine delle cose na turali, come le
verità geometriche e le aritmetiche. Coteste verità sono state an cora chiamate
eterne, ma impropriamente. Niuno ha sinora distinto il doppio genere del vero necessario,
l'assoluto cioè che è la causa prima, e il secondario, il quale dipende dalle
sue determinazioni, o sia dall'ordine della natura. Le verità, che da
quest'ordine dipendono, sono necessa rie per una necessità secondaria, ma non
sono eterne; perchè eterni non sono nè la materia nè l'ordine che la regge ; se
pure colla voce eterno non si volesse di re, che quelle verità hanno sede nella
sa pienza stessa di Dio, che è eterna. V. E terno. CoNTINUITA' (spec. e
ontol.), l'immediata e non interrotta congiunzione delle parti d'un corpo, la
quale impedisce l'interpo nimento di altre parti. - 104 - L'idea della
continuità si scambia con quella della estensione, o piuttosto il con tinuo è
una proprietà dell'esteso. V. Esten sione. Legge di continuità è un principio
pre supposto da Leibnitz per dimostrare, che la natura, nella serie tanto degli
Esseri sensibili, quanto degli spirituali non ab bia operato per salto. Nelle
cose materiali colesta legge fa sì, che un Essere non passa mai da uno stato
all'altro, senza per correre tutti gli stati intermedi tra quello che lascia e
quello che prende, o sia passa sempre dal piccolo al grande per gradi, o per
parti, e così per l'opposito. Il moto non nasce immediatamente dalla quiete; nè
una linea o sia una lunghezza si per corre da qualunque corpo, senza essere
passato per le linee più piccole delle quali quella è composta. - - Un tal
principio fu anche dallo stes so autore applicato alle operazioni della mente,
per modo che le percezioni av vertite mediante l'attenzione, vengono per gradi
dopo le più piccole non avvertite, nel che la sua dottrina si riferisce alla
teoria delle percezioni insensibili. V. Per cezione. Lo stesso principio fu da
lui applicato alle sue monadi, o unità reali, il che appartiene alle ipotesi metafisiche.
V. Mo made, - - CoNTINUo (spee. e ontol), il composto di parti coerenti, che
non ammettono l'inter ponimento di altre tra loro. V. Continuità. L'idea del
continuo, applicata allo spa zio, fa sì che ce l rappresentiamo, come un che di
esteso, e d'immenso, V. Im mensità, Spazio. E applicata al tempo, si confonde
colla durata. V. Tempo, Durata. a CoNTRADDIZIONE (spee. ontol e dise.),
un'affermazione e una negazione tra loro: opposte. V. Affermazione, Megazione
Principio di contraddizione è stata det ta la proposizione la quale enuncia
essere impossibile, che una cosa sia e non sia nel medesimo tempo. Cotesta
verità è un principio ovvio di ragionamento, che deduciamo dall'esistenza di
noi stessi, e delle cose esteriori; è una conclusione immediata ed intuitiva
dell'esi stenza, non potendo l'animo concepire, che una cosa sia e non sia nel
medesimo tempo, che esso pensi e non pensi, che Vegga e non vegga, che abbia e
non ab bia la coscienza della volontà, e di tutte le altre facoltà sue. pt Ciò
non ostante la filosofia ne ha for mato un assioma, o sia un principio di
dimostrazione per escludere le ipotesi con trarie alla realità delle cose.
Molto se ne valse Aristotele e tutta la scuola del peri patetici: è uno de
principali fondamenti della logica, dapoichè per esso dimostrasi che lo stesso
predicato non può nel mede simo tempo convenire e non convenire allo stesso
subbietto, sotto la medesima deter minazione. Dello stesso principio si servì
Cartesio per dedurne la cognizione dell'io, dapoichè chi dubitasse della sua
esistenza, avrebbe di questa una pruova nello stesso suo dubitare. Così può
dirsi, che il prin cipio della contraddizione è il fondamento di tutto l'umano
ragionamento, del pari che di tutte le verità necessarie, o sia di quelle che
non possono essere altre di quel che sono. Per esso escludonsi le ipotesi
contrarie alla realità delle cose, e dimostrasi il vero, scoprendo il falso :
da esso ancora trag gonsi tutti gli argomenti atti a dimostrare la convenienza
del predicati essenziali ai - 105 - subbietti. V. Essenza, Mecessario, Pre
dicato. È pure il fondamento delle proposizioni identiche, dapoichè tanto è
dire che A è A, che A non è B, che quel che è, è, quanto l'enunciare come
impossibile, che A sia e non sia A nel medesimo tem po. V. Identico,
Proposizione. CoNTRARIETA' (dise.), opposizione di due proposizioni, delle
quali una afferma, e l'altra nega la stessa cosa. Contrarietà pure dicesi la
ripugnanza e l'incompatibilità di due qualità, che non possono stare nel
medesimo subbietto; di due subbietti, che non possono stare nel medesimo
genere; di due affetti o senti menti di cui uno esclude l'altro; e di due
azioni, delle quali una distrugge l'altra. Gli scolastici facevano varie
categorie delle cose contrarie, le quali in somma si riducono ad una di quelle
che abbiamo quì divisato. a CoNTUMELIA (prat.), ingiuria che im porta disonore
ad alcuno per parole, o per fatti. È più del convizio. V. Convizio. CoNvENIENTE
(spec. e prat.), quel che ha conformità con un'altra cosa, con cui vien
paragonata. Il conveniente nel linguaggio della filo sofia pratica ha un senso
generale, che abbraccia il vero, il giusto e l'onesto. V. Convenienza. -
CoNvENIENZA (spec. e dise.), eguaglianza o somiglianza di due obbietti
paragonati tra loro. V. Comparazione. Applicata alle idee esprime la confor
mità che aver possono due obbietti del pensiero, considerati a rispetto così
delle qualità, come del modo loro di essere. V. Modo, Qualità. È termine
consecrato dalla filosofia ai giudizi, che pronunziamo intorno alla ve rità o
falsità di una proposizione, nel quale significato la convenienza equivale a ve
rità. V. Verità. Loche definì le umane conoscenze per la percezione della
connessione o conve nienza tra due delle nostre idee, e ridusse a quattro le
diverse spezie di convenienza, che si possono ravvisare tra le idee, cioè
l'identità o la diversità, la relazione - la coesistenza o la connessione
necessa ria, e l'esistenza reale. Esempi di que sta partizione sono: 1.º ll
turchino non è il giallo, è disconvenienza d'identità: 2.º due triangoli a basi
eguali posti tra due parallele sono eguali, è convenienza di relazione: 3.º il
ferro riceve impres sione dalla calamita, è convenienza di coesistenza: 4.º Dio
esiste, è convenien za di esistenza reale. V. Cognizione, Re lazione. Abbiamo
già detto altrove della poco utilità di tali categorie, nelle quali son ca duti
quegli stessi, che le hanno rimpro verato a peripatetici, V. Categoria.
CoNvERsIoNE (disc.), termine logico, per lo quale dinotasi la trasmutazione
d'una proposizione in un'altra, che prende per suggetto il predicato, e per
predicato il suggetto della prima. V. Predicato, Pro posizione. La conversione
può farsi o tra due pro posizioni particolari affermative, o tra una
particolare e una universale, o tra due universali, secondo le regole che danno
i logici. La conversione delle particolari avviene, quando si può fare la
stessa af, fermazione del predicato e del subbietto, 14 - 106 – e sempre che
l'uno abbia un significato particolare o eguale a quello dell'altro, come per esempio:
qualche uomo è giu sto: la sua conversa è, il giusto è pro prio di qualche
uomo. La conversione della particolare e della universale si fa, trasmutando
nel subbietto la nota di par ticolarità che è nel predieato, come per esempio:
l'uomo è animale e sua con versa, uno degli animali è l'uomo. La conversione
infine delle universali si fa, conservando la stessa generalità in ambo i
termini, purchè quello dell'uno non sia maggiore dell'altro, come per esempio:
gli uomini sono Esseri ragionevoli, sua conversa, gli Esseri ragionevoli sono
uo mini. V. Affermativo. CoNvizio (prat.), detto ingiurioso, vero o falso che
sia. Se il convizio è falso, incorre nella nota di calunnia. V. Calunnia.
CoNvizIONE (spec. e disc.), assentimento dell'animo ad una proposizione
dimostrata, o per se stessa evidente, che è accompa gnato dalla certezza della
sua verità.V. As sentimento, Certezza, Vero. CooRDINARE (spec. e disc. ), far
en trare le cose nell'ordine che loro conviene. V. Ordine. - Il coordinare
presuppone la nozione del l'ordine già noto, o stabilito. CooRDINAZIONE (spec.
e disc.), l'ope razione del coordinare. - È termine adoperato dal Segneri nel
senso di collocamento in luogo eguale. CoRAGGIo (prat.), virtù, per la qua le
la ragione o l'immaginazione vince il pericolo, il dolore, e per sino l'amore
della esistenza. V. Dolore, Esistenza, Virtù. La ragione e l'immaginazione non
so lamente possono essere ciascuna madre del coraggio; ma danno a cotesta virtù
una tinta, o un carattere diverso, secondo chè dall'una o dall'altra proviene.
Di qua nasce la distinzione tra la bravura e il coraggio propriamente detto, o
sia tra 'I coraggio d'istinto, e di ragione. Quello prende il vigor suo dal
temperamento e dalla forza dell'immaginativa: questo dal la ragione e dal vivo
sentimento dell'obli gazion morale: quel coraggio è alimen tato
dall'emulazione, dall'amor della ce. lebrità, o dall'ambizione: questo dal puro
amor della virtù : l'uno si sostiene alla vista dell'inimico, delle armi, e
degli spettatori, ma si perde nelle infermità, nelle sventure, e sovente ancora
nelle an gosce della morte; laddove l'altro tran quillo e sereno, vede i mali e
i pericoli quali sono, gli attende, e gli affronta con quella indifferenza, che
mostrar non sa all'aspetto degli altrui mali. Non è già che in molti casi
l'esaltamento dell'imma ginazione non possa accoppiarsi alla fer mezza della
ragione, e produrre esempi di coraggio eroico, ne quali la costanza trascende
ancora i confini della umana na tura; ma tanta forza d'impassibilità non può
esser sostenuta, se non per la inter venzione d'una causa soprannaturale, che
vinca gli ostacoli della sensibilità fisica. Nulla è nuovo nel mondo, e la
storia è ricca di esempi d'ogni virtù, e d'ogni vizio! Delle tre spezie di
coraggio, che abbiam divisato, cioè la prodezza, il co raggio della ragione, e
l'eroico; la pri ma è illustrata dagli esempi della virtù militare, che gli
uomini non cesseranno – 107 - mai di ammirare, come la sorgente della celebrità
e della gloria. V. Gloria. Delle altre due, perchè più rare, più utili, e più
onorevoli all'umana natura, giova tramandar gli esempi, come scin tille
luminose per la colta umanità. Del coraggio della ragione niun esempio è de gno
di maggior ammirazione della morte di Socrate, di cui Cicerone dice: cum paene
in manu jam mortiferum illud le neret poeulum, locutus ita est, ut non ad
mortem tradi, verum in coelum vi deretur adscendere. E se può prestarsi intera
fede all'esempio della morte di Te ramone; questi condannato a morte dai trenta
tiranni, bevve da sitibondo il mor tifero calice , e de resti ne asperse per
libamento la terra, come per un brindisi al suo principal nemico Crizia, motteg
giandolo propino hoc pulchro Critiae, del quale fatto lo stesso Cicerone disse:
lusit vir egregius extremo spiritu, cum fam praecordiis conceptam mortem
contine ret. Finalmente dell'eroico e divino co raggio, che trionfa della morte
e detor menti, non è la filosofia, ma la pura e santa religione, che ne
somministra gli esempi nella intrepida fine del martiri cri stiani. V. Martirio.
CoRpo (spec.), sostanza estesa, impe netrabile, inerte, passiva, indifferente
al moto o alla quiete, ma dotato di figura e di forma. V. Materia. Il corpo è
la materia seconda, nel senso degli aristotelici. Giusta l'opinione decen nati
filosofi era un composto di materia, di forma e di privazione. Secondo gli epi
curei era un aggregato di atomi grezzi e adunchi. Secondo i cartesiani non è,
se non una porzione di estensione. V. Atomo, Estensione, Forma, Privazione.
Secondo i neutoniani, è un aggregato di parti solide, dure, pesanti, impenetra
bili e mobili, disposte per modo, che dalla diversa disposizione di esse nasce
l'indefi nita varietà delle loro forme, e quindi dei nomi che ad essi diamo.
Secondo Locke, non abbiamo della sostanza del corpi una idea più chiara di
quella che abbiamo de gli spiriti, comechè inchini egli alla dot trina degli
atomi. Secondo Leibnitz, la ma tura corporea non ha elementi noti, nè può
essere spiegata per la composizione di altri corpi più piccioli ed omogenei del
compo sto, dapoichè la mente si perderebbe nel l'indefinita suddivisione, di
cui i compo nenti sarebbero capaci. Per la qual cosa, non potendo egli spiegare
fisicamente la sostanza del corpi, ricorse all'ipotesi meta fisica delle unità
reali, o sia delle mo nadi, le quali separano nella natura i cor pi dalla
materia bruta. V. Monade, Unità. Dalla difficoltà di spiegare la sostanza de
corpi, passarono taluni filosofi della tra scorsa età a rivocare in dubbio la
loro esistenza materiale. Partendo costoro dal principio della filosofia
cartesiana, che non ammise altra certezza fuori dell'esistenza dell'Essere
pensante, e trattando da ma terialisti coloro, i quali ammettevano l'esi stenza
decorpi esteriori, cangiarono il dub bio di Cartesio in una assoluta negazione
della realità loro. Credettero in somma, che essendo l'anima spirituale, e non
aven do le idee degli obbietti esterni nulla di comune nè di analogo cogli
obbietti stessi; ne derivasse che le idee non possono es sere prodotte dagli
obbietti; imperocchè l'ob bietto d'una idea non può essere se non un'altra
idea, e per conseguente non può essere una cosa materiale. Soggiunsero che
l'obbietto dell'idea, che noi ci formiamo de corpi, è l'idea stessa che ne ha
Dio, n - – os – idea che affatto non somiglia, nè somigliar potrebbe a corpi
medesimi. Per tal modo Malebranche e Berkeley furono gli antesi gnani di quella
famosa dottrina, cui Hume diede l'ultima mano, negando la realità delle idee e
dello spirito stesso. V. Scettico. Questo cenno delle opinioni intorno alla sostanza
o natura decorpi, dimostra come dal desiderio di spiegare le cause ignote del
fenomeni naturali, si giunse in fine a negare la realità del fenomeni stessi.
Così, l'ignorare come siam fatti, e come veg giamo o sentiamo, divenne una
ragione per negare l'essere, il vedere, e il sentire. In un significato più
speciale, intendonsi per corpi le parti della materia organiz zata, o sieno i
corpi organici, che si di stinguono dagl'inorganici. I corpi organici, e tra
questi l'umano, posson dirsi il capo lavoro della natura, dapoichè contengono
il più sublime parto della sua sapienza, la gradazione di tutte le forme, delle
quali la materia è capace, il saggio di tutte le forze, che un principio attivo
può comuni carle, il saggio infine degli elementi delle macchine e
degl'instrumenti tutti, co'quali può la mano dell'uomo giugnere persino a
muovere le grandi masse della natura. La contemplazione delle innumerevoli spe
zie del corpi organici svela all'uomo la sa pienza infinita del Creatore,
insieme colle prime nozioni delle scienze e delle arti utili alla vita. Quis
vero opifex, esclamò Cice rone, praeter naturam, qua nihil potest esse
callidius, tantam solertiam perse qui potuisset in sensibus, al che giova
ancora aggiugnere la grandiosa descrizio ne che fa Socrate, presso Senofonte,
della s:ruttura dell'uomo per guidare Aristodemo dalla cognizione delle cose
sensibili alla con templazione dell'Ente Perfettissimo. In ge merale la
fabbrica del corpo umano, se non può dirsi la più maravigliosa opera
dell'universo, è certamente per noi la più manifesta e immediata pruova della
infi mita sapienza di Dio, e del fine benefico delle opere sue. Così in ogni
tempo, a cominciar da Socrate, da Aristotele, da Galeno, e venendo insino a
moderni, lo studio e l'analisi delle parti del corpo uma no, delle proporzioni
loro, e delle leggi meccaniche che ne regolano le funzioni, han somministrato
alla teologia naturale i più luminosi argomenti della esistenza d'una prima
causa. Vorremmo, per onor della ragione umana, che l'ateismo e il materialismo
non avessero mai trovato fau tori tra fisiologi, nè tra gli astronomi, e che
costoro fossero stati sempre i primi ammiratori sì del piccolo, che del grande
mondo. Ma tal'è la fallacia del nostro ra gionare, che l'errore trae spesso i
suoi ar gomenti dalla luce stessa, che dovrebbe dissiparlo. L'ordine si astrae
dalla intelli genza del suo autore, e si cangia in me. cessità: i fenomeni si
separano dalla loro causa, e si attribuisce agli organi stessi la forza che gli
produce. V. Fenomeno, Mecessità. CoRPUscoLARE (spee. e ontol.), nome dato a
quella dottrina fisica, che ammette i corpuscoli come elementi della materia
configurata. V. Corpo, Corpuscolo. Cotesta dottrina è una riproduzione di
quella degli atomi, combinata non per tanto coll'esistenza della Divinità e
delle sostanze spirituali: nacque ella dalla ipo tesi, che il corpo altro non
fosse, che una massa estesa, conseguenze della qua le sono, la grandezza, la
divisibilità, la figura, il sito, il moto, o la quie te. Ma il corpo è per se stesso
incapace di qualunque azione, che non sia moto - 109 – locale, e molto
maggiormente di vita e di pensiero; il perchè divenne necessario supporre altre
cause intelligenti ed im materiali. Una tal filosofia abbagliò molti grandi
ingegni, in cima a quali è Car tesio, perchè dava un'apparente ragione della
meccanica struttura del mondo mate riale. Ma sopra qual fondamento ha ella
assunto, che gli elementi delle cennate proprietà fossero i corpuscoli? E come
può la ragione soffermarsi a questi elementi relativi, i quali per invisibili
ed insensi bili che fossero, presupporrebbero sempre altri componenti
primitivi? CoRPUscolo (spec. e ontol.), infima parte costitutiva del corpo.
L'esistenza del corpuscoli è una ipotesi fisica e metafisica insieme, per ispiegare
la composizione de corpi. Può dirsi ancora essere un concetto spontaneo della
mente per ispiegare la natura del composto. Im perocchè coll'analisi, che ne fa
il pensiero arriviamo a primi componenti, o sia alle prime particelle che
debbon essere insepa rabili, e dall'aggregato delle quali risul tano la forma e
la figura del corpi. Son queste le particelle, che i filosofi chiama rono
atomi, o corpuscoli. Noi le conce piamo come invisibili, e però la realità loro
sta nel solo nostro pensiero. Un tal concetto ci mena a stabilire un secondo
ordine di particelle sensibili, da cui co mincia per noi la composizione, e in
sino alle quali possiamo giugnere quando vogliamo scomporgli. Per distinguer
que ste da quelle, chiamiamo le seconde mo lecule. A queste fermansi la fisica
e la chi mica nella investigazione, che fanno dei primi componenti della
materia, e delle forze loro. V. Atomo, Composto, Mo lecula. CoRRELATIvo (disc.
), il subbietto, che ha con un altro una relazione, che noi consideriamo in
entrambi necessaria o co mune, per modo che l'idea dell'uno ri-, chiama
costantemente quella dell'altro. Il padre e il figlio, il marito e la moglie, i
gemelli, son voci correlative, allorchè consideriamo in essi la qualità che pro
viene dalla paternità, dal legame coniu gale, o dal comune concepimento. Non
bisogna confondere i correlativi co' con trapposti, comechè di questi ancora
l'uno richiami l'idea dell'altro. Il bianco e il nero, le tenebre e la luce, il
giovane e il vecchio, il simile e il diverso, son con trapposti e non
correlativi, perchè non hanno la stessa relazione tra loro, sebbene l'esistenza
dell'uno faccia necessariamente presupporre quella dell'altro. Se richia mansi
a vicenda alla mente, questo è l'ef fetto dell'associazione delle idee, la
quale avviene per diversi, e moltiplici motivi. V. Associazione, Contrapposto.
CoRRELAZIONE (disc.), astratto del cor relativo, e vale scambievole attinenza o
relazione, che risguardiamo come neces saria, o comune tra due subbietti.
CoRRUTTELA (prat.), l'estrema depra vazione del costumi. CoRRUZIONE (spec. e
prat.), la disso luzione de corpi. V. Corpo. È quel fatto di natura, per lo
quale tutte le cose materiali son menate a fini mento, o sia è l'operazione
opposta alla generazione o produzione degli Esseri cor porei: per questa i
corpi si formano e divengono capaci di vita: per quella si scompongono e
cessano di essere quel che sono stati. Sebbene niuna parte della – 110 –
materia possa dirsi creata per la generazio ne, nè distrutta per la corruzione
(la quale scioglie soltanto la forma che determina le diverse spezie degli
Esseri); ciò non ostan te Aristotele, e tutti quelli i quali crede vano alla
eternità della materia, afferma rono esser due i principi di tutte le cose, la
generazione e la corruzione. Se la corru zione possa esser causa generatrice di
ta lune inferiori spezie di Esseri organici, è una quistione grave, di cui non
ha guari si è impadronita la Fisiologia, e intorno alla quale han variamente
sentito gli antichi e i moderni naturalisti. Gli animaletti infusori, i vermi e
gl'insetti, che nascono e vivono nello interno degli animali e delle piante, o
che si formano per la putrefazione o seomposizione delle sostanze vegetabili e
animali , sommini strano oggidì un nuovo argomento in favor della generazione
spontanea, equivoca, o eterogenea decennati Esseri. V. Gene razione. CoRTESIA
(prat.), benignità di animo, dimostrata con parole e con altri esterni modi. È
più dell'affabilità e della civiltà.V. que ste voci. - CosA (spee. e dise.),
tutto quel che è, o può essere; o sia quello, cui corrisponde una qualche
determinata nozione. V. Es sere, Vozione. - Gli scolastici distinguevano l'ente
o l'Es sere dalla cosa. Chiamavano ente il sub bietto, considerato per la sua
esistenza; e lo dicevan cosa, se il concetto riferivasi alla qualità o essenza
sua. Cotesta distin zione può essere risguardata come utile alla chiarezza, e
alla precisione deconcetti filo sofici. V. Ente, Nella lingua latina il
vocabolo res ave va i suoi derivati, a quali fu dato un si gnificato coerente a
quello del nome ra dicale; il perchè la nozione della realità corrispondeva
esattamente a quella della voce da cui era astratta. V. Realità. Nell'uso
comune di tutte le lingue il vocabolo che corrisponde alla voce italiana cosa,
ha un significato generalissimo, il quale vien determinato dal suggetto stesso
del discorso. Il linguaggio scientifico, al pari del comune, ha bisogno di voci
in determinate, ma determinabili per sup plire alla insufficienza de vocaboli,
ed alla impossibilità di adattare un nome proprio ad ogni obbietto del
pensiero. Della ne cessità di siffatte voci sono esempi gli stessi vocaboli
generali, del quali fa uso la scienza, come quelli di obbietto, sub bietto,
sostanza, ed altri. E però il vo cabolo cosa può essere adoperato nel lin guaggio
filosofico per esprimere tutto quel che non può essere designato con un pro
prio nome, semprechè riceva dalla natura stessa del discorso una chiara
determina zione. V. Obbietto, Sostanza, Subbietto. CoscieNzA (spee. e erit.),
facoltà del l'anima, per la quale l'uomo è consa pevole della sua esistenza,
distingue il bene dal male, esamina le azioni sue, e giudica della qualità
loro. V. Azione, Esistenza, Facoltà. È propria e privativa dell'uomo, per chè
le sue funzioni presuppongono un agente morale, o sia libero ed intelligen te,
capace di riflettere in se medesimo, fornito di giudizio, e di ragionamento. E
però la coscienza è il primo di tutti i caratteri che distinguono l'uomo,
animale ragionevole, da bruti. Per enunciare nei più brevi termini possibili
cotesta diffe - 111 - renza, potrebbe dirsi, che gli animali si sentono, e
l'uomo si conosce. V. Agente, Niuna mozione è più ovvia all'uomo della
coscienza, e non pertanto per niuna altra come per questa, è stata la filoso
ſia più lenta a riconoscerne l'importanza, e a sceglierla come principio
investigatore dell'umana cognizione. Locke definì la coscienza, l'opinione che
noi stessi ab biamo di quel che facciamo. Per verità, non potevasi fare un
ritratto più povero della più luminosa delle nostre facoltà. Ma esso è altresì
fallace. La sua definizione esclude la realità e la certezza, dapoichè la
separa dal senso intimo, che n'è il prin cipio. Di vantaggio la confonde colla
per cezione, mentrechè la coscienza presup pone l'atto della percezione ed
abbraccia tanto questa, quanto tutte le altre opera zioni dell'anima.
Purtuttavolta intese Locke la necessità d'un vocabolo che esprimesse il
principal carattere di questa facoltà, che è appunto l'esser consapevole degli
atti del pensiero, e credette trovarlo nel nome inglese conseiousness, del
quale i fran cesi non hanno l'equivalente. A differenza della lingua francese,
l'italiana ha il ter mine equivalente nella voce consapevo lezza. Vuolsi di
tutto il concetto di Lo che intorno alla coscienza, ritenere soltanto quel che
concerne la necessità del cennato vocabolo. V. Consapevolezza. Prendiamo ora
dalla natura, o sia da noi stessi, la vera nozione della coscien za. Siccome
noi non abbiamo altro mezzo di conoscere il fine che la natura ha avuto
nell'averci dotato di tutte le facoltà pro prie della umana costituzione, se
non l'uso e la destinazione, cui le ha ella stessa indirizzate; così giova
prendere gl'inizi di cotesta analisi dalle funzioni, che la co scienza
esercita. Gli uomini tutti ricono scono la coscienza come la guida, anzi come
la direttrice e l'emendatrice depor tamenti loro. Esercita ella una tal dire
zione per virtù d'una luce, che le fa di stinguere il vero dal falso, e d'un
giudi zio severo, col quale discute e rischiara tutte le incertezze dell'intelletto
e della vo lontà. Cotesto giudizio precede, accompa gna, e segue l'azione, per
poi approvar la o disapprovarla. In somma la coscien za non solamente regola le
azioni, ma giudica del nostro fatto, ci assolve, ci condanna, ci premia
coll'interno contento dell'anima, e ci punisce col rimorso. Chi le ha dato una
potestà cotanto autorevo le? E chi ha comunicato a suoi giudizi la certezza e
l'evidenza di cui questi sono per loro essenzial carattere dotati? Di niuna
verità noi siam tanto certi, quanto di quella che acquistiamo per l'in terno
senso dell'animo. Per esso scopria mo l'errore del sensi, le suggestioni degli
affetti e delle passioni; per esso sogget tiamo ogni nostro giudizio ad una
preli minare disamina, onde accertarci, se l'ob bietto di cui giudichiamo, sia
o no alla portata delle nostre facoltà; se i sensi no stri sieno retti, ovvero
inceppati da un impedimento qualunque; se la volontà sia libera; e quando siam
certi ch'ella è sce vra d'ogni ostacolo, discerniamo il vero ed il giusto senza
tema di errore, e con tale assicuranza, che ogni altra dimostra zione prende da
lei la pruova della sua verità. Chi ha dato e chi poteva dare alle facoltà
finite dell'uomo l'infallibilità? La forza dunque e l'autorità della coscienza
provengono da una ragione antecedente e superiore all'uomo, la quale l'ha im
pressa in una delle facoltà dell'animo no stro. Cotesta conseguenza non isfugge
a chiunque sente e conosce se stesso; ma – 112 – se non tutti la confessano,
ognuno cer tamente nelle più importanti congiunture della vita si regola co
dettami della co scienza. V. Certezza, Infallibilità. Dal ritratto delle
funzioni, che in noi esercita la coscienza, scorgesi in lei un doppio
carattere, cioè di facoltà intellet tuale, e di principio delle nostre azioni.
Come facoltà intellettuale, ella è ispirata dal senso intimo, nel quale la
natura ha riposto il germe del vero, o sia di quel discernimento morale, per lo
quale noi raccogliamo tutte le idee del sensi e le nozioni della riflessione, e
le parago niamo co tipi del giusto e dell'onesto. Questi tipi sono appunto
quelle prime ve rità o principi, che sono connaturali al l'anima, e che la luce
della ragione ci rivela non prima ch'ella giugne allo stato di sua maturità. V.
Principio, Senso, Verità. - D'altra parte, come facoltà intellettua le , serve
di sprone e di alimento alla memoria e alla riflessione, congiugne il passato
col presente, e antivede il futuro. La connessione, che ella stabilisce nella
successione de pensieri e delle azioni, apre alla mente la nozione della durata
e del tempo, della unità, della continuità, e dell'identità del suo essere. V.
Durata, Futuro, Identità. La nozione della identità le rende pro fittevole
l'esperienza, e le somministra la cognizione delle relazioni tra le cause e gli
effetti, o sia del grande ed universal prin cipio della causalità. Cotesta
cognizione è quella, che le dà la norma per giudi care delle azioni future, per
leggere nel possibile, per ischivare il male, per pre disporre il bene, per
istabilire in somma tra l presente e il futuro quella stessa con nessione, che
ha sperimentato tra il pas sato e il presente. I germi di una tale co gnizione,
insiti nella coscienza, son quelli che fecondati dalla riflessione, e
sviluppati dall'abito generano quella virtù morale, che è la direttrice della
vita, cioè la pru denza. V. Causa, Causalità, Prudenza. Intanto a chi
profondamente mediti so pra gl'invisibili legami che ci guidano alla cognizione
del vero, non può non isfug gire un'altra grande verità, cioè che tra i doni,
dequali la natura ci ha adornato, il maggiore è quello, che apre la mente a
tanta cognizione del possibile e del fu turo, quanta è necessaria al retto
porta mento della vita, ed al conseguimento di quella felicità morale, cui
siamo destinati. Chi poteva dare all'anima, ristretta ne'can celli del sensi, i
principi della scienza del futuro, se non l'Essere Infinito che ha la
prescienza di tutte le cose? V. Pre scienza. - I materialisti han potuto
credere, che la materia fosse capace del pensiero, per la sola ragione che il
contrario non può essere dimostrato a priori. I filosofi sen sisti han potuto
concepire l'ipotesi, che l'onnipotenza di Dio avesse potuto comu nicare alla
materia una tal virtù. Ma gli uni e gli altri si arrestano innanzi a fe nomeni
della coscienza. Il dire che la ma teria conosce se stessa, muove se stessa, e
antivede le future relazioni di quelle leg gi alle quali obbedisce, è un
concetto che implica contraddizione, e che sconvolge i principi fondamentali
della ragione. Considerata in fine la coscienza, come un principio d'azione,
intervenendo ella nella deliberazione delle nostre azioni, in dirizzandole al
fine loro col senso del vero e del giusto, di cui è depositaria, e ri
schiarando la mente colla guida della spe rienza; non è chi in lei non ravvisi
la – 115 – - forza d'un istinto razionale, o sia della più efficace spinta, che
possa determinare la volontà, e indirizzarla a fini della na tura morale
dell'uomo. Le sue ispirazioni son quelle che ci dettano i nostri primi doveri,
che ci suggeriscono le nozioni ele mentari della giustizia, della ricompensa e
della pena, della lode e del biasimo, della virtù, del vizio, e
dell'obligazione morale. Il complesso di tutti questi attri buti della
coscienza menano la ragione a conchiudere che ella è un nume in noi presente, o
una luce divina, che si mo stra a chiunque sappia contemplarla. CosMocoNIA
(crit.), la dottrina che gli uomini formaronsi intorno all'origine e al
nascimento dell'Universo. V. Universo. Cotesta vecchia dottrina proponevasi di
spiegare la genesi del mondo per cause naturali, le quali presupponevano l'eter
nità della materia, o de suoi elementi. Fu il primo studio, che gli uomini
fecero della natura ; o sia fu la prima spiega zione, che la immaginazione
suggerì dei principi di tutte le cose. Cotesta spiega zione fu ricavata dalle
ipotesi, e ornata dalle finzioni; il perchè la cosmogonia di venne madre della
mitologia. Nella storia della filosofia va considerata, come una parte della
sapienza poetica delle nazioni. V. Materia. - CosMoGRAFIA (erit.), descrizione
del l'universo, che ha per sue parti l'uranolo gia, l'idrografia, e la
geografia. Differi sce dalla cosmologia, perchè si limita alla sola parte
descrittiva, non altrimenti che la storia naturale differisce dalla fisica.
CosMoLocIA (crit.), la scienza contem platrice della macchina del mondo, e
delle leggi che lo reggono. V. Legge, Mac china, Mondo. Wolfio introdusse nelle
scuole la cosmo logia, o sia imprese a considerare l'uni verso, come un ente
composto, nato dalla combinazione delle sostanze semplici. Dal l' ordine e
dall'armonia delle parti sue, non che dalla connessione e dalla analo gia del
fenomeni naturali, ricavò la no zione delle leggi generali, colle quali si
regge. Dalla contingenza poi del suo es sere, e dalla perfezione del suo tutto
fece nascere la dimostrazione dell'esistenza e degli attributi di Dio. Cotesta
dimostra zione non fu sua, ma suo fu il metodo, e il pensiero di formarne uno
studio pre paratorio della teologia naturale. Così, la cosmologia comprender
doveva le nozioni dell'essenza e degli attributi del mondo, considerato come
ente composto, dell'es senza e degli elementi de'corpi, delle leggi del moto,
dell'ordine e della perfezione delle opere del Creatore. Comechè bello in
talune parti sia il con cetto di Wolfio, è manifesto nonpertanto, che la
cosmologia non è in sostanza altro che la fisica generale del mondo, meta
fisicamente trattata. In altri termini, è quella metafisica de'corpi, la quale
nac que dalla partizione delle scienze, fatta da Bacone. V. Fisica, Metafisica.
Or se alle astrazioni dell'ontologia non può essere conservato il nome e la
dignità di scienza, ne segue che cader debba tutta la parte della cosmologia,
che era da quella derivata. Lo stesso dee dirsi dell'altra parte, per la quale
entrasi nel campo della fisica generale, e si anticipano le nozioni intor no
alla matura de corpi, e alle leggi del moto. Ma non può certamente privarsi la
teologia naturale de suoi più luminosi ar gomenti, di quelli cioè che ricavansi
dal 15 - I 14 – l'ordine della natura, dalla perfezione del l'universo, e dalla
contingenza della sua esistenza. E quì vuolsi notare, che tutto di Wolfio è il
vanto di aver dato una scienti fica dimostrazione della creazione. V. Crea
zione, Ontologia. L'includere nelle scienze metafisiehe la contemplazione
dell'ordine e delle leggi ge: nerali dell'universo, è conforme ancora al
concetto di Cartesio, il quale ne fece una parte della sua filosofia prima, ed
è al tresì conforme al voto della ragion comu ne, perchè doppia è la scala per
la quale salghiamo alla cognizione della Divinità, la conoscenza di noi stessi,
e il teatro delle opere della natura; colla differenza non pertanto, che la
prima è il frutto della contemplazione e della filosofia speculati va, la quale
è di pochi; mentrechè il se condo è aperto a sensi di tutti, e contie ne la
dimostrazione parlante della infinita sapienza del Creatore. La cosmologia
dunque de essere conser vata tra le scienze metafisiche, limitandola alla
sposizione del sistema dell'universo, considerato per rispetto alla sua immensi
tà, all'ordine, e alla perfezione delle sue leggi, lasciando alla fisica
l'esame delle proprietà generali e particolari decorpi. º - Costanza (prat.),
la virtù che fa l'uomo permanente nel proposito del ben oprare. Cicerone fa di
Catone il ritratto della costanza, e dalle doti dell'animo di lui ricava i
requisiti di cotal virtù. Il primo è l'indole propria, o sia una naturale di
sposizione alla fermezza della volontà: il secondo, la maturità del giudizio:
il terzo l'abito della perseveranza nelle deliberazio ni una volta prese (de
off lib. 1. c. XXXI). Da ciò risulta che la perseveranza dif ferisce dalla
costanza, essendo quella il - - mezzo per lo quale si perviene a questa, cui
propriamente conviene il nome di vir tù. Differisce dalla fermezza, essendo que
sta uno del requisiti che presuppone la co stanza. V. Fermezza, Perseveranza.
Gli stoici chiamavano costanza il per petuo ed equabile portamento della vita,
accompagnato dalla imperturbabilità del l'animo, da serena fronte, e da impassi
bile volto. Ma l'esagerazione di questa so vrumana costanza rende più
plausibile la definizione di Cicerone, perchè più adatta alla umana natura; e
rende più manife sta la differenza che il cennato autore sta bili tra la virtù
scenica, e la vera. V. Virtù. CosTERNAZIONE (prat.), sentimento mi sto di
spavento e di agitazione, che toglie all'uomo il consiglio e la deliberazione
ne mali, de quali è minacciato. Seneca suggerisce i rimedi contra questa
infermità dello spirito, che è la prontezza dell'ani mo, e l'abito del meditare
e dell'antive dere, non i mali soliti ad avvenire, ma i possibili alla umana
condizione: assuesca mus futuris malis, et quae ali diu pa tiendo levia
faciunt, nos, diu cogitando. CosTITUZIONE (spec.), la disposizione na turale
d'un corpo, la quale nasce dalle qualità e proporzioni delle sue parti. In
senso traslato, si adopera anche per esprimere lo stato naturale di qualunque
Essere, considerato a rispetto della sua primitiva formazione. CostRUzIoNE
(dise.), l'ordinamento dei vocaboli d'una proposizione, secondo le regole del
linguaggio. V. Linguaggio, Proposizione. Taluni hanno distinto la sintassi
dalla costruzione, comechè la definizione del – 115 - nome, e il concetto della
cosa definita sieno gli stessi. V. Sintassi. Consideriamole da prima come due
voci omonime. La costruzione o sintassi si di slingue in concordanza e
reggimento. La sintassi di concordanza consiste nel mettere nella dovuta
corrispondenza di nu mero e di genere il subbietto col predi cato, e l'azione o
la passione dello stesso subbietto col verbo. V. Concordanza. (Quella di
reggimento serve a legare in sieme le diverse parti del discorso, per mezzo
delle preposizioni, o della varia in flessione del casi. La costruzione è
semplice o figurata: la semplice, chiamata anche da altri autori ordine
analitico gramaticale, è quando le parole son collocate nello stesso ordine
naturale delle idee: la figurata è quella, che recedendo da tale ordine, o
riseca e lascia sottintendere qualche parola, o me aggiugne qualche altra che
sarebbe super flua, o muta il naturale andamento del discorso: di qua le
figure, delle quali la sciamo a gramatici la sposizione: l'iper bato,
l'ipallage, e tutte le spezie loro. V. queste voci. - Le lingue moderne, tranne
la tedesca, amano la costruzione semplice più della figurata. Per contrario i
Greci e i Latini, e questi più di quelli, amavano le inver sioni, dall'acconcio
uso delle quali face vano nascere l'eleganza del parlare. Co testa diversità di
costruire indusse qualche altro autore a partire le lingue in due clas si, le
analoghe cioè e le traspositive, ma per verità il diverso ordine della costru
zione non sembra poter formare un ca rattere distintivo delle lingue. V.
Figura. Quelli, che han distinto la sintassi dalla costruzione, han chiamato
con questo no me quella parte di regole gramaticali la quale versa circa gli
ornati del discorso, o circa la commozione degli affetti. A buon conto,
chiamerebbero essi sintassi l'ordi ne analitico, e costruzione il figurato,
dapoichè nelle figure principalmente è ri posto ogni discorso elegante o
animato. Ma perchè proporre nuove distinzioni di vocaboli in un'arte, antica
quanto la pa rola, e nella quale i gramatici non han lasciato nulla a
desiderare in fatto di par tizioni e di categorie? CosTUME (prat.), abito del
portamenti della vita, acquistato da ogni uomo per l'istinto, per la
riflessione, e per lo stu dio. V. Abito, Istinto, Riflessione. È un prodotto,
così delle disposizioni naturali, come dell'imitazione, dell'inse gnamento, e
della cognizione speculativa che ciascuno si ha formato. E però può essere
lodevole o biasimevole, e più o men perfetto, secondochè l'educazione abbia
indirizzato l'uso delle nostre facoltà più o meno convenientemente al fine
della natu ra, e a suggerimenti della ragione e della coscienza. Corrisponde a
quel che i latini chiama rono mos, e i greci e 3os, da quali voca boli è nata
la denominazione di morale, e di etica a quella scienza, che versa circa i
doveri e i costumi, V. Morale, CRANIo (spec.), copertura ossea del cer vello.
V. Cervello. CRANIoGRAFIA (grec. sup.), descrizione del cranio. E parte della
notomia, e del la craniologia, se pure cotesta nuova arte meriti una
particolare denominazione. CRANIoLoGIA (spec. e crit.), nuova arte di coloro, i
quali pretendono conoscere m – 1iº – dalle protuberanze del cranio, gli organi
del cervello, cui corrispondono le qualità sensitive e intellettive dell'anima.
Fondatore di quest'arte, fu il Dottor Gall, di cui la dottrina ha per base la
seguente ipotesi: « gli organi animali che comunemente credonsi dotati di
sentimento e di percezione, non sono i soli, che ab biano ricevuto dalla natura
una tale virtù, ma ve n'ha molti altri nascosi nell'inter ma massa cerebrale, i
quali sentono e per cepiscono al pari dell'occhio, dell'udito, e del tatto:
ciascuno di tali organi ha una naturale disposizione, propria delle fun zioni
che de esercitare, la qual disposi zione chiamasi facoltà, l'uomo ha un nu mero
maggiore di organi, e per conse guente di facoltà, perchè in se raccoglie
capacità maggiori degli altri animali; ed essendo il sentimento e la percezione
co muni a tutti i vari organi del cervello, ne segue che ognun di essi è capace
d'idee e di passioni: in somma il pensiero e la sensibilità, non nascono da una
forza unica dell'organismo del cervello, ma son sud divisi tra le diverse sue
parti; il che spie ga come la cennata forza si sviluppi e si riproduca in ogni
punto del medesimo, e come il piacere e il dolore si senta in ogni sito, dove
l'istinto morale di ciascu ma facoltà vien favorito, o contrariato da una
esterna causa ». Il Dottor Gall, come ognun vede, ris guarda il cervello come
l'agente produt tore di tutte le operazioni dell'intelletto, nel che la sua
dottrina è conforme a quel la degli altri fisiologi materialisti; ma da costoro
discorda, in quanto che ammette nelle diverse parti di quel viscere i tipi
delle facoltà intellettuali e sensitive del l'uomo, e in quanto crede che tali
par ticolari disposizioni dell'organo cerebrale, corrispondano ad altrettante
protuberanze del tavolato del cranio. Noi abbiamo al trove additato gli assurdi
metafisici e fisio logici, ne quali un tal sistema si abbatte. (Vol. I. pag.
321). Gli assurdi metafisici sono: 1.º l'avere scambiato la potenza
coll'organo: 2.º l'avere gratuitamente pre supposto, che la percezione e il
sentimento fossero insiti in ciascun organo. I fisio logici poi sono : 1.º
l'avere attribuito al cervello le funzioni organiche della vita vegetativa,
comechè tali funzioni sieno co muni anche agli animali non vertebrati, che son
privi di cervello: 2.º l'avere ri posto l'attività del sensorio nella sostanza
cinerizia, o corticale del cervello; mentre che è dimostrato esser quella
propria della sostanza bianca fibrosa, nella quale risie de la forza sentente:
3.º l'avere supposto che le sinuosità irregolari della superficie del cervello,
le quali producono talune protuberanze nello interno tavolato del cra mio,
corrispondano ad altrettante protu beranze nello esterno; mentrechè l'uno è
separato dall'altro dalla diploe, che è una sostanza midollare intermedia,
nella quale andrebbero a perdersi le interne impressio ni, quando anche queste
fossero più pro fonde e rilevate di quel che in realtà so. no: 4.º l'aver fatto
la stessa supposizione per rispetto a lobi anteriori del cervello, e l'avere in
quelli collocato un maggior numero di organi e di facoltà riconosci bili al
tatto, mentrechè nella regione fron tale, la quale corrisponde adetti lobi an
teriori, i due tavolati non sono neppur contigui, per modo che da essi nasco no
due cavità, che sono i seni frontali. V. Cervello. CRANIoscoPIA (gree. sup.),
l'ispezione del cranio secondo il sistema di Gall. – 117 – Cararone (spee. e
prat.), nome pro prio di chi forma un Essere dal nulla, e però conveniente
soltanto a Dio. V. Dio. CREAzioNe (spee. e prat.), l'atto, che dal nulla fa
qualche cosa. - È vocabolo consacrato all'opera del mon do e dell'universalità
delle cose create dal l'infinita potenza e sapienza di Dio. V. Dio, Universo.
L'idea della creazione ha per suo com trapposto quella dell'eternità della
materia, che formò il fondamento della cosmogo nia, e per conseguente della
metafisica de gli antichi. Conviene non pertanto distin guere l'eternità della
materia da quella del mondo. Nella prima accordavansi tutti i sapienti del
gentilesimo; mentrechè la se conda fu propria della filosofia greca. Gli
atomisti furono i primi a scuotere nella Grecia la generalità della cennata
opinio ne. Le invincibili difficoltà che nascevano dalle patenti tracce della
novità del mon do, e da primordi stessi delle associazio ni de popoli, sembra
che avessero sug gerito la dottrina del concorso casuale de gli atomi, dottrina
per altro che presup poneva anche essa l'eternità della materia. V. Alomo,
Eternità, Materia. La rivelazione ha radicato nella filosofia la dottrina della
creazione, e ha dissi pato tutte le ipotesi, per le quali andò er rando la
scienza del paganesimo. Cotesta dottrina de essere considerata, come la pietra
angolare della moderna filosofia, e diremo della filosofia della ragione, tra
perchè mette la storia fisica e la civile del mondo in perfetto accordo colla
ragione, e perchè contiene in se il vero ed unico principio della filosofia
morale. Laonde la professione di fede, fatta da Bacone, è divenuta la divisa
della moderna filoso fia. Credo nihil absque principio esse praeter Deum :
naturam nullam, mate riam nullam, spiritum nullum praeter solum Deum. CREDENZA
( spec. ), assentimento pre stato alla autorità dell'altrui detto. È proprio
del giudizi che noi formiamo sopra le attestazioni desensi altrui, e però non
esclude la dubitazione. In altri ter mini, conviene a soli giudizi probabili,
il perchè la credenza produce non la cer tezza, ma l'opinione. V. Opinione, Pro
babilità. - - È diversa dalla fede, comechè nell'uso comune del parlare questi
due vocaboli sovente scambiansi tra loro. V. Fede. La credenza è un istinto
naturale del l'uomo, datogli dal Supremo Fattore per supplire al difetto della
cognizione, e però è la prima fonte delle umane conoscenze, nell'origine delle
quali l'autorità precede sempre la ragione. Va ella distinta in ere denza
d'istinto, e in credenza razionale. La prima è propria dell'infanzia, o degli
uomini che non hanno acquistato l'abito di esercitare le proprie facoltà
intellettuali: la seconda è figlia del giudizio e del ra gionamento in tutte le
cose, nelle quali for miamo un'opinione per argomenti proba bili e verisimili.
V. Verisimile. CREDERE (spec.), riputar vera una co sa da altri attestata. È il
verbo che esprime l'atto della cre denza, e ha lo stesso significato proprio di
quel vocabolo. CREDIBILE (spec.), quel che può essere creduto, o sia quel che è
nella sfera del possibile e del verisimile. V. Possibile, Verisimile. – 118 –
CarniniLITA' (spec.), astratto del credi lile, o sia il complesso de motivi, pe
quali si può giustamente tenere per vera una COStl. Salvini. - La credibilità è
un principio di critica nel giudizio della autorità, e della con venienza delle
pruove. V. Critica, Pruova, CRITERIo (spec. e disc.), perspicacia e adequatezza
della mente nel giudicare della verità de fatti, e della convenienza delle
idee. V. Convenienza. - Comunemente concepiscesi il criterio co me un complesso
delle doti, che aver deb be una ragione istruita ed esercitata, per giudicare
rettamente. Nel linguaggio filosofico chiamasi crite rio la norma per
discernere le vere dalle false opinioni. Ma siccome ogni sistema di filosofia è
fondato sopra opinioni, am messe dagli uni e negate dagli altri; così ne segue,
che diverso è il criterio di quelli o di questi. V'ha non pertanto una sana filosofia,
la quale aver dee un criterio, o taluni principi inconcussi, sia per eviden za,
sia per esperienza, i quali servano, come di regole del filosofare. Coteste re
gole esser debbono di tal natura, o sia di tale certezza, che servir possano
alla ragione di crogiuolo, onde saggiarvi tutte le altre verità, senza bisogno
di essere elle stesse saggiate. Così pure ogni scienza ed arte aver dee il
proprio criterio, nel quale riseggano i principi indubitati, so pra i quali son
quelle fondate. Il criterio poi della filosofia intellettuale, comprende ancora
in se quello di tutte le altre disci pline, perchè stabilisce la capacità delle
umane facoltà, e con essa la possibilità, e la verità della nostra cognizione.
È vocabolo adoperato dal Segneri e dal E però la parte di tale scienza, che
versa circa la capacità ei limiti delle umane fa coltà, e circa l'origine e la
partizione delle varie branche dell'umano sapere, è da noi detta filosofia ci
itica (v. il disc. prelim.). CRITICA (spec.), giudizio severo della verità del
fatti e della convenienza delle idee. V. Giudizio. Le regole per esercitare un
tal giudizio son suggerite dal retto uso della ragione, e dalla sperienza.
L'abito di bene appli carle, è quel che dicesi arte critica. Ogni scienza,
arte, o disciplina ha la sua critica propria, di cui lo scopo è il disporre le
parti convenientemente al tutto, ed al fine di ciascuna di esse. s CRITICISMo
(crit.), l'arte del criticare, o l'esercizio della critica. È vocabolo
adoperato dal Salvini, e di poi consacrato da Kant per dinotare quella parte di
filosofia, detta trascendentale, cui dà egli per fine il saggiare la legitti
mità della cognizione, e l'ampiezza delle facoltà dell'uomo mediante la luce di
ta lune verità a priori, di cui presuppone che l'anima sia dotata. CRoNoLoGIA
(crit.), la dottrina del tem po, la quale abbraccia la cognizione, tanto delle
diverse epoche del mondo, della fon dazione degl'imperi, del monumenti su cui
fu stabilita la misura civile del tempo; quanto delle misure naturali che
nascono dalle periodiche rivoluzioni del pianeti, uni tamente all'arte di
calcolare il moto di questi nelle orbite loro. V. Tempo. Dal diverso genere di
conoscenze, che la cronologia abbraccia, nasce la sua par tizione in istorica e
astronomica. Vien ella chiamata l'occhio della storia, perchè – 119 - senza di
lei questa non avrebbe nè ordine nè lume. CRUDELTA' (prat.), inumano rigore nel
punire, o nel vendicarsi. Conviene egualmente alle intenzioni e alle opere. È
meno dell'atrocità, della fe rocia, della immanità, e della efferatezza, V.
queste voci. - CULTo (teol. e prat. ), l'adorazione, che l'uomo presta a Dio,
creator di tutte le cose, conservatore della sua esistenza, e giudice delle sue
azioni. V. Dio. L'adorazione è un sentimento misto di ammirazione, di riconoscenza,
di amore, e di aspettativa d'un futuro bene. L'ammirazione è dettata dalla
contem plazione degli attributi di Dio, scolpiti nel le opere stesse della
creazione. L'amore è suggerito dalla conformità della ragione dell'uomo con
quella del suo Creatore, di cui sente essere un simulacro. La riconoscenza è un
sentimento in lui suscitato dalla coscienza del benefizi, di cui vedesi
ricolmato, e dalla dignità nella quale sente essere stato costituito, a
rispetto delle altre creature, e di tutte le cose create. La speranza del bene
futuro nasce dalla conoscenza di se medesimo; la qual co noscenza gli predice
un'altra vita di cui dee rendersi meritevole. - - Inoltre il culto di Dio è un
sentimento spontaneo, dettato da un bisogno dell'ani mo, il quale trova nel
soddisfarlo il com pimento di tutti i desideri suoi. Tal'è la natural
costituzione dell'uomo, che non sapendo vivere isolato, ha bisogno d'un
sentimento che lo conforti e lo consoli della fugacità delle cose che lo
circonda no. Nella vita esteriore corre dietro alla società domestica, e alla
civile; e quando l'una e l'altra gli manchino, e si consi. deri come solo e
sconosciuto tra simili suoi; una tristezza occupa il suo cuore, e gli rende
penosa l'esistenza. Ridotto in tale stato, o afflitto da al tre calamità,
rivolgesi al suo celeste pa dre, impetra da lui soccorso e forza da sostenere
la sventura; e in questa nuova società del suo spirito con Dio, trova con forto
e riposo. Nè solamente ottiene calma e pace, ma vince il dolore, e soffocando
la tristezza perviene ancora a quella eroica virtù, che gli fa sprezzare
persino i tor menti e la morte. Il culto divino dunque è un istinto, o
predisposizione razionale in noi impresso dalla stessa natura. In due modi
l'uomo soddisfa un tale istinto, internamente, o esternamente: internamente,
quando rivolge a Dio i suoi pensieri, e fa dell'animo suo il tempio della
Divinità: esternamente, quando lo fa pa lese colle preci e con altri atti di
riverenza. Tal'è la ragione della distinzione, che i mo ralisti han fatto del
culto interno, ed ester no : quello, in certo modo proprio del l'uomo isolato:
questo, dell'uomo in società. Il culto interno ed esterno è una parte della
religione, ma non è tutta la religio ne. L'onorare e il lodare Dio, è uno dei
molti doveri, che in se comprende il con cetto e il nome di religione.
Coordinare i propri affetti alla volontà e a fini del Crea tore; trarre da
questi la norma delle pro prie azioni; e formarsi un costante pro posito di
operare, conforme a dettami del la coscienza; compongono il complesso di quei
doveri, che prende il nome di reli gione. V. Religione. CUome (spee. ), parte
muscolare del corpo animale, situata nella cavità del petto, d'onde nascono le
arterie, e dove – 120 – finiscono le vene; e che per la sua alterna contrazione
e dilatazione, è il principal instrumento della circolazione del sangue, e per
conseguente è il principio della vita. V. Arteria, Sangue, Vena. Noi non daremo
una descrizione ana tomica di questo viscere, principio e sede del fluido
alimentator della vita, perchè ne abbiam detto a bastanza (per quel che
concerne il nostro scopo) nell'articolo arteria. Diremo soltanto, esser questo
uno di quegli organi principali, sopra i quali niuno può fissare la
contemplazione, senza rimanere stupefatto dell'artifizio, che la natura ha
adoperato per creare il princi pio della vita, e per costrignere gl'inerti
elementi della materia ad un continuo mo vimento. Del resto quale scrittore
potreb be fedelmente ritrarre le maraviglie della natura nella fabbrica de
corpi organici ? E però lo studio della motomia de essere considerato come
necessario alla filosofia speculativa, del pari che alle scienze me diche. (V.
il disc. prelim.). Il sito del cuore, l'importanza delle sue funzioni nella
economia del corpo umano, e soprattutto l'essere stato sempre conside rato come
il principio del moto, nel quale è riposta la vita animale hanno moltipli cato
i sensi figurati della voce cuore. Di questi il più frequente è quello, che at
tribuisce al cuore il principio del senti mento, degli affetti, e delle
passioni. Co testo senso traslato, di cui la poesia ha fatto grandissimo uso, è
passato ancora nel linguaggio della filosofia pratica; il perchè si distingue
nell'uomo l'ingegno dal cuore, e a quello si riferiscono le doti
dell'intelletto, a questo la forza del sentimento e delle qualità morali.
L'origine di tale concetto mette forse capo nell'antica opinione di quelle
scuole filosofiche, che riponevano la sede dell'anima nel cuore, e non nel
cervello. Qua lunque essa sia, la forza morale, che nel comune uso di parlare
si attribuisce al cuore, de essere risguardata nel rigososo linguaggio
filosofico, come un senso tras lato, suggerito dalla immaginazione, e non da
giusta analogia di ragione. CUPIDIGIA (prat.), smodato desiderio di conseguire un
piacere, che non si ha, o di accrescere quello che si ha. È de nominazione
propria della passione con siderata in un senso astratto: t O cieca cupidigia,
o ira folle Che si ci sproni nella vita corta! DANTE. CUPIDITA' (prat.),
smodata voglia di bene sensibile. Si riferisce sempre ad un particolare atto
della volontà: Benigna volontade in cui si liqua Sempre l'amor, che drittamente
spira Come cupidità fa nell'iniqua. DANTE. CURIOSITA' (spec.), vivo desiderio
di conoscere i fatti e le verità ignote. L'ignoto è per noi di più sorte: o na
sce da difetto d'idee, che possiamo ac quistare: o da difetto di riflessione
intorno alle idee o nozioni già acquistate: ovvero da difetto delle nostre
facoltà. La natura ci ha dotato d'una curiosità istintiva, appunto perchè
potessimo com piere la nostra cognizione; e come istinto alla curiosità ci ha
dato la vergogna della ignoranza. L'uomo cerca per la via dei sensi di
accrescere la notizia de fatti ignoti e di tutti gli oggetti sensibili;
percorre – 121 - il mondo per imparare nuovi fatti; legge nella storia quelli
dell'età che l'hanno pre ceduto; ne forma una suppellettile alla me moria, e
acquista per tai mezzi gli ele menti della sperienza. Applica poi la stessa
curiosità alla conoscenza di se stesso e delle sue facoltà, riflette sulle
interne operazioni dell'animo, e forma un altro ordine di fatti più importanti
desensibili o esterni, per chè giugne per essi alla cognizione del fine, del
doveri della vita, delle relazioni cogli altri Esseri, e delle leggi dell'uni
verso. Sin qua esercita la curiosità secon do i fini e l'intenzione della
natura, e ne fa il principale strumento delle scienze utili. Ma la curiosità,
come ogni altro appe tito, s'irrita allorchè rimane delusa nelle sue
investigazioni; sì che l'uomo non sa persuadersi che la natura abbia messo dei
limiti alla vista della mente, che ricono sce facile, pronta, e acuta in tutte
le al tre ricerche sue. Quì dunque in luogo di arrestarsi svaria, supplisce a
fatti colle ipo tesi, all'attualità col possibile, e alla vo rità col
verisimile; spiega i fenomeni dello spirito colle analogie delle cose
materiali; crede penetrare nella cognizione delle cau se naturali, e legge
persino nella mente del Creatore. Così, crea vane e chimeriche scienze, le
quali lo rimuovono dalle utili, e il distolgono dalla contemplazione del
l'universo, e dallo studio di se medesimo. La curiosità dunque è ad un tempo
utile e dannosa. Quantunque sia il veicolo del la scienza, pure ha bisogno
della scienza stessa, per essere contenuta ne'suoi limiti naturali: il
conoscere tali limiti è la parte più difficile della sapienza. Due grandi
riformatori della filosofia hanno tracciato que limiti, ma la sentenza loro mal
si sopporta dagli adoratori della luce pro gressiva della ragione. Ciò non
ostante forza è riconoscerla come vera: homo na turae minister et interpres,
tantum facit et intelligit, quantum de naturae ordine re, vel mente
observaverit; nee amplius seit aut potest. (Bacone). - MG - --- ……- - - -
------ |-·* |-|-|- |-----|-· |-|-·* |-·|- |-... •|- ··|- ----·|-|-· · …·----
*|-|-· ·|- |-·· !| – *- |- |----- -
·*---- |- |-·- ·|- · ----· + |-- |-•• |- ||-*… · – 125 – CLASSI DE VOCABOLI
COMPRESI SOTTO LA LETTERA C. FILOSOFIA CRITICA. Calcografia Calcolo Calligrafia
Canonica Canto Caratteristica Catacustica Catadiottrica Catottrica Chimica
Chironomia Chirurgia Cielo Commedia Coscienza Cosmogonia Cosmografia Cosmologia
Craniologia Criticismo Cronologia Voci o NTOLOGICHE. Calore Calorico
Cangiamento Caratteristica Causa Causalità Coesistenza Compiuto Composizione
Compossibile Composto Condizionale Contiguità Contingente Continuità Continuo
Contraddizione Corpuscolare Corpuscolo FILOSOFIA SPECULATIVA. Calore Calorico
Canone Caos Capacità Capo Carattere Caso Cerebro o Cervello Certezza Certo
Cielo Coesione Cogitativa Cognizione Collettivo Colore Comparazione Complesso
Composizione Composto Comprendere Comprensibile Comprensione Comune
Concatenazione Concepere e Concepire Concetto Concettualista Concezione
Concreto Condizionale Condizione Confidanza e Confidenza Configurazione
Conformazione Confusione Congruenza Connessione Conoscenza Conoscenza di seme
desimo Consapevolezza Consecuzione Considerazione Consiglio Contemplazione
Continuità Continuo Contraddizione Conveniente Convenienza Convizione
Coordinare Coordinazione Corpo Corpuscolare Corpuscolo Corruzione Cosa
Coscienza Costituzione Cranio Craniologia Creatore Creazione Credenza Credere
Credibile Credibilità Criterio Critica Cuore Curiosità ºr – 124 - FILOSOFIA
DISCORSIVA, Carattere Caratteristico Caso Categoria Categorico Classe
Classificare Collettivo Comparativo Comparazione Complesso Composizione Comune
Concatenazione Conclusione Concordanza Concreto Condizionale Condizione
Conformità Confusione Confutazione Congettura Congiuntivo, Coniuntivo e
Subiuntivo Congiunzione Coniugazione Connessione Conseguente Conseguenza
Consonante Consonanza Contraddizione Contrarietà Convenienza Conversione
Convizione Coordinare Coordinazione Correlativo Correlazione Cosa Costruzione
Criterio Cataclismo Cielo TEOLOGIA NATURALE. Culto – 125 - FILOSOFIA Calunnia
Candore Carattere Carità Caso Castità Certezza Certo Ciglio Circonspezione
Circonvenzione Civile Civiltà Collera Collisione Colpa Commiserazione
Compassione Compatimento Compiacenza o Compiacimento Compiagnere Compianto Compostezza
Conato Concupiscenza PRATICA, GRECISMI SUPERFLUI. Concupiscibile Confidanza e
Confidenza Conformità Confusione Conoscenza di seme desimo Consolazione
Consuetudine Continenza Contumelia Conveniente Convizio Coraggio - Corruttela
Corruzione Cortesia Costanza Costernazione Costume Creatore Creazione Crudeltà
Culto Cupidigia Cupidità Caologia Chirologia Craniografia Cranioscopia
LATINISMI SUPERFLUI. Cogitazione – 127 – - I D DABBENAGGINE (prat.), bontà
dell'uomo semplice; comechè l'uso comune ne ag gravi il significato, e lo
faccia inchinare alla sciocchezza, più che alla bontà. DANNo (prat.), il male,
che risulta dalla violazione d'un diritto altrui. V. Diritto. È la conseguenza
della infrazione del l'obligazione, e insiememente la base della giustizia
delle pene. V. Obligazione, Pena. 7 DAPPoCAGGINE (prat.), insufficienza d'in
telletto, o di conoscenze in quelli, che ra gionano o operano men rettamente
del co mune degli uomini. DATISMo (disc.), grecismo superfluo, usato da
Francesi, per la falsa ridondanza di coloro, i quali per esprimere un pen siero
adoperano più sinonimi, che dicono la medesima cosa. DATIvo (dise.), terzo caso
nella decli mazione del nome, il quale esprime la re lazione del dare ad altri.
Cotesta relazione nelle lingue, che non hanno desinenze di casi, come sono le
moderne, suol essere espressa con un se gnacaso o articolo, che equivalgono ad
a e allo degl'Italiani; come simile a So crate, utile alla patria, pernizioso
alla chiesa. - DATo (dise), fatto, o verità nota, che si pone nel discorso,
come fondamento d'un'altra ignota, che si vuol trovare. È termine proprio della
geometria, adot tato dalle altre scienze, e comune nell'arte discorsiva :
equivale il più delle volte a quel che dicesi postulato. V. Postulato.
DATTILOGRAFIA (gree. sup.), grecismo superfluo, col quale han voluto taluni
esprimere la descrizione degli anelli, e delle altre pietre incise dagli
antichi. È notabile, che il nome non esprime tutte le cose denominate.
DATTILOLOGIA (grec. sup. ), altro gre cismo superfluo, col quale si è preteso
esprimere l'arte di conoscere l'incisione degli anelli e delle pietre antiche.
DATTILONOMIA (gree. sup.), altro gre cismo superfluo, col quale è stata da ta
luni espressa l'arte di contar colle dita. DATTILOTECA (gree. sup.), altro grecismo
superfluo, col quale si è voluto esprimere un gabinetto di antiche pietre
incise. DECENZA (prat.), maniera di comportarsi, convenientemente alla dignità
propria, o al rispetto dovuto a luoghi e alle persone. E la nozione stessa del
decoro, applicata all'esterne forme del vivere civile.V. Decoro. DECEzIONE
(prat.), frode usata per trarre alcuno nell'inganno. - È voce latina, adoperata
dagli antichi maestri della lingua. DECLAMAZIONE (disc.), orazione detta ad
alta voce, nella quale l'espressione della parola è animata dal volto, e dal
gesto dell'oratore. V. Oratoria. - – 128 – È un genere dell'arte oratoria. Il
suo nome per imitazione si applica ad ogni publico discorso o recitazione, in
cui il linguaggio di azione accompagna quello della parola. V. Linguaggio
d'azione. La declamazione presso i Greci divenne l'arte del sofisti, che sopra
un argomento filosofico dato loro per tema, improvvisa vano un discorso spesso
in contrario senso di quel che avevano in un altro antece dente sostenuto. Fu
per essi una pruova d'ingegno e di prontezza d'immagini più che un esercizio di
severa ragione. Presso i Latini fu un esercizio di pre parazione alle aringhe
del foro, che gli oratori facevano nelle domestiche pareti; ovvero un esercizio
di letteraria palestra, che facevasi fare a giovani. Nella seconda età di Roma,
o sia al tempo dell'imperio, i declamatori romani imitarono i greci sofisti, e
trattarono dia letticamente argomenti non meno della filosofia, che del foro, a
quali diedero il nome ora di controversie, ora di sua sorie, ed ora di
declamazioni. Tali son quelle di Calpurnio Flacco e le altre, che vanno sotto
il nome di Quintiliano. Presso i moderni, e nel comune uso del parlare, il
declamare un discorso proprio o altrui, sia in prosa sia in verso, vale recitarlo,
accompagnandolo colla espres sione del gesto, e dell'azione. DECLINARE (disc.
), disporre, o reci tare per ordine i casi denomi. V. Caso, Aome. DECLINAZIONE
(disc.), l'inflessione dei nomi secondo i vari loro casi. DECOMPosizIoNE, o
ScoMPosIzIoNE (diso. e spec.), voce appartenente alla Chimica, che importa la
riduzione de corpi neloro sensibili elementi. Siccome la decomposizione è a
buon conto l'analisi chimica, così lo stesso no me per falsa similitudine si è
da taluni applicato all'analisi del pensiero, il che è da evitarsi. V. Analisi.
DECoRo (spec. e prat.), quel che eon viene alla moral dignità dell' uomo, in
qualunque condizione o grado egli sia. Cotesto significato è affine al decus e
al decorum de Latini, i quali lo scam biarono coll'onesto, col retto, col
giusto e col vero. Cicerone disse verum decus in virtute positum est, e la
definizione da lui data del decorum, è: quod consenta neum sit hominis
excellentiae in eo, in quo natura eius a reliquis animantibus differt. Tal era
il senso generico, presso i Latini, e tal è ancora presso di noi, che per
decoro intendiamo il conveniente ad ogni stato della vita, e a ciascuna parte
dell'onestà. DEDorro (spec.), tutto quel che per mezzo del ragionamento
ricaviamo da una verità evidente per se stessa, o da prima dimostrata. - Verità
dedotte propriamente diconsi quel. le che contrapponiamo alle intuitive.
DEDURRE (spee. e disc.), verbo proprio del linguaggio filosofico, il quale
esprime l'uso che facciamo del ragionamento, per passare da una verità all'altra,
o sia per ricavare un giudizio da un altro che ab biamo già formato. V.
Giudizio, Ragio namento. - DEDUZIONE (disc.), un giudizio ricavato da un altro
che lo precede. V. Giudizio. - 129 – I nostri giudizi sono di due sorte, o
intuitivi o dedotti, che pur direbbonsi de rivativi. I primi prendono la
chiarezza da loro stessi: i secondi dagli antecedenti, per mezzo del
ragionamento. E siccome il ra gionamento può essere immediato o me diato; così
la deduzione può nascere da uno o da più giudizi, che sono l'uno all'altro
legati. V. Intuitivo. Una deduzione logica aver dee tre re quisiti: 1.º che la
verità da cui prende la sua chiarezza, sia per se stessa eviden te: 2.º che ne
ragionamenti mediati, cia scuna delle proposizioni intermedie, discen da
rigorosamente da quella che la prece de: 3.º che cotesta connessione sia chiara
per tutti coloro, i quali debbono giudi carne. V. Connessione. DEFINIZIONE
(spec. e dise. ), discorso che palesa le qualità, o l'essere, di chec chè sia.
V. Qualità, - - Cotesto concetto è quello degli scolastici, che dissero est
sermo explicans quid res sit. Lo stesso presuppone, che d'ogni cosa potessimo
dire quel che essa è; il che per altro non è sempre vero, o almeno deb b'essere
inteso con alcuni dichiarimenti e restrizioni. Adoperasi comunemente il
vocabolo de finire, tanto per lo individuare le qualità d'un subbietto
qualunque, quanto per lo spiegar che facciamo una idea con termini più chiari
di quelli, coduali è stata enun ciata. È manifesto, esser queste due ope
razioni della mente diverse tra loro; im perocchè con una spieghiamo la cosa,
col l'altra i vocaboli, o sieno i nomi. A ri muovere dunque l'ambiguità, che
nascer potrebbe dal doppio senso della parola de finire, sono state le
definizioni distinte in nominali e reali. Le nominali sono ap parenti
definizioni, le quali spiegano vo caboli poco noti, ambigui, o impropria mente
adoperati; e servono a far distin guere la cosa definita da un'altra, senza far
intendere qual'essa sia. Potrebbe an cora dirsi, che se gli uomini concepissero
ad un modo unico tutte le cose, e si ser vissero d'un linguaggio sempre
uniforme, cesserebbe la necessità delle definizioni no minali. Ma tal'è la
varietà e la disugua glianza degli umani intelletti, e tale la difformità del
linguaggi; che non è alcu no il quale riconoscer non possa l'utilità e la
necessità delle definizioni nominali, per ottenere la chiarezza del discorso e
la precisione delle idee. Più importanti ancora divengono le de finizioni
determini tecnici delle arti e delle scienze, perchè per esse rendesi chiaro e
certo un significato, che non è comune. Tali definizioni, siccome avvertì
Aristote le, non sono assiomi, ma semplici tesi esplicative: son proposizioni
chiare del con cetto che vuolsi esporre o dimostrare: so no le basi e le forme
del discorso, le pri me chiavi del significato del vocaboli, le quali fan
distinguere il senso loro primi tivo dal traslato, il determinato dal vago, e
l'utile dal superfluo. L'uso di esse è so prattutto necessario nella filosofia,
nella quale l'insufficienza della parola da una parte, e l'abuso del linguaggio
dall'altra, sono state cagioni perenni di confuse no zioni, di false opinioni,
e di vane con troversie. Di qua, la necessità d'un dizio nario filosofico, non
per compendiare la scienza, ma per determinare il signifi cato determini
scientifici, e per dare loro una comune accezione. V. Dizionario, Tecnico.
Tornando ora alle definizioni reali, per esse noi conosciamo le qualità delle
cose; 17 – 150 – distinguiamo le comuni a più individui dal le proprie a
ciascuno; formiamo i generi e le spezie; riduciamo in classi le opere della
natura; e dopo di avere così ordinato gl'individui, acquistiamo i caratteri per
discernere le spezie, e le differenze loro. Da ciò seguono due verità: la
prima, che di definizioni reali son capaci le sole idee di spezie, delle quali
conosciamo il genere e la differenza: la seconda, che incapaci di definizione
sono gl'individui e tutte le idee semplici, nelle quali non possiamo
distinguere qualità di sorte alcuna. Fermandoci per ora alla prima delle due
enunciate verità, le definizioni reali son dette ancora causali, quando dalla
enumerazione delle qualità d'un subbietto siam guidati alla conoscenza della
loro causa efficiente. Son dette pure definizioni logiche, quando in esse concorrano
in sieme i tre seguenti requisiti: 1.º che la definizione sia chiara e tale da
far cono scere il più ch'è possibile la cosa deſini ta: 2.º che sia universale
per modo che convenga a tutto il compreso nella spezie definita: 3.º che sia
propria e particolare alla cosa definita. In breve, uopo è che la definizione
esprima il genere della cosa definita, e la differenza, per la quale la spezie
definita si distingue da tutte le al tre spezie, che appartengono al medesimo
genere. V. Differenza, Genere, Spezie. La definizione reale è diversa dalla es
senza delle cose, nè dee con questa essere confusa. La nozione dell'essenza è
un'astrazione della mente, per la quale conce piamo che ogni cosa ha un
costitutivo pro prio, che la fa esser quella e non altra. “Quale sia il
costitutivo degli Esseri, lo ignoriamo; ma dalle qualità, che ne sono a noi
intelligibili ricaviamo i caratteri per riconoscergli e determinargli.
L'essenza è unica e immutabile, mentrechè la defini zione reale potrebb'essere
varia, se tra più qualità, che abbia un medesimo subbiet to, ci piacesse
considerarlo per alcune di esse, ommettendo le altre. V. Essenza. Passando poi
alla seconda verità, inde finibili son tutte le idee semplici, inten dendo per
tali quelle degli obbietti, dei quali la natura ci fa conoscere l'essere, senza
lasciarci intendere nè le qualità, nè le loro cause efficienti (v. il disc.
prelim.). Tali sono le idee dell'odore, del dolore, del percepire, del volere,
del sentire, del vivere. Di esse non possiamo far compa razione con altre
simili, nè possiamo darne altrui una conoscenza più chiara di quella, che
ciascuno ne acquista per lo senso della natura. Il concetto che di loro
formiamo, è per se stesso unico e indivisibile. Da tutte le cose dette risulta
ancora ma nifesto, che di qualunque confusa idea o nozione non può darsi veruna
logica de finizione; e che siccome le sensazioni non possono per loro stesse
produrre in noi idee chiare e distinte, così anche le idee complesse che
acquistiamo per mezzo dei sensi non possono essere definite, prima che la
riflessione non le abbia sceverate e distinte nelle varie idee semplici, delle
quali sono il prodotto. V. Idea, Mozione. DEFoRME E DEFoRMITA' (spec. ), tutto
quel che concepiamo, come contrario al l'ordine della natura, o alla idea del
bello che ci abbiamo formato. Chiamiamo deformi i mostri, e le cose mostruose,
perchè le consideriamo come degeneri, e come imperfetti prodotti della natura.
Sin qua il cennato vocabolo sem bra adoperato propriamente, perchè espri me il
difetto delle spezie, che escono dalla comune forma. V. Forma, lostro. – 151 -
Deforme ancora chiamiamo tutto quello in cui troviamo difetto o assenza del
bello. In questo significato la deformità è spesso relativa alla disposizione
del nostri sensi, o alle qualità, nell'accordo e nella pro porzione delle quali
abbiamo riposto l'idea normale della bellezza. V. Bellezza, Bello. DEFRAUDARE
(prat.), il torre ad altri qual che cosa con inganno o fraude. V. Fraude.
DEGNAZIONE ( prat.), benevolenza di mostrata, da chi non ne ha l'obligo. È voce
propria della benevolenza, che dimostra il superiore all'inferiore, e a niun
altro meglio conviene che a Dio, dapoichè tra gli uomini gli atti virtuosi son
tutti di loro natura doverosi e reciprochi. DEGNITA' E DIGNITA' (prat. e disc.),
ono revole condizione dell'Essere ragionevole, di cui i portamenti son sempre
diretti dal sentimento dell'obligazione e del dovere. V. Dovere. Cotesto
sentimento, che è lo stesso del senso morale, è quello che dirige e mo dera
gl'istinti, gli appetiti, e gli affetti; che ci ritrae dalla indulgenza pel
corpo, e c ispira il retto sentire e operare. Que sta è quella che chiamasi
dignità morale dell'uomo. Gli scolastici chiamaron pure dignità ogni massima
nota o assioma, nel quale significato è stato questo vocabolo adope rato ancora
dal Vico. DEISMo (spec. e teol.), dottrina di quelli che, per unica loro
religione, credono all'esistenza di Dio, e negano la rivela zione e la
necessità del culto. Tal'è la definizione, che taluni scrittori francesi han
dato del deismo, forse per fare da essa nascere un'altra spezie di deismo
filosofico, o d'irreligione, che ap parve nel decimottavo secolo, e fu chia
mato theismo. La definizione che ne die dero i suoi autori è : credenza all'esi
stenza d'un Dio, reale, onnipotente e perfetto, che ha per suo contrapposto
l'ateismo, ed è il fondamento della filo sofia religiosa. - Noi chiameremo
filosofica irreligione l'uno e l'altro deismo; nè sapremmo ben discernere i
caratteri che distinguono quel lo da questo. Certamente i primi propa gatori
del deismo cercarono di dare tanta forza a questa religione, ch'essi chiama
rono naturale, quanto bastasse a senso loro per dimostrare inutile la
rivelazione. Her bert di Cherbury stabilì come precetti del deismo t.º il
credere all'esistenza di Dio, 2.º il dovere di prestargli un cul. to , 5.º la
pratica della pietà e della virtù, 4." il pentimento de propri fal li,
5" la credenza a premi e alle pene della vita futura. (Vol. I. pag. 97).
Non regge dunque per fatto, che i deisti ne volessero men de theisti, e per
conse guente cade la gloria, che costoro vorreb bero disputarsi sopra di
quelli, di avere cioè ampliato i limiti dell'antico natura lismo. V.
Vaturalismo. - Vuolsi infine notare, che la voce theis mo avrebbe nella lingua
italiana una vi ziosa derivazione, e mal si accorderebbe colla sua ortografia.
Ricusiamo dunque l'adozione ad un falso e doppio nome d'una setta, che disonora
gli annali della filoso fia; e per onor di questa, a deliri di pochi
superficiali ingegni opponiamo i contrari esempi che ci han dato gli uomini
d'in gegno straordinario e trascendente, come Bacone, Cartesio, Newton, Pascal,
Leib nizio, Eulero ed altri. Nè vogliasi con r – 152 – fondere le opinioni
singolari de falsi filo sofi coveri frutti della scienza, alla quale è dato il
determinare i giusti limiti del l'umana intelligenza, e il dimostrare non meno
la necessità della rivelazione, che la perfetta concordanza tra la ragione e la
fede. DeIsTA (teol. e spee. ), chi professa il deismo. DELIBERATIvo (dise.),
uno de tre generi di eloquenza, detti deliberativo, giudicia le, e
dimostrativo. V. Eloquenza. DELIBERAZIONE (spec.), atto del giudi zio, che
accompagna la volontà nel discer nere la convenienza o disconvenienza del
l'azione. V. Giudizio, Volontà. La deliberazione presuppone non sola mente la
libertà dell'agente, ma anche l'assenza di tutte le cagioni che possono
preoccuparla. E però le azioni involonta rie, e quelle che son determinate
dagl'istinti animali, o dall'impeto delle passio ni, diconsi fatte senza
deliberazione. V. A zione, Libertà. DELICATEzzA E DILICATEzzA (prat.), ha
significati diversi, ma affini, secondo che è applicata agli obbietti morali, o
a sen sibili: nel primi vale una sopraffina ricerca del perfetto: ne secondi
squisitezza di gu sto, o morbidezza di costumi e di maniere. Lo stesso vocabolo
applicato alle opere dello ingegno, o della mano esprime il compiuto, il
perfetto, e il sopraffino. DELIRIo (prat.), alienazione della men te, nata da
morbo, o da eccesso di pas sione, e manifestata con atti o con pa role;
differisce dalla stoltezza e dalla de menza, in quanto che queste presuppon
gono una causa permanente o durevole; laddove il delirio nascer suole da causa
accidentale, che faccia uscir la mente dal retto sentiero. V. Demenza,
Stoltezza. DELITTO (prat.), esterna azione, la qua le infrange una legge
scritta e publicata. V. Legge. Cotesto vocabolo è correlativo della leg ge
positiva, e non potrebbesi usare per gl'interni mancamenti della volontà, sen
za pericolo di confondere due sorte di obli gazioni tra loro diverse. La legge
natu rale, e per essa la filosofia pratica som. ministra non solamente le prime
nozioni della obligazion morale, del diritto e del dovere, ma ancora quelle de
mancamenti, del giudizio, e della pena. Imperocchè le infrazioni commesse dalla
volontà, come chè seguite non sieno da esterna azione, sono notate, giudicate e
punite dalla co scienza, che è l'interno foro. Sin qua le leggi positive non
esercitano impero di sorte alcuna. La censura loro comincia dal punto in cui la
volontà si manifesta per qualche atto di esterno eseguimento, che è quel che
dicesi delitto. I latini, dai quali abbiamo ereditato il nome, davano a questo
vocabolo un significato generico, che è quel di mancamento. Noi per con trario
distinguiamo l'interno dall'esterno; e chiamiam quello, fallo o peccato, e
questo, delitto. Ciò non vieta che nel senso traslato, non si scambino l'uno
per l'altro; ma non però deesi confon dere il proprio coll'improprio. V. Fallo,
Peccato. DELIZIA (prat.), godimento vivo, soa ve, e tranquillo. Vale più di
diletto. V. Diletto. - 155 – DEMENZA (prat.), la privazione del sem no, per
qualunque cagione intervenga, naturale o accidentale che sia. V. Senno.
Differisce dalla pazzia, dalla follia, dal la stoltezza, dalla stolidezza e dalla
fatui tà. V. queste voci. DEMERIro (prat.), valor d'un'azione riprensibile,
perchè contraria all'obliga zione. È contrapposto di merito. V. Merito.
DENOMINARE (spee. e disc.), esprimere un subbietto con un nome, ricavato da
qualcuna delle sue qualità. V. Mome, ASubbietto. Gli scolastici distinguevano
due sorte di denominazioni, interna o esterna, secondo che la qualità da cui il
nome era preso, fosse inerente o estrinseca al subbietto ; distinzione la quale
stabilisce una inutile categoria. Quali sieno state le prime denominazio ni,
appartiene alla storia del linguaggio. V. Linguaggio. DENTALE (dise.), suono
delle lettere pro nunziate con appoggiatura di voce su denti. DENTI (spec.),
ossa dure, compatte, che forman parte della bocca, collocate nelle gengive,
destinate in tutti gli ani mali principalmente ad afferrare, divide re, e
triturare i cibi ; e nell'uomo, a modulare ancora il suono e l'articolazione
della voce. V. Bocca. Lasciamo alla motomia il descrivere la loro
conformazione, e le relazioni che la loro struttura ha co'diversi usi, a quali
son destinati. Vuolsi solamente notare, che nel l'uomo i denti, sopra i quali
si appoggia la lingua servono a modificare il giuoco della voce ; ed essendo
duri e inflessibili producono i suoni forti, che son poi tem perati dalle
vocali. DEPLoRARE (prat.), piangere o gemere sopra le proprie o le altrui
miserie. È più del compiagnere.V. Compiagnere. DEPRAVARE (prat.), vale
corrompere il sentimento morale. DEPRAvAzIoNE (prat.), ultimo grado del la
malizia, e dell'abito del vizio. V. Vizio. DERIsIoNE (prat.), disprezzo
manifestato alle persone con parole, o con altri ester mi segni. Talvolta
contiene ingiuria, e talvolta ancora semplice giudizio di azioni ridevoli o
disdicevoli, come nell'esempio di coloro che lodano publicamente se stessi e le
cose loro; e però muovono il riso degli ascol tanti: deforme est, dice
Cicerone, de se pso praedicare, et cum irrisione au dientium imitari militem
gloriosum. DERIVARE (disc.), vale dedurre una pro posizione da un'altra.
DERIVATIvo (disc.), quel giudizio o ra gionamento, che si trae da verità, per
se stesse note, o precedentemente dimostrate. I giudizi derivativi appartengono
alla classe delle verità dedotte. V. Dedotto, DERIVATo (disc.), dicesi del
vocaboli che discendono da altri, che per contrap posto diconsi radicali o
primitivi. DESIDERIO (spec. e prat.), voglia di qualche cosa che ci manca, e
che ap prendiamo come un bene. – 154 – Il desiderio è suscitato così da bisogni
naturali come da fattizi; e però ci presenta le immagini tanto de veri quanto
de falsi beni. Considerato pe fini della natura, è una spinta all'operare, che
è quel che chiamiamo principio d'azione. Cotesta spinta era necessaria
dapoichè, come osserva Locke, se l'assenza del bene non fosse accompagnata da
dolore o da molestia, e se chi n'è privo fosse egual mente contento di
conseguirlo o di non averlo, non farebbe alcuno sforzo per pos sederlo. - Non
si può affermare, nè negare se i bruti abbiano desideri, dapoichè non pos siamo
segnare i termini della intelligenza e della sensibilità loro. Certamente i de
sideri hanno origine dagli appetiti, i quali sono istinti animali, e comuni ad
essi co me a noi, e però vanno annoverati trai principi d'azione, che diconsi
animali. Ma d'altra parte l'inquietudine che nasce dalla privazione, e che
propriamente for ma il carattere del desiderio, è un modo del dolore, o un
semidolore procurato dalla immaginazione e dalla riflessione, il che lo fa
proprio dell'uomo. Senza de cider questa controversia, per la quale con
verrebbe legger dentro allo spirito e alla sensibilità de'bruti, si può
certamente dire che è uno de principi d'azione animali e razionali insieme, e
che diviene affatto razionale quando noi prendiamo a consi derare l'influenza
che può esercitare sopra la volontà dell'agente morale. V. Agente, Principio,
Volontà. Taluni hanno risguardato i desideri co me principi dell'egoismo umano,
ed altri gli hanno distinti in due categorie, in in dividuali cioè e sociabili.
Il Dottore Reid ne additò tre, come universali e conna turali all'uomo, cioè il
desiderio del po tere, dell'esistimazione altrui, e della scienza o cognizione.
Ma il volere ridurre in categorie i desideri, è lo stesso che vo ler
determinare tutte le spezie del bene e del male relativo, o sia tutte le combi
nazioni della immaginazione e della vo lontà, ordinata o disordinata che sia.
D'al tra parte noi crediam proprio della filoso fia intellettuale il
distinguere le nozioni semplici del principi naturali, dalle com plesse che ne
formiamo, quando passiamo a farne l'applicazione a pratici portamenti della
vita. Tale applicazione appartiene alla filosofia morale, o alla scienza
civile, delle quali è proprio l'indirizzare i desideri al fine della virtù, o
al bene della società, Per ora fa uopo considerare il desiderio, qual è nel
fine della natura, astrazion fatta dalle diverse condizioni dell'uomo.
Certamente i desideri forman la parte razionale degli appetiti, perchè contengo
no un principio o conato di volontà. Essi dunque son men forti degli appetiti
stessi, de quali la forza è subordinata all'imperio della volontà e della
ragione. La disami na dunque del desideri utili, dannosi, o indifferenti si
confonde con quella delle azioni, di cui son semplici elementi o principi.
DESINENZA (disc.), terminazione di voi caboli, o di periodi. Ogni lingua ha un
determinato numero di desinenze, le quali formano uno dei suoi caratteri
costitutivi. DEsoLAzioNE (prat.), dolore intenso che abbatte l'animo, e veder
non fa speranza di scampo o di conforto. È uno degli accrescitivi del dolore, e
dice più di afflizione, e di tristezza. V. que ste voci. - – 155 - DESTINARE
(spee. ), predisporre una co sa colla intenzione di farla servire ad un
determinato scopo. Prende la sua radice dalla voce destino, per lo quale gli
antichi dinotarono quella potenza superiore, che ha predisposto gli Esseri e le
cose tutte. DESTINAZIONE (spee. ), l'atto per lo qua le è determinato il fine
cui l'Essere, o la cosa dee servire. Così chiamiamo destinazione dell'uomo lo
scopo cui è stato la sua vita indiriz zata da Dio; e destinazione degli animali
il servizio che prestar debbono all'uomo secondo la rispettiva loro natura.
DESTINO. V. Fato. DETERMINARE (spec. e ontol.), l'operar d'una causa, per
produrre in qualche subbietto un cangiamento, o un modo di essere più che un
altro. V. Cangiamento, Modo. DETERMINATo (spec.), quel che riceve una certa
dimostrazione, o che vien con siderato come dotato di una qualità di cui è
naturalmente capace. DETERMINAZIONE (spee. e ontol.), l'atto per lo quale la
volontà accoglie o rifiuta l'azione. V. Volontà. La determinazione de essere
considerata come un atto solenne del giudizio, che succede alla deliberazione,
e come la sen tenza che l'animo pronunzia intorno alla convenienza o
disconvenienza dell'azione. Ciò non ostante non può la determinazione essere
scambiata coll'azione, dacchè la di stanza tra l'una e l'altra, può non essere
riempiuta, o per volontà dello stesso agen ite, o per altrui fatto. Per volontà
dello stesso agente, se una seconda determina zione figlia d'un nuovo giudizio,
venga a ritrattare la prima; nel che è riposta una delle maggiori pruove del
libero arbitrio. Per fatto altrui, se l'azione voluta dall'agente non riceva
compimento per la re sistenza d'un ostacolo qualunque. V. Ar bitrio,
Deliberazione, Giudizio. Gli scolastici diedero una definizione più generica
della determinazione, perchè la riferirono non alla sola volontà dell'agente
morale, ma all'azione di qualunque causa; e però la definirono, l'azione per la
quale una causa opera in un modo più che in un altro. E per fare meglio
intendere che fosse la determinazione, supponevano un agente indifferente ad
eseguire più cose, il quale fosse obligato per una particolare causa a farne
una in preferenza delle al tre ; e distinguevan poi questa causa in tre modi,
ciascun de quali dava alla de terminazione un diverso nome: chiama vano
effettiva la determinazione che pro cedeva dalla causa efficiente: formale,
quando la materia indifferente a tutte le forme, venisse a riceverne una più
che un'altra: materiale quando la causa fosse di quelle che operano secondo la
natura, del subbietto, come, per esempio, il ſuo co, che indura l'argilla e
liquefà la cera. Un'altra distinzione facevan pure della determinazione in
fisica e morale. Per la fisica intendevano la prima e originaria causa, la
quale ha dato l'essere alle cose, e l'attitudine a tutte le cause secondarie;
il qual concetto somministrò poi occasione a dispute tra teologi, circa il
modo, nel quale quella prima determi nazione fosse operativa. Morale chiamaron
la determinazione d'un agente morale, ca pace di volere, di consigliare, e
d'imperare. – 156 – Noi crediamo, che questo ultimo signi ficato sia il proprio
della voce determina zione, e il solo che debba rimanergli nel linguaggio
filosofico. E però chiameremo determinazione della volontà il maturo e
deliberato consiglio, per lo quale l'agente morale è stato indotto all'azione.
DETESTARE (prat.), l'avere taluno in odio per convizione delle sue perverse
qualità. E una delle gradazioni dell'odiare, che ammette vari accrescitivi,
come l'aborrire, l'abominare, l'esecrare. V. queste voci. DETRAZIONE (prat.),
maldicenza, per la quale cercasi torre occultamente qual che cosa alla
riputazione altrui. Differisce per gradi dalla maldicenza abituale, e dalla
mormorazione; ma al pari di ogni altra ingiuria, può per gli accidenti del
luogo, del tempo, e delle persone, essere più o meno grave. È sem pre odiosa,
perchè occulta, il che le dà un carattere d'insidia. V. Ingiuria, Mal dicenza,
Mormorazione. DETTAME (prat.), suggerimento della ragione, che comunemente si
adopera per esprimere i consigli e le insinuazioni della coscienza. V.
Coscienza. DEvozIONE ( teol.), ardente e sincero amor della religione. V.
Religione. DIACUSTICA (crit.), la teorica delle pro prietà del suono refratto,
allorchè passa per diversi mezzi di disuguale volume o densità. E detta ancora
diafonica. DIALETTICA (dise, ), l'arte del disser tare. V. Arte. Le regole di
quest'arte versano unica mente circa il giudizio del vero e del fal so, e non
circa l'invenzione. Differiscono da quelle dell'oratoria, o sia dell'eloquen
za; perchè è proprio dedialettici l'attenersi alla scelta degli argomenti, alla
loro con nessione, e in generale alla struttura del discorso; che l'oratore
amplia, e adorna, nascondendo colla spontaneità del dire, l'artifizio delle
regole. Come arte discettatrice del vero e del falso, è stata più molesta, che
utile al la filosofia, perchè ha nutrito i sofisti, gli scolastici, e gli
scettici. Costoro col locarono la parola al disopra del giudizio, e ne fecero
l'arte direttrice di tutte le fa coltà dell'intelletto. Allora, tutto divenne
disputabile, e si aperse facile passaggio dall'argomento al sofisma: quae primo
progressu festive tradit elementa loquen di, et ambiguorum intelligentiam, con
cludendigue rationem : tum paucis ad ditis, venit ad soritas, lubricum sane et
periculosum locum, V. Disputabile, ASofisma. DIALETTo ( disc. e spec.),
linguaggio particolare di popolo, o di genti, che vien dalla degenerazione o
corruzione di un linguaggio generale. V. Linguaggio. DIALoGo (disc. ), discorso
di due o più persone, detto a voce, o per iscritto. È forse la più antica forma
di scrivere, perchè la più semplice, e la più alta all'in segnamento.
L'insegnamento stesso altro non è che un dialogo, il quale si prefigge di
condurre l'allievo interlocutore alla com prensione delle verità che gli sono
ignote per mezzo d'interrogazioni e di risposte. Gli esempi degli scrittori,
che hanno meglio maneggiato questa forma di discor so, han somministrato le
regole della elo quenza dialogica, e ne hanno determi nato i suoi vari generi.
Platone e Cice rone, tra gli antichi, diedero la forma de perfetti dialoghi
filosofici; Luciano, dei dilettevoli. Tra i moderni, Galilei ha dato i
didascalici, Fénélon gli oratori ; e i grandi tragici e comici de due ultimi
tra scorsi secoli, i modelli de dialoghi dram matici. Molti altri belli
ingegni, e soprat tutto Fontenelle e Galiani han tolto al dia logo la sua
naturale sterilità, innestando la severità de dialoghi filosofici alla va ghezza
del dilettevoli e del poetici. Ciascuno de'cennati generi ha le sue regole
proprie, ma tutti si accordano in taluni precetti generali e comuni. Il dia
logo è una scena scritta, e come tale par tecipa dell'azione drammatica. Gli
ascol tanti o lettori trovar debbono nel suggetto un interesse, che impegni
l'attenzione loro: i suoi accessori, che sono gli episodi, o incidenti, debbono
sostenerla, e non de fatigarla: la sua fine soddisfar dee l'aspet tativa, e
portare seco la perfetta soluzio ne dell'argomento. Ciò nonostante nel dia logo
è più facile il persuadere, che il di lettare, attesa l'aridezza della sua
forma. Ha dunque bisogno di ornati, che v'in troducano una qualche varietà. Ma
questa esser dee sobria, opportuna al discorso, e analoga all'argomento.
DIDAsCALIA ( erit.), l'istruzione o l'in segnamento, detto con greca voce.
DIDAscaLiCo ( crit.), addiettivo, che vuol dire istruttivo, o proprio della
istru zione: è usato dal Casa. Pºrrico (erit.), grecismo delle scuo º, usato
per esprimere la maniera del l'insegnare, lo stile, il metodo, o il lin guaggio
dell'insegnamento. Direttivo (dise e prat.), nome o verbo che manca di alcuna
delle inflessioni di numero, di caso, di modo, o di tempo. Vale ancora mancante
di qualità. Pºrro (prat.), imperfezione naturale - errore, o colpa. in ciascuno
de tre dinotati sensi il vo cabolo conserva il significato del verbo la tino,
da cui è derivato. Il deficit, com prende egualmente un che di mancante
all'opera della natura, all' accorgimento, o alla volontà dell'uomo. Nel senso
di azione riprensibile, che è il più frequente, il difetto è un principio del
vizio, il quale presuppone sempre l'abi to. V. Abito, Vizio. Drrrruccio E
DIFETTUzzo (prat. ), di minutivo di difetto, che ha gli stessi signi ficati di
quel vocabolo, ma in un sens minorativo. V. Diminutivo. - DIFETTUoso E
DIFETToso (prat. ), addiet tivo di quel che ha imperfezione, errore, o colpa.
DirrAMARE (prat.), togliere la fama al trui, o denigrarlo con publica
maldicenza. La maldicenza praticata col fine della diffamazione è la più grave
di tutte le in giurie. V. Ingiuria. DIFFERENZA (dise.), quel che la spezie ha
di non comune col suo genere, o l'in dividuo colla sua spezie. V. Genere, In
dividuo, Spezie. Da ciò segue, che nel vocabolo diffe renza son implicite due
relazioni, una na: 18 - 158 – sce dalla comparazione di quel che manca al
genere, e l'altra dalla conoscenza di ciò che appartiene alla spezie, il che di
cesi proprio della spezie stessa. V. Proprio. Il determinare quel che una cosa
ha di comune con un'altra, e ciò che ha di pro prio, o sia il distinguerla per
lo genere e per la differenza, è quel che dicesi de finire. V. Definizione.
DIFFERENZIALE (crit.), quantità infinita mente picciola, o particella di
quantità sì picciola, che è minore di qualunque cosa assegnabile. Tal è il
significato, che dà a questo vo cabolo la geometria sublime, la quale chia ma
differenziale il calcolo che si vale delle differenze infinitesimali per
trovare le quantità finite, le proprietà, e le rela zioni loro. Leibnitz considerò
le quantità infinitamente picciole, come le differenze delle quantità finite.
L'esempio di tali differenze può trovarsi in una linea, che rappresenti il moto
d'un corpo in un dato tempo: l'impeto consi derato come il principio del moto,
sarà una lineetta infinitamente picciola, o infi nitesimale: il conato,
considerato come un atto, dal cui ripetimento infinite volte fatto nasce
l'impeto, sarà un infinitesimo d'infinitesimo. Così procedendo da diffe renze
in differenze nascono le grandezze differenziali del primo, del secondo, del
terzo ordine e così successivamente. Il diſ ferenziale è espresso colla lettera
d messa avanti alla quantità differenziata, e i diſ ferenziali di secondo e di
terzo ordine col la stessa lettera due o tre volte ripetuta, o seguita (secondo
la moderna ortografia) da un numero posto a diritta e in alto, per indicare il
grado del differenziale. Il calcolo differenziale dunque altro non è, se non la
maniera di differenziare le quan tità, o sia di trovare la differenza infini tamente
picciola d'una quantità finita va riabile. V. Calcolo. Quel che Leibnitz chiamò
calcolo diffe renziale fu da Newton denominato metodo delle flussioni, perchè
egli considerò le quantità infinitamente picciole come ac crescimenti
momentanei, a quali diede il nome di flussioni. Una linea, per esem pio, è
generata dal flusso, o scorrimento di un punto; una superficie dallo scorri
mento d'una linea; un solido dallo scor rimento d'una superficie. Tali
flussioni fu ron da lui indicate con un punto messo al di sopra della lettera
che le indica. Così la picciola varietà de segni, che si trova nel metodo di
Leibnitz e quello di Newton, è che il differenziale di y o di ac, secondo l'uno
è indicato per da, o dy, e secondo l'altro per a,g V. Flussione. DIFFICILE. V. Facile.
DIFFIDANZA E DIFFIDENZA (prat.), stato dell'animo, quando il dubbio gl'impedi
sce di raggiugnere la verità. V. Dubbio, Verità. Cotesta definizione è
generica, perchè abbraccia il dubbio tanto del giudizio pro prio, quanto
dell'altrui. Dal dubbio nasce l'incertezza e il timore d'ingannarsi, o di
essere ingannato. DIFFORMITA'. V. Deformità. DIFFUsIoNE (ontol.), l'atto per lo
quale un corpo dilatandosi, occupa un luogo maggiore nello spazio. - Gli
scolastici fecero molto uso di que sto vocabolo, per ispiegare, come potesse
avvenire la espansione del freddo, della – 159 - luce, del fuoco e delle altre
qualità dei corpi; e distinsero tre spezie di diffusio ne, quella cioè, con cui
una qualità pura si espande, come il freddo o la forza, un'altra che succede
mediante il moto dei corpi, come l'espansione della luce, del suono,
dell'odore, della elettricità, del magnetismo; la terza, che avviene in parte
col moto de corpi, e in parte colla espan sione delle qualità, come nel fuoco.
Ma cotesti nomi e distinzioni erano re lativi alle antiche idee, che i
peripatetici avevano delle qualità e delle sostanze; e appartenevano
propriamente alla metafi sica de'corpi; sì che non sono più di al cun uso nè
nella Metafisica, nè nella Fi sica. Lo stesso dee dirsi dell'altro loro vo
cabolo dilatazione, per lo quale spiegar volevano l'espansione delle diverse
parti d'un corpo. , DILATABILITA' (spec.), qualità che ta luni corpi hanno di
estendersi, di aumen tar di volume, e di occupare uno spazio maggiore, mediante
una forza espansiva che sciolga la coesione delle parti. V. Coe sione,
Espansione. DILEGGIAMENTo (prat.), atto offensivo, per lo quale taluno prendesi
giuoco d'un altro. - È men grave della derisione, e può tal volta essere
coperto dalla ironia. V. De risione, Ironia. DILEMMA (disc.), sorta di
sillogismo ipotetico, per lo quale si propone la scelta di due o di più
proposizioni tali, che qua lunque di esse sia scelta, porti seco una necessaria
conseguenza: utrum eligas, velis, id contra le futurum. V. ASito gasmo. DILETTo
(prat.), godimento, che l'ani mo, sente pel piacere sì del corpo, che dello
spirito. In un senso improprio è usato ancora quando l'animo prova un certo
contento nel dare sfogo al dolore; il perchè Pe trarca disse: - E per piangere
ancor con più diletto. DILEzioNE (prat.), l'amore, che portar dobbiamo al
prossimo. DILIGENZA (prat.), assidua cura, colla quale l'uomo va in cerca del
vero, o ese gue una cosa che crede doverosa o utile. La diligenza acquistasi
per l'abito, e po trebbe ancora essere definita per la virtù, che ci preserva
dall'operare inconsiderata mente, tal essendo il suo principal carattere. Quel
che Cicerone applica all'oratoria può dirsi di ogni altra opera dell'intellet
to, o della mano dell'uomo: ars demon strat tantum, ubi quaeras, atque ubi sit
illud, quod studeas invenire, reliqua sunt in cura, attentione animi, cogita
tione, vigilantia, assiduitate, labore, complectar uno verbo, quo saepe jam usi
sumus, DrLIGENTIA, qua una vir tute omnes virtutes reliquae continentur.
DILUVIo. V. Cataclismo. DIMENSIONE (ontol.), l'estensione di un corpo,
considerata come misurabile. V. E. stensione. r Considerando noi il corpo
esteso, come misurabile in lunghezza, larghezza, e pro fondità; diamo al corpo
tre dimensioni, dalla prima delle quali formiamo l'idea della linea; dalla
seconda, l'idea della su perficie; e dalla terza, quella del solido. i;
DIMENTICAMENTo E DIMENTICANZA (spee. e prat.), la perdita d'una idea o cono
scenza, che si è una volta avuta. Il dimenticare può nascere, o da di fetto
della potenza che ritiene le idee pas sate, ovvero da difetto di attenzione.
Distinguevansi nelle antiche scuole tre spezie di dimenticanze, la mentale, la
eorporale, e l'umana; e questa partizione corrispondeva a quella che facevasi
della stessa potenza in memoria della mente, memoria del corpo, e memoria della
mente e del corpo insieme. V. Memoria. Checchè sia di questa triplice distinzio
ne, di cui parleremo a suo luogo, chia mavasi dimenticanza mentale la
cessazione del pensiero, il quale presupponevasi con tinuo insino a che non
fosse da altro con trario pensiero dislogato; corporale era detto il dimenticar
de bruti, che secondo i cartesiani eran provveduti di solo cor po; umana poi
era denominata quella che nasce dalla imperfezione o dal turbamento de naturali
legami tra lo spirito e il cor po, il che si verifica nella infantile, e nella
senile età. , Senza indagare in che sia riposta la virtù ritentiva della
memoria, e da che nascer possa il suo difetto; certamente av viene, che spesso
dimentichiamo le cose una volta sapute; che talvolta le richia miamo alla
memoria allorchè la dimenti canza non è profonda; e che talvolta an cora non
possiamo ritenerle, a dispetto di tutti gli sforzi che facciamo per conservare
me la ricordanza. - È altresì indubitato, che spesse volte di mentichiamo per
difetto di attenzione, o sia per avere leggermente e indifferente mente
considerato un obbietto. Da questi due fatti ricaviamo i due generi di di
menticanza, che possiamo ammettere co me sicuri, l'una cioè per difetto della no
stra ritentiva, l'altra per mancanza di at tenzione, che con altri nomi potrem
dire involontaria, e volontaria. Fermandoci alla seconda, come a quella cui
l'abito dell'attenzione può dare riparo; vuolsi notare, che noi sogliamo
dimenti care gli obbietti noti, o per non avere ben esaminato le qualità loro,
nel quale caso manchiam di dare alla memoria caratteri sufficienti per
riconoscergli e ritenergli; ovvero per poca intensità d'affetto, il che avvenir
suole negli obbietti che sono in differenti al nostro sentimento. Questa par
ticolare spezie di dimenticanza gl'Italiani esprimono col verbo scordare, che
val quasi cacciar dal cuore, considerato come la sede del sentimento. Ma tanto
il vocabolo dimenticare quan to l'altro scordare esprimono un atto ne gativo
della memoria, non irreparabile; dacchè noi richiamiamo continuamente al
pensiero le cose altre volte note, soprattutto per mezzo dell'associazione
delle idee, la quale sembra avere la magica virtù di fare rientrare nella mente
gli obbietti che n'erano usciti. Ora v'ha una dimenticanza più profonda, la
quale obbedisce meno alla associazione delle idee, e talvolta an cora diviene
irreparabile. A questa noi ab biam conservato il vocabolo latino oblivio e la
diciamo obblio e obblivione. In som ma è quella intensa dimenticanza, che fu da
Dante espressa colle parole ecclissar nell'obblio, e da Virgilio con più carat
teristiche note - Lethaei ad fluminis undam Securos latices, et longa oblivia
potant. DIMosTRABILE (spec. e disc.), quello che può esser provato vero, per
mezzo del ra gionamento. - – 141 – È voce nelle scienze, e sopratutto nelle
matematiche, destinata a distinguere le ve rità dimostrabili dalle
indimostrabili, o sia quelle allo scoprimento delle quali si può pervenire per
mezzo del ragionamen to, dalle altre che trascendono i mezzi della scienza. In
un senso relativo, di consi ancora indimostrabili per un meto do quelle, che
sono dimostrabili per un altro. V. Indimostrabile, Metodo. Il dimostrabile è
anche contrapposto di quelle verità, che sono per se note, e che dobbiam tenere
per autorità e per fe de: Di queste disse Dante: Li si vedrà ciò, che tenem per
fede Non dimostrato, ma ſia per se noto A guisa del ver primo, che l'uom crede.
DIMosTRATIvo (dise.), quel che dimo stra, o che è atto ad essere dimostrato.
Così, dicesi metodo o genere dimostra tivo. V. Dimostrazione. Il dimostrativo è
uno dei generi della umana cognizione, il perchè distinguesi la verità
dimostrata dalla intuitiva o dalla sensitiva. Ciascuna di queste tre verità è
il fon damento di tre diversi generi di certezza, i quali prendono gli stessi
nomi, cioè di certezza dimostrativa, intuitiva, e sen sitiva. V. Certezza,
Intuitivo, Sensitivo. Dimostrativo è anche termine dell'arte discorsiva, ed è
aggiunto d'uno de tre generi dell'eloquenza, che sono il delibe rativo, il
giudiciale, e il dimostrativo. Dimostrativi chiamano i gramatici quei pronomi,
che indicano la cosa già nel discorso accennata, come questo, cote sto, quello,
e altri simili. Dimostrativo chiaman pure i gramatici italiani quel modo del
verbo, che comu nemente dicesi indicativo. DIMOSTRATo (disc.), quel che è
provato per dimostrazione. Dimostrato, in forza di sostantivo, vale
dimostrazione. DIMosraAzioNE (disc.), la pruova della ve rità d'una
proposizione, ricavata per mez zo del ragionamento. V. Ragionamento. Ogni
dimostrazione è un discorso, il quale si compone della sposizione del sug
getto, che dicesi enunciazione, degli ar gomenti probanti, e della conclusione,
da cui risulta la verità della proposizione enun ciata. Altra volta gli
scolastici chiamaro no preparazione la seconda parte, nella quale noi poniamo
gli argomenti proban ti, ammettendo come necessarie talune proposizioni
preliminari o taluni dati che domandavansi per concessi; il che non for ma
parte essenziale della dimostrazione. Se ben si esamina la natura del sillogis
mo, che era allora la forma unica del dimostrare, ben si vedrà, che la mag
giore sta in luogo della enunciazione, che la minore riassume gli argomenti
proban ti, e nella conseguenza sta la conclusione. Cotesta forma di dimostrare
è propria delle proposizioni stabilite come tesi dimo strabili, le quali dopo
di essere state di mostrate, prendono il nome di teoremi. Ella è affermativa o
diretta, quando pro cede per una serie di proposizioni affer mative ed
evidenti, che dipendono l'una dall'altra, e dalle quali risulta la verità della
proposizione, che volevasi dimostra re. La dimostrazione dicesi apogogica o
indiretta quando, in luogo di dimostrar vera la tesi, si dimostra falsa la
propo sizione contraria di chi volesse negarla. V. Teorema. Gli scolastici
distinguevano due spezie di dimostrazioni, desumendo la loro diffe – 142 –
renza dalla natura degli argomenti: chia mavano propter quod quella, colla
quale provasi l'effetto per la causa prossima, e quia l'altra, con cui
l'effetto era pro vato per la sua rimota cagione. Coteste distinzioni son ora
giustamente risguardate come frivole ed inutili. Il sillogismo è in realtà la
forma nuda della dimostrazione, per modo che que sta, per quanto lunga sia la serie
de suoi argomenti, può essere sempre ridotta a uno o più sillogismi: a uno, se
le pre messe sieno due proposizioni evidenti o dimostrate: a più, se ciascuna
di esse ha bisogno d'essere provata, nel quale caso saran tanti i sillogismi,
quanti saranno necessari per far delle premesse due ve rità note. Da ciò segue,
che le dimostra zioni logiche non son diverse dalle ma tematiche, comechè
queste sieno più com pendiose di quelle. La loro brevità nasce da che i
sillogismi vi si trovano nascosi sotto la forma di entimeni, o vi sono
sottintesi, perchè si presuppongono note le proposi zioni antecedentemente
dimostrate. In fatti il Clavio ridusse in sillogismo la prima proposizione di
Euclide; l'Erlino e il Da sipodio conversero nella forma sillogistica gl'interi
sei primi libri dello stesso autore, e l'Enisichio tutta l'aritmetica. In
conferma di che Leibnitz, Wallis, e Huygens non solamente proposero a
matematici il sillo gismo come la forma della rigorosa dimo strazione, ma
dimostrarono, che i paralo gismi ne quali talvolta incorrono le dimo strazioni
matematiche nascono dalla inos servanza delle regole sillogistiche. Quel che
abbiam sin qua detto, risguarda la sintesi matematica, o sia quel metodo col
quale da una proposizione universale già nota, vuolsi pervenire allo
scoprimento d'una ve rità particolare. V. Sillogismo, Sintesi. Ma la
proposizione, che ne teoremi si enuncia come dimostrabile, può essere an cora
proposta come dubbia, nel quale caso l'ufizio del dimostratore sta nel trovare
quella verità che si propone come incerta. Questo è quel che dicesi problema,
la dimostrazione del quale pure costa di tre parti, che sono: la proposizione o
la guistione, la soluzione, e la dimostrazio ne. Nella prima si espone quel che
de'es sere provato di potersi fare: nella secon da, i mezzi pe quali si può
pervenire a quel che si cerca : nella terza, il come coproposti mezzi si giunga
allo scopo de siderato, il quale rimane dimostrato pos sibile, e in taluni casi
ancora impossibile, Ora da ciò segue, che ogni problema di mostrato che sia,
può essere converso in un teorema, che prenda la forma d'un sillogismo
ipotetico. In questo sillogismo, la soluzione diviene ipotesi, e la quistione
tesi, sì che ammesso il procedimento in dicato nella soluzione, si dimostra la
re lazione e la proprietà, in cui è stata con versa la proposizione. V.
Problema. La vera distinzione da farsi nelle dimo strazioni è quella fondata
nella doppia via, per la quale la ragione perviene allo sco primento del vero.
Per una di esse suole la mente dalle verità generali e astratte venire alle
particolari: per l'altra, dalle verità particolari che le sono note per espe
rienza, suole giugnere alle universali. Co teste due vie son quelle che diconsi
me todi, uno sintetico, l'altro analitico. Le due dimostrazioni che
corrispondono a cia scuno dedivisati metodi furono dette dagli scolastici, a
priori l'una, a posteriori l'altra. Col primo nome indicavano quella, colla
quale l'effetto era provato per la sua causa, prossima o rimota che fosse, ov
vero quella di cui la conclusione nasceva – 145 – da una verità
antecedentemente stabilita; e col secondo dinotavano la dimostrazio ne, che per
mezzo degli effetti perviene alla causa. Esempio della dimostrazione a priori è
l'esistenza di Dio, provata per argomenti ricavati dalla natura e dagli
attributi suoi; siccome l'esempio dell'altra a posteriori, è la stessa
esistenza di Dio provata per le sue opere, o sia per la creazione e per le
maraviglie dell'univer so. V. Metodo. Dalla dimostrazione nasce la convizione
del vero, ed in tale convizione è riposta la certezza, che dicesi dimostrativa.
E quando le proposizioni dimostrate sieno di quelle verità che diconsi
necessarie, come sono le verità geometriche, la certezza di mostrativa è stata
ancora denominata cer tezza metafisica, perchè ha per suo con trapposto
l'impossibile. Da ciò non segue che sia questo il solo, o come molti han
creduto, il primo genere di certezza; da poichè la dimostrativa ha per suo
fonda mento l'intuitiva, e della intuitiva fa parte ancora la sensitiva. V.
Certezza. La dimostrazione per sillogismo fu per lunghissimo tempo l'unica
forma di ra gionare, di cui le scienze tutte fecero in distintamente uso. Ma
Bacone fu il primo ad avvertire, che la forma sillogistica po teva convenire
alla giurisprudenza e alle altre scienze dette positive, e non allena turali.
Il suo avviso servì di lume a fisi ci, per distinguere l'arte di dimostrare
dall'arte di trovare il vero; e però abban donata quella forma, abbracciarono
per foro guida il motodo induttivo, o sia il ragionamento inverso dal
particolare all'universale. Di qua è, che l'analisi, e la forma del dimostrare
a posteriori sieno venute in maggior uso della sintesi, e della dimostrazione a
priori. E per par lare più propriamente, mélle scienze fisico matematiche, la
sola via per giugnere allo scoprimento del vero è l'analisi, la quale veste
diverse forme, e prende di versi nomi, secondo la varietà degli ar gomenti, ma
consiste sempre in questo, che la mente procede gradatamente dal noto
all'ignoto. La sintesi non è che una maniera particolare di esporre le verità
già trovate per mezzo dell'analisi, assumen dole come tesi, e rovesciando il
ragiona mento adoperato dall'analisi per rinvenir le; sì che l'ultima
conseguenza dell'ana lisi forma la prima pruova della sintesi, V. Analisi,
Induzione. DINAMICA (crit.), la scienza delle forze e del moto de corpi duri,
distinta dal l'idrodinamica, che versa circa il moto delle masse liquide. Dio
(spee. prat. e teol.), la mente crea trice di noi e dell'universo. Questa è la
prima mozione della Divi nità, che la ragione umana acquista, ri flettendo in
se medesima, e guardando alle cose che ci circondano. L'esistenza di Dio è una
verità imme diata che l'uomo ricava da se medesimo, e dalle cose fuori di se.
La prima di queste due cognizioni precede l'altra, dapoichè ognuno vede non
essere egli l'autore di se medesimo, o sia vede essere stato pro dotto da una
causa superiore, capace di dargli l'essere e l'intelligenza. La seconda poi
nasce dall'aspetto e dalla contempla zione dell'universo, o sia delle maravi
gliose opere della natura, delle quali non si può trovare la ragion sufficiente
se non in un Essere sapientissimo ed onnipoten te. Queste due fonti della
cognizione di Dio corrispondono a due principi univer - – 14 - sali di dimostrazione,
a priori l'uno e a posteriori l'altro. Grave è la disputa tra filosofi se l'esi
stenza di Dio sia capace d'ambi i generi di dimostrazione, o solamente del
secondo, il quale come più evidente e più aperto alla comune intelligenza, è
stato più uni versalmente accettato. Quelli i quali si son fermati alla sola
dimostrazione a posteriori, non hanno ris guardato l'esistenza di Dio come una
ve rità intuitiva, ma si sono contentati desu merla dall'opera immensa della
creazione, o sia dagli argomenti cosmologici. Altri non pertanto l'han
considerata come una prima verità, innata, impressa in noi dalla stessa natura.
Come tale risguardolla S.An selmo Arcivescovo di Cantorbery, Cartesio e
Leibnitz, comechè le dimostrazioni da ciascuno di essi proposte non sieno
esenti da difficoltà logiche. Se la nozione della esistenza di Dio debba dirsi
ingenita, ov vero intuitiva, nel senso d'una immediata deduzione, che la
ragione fa dalla cono scenza di se medesima, vedi le disserta zioni intorno
alla esistenza di Dio, nelle note 48 e 133 Vol. I. DiortRica (crit.), la
teorica della luce refratta, che passa per differenti mezzi, come per acqua,
aria, vetro, o lenti. È parte dell'Ottica. DIPENDENTE (ontol. ), quel che è, o
sta per un altro, e non di per se. Contiene una idea di relazione, la qua le
può abbracciare o il subbietto tutto in tero, o le sue qualità, o anche gli
acci denti, e i modi di essere: è una idea, la quale entra nella maggior parte
dei giudizi, che formiamo intorno alle rela zioni, così degli Esseri materiali,
come degli obbietti del pensiero, e degli atti della volontà. E però diciamo,
essere l'ef fetto dipendente dalla causa; l'idea as sociata, dall'altra, cui si
associa, la pro posizione subalterna, dalla principale, e il fatto, dalla
volontà dell'agente. Gli scolastici ne formarono una nozione astratta e del
tutto ontologica, avendo de finito il dipendente, quel che per esistere ha
bisogno d'un anteeedente nel quale e riposta l'essenza del conseguente. Da tal
definizione dedussero, che ogni eosa dipendente ha una causa, da eui ripete
l'esser suo; che tanto vale il dire un Es sere dipendente, quanto dirlo
imperfetto, perchè il bisogno, che ha d'un altro, presuppone l'insufficienza
propria, sicco me l'insufficienza include l'imperfezione. L'imperfezione può
nascere da qualunque cosa manchi al compimento dell'essere, o che il difetto
sia nell'essenza, ovvero in alcuna qualità necessaria, o giovevole; d'onde poi
le differenze tra le diverse spe zie del dipendente. Le creature dunque son
tutte dipendenti dall'Autor loro, che solo può dirsi indipendente. Da ciò
conchiusero ancora, che ogni accidente per rispetto alla sostanza è un che
d'imperfetto, per chè dipende dalla cosa, cui è inerente , e dalla quale non
può essere disgiunta. Ora tra vari significati de quali questo vocabolo è
capace, convien distinguere il metafisico, dal logico, e dal morale, il che va
meglio fatto nella definizione del suo contrapposto. V. Indipendente.
DIPENDENZA (ontol.), l'astratto del dipen dente, che gli scolastici
distinguevano in subbiettiva, effettiva, e obbiettiva. Chia marono subbittiva
quella che è propria degli accidenti, i quali non possono stare senza, e fuori
del subbietto; effettiva quel - 145 - la che esprime la causalità, come sarebbe
la dipendenza delle creature dal Creatore; e obbiettiva, la dipendenza
razionale, che noi scorgiamo nelle cose che hanno una necessaria relazione,
come quella che i re lativi e i correlativi hanno tra loro. V. Cor relativo,
Relativo. - Cotesta partizione è anche coerente al sistema di quella vecchia
scuola, che tutto riduceva a categorie nominali, le quali for mavano
l'antemurale dell'arte del pensare. DIPLOMATICA (crit.), arte di conoscere
l'età, in cui furono scritti gli antichi di plomi, di distinguere i veri da
falsi, e di assegnare i caratteri discernitivi degli uni e degli altri. Per
nuovo significato derivato pure dalla voce diploma, è la cognizione del
trattati e delle politiche negoziazioni, dalle quali nasce la scienza del
diritto publico inter nazionale. V. Diritto. DIRETTo (spec.), nome di qualità,
che taluni sogliono dare alla conoscenza piena e immediata d'un obbietto. In
questo senso il diretto equivale all'ob biettivo, siccome l'indiretto al
subbiettivo. V. queste voci. Diretta dicesi ancora quella dimostrazio ne, la
quale procede dalla maggiore in sino alla conseguenza per proposizioni tutte
affermative. V. Affermativo, Dimostra zione. DIRITTo (prat. e crit.), quel che
a cia scuno è dovuto per la legge del giusto e dell'onesto. V. Giusto, Legge,
Onesto. Dalla nozione del diritto nasce l'altra del dovere, che ci obliga di
rispettare il diritto altrui in contracambio di quel che esigiamo per noi
stessi; ond'è che questi due vocaboli sieno correlativi e recipro chi. V.
Dovere, Tanto il diritto quanto il dovere espri mono gli effetti che ogni legge
partorisce, quando concede ad uno la facoltà di esi gere una data cosa,
imponendo ad un altro l'obligo di prestarla. Cotesto signifi cato secondario è
una derivazione del pri mitivo; siccome ogni legge umana è un derivato della
legge naturale. Il vocabolo Diritto si adopera ancora per esprimere un
adunamento ordinato di leggi scritte. In questo senso anche le leg gi del
giusto e dell'onesto prendono il no me di diritto naturale in contrapposizio ne
del positivo, che poi suddividesi in publico, privato, civile, penale, mari
timo ec. DISAFFEZIONARE (prat.), distorre taluno dall'affezione, V. Affezione.
La particella dis, messa innanzi a nomi di qualità e al verbo, acquista forza
di me. gare o di scemare; e però tanto in questo verbo, quanto in molti altri
deseguenti vo caboli, forma contrapposti e peggiorativi. DISAMORE (prat.),
contrapposto di amo re, proprio di chi ne manca, o se ne mostra incapace. V.
Amore. DisAMOREvoLEzzA (prat.), cattiva dispo sizione d'un animo, che non sente
quella umana e cortese benevolenza, che dicesi amorevolezza. V. questa voce.
DisANIMARE (prat.), fare altrui perdere la forza dell'animo. V. Animo.
DisAPPAssIONATEzzA (prat. ), integrità d'animo, incapace delle prevenzioni
figlie delle passioni. V. Passione, 19 È la virtù propria di quelli ch'eserci
tano l'ufizio di giudicare. DiscERNERE (spec.), conoscere e giu dicare
rettamente. DiscERNIMENTo (spec.), l'atto della ra gione, per lo quale
distingue il bene dal male, il vero dal falso, il simile dal dis simile, e il proprio
dal diverso. V. D stinguere. E la funzione propria del giudizio, la quale,
quando sia abituale forma quel che dicesi senso retto o comune. V. Giudi zio,
Senso. DiscERNITIvo (spee.), che ha la qualità del discernere, o che è atto a
discernere. Così diciamo, facoltà discernitiva per quella natural virtù che
abbiamo di co noscere il vero delle cose; e carattere di scernitivo per segno
atto a distinguere una cosa dall'altra. DiscTPLINA ( crit. ), istituzione o
inse gnamento. - È voce propria della istituzione delle scienze, e delle arti
dette liberali, che abbiamo ereditato da latini, presso i quali aveva lo stesso
senso ampio e generico che oggidì le diamo; sì che possiam dire della età
nostra quel che Cicerone diceva della sua, secolo d'arti e d' ogni buona di
sciplina. DiscoLPA (prat.), dimostrazione di non essere in colpa. V. Colpa. -
Dscorrimento (prot. ), il discolparsi. DiscoNFORTo (prat.), tristezza d'animo,
accompagnata da sbigottimento. DisconosceNzA (prat.), volontaria igno ranza, e
anche ingratitudine. DiscoNosCERE (prat.), il cessare volon tariamente di
conoscere. DISCONSENTIRE (spec. e prat.), negare il proprio assentimento;
contrapposto di acconsentire. DiscoNSIGLIARE (prat.), mal consigliare.
DiscoNsoLARE (prat.), cagionare mesti zia ad alcuno; e nel passivo vale rice
VCTInC : E tanto è lo mio cor disconsolato Ch'io fremo e ruggio come fa il
leone Quanto e si sente preso, ovver legato. DANTE. DiscONTENTARE (prat.), far
cosa dispia cevole, che produca disgusto. DiscoNTINUARE (prat.), perdere la con
tinuità, adoperato dal Galilei. DiscoNvENIENZA E ScoNvENIENZA (spec. prat. e
disc. ), difformità di relazioni tra due obbietti del pensiero. E negazione
della convenienza. V. Con venienza. Ne pratici portamenti della vita si ap
plica a tutto quel che è sconcio, inop portuno, o non adattato alla qualità
delle azioni o delle persone. Applicata al discorso, esprime le irre golarità
dello stile, o il difetto nella scelta degli argomenti o delle parole, e ogni
peccato contro la regola scritta in quel pre cetto d'Orazio: Singula quaeque
locum teneant sortita decenter. - 147 - DiscoRAGGIARE (prat.), fare perdere al
trui il coraggio; e nel passivo, perderlo. DiscoRARE (prat.), far altrui
perdere ogni forza d'animo in casi avversi; e nel passivo, perderla. È più del
disanimare. Disconosa ( prat.), qualunque dissi miglianza di opinione, o di
volontà. DiscoRDARE (spec. e dise.), il sentire o il giudicare diversamente da
un altro. È vocabolo preso dalla dissonanza di due voci. Discono A (prat.),
disunione d'animi, per contrarietà d'interesse, o di altra passione. Discorso
(disc.), l'esercizio della fa coltà della parola. V. Parola. In un senso meno
ampio vale un ragio namento recitato o scritto, che sia compo sto colle regole
dettate dall'arte del parlare, e dalla convenienza dell'argomento. Cote ste
regole son quelle che insegnano la lo gica e la dialettica. V. Dialettica,
Logica, DiscoRTESIA (prat.), contrapposto di cor tesia. V. questa voce.
DiscREDERE (spec.), cessar di credere quel, che s'è altra volta creduto. V. Cre
denza, Credere. DisCREDITARE E SCREDITARE (prat.), torre altrui il credito, o
la fama. È meno del diffamare, che in se con tiene la publicità. V. Diffamare.
DisCREPARE (spec. e disc.), l'avere una opinione diversa da quella di un altro,
DiscaEro (prat. e crit.), chi si com porta prudentemente e moderatamente, Come
aggiunto di quantità, dinota quel lo, di cui le parti sono separabili, perchè
uguali e simili, o sia il numero. Questa spezie di quantità forma l'obbietto
dell'arit metica, e serve a distinguerla dalla geo metria, che versa circa le
proprietà della estensione, la quale per contrapposto di cesi quantità
continua. V. Quantità. DiscREZIONE (prat.), qualità dell'anima, o virtù
pratica, di chi misura con pru denza e moderazione i suoi diritti, e dà a
ciascuno quel che gli si conviene. DiscussioNE (dise. ), diligente disamina
delle difficoltà e obbiezioni, nelle quali può abbattersi un argomento, onde
ren derne compiuta e chiara la dimostrazione. V. Argomento, Dimostrazione.
DisDEGNo (prat.), sentimento di dispre gio, accompagnato da ripugnanza, o av
versione. Il disdegno entra nella scala del senti menti disamorevoli, che
formano il genere dell'avversione. È diverso dal dispregio, dalla disistima, e
dal dispetto. V. queste voci. DisDIcEvoLE (prat.), quel che non con viene per
difformità o dissimiglianza di DisDIRE (disc. ), dire il contrario di quel che
si è prima detto. È diverso dal negare, e dal ritrattare. V. queste voci.
DisEGNo (crit. e spec.), l'imitazione, per tratti di scrittura, della esterna
forma r degli obbietti, che si presentano al senso della vista. - È il
principio e il fondamento della pit tura, della scultura, e di tutte le arti
del disegno. Coteste arti forman parte delle così dette imitative. V. Arte. In
senso traslato, il disegno vale pen siero, intenzione, o fine, che presiede al
l'azione. V. Azione. DisEGUALE E DISUGUALE (spec.), quel che non ha il medesimo
essere, nè le me desime qualità. È contrapposto di eguale. V. questa voce,
DISFAvoRE (prat.), alienazione dell'ani mo, altra volta benevolo. È diverso
dalla disgrazia, perchè può appena divenirne il cominciamento. DisCIUNTIvo
(dise. ), nome di qualità, che si dà alle particelle che servono a di
stinguere, o a separare i sensi di voci o di proposizioni diverse. DisGRAZIA
(prat.), per suo significato proprio vale infortunio o sventura. In uno de suoi
traslati vale ancora pri vazione o perdita di benevolenza, onde venire o cadere
in disgrazia di taluno importa incorrere nell'avversione di lui. È proprio del
superiore verso l'inferiore. DISGUSTo (prat.), nel suo significato proprio,
vale ripugnanza o avversione del palato. In senso traslato, vale dispiacere
rice vuto con rincrescimento, o risentimento. DISINGANNARE (disc. e prat.),
torre se stesso o altri da una falsa opinione, in cui prima erasi. DISINGANNo
(prat. e disc.), l'atto e l'ef fetto del disingannare. DisINTERESSE (prat.), la
virtù che ci fa disprezzare le ricchezze, e riduce i desi deri entro i limiti
del necessario. È il fondamento di tutte le altre virtù, perchè limita i
bisogni, e porta nell'ani mo l'abito della moderazione, nella quale
principalmente è riposto il giusto equili brio delle passioni. I latini la
chiamarono abstinentia, e la predicarono come la prima di tutte le virtù
publiche: il suo contrapposto è l'ava rizia e la cupidità: nullum vitium, dice
Cicerone, tetrius quam avarilia, prae sertim in principibus rempublicam gu
bernantibus: habere enim quaestui rem publicam non modo turpe est, sed sce
leratum etiam et nefarium: nulla autem re conciliare facilius benevolentiam
mul. titudinis possunt ii, qui republicae prae sunt, quam abstinentia et
eontinentia. V. Continenza. DisINvoLTURA (prat.), naturale spedi tezza di
portamenti e di maniere, senza veruno studio. DisIsrIMA (prat.), opinione
sfavorevole, per la quale si cessa di avere in pregio colui, che si è prima
stimato. È meno del dispregio. V. Dispregio. DisLEALE (prat.), chi manca di
fede ad altri. DisMoDATo (prat.), tutto quel che esce da limiti decostumi e
delle usanze di co loro, tra quali vivesi. DisoBBEDIRE, e DISUBBIDIRE (prat.)
ne -149 –- gare volontariamente l'adempimento d'una obligazione, che ci viene
imposta dalla legge. V. Legge, Obbedire. DisoBBEDIENZA (prat.), negazione di
obbedienza a precetti d'una legge. Diffe risce dalla inobbedienza. V. questa
voce. DisoBLIGARE (prat.), cavar d'obligo un altro, o se stesso, o
reciprocamente l'un 'altro. V. Obligazione. E però l'anzidetto verbo è usato
tanto nel significato attivo, quanto nel neutro passivo. Niuno può disobligare
se stesso, nel sen so che non può cancellare la propria obli gazione, ma
ciascuno si disobliga adem piendola. Laonde il Varchi notò, che que sto verbo
non può aver luogo, se non tra due persone, sì che non può consistere in un
solo, che non potrebbe disobligare se steSSO. DisoNESTA' (prat.), tutto quel
che scon viene al concetto e alla nozione dell'one sto, di cui è il
contrapposto. Corrisponde al dedecus de Latimi.V. One stà e Onesto. DIsoNoRE
(prat.), vale perdita dell'ono re, che seco porta biasimo, vergogna e infamia.
V. Onore. DisonErrANZA e EsoaErrAnzA (prat ), azione sconveniente, che dà
nell'eccesso. DrsoRDINE (spec. e prat.), perturba mento di quella naturale
disposizione del. le cose, che chiamasi ordine. Si applica nel senso morale ad
ogni azione o portamento contrario alla buona regola del vivere. DisPARERE
(dise. ), opinione contraria a quella d'un altro. Importa semplice diversità di
giudizio, e però è meno di discordia e di discrepanza. DisPARERE v. (prat.),
apparire malamen te, o diversamente da quel che converrebbe. DisPAREvoLE
(prat.), fuggevole o ca duco, e vale per le cose sensibili, che pas sano e
scompariscono. DispARI (spec. e prat.), non pari, non eguale, non simile. Nel
primo senso è quel numero che non può essere diviso in parti eguali, ed intere.
Nel secondo senso è meno del disugua le, perchè l'eguale presuppone sempre il
medesimo essere e la medesima sostanza; laddove il dispari può trovarsi o
nell'uno, o nell'altro. Nel terzo senso, è impropriamente usato per dissimile;
dacchè la dissimiglianza ris guarda l'apparente, e non il costitutivo reale
delle cose. V. Dissimile, Disuguale. DisPARISCENTE (spec.), contrapposto di
appariscente. V. Appariscenza. DISPARITA' (spec. e disc.), la differenza tra
due cose non pari. Vale ancora diversità di giudizio, o di opinione. DispERANZA
(prat.), la perdita della speranza. DispERARE (prat.), uscire e fare uscire di
speranza. Nel senso di neutro passivo vale per dere la speranza insieme colla
tolleranza del dispiacere. - 150 – DrspER AzioNE (prat.), tristezza, che non è
rattemperata da veruna speranza di mutazione in meglio. V. Tristezza. Cotesta
definizione è degli stoici, e però secondo la partizione di quella scuola, è
una delle spezie del dolore, il quale è uno de quattro generi delle passioni.
V. Dolo re, Passione. Potrebbe ancora essere definita: smania che affligge
l'anima per un bene, che crede non poter possedere o ricuperare, o per un male,
che crede irreparabile. V. Bene, Male. Differisce dalla semplice disperanza, la
quale non è accompagnata dalla intolle ranza del dolore. Disperro (prat.),
dispregio dimostrato con risentimento, o animosità. E più del dispregio. V.
Dispregio. DisPIACENZA E DISPIACERE (prat.), sen timento di molestia, di
fastidio , o di dolore, che ci vien da'sensi, o dall'ani mo, per qualunque cosa
che apprendiamo, come non gradevole, non utile, o non buona. L'uno e l'altro
vocabolo sono adoperati per esprimere i diversi gradi d'intensità, che questo
sentimento può avere, comin ciando dalla più lieve molestia, insino al più vivo
dolore; siccome il piacere, che è il contrapposto loro, abbraccia ogni sorta di
sentimento gradevole, sensitivo, o mo rale che sia. V. Piacere. DISPIACIMENTo
(prat.), disapprovazione d'un fatto, accompagnato da un sentimento di
dispiacenza. - DisposizioNE (prat. e disc. ), tendenza dell'animo a secondare
un principio d'azio ne, in preferenza degli altri. V. Azione, Principio.
Differisce dall'abito, di cui è un ele mento, o inizio. V. Abito. La
disposizione può nascere, o dalla af finità che han tra loro i diversi principi
d'azione, o dalla parte sensitiva di noi stessi. Taluni principi d'azione hanno
tra loro una naturale somiglianza, la quale pro duce, che uno tragga dietro a
se gli al tri, o perchè procedono dalla medesima causa, o perchè l'associazione
delle idee chiama l'uno appresso dell'altro. Tali sono gli affetti benigni, i
quali sono tra loro collegati o per la similitudine dello scopo che si
prefiggono, o per lo desiderio che spigne l'animo alla pratica della virtù.
Questo consenso di tutti gli affetti vir tuosi, è quel che forma il carattere
di stintivo della perfetta virtù, e dell'uomo per ogni verso buono. La stessa
connessione regna tra gli af, fetti maligni, i quali generano l'abito del
vizio, e sono in aperta opposizione dei primi. V. Affetto. La disposizione poi
che nasce dalla parte sensitiva, è un eſſetto che l'anima risente dallo stato
sano o infermo del corpo, dal piacere o dal dolore, dalla speranza o dal
timore, e da tutte le sensazioni gradevoli o disaggradevoli. Cotesta
disposizione è quella che viene comunemente designata col nome di umore, e che
è la sorgente della ilarità, o della tristezza. V. Ilarità, . Tristezza. Da ciò
segue che la diversa disposizione dell'anima può nascere tanto dagli appe titi,
quanto dagli affetti, e così da prin cipi d'azione meccanici ed animali, quanto
da razionali; il che ha suggerito la distin zione tra disposizione fisica, e
morale. V. Fisico, Morale. – 151 – Lo stesso vocabolo, nell'arte del parlare,
vale ordinamento delle diverse parti del di scorso, acciocchè sia tra loro la debita
con nessione, e tutte sieno coerenti al suggetto, e allo scopo del dicitore. V.
Discorso. DisPREGIo E DISPREzzo (prat.), non cu ranza di persona o di cosa, che
si reputa da poco. E il contrapposto di stima.V. questa voce. DISPUTABILE
(dise. ), il probabile d'un argomento qualunque, che può esser per una parte
affermato, e per l'altra negato. D'onde nasce, che tranne poche verità
evidenti, tutto sia divenuto disputabile tra gli uomini; e che
nell'applicazione delle stesse verità evidenti, essi discordino, e si scindano
in sette e in partiti, del quali ciascuno, dal calore della parola trascorre a
risentimenti e agli odi delle passioni? È lo spirito della disputa, che
trasporta fuori dello scopo e de limiti suoi l'arte del ragionare, la quale
esser dovrebbe l'arte di trovare il vero ! Nulla è più utile di quest'arte,
tanto nella privata quanto nella publica vita; nulla è più di essa necessario
al progresso delle scienze. La disputa apre alla verità mille aditi, i quali si
nascondono alla muta meditazione d'un uomo concentrato ne'suoi pensieri;
comunica allo spirito la vivacità per trovare nuove idee; gli mostra le ob
biezioni e le difficoltà, nelle quali si ab battono i giudizi fondati sopra
l'apparente verità delle cose; scopre i nodi di tutte le controversie; dilegua
le ambiguità; chia rifica le idee; e spiana la via a quel ma turo giudizio, nel
quale è riposta la per suasione. Cotesti buoni frutti del disputare nascer
debbono dalla retta e ingenua in tenzione di trovare il vero, la quale al dir
di Cicerone non si offende della ripren sione, e per contrario abborre la
pertina cia e l'iracondia: quamobrem, egli sog giugne, dissentientium inter se
repre hensiones non sunt vituperandae. ma ledicta, contumeliae, lum iracundiae,
contentiones, concertationesque in dispu tando pertinaces, indignae mihi philo
sophia videri solent. Ma se al disputare presieda in luogo dell'amor del vero,
quello della propria opinione, o il desiderio di contraddire l'al trui; alla
ragione sottentra la passione, la quale ci allontana interamente dal retto
sentiero, e ci conduce all'errore e a so fismi. Ciascun de disputanti, cercando
di vincere l'altro, trova argomenti per dare alla propria opinione il color
della verità, d'onde segue che alla perfine tutto prenda l'aspetto della probabilità,
e nulla resti di chiaro, o di certo. Così facendo, essi non corron dietro alla
gloria di trovare il ve ro, ma a quella di mostrarsi l'uno più abile e più
destro dicitore dell'altro; e spinti dal sentimento della rivalità muovon
guerra prima agli argomenti, e poi alla persona dell'avversario. A tal modo le
scuole di vennero teatri di gare e di convici ; nè trovossi più una verità, che
non fosse co perta dal velo della probabilità. Per preservare la filosofia
dalla incer tezza e dalla fluttuazione delle opinioni, e per restituirle la
luce della verità, la quale non può essere che una, uopo è richia mare alle sue
vere regole l'arte del di sputare. Coteste regole sono: 1.º l'enun ciare
chiaramente le proposizioni che deb bon essere provate: 2.º il definire le idee
e i vocaboli che ne determinano il senso: 3.º il convenire del principi co'
quali le quistioni proposte debbon essere risolute: 4.º il risolverle co
principi convenuti. – 152 - Se quest'ordine fosse seguito, non po trebbe
avvenire, che una delle due se guenti cose: o che si disconvenisse dei
principi, o che si discordasse intorno alle conseguenze. Nell'uno e nell'altro
caso di verrebbe palese la causa dell'errore, e la disputa sarebbe utile agli
altri, che dopo i primi venissero senza prevenzione a di rimere la medesima
controversia. DISRAGIONE (prat.), contrapposto di ragio ne, usato nel senso
dell'operar pazzamente. DISREGOLATo (prat.), licenzioso, che non sopporta il
freno della regola. V. Regola. DissENSIONE (prat.), discordia nata per diversità
di opinione. DISSENTIMENTo (spec.), atto del giudizio col quale neghiamo la
verità d'una pro posizione. V. Giudizio. È negazione di assentimento. V. As
sentimento, DissIMILE (spec.), quel che non ha la medesima forma, o le medesime
qualità. È contrapposto di simile. V. questa voce. DISSIMULAZIONE (prat.), il
nascondere altrui il proprio pensiero. Differisce dal simulare, che è fingere
un sentimento non suo. Simula chi finge, e dissimula chi cela: simula
l'aſſetto, chi mostra di sentirlo, e non lo sente: dissi mula, chi fa mostra di
non sentirlo, e lo sente: in somma si simula quel che non è, e si dissimula
quel che è: o in altri termini, il simulatore parla falsa mente, e il
dissimulatore tace. Ma non sempre il tacere è riprensibile, e però non sempre
il dissimulare può es sere ascritto a doppiezza d'animo. La dis simulazione è
vizio, quando taluno tace quel che è obligato di manifestare; e per l'opposito
è virtù, quando il palesarlo no cerebbe agli altri, o a se medesimo: nel primo
caso v'ha dolo, e nel secondo v'ha prudenza. Malamente han taluni citato l'au
torità di Cicerone per dare alla voce dis simulazione il significato di
mendacio; im perocchè egli adoperolla così nel buono come nel tristo senso. E
se in un luogo disse, nec quidquam simulabit aut dissi mulabit vir bonus, e in
un'altro, dolus malus simulatione et dissimulatione con tinetur, per contrario
adoperò pure lo stesso vocabolo nell'inverso senso, e chia mò dissimulazione la
dimenticanza e l'ob blio del propri mali, come nel terzo del le tusculane, e
nel secondo de oratore: valde ridentur, quae a prudentibus, quasi per
dissimulationem non intelli gendi, subabsurde falseque dieuntur. Al che si
aggiugne avere i latini chiamato dissimulazione anche l'ironia, ed averla
Cicerone stesso commendata come la figu ra favorita da Socrate: Socrates
libenter uti solitus est ea dissimulatione, quam Graeci epayetay vocant. Lo
stesso doppio significato ha il voca bolo dissimulazione nella lingua italiana,
siccome abbiamo dal Cavalca nel trattato de frutti della lingua, « che chi non
sa » perdonare, e dissimulare discretamente, 2 non sa nè può punir giustamente
». Di remo ancora, esser cotesto doppio senso comune alle altre lingue volgari,
che han no ereditato il latino dissimulare, come presso i francesi; e doversi
per necessità distinguere il buono dal cattivo significato del pari che
facciamo nel verbo tacere. Chi non sa che la riserva, la discrezione, ed il
segreto sono i mezzi, de quali si – 155 - vale la prudenza nella direzione
della vita privata; e che nella vita publica divengo no gl'instrumenti
necessari del reggimento de popoli. Ognun conosce il famoso detto di Luigi XIV
che l'arte di regnare sta nel saper dissimulare. Che se l'abuso di que st’arte
è stato notato a vizio di taluni prin cipi, come di Tiberio, di Luigi XI, e di
Filippo II; non è però, che perder debba il carattere di saggezza e di prudenza
in quegli altri, che ne hanno rettamente, e senza fraude usato. V. Finzione.
DissoLUTEzzA (prat.), rilassetezza di co stumi per lascivia. Vale tanto pe fatti,
quanto pe'detti, e però diconsi opere dissolute, e lingua dissoluta.
DissoLUzioNE (spee.), distruzione del composto, o separazione de suoi compo
menti in minime parti, liquide o solide che sieno. V. Composto. È vocabolo
proprio della fisica e della chimica; comechè il suo concetto appar tenga
ancora alla filosofia speculativa, per chè le somministra l'idea del modo col
quale si sciolgono i corpi, e spezialmente quelli degli Esseri organici.
DissUAsIoNE (disc.), ragionamento fatto, per distruggere una convizione già
prima formata, o per distorre l'animo da qualche sentimento, che in esso
prevale. V. Con vizione. DISTANZA (spee. ), intervallo di luogo, o di tempo,
che separa un obbietto da noi, o più obbetti tra loro. Il significato proprio
di questo vocabolo risguarda la distanza di luogo, o sia la geometrica.
Quantunque la conoscenza della distanza ci venga dalla visione e dal tatto
uniti insieme, pure l'organo della vista è quello, che ci somministra i dati,
per misurare gl'intervalli che separano gli obbietti lon tani, e per
distinguere gli apparenti dai veri. V. Apparente. L'ottica ci spiega, come i
raggi della luce passando a traverso dell'umor cristal lino degli occhi vengano
a dipingere nel la retina l'immagine fedele degli obbietti esterni; come la grandezza
delle immagini dipinte sulla retina sia proporzionale alla lontananza degli
obbietti; come nella re tina si dipingano contemporaneamente le immagini de
corpi intermedi tra l'occhio e l'obbietto più lontano; come la luce dia un
colore a tutti gli obbietti, e come la maggiore o minor vivacità del colori sia
ancor essa proporzionale alla rispettiva lon tananza loro. Da tali dati il
ragionamento deduce, che la chiara o confusa visione degli obbietti, delle loro
parti e del colo rito formino le diverse gradazioni degl'in tervalli, che li
separano; e servendosi de gli obbietti intermedi, come di altrettanti mezzi di
misura, perviene a determinare la distanza anche de più lontani, che l'oc chio
appena giugne a raffigurare. V. Ol tica , Visione. Quanto poi alla distanza di
tempo, che noi siam soliti assimilare a quella dello spazio, la memoria
somministra gli ele menti per misurarla. La cronologia è l'arte che li
raccoglie, e ne insegna l'uso. In fine, un terzo genere di distanza crea il
pensiero tra gli obbietti puramente in telligibili, che potrebbe dirsi distanza
di qualità. Così, chiamiamo distanza la dif. ferenza che passa tra le qualità
dell'inge gno di due uomini, o quella che interce de tra le cose finite e
l'infinito. Ma co 20 - 154 - testo modo di dire debbessere risguardato come un
parlar figurato, e poco esatto, perchè ricavato da una similitudine di cose
materiali. V. Similitudine. DISTINGUERE ( disc. e spec. ), separare il vero dal
falso, l'onesto e il giusto dal l'ingiusto, il diverso dal proprio, e il si
mile dal dissimile. V. queste voci. Il distinguere è una virtù propria del
giudizio, e forma quel che dicesi discer nimento. V. Discernimento. DISTINTIvo
( spec. e dise. ), segno o nota per riconoscere una cosa, o una idea, onde non
confonderla con un'altra, V. Segno. DISTINTIvo (spec. e disc. ), addiettivo,
atto a distinguere; nel quale senso dicesi segno o carattere distintivo. V.
Carattere. DISTINTo. V. Idea. DISTINZIONE (dise. spec. ontol. e prat.),
proposizione, che separa le idee conve nienti dalle sconvenienti, per rispetto
al vero, al falso, al certo, e al probabile. I logici riconoscono due spezie di
di stinzioni, le verbali, e le reali. Le prime indicano le differenze del
significati de vocaboli, tanto propri quanto traslati. Le seconde mostrano le
differenze tra le spezie comprese in una nozione generale. Quelle appartengono
alla gramatica delle lingue: queste alla logica, o sia al retto uso del
giudizio. Aristotele fece delle distinzioni un sup plimento alle sue categorie,
e pretese ri durle in determinate classi. Gli scolastici, seguendo le orme sue
ne fecero una tri plice partizione, e chiamarono distinzione reale quella che
passa tra le cose che poss sono esistere divisamente l'una dall'altra, come due
sostanze, o due modi di que ste; distinzione modale, quella che è tra due cose,
delle quali una non può esistere senza dell'altra, mentrechè l'altra può esi
ster sola e di per se, come la sostanza e il modo, o l'accidente; distinzione
ra zionale quella, che fa la mente tra due concetti della medesima cosa, de
quali l'uno presuppone necessariamente l'altro, come la cosa e la sua essenza,
o l'essenza e le proprietà delle cose, Immaginarono essi ancora una
distinzione, detta metafisica, che è quella che passa tra due enti, l'es senza
de quali è diversa. - Tutte le cennate spezie di distinzioni, eran figlie di
quell'amore per le categorie, che allora regnava nelle scuole, e che for mavano
il principal carattere della dialet tica scolastica. Distinzione
nell'argomentare chiamavano pure i logici scolastici quella obbiezione, per la
quale volevasi in parte ammettere, e in parte escludere, ovvero dichiarire un
argomento, o non tutto vero, o ambiguo; il che rientra nel significato ovvio e
comune del verbo distinguere. Distinzioni morali finalmente sono state dette,
nella filosofia pratica, le nozioni del giusto e dell'ingiusto, considerate co
me principi delle umane azioni. I dubbi promossi da coloro, i quali negano gli
eterni principi del giusto e dell'onesto, e fan derivare i precetti morali dalle
sole leggi positive, o dall'interesse e dall'amor di se medesimo, furono
denominati con troversie intorno alla realità e alla im mutabilità delle
distinzioni morali. Primo autore di tali dubbi nella moder ma filosofia fu
Tommaso Hobbes, il quale ripose il principio e le regole della mora – 155 -
lità nelle leggi umane, sol perchè la no zione del giusto presuppone quella
della legge, l'origine della quale non puossi ripetere, che dalla istituzione
del civile reg gimento. V. Legge. Consona a tal sistema è la dottrina di quegli
altri, i quali riconoscono, come unico principio delle umane azioni, l'in
teresse, o l'amor di se medesimo; e di quelli ancora, che escludendo ogni
libertà o arbitrio, negano all'uomo una facoltà morale, e ammettono, come sola
sorgente delle azioni, la necessità. V. Arbitrio, Libertà, Mecessità. º
Cudworth fu il primo a combattere il pernizioso sistema di Hobbes, avendo di
mostrato, che la nozione del giusto e del l'ingiusto deriva non dalle leggi
positive, ma da quella stessa luce della ragione, la quale discerne il vero dal
falso, e però diede alla filosofia morale, per suo fon damento, l'immutabilità
delle morali di stinzioni. Grozio aveva prima fatto nel di ritto della natura e
delle genti, quel che Cudworth di poi fece nella filosofia; il che restituì
pure alle civili società la stabilità de principi, che la filosofia obbesiana
ave va tentato di scuotere. V. Diritto. Locke fu accusato di aver dato nella
dottrina di Hobbes, perchè avendo negato alle regole della morale la qualità di
principi innati; e d'altra parte avendo am messo come sole sorgenti delle idee
sem plici la sensazione e la riflessione; fu per una conseguenza sistematica di
tai prin cipi, condotto a risguardare le cennate regole come verità dedotte dal
ragiona mento, dall'esempio, e dalla sperienza, Leibnitz e Newton impugnarono
la dot trina di Locke, come falsa ne principi, e pericolosa nelle conseguenze,
sebbene queste oltrepassassero forse l'intenzione dell'autore. Le regole della
morale, se condo Leibnitz sono innate, nel senso che la natura le ha
raccomandato tanto alla luce della ragione, quanto all'istinto, da poichè
quella le legge in se medesima, e questo ne forma altrettanti principi d'azio
ne. Così l'amor paterno, la pietà filiale, il pudor naturale, la sensibilità
per lo male e pel dolore altrui, l'abborrimento del sangue de viventi, il
rispetto pecada veri, sono i principi di tutte quelle azioni che divengono
virtuose non prima che la ragione può vederne la verità, e rimirare l'origine
loro nella perfetta ed eterna legge dell'Autore di tutto l'ordine morale. Altri
de moderni filosofi han cercato di spiegare la dottrina di Locke per modo da
schivare le conseguenze perniziose che sembravano derivare da principi generali
del suo sistema. Hutcheson volle, che le sensazioni (alle quali Locke riferito
aveva tutte le idee semplici) comprender doves sero tanto le esterne quanto le
interne; e però chiamò senso morale la percezione delle nozioni del giusto e
dell'ingiusto. A questo modo l'intelletto e il ragiona mento non creano nuove
idee semplici, ma scoprono le relazioni tra le idee, me diante quel senso
acquistate. Cotesto siste ma non va esente da censura, dacchè la percezione del
giusto sarebbe assimilata a tutte le altre impressioni che l'anima riceve dalle
azioni gradevoli o disaggradevoli. Per evitare ogni altra ambiguità, può l'
immutabilità delle distinzioni morali essere così enunciata: le regole della mo
rale sono fondate sulle nozioni del giusto e dell'ingiusto: la nozione del
giusto è una verità evidente, che ci somministra il senso morale, o sia la luce
stessa della ragione: la sua denominazione è relativa, non alla legge, ma al
dovere e all'obli a - 156 - gazion morale: è l'espressione d'una re lazione
necessaria ed immediata dell'ani ma col suo Autore: è la nozione della
convenienza, che le azioni umane aver deb bono co fini dell'ordine morale
dell'uni verso: è la nozione che precede quella della legge, e nella quale
trovansi il mo dulo e i tipi della legge stessa. V. Dove re, Obligazione, Senso
morale. DisTRAZIoNE (spec.), passaggio che la mente soffre da uno o più
obbietti, di versi da quello, al quale la nostra atten zione era rivolta. V.
Attenzione. La distrazione prende origine dalla as sociazione delle idee, le
quali a misura che si presentano allo spirito, e si succe dono le une alle
altre, lo fan passare di pensiero in pensiero, e spesso lo traspor tano alle
idee le più disparate, e alle im magini le più strane. È questa una
imperfezione, la quale sebbene cominci da un atto involontario, pur tuttavolta
può degenerare in abito per difetto di riflessione, e divenire un vizio
pregiudizievole alla prontezza della com prensione, e alla maturità del
giudizio. La riflessione è il solo rimedio efficace contra la spinta, che
l'associazione delle idee dà verso la distrazione. V. Associa a 20726',
DisTRIBUzioNE (dise.), la divisione delle parti d'una scienza, d'un'arte, o di
un discorso, fatta per trattare di ciascuna separatamente. Ogni scienza, ha una
distribuzione a se propria: l'oratore distingue le diverse parti del discorso,
e assegna a ciascuna gli argomenti che le convengono: il poeta distribuisce il
dramma in atti e scene : lo scrittore di qualunque libro lo divide in più parti
e in più capitoli: l'architetto forma nel suo progetto lo scompartimento delle
diverse parti dell'edifizio. In somma, senza distribuzione, non v'ha ordine, nè
metodo. V. Metodo, Ordine. DITA e DITI (spec.), i cinque membret ti, che
derivano dalla mano e dal piede. Le naturali attitudini di cui le dita sono
dotate formano uno de più singolari pregi dell'umana conformazione. Son esse
che danno alla mano, non solamente il po tere di difendere il corpo (dacchè non
è parte di questo, cui non giungano le dita), ma ancora la destrezza e
l'agilità per dare forma alla materia, e per costruire le mac chine e
gl'instrumenti, per mezzo dequali crea l'uomo moto e forze artifiziali, che
gareggiano colla natura. Le loro falanci, le giunture e le articolazioni di cui
son provvedute, le rendono capaci delle di verse spezie di forza, delle quali
il brac cio stesso è dotato. Son esse i principali instrumenti del gesto e del
linguaggio di azione. Sono infine i ministri della parola, perchè nella loro
conformazione aveva il supremo Autor della natura prenunziato all'uomo il dono
della scrittura. Le dita dunque sono una di quelle parti del cor po, che più
delle altre annunziano, es sere l'uomo un'opera di gran disegno, ed essere il
mondo creato per l'uomo. DITTONGo (disc.), suono composto di due lettere vocali
unite insieme. Il suono delle due lettere talvolta è di stinto, comechè spesso
l'una preoccupi l'altra; e tal'altra volta le due vocali for mano un suono
misto. L'uso e la pronunzia de'dittonghi varia secondo il particolar gusto
d'ogni lingua. Tra le moderne l'italiana è quella che meno - 157 – ne abbonda, avendo
essa per costume di ridurre in molte parole il suono delle due lettere ad una
sola. DivERsITA e DIVERso (ontol. e dise. ), ogni cosa, che pel suo
costitutivo, non può essere confusa con un'altra. La nozione del diverso è un
contrappo sto di due altre nozioni, l'unità e l'iden tità; e per la stessa
ragione il diverso è proprio del moltiplice. V. Identità, Mol tiplice, Unità.
Il diverso può essere reale o apparente, assoluto o relativo, secondochè le
diffe renze delle cose che si paragonano tra loro, versino circa le essenze, i
modi, o gli accidenti loro. V. Accidente, Ap parente, Assoluto, Essenza, Modo.
La nozione della diversità non de essere confusa con quella della differenza, o
della distinzione. Il diverso nasce dalla natura delle cose; mentrechè la
differen za, e la distinzione son due concetti che la mente forma colla
comparazione di più obbietti del pensiero. V. Differenza, Di stinzione. '
DIVINAzioNE (teol.), arte superstiziosa, per la quale pretendesi conoscere il
futu ro, e l'ignoto. V. Futuro. La divinazione è stato un prestigio di tutti
gli antichi popoli, e quel che è più, di tutti i loro sapienti, non escluso So
crate, il quale n'eccettuava soltanto le co se, che possono essere conosciute
co mezzi naturali. I pregiudizi ereditati dagli an tichi, e l'ignoranza
dell'età di mezzo la fecero perpetuare anche tra popoli cristia mi, comechè si
fossero mutati gli artifizi divinatori. I così detti giudizi di Dio, gli
esperimenti del fuoco, dell'acqua ed altri simili, non erano che spezie di
divinazio me. Più memorabili ancora sono gli esempi che ne han dato l'alchimia,
e l'astrologia; e ne restano ancora le vestigie nella cre dulità del sogni, e
in molte popolari su perstizioni. Coteste vestigie son forse inde lebili nel
volgo, tra perchè mancando della giusta idea della possibilità, corre dietro
alle tradizioni maravigliose; e perchè v'ha nello spirito umano una maturale
tendenza al credere, che una invisibile potenza pre sieda a giudizi della
sorte. V. Sorte. Del resto tanto i prestigi degli antichi per le arti
divinatorie, quanto le moderne volgari credenze possono essere spiegate, e
talvolta ancora escusate per quel senti mento implicito, ma vero, che gli avve
nimenti tutti, non esclusi quelli che noi consideriamo come i più eventuali e
for tuiti, son sotto la mano della Divina Prov videnza, la quale regge e
conserva il mon do. V. Provvidenza. DivINITA' (teol. ), l'essenza di Dio, o la
divina natura. V. Dio, Essenza. DIVINo (teol.), ogni cosa che vien da Dio, o
che a Dio si riferisce. V. Dio. Per una impropria similitudine suol chia marsi
divina, qualunque cosa straordina riamente eccellente, che sembri sorpassare le
comuni opere della natura, e l'ordinaria capacità umana. Così, diciamo divino
in gegno, divina invenzione, o il divino Platone. DivisiEILITA' (spec. e
ontol.), qualità della materia e d'ogni composto, per la quale possono le sue
parti essere separate le une dalle altre. V. Composto, Materia. Dmosano (cri. e
dise.), catalogo espli cativo del significato del vocaboli del lin – 158 – guaggio,
de fatti degli uomini, o deter mini delle scienze e delle arti, disposto per
ordine alfabetico. V. Arte, Linguag gio, Scienza. Da questa definizione
risulta, che seb bene i dizionari possano essere diversi per la varia natura de
nomi, che prefiggonsi di spiegare; purtuttavolta essi prendono dall'ordine
alfabetico il nome caratteristico della loro forma. Dalla stessa definizione
conseguita, che volendogli considerare per la materia, cir ca la quale versano,
si può farne la se guente partizione: dizionari delle lingue o vocabolari:
dizionari storici, dizionari delle scienze e delle arti. Senza ripetere quel,
che di ciascun di essi abbiamo accennato nel discorso prelimi nare; anzi
risguardando le cose ivi dette, come già note, o convenute; cerchiam di rilevare
i caratteri propri di ognuna delle tre divisate spezie. - I. Dizionari, o
vocabolari delle lingue. Son tre i requisiti principali che aver debbe un
dizionario del linguaggio: un chiaro significato delle parole: l'etimolo gica
loro derivazione: le regole del reg gimento del discorso. Altri pregi di se
condaria utilità possono ancora renderlo compiuto e perfetto, come
l'indicazione della quantità delle sillabe, il suono della pronunzia, e le
varietà della ortografia. Chiamiam secondaria l'importanza di tai pregi, tra
perchè non forman parte es senziale dell'opera, e perchè potrebbe ad essi
supplire l'uso stesso del parlare, in difetto delle regole scritte. Quanto al
significato, è necessario di stinguere il proprio dal traslato, e questo dal
figurato o metaforico. Deesi avere per proprio significato del vocaboli quello
che è il più vicino alle loro radici, che però dicesi ancora primitivo. Il
traslato addita l'analogia o la similitudine, che ha fatto estendere il senso
della prima denomina zione. Il figurato o metaforico dimostra per quale
associazione d'idee l'immaginazione ha cangiato i primi nomi in altrettanti se
gni di nuovi concetti. Son questi i tre si gnificati, che suppliscono alla
scarsezza de vocaboli, e nell'opportuno uso de quali è riposta la precisione e
l'eleganza del dire, tanto nel discorso naturale, quanto nella eloquenza, e
nella poesia. - Le definizioni rendon chiaro il signifi cato delle parole, ma
non sono le defini zioni reali quelle, che più si desiderano ne comuni
vocabolari delle lingue. Cote ste definizioni son proprie de'dizionari delle
scienze e delle arti, nelle quali vuolsi co noscere il costitutivo delle cose.
Si vale di esse il comune linguaggio per bene inten dere e per ispiegare la
formazione delle idee generali; ma in realtà appartengono all'arte logica e
retorica più che al comu me uso della parola. Son le definizioni dei nomi
quelle, che vengono più frequente mente adoperate per la chiara intelligenza
del discorso, e delle quali l'artifizio è si mile all'altro delle definizioni
reali. Im perochè scompongono esse l'idea del no me in altre idee di quella più
intelligibili e così la rendono chiara e distinta. Da ciò segue, che rade volte
un nome solo spie gar possa un altro nome, dacchè le spiega zioni contener
debbono un numero d'idee, e per conseguente di nomi, maggiore dei vocaboli
spiegati. E quì l'esempio potrà più acconciamente dimostrare quanto sieno in
questo difettivi i comuni vocabolari. Chi volesse spiegare – 159 – la demenza
per l'altro vocabolo scioc chezza, e questo per la stoltezza, e la stoltezza
per la pazzia, tornando poi dalla pazzia alla demenza, non avrebbe fatto altro,
che un circolo vizioso di cinque no mi, o tutti egualmente chiari, o tutti e
gualmente ambigui. E per contrario chi definisse la demenza per la privazione
del senno, spiegherebbe con due idee e con due voci l'idea complessa dello
stato alte rato della mente, che in quel vocabolo si contiene. Similmente, un
vocabolario, che spiegasse il desiderio per voglia, e la voglia per desiderio,
non direbbe coll'uno più che coll'altro vocabolo; laddove se avesse detto, che
il desiderio è la voglia di qualche cosa che ci manca, e che noi apprendiamo
come un bene, avrebbe ado perato è vero più parole per ispiegarne una sola, ma
avrebbe fatto chiaramente intendere l'idea, che nel nome si racchiu de. E se lo
stesso vocabolario avesse spie gato la desolazione per lo desolare, e il
desolare per lo disolare avrebbe fatto un ridevole rimbalzo della stessa
parola, sen za nulla dire della differenza che passa tra l semplice dolor
dell'animo e la desolazio ne. Che diremmo poi, se volendo definire il vero,
avesse detto quel che ha verità, e spiegando la verità fosse tornato a quel che
è vero? In somma, senza moltiplicare gli esempi, non è lecito il rimandare da
un vocabolo ad un altro che esprime la medesima idea, se non quando si tratti
di nomi verbali o di altri derivati, nei quali casi il significato del verbo, o
del radicale immediato spiega e dichiarisce il nome, che da essi è formato.
Circa poi l'etimologia, basta conside rare la struttura d'ogni lingua per cono
scere, che i vocaboli forman famiglie, alle quali presiedono talune voci, dette
radi cali, dalla diversa modificazione o dalla unione delle quali nascono i
derivati e i composti. Ora l'idea espressa dal radicale fa conoscere non
solamente il vero signi ficato delle parole da esso formate, ma le relazioni
ancora espresse colle derivazioni del primo nome. E similmente le radici del
composti chiaramente indicano le idee semplici del componenti, dalle quali sono
nate le complesse racchiuse ne composti medesimi. In somma il ricorrere alle ra
dici, è il far l'analisi del vocaboli e per conseguente delle idee, che essi
esprimo no. E però i Greci composero il vocabolo etimologia, per esprimere, che
in questa analisi appunto sta la perfetta cognizione del linguaggio; siccome
pure lo stesso vol ler dire i latini quando, al dir di Cice rone, tradussero
quel vocabolo per veri logium. Egli è vero, che l'arte etimolo gica è divenuta
difficile per la mistura delle lingue, e il diverrà ancora di van taggio ne
secoli futuri, se nuovi parlarina scessero dalla corruzione del presenti idio
mi; ma la difficoltà non toglie pregio al l'arte, e non vieta il separare il
facile e il noto dal congetturale e dall'incerto. È vero altresì, che gli
etimologisti grama tici, per le sistematiche loro derivazioni rendettero
sterile e noioso lo studio delle etimologie; ma di quanto quest'arte non si è
cangiata nelle mani del filosofi poli glotti, e quanto lume non ha apportato, e
non apporta tuttogiorno alla cognizione della archeologia, della storia, e
della stessa filosofia? Del resto tutte l'esagerate difficoltà dell'arte
etimologica possono es sere di qualche peso per chi voglia appro fondare lo
studio delle origini delle lin gue, e risalire insino alle primitive; ma son
vane per chi voglia limitarsi alle lin gue moderne, delle quali i monumenti -
160 - stessi della storia ci additano la successi va loro formazione. E quì
giova rilevare quanto erronea, e mal consigliata fosse l'avvertenza inserita dagli
aecademici della crusca nella prefazione alla quarta edi zione del vocabolario
italiano, dove dis sero. « Ci siamo astenuti in tutto e per tutto
dall'assegnare l'etimologie e l'ori gine di qualsivoglia voce, essendo per lo
più incerte e dubbie, e sopra cui vi è bene spesso da piatire, e anche per non
esser eosa appartenente a quest'opera; oltrechè omai ne è stato assai scritto
da molti altri autori, e in particolare da alcuni nostri accademici » ; il
quale ultimo tratto fa presentire, che i compilatori del diziona rio eredessero
essere fuori del mondo let terario tutto quel che non proveniva da gli
accademici loro confratelli. E pur fosse vero, che vorremmo menar buona la scu
sa! Ma v'erano già al tempo, tanto della prima compilazione, quanto della forma
zione delle giunte, molti lavori intorno alle origini della lingua italiana, ed
altri ne vennero di poi, che avrebber potuto somministrare la materia d'un
compiuto e perfetto dizionario etimologico. Tali erano quelli del Giambullari,
di Ascanio Persio, del Ferrari, del Menagio, e del Salvini. E sebbene costoro
avessero voluto tutto derivare dalle voci anniane, greche, e latine, e avessero
dato in ridevoli e in tollerabili stiracchiature; pur tuttavolta ave vano le
loro etimologie la parte vera, che avrebbe potuto essere separata dalla falsa.
Qual tesoro poi nen avrebbero tro vato i successori del primi compilatori del
nostro dizionario nell'egregio lavoro del Muratori, de origine sive etymologia
ita licarum vocum, dove quell'insigne uomo diede un ragionato dizionario
etimologico de vocaboli provenienti dalle lingue depo poli barbari, che
invasero e tennero per secoli le nostre contrade; e dalla mistura de quali
emerse la novella Italia, la sua lingua, gli abiti, ei presenti costumi suoi?
In conclusione, una delle giunte necessa rie al dizionario della crusca, son
l'eti mologie, delle quali gli stranieri ci han dato i primi esempi. Senza
parlare degli egregi dizionari etimologici delle linguean tiche, come quelli di
Errico Stefano, del Vossio, del Mazzocehi, gl'Inglesi, i Te deschi e i
Francesi, nel vocabolari di Iohn son, di Adelung, e di Boiste sono stati i
primi a supplire al difetto della parte eti mologica, ch'era stata interamente
negletta in tutti i dizionari delle lingue viventi. Son questi gli esempi, che
speriamo sien presi di mira ne'nuovi lavori che promette l'odierna accademia
della crusca per la ri forma del suo vocabolario. V. Etimologia. Finalmente per
quel che concerne il reggimento delle parole, comechè sia que sta propriamente
la materia della grama tica; uopo è non pertanto che il diziona rio ne faccia
conoscere le regole princi pali, spezialmente per determinare le re lazioni del
verbi, e per indicare l'uso de gli articoli, delle preposizioni e delle par
ticelle del discorso. Oltre le regole gene rali può ancora il Dizionario far
quello, di cui la nostra crusca fu la prima a dare un felice esempio, il
convalidare cioè le regole del reggimento cogli esempi de'buo ni scrittori.
Riassumendo ora le cose dette, i principali requisiti d'un perfetto vocabo
lario saranno: 1.º il significato proprio d'ogni voca bolo, espresso per le
definizioni logiche dei termini generali, e per le nominali, a ri spetto de
nomi singolari: 2.º il senso traslato : 3.º il figurato, o metaforico: – 161 –
A.º le voci radicali del vocaboli derivati: 5.º i componenti d'ogni composto:
6.º le diverse relazioni del verbo: 7.º le regole per l'uso degli articoli,
delle particelle, delle preposizioni, e d'ogni altra parte ausiliaria del
discorsº. Un'opera cosiffatta meriterà la lode di compiuta e perfetta, a misura
che sarà più corredata delle regole generali del discorso, la pratica
applicazione delle quali è inse gnata dalla gramatica. II. - - Dizionari
storici. e Entrano nella classe di cotesti dizionari due vastissimi argomenti,
cioè la storia propriamente detta, e la geografia. Il pri mo versa circa i
fatti dell'uomo e contiene in se il grande tesoro della sperienza ac compagnato
dalla scienza del tempi, che distribuisce e ordina i fatti. Il secondo de
scrive i luoghi, che possiam considerare come i teatri dove son quelli
avvenuti; e i popoli, che vi figurano come attori o spettatori. Quanto alla
storia, trovasi ella distri buita nel dizionari, per ordine alfabetico; ordine
il quale è disadatto all'insegnamen to, ma utile alla memoria, cui serve quasi
di supplimento scritto. Son essi altrettanti repertori, ne quali ognuno può
facilmente trovare quello che con molta difficoltà do vrebbe andare cercando
nella immensità delle biblioteche storiche. Ve n'ha dege merali e del particolari;
siccome v'ha di quelli, che abbracciano o i fatti e i loro autori, o la sola
vita degli uomini cele bri e notabili. Quelli che limitansi a que sto sol
genere son detti scrittori di vite o biografi. V'ha poco a dire intorno a re
quisiti di tali dizionari, che sonsi oggidì cotanto moltiplicati. L'unico
pregio loro è la verità, nel qual requisito è compresa l'esatta descrizione de
fatti. Un tal requi sito non pertanto non de'essere abbando nato ad una
semplice presunzione, la quale terrebbe in sospeso la credenza del lettori, ma
uopo è che sia dimostrata dal fatto stesso dello scrittore. Un dizionario
storico di qualunque sor ta, potrà dirsi perfetto nel suo genere, e utile per
lo scopo che si prefigge, se sarà tanto esatto nel descrivere, quanto nel ci. tare
gli autori degni di fede, da quali ha attinto i fatti che narra. A questa esat
tezza è spezialmente attaccata l'utilità dei suoi articoli, perchè non potendo
essi con tener tutto quel che leggesi nella storia, e prestar dovendo l'ufizio
di repertori; uopo è che rimandino il lettore alle fonti, dove trovar può più
ampiamente esposti gli avvenimenti, dequali desidera istruirsi, o risovvenirsi.
Una cosa è degna d'essere avvertita in un tempo, in cui è tanto cre sciuta la
mole delle biografie, e la sma nia della celebrità ne viventi, cioè che gli
elogi storici e le biografie degli uomini illustri si riservino a trapassati
come un tributo di lode che accompagnar dee la ricordanza del nome loro, e non
si pro dighino a presenti. La lode che si dispensa a viventi è sempre
comperata, e non me rita fede: ella corrompe gli uomini vani tosi e leggieri, e
non lusinga i meritevoli, dapoichè diviene una moneta senza valore, quando
spendesi per tutti quelli che l'am biscono. Ritornino dunque gli elogi a quel
che sono stati una volta, e si riservi alla posterità il decretargli,
soprattutto a coloro, che hanno ornato colla modestia la virtù loro, e hanno
ignorato di potergli meritare. V. Biografia, Cronologia, Elogio, Storia. 21 -
162 - Quanto poi a dizionari geografici, am pissima è la materia ch'essi
abbracciano, e talmente collegata colla geografia fisica e astronomica, e colle
scienze naturali, che non può essere considerato come un lavoro meramente
narrativo o descrittivo. Infatti imperfetto sarebbe un dizionario geogra fico
che si limitasse alla sola geografia ci vile o storica, ommettendo tutte le
altre condizioni fisiche de luoghi che descrive. All'ampiezza dunque del suo
argomento, che è vasto quanto la terra; alle varie vicissitudini, per le quali
son passate le diverse contrade del globo; alle diverse denominazioni che hanno
avuto; a diversi popoli che le hanno abitate, alle lingue che questi han
parlato; uopo è aggiugnere le distanze, le misure itinerarie, le par tizioni
del cielo corrispondenti alla sfera terrestre, le latitudini, le longitudini,
la qualità del suolo, le produzioni naturali d'ogni genere, lo stato della
popolazione, del commercio, delle arti, dell'agricoltu ra, le istituzioni
civili particolari ad ogni popolo. Un dizionario corredato di tutte le cennate
notizie, e accompagnato dalle rispettive carte geografiche, non solamente potrà
dirsi perfetto nel suo genere; ma sarà per l'insegnamento più utile dello
storico; imperocchè i fatti de quali si compone lo studio della geografia, son
tra loro meno connessi di quelli della storia; e per que sta stessa ragione
l'ordine alfabetico lungi dal separargli, serve d'un opportuno au silio alla
memoria. V. Geografia. III. Dizionari delle scienze e delle arti. Il titolo di
cotesti dizionari può conte ner due disegni di opere affatto diverse tra loro.
Imperocchè può annunziare semplici lessici di termini scientifici, o tecnici,
ac compagnati dalle loro definizioni; ovvero lun dizionario enciclopedico come
quelli pei quali menossi tanto rumore nel secolo de cimottavp. Della utilità e
necessità depri mi noi siam tanto convinti, che poco po tremmo aggiugnere a
quel che ne abbiam detto nel discorso preliminare. Basta dire che le scienze e
le arti ne riconoscono sempre più l'importanza e l'utilità. Le scienze
matematiche, le scienze fisiche, la chimica, le arti mediche, le meccani che,
le chimiche, le agrarie hanno cia scuna i loro dizionari, del quali il vo lume
cresce insieme co progressi ch'esse fanno. Restava a darne uno agli studi
dell'intelletto, il che ha dato luogo ai no stro tentativo. Imperfetto è debole
com'è, servirà ad altri di sprone per perfezio narlo. Di esso altro non dobbiam
dire. Quanto poi agli enciclopedici, non per rimescolare una controversia già
annosa, e sopita; ma per l'onor dovuto ad un grande ingegno che difese la loro
cau sa, senza esagerarne la utilità, ci li mitiamo a ricordare quel che ne
scrisse d'Alembert : « Questa sorta d'opere è di soccorso ai dotti, e giova
agl'ignoranti per diminuire l'ignoranza loro. Ma niun degli autori di simili
dizionari ha mai preteso, che si po tesse in essi imparare a fondo le scienze,
che vi sono trattate. Messa da banda ogni altra difficoltà, l'ordine alfabetico
ne for merebbe il principale ostacolo. Un dizio nario ben composto, è un'opera
che i veri dotti si limitano a consultare; men trechè gli altri la leggono per
cavarne su perficiali lumi. Questa è la ragione, per cui un dizionario può , e
spesso ancora dee non essere un semplice vocabolario, - senza che ne risulti
verun inconveniente. Qual danno posson fare alle scienze i di zionari, ne quali
gli autori non si limi tano a spiegare i termini, ma entrano a trattar delle
materie insino a un dato se gno, spezialmente quando questi dizio nari
contengono cose nuove? Favoriscono forse la pigrizia, ma di coloro solamente, i
quali sarebbero stati incapaci della pa zienza d'imparare da libri che di propo
sito trattano le materie scientifiche. Vero è , che il numero de veri dotti va
ogni giorno sminuendo, e in proporzione con traria sembra che vada crescendo
quello del dizionari; ma tanto è lontano che il primo de due cennati
avvenimenti sia la conseguenza del secondo, quanto, a mio DocntAsTICA ( crit.
), arte che insegna il modo di saggiare le miniere, per cono scere la qualità
de metalli, che esse con tengono. DoGLIA (prat.), sorta di dolore, che ha
sempre significato corporeo, e il più delle volte proveniente da infermità. V.
Dolore. DoGLIENZA (prat.), dolor manifestato con atti esterni. V. Dolore. DoGMA
(teol e spee.), dottrina che ci viene dalla rivelazione, e ha per suo fon
damento la fede. V. Fede. In filosofia dicesi dogma ogni principio di scienza o
d'insegnamento, che si assume credere, è vero il contrario. È la smania come
vero, o perchè dimostrato, o per del bello spirito quella che ha fatto di
minuire l'amor dello studio, e con esso il numero del dotti; il che ha portato
la necessità di moltiplicare e di render più facili i mezzi della istruzione ».
In fine potrebbesi domandare a censori del dizionari, se essi credano alla
utilità de giornali letterari, almeno quando sieno ben fatti. Ciò non ostante
potrebbesi a que sta spezie di opere fare lo stesso rimpro vero, che si fa a
dizionari, cioè l'esser essi cagione, che le conoscenze si esten dano in
superficie a spese del vero sapere. La moltiplicità del giornali è ancora meno
utile di quella del dizionari, almeno in un certo senso, perchè i giornali
tutti per loro natura hanno, o aver debbono presso a poco il medesimo obbietto,
quando che i dizionari possono variare all' infinito, sia nell'esecuzione, sia
nella materia ». V. Giornale. - - - - , DocILE (prat.), volenteroso d'impa
rare, e pieghevole all'altrui parere. chè tal si presume. V. Principio,
Scienza. DoGMATIco (teol. e spec.), quel che appartiene al dogma, o Chi
professa il dogma. In filosofia son detti dogmatici quelli, che danno come
assiomi o canoni di scien za le proposizioni non dimostrate, o as sumono come
tali le così dette massime generali. V. Assioma, Massima. - DoGMATIzzARE (teol.
e spee.), il dettar dogmi, o il far da dogmatico, così nel senso retto, come
nell'ironia. V. Dogma. È vocabolo adoperato dal Cavalca. DoLo (prat.),
intenzione o proposito di commetter frode o inganno. º Differisce dall'una e
dall'altro, perchè esprime il solo atto della volontà, e non l'effetto. V.
Frode. DoLoRE (spec. e prat.), l'idea del do lore non è capace di definizione
reale, per n - 164 - chè acquistata per pretta sensazione, di cui non può il
ragionamento scoprire la causa efficiente, nè l'essenza. V. Definizione. - Ciò
non ostante molte sono le nominali definizioni, che sono state date del do lore
fisiologicamente, metafisicamente e moralmente preso. Fisiologicamente, il
dolore è una sen sazione penosa, per un disordine, o per una lesione avvenuta
nell'organico del cor po, la quale sensazione è più o meno sen : - : sibile,
secondochè le parti lese sieno più o meno nervose. Taluni ancora il defini
rono, la separazione delle parti conti nue del corpo. . . . . .
Metafisicamente, è una modificazione del l'anima, cagionata dal senso della
propria imperfezione. e . . . . . Moralmente, è la naturale intolleranza d'una
sensazione che risguardiamo come un male. Il dolore, del pari che il piacere,
si sente e si concepisce meglio di quel che si definisce. Certamente alla
sensazione del dolore, comunque ella ci venga, noi at tacchiamo invincibilmente
l'idea d'un male, dal quale ci teniam lontani per naturale ripugnanza. Se poi
sia un male sempre reale, o talvolta ancora apparente, e in sino a qual segno
debba essere temuto, o schivato, sono quistioni intrinsecamente connesse colla
nozione del bene e del male. V. Bene, Male, Piacere. - - Il dolore, considerato
come passione del l'anima, è una nozione complessa, del la quale gli stoici
diedero una definizione imperfetta, come le precedenti, dapoichè tutte ricadono
nella difficoltà di definire la sensazione: dissero essere l'opinione d'un mal
presente, o imminente il quale tor menta l'anima. Ma in che il dolore dif
ferisce dal tormento? V. Passione. Cicerone nella sposizione della dottrina
stoica, fa del dolore uno del quattro generi di tutte le passioni, dapoichè
lunga è la gradazione delle diverse modificazioni che lo stato dell'anima
riceve dalle sue diverse impressioni. Laonde quei vocaboli, che nell'uso comune
del parlare si hanno per suoi sinonimi, sono in realtà altrettante spezie dello
stesso genere. Tali sono la tristezza, l'invidia, l'emulazione, la i
commiserazione, l'angoscia, l'afflizione, il lutto, la mestizia, la pena, lo
sten -to, il rammarico, la sollecitudine, la molestia, il tormento, la
disperazione. V. queste voci. DoTTRINA (disc.), scienza, sapere, am
maestramento. - Vale ancora senso riposto: sa s Mirate la dottrina che
s'asconde Sotto 'l velame degli versi strani. DANTE. - a DorTRINALE (dise. ),
che appartiene, e che si riferisce a dottrina. Termini dottrinali son quelli,
de'quali fa uso la scienza; e stile dottrinale è quel che sente di scuola.
DovERE (spec. e prat.), il sentimento della obligazione, impostaci da una leg
ge. V. Legge, Obligazione. La nozione del dovere presuppone quella della
obbedienza a una legge, scritta o non iscritta che sia. Che anzi cotesta no
zione nasce in noi dalla legge non iscritta, qual è quella della natura, o sia
della ra gione, da cui, come dice Cicerone, omne honestum decorumque trahilur.
La partizione del doveri prende norma dalla qualità della legge; da cui quelli
sono - 165 - imposti, e distinguonsi in naturali o pri mitivi, ed in secondari
o derivati, i quali nascono dalle leggi costitutive della società. Di qua pure
i doveri volontari, contratti per lo vincolo della parola e della promessa, o
per la forza degli statuti e delle convenzioni, le quali sono il fonda mento
d'ogni umana istituzione. V. Con venzione, Promessa. - Il dovere nel suo
significato primitivo, è propriamente quello che nasce dall'obli gazione
morale: la consapevolezza che ce ne dà la coscienza, ne fa uno de principi
d'azione, che noi chiamiamo razionali. V. Azione, Principio. - - - DRAMMA
(erit.), componimento teatrale, rappresentativo d'un'azione tragica o comica.
DRAMMATICo (erit.), che è proprio del dramma. - - È nome di qualità, che
conviene all'ar. gomento, allo stile, e ad ogni altro re quisito o pregio del
dramma. º Distinguesi dal narrativo, nel quale non entra veruna
rappresentazione di azione. s Dà il nome ad un genere di poesia. V. Poesia. - -
a Dualismo (erit.), carattere dato ad ogni sistema, che ammette due principi
opposti e due ordini di Esseri contrari. Altra volta fu chiamato dualismo quel
de Manichei, che ammettevano due prin cipi, uno autor del bene, e l'altro del
male, Oggi si applica a quelli che riconoscono i due diversi principi nella
intelligenza e nella materia; nello spirito, e nel mondo esteriore; nell'io, e
nel non io. V. Io. DuAustA (crit.), il partigiano del dua lismo. DUBBIEzzA
(spec. e prat.), esitazione dell'animo nel determinarsi ad un giudi zio o ad
un'azione, di cui non vede chiara la verità, o la convenienza. V. Azione,
Convenienza, Giudizio, - L'esitazione nasce dalla contrarietà dei motivi del
deliberare, che è quel che for ma il dubbio. V. Deliberazione, Motivo. DUBBro
(spec.), contrarietà di motivi, per la quale l'animo sospende di formare il
giudizio. V. Giudizio, Motivo. Per contrarietà intendersi dee l'equipon deranza
di opposti motivi, i quali rendono incerta la determinazione dell'animo; e però
il dubbio è diverso dalla ignoranza, la quale nasce da mancamento d'ogni op
portuna conoscenza. V. Ignoranza. I logici distinguono il dubbio effettivo, che
è quello di cui abbiamo parlato, dal metodico, per lo quale l'animo richiama ad
esame i fondamenti delle credenze e delle opinioni, che ha tenuto per vere.
Cotesta spezie di dubbio, del tutto scien tifico, è proprio d'ogni matura
ragione, la quale non de'ammettere se non verità dimostrate, o certe in quel
grado di cer tezza, di cui è capace l'umana cognizione. Ciò non ostante il dubbio
metodico de es sere contenuto tra certi limiti, oltre i quali può degenerare in
una volontaria nega zione della verità. Tali limiti sono: 1.º che il dubbio
importi semplice sospensione di eredenza, per modo che sia seguito dalla sua
soluzione: 2.º che nella soluzione la ragione non ammetta, come certi, principi
men certi di quelli, dequali vuole scruti nare la verità: 3.º che i tipi della
cer tezza sieno ricavati da uno de tre generi di cognizione, che la natura ci
ha dato per discernere il vero, l'intuitiva, la di mostrativa, e la sensitiva.
4.º che la - 166 - probabilità determini il giudizio o la ere denza, quando non
ci sia dato il conse guire la certezza. V. Certezza, Cogni zione, Probabilità.
Il primo esempio del dubbio metodico è di Eraclito, siccome narra Diogene Laer
zio; ma ignorasi qual cammino egli te. nesse per giugnere alla sua dottrina
affatto dogmatica, Socrate tra gli antichi, e Car tesio tra moderni
dimostrarono il legittimo uso, che può farsi di tale dubbio. La no stra
cognizione è d'ordinario formata di elementi, che la ragione ha tenuto per
veri, senza esaminargli, perchè l'autorità è il primo fonte da quali gli
attigniamo: da questa prendono forza la tradizione, l'as sentimento che
prestiamo a primi elementi del sapere, la credenza a fatti de quali corrediamo
la memoria, e le opinioni che formiamo sopra i pensieri o gli esempi altrui.
L'esperienza dimostra, che ne suc cessivi stadi della vita ogni uomo, più o
meno, dura fatica a spogliarsi del pregiu dizi, degli errori, e delle false opinioni
dell'età prima. Ma quante altre non ne acquistiamo senza accorgercene, e quante
non ci accompagnano ancora insino alla vecchiezza? È questo il periodo, in cui
la sperienza e la matura riflessione ci svelano le illusioni e gli errori pe
quali siam pas sati. Necessario è dunque, nella età adulta il soggettare ad una
rigorosa disamina le conoscenze che abbiamo acquistato col pri mo insegnamento,
e il contrarre di buon ora l'abito di fondare i nostri giudizi so pra principi,
della verità de quali si è la mente accertata. V. Errore. DUBITARE (spec.),
essere incerto, per contrarietà di motivi, negli atti del giudi zio, o della
volontà. V. Giudizio, Vo lontà. Duolo (prat.), il dolore accompagnato da penosa
sofferenza. V. Dolore. DUPLICITA' (prat.), finzione, per la quale taluno
dimostra secondo il bisogno, intenzioni, o sentimenti diversi. V. Fin zione,
-Simulazione. E quel che ancora dicesi doppiezza d'animo, e falsità di
carattere. V. Carattere. DURATA (ontol e spee.), continuazione dello stato
degli esseri, paragonato colla distruzione, o col termine loro. La nozione
della durata è una illumi nazione naturale, suggerita dalla memo ria, allorchè
ci ripresenta un obbietto, che è stato altra volta presente al pen siero. V.
Memoria. Per virtù di tal' illuminazione noi sco priamo un fatto, la realtà del
quale è at testata dalla coscienza, l'intervallo cioè che separa l'obbietto
altra volta percepito dalla ricordanza che lo ripresenta. La congiun zione di
queste due operazioni dell'anima, avvenute nello stesso Essere pensante, o sia
in noi stessi, rivela a ciascuno la con tinuazione del se medesimo. La
cognizione dunque della durata, non è una nozione, che acquistiamo per
astrazione, o per al tra operazione dell'intelletto, ma è un sen timento della
coscienza, simile a quello dell'io: è una di quelle verità immediate, che
l'uomo attigne dalla conoscenza del proprio essere pensante; e dopo di aver tra
se detto, io penso, io esisto, passa a dire, ho una durata. . - Se la nozione
della durata è una delle verità che deriviamo immediatamente dal la coscienza
di noi stessi; la durata stessa non può dirsi che sia una sostanza, o un modo,
o una relazione, vale a dire non è un Essere, nè un attributo dell'es - 167 -
sere; il che basta a respignere tutte le ipotesi metafisiche, che han fatto per
se coli delirare le scuole intorno alla natura della durata e del tempo, Locke
derivò la durata dalla riflessione, la quale ci fa avvertire la successione
delle nostre idee, e chiamò durata la distanza che passa tra due parti di tal successione.
Ma egli scambiò manifestamente la misura della durata colla durata, dapoichè la
suc cessione presuppone la durata. Da questo errore derivò l'altro, che la
durata non ha in se nulla d'assoluto, non essendo altro che l'espressione d'una
suc cessione più o meno rapida d'idee, la quale è sempre relativa a sensi ed
alle fa coltà di quelli che la percepiscono. L'una e l'altra opinione, ma
specialmente la se conda, trovaronsi all'unisono con Condil lac, che le fesue,
e giunse per sino a riprendere Locke di aver voluto trovare una misura della
durata. Coteste opinioni vanno rilegate tra quel le, che rinegano non solamente
la cer tezza e l'esistenza di tutte le cose sensibili, ma anche la coscienza
delle stesse nostre facoltà, e che sbandita per conseguente la verità assoluta,
riducon tutto al relativo. Noi diremo, che la durata è un ordine naturale, o
una legge, o condizione de gli Esseri, di cui non possiamo concepire altri
limiti, se non quelli relativi alla sua quantità, di cui ella stessa è misura. La
cognizione della durata congiugnen do un fatto presente con un passato, schiu
de ancora all'anima la conoscenza dell'av venire, o sia d'una futura durazione;
e da questa, considerata come continuazione del passato e del presente, nasce
quella del tempo. V. Futuro, Passato, Pre Sente. Ma la memoria nel rivelarci la
conti nuità dell'esistenza, ci manifesta un fat to complesso, cioè la durata, e
la me desimezza dell'io il quale si sovviene di se stesso, che è quel che
dicesi identità. V. Identità. - Considerata la durata come misura di se stessa
e delle altre quantità commensu rabili, si scambia col tempo, ed è capace d'una
indefinita divisione. V. Misura , Tempo. - DURAZIONE (ontol. e spec.), continua
zione dello stato degli Esseri per rispetto alla loro distruzione, o al termine
loro futuro, o possibile; nel che differisce dalla durata, la quale
propriamente conviene al passato. V. Durata. DUREzzA (spec. e prat.), qualità
del la materia, nata dalla maggiore coesione delle sue parti, comparativamente
al molle ed al fluido, che formano i diversi gradi della coesione. V. Coesione,
Materia, Qualità. In senso traslato si applica alle qualità della mente o del
sentimento, e importa difficoltà di percepire o di comprendere, ostinazione, o
mancanza di umanità. * |-·|- • •----|- ! · - ----· �|-|- ·• • • ’ , · *|-
·---- -----!·* -----· |-· · · * – 169 - CLASSI DE VOCABOLI
COMPRESI SOTTO LA LETTERA D. FITOSOFIA CRITICA. Diacustica Disciplina
Didascalia Discreto Didascalico Disegno Didattico Dizionario Differenziale
Docimastica Dinamica Dramma Diottrica Drammatico Diplomatica Dualismo Diritto
Dualista VOCI ONTOLOGICHE. Determinare Distinzione Determinazione Diversità e
Diffusione Diverso Dimensione Divisibilità Dipendente Durata Dipendenza
Durazione FILOSOFIA SPECULATIVA, Decomposizione o Scomposizione Decoro Dedotto
Dedurre Definizione Deforme e Deformità Deismo Deista Deliberazione Denominare
Denti Desiderio Destinare Destinazione Determinare Determinato Determinazione
Dialetto Dilatabilità Dimenticamento e Dimenticanza Dimostrabile Dio Diretto
Discernere Discernimento Discernitivo Disconsentire Disconvenienza e
Sconvenienza Discordare Discredere Discrepare Disegno Diseguale e Disuguale -
Disordine Dispari Dispariscente Disparità Dissentimento Dissimile Dissoluzione
Distanza Distinguere Distintivo Distintivo ad. Distinzione Distrazione Dita e
Diti Divisibilità Dogma Dogmatico Dogmatizzare Dolore Dovere Dubbiezza Dubbio
Dubitare Durata Durazione Durezza - - 170 – FILOSOFIA DISCORSIVA. Datismo
Dativo Dato Declamazione Declinare Declinazione Decomposizione o Scomposizione
Dedurre Deduzione Definizione Degnità e Dignità Deliberativo Denominare Dentale
Derivare Derivativo Derivato Desinenza Dialettica Dialetto Dialogo Difettivo
Differenza Dilemma Dimostrabile Dimostrativo Dimostrato Dimostrazione
Disconvenienza e Sconvenienza Discordare Discorso Discrepare Discussione
Disdire Disgiuntivo Disingannare Disinganno Disparere Disparità Disposizione
Disputabile Dissuasione Distinguere Distintivo Distintivo ad. Distinzione
Distribuzione Dittongo Diversità e Diverso Dizionario Dottrina Dottrinale
Deismo Deista Devozione Dio Divinazione TEOLOGIA NATURALE» Divinità Divino
Dogma Dogmatico Dogmatizzare – 171 - Dabbenaggine Danno Dappocaggine Decenza
Decezione Decoro Defraudare Degnazione Degnità e Dignità Delicatezza e
Dilicatezza Delirio Delitto Delizia Demenza Demerito Deplorare Depravare
Depravazione Derisione Desiderio Desolazione Detestare Detrazione Dettame
Difettivo Difetto Difettuccio e Difettuzzo FI LO SO FI A PRATICA. Difettuoso e
Difettoso Diffamare Diffidanza e Diffidenza Dileggiamento Diletto Dilezione
Diligenza Dimenticamento e Dimenticanza Dio Diritto Disaffezionare Disamore
Disamorevolezza Disanimare Disappassionatezza Discolpa Discolpamento
Disconforto Disconoscenza Disconoscere Disconsentire Disconsigliare
Disconsolare Discontentare Discontinuare Disconvenienza e Sconvenienza
Discoraggiare Discorare Discordanza Discordia Discortesia Discreditare e
Screditare Discreto Discrezione Disdegno Disdicevole Disfavore Disgrazia
Disgusto Disingannare Disinganno Disinteresse Disinvoltura Disistima Disleale
Dismodato Disobbedire e Disubbidire Disobbedienza Disobligare Disonestà
Disonore Disorbitanza e Esorbitanza Disordine Disparere v. Disparevole Dispari
Disperanza Disperare Disperazione Dispetto Dispiacenza e Dispiacere
Dispiacimento Disposizione Dispregio e Disprezzo Disragione Disregolato
Dissensione Dissimulazione Dissolutezza Distinzione Docile Doglia Doglienza
Dolo Dolore Dovere Dubbiezza Duolo Duplicità Durezza – 172 - G R E CISMI SUPER
FLUI. Dattilografia Dattilologia Dattilonomia Dattiloteca – T75 - 1 E Ear
(ontol.), unità dell'anima umana, considerata per rispetto alla di sposizione e
alla abitudine, che le dà il corpo. V. Abitudine, Anima. È termine scolastico,
inventato da Sco to, e usato tra altri dal Gelli. EccELLENTE (prat.), quel che
nel suo essere ha grado di perfezione. V. Perfe zione. - - Si applica alle doti
naturali, alle virtù, e ad ogni cosa, che per merito di qua lità soprastà alle
altre. Eccesso (prat.), sopravanzamento dei giusti termini, sì nel bene che nel
male. Gli scolastici distinguevano il fisico, o naturale, dal morale, e
dicevano essere il primo sovrabbondanza di perfezione, e il secondo mancamento
di perfezione. L'ec cesso fisico nascer poteva, o dalla esten siene, o dal
tempo, o dalla efficacia della causa, o dalla forza della resistenza. E per
contrario il morale scontrarsi poteva, o nel l'appetito, di che sono esempi
tutte l'estre mità, alle quali possono portarsi le passio ni, come l'odio,
l'ira, l'amore ed altre simili; o nell'intelletto, quando l'animo contrae vizi
opposti a suoi naturali pregi; ovvero nella volontà, del qual genere sonº tutti
i vizi, contrari a buoni costumi. Ma di queste partizioni può dirsi lo stesso,
che di tutte le altre categorie degli scolastici, i quali a forza di regole
soggettar vole vano a determinate combinazioni la na tura, il pensiero, e la
parola. E però da una idea e da un vocabolo comune qual dell'abuso che può
farsi d'una cosa qualun que, fecero nascere una definizione scien tifica, e una
logica partizione. ECCEZIONE (dise. e prat.), concetto, o discorso, per lo
quale caviam fuori dal numero de'fatti simili quello, che credia mo da medesimi
diverso. È vocabolo più frequentemente usato pei casi non contenuti nelle
regole comuni, che dettan le leggi positive; nel qual senso dicesi, che non
v'ha legge o regola senza eccezione. - Per similitudine i moralisti l'applicano
alle leggi naturali, e affermano che la collisione di queste partorisca
eccezione. Chiamano essi collisione lo scontro di due o più leggi naturali,
alle quali non si può simultaneamente obbedire. Ma cotesta espressione è
impropria, perchè non si dà mai vera collisione nelle leggi della natura.
L'apparente contrarietà loro è un difetto o d'interpretazione, o di applica
zione, che vien da noi e non dalla na tura. V. Collisione. - ECLETTIco (crit.),
quegli, il quale ha una dottrina mista di opinioni di diversi sistemi di
filosofia; così detto, dalla scelta che ne fa, per adattarle al proprio giu
dizio. Cotesta spezie di filosofia, considerata come scuola, nascer suole nel
tempi, i quali succedono alle estremità delle meta fisiche opinioni. - Allora
la mente, stanca di creare o d'im maginare nuovi principi, cercando riposo, è
quella della esuberanza d'una qualità, e si studia di trovare il vero in quelle
opi - 174 - nioni che le sembrano più probabili, o alle sue più conformi. Così,
dopo l'idealismo di Pitagora e di Parmenide, lo spiritualismo di Platone, e
l'empirismo de peripatetici e degli stoici, nacquero gli eclettici
alessandrini. Così an cora nella moderna filosofia, dopo il puro spiritualismo
di Cartesio, l'idealismo di Malebranche e di Berkeley, il sensismo di Locke, ed
il materialismo del metafisici fi siologisti, rinacque in molte parti dell'Eu
ropa la scuola degli eclettici. V. Idealismo, Materialismo, Sensismo,
Spiritualismo. Cotesta scuola ha pure le sue estremità, una delle quali è
l'amor di conciliare in sieme le dottrine tra loro ripugnanti, il che dicesi
sincretismo, l'altra, la non curanza di ricercare il vero, d'onde poi il dubbio
e l'indifferenza per qualunque dottrina, che è quel che dicesi scetticismo. V.
Seetticismo, Sincretismo. La sperienza così della prima come del la seconda età
della filosofia dimostra uno de'due dinotati vizi, essere stato l'ultimo
termine delle scuole eclettiche. Considerato poi lo studio degli eclettici,
come l'esercizio del giudizio e della cri tica, che portiamo intorno alle
opinioni altrui; siccome non è sistema, che non contenga qualche parte
accettabile, mista ad altre ricusabili; così ogni vero sapiente non può non
dirsi eclettico, nel quale si gnificato equivale a critico. Ma i nomi dati alle
diverse filosofiche famiglie, pren dono origine da caratteri costitutivi delle
rispettive dottrine, i quali caratteri appa riscono più manifesti, quando
divien siste matica la falsa applicazione del loro prin cipi; o in altri
termini, quando l'assurdo scopre l'errore. E però, chi per sistema è eclettico;
chi nella scelta de principi e delle dottrine si determina per l'autorità altrui,
e non per lo proprio criterio; e chi infine scoraggiato dalla moltiplicità e
varietà delle opinioni, in luogo di discuterle, trova men penoso l'abbracciarle
tutte, e il conside rarle sotto gli aspetti del probabile e del verisimile che
eiascuna di esse presenta; sarà un sincretista, o uno scettico. EcoNomA
(erit.), l'arte di ben ammi nistrare gli affari domestici, o publici. Le
regole, per le quali cotesta arte si conduce, allorchè sono applicate alla pro
duzione, alla distribuzione, e all'uso delle ricchezze sociali, formano la
scienza, che dicesi economia politica. Le ricchezze sociali son capaci d'un va
lor di opinione, determinabile per le di verse relazioni, che lo stato politico
stabi lisce tra se e i suoi componenti, non meno che tra essi medesimi. Siffatte
relazioni so no dalla scienza esaminate in tre diversi aspetti: 1.º della
industria produttrice delle ricchezze, 2.º de bisogni creati dallo stato
politico, 3.º del modo il più conveniente per soddisfargli. La qualità delle
istituzioni politiche può più o meno favorire l'industria, influire
diversamente nella misura e nella propor zione de bisogni; e può per
conseguente promuovere o ritardare la prosperità del corpo sociale. E però
l'economia politica, come la politica propriamente detta, ha due funzioni,
l'una di determinare ipote ticamente le relazioni più convenienti ai progressi
del corpo sociale; l'altra di adat tare a ciascuna forma, quale che sia, le
regole che più le convengono: la prima si prefigge il bene assoluto: la seconda
il relativo: quella può servire di norma a questa, che ne modifica i precetti
secondo il bisogno, e la convenienza sua. V. Po litica. - 175 – Educazione
(prat.), l'arte di allevare il corpo e di formare lo spirito della gioventù.
Essendo che doppio è lo scopo della edu cazione, però siam soliti distinguerla
in fisica e morale. Della prima son capaci tutti gli uomini in generale, perchè
i pri mi tipi di essa sono stati dalla natura im pressi negl'istinti del
fanciulli, e negli af fetti del genitori: suo scopo è il conservare la sanità,
e il favorire la valida confor mazione del corpo. Della seconda le re gole sono
attinte dalla sperienza. Ma la sperienza è varia e difforme, dapoichè è
relativa al temperamento e alla forma in tellettuale e morale di ciascun uomo.
Non vuolsi dunque parlare della sperienza in dividuale, ma della universale,
che è la stessa della retta e comune ragione. V. Spe rienza. La formazione
dello spirito, che è lo scopo della educazione morale, comprende in primo luogo
l'insegnamento del doveri della vita, e in secondo luogo l'avanza mento delle
facoltà intellettuali. I doveri della vita abbracciano le diverse relazioni
dell'uomo verso Dio, verso se medesimo, e verso gli altri. E sotto l'ampia
denomi nazione di altri, s'intendono primamente i suoi, o le relazioni di
famiglia, ed indi quelle della patria, della società civile, e dello stato
speciale, cui ciascuno può appartenere. V. Dovere. L'avanzamento poi delle
faeoltà intellet tuali de'essere indirizzato al fine di rag giugnere il maggior
grado di eccellenza, di cui son elle capaci, nel che è compresa pure la scelta
di quelle scienze, discipline, o arti, alle quali le facoltà di ciascuno
mostransi più pronte e l'ingegno più in chinevole. V. Facoltà, Ingegno. Ciascun
genere di educazione presuppone un metodo, e ogni metodo le regole, che ne
assicurino il fine. Coteste regole son varie, dacchè alcune risguardano la
speculazione, altre la pratica, e sì nell'una che nell'altra son tali e tante
le specialità di conoscenze, necessarie ad una profes sione e superflue ad
un'altra, che non sa rebbe d'alcuna utilità l'esaminare partita mente la
convenienza loro. Basta dire, che lo scopo d'ogni insegnamento è quel che ne
determina le regole. Ma ven ha delle generali e comuni a tutti gli uomini, alle
quali le particolari debbonsi attaccare, e però posson essere risguardate come
il fon damento d'ogni genere di educazione. Non parliamo della educazione
morale, i prin eipi e i precetti della quale sono immu tabili, e per
conseguente comuni agli uo mini d'ogni stato e d'ogni tempo; ma sì bene
dell'educazione intellettuale. Sue re gole cardinali son quelle che iniziano
l'uso delle facoltà dell'animo, che cominciano a metterle in azione, e che
preparano tutto il resto della istruzione teorica così delle scienze eome delle
arti. Ciò non ostante da una parte la varietà delle opinioni, e dall'altra la
moda son causa che anche circa tali regole propon gansi tuttogiorno nuovi
metodi, e preten dasi nella decrepitezza del genere umano far credere, che
siesi sinora ciecamente camminato. Per verità nelle istituzioni uni versali (e
tali chiamiam quelle che ap partengono all'umanità in generale), non dovrebbesi
immutar nulla di quel che è fondato sulla sperienza di tutte l'etadi; per chè
niuno dee presumere che in cose, nelle quali tutti veggono, e in cui la natura
stessa e indirizza a vedere, veggasi oggi meglio di quel che ha sinora veduto
il senso, lo spirito e la sapienza di tutte le nazioni. D'altra parte la
sperienza va correggen do gli errori e i pregiudizi fondati sul - 176 - l'autorità
degli uomini e delle età, che ci fanno preceduto; nè il rispetto per le tempo
antico de esser tale, da impedire il salutare frutto della riflessione. Noi
ricu siam dunque i giudizi singolari e le opi nioni discordanti dal comun senso
della umanità, ma ammettiamo una dottrina mi sta intorno alla educazione, la
quale con cilia insieme la ragione l'autorità e la spe rienza. Conformi a tal
dottrina sono le re gole seguenti: - 1.º Esercitare quelle facoltà che son pri
me a svilupparsi secondo l'ordinario corso della natura, senza sforzare le
altre avanti la maturità loro. Così la memoria sarà esercitata prima
dell'intelletto, la facoltà di giudicare prima del ragionare, e la ri flessione
intorno agli obbietti sensibili pri ma della speculazione e delle astrazioni.
2.° Accostumare i giovani all'esatta osser vazione degli obbietti e delle
qualità loro, acciocchè sien chiare e distinte le idee che ne formano, e veri i
concetti che di quelle pronunziano. 3.º Accostumargli alla più esatta e pre
cisa espressione d'ogni idea, acciocchè la parola nasca in essi come fedel
ministra del pensiero, e divenga poi instrumento di nozioni egualmente chiare e
distinte. 4.° L'autorità essendo per la prima età una sorgente, a cui ella
attigne le opi nioni e le credenze sue, fa d'uopo che le sue fonti sien pure il
più ch'è possibile, acciocchè non sia l'intelletto, o preoccu pato dall'errore,
o obligato di rifare in tempestivamente la propria educazione. Ma tal'è la
natura delle cose, al dir di Ci cerone, ut paene cum laete nutricis er rorem
sua isse videamur: cum vero pa rentibus redditi, demum magistris tra diti
sumus, tum ita variis imbuimurer roribus, ut vanitati veritas, et opinioni
eonfirmatae natura ipsa cedat. Adunque doppia è la cura dell'educazione: aprire
la mente al vero, e prevenire l'errore; la qual seconda cosa, quando non riesca
ottenere, conviene almeno estirpar di buon ora le false opinioni; dapoichè in
età più adulta la verità invano combatterebbe col l'amor proprio, e coll'abito
contratto dalla stessa ragione. 5.” Non prima che sia divenuto maturo il
giudizio, render familiare al giovinetto il linguaggio della propria coscienza,
ac ciocchè cominciando a ragionar con seme desimo conosca il primo fondamento
della umana certezza, e possa così saggiare la verità di tutte le idee
acquistate per mezzo de sensi. 6.” Entrato appena nel corso dell'in terno
ragionamento, indirizzare la sua ri flessione alle verità intuitive della
ragione, acciocchè conosca essere in quelle riposti i germi d'ogni scienza,
anzi la sapienza naturale dell'uomo, di cui la scienza non è se non la
sposizione e il comento. Giunto a cotesto stadio, riconoscerà egli la con
nessione che lega le nozioni morali già acquistate colle prime verità della
ragione: vedrà come dalla coscienza del sentire del volere e del pensare nasce
la nozione del la propria esistenza; come da essa nasca quella dell'Autor della
vita, e da questa l'altra delle relazioni morali verso di Lui, e delle altre
creature. 7.” In fine per introdurre eotesto alunno nel cammino del sapere,
come ultimo stu dio preparatorio della giovinezza, e primo dell'adulta ragione,
uopo è richiamarlo alla riflessione e alla esatta analisi delle operazioni
dell'animo e delle proprie fa coltà, per fargl'intendere di che sia ca pace, e
a che possa egli pervenire. Sia cotesto fior di psicologia la logica del gio -
177 - vanetti, e serva d'introduzione a quello studio, che noi abbiam collocato
nel pri mo atrio della filosofia. V. Filosofia, Psi cologia. - EFFERATEzzA
(prat.), qualità d'animo non umano, ma ferino nell'offendere, o nel punire. - È
più d'ogni altra sorta di crudeltà. V. Crudeltà. EFFERVESCENZA (prat.),
significato traslato dall'interno movimento del sangue, e dal l'agitazione
prodotta in ogni fluido da quel grado di calore, che precede l'ebullizione. Si
applica al fermento delle passioni, non frenate dalla ragione. V. Passione.
EFFETTo (spec. e ontol.), quel che l'azio ne della causa produce. V. Azione,
Causa, Come correlativo necessario della causa e della sua azione, è soggetto
alle stesse distinzioni che diversificano il significato del vocabolo causa.
Effetto pieno o adeguato dicesi quello che è prodotto dall'azione tutta intera
della causa efficiente; laddove se l'azione sia stata frenata da altra causa,
l'effetto che ne risulta dicesi parziale. Così lo spazio per corso da un corpo
lanciato nel vacuo, è un effetto pieno della sua spinta; e per con trario, se
il corpo abbia dovuto superare la resistenza del mezzo, parziale è l'effetto.
Dalla mozione dell'effetto pieno nascono diversi assiomi della fisica, che
illustrano ancora il principio della nozione di cau salità. Tali assiomi sono:
1.º data la stessa causa efficiente, ne deriva il medesimo effetto; 2.º
l'effetto è sempre eguale alla forza della causa eſficiente: 3.º degli ef,
fetti naturali dello stesso genere, convien sempre presupporre le medesime
cause, insino a che la sperienza non dimostri il contrario. V. Causa,
Causalità. Gli scolastici riducevano ancora in al trettanti assiomi le idee
contenute nella definizione della causa; il che era una con seguenza di quella
scienza di parole, la quale in luogo di rischiarare, confondeva le comuni
verità, e le convertiva in pro posizioni identiche e frivole. Tali erano le
proposizioni: 1.º che l'effetto dipende dalla causa producente: 2.º che è per
natura posteriore alla causa: 3.º che non si dà effetto, il quale sia causa di
se stesso; nè sì danno più cause coesistenti, le quali possano essere effetti,
le une delle altre. Il paragone tra questi pretesi assiomi, e quelli testè
additati, basta a dimostrare la differenza tra 'l moderno e l'antico me todo
della filosofia intellettuale. EFFICIENTE. V. Causa. EcoIsMo (spec. e prat.),
immoderato amor di se medesimo, o della propria uti lità. V. Amore. Cotesto
nome è dato a diverse spezie di errori e di vizi, che nascon tutti da un
medesimo principio, e però appartengono allo stesso genere. Da prima, è stato
nella moderna filosofia adoperato per esprimere l'opinion di quei filosofi, i
quali non am mettono altra certa verità, che la propria esistenza, e negano per
conseguente la realità di tutto quel ch'è fuori di noi. I filosofi idealisti, e
in cima a questi Ber keley, sono l'esempio di tal dottrina. Co testa opinione
mena dirittamente alla con seguenza, che l'uomo è senza compagni nel mondo, e
può riferir tutto a se, e alla propria utilità. Ma il vizio di riferir tutto
alla propria utilità, e di amar se a spese d'ogni altro 25 – 178 – dovere, è il
più delle volte del tutto pra tico, e non già speculativo. Di quelli che
professano praticamente l'egoismo, può dirsi, che se fossero filosofi,
sarebbero se guaci di quella dottrina, che cangia il vizio in un principio di
teoria. Certamente è il più deforme vizio, che degradar possa la natura umana;
ed è nello stesso tempo il vizio distruttore della civil società. Il credersi
solo nel mondo; il non riconoscer alcun dovere verso degli altri; l'avere per
lecito tutto quel che può soddisfare le proprie esigenze, anche a spese de
diritti e de'bisogni altrui, forma il ritratto d'una natura non umana, nè
compatibile colla civil comunione. Egoismo è stato ancor detto l'orgoglio di
riputarsi maggior degli altri, di cre dere dovuto al proprio merito più di quel
che gli altri non son disposti a conceder gli, in somma d'idolatrar se stesso.
Per designare con un nome speciale cotesto vizio, per isventura troppo
frequente, è stato da moderni creato il vocabolo idio latria. La vanità, che è
una gradazione dell'orgoglio produce ancora altri vizi a quello affini. Tal è
il difetto di lodar se stesso, di allegar la propria autorità, di volere in
ogni luogo e in ogni cosa pri meggiare, e di proporsi agli altri come esempio,
o modello di perfezione. Cotai difetti provengono sempre da picciolezza
d'animo, e da difetto di soda istruzione e di educazione; e sogliono essere la
con seguenza delle premature ed esagerate lodi che ignoranti o deboli
precettori prodigar sogliono a primi sperimenti della giovenile età. Niun altro
vizio o difetto è più di questi capace di esagerazioni e di caricature, che son
poi punite col ridicolo e col disprezzo. Il più profondo e il più modesto dei
moderni filosofi (Pascal) l'ebbe in tanto orrore, che ne formò l'argomento d'un
precetto di retorica. « Ogni onesto uomo, egli dice, debb evitare di citar se
stesso e di servirsi dell'io e del me » « la pietà cristiana annulla l'io
umano; e la civiltà umana lo nasconde ». Arnaldo che co menta i suoi detti
soggiugne: « non è già, che cotesta regola debba essere scru polosamente
osservata, dacchè v'ha de casi ne quali non potrebbesi senza imbarazzo evitar
quei vocaboli; ma giova averla sem pre presente per evitare la prava consue
tudine di taluni, i quali non parlano che di se medesimi; e citano se stessi,
anche quando niuno li richiede della loro opi nione. Da ciò nasce, che quelli i
quali gli ascoltano, accorgendosi della segreta com piacenza e dell'amor che
hanno per se medesimi, concepiscono una segreta av versione per le persone
loro, e per tutto quel che essi dicono ». V. Amor proprio. EgoistA (spec. e
prat.), chi professa egoismo. Nell'uso comune del parlare si dà cotesto epiteto
a pratici, più che a teorici egoisti; e però diverso è il senso che si dà alle
parole uomo egoista, e filosofo egoista. EGUALE (spec. ontol. disc. e prat.),
ter mine di relazione tra due o più cose della medesima sostanza, quantità, o
qualità Nel senso della medesima sostanza, la nozione dell'eguaglianza
appartiene alla metafisica, come quando chiamiamo eguali due cose che riputiamo
di pari perfezione: nel senso della quantità, alla matematica, nella quale
l'eguaglianza di due linee, di due angoli, o di due superficie nasce dalla loro
misura: e nel senso della qualità, alla filosofia discorsiva e alla pratica.
Per ri spetto a queste due scienze, l'eguaglianza – 179 - logica consiste in
questo, che gli stessi attributi o predicati possono convenire a due subbietti,
il che precisamente inter viene nelle proposizioni reciproche; e quan to alla
filosofia morale, noi diciamo che la giustizia è una virtù riposta nella egua
glianza, perchè attribuisce a tutti colla medesima proporzione quel che a
ciascuno appartiene. V. Qualità , Quantità , So Stanza. ELAsTICITA' (spec.),
proprietà o potenza in molti corpi naturali di restituirsi nella prima loro
figura ed estensione, quando l'han perduta per l'impressione d'una cau sa
esterna, e non prima che sia cessata l'azione della detta causa. Le corde
armoniche di metallo presen tano l'esempio più facile della elasticità per
estensione, dacchè stirate e distese, tornano alla prima loro dimensione, ap
pena cessi la forza che avevale allungato. E le palle o sfere piene d'aria
dimostrano l'elasticità per compressione di volume. Da questo stesso esempio
risulta che l'aria e i fluidi aeriformi son di loro natura ela stici.
Appartiene alla fisica lo spiegare le leggi naturali della elasticità così
de'corpi solidi, come de fluidi, V. Fluido, Solido. ELEGANZA (disc. ), scelta
maniera di dire, o di scrivere i propri pensieri. Può meritar lode, se non sia
scompa gnata dalla naturalezza, e non faccia tra sparire un soverchio studio;
nel quale caso degenera in ricercatezza e in affettazione. V. Affettazione.
Applicato cotesto vocabolo a costumi e alle maniere del vivere, esprime pregio
di civile esistimazione, e non virtù , e però è straniero alla filosofia
morale. In conferma di che, notarono gli antichi che insino alla età di Catone
l'eleganza del vivere non solamente non fu da alcuno scrittore lodata come
virtù, ma fu ripresa come vizio. - ELEMENTARE (spec. e crit.), quel che
appartiene alle parti primitive e originarie d'un corpo, o alle prime nozioni
d'una scienza, o d'un insegnamento qualunque. V. Elemento. ELEMENTo (ontol. e
spec.), parte pri mitiva, e originaria del composto decor pi, la quale non
nasce da altri compo nenti. V. Composto. - Il concetto dell'elemento è tutto
metafi sico o astratto, e non differisce da quello dell'atomo ; imperocchè se
conoscessimo i primi componenti della materia, cono sceremmo ancora l'essenze
del corpi. Per lungo tempo i filosofi han creduto di rav visare in quattro
sostanze gli elementi di tutte le cose, per la sola ragione che queste parvero
loro semplici a rispetto di tutti gli altri composti, e incapaci di es sere
risoluti in altri componenti. La dottrina de primi elementi ci venne dagli
autori stessi del sistema degli ato mi, cioè da Democrito e da Epicuro, i quali
denominarono elementi incorrutti bili i loro atomi. Una scuola da questa
diversa, e propriamente la Jonia aveva prima di essi creduto che gli elementi
fos sero corruttibili, e gli andò cercando nel l'aria, nel fuoco, nella terra,
e nell'ac qua. Aristotele conciliando insieme le opi nioni d'Ippocrate, della
generalità degli Eleatici e di Pitagora, che fu di questi più antico, compose
la teorica de quattro elementi, che spiegò al seguente modo. Quattro, egli
disse, son le principali qua lità de corpi, che conosciamo per mezzo r - 180 –
del tatto: calore, freddo, siccità, umi dità: coteste qualità possono
diversamente combinarsi tra loro: quattro son pure le combinazioni, alle quali
possono essere ridotti i principi di tutte le cose: una è del freddo e del
secco, che si trova nella terra: la seconda, dell'umido e del freddo nell'aria:
la terza, dell'umido e del caldo nell'acqua : la quarta, del caldo e del secco
nel fuoco (de generat. lib. II. ). Cartesio, tornando al sistema degli ele
menti incorruttibili, o sia degli atomi, suppose essere tre gli elementi, tutti
so lidi, ma di diverse figure, regolari alcuni, irregolari e uncinati altri,
oltre un terzo, che era una polvere atomistica, nata dalle fratture
degl'irregolari. Newton inchinò anch'egli alla ipotesi degli atomi, diversi da Cartesiani,
perchè credette probabile, che la materia fosse stata da prima creata in
particelle solide, massicce, dure, im penetrabili, mobili, di tal grandezza e
fi gura, e in tal proporzione collo spazio, che corrispondessero al fine della
grande costruzione del mondo materiale. L'opi nione peripatetica prevalse a
tutte, perchè più conforme al senso volgare, il quale concepisce il mondo
plasmato cogli stessi materiali, che servir sogliono alla costru zione di un
grande edifizio; e però è stata dominante insino a che la chimica non
iscoperse, che i pretesi elementi sono an cor essi corpi composti, ciascun
de'quali può essere risoluto in altri componenti, apparentemente semplici, di
cui non per tanto ignorasi, se altri più semplici o men composti trovar si potessero.
Laonde, più modestamente oggi la fisica chiama prin eipi quelle sostanze, le
quali sembrano formare le prime parti costitutive de corpi, ma professa la sua
ignoranza per rispetto alla essenza loro. Il concetto, che noi facciamo del
prin cipio, e il senso che diamo a tal voca bolo, è diverso da quello
dell'elemento, dapoichè per principio intendiamo un pri mo cominciamento della
materia, per se stesso incompiuto; laddove concepiamo l'elemento per un che di
compiuto, il quale contiene in se virtualmente tutto il com posto, che da se
risulta. V. Principio. La voce elemento, applicata al pen siero, esprime le
idee semplici e le in tuitive, dalle quali nascono le complesse e le dedotte.
V. Complesso, Dedotto, Idea. Elementi delle scienze e delle arti di consi i
principi generali, dall'applicazione de quali nascono tutte le verità partico
lari, che ogni scienza espone e dimostra. Ma la sposizione di tali principi
presup pone non solamente il chiaro significato de termini, del quali è
composto il lin guaggio scientifico, ma ancora l'ordine e il metodo, che render
possono più facile il passaggio dalle verità note alle ignote. E però parte
degli elementi sono le defi nizioni così determini comuni o volgari cui la
scienza dà un particolare signifi cato, come del proprio tecnici che voglian
dirsi. Che s'intenda per definire, quali sieno le idee definibili, e quali i
requisi ti, che aver debba ogni definizione, l'ab biamo già detto nel discorso
preliminare. Per quello poi che concerne l'ordine, col quale le verità elementari
debbon essere esposte, è manifesto che debbasi seguir uello, che è indicato
dalla naturale con nessione delle idee o de fatti, i quali for mano l'argomento
o il subbietto di cia scuna scienza; nel che non v'ha se non due vie sole, che
la mente possa seguire, cioè il metodo analitico, o il sintetico. Ma quali sono
le scienze, alle quali l'un me l - 181 – todo, o l'altro può convenire? Da quel
che abbiam detto nell'articolo analisi ri sulta manifesto, che in ogni scienza
o arte di cui il progresso dipende dalla riflessione e dalla sagacità della
mente, non può farsi uso d'altro metodo, fuorchè dell'analitico, come quello
che somministra le nozioni scientifiche, le relazioni loro, e l'ordine stesso
con cui le une alle altre succedonsi. Tali sono le scienze naturali tutte,
nelle quali non solamente conviene trovare il vero, rimontando dal particolare
al gene rale, ma per ritenerle o per insegnarle è necessario seguire l'ordine
stesso che han condotto gl'inventori allo scoprimento, pri ma delle verità particolari,
e poi del fatti generali, o sia delle leggi della natura. Per contrario in
tutte le scienze e arti, le quali si son formate per lo studio del fatti, o sia
per la sperienza generale della umanità, e in cui questa medesima sperienza ha
fis sato taluni principi o regole generali, da applicarsi a casi particolari;
in tali disci pline è manifesto che niun altro metodo può meglio convenire del
sintetico, come quello che conduce dal generale al partico lare, e
dall'astratto al concreto. Tali sono tutte le scienze dette positive, come la
giu risprudenza, le scienze e le arti mediche, le arti belle e di gusto, ed
ogni altro studio o disciplina, fondata nell'applica zione di verità, che la
ragione e la spe rienza riconoscono come certe ed immu tabili. Questa
differenza è quella, che dà luogo alla partizione di tutte le scienze in due
classi, cioè le dimostrative, e le induttive. V. Scienza. ELENco (dise. ),
sillogismo di contrad dizione, simile al sorite, il quale sotto le apparenze
del vero conduce a false con seguenze. V. Sillogismo, Sorite, Il Galilei,
parlando di Aristotele ne'dia loghi sopra i sistemi del mondo, dice « essere
quegli stato il primo, unico, e ammirabile esplicator della forma sillogi
stica, della dimostrazione, degli elenchi, de modi di conoscere i sofismi, i
paralo gismi, e in somma di tutta la logica ». V. Logica, Paralogismo, Sofismo.
ELETTRICISMo o ELETTRICITA'(spec.), forza d'un fluido imponderabile sparso nel
corpi della natura, e di cui la presenza si dimostra per le attrazioni e repulsioni
de corpi mede simi; per la propagazione dello stesso flui do tra corpi messi in
contatto tra loro; per la luce, che da se tramanda; per l'odore che di se
lascia, allorchè è sviluppato dai corpi che ne sono impregnati; e per l'esplo
sioni o scariche dette elettriche. Appar tiene alla fisica l'esporre i fenomeni
di co testa misteriosa forza della natura, non che degli altri fluidi
imponderabili, come il fluido galvanico, o del Volta che vo glia dirsi, o il
magnetico, i quali seb bene vengano diversamente denominati, pure ignorasi da
noi qual sia l'essenza loro, e se sieno fluidi diversi, o pure modificazioni
dello stesso fluido elettrico. V. Fluido, Imponderabile. ELEvATEzzA (prat.),
senso traslato dal l'altezza, che si applica alle doti dell'ani ma, d'un ordine
superiore e non comune. ELoqueNZA (disc.), arte di persuadere, e di muovere gli
affetti e le passioni altrui. Uno de moderni maestri del parlare ha ben detto,
che l'eloquenza è nata, prima delle regole della retorica; perchè coteste
regole altro non sono, che precetti rica vati dagli esempi de grandi oratori, i
quali han sempre preceduto i retori. I primi ora - 182 - tori sono stati
formati dalla natura, la quale rende gli uomini eloquenti per le vive emozioni
dell'anima, e più ancora per la forza delle grandi passioni. Son esse che
agitano l'immaginazione, la quale a volta sua accende del suo fuoco il discor
so, e gli somministra metafore, allusioni, e figure d'ogni sorta. Tal è almeno
l'ori gine del discorso animato e veemente, che spesso potrebbesi scambiar
colla poe sia. Quelli i quali han detto, che i poeti nascono e gli oratori si
formano, han pro nunziato una sentenza vera, ma relativa al solo genere della
eloquenza artifiziale o studiata, e non applicabile al naturale linguaggio
degli affetti e delle passioni. V. Poesia. V'ha non pertanto un altro genere di
eloquenza, figlia della riflessione e d'un esatto giudizio, la quale è tutta
intesa a persuadere, e a trasfondere negli altri la convizione propria
dell'oratore. Questa for ma di discorso, non è meno spontanea del la
precedente, perchè trovasi negli uomini anche volgari, dotati di retto senso e
di naturale facondia: ella è anzi la prima e la più regolare maniera di
parlare, per chè non ha nulla di mancante, o di so verchio; perchè vi è serbata
l'esatta con venienza delle idee e delle parole, e per chè tutto è posto nel
suo luogo. In som ma l'ordine naturale del discorso non è figlio delle regole,
ma della buona atti tudine e disposizione delle nostre facoltà discorsive. -
Aristotele, primo maestro di retorica, fece dell'eloquenza una partizione in
tre generi, il deliberativo, il dimostrativo, e il giudiziale e deliberativo
quello che esorta coloro, che debbon deliberare: di mostrativo, quello che si
prefigge di di mostrare ciò ch'è degno di biasimo o di lode: giudiziale in fine
quell'altro, che persuade ad assolvere, o a condannare l'accusato. Una tale
partizione sembra so lamente ricavata dall'obbietto del discor so, e non dalle
sue caratteristiche diffe renze. In fatti chi esorta, chi dimostra, e chi
accusa o difende, spesso fa uso degli stessi argomenti e del medesimo genere di
dire. Più ampia è la partizione di Cicerone, il quale prese i generi
dell'eloquenza dalla intrinseca qualità del discorso, e la distinse in
semplice, moderata, e alta o subli me. Acciocchè questa partizione sia ben
voltata nella nostra lingua, convien mu fare i nomi di due de tre dinotati
generi. Il semplice corrisponde all'ordine naturale del discorso. Ma qual
sarebbe la differenza tra'l semplice o naturale, e il moderato? Cicerone chiamò
modicum ae tempera tum orationis genus, il discorso sobria mente ornato, il
quale si tenesse non per tanto lontano dalle esagerazioni del sofisti; sì che
noi chiameremo ornato, quel che egli chiamò modico e temperato. Il terzo, che comunemente
dicesi sublime, fu pure da Cicerone definito eo suoi propri carat ieri: huius
eloquentiae est tractare ani mos, huius, omni modo permovere: haee modo
perfringit, modo irrepit in sen sus, inserit novas opiniones, avellil in sitas
(Orator ad M. Brutum). Ora Cicerone no 'l chiamò propriamente sublime, ma
ampio, copioso, grave, ornato, acuto, ardente, e quando anche adoprato avesse
l'epiteto sublime, cotesto vocabolo nella tino idioma non avrebbe espresso
altra idea, se non quella dell'alto e dell'elevato. D'al tra parte evitarsi dee
nella nostra lingua la voce sublime, perchè per essa inten diamo il perfetto in
ogni genere. Infatti v'ha negli oratori, negli storici, e ne poeti - 185 –
esempi del sublime così nel semplice, co me nello stile elevato. Laonde volendo
ser bare il concetto di Cicerone, uopo è tra sportarlo in termini esattamente
equivalenti a vocaboli latini e dire, che i tre generi dell'eloquenza sono, il
semplice, l'ornato, e il nobile o elevato: il primo imita la naturale facondia:
il secondo prende le sue figure dallo studio dell'arte oratoria: il terzo
prende le sembianze dell'animato linguaggio delle passioni. In conclusione,
diciam con Cicerone che chiamerassi elo quente, chi potrà parva summisse, mo
dica temperate, magna graviter dicere. V. Sublime. La perfetta eloquenza,
giusta la sen tenza del due più grandi oratori latini, è un di quegli
archetipi, i quali si possono più facilmente concepire che imitare. Ci cerone
comparolla alle forme o idee pla toniche, le quali stanno nel pensiero e re
stano invisibili nella realità. Marco Anto nio, il retore (che Cicerone stesso
cita, come il primo maestro della latina elo quenza) era solito dire, di aver
egli in teso molti uomini facondi, ma di non averne trovato alcuno, che dirsi
potesse eloquente: insidebat in eius mente spe cies eloquentiae, quam cernebat
animo, re ipsa non videbat. Vir autem acerri mo ingenio ( sic enim fuit ) multa
et in se, et in aliis desiderans, neminem pla ne, qui recte appellari eloquens
possit, videbat. Cicerone, discutendo in che sia riposta la difficoltà
dell'eloquenza, e quali sieno i mezzi per vincerla, conchiude, che non si può
possedere la vera eloquenza senza la filosofia, e che il primo e princi pal
frutto di questa è la maturità del giu dizio nello scegliere quel che è
conveniente all'argomento e a quel genere di dire, col quale l'argomento stesso
debb'essere trattato. EMANAZIONE (spec. e ontol.), derivazione della sostanza
d'un corpo, composto di parti tenui e volatili. V. Corpo, Sostanza. È proprio
della luce e delle materie odorifere, ed è termine adoprato dal Ma galotti.
Trasportasi per analogia alla sostanza spirituale, nel quale senso racchiude
una confusa e oscura nozione, ch'è stata al travolta sorgente d'ipotesi e di
filosofiche chimere. Imperciocchè concependo noi lo spirito come semplice, e
per conseguente indivisibile, ripugna a tal concetto la no zione d'una
derivazione delle sue parti. Forse gli antichi, dal perchè comincia rono dal
concepire lo spirito come una so stanza eterea o ignea, e non come affatto
immateriale, rappresentaronsi gli esseri e i corpi tutti dell'universo, come
emana zioni d'un'altra sostanza preesistente, dal seno della quale erano venuti
in luce. In fatti il concetto dell'emanazione trae l'ori gine sua da quelle
scuole precisamente, che professavano il principio ex nihilo ni hil.ſit. Ma
cotesta dottrina per dirsi coe rente a suoi principi, doveva necessaria mente
presupporre l'eternità della mate ria, e l'universalità della sostanza mate
riale. Laonde fu propria della filosofia or fica, degli autori di teogonie, di
quelli che fecero della Divinità l'anima del mon do, ed in generale di tutta la
filosofia poe tica dell'antichità. Un tal concetto poi per de qualsivoglia
coerenza di ragionamento in quei sistemi di filosofia, i quali ammi sero per
loro fondamenta l'esistenza del l'Ente Infinito, e la creazione dell'univer so.
Che se anche in queste scuole trovisi fatta menzione della emanazione, con vien
dire o che difettuosa in esse fu la nozione della Divinità, o che erronea sia la
tradizione che noi ne abbiamo, o che - 184 - in fine appartengano a quella
spezie di eclettici, i quali senza scelta o giudizio accolsero sovente dottrine
o termini tra loro incompatibili. Le prime due spiegazioni calzar possono alle
emanazioni di cui parlano gli spositori della filosofia pitagorica, e la terza
a quelle di cui fecero sfoggio i nuovi platonici. In conclusione il vocabolo
emanazione può avere oggidì un significato vero nella fisica, ma non ne ha
alcuno nella metafisica, senza restar di dire che falsa e pericolosa è la sua
applicazione alla sostanza spirituale. EMENDA (spec. disc. e prat.), corre
zione dell'errore, del fallo, o del vizio. L'emenda del proprio fatto è il
primo di tutti gli argomenti, pe quali provasi la libertà della volontà e dell'azione.
V. Azio ne, Volontà. - - - EMozioNE (prat.), interna sensazione che ci spigne
ad un'opera pietosa, È voce adoperata dal Salvini. EMPIETA'(spee. teol. e
prat.), contrap posto di pietà. E proprio di quel sentimento irreligioso, che
rinega la Divina Provvidenza, o che l'offende con atti o con parole contrarie
al rispetto e alla riconoscenza che le dob biamo. V. Pietà, Provvidenza.
EMPIRIco (crit.), chi restrigne l'umana cognizione a soli fatti, provenienti
dalle sensazioni, senza ammettere veruna con nessione tra gli effetti e le
cause. Cotesta dottrina, meramente passiva, ha per suo unico fondamento
l'istinto, dapoichè professa d'ignorare qualunque principio, che spiegar possa
la connessione tra fenomeni e le leggi della natura, e in quelli non iscorge se
non la materiale successione del fatti. - Altra volta, la qualità di empirica
da vasi a quella spezie di medicina, che ave va per sua sola guida la pratica,
senza teoria o ragionamento di sorte alcuna. Le moderne scuole di filosofia
l'hanno appli cata alla dottrina del sensismo; e la scuola di Kant ne ha fatto
un sinonimo dello spe rimentale, il che de essere evitato; altri menti la
filosofia, la quale è fondata so pra l'osservazione del fenomeni così esterni
come interni, resterebbe senza il suo pro prio nome; e la sperienza stessa, che
è la guida della ragione, si confonderebbe colla pratica cieca e macchinale de
bruti. V. Esperienza. EMPIRISMo (crit.), la dottrina degli em pirici. Non dee
confondersi colla filosofia spe rimentale per le ragioni dette nell'articolo
empirico, EMULAzioNE (prat.), desiderio d'un bene, eui altri aspira. V. Bene,
Desiderio. È un affetto, e talvolta una passione, lodevole o riprensibile,
secondochè il be ne è desiderato per se stesso, ovvero per malevolenza che si
porti al competitore. Nel primo caso, l'emulazione è una imi tazione della
virtù: nel secondo è una spe zie di dolore pel bene altrui, o sia è l'in vidia
stessa; colla sola differenza che l'emu lazione si riferisce al tempo in cui il
bene vien disputato, e l'invidia al tempo in cui un de competitori l'abbia già
ottenuto. V. Dolore, Invidia. L'emulazione prende gl'inizi suoi dalla natura
animale: i bruti sentono pure lo stimolo di questo appetito, per tutto quel che
l'istinto li mena a desiderare; e però si disputano la preferenza nel
soddisfaci mento del bisogni loro, ed anche alla be nevolenza dell'uomo. La
gelosia stessa è un'emulazione. V. Gelosia. ENCICLoPEDIA (crit.), dizionario
univer sale ragionato di tutte le parti dell'umano sapere. V. Dizionario. Quali
sieno stati l'origine e lo scopo di tali dizionari, e quale il presente loro
uso, vedi il discorso preliminare. ENoRMITA' (prat.), azione vituperevole che
oltrepassa l'ordinaria misura del vizio. ENTE (ontol.), quel che è, o è possi
bile che sia. La nozione dell'ente è un concetto ge neralissimo, che la mente
forma di qua lunque cosa, alla quale non ripugni l'esi stenza, per esaminarne
gli attributi e le relazioni. È la voce che dà nome all'on tologia. V.
Ontologia. Nell'uso comune del linguaggio, è uno di quei termini generali, i
quali suppliscono all'insufficienza denomi particolari, o al difetto della
conoscenza degeneri e delle spezie, cui possano gl'individui essere ri feriti.
Così il vocabolo ente è spesso ado perato come equivalente di sostanza, o di subbietto.
V. Sostanza, Subbietto. Gli scolastici distinsero l'ente dalla cosa, avendo
chiamato ente ogni subbietto con siderato in quanto all'esistenza, e cosa lo
stesso subbietto, quando discorresi del la qualità o essenza sua. V. Cosa, Esi.
stenza. - - Scolastica affatto e astrusa è la defini zione dell'ente, data dal
Varchi: « ogni » cosa che sia, qualunque e comunque » sia e si comprende tra la
materia pri » ma e lo primo motore ». Nell'uso del nostro linguaggio scienti
fico il significato di ente è diverso da quello dell'essere. V. Essere. Ente
suppositivo o finto dicesi quello che noi assumiamo come possibile, seb bene in
realtà tale non sia: immaginario dicesi quell'altro, che noi formiamo per
astrazione dell'animo, e di cui l'esistenza non è dimostrata impossibile,
comechè non possa essere da noi concepita. Son questi quegli enti che nelle
dimostrazioni possono esser presi come veri, perchè gli attributi che loro
diamo e le conseguenze che da essi ricaviamo, convengono egualmente agli enti
attuali e a possibili. Tali sono per esempio gl' infinitesimali del matematici.
Tutte le altre partizioni dell'ente, come dell'attuale o potenziale, del
necessario o contingente, del finito o infinito, del sem plice o composto, son
relative alla natura de subbietti, a quali applichiamo la stessa denominazione,
e son proprie della scienza che versa circa le qualità dell'ente. Vuolsi
soltanto notare, che formando noi la nozione dell'ente da quel che è pos
sibile, concepiamo nello stesso tempo gli attributi suoi propri. Propri son
quelli, che l'uno all'altro non ripugnano, e che non sono l'uno dall'altro
determinati. Per tal modo dalla nozione dell'ente passiamo a quella della sua
essenza. Così per esem pio, il numero e l'eguaglianza de'tre lati sono gli
attributi propri del triangolo equi latero: il numero de tre lati non sola
mente non ripugna, ma è costitutivo del la natura del triangolo: cotesto numero
non è quello che determina l'eguaglianza de lati, dapoichè questi esser possono
di suguali tra loro. V. Attributo, Essenza. ENTELECHIA (ontol.), virtù attiva
delle sostanze semplici, comunicata alla materia - - 186 - da esse informata.
V. Materia, Sostanza, Virtù. i È termine aristotelico, ritenuto da Leib nitz,
il quale applicollo alle sue monadi o unità reali. V. Monade, Unità. Aristotele
concepì l'entelechia, come un quinto elemento: da primi quattro ripe teva la
forma di tutte le cose materiali, e dal quinto le sostanze immateriali e
l'amima stessa, che chiamò con questo vo cabolo. La ragione di tal
denominazione sta in una similitudine presa dal moto, che è proprio de soli
corpi, e non può essere conceputo in una cosa incorporea. Siccome nel corpo
l'azione è impressa da una potenza estrinseca, così l'anima ha in se stessa una
tal perenne virtù : xaro rou syrekes sxety. V. Anima, Elemento, ENTIMEMA
(disc.), sillogismo tronco, nel quale una delle premesse è sottintesa, e di cui
la forza stà nella connessione dell'antecedente col conseguente. V. An
tecedente, Conseguente, Sillogismo. L'entimena è una forma d'argomento frequente
nel comune uso di parlare, per chè delle tre proposizioni d'un sillogismo ve
n'ha sempre una chiara, la quale può esser presupposta come nota. L'esempio
dell'entimema comunemente citato da lo gici è quel verso di Ovidio, - Servare
potui, perdere an passim rogas P Il sillogismo intero sarebbe : Chi può
conservare una cosa, può distruggerla: ma io posso conservarla, dunque posso
distruggerla. L'entimema, non solamente non forma difetto, ma serve alla
brevità e anche alla grazia del discorso, perchè alla mente pia ce più il
sottinteso del superfluo. E però l'entimema trovasi in tutti i detti
sentenziosi. ENTIMEMATIco (dise.), detto o sentenza entimematica fu chiamata da
Aristotele quella che racchiude in una le due pro posizioni dell'entimena, come
dall'esem pio che egli stesso ne adduce. Odio immortale ad uom mortal disdice l
ENTITA' (ontol.), astrazione dell'astratto, per la quale esprimevasi dagli
scolastici l'essenza dell'ente, considerato qual è, o sia con tutto quel che ha
di generico, di specifico, d'individuale, di proprio, di accidentale o di
modale. V. queste voci. Il Gelli disse degli enti razionali, «che » hanno tanto
poca entità, che sono stati » alcuni che hanno detto, che non sono ». È
divenuto oggidì vocabolo di poco uso, e però può aversi come antiquato.
ENToMoLoGIA (crit.), parte della zoolo gia, che tratta degl'insetti. ENTUSIASMo
(prat.), sentimento veemen te, accompagnato da una forte persuasione della sua
verità e convenienza. V. Senti menlo. - Locke ne diede una definizione imper
fetta, avendo limitato l'entusiasmo alle sole false illuminazioni della
superstizione; il che confonde l'entusiasmo col fanatismo. V. Fanatismo. v Un
simile concetto ne formò Leibnitz. Altri hanno spiegato l'entusiasmo per lo
furor poetico o sia per l'estro, e per ogni eccessivo amor del bello; il che
restrigne rebbe la nozione dell'entusiasmo allo esal tamento
dell'immaginazione. La forza del sentimento che dicesi entusiasmo, si co munica
a tutte le facoltà dell'anima; e può nascere egualmente da causa lodevole o
riprensibile, e dalla ragione come dalle - IS7 -4 passioni; d'onde segue che
niuno decen nati concetti sia atto a comprendere tutti i caratteri, nè tutte le
spezie dell'entusias mo, Laonde la definizione di sopra pro posta sembra, più
di tutte le altre, con venire al generico significato di questo vo cabolo.
ENUNCIAzioNE (disc.), discorso che espo ne quello, di che deesi far giudizio.
Equivale a proposizione, nel senso che l'una e l'altra contengono la sposizione
di tutto quel che conviene o disconviene al suggetto. V. Proposizione. : Gli
antichi dialettici chiamarono l'assio ma enunciazione. V. Assioma. I Greci la
dissero ex5eois, expositio, ond'è che gli scolastici chiamarono eete tico il
discorso enunciativo. Questo vocabolo è proprio della sposi zione, che fanno i
geometri di ciò che de essere dimostrato o risoluto. V. Pro blema, Teorema.
EPICENo (disc.), addiettivo, che si dà a nomi di doppio genere, o sieno comuni
a due sessi. EPICHIREMA ( dise. ), argomentazione composta di più proposizioni,
delle quali ognuna è accompagnata dalla sua pruova, sì che le une dimostrano le
altre. Suole addursi come esempio di tale ar gomentazione quel tratto
dell'orazione di Cicerone pro Milone, in cui stabilisce il diritto d'uccidere
chi si pone in aguato contra un altro, e passa a dimostrare che Clodio fu
insidiatore di Milone, e che ben fu da lui ucciso. Errrrro (dise.), nome di
qualità, che vale addiettivo, e che abbiam preso da Greci. EQUAmmie (spec.),
moto, che in tempi eguali, scorre spazi eguali. Il moto equabile è la misura di
tutte le altre spezie di moto, ed è quello che ci dà un'adequata mozione del
tempo, di cui ogni astratta definizione, comunque vera o acuta, riesce sempre
scabrosa per la co mune intelligenza. Le antiche clessidre, e i moderni oriuoli
fondati sulla equabilità del movimento, ci rappresentano il tempo per mezzo
dello spazio. Ed essendo che ogni moto costa di tre elementi, cioè il tempo, lo
spazio, e la velocità, e de tre il più sensibile e più facile ad esser
concepito è lo spazio; però il medesimo serve a dare ancora una chiara idea
della velocità, la qual'è da matematici considerata come lo spazio descritto
nella unità di tempo. I fenomeni del moto, e le leggi colle quali si comunica a
corpi, e in quelli per severa, o si estingue, sono obbietti delle scienze
fisiche, e spezialmente della mecca nica. Ma le nozioni del suo essere, delle
forze o potenze che lo producono, e delle sue relazioni collo spazio e col
tempo, son fondamentali per lo studio dell'universo, e però appartengon pure
alla filosofia spe culativa. V. Moto, Spazio, Tempo. EQUABILITA' (prat.), senso
traslato, per lo quale applichiamo alle inclinazioni del l'animo e a portamenti
della vita l'umi formità e la eguaglianza del moto. In questo senso significa
costante e uniforme maniera d'onesto vivere. Praeclara est, dice Cicerone,
aequa bilitas in omni vita, et idem semper vul tua, eademque frons. EquANIMITA'
(prat.), moderazione d'amimo, che rifugge da ogni estremo par tito. n - 188 -
EQUILmeRro (spee, dise, e prat.), stato di quiete, nel quale si tengono due
corpi, o per esatta egualità di peso, o per collisione di forze eguali. V.
Forza, Peso, Quiete. Considerato il peso come una forza di gravità, i due casi
testè espressi riduconsi ad un solo, alla collisione cioè delle forze eguali.
La teorica dell'equilibrio è parte della dottrina del moto, e forma l'obbietto
speciale della statica. V. Statica. In senso traslato si applica tanto alla
egual forza degli argomenti, quanto allo stato dell'anima e delle passioni, che
non trapassano i giusti limiti. EQUIPoLLENTE E EQUIPoLLENZA (dise. ), l'egual
significato di due o più proposi zioni. V. Proposizioni. Gli scolastici
distinguevano l'equipollenza delle cose e del nomi. La prima è quella che passa
tra semplici e il composto, come tra le spezie e il genere. Le spezie prese
insieme sono equipollenti del genere, che in se tutte le contiene. La seconda,
o sia denomi, trovasi nelle proposizioni, le quali sebbene discordino ne
termini, pure concordano nel signifi cato. E quì distinguevan pure la parte
gramaticale dalla logica: gramaticale era l'equipollenza del vocaboli sinonimi:
logi ca, quella delle proposizioni, nelle quali per mezzo della negazione
accordavansi tra loro due contrarie affermazioni. La dottrina in somma della
equipollenza, era un tes suto di definizioni e di distinzioni, le quali non
dicevano niente di più di quelle no tissime due regole, negationis negatio est
aſfirmalio: duae negationes unam valent affirmationem. E questo uno degli
esempi di quell'apparato logico, o dialettico, del quale gli scolastici avevan
fatto un ante murale allo studio del pensiero. EQUITA'(prat.), il giudizio
della ragione intorno al retto e albuono.V. Buono, Retto. L'equità contiene
tutto quel ch'è proprio del senso del retto e del buono, nè può mai allo stesso
ripugnare: la sua forza è doppia, l'una di rischiarare e spiegare il fine della
legge, l'altro di supplire al si lenzio di quella per tutte le azioni, che sono
commesse alla libertà dell'agente morale, ma che pure debbon essere conformi al
retto uso della ragione. Così la ricono scenza, la liberalità, la beneficenza,
il per donare, il fare per gli altri quel che vor remmo che fosse a noi fatto,
sono uſizi dettati dall'equità. Comechè Cicerone avesse inteso parlare
dell'equità civile, pure ac conciamente distinse ambe le cennate parti:
aequitatis vis est duplea: cufus altera directi, veri, et justi, et ut dicitur
aequi et boni ratione defenditure altera ad vi cissitudinem referendae gratiae
pertinet. V. Legge, Obligazione. Ambiguo e vario è il significato di que. sto
vocabolo nel linguaggio del giurecon sulti, perchè costoro hanno sovente
risguar dato l'equità come un correttivo dell'infles sibile rigore della legge.
Ma le similitu dini son causa di molte confuse nozioni nel linguaggio pratico,
il perchè debbono essere purificate dalle nozioni chiare e di stinte della
filosofia. L'equità dee sempre presedere alla spiegazione e alla interpre
tazione delle leggi secondarie, nel senso che l'applicazione loro corrisponda
al fine de legislatori, piucchè al nudo e materiale significato delle parole.
Cicerone stesso nel dare ad Aquilio Gallo la lode d'un per fetto giureconsulto
additò il vero uso del la equità, che è: furis civilis rationem numquam ab
aequitate segungere. I consigli dell'equità possono essere an cora una sorgente
di perfezione per coloro, i quali credonsi obligati di fare più di quel che la
legge impone per dovere. Quanti uomini sommamente virtuosi non credonsi
obligati di fare tutto il bene, di cui son capaci, quando sentono di avere i
mezzi per eseguirlo? Il senso del retto e del buono scambiasi in essi colla
nozione della legge, e produce al pari di questa obligazioni mo rali, le quali
acquistano un pregio inestima bile, appunto perchè sono volontarie. La
coscienza, la quale rimane semplicemente soddisfatta per l'adempimento delle
obli gazioni propriamente dette, esulta ed ac compagna col suoi plausi l'agente
per tutti i gradi della lunga distanza, che passa tra la giustizia e la
perfezione. V. Coscienza, Perfezione. Gl'incitamenti dunque che nascono dal
l'equità sono anch'essi altrettanti principi razionali d'azione, i quali non
differi scono dalle obligazioni, se non per la maggiore o minor forza colla
quale deter minano la volontà. V. Determinazione, i7olontà. - EQUIVALENTE e
EQUIVALENZA (disc. eprat.), l'egual valore di due cose. rº L'uso ha dato a
queste due voci un si gnificato più ampio dell'equipollente, che suol essere
adoperato soltanto nel senso logico. Gli scolastici distinguevan pure l'equi
valente fisico dal morale, chiamavan fisi camente equivalente una cosa, che con
tenesse in se le qualità di più altre cose unite insieme; e moralmente
equivalenti le azioni di diverse persone, che avevano vo. luto lo stesso fine.
In questo senso ancor noi diciamo equivalente il consiglio all'azione di colui,
che l'ha mandato ad ef. fetto; e il mandato all'esecuzione, che il mandatario
gli ha dato. EQUIvoco (disc. ), vocabolo comune a più cose di essere diverso.
Cotesta definizione, che è pur quella del nostro vocabolario della crusca, è
una let terale versione del significato che gli sco lastici davano a vocaboli
detti equivochi: quorum nomen est commune, ratio vero essentiae secundum illud
nomen diversa. Spogliandola del senso metafisico, l'equi voco è il nome stesso
dato a cose diverse: è l'omonimo degreci, che ancora noi ab biamo adottato. Ma
l'equivoco nel senso di addiettivo prende il significato di ambiguo, perchè la
dubbietà del nome diviene qualità della cosa significata. Ora questa idea
sempli cissima fu dagli scolastici espressa con un'altra astrusa distinzione di
aequivoca aequivocantia, e aequivoca aequivocata. Gli equivocanti erano i nomi,
e gli equi vocati, le cose espresse con nomi capaci di più significazioni.
Sarebbe bastato il di stinguere il senso attivo dal passivo. L'uso non pertanto
suole adoperare so stantivamente l'addiettivo, e render l'equi voco sinonimo
dell'ambiguità. Una tal sorta di equivoco può nascere per negli genza di
parlare, o per arte del parlatore: per negligenza, quando un nome messo tra
altri due può riferirsi a ciascun di essi; quando lo stesso scambio possa farsi
tra una proposizione, e due altre che la pre cedono; quando di due significati
dequali il nome è capace, non si vegga chiara mente in qual de due abbia voluto
il di citore usarlo; quando in fine nelle lega ture del pronomi e de relativi,
sorga il dubbio, a qual de precedenti gli uni o gli altri si riferiscano. Può
ancora l'equivoco essere un artifi zio del discorso, nel quale caso sommi
nistra armi alla satira, e può altresì di. venire sorgente di arguti detti e di
fini pensamenti! Non è lingua, che non si presti ad un tale uso, nè oratore che
tal volta non si valga dell'equivoco per con dire il suo discorso. Ma niuna
lingua è tanto feconda di doppi sensi, e di ambi gui detti quanto la francese,
la quale ne fa anche un pregio di prontezza di spirito e di grazia, nel dialogo
e nella conver sazione. La satira di Boileau intorno al l'equivoco può
dimostrare il buono e il cattivo uso, che di esso può farsi. L'equivoco può
esser dilettevole, e tal volta utile in ogni sorta d'argomenti, tran ne che in
quelli della filosofia intellettuale, Nella stessa filosofia pratica, è
permesso, al dir di Grozio, servirsi dell'equivoco, per eludere una
interrogazione, cui non siamo obligati di rispondere. In questo caso, è un'arma
di difesa, alla quale ricorre la desterità del giudizio di chi non vuole sodº
disfare una pericolosa o importuna curio sità. La prudenza stessa consiglia
alcune volte l'equivoco, e spezialmente quando conviene nascondere alla età
innocente e incauta cose, delle quali potrebbe abusare, Per contrario la
ragione dee condannarlo e proscriverlo nella espressione del pen siero, ch'ella
dee rendere chiara a se stessa e agli altri. I nomi detti equivochi,
spezialmente quando esprimono obbietti affini producono confuse e oscure
nozioni, le quali a volta loro divengono cause di errori. Il vocabolo idea ne
somministra un op portuno esempio. Con questo vocabolo si è per lungo tempo
espressa la sensazione, la percezione, la facoltà di percepire, l'ob bietto
percepito, la sua immagine, e il pensiero stesso. Di quante confuse nozio mi, e
di quanti errori non è stata cagione la promiscuità d'un vocabolo, che mal
conveniva ad operazioni de'sensi o della mente sì diverse tra loro? Cotesti
errori divennero sistematici per modo, che ognu no credeva concepire
chiaramente la per cezione, senza accorgersi del falso presup posito, da cui
partiva. E per verità gli equivochi producono per loro natura certi errori
ciechi, i quali divengono altrettanti prestigi, o falsi dati di ragionare, che
la mente non soggetta più ad esame, perchè li ha come certi, e indubitati. Per
questi vocaboli, più che per ogni altro vale tutto quel che abbiam detto della
importanza del definire, o dello spiegare il senso nel quale intendiamo ado
perargli. (V. il disc. prelim.). V. Defi. nizione, Errore, Prestigio. -
ERMETICA (erit.), nome favoloso dato all'alchimia, e alla falsa chimica, suppo
sta figlia di Ermete. E però filosofia ermetica fu detta la dottrina riposta
del principi, pe quali gli alchimisti, pretesi filosofi della natura, cre
devano aver trovato il segreto di tramu tare i metalli ignobili in perfetti, e
di ri solvere in taluni elementi primitivi tutti i composti della natura. È
oggidì scienza e nome deriso, come l'alchimia. V. Alchimia. - -- - ERoE
(prat.), uomo di virtù più che umana. V. Virtù. - - - - Presso gli antichi
colesto vocabolo di notava una spezie di Esseri superiori al l'umana, sì per lo
spirito, come per le forze del corpo. Giusta la famosa defini zione di Jerocle,
dicevasi eroe uno spirito sublime, abitatore d'un corpo luminoso; e giusta il
sistema degli Orfici e de Pita gorici i semidei, gli eroi, i demoni, e le anime
umane eran quattro spezie di – 191 - emanazioni della Divinità. V. Demone,
Spirito. ERoico (prat.), quel ch'è degno d'un CI'Oe, È epiteto della virtù, che
si solleva so pra i comuni esempi degli uomini. ERRORE (spec.), falsa opinione,
cui prestiamo assentimento. La natura ha ispirato all'uomo l'amor del vero, e
gli ha dato la facoltà del giu dizio per poterlo discernere. Ma quando i suoi
sensi sieno infermi, o non sia libero e maturo l'uso del giudizio, o
oltrepassar voglia i confini dell'umana capacità, il vero gli sfugge, ed è
dalla stessa sua opi nione ingannato. Locke credette poter de terminare tutti i
generi dell'errore, che ridusse a quattro; il difetto di pruove: il non saperne
far uso: il non volerle usare : il seguire false regole di probabilità. Secondo
Bacone ogni genere di errore è prodotto da una illusione che preoccupa la
mente, e le impedisce il retto uso del giudizio. Son queste le cause
dell'errore che egli chiamò idoli. Ma il suo concet to, quantunque in parte
vero, non sem bra compiuto, dacchè spiega l'origine più che l'idea del nome.
Siccome l'ignoranza è la causa dell'errore, se non unica, cer tamente la più
comune, così non si può fare l'analisi delle cause dell'uno disgiun tamente
dall'altra. V. Idolo, Ignoranza. ERUDIzioNE (erit.), il sapere degli uo mini,
tramandato per le lettere e per la storia. Distinguesi dalla scienza, che è il
pro dotto della riflessione e del ragionamento; e che l'uomo potrebbe
acquistare, anche senza conoscere tutto quel che le passate generazioni han
saputo, o scritto. E però tutto l'umano sapere può essere partito in due grandi
rami, l'erudizione e la scien za. V. Scienza. L'erudizione è principalmente
fondata nella memoria, e però abbraccia, come sue parti proprie la storia,
l'archeologia, e la conoscenza delle antiche lingue. Quan do parliam di storia,
intendiamo in essa comprendere non solamente tutte le parti sue, come la sagra,
la civile, la militare, la letteraria, la filosofica, la biografica, e la
bibliografica; ma ancora le conoscenze ausiliarie, senza le quali non può darsi
un perfetto storico, come la cronologia, e la geografia. Similmente nella
denomi nazione di archeologia comprendesi la co noscenza della storia non
iscritta, come la tradizione illustrata da monumenti d'ogni genere, quali sono
le iscrizioni, le mo mete, le medaglie, gli emblemi, i cippi, le pietre
acherontiche, e i ruderi stessi, i quali ricordano fatti e usi del popoli, che
non avevano lettere, nè certa misura de tempi, e del quali la vita appartiene
alle rimotissime età del mondo. E final mente nella conoscenza delle lingue
anti che debbesi principalmente includer quella delle lingue madri che han dato
origine a parlari secondari del popoli, e dell'eti mologie nelle quali possono
trovarsi le ori gini del linguaggio, e con esse le prime tracce della umana
sapienza. Dal quadro di tutte le parti dell'erudi zione apparisce manifesto
quanto difficile sia il trovare tra gli uomini che sonsi il lustrati per
sapere, un perfetto erudito. Forse ognun di quelli che sono stati più ammirati
per la vastità del sapere, meritar potrebbe una lode relativa e non assoluta,
quando si facesse delle sue conoscenze il confronto con quelle altre, che si
sareb – 192 – bero in lui desiderate. Forse ancora il concetto d'un vero e
perfetto erudito è di tale e tanta ampiezza, che trascende le forze della più
prodigiosa memoria. Ma tal'è la natura di tutte le umane perfe zioni, che la
prima lode è dovuta a quelli, i quali più si approssimano al segno, che alle
intelligenze finite è lecito di toccare; sì che i modelli di vera perfezione
deb bonsi avere come stimoli a correre il più innanzi ch'è possibile. Riferendo
l'erudizione alla memoria, e astraendola dalla riflessione e dal ragiona mento,
noi abbiam seguito quella imper fetta partizione di Bacone, la quale pre
suppone che ciascuna delle tre principali potenze dell'anima possa essere
risguar data come l'unica sorgente di talune del le parti dell'umana
cognizione. Ma ripe tiamo in questo luogo quel che abbiamo già detto nel
discorso preliminare, cioè che simili partizioni debbon aversi come semplici
punti di ordinamento, comodi per disporre in classi le varie sezioni del l
umano sapere, senza risguardarle come esatte nè vere in natura. Imperocchè non
si dà scienza, arte, o disciplina, nella quale non sia necessario il concorso
della me moria, della ragione, o della immagina zione unite insieme. Della qual
verità offre una luminosa pruova l'erudizione, che es senzialmente richiede
esatto criterio, or dine, e sagacità d'investigazione. Di quale utilità esser
potrebbe un ammasso di fatti, raccolti senza giudizio critico, e senza or dine
tra loro? Se lo storico narrasse tutto quel che gli altri han detto o scritto,
senza discernere il vero dal falso, e il credibile dall'inverisimile; se non
sapesse egli stesso penetrare nell'antichità e nelle cause degli avvenimenti,
ehe descrive; nè stabilire tra loro quella connessione logica, la quale prepara
il giudizio del lettori; se in fine povero di lettere, di grazie e di stile,
vol garmente descrivesse tutto quel che l'uom credulo e ignorante suole
ingoiare come alimento della curiosità; in somma se si separassero interamente
nello storico le fun zioni della memoria dalle altre potenze del l'anima, aver
potremmo conti e popolari tradizioni, e non istoria. Ora il natural parentado
che rende in separabili tra loro le potenze dell'anima, fa sì che i migliori
eruditi sien quelli, i quali senza dedicarsi esclusivamente ad un sol genere di
cognizione hanno insieme congiunto lo studio delle lettere e delle scienze. Ma
quì si presenta una difficoltà, maggior di quella, che abbiamo testè di visato.
Potrà la mente umana essere per fetta in due sì vasti generi, se non può
conseguire la perfezione in un solo ? La risposta è facile. Lasciam da parte il
per fetto metafisico, e prendiam l'umano: il più ci serva di guida a giudicare
del meno. Un erudito filosofo varrà più d'un erudito gramatico. Non si nega,
che difficilcosa sia il trovare in ambedue i generi un som mo e pari merito; e
di quanta difficoltà sia, lo dimostra il picciol numero degrandi e straordinari
ingegni, che han meritato una tale lode. Come primi in questo scelto drappello
posson essere citati, Aristotele tra gli antichi, e Leibnizio tra moderni. Cer
tamente la filosofia riceve tanto incremento e lustro dalla erudizione, quanto
questa da quella. Imperocchè l'erudizione non so lamente le presenta tutto
l'antico tesoro delle umane conoscenze, e le fa conoscere il punto da cui
deella partire; ma le som ministra gli elementi della sperienza, la più sicura
fiaccola degli umani giudizi. Resta solo, che la filosofia si preservi dai
difetti, a quali suole condurre l'abito del – 195 - giudicar degli eruditi;
siccome a volta sua l'erudizione guardarsi dee dal sistematico ragionamento a
priori. Son diversi i prin cipi che guidano la ragion dell'erudito e del
filosofo : l'un segue l'autorità, l'altro l'in duzione logica, o sia la
naturale connes sione de fatti colle cause loro. Dalla giusta tempera di questi
due principi può nascere quell'esatto criterio, che subordina l'autorità alla
ragione e insiememente rende quella ausiliaria di questa. V. Autorità, Ragione.
ESACERBARE (prat.), traslato dal dolor sensibile, che si applica ancora al
morale, e vale irritare l'animo di alcuno con pun gente tormento. È meno dell'
esasperare, e dell'esulce rare. V. queste voci. EsAGERARE (disc. e prat.),
oltrepassare il vero e il naturale nelle parole, o nel sentimento. È diverso
dell'ampliare e dello ampli ficare: l'uno e l'altro di questi due verbi
indicano un'azione, che non trapassa i li miti del vero; laddove l'esagerare
importa alterare una cosa in bello o in brutto che sia. V. Amplificare.
EsALTAMENTo (spee. e prat.), innalza mento della immaginazione al di sopra
della comune misura. Applicato anche a sentimenti dell'animo, vale eccesso, o
straordinaria irritazione d'una passione, e spezialmente dell'ira. V.
Immaginazione, Passione. EsALTAZIONE (prat.), condizione o stato d'un animo
esaltato. L'esaltamento, esprime l'effetto della causa, che muove e agita
l'animo: l'esal tazione, la conseguenza. ESAMINARE (spec.), atto della
riflessio ne, che partitamente considera la conve nienza di chicchessia.
EsANIMARE (prat.), lo stesso che disa nimare. V. questa voce. Nel senso
passivo, è proprio di quel do lor d'animo, che intercetta il sentimento.
EsANIME (prat.), vale esanimato, cioè uomo colpito da duolo sì intenso, che
pare aver perduto la vita, ESASPERARE (prat.), irritare con nuovi motivi il
dolore, o l'ira di alcuno. È più dell'esacerbare. V. questa voce. ESATTo (spee.
disc. e prat.), quel che non ha più nè meno di ciò, che gli con viene. Si
applica sempre nello stesso senso al pensiero, alla parola, e all'azione. È di
verso dal preciso, il quale va al fine della idea, o a un punto determinato
dall'azio ne. V. Preciso. EsAUDIRE (teol. e prat.), accogliere le preghiere
altrui. - È proprio di Dio, che benignamente ascolta le preghiere dell'uomo, e
le ri volge ad utilità di lui. Per similitudine si applica al benigno ascoltare
d'ogni uomo rivestito di autorità, a rispetto delle preghiere che gli porgono
gl'inferiori. - EscANDEscENza (prat.), violento movi mento dell'ira, che quasi
accende e in fiamma l'animo EscogitARE (spec.), cavar fuori a forza di
riflessione un pensiero riposte - 194 – EscusARE (prat.), rimuovere o smi muire
la colpa per via di ragionamento. EsEcRARE (prat.), l'avere in abboni mio, e in
orrore alcuno. E il maggior grado dell'abborrimento, perchè accompagnato da un
sentimento di religioso dovere. È proprio di quella avversione, che c'ispira
l'empietà o lo scandalo. EsEMPIo (spee. dise. e prat.), fatto al trui, che la
riflessione considera per sug gerirne, o sconsigliarne l'imitazione. Sotto il
nome di fatto comprendiamo tanto il pensiero o concetto dell'animo, quanto la
parola, o l'azione ; il perchè l'idea dell'esempio appartiene del pari alla
filosofia speculativa, alla discorsiva, e alla pratica. Gli esempi sono gli
elementi della spe rienza, la quale ricava le sue conclusioni generali da fatti
particolari simili e tra loro concordi. V. Esperienza. In logica, l'esempio dà
luogo ad una sorta di argomento imperfetto, per lo quale da uno, o da pochi
fatti singolari, stabi liti per antecedenti, si deduce come certo il conseguente.
Tal sarebbe: la guerra tra Tebani e i Focesi fu calamitosa: ma i Tebani e i
Focesi son finitimi: dun que calamitosa è ogni guerra tra fini timi; o pure:
Dionigi domandò una cu stodia alla sua persona, per opprimere la patria:
Pisistrato non prima ottenne ancor egli una custodia che impadro nissi del
governo di Atene: lo stesso praticò Teagene a Megara: dunque tutti quelli, che
domandano una custodia, vogliono opprimere la patria. Cotesto ar gomento di cui
parla Aristotele (Rhetor. lib. II.), è falso, perchè la minore non è compresa
nella maggiore, se non per una parte sola, e la conseguenza con chiude più, che
non contengono le pre messe. Aristotele avvertì essere l'esempio diverso
dall'induzione, perchè contiene una relazione non del tutto al tutto, nè d'una
parte al tutto, ma d'una parte alla parte, e però non prova. V, Induzione. Ne
pratici portamenti della vita l'esem pio è una molla assai più efficace, che in
ogni altro astratto giudizio. Per esem pio intendiamo una onesta o viziosa azio
ne, esposta all'altrui imitazione. E sic come noi cominciamo dal far tutto per
imitazione, e la prima guida della ra gione è l'autorità; così i buoni o i cat
tivi esempi decidono della nostra educa zione, o per lo meno le danno una tale
tendenza, che a pochi è dato il mutarla o il vincerla, allorchè nella provetta
età accorgonsi di essersi innoltrati in una falsa strada. V. Autorità ,
Educazione, Gio 07Cl7202,2 (Z. Risguardando prima gli esempi dal buon lato, son
essi non solamente utili, ma ne cessari al reſto portamento della vita. Bello è
intorno a ciò il precetto di Seneca: ali quis vir bonus nobis eligendus est, ae
semper ante oculos habendus , ut sic tanquam illo spectante vivamus, et om nia
tanguam illo vidente faciamus:.... elige Catonem: si hic videtur tibi nimis
rigidus, elige remissioris animi virum Laelium elige eum cuius tibi plaeuit et
vita, et oratio, et ipsius animum ante te ferens et vultus, illum semper tibi
ostende, vel custodem, vel exemplum - opus est aliquo, ad quem mores nostri se
ipsi erigante nisi ad regulam, prava non corriges. (Ep. XI. ). Nulla per
l'opposito, di più pernicioso de cattivi esempi, sopra tutto per la in r – 195
- cauta età della gioventù. Quando si con sideri la tendenza, che la natura ci
ha dato alla imitazione, e la necessità di camminar dietro all'autorità, come
alla sola guida che abbiamo nel primo ingresso alla vita, chi non vede le
conseguenze presso che irreparabili decattivi esempi? Che se questi invitassero
i fanciulli e i giovani alla mol lezza, e aprissero loro prematuramente il
cammino agli agi e a piaceri della vita sensitiva, l'educazione si cangerebbe
in una scuola di corruzione, di cui nulla potrebbe più fermare il corso. Da ciò
segue che ogni turpe azione, commessa al cospetto di altri, ha in se due
caratteri di riprensibile: il primo, della infrazione del dovere, che la
dichiara illecita e punibile: il secondo dell'esem pio, che invitar può
all'imitazione quelli che ne sono spettatori. L'imputabilità che nasce dallo
esempio, non solamente è mag giore, se questo ha offeso il senso di coloro i
quali ignoravano che cosa fosse il delin quere, ma tocca l'apice della
immoralità, se ha portato offensione alla innocenza o al pudore degiovani; il
che è appunto quello che si denomina scandalo. V. questa voce. EsERCITAZIONE
(prat.), il ripetimento dell'azione, fatto per acquistarne la faci lità, o
l'abito. V. Abito. EsERCIzio (spee. e prat.), il passaggio dalla potenza
all'atto. - 5 Per rendere più chiara cotesta defini zione, giova prenderne
l'esempio dalla vo lontà. È questa una potenza data all'uomo, considerato come
agente morale, la quale insino a che non si determina all'azione, rimane ne
limiti d'una semplice facoltà. L'azione dunque non è altro che l'eserci zio
della volontà. V. Azione , Volontà. Gli scolastici lo definirono, la reitera
zione di qualunque operazione, fatta eol fine di conservare, o di confermare
l'a- bito. Ma la loro definizione confonde il principio dell'atto colla sua
continuazione, o sia l'esercizio colla esercitazione. Essi di stinguevano ancora
l'esercizio per rispetto all'obbietto, al modo, alla origine, e alla
continuazione; categorie inutili, che mol tiplicano i nomi, senza dichiarire le
idee. EsisTENZA (ontol.), dell'esistenza, come d'ogni idea semplice, non può
darsi una definizione reale; il perchè gli scolastici ne diedero una affatto
nominale, che è il compimento della possibilità. Ma ciascu no concepisce più
chiaramente l'esistere, che il compimento del possibile, V. Pos sibile,
Possibilità. Altri la definirono, lo stato di una cosa un quanto esiste. Ma che
è l'esistere? Questa seconda definizione, è una spiega zione viziosa, o sia non
è definizione rea le o nominale, che voglia dirsi. Altri in fine credettero
poterla definire, lo stato attuale d'una cosa che è fuori del nulla. Ma quest'altra
definizione rac coglie insieme i vizi delle due precedenti, dapoichè è fondata
sopra la nozione del nulla, o sia di quel che non esiste. Per meglio
determinare la nozione del l'esistenza, fa uopo primamente distinguere gli enti
contingenti dal necessario. L'ente necessario ha la ragion sufficiente dell'esi
stenza nella sua propria essenza; laddove i contingenti l'hanno nella volontà e
nella potenza di Lui. La nozione dell'esistenza include quella d'un
cominciamento e d'una fine, mentrechè l'essenza dell'ente neces sario esclude
ogni cominciamento ed ogni fine. Ora la nozione dell'essenza dell'ente
necessario è maggior dell'umana capaei ris – 196 – tà, perchè si confonde col
sempiterno e col l'infinito, sì che non può essere definita. Il sum qui sum è la
sola nozione di cui è capace l'umana concezione ! Da ciò segue, che
impropriamente il linguaggio scientifico ha associato la no zione
dell'esistenza dell'Essere increato con quella delle creature, dovendosi dire
che l'ente necessario è , e non già che esi ste. V. Contingente, Essenza, Neees
sario. Quanto poi agli enti contingenti, il con cetto dell'esistenza non è lo
stesso a ri spetto degli enti animati ed inanimati, e tra gli animati
differisce per rispetto agl'intelligenti ragionevoli, e a soli in telligenti.
L'esistenza dell'uomo sta nella coscienza del proprio essere: quella dei bruti
nella durazione della vita: quella in fine di tutte le cose inanimate, è la du
rata dell'esser loro insino al punto della distruzione. Se da questi tre
diversi con cetti volesse formarsi una nozione gene rica a tutti comune,
potrebbe l'esistenza definirsi, la durata dell'ente insino alla sua
distruzione. V. Coscienza, Durata. Comunque si definisca l'esistenza, il con
cetto che ne formiamo ha una relazione necessaria col possibile, ed è il
contrap posto del nulla. Scambiasi sovente coll'al tuale e col reale, comechè
il suo signi ficato proprio differisca dall'uno e dall'al tro. V. Attuale,
Mulla, Reale. Siccome non è estremità, a cui non siesi trasportata l'umana
ragione, così non è mancato chi avesse rivocato in dubbio la realtà della
nostra esistenza, nel che gli scettici hanno uguagliato l'essere al non essere.
V. Scettico. EsisteRe (ontol.), durare insino alla distruzione. - - - º È
proprio degli enti contingenti. V. Esi stenza. EsTAzioNE (spec. e prat.),
incertezza nel giudizio, o nella deliberazione della volontà. È più del
dubitare, dacchè esprime un impedimento più di senso, che di ragio ne; laddove
la dubitazione presuppone un conflitto di motivi, che tengono in sospeso
l'assentimento o la volontà. V. Dubbio, Dubitazione. EsoRBITANZA (prat.),
eccesso che tra passa i comuni limiti d'una passione, o d'un vizio. V. Eccesso.
EsoRTAZIONE (dise. ), discorso per lo quale cerchiamo d'indurre alcuno con ra
gioni o con esempli, a far quello che noi VOI'TGImmO. - È più del consiglio, il
quale fermasi al proporre, senza sforzo di ragionamento. V. Consiglio. -
EsoreRico (spec.), nome dato all'in segnamento arcano di quelle sette filoso
fiche, che avevano iniziati per discepoli. È lo stesso che acroamatico V.
questa voce. EsPANSIONE (spec.), azione d'una forza, per la quale le parti di
taluni corpi, di latandosi, occupano uno spazio maggiore. Le forze espansive
posson essere esterne, o interne: esterna è la rarefazione prodotta dal calore:
interna, l'elasticità. V. Ca lore, Elasticità. L'aria e le sostanze capaci
d'essere con verse in vapore, come l'acqua portata ad un grado di calore
maggior di quello che produce il bollimento son dilatabili per espansione. Il
passaggio di queste ultime - 197 – da uno stato all'altro dimostra che la forza
di coesione, la quale le ritiene nel na turale loro stato, può essere
considerata come una forza di compressione opposta alla forza espansiva, la
quale tende a se pararne le parti. Cotesta forza è quella, che Newton ha
talvolta denominato repulsiva. La dilatabilità, considerata come una pro prietà
de corpi che ne son capaci, le cause che la producono, le leggi colle quali si
sviluppa, e l'uso che di essa può farsi per acquistare nuove forze e nuovi motori,
son tutti obbietti della fisica sperimentale. V. Fisica. EspERIENza (spec.),
conoscenza de fatti e delle relazioni loro, acquistata per lun go abito di
riflessione. V. Abito, Rela zione. Ogni fatto singolare è per se stesso ste
rile; ma sono le sue relazioni cogli altri fatti simultanei o successivi, che
aprono alla mente il giudizio della qualità e con venienza loro. L'abito di
studiare tali re lazioni, è quel che forma l'esperienza. Al tra volta la
sperienza riferivasi a soli fatti delle sensazioni, o sia a soli obbietti ester
ni, nel quale aspetto solamente fu da Lo cke risguardata. E però pose egli la
spe rienza al di sopra del giudizio, anzi la costituì emendatrice del giudizio,
come se il conoscimento dell'esperienza fosse un che di diverso dal giudizio, o
potesse senza di quello stare di per se. In somma egli presuppose, che le
percezioni desensi sieno talvolta alterate o corrotte dal giudizio, il quale è
spesso corretto dall'esperienza. Co testo concetto, che Locke pretende dimo
strare coll'esempio del cubo e della sfera, che un orbo vedesse per la prima
volta, dopo avere acquistato la vista, e de'quali eragli nota la differenza per
lo tatto; co testo concetto dico, è falso, o almeno è impropriamente espresso.
Imperciocchè vi ha delle idee complesse, le quali non si formano in noi, se non
per mezzo di di verse sensazioni, o di più percezioni del medesimo senso. Tali
sono le idee della sfera e del cubo, e di tutti i solidi dei quali la figura
non si percepisce per un atto unico della visione. In questo caso è
impropriamente detto, che il giudizio in ganna, e che l'esperienza emenda, se
pure non si volesse scambiare il giudizio colla percezione. Dee per contrario
dirsi, che una idea incompiuta è rettificata dal giudizio, mediante
l'osservazione o l'esperienza. Nè l'improprietà sta solamente nel vocaboli, ma
sì bene nel concetto; dapoichè l'espe rienza diverrebbe affatto meccanica, men
trechè è di sua natura razionale. Tale per altro esser doveva il concetto d'una
filosofia, che risguardava la sensazione, come l'unica sorgente della umana
cogni zione, e che scambiava la sensazione stessa colla percezione e colla
idea. V. Idea, Percezione, Sensazione. i Bacone non disgiunse la sperienza dal
giudizio, che anzi le diede per compagna l'induzione, distinguendola così dalla
nu da osservazione de fatti, che chiamò selva o labirinto. V. Induzione. - La
moderna filosofia avendo applicato l'osservazione anche agl'interni fatti dello
spirito, e riconoscendo il senso intimo, o sia la luce stessa della ragione,
come la principal sorgente dell'umana cognizione, ha dato all'esperienza un
doppio valore. Ella stabilisce come primo scopo della spe rienza la conoscenza
di se medesimo. Così, seguendo le vestigie della natura, da mezzi da lei
adoperati ne argomenta i fini tanto nel fisico, quanto nel morale; chiama in
soccorso del senso individuale di ciascuno – 198 - il comun senso della
umanità; e stabilisce due ordini di fatti, dalla concordanza dei quali fa
dipendere la realità e la certez za dell'umana cognizione. Da ciò è nato, che
la denominazione di filosofia speri mentale, esprime oggi il metodo comune alla
investigazione del fatti esterni ed in terni dell'animo; laddove prima additava
la sola dottrina delle sensazioni. V. Filo eofia, Sensazione. EspERIMENTALE
(erit. e prat.), tutto quel che è fondato nell'accurata ed esatta os servazione
de fatti. V. Osservazione. Diciamo accurata ed esatta, perchè la sperienza
risulta non dalla semplice cono scenza del fatti, ma dalla comparazione che di
essi facciamo, dalla somiglianza, dalla diversità, da modi, dalla connes sione,
in breve da tutte le relazioni loro, diligentemente esaminate. V. Esperienza.
Ogni scienza o arte, la quale ricava i principi e le regole sue dalla
osservazione de fatti dicesi sperimentale. Tali sono per essenza loro le arti;
tal'è la notomia, la fisiologia, la medicina, e tutte le arti mediche e
chirurgiche. Noi diamo, quasi per eccellenza, il nome di sperimentale alla
Fisica, o sia allo stu dio della natura, seguito per mezzo della osservazione.
Ma deesi distinguere l'osser vazione volgare dalla scientifica: quella è
diretta dal solo criterio naturale: questa dal metodo. Per queste due diverse
ma niere d'osservare, i moderni distinguonsi dagli antichi. Sebbene costoro
avessero de rivato lo studio della natura da fatti, e fossero stati
diligentissimi osservatori; pur tuttavolta dieronsi a spiegare i fatti osser
vati per congetture e ipotesi, e crearono una natura ipotetica, diversa dalla
reale. Cotesto male provenne appunto dal di fetto dell'ordine e del metodo
scientifico nell'osservare. I moderni per contrario, avendo abbandonato le
congetture, ed es sendosi serviti de fatti ovvi della natura, come
d'instrumenti per iscoprire un se condo ordine di altri fatti, che erano die
tro a primi nascosi, e per la stessa via penetrando sempre più addentro; son
per venuti alla conoscenza di pochi, ma im portanti fatti generali, o sia delle
leggi naturali, le quali spiegano il moto, ta lune delle proprietà generali de
corpi, e l'azione che gli uni esercitano sopra de gli altri. Di questi nuovi
progressi della Fisica siam debitori al metodo scientifico, del quale l'onore è
dovuto a due grandi nomi di Galilei, e di Bacone. V. Meto do, Osservazione. -
Altra volta la Fisica distinguevasi in ma tematica e in particolare, o sperimen
tale. La Fisica generale era la metafisica de corpi, e la particolare prendeva
spezial mente il nome di sperimentale. Oggi, ge nerale chiamiam quella che
versa circa le proprietà comuni a tutti i corpi; e parti colare quella che
esamina le proprietà in dividuali di ciascuno. Ma sì l'una che l'al tra son
divenute sperimentali. Le scienze matematiche sono ausiliarie della Fisica ge
nerale, e intervengono nello insegnamento, o per applicare le verità teoretiche
alle leggi e alle operazioni della natura, o per ispie gare teoricamente gli
effetti delle cause na turali (V. il disc. prelim.). V. Fisica. Esperimentale
ancora chiamiamo, in senso traslato, la filosofia dello spirito uma no che è
fondata nella osservazione dei fatti dello spirito. E siccome i primi stru
menti della sperienza sono i sensi; così spe rimentali furon anche chiamate le
scuole filosofiche, che ammisero la sensazione, come l'unica sorgente della
umana cogni - 199 - zione. V'ha dunque un doppio senso, che render potrebbe
equivoco l'epiteto speri mentale, e però conviene dichiarirlo. Po teva questo
convenire privativamente alla dottrina del sensismo, quando sua oppo sitrice
era quella degli spiritualisti ideali, i quali escludevano la realità del
sensi. Ma dopo che una più sana dottrina ( che è quella del buon senso) è
venuta a conciliare insieme i due principi una volta dissidenti; uopo è
riconoscere la spe rienza come madre comune della osser vazione, così de fatti
esterni, come de gl'interni dell'animo; e l'epiteto speri mentale non indicherà
più la dottrina di Locke o di Condillac ; ma sì bene quel la, che collo stesso
metodo dell'analisi fisi ca, esamina le operazioni del sensi, del pari che
quelle dell'intelletto, e dalle ve rità particolari si fa strada alle generali.
V. Analisi. EsPERIMENTo (spee.), ricerca delle qua lità e delle relazioni d'un
fatto, per ac certarci della sua verità, o per iscoprirne altri, che dallo
stesso dipendono. Nelle scienze naturali chiamasi esperi mento l'operazione che
l'osservatore intra prende per iscoprire i fatti riposti della na tura,
servendosi d'instrumenti, o di so stanze a tal fine adatte. La decomposizio ne,
per esempio della luce e dell'acqua e la loro ricomposizione, sono sperimenti,
uno di Fisica, e l'altro di Chimica. EsPREssIoNE (disc.), la manifestazione del
pensiero, fatta colla parola, o co se gni propri del linguaggio d'azione. V.
Lin guaggio, Parola. In un senso astratto indica una qua lità del discorso o
dello stile, e vuol dire vivacità. Così nell'oratoria, chiamiamo espressione la
forza del sentimenti esposta con verità, e con discorso atto a commuo vere gli
ascoltanti; nell'arte drammatica, l'azione accompagnata da caratteri propri
dell'argomento; nella poesia, il verso fa cile e pronto a rappresentare le
immagini del poeta; nella musica la corrispondenza tra l'armonia e il
sentimento che vuolsi muovere, o imitare ; nella pittura, il sentimento e
l'azione dipinti nel volto, e nell'atteggiamento delle figure. In som ma
l'espressione, intesa in questo sen so, non è altro che la perfetta imitazione.
V. Imitazione. EsquisiTEzzA (prat.), grado di perfe zione, che in qualche cosa
si cerca con sopraffina diligenza. - EssENZA (ontol.), il costitutivo delle
cose, ed il principio delle loro proprietà naturali. Secondo gli scolastici, è
il primo radi cale ed intimo principio delle azioni e delle proprietà, che ad
ogni cosa convengono. Secondo il P. Buffier, è la cosa stessa qual'è piaciuto a
Dio farla. - Delle tre dinotate definizioni piace più la prima, perchè spiega
quel che la cosa è. . L'idea dell'essenza si forma per mezzo della nozione
delle qualità d'una cosa, e di quelle precisamente, che non sono de terminate
da altre, e che non si determi mano reciprocamente, purchè non sieno ripugnanti
e incompatibili tra loro. Per esempio le qualità che formano l'essenza del
triangolo equilatero sono, che abbia tre lati e che questi sieno tra loro
eguali. Dalla cognizione dell'essenza delle cose risulta necessariamente quella
della possi bilità e della immutabilità dell'essenza me desima. L'una e l'altra
verità sono una conseguenza del principio di contraddizio me, cioè che non può
una medesima cosa essere e non essere nel medesimo tempo. V. Qualità. Locke
distinse l'essenza in reale e no minale, e diede il primo nome all'aggre gato
di tutte le idee semplici e delle qualità coesistenti, le quali formano il
tutto d'una cosa, avendo assegnato il secondo alle qua lità, per le quali noi
facciamo la parti zione degeneri e delle spezie; imperocchè soggiunse egli, «
nell'uso del comune par dare il vocabolo essenza esprime non il primo
costitutivo delle cose, ma il com plesso di quelle tali astrazioni, alle quali
si è dato il nome del genere o della spe zie». Cotesta opinione, comechè
seguita da altri, debbesi aver come erronea, avendo Locke confuso la
definizione coll'essenza. Le definizioni possono essere distinte in no minali e
reali, ma non l'essenza, la quale non esprime altra idea, se non quella della
possibilità; e però l'essenza si confonde colla definizione reale, perchè
questa, al par di quella contiene il concetto della pos sibilità della cosa
definita. E per contrario quell'altra sorta di definizione, che spiega la sola
convenienza del nome colla cosa, e non il costitutivo della cosa stessa, di
cesi nominale. Una in somma è l'essenza, e una la definizione reale delle cose,
men trechè posson darsi più definizioni nomi mali. V. Definizione, Possibilità.
EssENZIALE (ontol.), quel che necessaria mente appartiene alla natura d'una
cosa. Più attributi essenziali d'una medesima cosa (dicevano gli scolastici)
sono uniti necessariamente tra loro, e non sono dis solubili per qualunque
forza; per modo ehe la mente concependo un di essi, con cepisce la sostanza
intera, sebbene non ſdequatamente. Così, l'estensione, la di visibilità,
l'impenetrabilità sono attributi essenziali del corpo, e dallo stesso insepa
rabili, ma il concetto di ciascun di essi s'identifica con quello del tutto. V.
At tributo. EssERE (ontol.), come infinito del verbo sono, vale esistere.
Sostantivamente preso, l'esser d'una co sa, è quel che la rende tale e non
altra; nel quale significato confondesi spesso col l'essenza. Ma nel preciso
senso filosofico, l'essere esprime l'idea della esistenza, e attualità
congiunta coll'essenza. - Gli scolastici distinsero l'essere reale dal
l'intenzionale o obbiettivo. Chiamaron rea le quel, che è attualmente
esistente; e in tenzionale, intelligibile, o obbiettivo l'idea o la forma della
cosa, qual'è nel nostro intelletto. Ognun vede esser questa distin zione un
resto delle specie intelligibili di Aristotele. V. Specie. Ammisero parimenti
gli scolastici una terza spezie di essere, cioè l'esse volitum, o sia l'esser
delle cose future o lontane, che per effetto della volontà raffiguriamo come
attuale o presente; distinzione inu tile, perchè il semplice nostro concetto non
costituisce realità. Essere, applicato a persona, o indivi duo, vale ogni
vivente che ha una du rata qualunque di esistenza. a È vocabolo comune alla
lingua france se, e dalla stessa improntato, ma neces sario al linguaggio
filosofico italiano : è usato dal Segneri e dal Magalotti, - Differisce
dall'ente in quanto che si ado pera in senso meno astratto. Vale propria mente
un ente dotato di vita, ed esistente; laddove al vocabolo ente dassi un signi
ficato astratto, che abbraccia anche il po sibile. V. Ente. º i – 201 - EsrAsi
(teol.), spezie di entusiasmo, per lo quale l'anima si astrae da sensi, e
concentrandosi nella meditazione, crede, con verità o senza, mettersi in comuni
cazione con Dio e cogli spiriti celesti. L'estasi può nascere da dono sopranna
turale e non da filosofiche meditazioni. E però, umanamente parlando, va
conside rato come affettazione, o come follia. EsTATIco (teol.), chi è assorto
nella con templazione per virtù dell'estasi. Non sono mancate alla filosofia le
sette degli estatici, tra quali principalmente si distinsero Ammonio, Plotino,
Giamblico, Porfirio, Proclo, ed altri molti, i quali empierono il mondo di
superstizioni e di falsi portenti. EsTENSIONE (spec. e ontol.), disposizione
delle parti della materia, per la quale ella occupa una porzione continua dello
spazio, corrispondente alla sua grandezza e figura. L'estensione ha tre diverse
dimensioni, la lunghezza, la larghezza, e la profon dità. Essendo queste comuni
a tutti i corpi, ne segue che l'estensione sia uno de ca ratteri discernitivi
della materia, ed una delle qualità primarie della stessa. V. Ma teria,
Qualità. L'idea dell'estensione apre alla mente la cognizione di quel che
chiamiamo, re lativamente a noi, mondo esteriore, e da cui ricaviamo
l'esistenza necessaria ed illi mitata dello spazio. V. Esteriore, Spazio. È una
delle misure della quantità, e serve di misura a se stessa, il perchè ap
partiene alla quantità propria. V. Misura, Quantità. -, ESTERIORE e EsTERNo
(spec.), tutto quello che percepiamo per mezzo del sensi. È termine di
relazione a noi stessi , per distinguere le idee che acquistiamo colla
percezione, dalle nozioni che ci vengono dal senso interno e dalla riflessione.
E però chiamiamo natura o mondo esteriore l'uni versalità delle cose materiali.
La cognizione delle cose esteriori, seb bene ci venga da tutti i sensi, pure si
acquista immediatamente da alcuni tra essi, come il tatto e la vista. Son
questi i due sensi che ci fanno scoprire l'estensione e la solidità, come
primarie qualità della materia : per esse acquistiamo l'idea del luogo, che le
cose materiali coesistenti oc cupano nello spazio. La nozione dunque della
natura este riore è complessa, ed è formata dalle tre idee della solidità,
della estensione, e dello spazio. V. Estensione, Solidità. Riferendosi
l'estensione a tutto quel che ci viene da sensi, è stato sovente scam biato
coll'apparente. E però dottrina, o sa pienza esteriore fu detta dagli antichi
quella che poteva essere insegnata alla moltitudi ne, a differenza della
interiore, o riposta, o esoterica ch'era riservata agli eletti o iniziati. V.
Esoterico. EsTETICA (crit.), arte critica del senso del bello, secondo alcuni.
Secondo altri, tra quali Kant, è l'arte di ricavare dalle sensazioni le
anticipate nozioni delle forme. L'uno e l'altro significato son contrari al
valor primitivo del vocaboli atoSmois e ato5mux, che significano senso, e sen
timento. Tal è il significato, nel quale adoperolli Aristotele nel trattato del
senso e delle cose sensibili. I Tedeschi, che sono gli autori di questa nuova
denominazione non ricavano l'idea, e le regole del bello dalla sperienza, o sia
- 202 - r dalla osservazione de'sensi (nel qual caso vi sarebbe una certa
analogia tra 'l nome e l'arte così denominata), ma da cono scenze a priori, che
presuppongono tro varsi nella ragione; nel che precisamente sta l'improprietà
del vocabolo. Del resto cotesto improprio significato potrà acquistare un valor
di convenzione, se l'uso così vorrà. EsTIMATIvA (spec.), la potenza o virtù,
per la quale l'anima conosce e valuta l'ob bietto della percezione. V.
Obbietto, Per cezione. - º. I nostri italiani, tra quali il Varchi, l'hanno
talvolta applicata a bruti, per di sfinguerla dalla cogitativa, ch'è propria
dell'uomo. Altre volte l'hanno scambiata coll'immaginativa, o sia ne han fatto
un sinonimo improprio di questa, il che dees sere evitato sopra tutto nel
linguaggio scien tifico. V. Cogitativa, Immaginativa. - Piace più la
distinzione del Varchi, come caratteristica della differenza, che passa tra la
ragione umana e quella dei bruti. V. Bruto. EsTIMAZIONE (spec. e prat.),
giudizio di cosa conosciuta e considerata. Cotesto vocabolo diviene equivoco
nella lingua italiana perchè confonde due signi ficati, che i Latini
distinguevano, delle voci existimatio, che voleva dire opinione o giudizio, e
aestimatio, che significava valutazione. EsTREMITA'eEsTREMo(spee. dise.
eprat.), ha avuto nelle scuole diversi significati, che sono ora di poco uso,
tranne che nella filosofia pratica. Estremi metafisici dicevansi i punti di
somiglianza, pe quali due cose diverse pa ragonavansi tra loro, come per
esempio la neve e la biacca. Gli estremi logici eran di due sorte: la prima era
quella degli opposti e dei contrari: la seconda, quella del membri
sillogistici. Il predicato e il subbietto chia mavansi estremi per rispetto al
termine medio, ch'era tra essi. E però il predicato messo nella prima
proposizione dicevasi estremo maggiore, e il subbietto posto nella seconda,
minore. Finalmente nella filosofia pratica, l'estre mo è un vocabolo relativo
alla estimazione che noi facciamo delle azioni viziose e an che virtuose, e
vuol dire un eccesso che trascende la comune misura. Così estremo chiamiamo
ogni sentimento esagerato, che toglie alla virtù il carattere della perfezio
ne; estremo, l'eccesso del vizio; estremo ancora, un vizio opposto all'altro,
come la prodigalità a rispetto dell'avarizia, o la temerità in confronto della
viltà. Nel senso di eccesso lo adoperiamo an che logicamente dicendo, che gli
assurdi sono gli estremi dell'errore. EsTRINsEco (ontol. spee. e disc.), quel
che non appartiene all'essenza o al costi tutivo delle cose. V. Essenza. E però
la causa efficiente d'una cosa, o il fine per cui è stata fatta, diconsi dai
metafisici estrinseci alla cosa stessa. Oltre questo significato principale ve
ne ha altri ad esso affini: estrinseco chia masi ancora tutto quel che entra
nella co sa, ma che non era nella sua naturale capacità, come il calore che il
fuoco fa entrare in un corpo: estrinseco dicesi an cora l'accidente
sopravvenuto alla cosa, o il diverso modo di essere ; il che en tra nel
significato della prima definizione. V. Accidente, – 205 - Estrinseci chiaman
pure i logici gli ar gomenti presi, non dalla natura del sug getto, ma da casi
diversi, come le auto rità, gli esempi, ed altri simili. Cotesti argomenti son
quelli che i Greci chiamavano arexya e i Latini assumta. V. Argomento. - EstRo
(dise. ), impeto della immagi nazione, che anima il dire de poeti. EsUBERANZA
(disc.), vizio del discorso che ridonda di pensieri non necessari al l'argomento.
EsULTAzioNE (prat.), il giubilo mani festato con tutti i segni esterni, cioè
colla voce, col gesto, e co moti del volto. Corrisponde alla letizia gestiente
dei latini. V. Giubilo, Letizia. - . . . ETA' (prat.), parte della durata della
vita umana, che si distingue pe graduali passaggi del corpo dalla infanzia alla
vec chiezza, ed ha per suo termine la morte. V. Durata. Aristotele (nel libro
de vita et morte) partì la vita in tre età; la prima, dell'in cremento delle
forze vitali: la seconda, della consistenza loro: la terza, del de crescimento
o sia della vecchiezza. Cice rone, pare che la dividesse in quattro, comparando
le età alle stagioni dell'anno: Ver enim, tanquam adolescentiam si gnificat,
ostenditaue fructus futuros: re liqua tempora detraendis fructibus, et
percipiendis accomodata sunt. (de Se nect. c. 19). Ma questa è una similitu
dine, più che una partizione; e d'altra parte arbitraria è ogni divisione di
tempo nelle cose continuamente mutabili, come la vita; d'onde nacque quel detto
di Era clito, cioè che un giorno è eguale a tutto il tempo. - Quale sia la più
grata, o la più utile delle diverse età della vita, vedi l'ultima. V.
Vecchiezza. ETERE (spec.), fluido aereo leggerissi mo, che per antica opinione
del filosofi, occupa tutto lo spazio celeste, dall'atmo sfera in sopra. V.
Atmosfera. Non potendo gli antichi fisici concepire, che vacui fossero tutti
gl'immensi spazi del cielo; immaginarono che la celeste volta fosse piena d'un
fluido aeriforme te. nuissimo, al quale sottostà l'atmosfera; e lo chiamarono
etere dal greco ai3sty, che vuol dire accendere o infiammare. In questo
concetto i moderni fisici segui rono l'opinione tramandata loro da Greci e da
Romani, se non se questi credeſ tero ancora essere l'etere l'elemento del
fuoco: aerem amplectitur immensus ae ther, dice Cicerone, qui constat ea al
tissimis ignibus. Mutuemur hoe quoque verbum, dicaturque tam aether latine,
quam dicitur aer. . . . omnia cingens et coèrcens caeli complexus, qui idem
aether vocatur; extrema ora et determi natio mundi, in quo cum admirabilitate
maxima igneae formae cursus ordina tos definiunt (de nat. Deor. l. 2. ). Circa
la natura e le qualità di cotesto fluido, varie sono state le opinioni demo
dermi fisici: taluni l'han creduto un fluido speciale, destinato ad empiere il
vacuo, che s'interpone tra corpi celesti: altri se lo immaginarono dotato di
tale tenuità, che penetrar potesse nell'aria, e persino ne pori degli altri
corpi: altri finalmente gli negarono ogni qualità propria, e sup posero che
fosse l'aria stessa, attenuata per effetto della virtù espansiva, di cui è
dotata. r I Cartesiani nol chiamarono etere, ma si servirono determini materia
sottile, la quale, secondo essi, empieva tutti i va cui decorpi per formare il
così detto pieno cartesiano. Newton chiamollo pure spi rito sottile, e talvolta
ancora mezzo sot dile ed etereo. - Per verità, diversi fatti sembrano indi care
l'esistenza d'un fluido più tenue del l'aria, compreso nell'aria stessa.
Imperoc chè, giusta l'osservazione dello stesso New ton il calore si comunica
per lo vacuo così prontamente, come per l'aria. Ora una tal comunicazione non
può avvenire senza un mezzo, il quale esser dee sottile al se gno da penetrare
i pori del vetro. Stabi lito un tal carattere, è facile il dedurne, che lo stesso
fluido può penetrare in tutti gli altri corpi, e diffondersi per ogni parte
dello spazio, il che appunto forma la qua lità costitutiva dell'etere.
Determinata così l'esistenza dell'etere, Newton passò ancora ad investigarne le
proprietà. E non solamente credette, es sere lo stesso men denso e più fluido
del l'aria, ma più elastico ancora e più at tivo. Dalle quali proprietà dedusse
molti fenomeni naturali: dalla pressione di que sto mezzo fece dipendere la
gravità decor. pi: dalla sua elasticità, la forza elastica dell'aria, delle
fibre nervose e del moto musculare; del pari che la diffusione, la refrazione e
la riflessione della luce. L'esi stenza dell'etere sembra alquanto meglio
provata dalle sue proprietà, dapoichè le deduzioni di Newton, per quanto sieno
verisimili ed autorevoli, non lasciano di essere congetturali. Intanto la
filosofia che de'essere modesta così nell'affermare come nel negare i fatti
probabili, attender dee dalla sperienza i lumi necessari per for marne un più
sicuro giudizio. L'esistenza dell'etere ha acquistato un maggior grado di
probabilità dopo la sco verta delle comete, dette di breve perio do, o sia di
quelle che compiono in po chi anni il giro loro intorno al sole. Il celebre
astronomo Enke, nel calcolare di ligentemente i ritorni successivi della co
meta che porta il suo nome, si accorse che la sua orbita andava divenendo insen
sibilmente più picciola. Per la spiegazione di tal fenomeno formò egli il
concetto di una resistenza, che si oppone alla cometa nel suo cammino, di un
mezzo etereo, tenuissimo, sparso uniformemente nelle re gioni dello spazio
percorse da quel corpo celeste. La sua ipotesi è stata generalmente ammessa,
non potendosi immaginare altra causa, cui possa essere attribuito il cen nato
effetto. L'etere filosofico, qualunque sia, non ha nulla di comune con quei
fluidi arti fiziali, che la chimica farmaceutica pre para, e che per la tenuità
loro sono stati assimilati a quel preteso elemento della natura. ETEREo
(erit.), nome dato alle supe riori regioni del cielo, che soprastanno
all'atmosfera. E però regno etereo è stato da alcuni denominata quella parte
della storia na turale, che abbraccia la descrizione dei corpi celesti, e i
fenomeni loro. (V. il disc. prelimin.). ETERNALE (teol.), vale lo stesso, che
eterno. V. Eterno. Tale scendeva l'eternale ardore, Onde la rena s'accendea
com'esca Sotto focile a doppiarlo dolore DANTE, – 205 - ErERNITA' (teol. spec.
e ontol.), esi stenza non limitata da tempo. V. Esisten za, Tempo. La ragione
umana non può concepire l'eternità per quello stesso difetto di ca pacità, che
le vieta di comprendere l'in finito. In altri termini, della eternità pos siam
dire quel che non è, ma non quel che è; dapoichè non altrimenti la concepiamo,
che come un contrapposto del temporale e del successivo. V. Infinito,
Successivo. Che se dalle diverse gradazioni del tem porale e del successivo
volessimo, come per una scala ascendere alla eternità, for meremmo un
indefinito nel tempo, simile all'infinito relativo nello spazio. Cotesto
concetto sarebbe difettuoso anche nel suo principio, dapoichè presupporrebbe un
co minciamento di durazione, il che implica contraddizione colla eternità. V.
Durata, Indefinito, Spazio. ETERNo (teol. spee. e ontol.), l'Essere, che ha per
sua condizione l'esistenza ne cessaria e non creata. V. Dio, Eternità. In un
senso più generico, vale tutto quel, che non è limitato da tempo. ETERocLITo
(disc.), voce la quale nella declinazione, nella coniugazione, nelle con
cordanze del generi o del numero, o nel reggimento, esce dalle regole comuni e
forma a queste eccezione. ETERoGENEo (disc.), quel che è com posto di parti, o
di spezie diverse da al tre, cui si compara. È contrapposto di omogeneo. V.
Gene re, Omogeneo. ETICA (prat.), la dottrina de'costumi, che fa parte della
filosofia morale. V. Morale. ETIMoLoGIA (crit. e disc.), la perfetta conoscenza
del significato del vocaboli, ri cavata dall'origine loro. Per origine
intendiamo i nomi radicali, la varia inflessione de quali esprime le
modificazioni dello stesso significato primi tivo, applicato all'azione, al
tempo, alle qualità del subbietti, e a tutte le altre com binazioni del
pensiere. Per bene intendere l'importanza dell'arte etimologica, giova formare
un giusto con cetto della struttura delle lingue, delle quali tutte, e di
ciascuna in particolare, le parole posson essere considerate come individui di
diverse famiglie, discendenti da un comune stipite. Stipiti chiamiamo i nomi
radicali, del quali il numero può dirsi breve e limitato di rincontro alla mol
titudine degli altri vocaboli, che compon gono il dizionario d'una lingua. La
ragione della brevità del numero loro è, che essi non possono esser più delle
possibili com binazioni de suoni della voce. La sezione o analisi del
linguaggio, fatta per mezzo dell'etimologia, riesce as sai più facile nelle
lingue antiche, che nelle moderne, perchè queste sono nate non solamente dalla
scomposizione delle antiche, ma ancora dalla mistura di altri idiomi, e parlari
secondari, il che rende più scabroso il cammino, che mena allo scoprimento
delle prime radici de voca boli. Ciò non ostante avviene ne composti delle
lingue quello stesso che osservarsi suole negli aggregati delle cose materia
li, ne quali è facile discernere l'omoge neo dall'elerogeneo, che a quello tro
vasi mischiato. Ora colla stessa facilità si può nelle viventi lingue europee
discer nere l'omogeneo delle lingue madri dal l'eterogeneo, che vi ha portato
la miscela degli altri parlari. Tal de essere l'ufizio d'ogni buon dizionario
di lingua. V. Di zionario. - L'arte etimologica è antica, ma la glo ria di
averne fatto una fiaccola della storia e dell'archeologia, è tutta de tempi mo
derni, e spezialmente del decimottavo se colo. Ella ha per secoli camminato per
una falsa strada , indicataci da Greci , de quali il linguaggio a confessione
di Platone e di Aristotele era pieno di bar barici vocaboli. Ciò non ostante,
gloriosi com'essi erano della loro sapienza, della civiltà cui erano pervenuti,
e della per fezione alla quale i propri scrittori ave vano portato la loro
lingua; sdegnarono di guardare intorno ad essi, o di pene trare nel tempo
anteriore, e spiegarono se stessi pe propri loro fatti, senza nulla riconoscere
dagli altri. Lo stesso cammino tennero i Romani, comechè fossero stati i primi
a coltivare di proposito l'arte eti mologica. Al pari de Greci, trascuraron
così le prossime e immediate origini del la lingua osca, della sannitica,
dell'etrusca, come le più rimote delle lingue celtiche, della egizia, della
siriaca, e della feni cia. In somma i Greci e i Latini insieme ignorarono
l'archeologia, e chiusero alle età seguenti la via allo studio delle prime
origini del linguaggio. - Nel rinascimento delle lettere, l'autorità dedue
nominati popoli, che furono gene ralmente risguardati come i soli depositari
dell'antico sapere, contribuì a perpetuare lo stesso errore. Le origini delle
lingue mo derne furono studiate nella greca e nella latina: i tesori letterari
e scientifici che tro varonsi negli autori di quelle due coltissime lingue
fecero sprezzare lo studio delle altre: ognuno nelle origini della parola, come
in quelle d'ogni altra parte del sapere, ambì l'onore della filiazione de'
Greci, o de Romani. l primi, che aperto aves sero la via allo studio delle più
antiche lingue del mondo, furon i libri della cri stiana religione. Lo studio
della lingua ebraica, e del dialetti dell'antica lingua siriaca, aperse una
nuova fonte di eti mologie, nella quale non pertanto gli eti mologisti eruditi
corsero a quelle stesse estremità, che son rimproverate a fautori delle greche
e delle latine origini. In fine i conquisti fatti dalle nazioni europee nel le
regioni dell'Asia inferiore e superiore, le colonie quivi dedotte e il
commercio con esse stabilito, avendo ampliato la co gnizione delle lingue ora
viventi, delle relazioni di somiglianza tra loro, e delle tracce delle lingue
madri, che ciascuna di esse conserva; hanno aperto all'arte eti mologica un
larghissimo campo di com parazione, dal che è nata quasi una nuo va arte, che
sdegnando il nome dell'an tica, ha assunto quello di Linguistica. Senza
usurpare i diritti dell'uso, non pare che il nuovo vocabolo debba soppiantar
l'antico, perchè si tratta, non di dare un nuovo nome ad una arte nuova, ma di
proscrivere il già ricevuto per puro genio di novità. L'altro che vorrebbesi a
quello sostituire, non solamente è meno espres sivo, ma è deforme, perchè non
ha fi gura nè viso italiano. La Linguistica è da nostri moderni definita per lo
studio comparativo e filosofico delle lingue, della origine, e della filiazione
loro. Vediamo che di nuovo, o di più del l'arte etimologica ella contenga!
Entrambe versano circa lo studio comparativo delle lingue, per conoscere
l'origine delle voci di ciascuna, insieme colle loro derivazioni. Non vale il
dire, che la Linguistica ab bracci le origini e la filiazione delle lin gue, e
non devocaboli; tra perchè non - 207 - si può andare al generale senza la co
noscenza del particolare, e perchè anche l'antica arte etimologica, per mezzo
della somiglianza del vocaboli e delle loro ra dici, cercava di scoprire le prime
fila del parentado delle lingue, e distingueva tra queste le primitive e
originali dalle secon darie. Adoperava ella, è vero, minori dati, perchè
aggiravasi tra il cerchio di poche lingue allora conosciute; ma qual ragione di
cambiare il nome di un'arte, sol perchè è cresciuto il numero de fatti, so pra
i quali son fondate le sue osservazioni? La sola cosa di nuovo che promette la
definizione della linguistica, è lo studio comparativo filosofico, e non
semplice mente erudito delle origini delle lingue. Noi conveniamo, che il
discredito, nel quale era caduta l'arte etimologica, è una colpa degli eruditi,
i quali trattato l'ave vano da puri grammatici. Ma domandia mo, se sia ancora
questa una ragione suf ficiente per privarla del suo antico nome? Lo scopo dell'arte
è rimaso lo stesso, ma si è meglio indirizzato il criterio dell'ar tista. Se
ciò bastasse a cambiare i nomi ricevuti delle scienze e delle arti, avreb besi
dovuto fare altrettanto della Fisica, della Chimica, e di tutte le altre, nelle
quali si è mutato il metodo dell'investi gazione, e dell'insegnamento. Conchiu
diamo, che all'arte etimologica sono egual mente necessarie le lingue, e la
filosofia: quelle somministrano i fatti, questa il cri terio per giudicarne.
Può l'erudito non es sere filosofo, ma l'arte etimologica sarà un instrumento
inutile nelle sue mani: non vedrà egli nelle parole le relazioni, che queste
hanno col pensiero; non saprà for marsi un giusto concetto del meccanismo di
ciascuna lingua; non discernerà le dif. ferenze che passano tra l'una e
l'altra; non potrà riportarle alle cause loro; non vedrà in somma nella
collezione delle voci d'una lingua, se non una massa di vocaboli, che
graveranno la sua memoria, senza verun profitto per le altre sue facoltà, anzi
con sicuro loro discapito. E quel che non potrà vedere in una o due lingue,
molto meno il vedrà nel paragone di tutte quante prese insieme e per
conseguente rimarrà straniero alla vera cognizione delle origini del
linguaggio. Per la qual cosa, senza punire l'arte etimologica della perdita del
suo nome, e senza introdurre nella no stra lingua un nuovo derivato, contrario
alle regole, e all'eufonia delle sue desi nenze; basta convenire, che ella
appar tiene non solamente alle arti gramatiche, ma anche alla filosofia della
storia ; e che per conservarla nel grado di digni tà, cui ora è salita, fa
d'uopo asso ciare la profonda conoscenza delle let tere ad un sopraffino
criterio filosofico. V. Filosofia. ETIOLOGIA (crit.), scienza delle cause. E
vocabolo adoperato unicamente dalla medicina per esprimere le cause de'morbi,
il che fa parte della patologia generale. (V. il disc. prelim.). EroLoGIA
(grec. sup.), scienza del co stumi. Il nuovo nome non dice più del l'antico
Etica. V. Etica. Superfluo ancora deesi riputare nell'al tro significato, di
descrizione delle passioni e delle maniere di alcuno, che i retori le han dato.
EroPEA (grec. sup.), dice lo stesso di etologia. Presso i retori dividevasi in
etopea pro priamente detta, e in prosopografia, quel la destinata alla
descrizione delle doti del l'animo, e questa del corpo. EUDEMoNoLoGIA (grec.
sup.), vocabolo per lo quale volevasi esprimere quella parte della filosofia
morale, la quale tratta della beatitudine, come premio dell'onesto e per fetto
vivere. V. Beatitudine. EvENIMENTo ed Evento (prat.), successo qualunque, che
non poteva essere antive duto, e di cui la cagione si cerca dopochè è avvenuto,
EvioENTE (spec. e dise. ), quel che è manifesto per intuizione o per dimostra
zione. V. Dimostrazione, Intuizione. EvIDENZA (spee. ), certezza manifesta
d'una proposizione, cui l'animo presta un immediato assentimento. Essendo
l'evidenza una qualità della cer tezza, o per meglio dire, essendo la chia
rezza della verità quella che costituisce l'evi denza; ne segue che l'epiteto
evidente può convenire a quei generi di certezza, i quali attiransi un
assentimento immediato e di rem necessario e universale. E però, se condo la
proprietà del vocabolo e la pre cisione del senso filosofico, l'evidenza tro
vasi nella sola certezza intuitiva, o che questa nasca dalle sensazioni, o
dalla luce de principi e delle prime verità della ra gione. La dimostrazione,
la quale conduce la mente alla cognizione di verità dedotte, che ella non può
ad un tratto concepire, produce certezza, e non evidenza. Egli è vero che le
verità dimostrate, allorchè divengono familiari alla mente, prendono il luogo
di assiomi, e ognuno ne conce pisce immediatamente la forza; ma l'atto
dell'immediato assentimento de essere rife rito alla prima concezione delle
cennate ve rità ; altrimenti l'evidenza diverrebbe un perfetto sinonimo della
certezza. V. Cer tezza. Gli scolastici distinsero l'evidenza in ob biettiva e
formale, e chiamarono obbiet tiva la certezza, che acquistiamo per mez zo della
percezione degli obbietti esterni, quali essi sono, o secondo le loro natu rali
qualità. Formale poi denominarono quella che accompagna l'atto dell'intellet
to, allorchè è chiaro e distinto. Suddivi sero poi l'evidenza formale in
immediata e mediata, attribuendo quella alle verità intuitive, e questa alle
dedotte. Altri par tirono l'evidenza in fisica, metafisica, e morale,
confondendola interamente colla certezza. In conclusione l'evidenza conviene
alle verità intuitive, e la eertezza alle de dotte. V. Intuitivo, Dedotto.
EUFoNIA (dise.), gradevole suono della parola. Ogni lingua ha la sua eufonia,
la quale nasce non solamente dall'acconcia pronun ciazione delle parole, ma
ancora dal rego lare accordo delle sue desinenze. EURISTICA (erit. e disc.),
arte che som ministra i metodi più facili per l'inven zione. V. Invenzione. È
stata da taluni così denominata quella parte della Logica che tratta de metodi
per trovare la verità; siccome logica inven trice è stata chiamata quella parte
della cennata scienza, che ci addita come si acquistino le idee o le conoscenze.
Lo stesso nome han dato taluni mate matici a metodi generali che facilitano la
via alla soluzione del problemi; essendo che l'invenzione, considerata come il
pro cedimento istituito dalla mente per giu – 209 – gnere allo scoprimento del
vero, non può essere soggetta a regole costanti ed im mutabili. Il nostro
Fergola annunziò sin dall'anno 1791 la publicazione della sua arte euristica,
la quale contener doveva la sposizione e l'uso del cennati metodi. Di
quest'opera fu anche publicato un pro spetto nel 1809, ma essa rimase inedita,
e sarà postuma, se uno de più chiari al lievi di quell'illustre matematico
manterrà la promessa di farle vedere la luce. Una simile denominazione potrebbe
da re la filosofia speculativa ad ogni metodo, che conducesse allo scoprimento
della ve rità. I quali significati tutti, essendo per fettamente equivalenti
dell'arte d'inven tare o d'invenzione, dimostrano essere l'euristica un pretto
sinonimo del voca bolo proprio della lingua, e come tale an drebbe riposto tra
grecismi superflui, se non fosse raccomandato dall'autorità di molti gravi
scrittori che l'hanno adoperato. EUTIMIA (grec. sup.), che vuol dire si curezza
e alacrità d'animo. EUTRAPELLA, o EUTRoPELIA (prat.), an tico grecismo,
adottato dagli scrittori ita liani, per esprimere una certa virtù mo deratrice
della gioia e del sollazzi, la quale li contiene tra giusti limiti. ExoTERIco
(spee. ), nome dato allo in segnamento volgare ed esteriore per con trapposto
dell'esoterico, o acroatico. V. que ste voci. 27 - 211 - CLASSI DE' VOCABOLI
COMPRESI SOTTO LA LETTERA E. FILOSOFIA CRITICA. FILosoFIA spECULATIvA. -
Eclettico Erudizione Effetto Esercizio Economia Esperimentale Egoismo
Esitazione Elementare Estetica Egoista Esoterico Empirico Etereo Eguale
Espansione Empirismo Etimologia Elasticità Esperienza Enciclopedia Etiologia
Elementare Esperimento Entomologia Euristica Elemento Estensione Ermetica
Elettricismo o Esteriore e Elettricità Esterno VOCI ONTOLOGICHE. Emanazione
Estimativa Emenda Estimazione Ecceità Esistere Empietà Estremità e Effetto
Essenza Equabile Estremo Eguale Essenziale Equilibrio Estrinseco Elemento
Essere Errore Etere l'manazione Estensione Esaltamento Eternità Ente Estrinseco
Esaminare Eterno Entelechia Eternità Esatto Evidente Entità Eterno Escogitare
Evidenza Esistenza Esempio Evoterico –a12 – , a rosora pisconsiva a 1 , i
Eccezione Equivoco Empietà Eguale Eleganza , Elenco Eloquenza , Emenda , i
Entimema Entimematico i Enunciazione , Epiceno, Epichirema , Epiteto Equilibrio
. . . Equipollente e , Equipollenza , i Equivalente e . Equivalenza, e
Esagerare Esatto 1 Esempio Esortazione - Espressione, i Estremità e , Estremo
Estrinseco Estro Esuberanza Eteroclito Eerogeneo Etimologia Evidente Eufonia
Euristica º i 4 º i ai -. Esaudire Estasi Estatico TEoLoGIA NATURALE. , --
Eternale Eternità Eterno - 215 – FILOSOFIA PRATICA» Eccellente Eccesso
Eccezione Efferatezza Effervescenza Egoismo Egoista Eguale Elevatezza Emenda
Emozione Empietà Emulazione Enormità Entusiasmo Equabilità Equanimità
Equilibrio Equità Equivalente e Equivalenza Eroe Eroico Esacerbare Esagerare
Esaltamento - Eutropelia - Esaltazione Esaminare Esanime Esasperare Esatto
Esaudire Escandescenza Escusare Esecrare Esempio Esercitazione Esercizio
Esitazione Esorbitanza Esperimentale Esquisitezza Estimazione Estremità e
Estremo Esultazione Età Etica Evenimento ed Evento Eutrapelia o Etologia Etopea
- GRECISMI SUPERFLU1. Eudemonologia Eutimia → • *- ---- ****• • •|- ------ , -
- ----!**** |-· • . |-• • • · - 215 - I F FAcciA
(prat.), la parte anteriore del capo degli animali, dalla fronte in sino al
mento. Gli antichi diedero due diversi nomi alla faccia dell'uomo, e a quella
degli altri animali; siccome pure nell'uomo so lamente chiamarono mento la
parte estre ma del viso sotto la bocca : facies ho mini tantum , caeteris os ,
aut rostra. (Plin. hist. mat. lib. XI, cap. 51, e 6o). Gl'Italiani han confuso
in una queste due denominazioni, comechè convenisse di stinguere con un nome
speciale la parte, che è non solamente la più leggiadra del l'umana figura, ma
la più caratteristica della sua spezie. In essa la natura ha collocato, insieme
cogli aditi ai sensi, gli organi della voce, del canto, e del la parola; in
essa, il colorito, il riso, l'espressione del sentimenti e degli affetti; e ha
nella simmetrica disposizione delle sue parti, e nelle proporzioni loro riposto
i tipi del bello sensibile. E per una pre rogativa, ad altra spezie non comune,
ha in alto levato la faccia dell'uomo, e l'ha rivolta al cielo, sua patria.
Laonde, non è altra parte del corpo umano, che più della faccia dimostri le
attitudini dategli dalla natura per contenere e in se ospitare una sostanza
intelligente. Sublimi sono le due descrizioni che Cicerone e Ovidio fe cero
della umana figura: Figuram eor porie, dice Cicerone, habilem et aptam ingenio
humano dedit: nam cum cae teras animantes abiecieset ad pastum, solum hominem
erexit, ad coelique , quasi cognationis domieiligue pristini, conspectum
excitavit. Tum speciem ita formavit orie, ut in ea penitus recon ditos mores
effingeret; nam et oculi ni mis arguti, quemadmodum animo affe eti simus,
loguuntur: et is qui appella tur vultus, qui nullo in animante esse, praeter
hominem potest, indicat mores: cuius vim Graeci norunt, nomen omni no non
habent (de leg. lib. 1 cap. 9). E Ovidio: Pronaque cum spectent animalia
caetera terram, Os homini sublime dedit, coelumque tueri Jussit, et erectos ad
sidera tollere vultus (Metamorph. lib. 1. fab. 2. ). Il significato di questo
vocabolo quan tunque nel comune uso di parlare si con fonda spesso con quello
di aspetto, di viso, di volto e di fisonomia; pure differisce da ciascun di
essi per diverse gradazioni, che giova distinguere. V. Fisonomia, Viso, Volto.
FacezIA (disc.), detto arguto e piacevole. È diversa dalla celia, che è più
volgare e meno dilicata. Cicerone chiama la facezia il condimento così
dell'oratorio discorso, come del pri vato conversare; ma nota che il dono della
facezia vien dalla natura, e non dall'arte: natura fingit homines et creat
imitatores et narratores facetos, et vultu adiuvan te, et voce, et ipso genere
sermonie (de Orat. lib. lI c. 54). FAcIEE e FACILITA' (spec. disc. e prat.),
quel che si può eseguire con nessuna, o con poca fatica. Gli scolastici
dell'ovvia idea del facile formarono un concetto ontologico e astru so, sì che
può dirsi aver essi cangiato il facile in difficile. La definizione loro era,
modo di dipendenza, per lo quale un ente è prodotto speditamente dalla po tenza
d'un altro. Da tal definizione face van essi nascere la dipendenza degli
effetti dalle cause. Il difetto di questo, e di al tri simili concetti, era una
conseguenza di quel categorico loro sistema, per lo quale volevano ridurre
tutte le più ovvie idee di fatto e di esperienza ad altrettante nozioni a
priori, come se ne pratici portamenti della vita le verità di ragionamento
venis sero prima, e non dopo delle verità di fatto. L'idea dunque del facile e
del dif. ficile è comune o sperimentale e non già scientifica, tranne la
distinzione tra 'l fa eife naturale, e il facile acquistato. Il ma turale risulta
dalla connessione stessa delle cose; nel quale senso facile dicesi ogni fatto,
che sia la conseguenza dell'ordina rio corso degli avvenimenti, o delle re
gole, che non soffrono eccezione; facile, ogni pensiero, che nasce dalle
semplici e comuni relazioni delle idee; facile, ogni discorso, il quale segue
il naturale ordine del pensieri. V. Difficile, In questo senso ancora il facile
si scam bia molte volte col verisimile e col proba bile, allorchè vuolsi
antivedere la possibi lità d'un fatto, d'una dimostrazione, o d'una pruova
qualunque; e però dicesi, è facile, ehe un tal fatto avvenga, o che tale opera
d'ingegno riesca qual si attende. - e Il facile poi, o la faeilità aequistata
si confonde coll'abito, perchè presuppone tanto la conoscenza degli ostacoli
che si frappongono tra la causa e l'effetto, quanto la reiterazione delle
azioni, per le quali siamo stati soliti di scoprire le relazioni, che
nascondevano la connessione de fatti o delle idee tra loro. Per mezzo di questa
facilità ci rendiam familiari i principi ei teoremi d'una scienza, e ci apriamo
la strada alla invenzione, o allo scoprimento di altre verità ignote, che dagli
stessi prin cipi dipendono. Ella è in somma il fon damento dell'abito
scientifico; e per l'at titudine che comunica allo intelletto, ha servito di
origine al nome di facoltà, dato alle sue potenze. . . . - , - FACOLTA' (spec.
e crit.), virtù del pen sare e dell'operare. . . . . , Nelle scuole fu per
lungo tempo con fusa la facoltà colla potenza, e la potenza colla possibilità,
tanto dell'azione quanto della passione; ma giova alla chiarezza del linguaggio
filosofico il dare a due vo caboli facoltà e potenza diversi e distinti
significati. V. Potenza. . . . I filosofi chiamarono facoltà e potenze
dell'anima le proprietà o attributi, pe quali distinguiamo i diversi atti
dell'intelletto e della volontà. Ma per la ragione testè def ta, conviene
ritenere il solo vocabolo fa coltà, riservando all'altro quel senso che gli è
più proprio, cioè di causa dell'azione. Cotesta precisione di linguaggio non
vieta, anzi esige che ritengasi la distinzione del le facoltà in due spezie,
cioè le cognosei tive o intellettive, e le atlive. Vuolsi inoltre distinguere
le facoltà dalle operazioni, perchè queste esprimono pro priamente gli atti
singolari dell'intelletto o della volontà, mentrechè quelle riferi sconsi
sempre, alla capacità di produrgli. V. Operazione. . . . . » La nozione della
facoltà, prendendo ori gine dalla capacità, che in noi sentiamo, di pensare e
di agire; è manifesto, non - - - - - – 217 – essere altro che una pura
astrazione da noi formata per comodo del ragionamento e dell'analisi, cui giova
soggettare tutti gl'interni fenomeni dell'anima per poter gli meglio esaminare.
Laonde potrebbe la partizione delle facoltà essere in certo modo considerata
come arbitraria, e relativa al metodo che ciascuno si prefigge; o sia po trebbe
essere risguardata come una sorta di categorie, delle quali il più o il meno
risguardi l'ordine, e non il fondo della dottrina. Ma pure, prescindendo dalla conside
razione, che ogni partizione debb esatta mente corrispondere alle spezie in
essa con tenute; è sì stretta la connessione tra l'or dine e i principi d'una
scienza, che da gli errori di metodo si passa facilmente a falsi concetti;
imperciocchè i difetti del l'ordine e del metodo sogliono nascere da confuse
nozioni, che prendiamo come chiare. Oltre a ciò non è cautela che basti per
preservarci da un trascorso, a cui l'umana mente è pur troppo inchi nevole,
cioè che a forza di risguardare le nozioni astratte, come fondamenta dei suoi
ragionamenti, suole di poi passare a considerarle come realità ; e scambian
done la natura, le converte in altrettanti enti immaginari, di che le scuole
filoso fiche offrono innumerevoli esempi. Ora la partizione delle facoltà, ch'è
stata sinora in uso, non solamente partecipa de'cen nati difetti, ma sembra
essere troppo an gusta, perchè lascia fuori di se le più im portanti operazioni
dell'animo, delle quali l'analisi forma lo scopo principale della psicologia.
Platone fu il primo a proporre una par tizione delle diverse operazioni della
mente in tre facoltà, la percezione, l'intelletto e la ragione; ma cotesta
partizione è re lativa a principi e alle sorgenti dell'umana cognizione, più
che alle diverse operazioni dell'intelletto. V. Intelletto, Percezione,
Ragione. Aristotele e la sua scuola radicarono nella filosofia le denominazioni
di potenze at tive e passive, d'onde nacque una simile distinzione tra le
facoltà. Locke non sola mente ritenne il concetto aristotelico, ma per una
sistematica conseguenza del prin cipi suoi, derivò la nozione delle facoltà
dell'anima dalla sensazione e dalla rifles sione, e non dall'esercizio della
volontà. Il cangiamento, che interviene in noi per l'impressione degli obbietti
esterni, ci fa concepire, a suo modo di vedere, la pos sibilità, che le nostre
idee semplici rice vano un cangiamento per la forza d'un agente; dal che,
dicegli, ricaviamo l'idea d'una doppia potenza, dell'attiva che lo produce, e
della passiva che lo riceve. Ma come potrebbesi assentire alla mani festa
contraddizione che implica il concetto della passività con quello della causa
che la produce. La denominazione di attivo nelle facoltà, come osserva Reid, ha
un significato di relazione alle cognoscitive o intellettive, e non già al
contrapposto dell'azione, che è il passivo. Una potenza passiva equivale ad una
potenza impoten te, espressione contraddittoria, e per con seguente capace di
generare altre nczioni false o confuse. - Wolfio riconobbe una tale
contraddizio ne, ma volle giustificarla per una ragione che non può essere
accolta, se pur non si voglia far del linguaggio filosofico un ger go proprio
di coloro che coltivano la scien za, o sia una lingua artifiziale la quale con
fonda in vece di dichiarire le nozioni sem plici. Le definizioni nominali,
secondo lui, essendo arbitrarie, si può dare loro un si. 28 – 218 – gnificato
convenuto, senza mancare alle regole logiche; in conferma di che intro dusse
nella sua psicologia empirica anche il trattato delle passioni. In somma seguì
egli interamente i principi di Locke, e ri ferì tutte le facoltà o a sensi o
alla rifles sione, formandone due classi, cioè delle facoltà cognoscitive
inferiori e superiori. Nella prima classe comprese la percezio ne,
l'immaginazione, la memoria: nella seconda l'attenzione, la riflessione, l'in
telletto e le disposizioni naturali. Colesta partizione insieme con tutte le
sue deriva zioni cade, tosto che si muti il principio, da cui derivar debbesi
la nozione della facoltà. La partizione proposta da Bacone è stata più
lungamente ritenuta, ed ha servito di fondamento a quadri genealogici dell'uma
na cognizione, dal tempo di lui in sino a quelli di Alambert. I tre tronchi da
cui sono stati derivati tutti i rami delle scienze ed arti sono le tre facoltà
dell'anima, la ra. gione, la memoria, e l'immaginazione. Ma la ragione stessa è
stata dagli antichi distinta in tre diverse facoltà, dalle quali procedono le
sue essenziali operazioni, cioè l'apprensione, il giudizio e il ragiona. mento.
V. queste voci. Del resto diverso è lo scopo d'una par lizione atta a stabilire
la connessione trai diversi rami delle scienze, e il comune loro tronco, da
quella che può servire al l'analisi de fatti dello spirito. La moderna
filosofia ha stabilito l'osservazione, come lo strumento naturale dell'analisi,
e ha ampliato la partizione delle facoltà. Kant ridusse a tre le facoltà
dell'anima, cioè la sensibilità, la ragione, e l'intel letto, ma la semplicità
di cotesta partizio ne ebbe un compensamento nella molti Plicità delle sue
forme. V. Forma. Reid e Stewart hanno considerato come facoltà le più
importanti operazioni dello spirito, comechè molte di esse si riferissero ad un
principio comune. Stewart sopratutto ha ampliato il catalogo delle facoltà, e
dopo averle partite in due classi, consi dera come facoltà cognoscitive o intel
lettive - 1.º la coscienza. 2.° la percezione degli obbietti esterni. 3.°
l'attenzione. 4.º la concezione. 5.º l'astrazione. 6.º l'associazione delle
idee. 7.° la memoria. 8.º l'immaginazione. 9.” il giudizio e il ragionamento; E
come facoltà attive, 1.º gli appetiti. 2.º i desideri. 3.º gli affetti. 4.°
l'amor di se medesimo. 5.º la cosiddetta facoltà morale, o sia il senso
dell'obligazione e del dovere. Quanto alla prima parte di tal partizio ne, noi crediamo,
che l'attenzione, l'ap prensione o concezione, l'associazione delle idee, e
l'astrazione non possano essere con siderate, se non come altrettante opera
zioni della mente, delle quali ciascuna può essere riferita alla volontà,
all'immagina zione, e alla riflessione. V. Associazione, Astrazione,
Attenzione, Riflessione. Per quel che concerne poi le facoltà at tive, la
cennata partizione confonde i prin cipi d'azione colle facoltà, sì che queste
diverrebbero tante, quanti sono i motivi che possono determinare o spignere la
volontà all'operare. Il moltiplicare le facoltà ha i suoi inconvenienti, de
quali non è il mi nore quello di scindere l'unità delle ope razioni dell'anima,
che sono per natura - 219 - loro complesse. La stessa partizione con fonde pure
le facoltà razionali colle ani mali; dapoichè si tratta di ordinare in classi
non già le facoltà corporee o sen sitive, ma solamente quelle che possiamo
risguardare come principi delle varie ope razioni dell'anima. Laonde pare a noi
più conveniente il separare dalle facoltà i principi d'azione, i quali van
meglio considerati come altrettante spinte della ma tura, per determinare la
volontà ad es sere operativa. Altrimenti facendo, noi saremmo dall'ordine
stesso del discorso obligati di confondere coll'azione gli affetti e le
passioni, o sia di ammettere la di stinzione delle potenze attive e passive. Il
che se ben si considera, vedrassi essere stato questo l'addentellato o il
pretesto, cui i frenologisti si sono attaccati per prendere la divisa di seguaci
della scuola scozzese, e per associare Gall e Spurzheim a Reid e Stewart.
Infatti i frenologisti, confondendo le facoltà sensitive colle at tive ed
intellettive, e subordinando queste a quelle, han ridotto lo spirito a senso, e
a puro organismo. E però preferiamo di considerare la volontà, come la sola
facoltà che presiede all'azione, e dà all'amima umana il doppio carattere d'una
so stanza intelligente e attiva. V. Azione , Principio. Prima di proporre una
partizione delle facoltà, la quale servir possa di fonda mento alla psicologia,
giova anteporre ta lune considerazioni, utili a contener la mente ne limiti che
aver dee l'astrazione, e a non farci oltrepassare lo scopo, che prefiggesi la
partizione delle facoltà. 1.° Le operazioni dell'anima son com plesse, e non
semplici. L'intelligenza e l'attività non trovansi mai disgiunte, da poichè
niuno può volere senza concepire quel che vuole, o può concepire, acqui stare
idee, formare nozioni, ricordarsi, o immaginare senza attenzione; nè può far
uso della volontà senza la cooperazione della deliberazione, e del giudizio. La
co scienza, che è lo specchio dell'anima altro non ci rivela, se non che questa
ha una virtù propria, per la quale percepisce, ri flette, giudica, vuole e si
ricorda delle conoscenze acquistate. ll voler conoscere le nozioni semplici,
delle quali questa virtù è il complesso, è lo stesso che voler cono scere a
priori l'essenza dell'anima, o sia il penetrare nel mistero della natura. 2.º
La nozione delle facoltà essendo una deduzione della nostra capacità, e questo
non essendo altro che la possibilità di agi re, ne segue che le facoltà sono
mere pos sibilità dell'azione. E poichè coteste pos sibilità son tante, quante
sono le diverse operazioni dell'anima, è manifesto che non possano essere da noi
altrimenti con cepute, che come altrettanti modi, o mo dificazioni della virtù
intellettiva o attiva dell'anima. 3.° Il concepire diversamente le facol tà, ed
il crederle altrettanti parti distinte, dalla combinazione delle quali risulti
la virtù intellettiva ed attiva dell'anima, sa rebbe lo stesso che concepirla
come un aggregato di diverse sostanze, e per con seguente una sostanza
composta, il che ripugna al senso della propria coscienza, la quale la rivela a
noi, come semplice, una, e identica. Verissima è la osserva zione di Locke, che
il discorrere a questo modo delle facoltà dell'anima, ha fatto in molti nascere
la confusa nozione di altret tanti agenti, dotati delle diverse funzioni del
comandare, dell'obbedire, dell'ese guire cose diverse; la qual cosa ha pro
dotto vane disputazioni, o perniciosi errori. t - 220 – 4.º Gli autori di
simili partizioni ne hanno ampliato o ristretto il numero in proporzione de
principi di cognizione, che le dottrine loro hanno riconosciuto. Da ciò segue,
che molte ne ammettono gli spiritualisti; che un minor numero ne conta la
filosofia desensisti, e che a nulla le riducono i materialisti. Così Hobbes le
ridusse al solo percepire ed all'immagi mare; ed Elvezio alla sola sensibilità
fisica e alla memoria. In mano di costoro scom pariscono le facoltà
intellettive e attive, e tutto in noi divien passivo. 5.º Una sana filosofia
non può dare alla partizione delle facoltà altro valore, che il considerarla
come un instrumento dell'analisi del pensiero. Laonde il voca bolo facoltà non
dice altro per noi, se non la sorgente comune delle operazioni dello stesso
genere; il perchè il numero loro non de'essere esteso al di là del fine che la
scienza si propone, e che la necessità e l'ordine dell'analisi esigono. 6.°
Nulla dicesi ora nella filosofia, che non sia stato già detto, comunque dagli
stessi principi non si sieno sempre rica vate le medesime conseguenze; nè siesi
sempre allo stesso modo veduta la con messione tra fatti della natura e i prin
cipi, da quali quelli dipendono. La mo derna filosofia ha cangiato d'ordine e
di metodo d'investigazione, ma non di prin cipi; si è spogliata del prestigi
delle ipo tesi, ha rifiutato tutte le false o le confuse mozioni, ch'erano nate
dalle definizioni no minali delle scuole, ha in somma più ri secato dalla
vecchia scienza, che non le ha aggiunto. Il merito, di eui può van tarsi, è
l'averla ricondotta sul cammino del vero, seguendo le tracce della ra gione e
del comun senso naturale. Non ha dunque il diritto d'innovare, se non per
quanto il comportano le nuove retti ficazioni ch'ella propone; che anzi sepa
rati gli errori dalle verità, non può rinun ziare nè a lumi del primi
pensatori, nè alle osservazioni fondate sulla sperienza della ragione. a 7.°
Adattando allo stato attuale della scienza la partizione delle facoltà; siccome
noi riconosciamo come elementi dell'umana cognizione, le sensazioni, il senso
intimo, e la coscienza, così ne segue che la par tizione delle facoltà
dell'anima debba es sere modificata e temperata alla forma dei cennati principi.
Crediamo dunque, che la seguente possa soddisfare tutti gli ob bietti delle
investigazioni e dell'analisi dello spirito umano. Facoltà intellettive.
Percezione. Senso intimo. Coscienza. Riflessione. Giudizio. - Ragionamento. e
Memoria. Immaginazione. , Facoltà attive. Volontà. - Senso interno, o facoltà
morale. V. queste voci. La cennata partizione non esclude l'ana lisi di tutte
le operazioni della mente, che sono da altri considerate come facoltà, ma le
comprende come atti semplici, o com plessi, i quali dipendono dall'esercizio di
quelle. Facoltà morale è stato detto l'interno senso del vero e del giusto, il
quale pre siede alle nostre azioni, e le indirizza al – 221 – fine della
natura, e all'ordine morale sta bilito dal suo Autore. Quantunque cotesta
facoltà sia varia nel fatto, perchè varie sono le opinioni, le quali
determinano le azioni degli uomini, purtuttavolta dobbiamo noi considerarla nei
suoi tipi naturali, e quale dovrebbe essere, esclusa l'influenza delle passioni
ed ogni causa di errore. La varietà delle opinioni appunto ha fatto credere a
molti, che le regole morali non fossero altro che pure verità speculative e
razionali, figlie del l'abito e dell'educazione. Ma costoro han no ragionato
nella filosofia morale, come nella intellettuale, ammettendo l'esperienza per
l'unica sorgente di tutte le umane cono scenze. Se così fosse, noi non
sentiremmo alcuna differenza tra l vizio e la virtù, tra l'avarizia e la
beneficenza, tra la ferocia e l'umanità, tra la vendetta e la genero sità, tra l'egoismo
e la carità, tra la lus suria e il pudore, tra la vanità e la mo destia. Per
quanto gli uomini sieno disposti alla indulgenza nel giudicare di se mede simi,
non è uomo che non distingua negli altri la virtù dal vizio, che non ami e non
ammiri le azioni generose e mobili, e non desideri di sperimentarne per se
stesso gli effetti. E per l'opposito non è uomo, che non abborrisca le azioni
atroci, e che non arrossisca di avere i mostri di crudeltà a compagni della
propria spezie. Tutto ciò dimostra chiaramente, che v'ha de prin cipi nella
natura, che l'abito delle prave consuetudini non può distruggere; e che noi,
ancor quando erriamo nell'applica zione di essi, non sappiamo e non pos siamo
rinegare l'evidenza loro. Nè l'edu cazione, di cui la forza è sì grande, può
oltrepassare taluni limiti, che la ma tura stessa ha stabilito come ripari, con
tra il poter fattizio degli uomini ; che anzi la pieghevolezza loro
all'educazione, considerata come un carattere della natu ra, dimostra
l'uniformità di taluni prin cipi primitivi e comuni a tutta la spezie umana. In
somma l'immutabilità di tali principi, che furono nelle scuole denomi nati
distinzioni morali è fondata nel senso stesso della natura e nella luce della
ra gione, dalla quale dirittamente ed imme diatamente riconosciamo la nozione
dell'ob bligazion morale e del dovere. V. Di stinzione, Dovere, Obbligazione,
Senso. Tal essendo il giusto concetto della fa coltà morale, ne segue che alla
stessa deb bansi riferire non solamente le azioni mo rali, ma i principi di
quelle, cioè gli af fetti, le affezioni, e tutti gl'istinti razionali, ne quali
la natura ci ha dato altrettanti vei coli alle azioni utili per la
conservazione del proprio essere, e per lo conseguimento del sommo bene. V.
Affetto, Affezione. FAcoNDIA (disc.), spontanea abbondanza di dire. - - È
diversa dalla eloquenza, ma n è il fondamento, dacchè senza una naturale
facilità, chiarezza, e proprietà di dire non si può divenire eloquente. La
facondia in somma viene dalla natura, e l'eloquenza dallo studio. Tral
significato di questi due vocaboli passa quella stessa differenza, che i Latini
mettevano tra disertus, e eloquens. Cicerone fa dire a M. Antonio, il retore:
eum statuebam disertum, qui posset sa tis aeute atque dilucide apud mediocres
homines ea communi quadam opinione dieere: eloquentem vero, qui mirabilius et
magnificentius augere posset, atque ornare quae vellet, omnesque omnium rerum,
quae ad dicendum pertinerent, fontes animo ae memoria contineret (de orat. lib.
1 cap. 2). V. Eloquenza. FALLACIA (prat. spee. e disc.), appa renza di verità,
artifiziosamente adoperata, per nascondere il mendacio, o l'inganno.
L'artifizio consiste nell'abuso della ve rità, e della buona fede; il perchè la
fal lacia, considerata come un mezzo per se stesso vizioso, supera in
turpitudine il men dacio e l'inganno. V. Inganno, Mendacio. Cotesto vocabolo è
stato ancora adope rato nella filosofia speculativa, per espri mere l'opinion
di quelli, i quali osarono rivocare in dubbio la realità di tutti gli obbietti
sensibili; e però si è discettato della veraeità o fallacia de'sensi, o sia
della stessa natura. I puri sensisti credet tero fedeli i sensi e
considerarongli come l'unica sorgente dell'umana cognizione e della verità di
tutte le cose. I puri idea listi per contrario risguardarono i sensi, come
deboli, infermi, e ingannevoli; e riposero la fonte della verità nelle idee, o
sia nel concetti della mente. La sana filosofia non solamente ha fatto scompa
rire queste estreme opinioni, ponendosi in mezzo ad entrambe, ma ha stabilito
con uno invincibile argomento la realità del criterio della ragione. Fedele e
vero è il ministero del sensi esterni, ma ne li miti della loro naturale
condizione: vero e infallibile è l'interno senso dell'anima, o sia della
coscienza: a questo interno senso è dato il contenere i sensi esterni ne limiti
della capacità loro, il giudicare della rettitudine delle sensazioni, il co
noscerne gli errori, e il distinguere l'ap parente dal vero. Se la natura ha im
presso nella umana intelligenza il mezzo da distinguere l'apparente dal vero,
non è assurdo e contraddittorio l'accusarla di fallacia, supponendo che siesi
ella servita delle apparenze per nascondere il vero ? V. Apparente. In logica
fallacia sillogistica chiamasi quell'argomento capzioso, che con proprio nome
dicesi sofismo. V. Sofismo. Le fallacie nel discorso posson provenire o da
vocaboli, o dalle idee: quelle dei vocaboli nascono dall'ambiguità denomi, la
quale può essere prodotta, o dalla omo nimia, o dall'amfibologia. V. queste
voci. Della fallacia poi delle idee è difficile po. ter determinare il numero.
Ciò non ostante gli scolastici per amor delle categorie, ri dussero a sette le
cause del sofismi, e le de nominarono interrogatio multiplex, elen chi
ignoratio, limitatio vitiosa, principi petitio, falea causa, accidens, conse
quens. Nel primo vizio cadevasi, quando una quistione unica, che formar doveva
il tema della dimostrazione, suddividevasi in più; nel secondo, quando in luogo
della pro posizione media, che è il mezzo da giu gnere alla conseguenza, se ne
proponeva un'altra affine, nella quale è nascoso l'er rore; nel terzo, se la
conseguenza si de rivi dalla proposizione media, ma colla giunta o colla
detrazione di qualche pa rola, per modo che la conclusione devii dalla
proposizione che formava il tema dell'argomento. Delle altre quattro cause de
sofismi, è superflua la spiegazione, perchè note per la sola loro enunciazione.
Noi diremo che le cause del sofismi son tante, quante posson essere le
ambiguità, per le quali da una proposizione vera si passa ad una falsa
conseguenza. FALLo (prat. e spee. ), mancamento commesso contra il giusto, o il
vero. Nella scala delle azioni riprensibili espri me il minor grado
d'imputabilità, il per chè è meno del peccato, e del delitto. V. queste voci. –
225 – Usato in un senso più generico, espri me ancora l'errore dell'intelletto,
avvenuto per difetto di attenzione. V. Attenzione. FALSITA' (prat.), fatto
commesso col proposito di mutare la verità. Per non confondere l'effetto
dell'azione col concetto dell'animo, o col proposito della volontà, di cui
quella è il prodotto; giova riferire la falsità a fatti, e riservare il nome di
falso alla causa che li pro duce, comechè nell'uso comune di par lare, il
falso, sostantivamente preso, si scambia con falsità. Nella categoria de fatti
contrari alla ve rità, conviene distinguere la falsità dal mendacio, che si
riferisce soltanto alla pa rola, e può non contenere il proposito di mutare la
verità. V. Mendacio. FALso (spee. e disc.), sostantivamente preso, è l'atto
dell'intelletto, o sia giudi zio, il quale rappresenta una cosa, nelle sue
qualità, diversa da quel che è. Gli scolastici definivano il falso, atto
dell'intelletto, che rappresenta una cosa altrimenti di quel che è, per
rispetto agli accidenti suoi, e adducevano per ra: gione della limitazione, che
se l'errore fosse caduto sopra le qualità essenziali, la cosa sarebbe stata
diversa. La restri zione è vera, ma è impropriamente spie gata, perchè l'errore
cader potrebbe an che sopra talune qualità essenziali, se non sopra tutte,
nella quale ipotesi la cosa ri marrebbe apparentemente la stessa, quan tunque
ad essa si attribuissero proprietà ripugnanti alla natura sua. E però va me
glio sostituito al vocabolo accidente, l'al tro qualità. V. Accidente, Qualità.
Dalla definizione risulta, che il falso, speculativamente considerato è un
errore nel giudizio; laddove nelle azioni è un proposito volontario d'indurre
altri nell'er rore. Risulta altresì, che cotesto errore è figlio d'un giudizio;
d'onde segue, che non può darsi falso nella semplice appren sione, nella quale
la mente concepisce, o avverte, ma non giudica. E però le idee, considerate
come un fatto semplice dell'animo non possono mai riputarsi false. Le idee son
sempre vere, quando il concetto dell'animo abbraccia l'obbietto, qual è.
Possono sì bene essere chiare, di stinte o confuse secondo i diversi gradi
della nostra comprensione, o dell'atten zione che abbiamo prestato all'obbietto
me desimo. Che se il concetto dell'animo fosse erroneo per vizio del sensi;
siccome i sensi non sono per natura loro fallaci, così que sta spezie d'errore,
che interviene senza cooperazione dell'intelletto o della volontà, non potrebbe
chiamarsi falso. V. Giudi zio, Idea. - Logicamente definito, il falso è la di
scordanza del nostro giudizio dalle qualità proprie dell'obbietto; siccome per
contra rio il vero logico è il giudizio conforme alle qualità dell'obbietto. In
altri termini, se il predicato, affermativo o negativo che sia, convenga al
subbietto, o assolutamente o sotto una data condizione, il giudizio, e per esso
la proposizione che la enuncia, sarà vera; e per l'opposito sarà falsa, se vi
sia disconvenienza o nell'assoluto, o nel condizionale. Il falso logico dunque
è lo stesso dello speculativo ; e d'ogni pro posizione che affermi o neghi la
conve nienza del predicato al subbietto, va detto lo stesso, che abbiamo
accennato del giu dizio. Gli scolastici fecero ancora diverse altre distinzioni
del falso, le quali tutte en trano in una delle definizioni testè propo – 224 –
- ste: chiamarono artifiziale il falso defatti; formale il falso, per rispetto
al giudizio dell'intelletto; obbiettivo, per rispetto all'ob bietto di tale
giudizio; entitativo, quello fondato sulla apparente somiglianza delle diverse
qualità; e finalmente denomina rono falso trascendentale o metafisico quello
che interviene circa l'essenza delle cose, sì che vengano a scambiarsi tra loro
obbietti, per natura diversi ; denomina zione affatto superflua, perchè secondo
i termini stessi della definizione cotesta spe zie di errore, non debb esser
compresa tra le spezie del falso. FAMA (prat.), grido onorevole defatti, e
delle virtù altrui. - In un senso più limitato, la fama scam biasi colla
esistimazione. - E in un terzo significato, addita la pu blica testimonianza
d'un fatto, che è da tutti conosciuto. Le tre dinotate definizioni possono
essere ridotte ad una sola: la fama è, la voce, o il giudizio della moltitudine
, spetta trice defatti e deportamenti di ciascuno de' suoi componenti. Così
definita, sottentra la distinzione tra la buona e la cattiva fama, la qual'è
predicatrice de fatti biasimevoli, come la buona l'è de lodevoli. E però quei
tre si. gnificati altro non sono, che gradazioni o passaggi dal particolare al
generale. Noi abbiam detto voce o giudizio della moltitudine, perchè questa può
prestare una semplice testimonianza d'un fatto ve duto o sentito da altri, e
può ancora co gli elementi delle singolari opinioni che raccoglie, giudicare
del merito defatti che tramanda. Ora per ben determinare il valor della fama
per rispetto alla credibilità dei fatti che narra, e alla verità del giudizi
che pronunzia; uopo è non solamente dichia rare, che s'intenda per moltitudine,
ma distinguere altresì i fatti da giudizi, e i fatti presenti da passati.
Quanto alla moltitudine, possiamo in questo nome collettivo comprendere o la
generalità degli uomini presenti, o un par ticolar numero di persone, idonee a
for mare testimonianza e giudizio defatti, ch'essi raccolgono co' sensi loro, e
valu tano col proprio criterio. Da quella nasce la fama o il grido volgare; da
questa, la sana opinione del publico. Parliamo pri ma della volgare. Due sono
gli elementi di tutte le sue conoscenze, le apparenze de fatti esteriori e
l'autorità. Le apparenze non vengono a lei per una diretta cognizione, dacchè
la moltitudine, al pari d'ogni altra persona collettiva, non ha un proprio
organo di visione; nè ha coscienza o identità personale, in cui prin cipalmente
è riposto il retto criterio dei sensi. Ella dunque raccoglie solamente per l'udito
i fatti percepiti dagli altri, e nel prestare ad essi credenza, deferisce alla
autorità di coloro, i quali hanno il potere di farle sentire quel che essi
sentono, o vogliono. Tali sono gli elementi della percezione della moltitudine,
per rispetto a fatti, che sono intervenuti sotto gli occhi di quelli, di cui
toglie a presto le sensazioni. V. Ap parenza, Autorità, Credenza. Ma insieme
colle sensazioni la moltitu dine raccoglie i giudizi, le congetture, e le
suggestioni di quelli, che le trasmettono la conoscenza de fatti; nel che
intervenir suole una doppia alterazione della verità: l'una nasce dalle confuse
idee, e dal va rio modo di apprendere deprimi testimoni: l'altra dal personale
loro interesse, e dalle st diverse passioni, dalle quali ciascuno è animato :
Hi narrata ferunt alio: mensurague feti Crescit; et auditis aliquid novus
adjicit auctor. Illie credulitas; illic temerarius error Vanaque laetitia est,
consternalique timores. Sin qua abbiam considerato la fama nel suo nascere:
consideriamola ora ne suoi progressi. Ella tramanda non solamente i fatti
presenti, ma ancora i passati, che ha ricevuto non immediatamente da primi te.
stimoni, ma da altri, che da quelli gli ap presero: accompagna cotesti fatti di
gene razione in generazione, e diviene secolare, anzi coeva al mondo. Per ogni
età, per la quale passa, conservando sempre le impu rità della sua prima
origine, non solamente perde qualcuno decaratteri della origina lità, che forse
restava della primitiva mar razione; ma si veste de nuovi colori, che le danno
i sensi e le fantasie de secondi, del terzi, e di tutti i successivi narratori.
I poeti, che l'hanno descritta coll'imma gine d'un torrente, che va sempre
ingros sandosi colle torbide onde che in se racco glie, hanno scelto la
similitudine la più conveniente alla verità del concetto: i suoi caratteri
sono, la levità e l'esagerazione: Mobilitate viget, viresque adauirit eundo. Da
lei infatti nacquero le favole, la mi tologia, e la storia incerta delle prime
na zioni del paganesimo; da lei, il maravi glioso e l'incredibile, di cui tanto
dilet taronsi gli antichi; da lei, forse l'abito delle immagini e delle figure,
che con trassero i popoli barbari, e che questi trasmisero a loro successori, i
quali vivono come essi di tradizioni, e son rimasi stra nieri alle lettere e
alla storia. V. Favola, Mitologia, Tradizione. Cangiamo ora la persona della
moltitu dine, e consideriamola composta d'un pic ciol numero d'uomini, idonei a
percepire i fatti, che cadono sotto i sensi, e a giu dicare della verità di
quelli; supponiamoli scevri d'interesse e di passioni, atte ad in durgli in
errore; dotati de mezzi propri per comunicare agli altri, e per trasmet tere a
successori le testimonianze e i giu dizi, che avranno maturamente formato.
Cotesti mezzi son le lettere e la scrittura, per la quale le opinioni e i
pensieri con servano l'originalità e l'identità loro, e passano da una età
all'altra, quali furon da prima concepiti e dettati. La fama, che nascerà
dall'unanime consenso di que sta eletta moltitudine, porterà seco tali re
quisiti di verità, e tali presunzioni d'im parzialità, che niuno potrà negarle
fede: ella non avrà alcun de vizi, che rendono sospetta e mendace la fama
volgare: la sua autorità sarà equivalente a quella, che meritar potrebbe il
detto di molti testimoni concordi, i quali attestassero un fatto da essi
veduto, o udito da altri degni di fede. I giudizi che questa fama trasmetterà,
na sceranno da un sano criterio, non preoc cupato da veruna passione o errore:
nulla detrarrà il tempo alle presunzioni della ve rità loro, perchè la
tradizione scritta ne garantisce l'autenticità: l'uniformità infine del
consenso di tutte le generazioni, che sono l'una all'altra succedute formerà
per essi un invincibile argomento di autorità; per la regola che la prima di
tutte le pruo ve del vero, che la sperienza può sommi nistrare, è quella che
risulta dalla unifor mità del consenso degli uomini d'un sano giudizio di tutti
i tempi, e di tutte le na zioni. Questa è la fama che Cicerone chia mò communis
et consentiens opinio bo norum, che è fondamento della storia e 29 – 226 –
della certa tradizione; che forma l'esisti mazione degli uomini; che è
ricompensa della virtù sulla terra, e fondamento in sieme della vera gloria. V.
Esistimazio ne, Gloria, Storia. FANATIco (prat.), uomo trasportato da passione,
cui convengono i caratteri del fanatismo. FANATIsMo (prat.), esaltazione
dell'ani mo, per eccesso di superstiziosa religione, o di altra passione,
coltivata come sacra e meritoria. È più della superstizione, e può anche dirsi,
passione di diverso genere. La su perstizione è una falsa ed esagerata cre
denza, ma dubbiosa e timida; laddove il fanatismo è animoso, ed audace. Quella
inoltre proviene da solo eccesso di religio ne; mentrechè questo può nascere da
altre passioni, che un animo trasportato subli ma allo stesso grado d'una
religiosa esal tazione. Tali sono i fanatismi di libertà, di servilità, di
ambizion di potere, o di gloria, i quali ci portano a odiare, a di sprezzare, e
talvolta ancora a perseguitar quelli, a quali attribuiamo una opinione diversa
dalla nostra. V. Superstizione. FANTASIA (spec. e crit.), la facoltà dello
immaginare, o sia la virtù tanto di ripre sentare le idee passate, quanto di
com porne e di fingerne delle nuove. Il significato primitivo, che le ha dato
la nostra lingua, è affatto identico a quello d'immaginazione. E se le fantasie
nostre son basse A tanta altezza, non è maraviglia: Che sovra'l sol non è
occhio che andasse. DANTE Ciò non ostante la varietà del significati, che le dà
l'uso comune del parlare è tale, che può tra essi esserne scelto uno, il qua le
meglio corrisponda alla etimologia del nome, senza confonderla colla immagina
zione; tanto maggiormente, quanto molti chiamano l'immaginazione fantasia, ma
non tutti i concetti della fantasia potrebbero essere attribuiti alla sana e
retta immagina zione, quale noi la consideriamo nell'uomo ragionevole. - e In
fatti fantasia chiamiamo ogni biz zarro e strano concetto; ogni invenzione o
poetica finzione; i deliri de sogni, e della pazzia; i capricci e le
improvvisate musicali. Fantasia in fine chiamiamo quel l'interno senso del
bruti, che presiede alla loro memoria, ed eccita in essi i sogni. Ora non
conviene certamente dare lo stesso nome a due facoltà sì diverse, ne bruti e
nell'uomo; e molto meno potrebbonsi con fondere le operazioni complesse
dell'umana immaginazione, colle fantasticherie de de liranti. E siccome è
antica nelle scuole la distinzione tra l'immaginazione sensitiva, e
l'intellettiva; così riservando a questa il nome d'immaginazione, chiamerem fan
tasia la sensitiva. V. Immaginazione. FANTASIMA (spec. p e disc.),3 immagine o
apparenza di cosa, conceputa dalla fantasia. FANTASTICAGGINE e FANTASTICHERIA
(spec. e disc.), ogni strano pensiero, che si di scosta dalla comune ragione.
FANTASTICARE (disc. e prat.), andarva gando colla fantasia, per trovare o
finger cose dilettevoli o strane. Ovvero, stillarsi il cervello con istrane
combinazioni del pensiero, e col credere possibile lo straordinario e
l'inverisimile, – 227 - È proprio di sregolata fantasia, da cui prende il nome.
FARE (prat.), verbo generalissimo, che esprime la virtù operosa di qualunque a
gente morale, e però può convenire ad ogni sorta di azione. Il suo significato
è tanto ampio, quanto l'operare e l'agire; ma differisce dall'uno e dall'altro
in quanto presuppone l'azione se guita dall'effetto; laddove l'agire e
l'operare comprendono soltanto l'azione. V. Azione, Operare. - ll fare, al pari
dell'agire e dell'operare, ammette per suo contrapposto il patire. Ivi s'accoglie
l'uno e l'altro insieme, L'un disposto a patire e l'altro a fare Per lo
perfetto loco, onde si preme. DANTE. FARMACIA (crit.), parte delle arti me
diche, che tratta de'rimedi, e del modo di preparargli. FARMAcoLoGIA (erit.),
trattato del rimedi. FARNETICARE (prat.), dir cose fuor di proposito. È proprio
de'deliranti per morbo, o per alterata fantasia. V. Fantasia. Fasri (crit.),
annali in cui descrivonsi i fatti publici, o le nobili ed eroiche ge ste di
qualche illustre uomo. V. Annale. FASTIDIo (prat.), molestia prodotta dalla
sazietà di cosa, che si è prima desiderata. È proprio degli alimenti e di tutto
quel che può soddisfare gli appetiti animali. In senso traslato si applica alla
sazietà del discorso, degli affetti, e delle passioni. In questo senso il
fastidio nasce dalla intem peranza del desiderare i beni esteriori del la vita.
Qual è l'uomo avido di onori e di agiatezze, cui queste non giungano insipide,
e talvolta noiose, per l'abito di possederle? Certamente il possedimento di
tali beni non empie e non soddisfa il cuore di alcuno, sì che non creda man
cargli qualche altra cosa, ottenuta la quale ritorna al medesimo stato di
prima. Nul la è più vero del detto di Seneca: Memo est, cui felicitas sua,
etiamsi eursu ve nit, satisfaciat. - Per contrario l'equabilità è la virtù che
nella prospera come nell'avversa fortuna contiene i desideri e il dolore, non
estolle e non abbatte l'animo, e gli dà la giu sta misura per valutare le
apparenze dei beni e demali della vita. V. Equabilità. Il fastidio, quantunque
contenga lo stesso sentimento del tedio e della noia, pure espri me
spezialmente l'indifferenza per la cosa che si è una volta desiderata.V. Moia,
Tedio. FAsro (prat.), pompa di opulenza e di squisito gusto, fatta per
desiderio di lode e di onore. - È una conseguenza del profuso lusso, e dello
smodato amore delle ricchezze ; e insiememente è una meschina passione, propria
di quelli, che non possono per al tra qualità o merito procacciarsi lode. I
greci denominarono un pootMoruto le pas sioni di questa natura. Questa alimenta
l'or goglio, e ispira il disprezzo per la pover tà, e pel modesto vivere.
Inspice, dice Seneca, et disces, sub ista tenui mem brana dignitatis, quantum
mali lateat. V. Onore, Orgoglio, Ricchezza. FATALIsMo (spec.), dottrina di coloro,
che attribuiscono al fato tutto l'ordine del la natura. V. Matura, Ordine. º
FATALIsTA (spec.), chi professa il fa talismo. - FATICA (prat.), l'esercizio
della forza del corpo, o delle facoltà dell'anima, che ha per suo scopo
un'opera materiale, o intellettuale. La fatica è il carattere costitutivo del
l'umana condizione, e diremo ancora di tutti gli animali, a quali la natura non
presenta spontanei gli alimenti, e gli al tri mezzi necessari a conservare la
vita ; ma dà soltanto gl'istinti per cercargli, All'uomo in segno della
superiorità della sua spezie, sono stati dati per coadiutori nella fatica i
bruti. - La fatica è diversa dal dolore, come chè sia a questo affine. Cicerone
diede dell'una e dell'altro una precisa definizio ne: labor est functio quaedam
vel ant mi, vel corporis, gravioris operis et muneris: dolor autem motus asper
in eorpore, alienus a sensibus. Haec duo Graeci illi, quorum copiosior est lin
gua quam nostra, uno nomine appel lant royoy. O verborum inops interdum, quibus
abundare te semper pulas, Grae cia / Aliud est dolere, aliud laborare (Tusc. l.
11. 15.). V. Dolore. FAto (spee.), la concatenazione delle cause naturali, che
rende immutabili gli eventi. V. Causa, Evento. È voce presa da Latini, che
corrisponde al nostro vocabolo destino. I greci deſi niscono il fato ovvroºts
toy baay. Nella filosofia ha due significati: o in tendesi per la
concatenazione delle cause, predisposta dalla suprema intelligenza di Dio, o
sia per l'ordine delle cose natu rali, in cui tutti gli eventi trovano la loro
ragione sufficiente, nel quale significato scambiasi il lato colla Provvidenza,
ov vero prendesi come la naturale concate nazione delle cause, nel quale altro
senso pure equivale all'eterna ragione di tutte le cose. Cicerone lo definì
causa aeterna rerum , cur et ea quae praeterierunt facta sint, et quae instant
fiant, et quae sequuntur futura sint. E più ac conciamente Crisippo :
sempiterna futu rarum rerum veritas. Nonpertanto, InOra è mancato, tra gli
antichi e tra moderni, chi abbia inteso la connessione delle cause naturali nel
senso della necessità, o sia di un rigido meccanismo, il quale non riconosce
principio nella volontà di qual sivoglia Essere intelligente. Cotesto con
cetto, comechè contraddittorio perchè pre suppone una serie di cause seconde
non rette da una prima causa, ha pur tro vato luogo nella mente di coloro, i
quali veggono la natura nel fatto, e non vo gliono riconoscere nelle sue opere
un or dine morale, nè una intelligenza supe riore. È la dottrina propria
dell'ateismo o del materialismo, di cui Cicerone fa onore a Democrito, ad
Empedocle, a Era clito e ad Aristotele. È una conseguenza necessaria della
ipotesi della eternità del mondo, e della sostanza unica dell'uni verso. V.
Hpotesi, Mondo, Mecessità , ASostanza, Universo. FATTo (spec. e prat.), ogni
cosa che è, o è stata prodotta da qualsivoglia agente. V. Agente. È un derivato
di fare, e al pari del verbo suo, è uno di quei vocaboli gene ralissimi, i
quali servono in ogni lingua di supplimento alle denominazioni singo lari delle
cose. V. Fare. Nel linguaggio filosofico serve ad ordi nare e distinguere i
diversi generi di av venimenti e di fenomeni, i quali cadono - 229 – sotto
fosservazione desensi esterni, e del l'interno senso dell'anima. Così noi siam
soliti raccogliere tutti i cennati obbietti in tre classi generali: 1.º fatti
della Divinità: 2.º fatti della natura: 3.º fatti dell'uomo. E in quelli della
Divinità e della natura distinguiamo i necessari da contingenti V. Contingente,
Mecessario. FATUITA (prat.), assoluta mancanza di discernimento e di giudizio.
È più della stoltezza, perchè questa, quando provenga da difetto di natura,
consiste in una certa ottusità di mente, più che in una intera privazione di
sen no. V. Demenza, Stoltezza. FATUo (prat.), di ottusi sensi. Ha lo stesso
significato nella lingua ita liana, che nella latina, e distinguesi dallo
stolto per quella differenza notata da Afra mio presso il Forcellini : ego me
ipsum stultum esse ea istimo, fatuum esse non opinor; onde il Forcellini fissa
così i ca ratteri dello stolto e del fatuo: stultus est obtusis sensibus,
fatuus nullis. V. Stolto. FAvELLA. V. Linguaggio. FAvoLA (erit. dise. e prat.),
racconto d'un finto fatto, e secondo l'etimologia del nome, volgare o divolgata
narrazione. Di questo vocabolo si è formato un nome di classe, nella quale si è
compreso tutto il mitologico antico, l'allegorico, il poe tico, l'imitativo, e
in una parola tutto quel, che l'immaginazione ha creato, o può creare per
somiglianza o per imita zione del vero. Ma conviene distinguerne i generi che
la compongono, per bene intendere che abbia ciascuno di comune coll'altro, e
che di proprio. Il significato che comunemente dassi alla favola, è di una
finta narrazione, che ha per suo ſine o il nascondere la verità, o l'istruire,
o il dilettare. In questo senso la favola è un velo, col quale si copre un
fatto o un pensiero per renderlo intelligi bile a quelli solamente che sanno
solle varne la covertura. Molti dicono essere stato questo il primo scopo della
favola, d'onde poi nacque la filosofia, la teologia, e tutto il saper poetico
dell'antichità. Ma la prima epoca di tutte le nazioni del paganesimo è
interamente coperta dal la favola, e la scienza comune, del pari che la
riposta, trovansi oscurate dallo stesso velo. Tradizione, storia, successione
di tempi, vite e fatti domestici, tutto è na scoso sotto la densa nebbia della
favola. Se questa fosse stata una invenzione di sa pienti, per nascondere le
verità troppo lu minose per lo volgo, dovremmo ora avere una parte di
archeologia a tutti chiara, quella cioè che contenesse il corso civi le, o
apparente delle nazioni. Donde av -viene, che nulla ci resti di quella età, che
non sia falso, misterioso, o incerto? Se tutto è favola, conviene dire che que
sta abbia una origine più rimota, o pro venga da una causa più generale della
prudenza de sacerdoti e de sapienti? E ormai risaputo tra gli eruditi, che la
maggior parte delle favole degli antichi riferivansi ad avvenimenti storici. E
altresì nota l'antichissima partizione del tre tempi, proposta da Varrone, cioè
l'ignoto, il fa voloso e lo storico. Comprendiamo in una classe sola l'ignoto e
il favoloso, dacchè la favola non rispetta limiti di tempo, di luogo, o di
causa. D'onde è nato che la fa vola preceda la storia? La risposta è facile! La
favola nacque presso i popoli, che perduto avevano l'uso de caratteri e della -
250 - scrittura; sì che le azioni e i fatti degli uomini erano affidati alla
memoria dei presenti, e alla nuda tradizione della pa rola. La mancanza della
scrittura e deca ratteri portava seco il difetto della mi sura del tempo, il
quale era distinto per generazioni; e la ricordanza di tal misura riposava
egualmente nella memoria devi venti. Costoro ritener potevano i nomi del le
generazioni immediate e vicine, ma quando erano obligati di risalire ad epo che
più rimote, dovevano per necessità foggiare nomi, o nascondere altrimenti la
propria ignoranza. Un'antichità rimo tissima era per essi un tempo indetermi
nato e indeterminabile, che dovevano per necessità confondere colle origini del
mon do. Nel lungo intervallo in cui i popoli vissero senza lettere e senza
scritture, gli avvenimenti memorabili, e le geste degli eroi passavano da padri
a figli, ed erano amplificate con tutti i colori del maravi glioso. E quando
presso cotai popoli co minciossi ad ergere pietre e moli per tra mandare
qualche fatto alle future discen denze, e pensossi di scolpire in esse se gni
che lo ricordassero; qualche gerogli fico tutto al più, o qualche figura furono
i primi caratteri, de quali essi fecero uso. Alla incertezza dunque della
tradizione ver bale si aggiunse ancora l'oscurità e l'am biguità delle figure,
o sia de'caratteri reali. Ma alla perfine cotesti popoli acquistarono la
conoscenza delle lettere, e comincia rono a fare uso della scrittura alfabetica.
Erasi allora già formata una tradizione, ed esistevano rozzi ma antichi
monumenti, che ricordavan fatti delle antecedenti ge nerazioni; sì che i primi
cronisti o anna listi, che voglian dirsi, cominciarono a tramandare le notizie,
che raccolto ave vano dalle popolari dicerie. Per quel che concerne poi la
misura del tempo, appena le lettere permisero che si potessero regi strare le
periodiche rivoluzioni del sole e della luna, i nuovi cronisti cominciarono ad
adattare la misura nuova al vecchio tempo, e ad allungare o ad accorciare la
catena delle antecedenti generazioni, come me glio conveniva alla qualità delle
loro co noscenze. In somma il tempo favoloso passò nello storico, e formò la
base della tradi zione delle nazioni, che dalla barbarie pas sarono allo stato
di civiltà. Supponiamo ora, per contrapposto, un popolo, che sin dalla prima
origine del mondo avesse avuto lettere e scrittura; è manifesto, che per esso
non sarebbe mai cominciata la favola storica, e che la tra dizione scritta del fatti
e del tempi, a quali quelli appartenevano, avrebbe chiuso l'adito alle false e
incerte supposizioni, nelle quali per necessità eran caduti i popoli che
avevano innanzi a se un tempo ignoto. Potremmo quì soggiugnere che un tal con
trapposto si è verificato nel popolo che con servò per eredità l'antica e
originaria scrit tura del primi popoli asiatici; che cotesto popolo ebbe storia
e non favola; ebbe cro nologia generale e particolare, suddivisa per
determinato numero di generazioni. Ma noi non dobbiamo ripetere quel che è
noto, bastando al nostro proposito l'accennarlo per conferma del nostro
assunto, cioè che la prima di tutte le favole è la storica, la quale è nata
dalla ignoranza delle lettere, e dal difetto della scrittura alfabetica.
Passando agli altri generi della favola, gli eruditi han distinto dalla
storica, la favola fi ica, la filosofica, l'allegorica, la morale, la mista, e
la dilettevole o giocosa. Quanto alla fisica, ella nacque dalle spie gazioni
del fenomeni della natura, fondate – 251 – nelle ipotesi e nelle analogie delle
cose sen: sibili. Fu questo il campo delle finzioni, nel quale l'immaginazione
prese il suo volo, e fu sì feconda d'immagini, che la poesia ne fece il suo
tesoro. Di qua comincia l'età, o il regno poetico, che tinse de colori suoi
tutto il resto delle umane conoscenze, e usurpò per sino la facoltà
dell'invenzione; dapoichè il fingere e l'inventare divennero una medesima cosa.
E a rendere l'imma ginazione più libera e licenziosa contribuì pure il difetto
delle lettere e della storia; perchè gli obbietti naturali raffigurati sotto le
favole divennero persone, e i loro favo losi nomi scambiaronsi co personaggi
sto rici. Di qua la cosmogonia, la teogonia, e la mitologia pagana; di qua la
varietà delle dottrine o delle ipotesi, che forma ronsi secondo il diverso
gusto de popoli; di qua la miscela di tali dottrine, e l'ad doppiatura denomi
de medesimi obbietti, prodotte dal passaggio, che le stesse fa vole fecero da
un popolo, o da una lin gua all'altra; di qua in somma il labi rinto
dell'antica mitologia, del quale an che i sapienti perderono il filo; per aver
la favola inviluppato e la storia e la natura. Non parliamo della così detta
favola filo sofica, perchè questa non è diversa dalla fisica. Ognun sa, che il
primo nome di filosofia fu dato alla scienza della natura, la quale pretendeva
spiegare le origini di tutte le cose visibili e invisibili; sì che di venne la
scienza madre della metafisica e della stessa teologia. In un senso solo po
trebbesi forse dire che la filosofia speculativa ebbe una favola a se propria,
se sotto que sto nome si comprendesse il linguaggio figu rato o allegorico, di
cui le antiche scuole fecero uso per nascondere l'insegnamento arcano. Ma
impropriamente chiamerebbesi favola il significato apparente d'una dot trina,
che il maestro non professa e non riconosce come sua. Sarebbe questa una
finzione, o una odiosa impostura senza avere i caratteri della favola. E se si
par lasse del senso apparente della mitologia, che nello insegnamento palese o
esteriore davasi come vero, non il linguaggio, ma la dottrina era favolosa, e
questa era ap punto la favola fisica, di cui abbiamo te. stè parlato. Tutti gli
altri generi di favole, cioè l'allegorico, il morale, il giocoso, e di ciamo
ancora il fantastico, sono allego rie, similitudini, o imitazioni, le quali po
trebbero esser prese dal vero, come dal finto o favoloso. Certamente il finto
si pre sta più del vero alle allusioni e alle figure, tra perchè quello è più
vario e moltiplice di questo; e perchè l'immaginazione è più libera nei
crearlo, e nell'adattarlo alla convenienza del suggetto che tratta. Ma pure i
poeti e i pittori traggon al legorie e similitudini da fatti storici; che anzi
nella imitazione della natura, l'im maginazione loro è dalle regole dell'arte
obligata di prendere per guida la ragione, e di dare al finto le sembianze del
vero. Tal è il genere del favoloso, che alimenta la poesia, l'arte drammatica,
e tutte le arti imitative, i romanzi, gli apologhi, i conti morali, e le
novelle, nelle quali produ zioni il verisimile prende il luogo del vero; e tal
è il senso del precetto del grande maestro della moderna arte poetica: Rien
n'est beau que le vrai: le vrai seul estaimable. Il doil regner par tout, et
méme dans la fable. De toute fiction l'adroite faussetè Ne tend qu'à faire aua
yeua briller la veritè. (Boileau Ep. IX). Laonde la favola ha ingrandito, ma
non creato il genere delle similitudini e – 252 - delle allegorie; d'onde segue
che se quello fosse mancato, non però sarebbe mancata la poesia. L'immaginazione
sì bene sareb besi aggirata in un campo più limitato; e se non avesse potuto
essere sì svariata e amena, qual'è stata, avrebbe preso un carattere del tutto
diverso, quello cioè della severità; carattere che ella in realtà prende in
quelle spezie di composizioni, nelle quali la gravità del suggelto, o la
nobiltà delle passioni di cui si veste, sono incom patibili colle finzioni e
colla favola. Da ciò risulta ancora, esser falso il concetto di quelli i quali
definiscono la poesia co me finzione, sol perchè questa le sommi nistra una
parte d'immagini, onde arric chire il suo linguaggio. Del resto, conviene non
confondere il significato proprio del vocabolo favola coi sensi figurati e
metaforici, che gli dà l'uso, sopra tutto del poeti: favola dicesi ogni
rappresentazione di fatto vero o finto, che ha il fine di dilettare, o
d'istruire: favola è il poema, la commedia, la tragedia, l'allegoria,
l'apologo, e la vita stessa, V. Finzione, Poema, Poesia. La mia favola breve è
già compita Efornito il mio tempo a mezzo gli anni, PETRARCA. In conclusione la
vera origine della fa vola, propriamente detta, dee ripetersi da due ragioni,
dalla ignoranza della scrit tura, e dalle ipotesi della filosofia naturale.
Quella generò la favola storica; queste la fisica; l'una e l'altra dieronsi la
mano, e loro ibrido parto fu la sapienza poetica, che per lunga serie di secoli
dominò nel mondo, e fu la madre della teologia e della religione del
paganesimo. V. Sa pnenza. sa - a - FAvone (prat.), benefizio che si con cede senza
debito di prestarlo. È men di grazia, che è proprio del be nefizio concesso dal
superiore all'inferiore. V. Grazia. I nostri scrittori hanno spesso scambiato
il favore colla protezione, la quale è men generica. V. Protezione. Fecon vioNe
(spee.), operazione della natura, per la quale il germe della ripro duzione si
sviluppa nella generazione, così, degli animali, come delle piante. Il modo
come si operi la fecondazione è il mistero della generazione. V. Gene 7
(I22072e. FEDE (teol. spec. e prat. ), assenti mento che prestiamo alla
testimonianza di Dio, eome dell'Essere che non può ingan nare, nè essere
ingannato. V. Testimo-, nianza. Differisce dalla semplice credenza, per chè la
fede esclude ogni dubbio, ed è per se stessa un principio di certezza e di co
gnizione superiore a tutte le altre. La testimonianza di Dio si manifesta per
la rivelazione, di cui è propria la fede, V. Rivelazione. - Lo stesso vocabolo,
nel significato che gli dà l'uso comune del parlare, vale ferma credenza in
alcuna cosa , ed è proprio dell'assentimento, che prestiamo all'autorità
altrui. Ma siccome diversi sono i gradi dell'autorità umana, e questa pro duce
probabilità più che certezza; così le due voci fede e credenza possono avere
eiascuna un senso proprio, cioè la fede per l'autorità divina, e la credenza
per l'umana. V. Autorità, Credenza. Fede in senso morale significa ancora
vincolo e obligazione di fedeltà, d'onde – 255 – nascono diversi derivati, che
portano lo stesso significato. Vi giuro, che giammai non ruppi fede Al mio
signor, che fu d'onor si degno. DANTE. FEDELE (prat.), chi sta alle promesse,
espressamente o tacitamente fatte. E in un senso di maggiore perfezione, chi
religiosamente custodisce l'obligazione contratta, interiore o esteriore che
sia. È proprio di questo vocabolo anche l'esterna dimostrazione della
osservanza, nel che differisce dal significato degli altri vo caboli costante,
e leale. V. queste voci. FEDELTA' (prat.), l'abito dell'esser fedele. È propria
del vincoli, che legano i di pendenti e gl'inferiori a loro superiori, nel
quale senso presuppone sempre un'obli gazione contratta, solenne o privata che
sia. In ciò differisce dalla costanza, che indica un proposito dell'animo,
indipen dente dalla obligazione. V. Costanza. FEDrrA (prat.), è proprio di quella
bruttezza e deformità del corpo, la qual produce disgusto. Si applica al morale
per dinotare l'av versione e il disgusto che proviamo dal la bruttezza d'un
animo depravato. Così l'usiamo nel senso stesso, in cui l'ado prò Cicerone: si
turpitudo in deformitate corporis habet aliquid offensioni, quanta illa
depravatio et foeditas turpificati ani mi debet videri? (de oſf. c. 3). È uno
di quei sinonimi che la nostra lingua prende da latinismi, i quali le co
municano nomi perfettamente equivalenti ad altri vocaboli suoi propri. Tali
sono quelli di bruttura, di sozzura, e di tur pitudine, che vanno usati nel
medesimo senso. V. Turpitudine. - FELICITA' (prat.), durevole stato di go
dimento, e di piacere. Ma qual è il piacere che può essere du revole, e quale
il bene che può produrlo? La natura ha impresso nel cuore del l'uomo l'amore e
l'istinto della felicità: noi cen formiamo un idolo , dietro al quale corriamo
tanto nella vita individuale, quanto nella civile: crediamo trovarlo in ogni
piacere, che l'immaginazione ab bellisce di lusinghevoli apparenze; e sic come
questa ci fa scambiare i veri co'falsi piaceri, così ci fa confondere il
piacere colla felicità. Allo stesso modo la società civile chiama sua felicità,
l'opulenza, la potenza, la gloria : i suoi rettori ono ramo dello stesso nome
la dominazione, la fama, e per sino i frutti della cupi dità e dell'ambizione.
E quando da un de siderio passano all'altro, reputano felicità il conseguire la
nuova cosa desiderata, ob bliata la prima. Laonde l'idea della feli cità
applicata a bisogni e a piaceri della vita sensitiva, non solamente non è dure
vole, ma è un'ombra, che si diletta di illuderci, e di fuggirci d'innanzi
quando crediamo di tenerla nelle mani. La filosofia, o per meglio dire la ra
gione non soffre che il piacere usurpi il nome di felicità, e però distingue
l'uno dall'altra. Se la nozione della felicità pre suppone la durevolezza e
l'immutabilità del piacere, è manifesto che non possia mo cercarla in tutto
quel che di sua na tura è temporale e caduco. Gli antichi molto disputarono
intorno alla causa effi ciente della felicità, che essi chiamarono sommo bene,
perchè il suo conseguimento non lascia luogo al desiderio di altri beni. 50 –
254 - I filosofi di tutte le scuole unanimemente pensarono, che la felicità non
potesse tro varsi se non in quell'interno piacere, che si acquista per la
pratica della virtù. Gli stessi epicurei, i quali riponevano il som mo bene ne
piaceri e nell'assenza del do lore; dicevano non potersi quello conse guire
senza la virtù, e chiamarono virtù la forza che l'animo ha di soggettare alle
sue determinazioni il piacere e il dolore. In somma il loro sommo bene, se da
una parte supponeva lo stato sano del corpo; richiedeva dall'altra la fortezza
e la pace dell'anima. Gli stoici riposero il sommo bene nel retto operare,
sprezzato affatto il piacere e il dolor de sensi. I peripatetici disputarono
intorno alla qualità del beni, ma al pari degli stoici, riposero nel giu sto e
nell'onesto il sommo del loro beni. Una è stata l'opinion della filosofia, per
chè uno è il senso della natura morale dell'uomo ; una la voce della ragione e
della coscienza. Qual'è dunque la felicità, e quali sono i mezzi per
conseguirla ? Prendiamone il concetto e la definizione dalla stessa filosofia
del paganesimo: Quid quid ea universi constitutione patien dum est, magno
ercipiatur animo ad hoc sacramentum adacti sumus, FERRE IroRTALIA: nec
perturbari his, quae vi tare nostrae potestatis non est. in re gno nati sumus:
Deo parere libertas est: in virtute posita est vera felicitas: quid haec tibi
suadebit ? neguid aut bonum, aut malum existimes, quod nec virtute, nec malitia
continget: utsis immobilis, et contra malum ea bono, ut qua fas est Deum
effingas. Quid tibi pro hac expeditione promittitur? Ingentia et ae qua divinis
: nihil cogeris: nullo indige bis: liber eris, tutus, indemnis e nihil frustra
tentabis, nihil prohibeberis. Om nia tibi ex sententia cedent: nihil ad. versum
accidet, nihil contra opinionem ae voluntatem. Quid ergo ? Virtus ad vivendum
beate sufficit, perfecta illa et divina? Quidni sufficiat? imo superfluit. Quid
enim deesse potest extra deside rium omnium posito? Quid eatrinsecus opus est
ei, qui omnia sua in se col legit? (Seneca de vita beata c. XV e XVI). FENOMENO
(spec.), fatto della natura, quale ce l rappresentano i sensi. È significato
proprio dell'osservazione de sensi esterni, ma per analogia e per necessità di
linguaggio si applica ancora a fatti osservati dall'interno senso dell'ani mo.
Per la qual cosa v'ha due generi di fenomeni: gli esterni che osservano i sen
si: gl'interni che scopre la riflessione, e a quali diamo lo stesso nome,
perchè li consideriamo come fatti della natura. Ciascuno de due generi può
essere sud diviso in tante spezie, quante può sugge rirne la diversità o degli
organi conside rati come instrumenti dell'osservazione, o delle qualità
de'fatti, che richiamano l'at tenzione dell'osservatore. Così la vista,
l'udito, il tatto, l'odorato, il palato han cia scuno i suoi fenomeni ; siccome
la filoso fia intellettuale ha pure i suoi. I Fisiologisti distinguono in ogni
feno meno cinque particolarità o caratteri, che chiamano costitutivi, perchè
necessari alla perfetta cognizion di quelli: l'organo con siderato come
principio del fenomeno: l'oc casione eccitante, che determina l'organo a
produrre il fenomeno: l'operazione per la quale il fenomeno è prodotto: il
fenomeno stesso o sia l'effetto: la causa finale, o sia lo scopo, per lo quale
il fenomeno è prodotto. Cotesta partizione può essere ricevuta come utile per
l'investigazione della scien – 255 – za, e non come regola d'assoluta veri tà;
essendo che i Fisiologisti riguardano come causa l'organo, il quale non è se
non il luogo, e diremmo il teatro dove il fenomeno si manifesta. Un tale
scambio de'essere ancora risguardato come insidio so, perchè attribuisce
all'organo la forza produttrice, e confonde l'organo stesso colla causa del
fenomeno, nel che giace il principio del materialismo organico. Quelli che così
ragionano, vogliono ve der meno di quel , che videro i fonda tori stessi della
notomia e della fisiologia. Erasistrato e Galeno distinsero il principio
pensante dalla vita organica, o animale; la quale non fu da essi altrimenti
risguar data, se non come un instrumento fatto per somministrare a quello i
mezzi del l'azione. Rettificando la partizione de caratteri no tabili in ogni
fenomeno, e adattandola tanto a fatti esterni, quanto agl'interni, puossi così
stabilire gli elementi costitutivi d'ogni fenomeno: la causa, l'effetto, o sia
il prodotto: il mezzo o sia l'opera zione: il fine o sia la ragione
sufficiente. V. Causa, Fine, Mezzo. Nell'uso comune di parlare, accettato anche
da fisici, per fenomeno s'intende un fatto naturale o morale, di difficile o
d'impossibile spiegazione. FERINITA' (prat.), crudeltà propria di animal
feroce, e non di uomo. È più della crudeltà, e di tutte le sue gradazioni. V.
Crudeltà. FERINo (prat.), qualità d'animo non umano, ma di fiera. FERITA'
(prat.), crudeltà di barbaro, o di uomo rozzo e non incivilito. FERMENTAzioNE
(prat.), vocabolo pro prio della Fisica e della Chimica, che di nota quello
intestino movimento delle parti d'un corpo, per lo quale la natura opera la sua
trasformazione, o dissoluzione. Una sorta di calore o di bollore, che
sviluppasi dallo intestino movimento delle parti, osservato da prima nella
pasta lie vitata, e indi nella alterazione spontanea di molte sostanze; fece
dare da Latini a cotesta operazione della natura un nome, che le lingue volgari
han poi adottato. La somiglianza inoltre del fenomeni, che osservaronsi nella
fecondazione delle pian te e degli animali, nella digestione degli alimenti, e
nella stessa putrefazione dei corpi vegetabili ed animali, ne estesero il
significato, ed introdussero nella filosofia l'opinione, che la fermentazione
fosse l'in strumento unico delle due cardinali opera zioni della natura, la
generazione cioè, e la corruzione. V. Corruzione, Generazione. La chimica ha
dato lo stesso nome ad operazioni simili, che l'arte procura, met tendo in
combinazione tra loro più so stanze che agiscono le une sopra le altre, dalla
qual combinazione ottiene, o un nuo vo composto, o lo scoprimento d'un prin
cipio attivo, che trovavasi nella composi zione del primi corpi nascoso.
Distingue in oltre varie sorte di fermentazioni se condo le diverse sostanze,
che queste pro ducono, e specialmente assegna i carat teri e i moltiplici
prodotti della fermenta zione putrida. V. Chimica. Siccome dalla fermentazione
naturale è nata l'artifiziale; così da questa, per tras lazione di significato,
e per una imma gine ricavata dal sensibile, è nata la fer mentazione morale,
prodotta dal lievito, o sia dal bollore delle passioni. V. Bol. lore, Passione.
º – 256 – FERMENTo (prat.), il lievito, o la ma teria, che produce la
fermentazione, di cui prende i vari significati. FERMEzzA (prat.), traslato
della solidità e durezza del corpi, che si applica alla stabilità degli atti
dell'intelletto, o della volontà. Ridotta in abito, diviene una vir tù, la
quale chiamasi fermezza d'animo. La fermezza delle determinazioni del la volontà
presuppone una risoluzione pre sa con matura deliberazione; siccome la fermezza
nello adempimento degli atti do verosi, è la conseguenza d'una perfetta
conoscenza del principi delle proprie obli gazioni. Laonde questo vocabolo ha
sem pre un senso lodevole, diverso dalla osti nazione, la quale nasce dal
persistere in una determinazione che non vuolsi richia mare ad esame.
Differisce ancora dalla durezza, che nasce dalla inflessibilità del
temperamento, o dalla tenacità d'un abi to più materiale che razionale. V.
Abito, Durezza , Ostinazione. La ferruezza è diversa ancora dalla co stanza, la
quale esprime soltanto la per severanza in un proposito, speculativo o pratico
che sia, astrazion fatta dalla qua lità lodevole o riprensibile di quello. E
però si può aver costanza nel sopportare il do lore o il male anche
volontariamente pro eurato o meritato. V. Costanza. FERocIA e FERocrtA (prat.
), crudeltà che ha vinto ogni ritegno di compassione, o dell'altrui biasimo. È
più della ferità, e della fierezza. V. queste voci. - FERvENTEzzA, FERvIDEzza,
e FERvoRE (prat.), veemenza di affetto, o di pas sione, lodevole o biasimevole
che sia. Son traslati del caldo e del bollore pro dotto dal fuoco, e son capaci
di buono e di sinistro significato. Nel senso morale non pertanto andrebbero
usati fervidezza e fervore, più che ferventezza. FIAMMA (spec.), la parte più
tenue e volatile del fuoco. V. Fuoco, FIBRA (spec.), lungo e dilicato fila
mento che si ottiene dalla meccanica di visione del tessuti organici, portata
insino alle ultime loro parti divisibili. Per molto tempo, e quasi insino a
giorni nostri, si è creduto, che la fibra fosse la parte elementare decorpi
organici, e per tale considerolla l'illustre Haller, comechè molti grandi
notomisti avessero prima di lui conosciuto, essere le fibre muscolari composte
di esilissimi tubolini, ripieni di vescichette e di globetti, i quali potevano
con maggiore ragione meritare il nome di parti primitive. Ciò non ostante l'opi
nione di Haller e de suoi seguaci è durata insino a che le osservazioni
microscopiche, e gli sperimenti fisiologici non han dimo strato, che l'ultimo
prodotto, cui può giu gnere l'analisi, sono i globetti, che con vertonsi in
cellule, e delle quali l'unione forma la prima orditura del tessuto orga nico.
Ed una tal conclusione è stata raf fermata, così per l'analisi degli organi de
vegetabili, ne quali i rudimenti dell'or ganismo, attesa la maggior semplicità
del le loro forme, appariscono più manifesti; come per le osservazioni fatte
sopra gli or gani imperfetti degli animali, ne quali, seguendo il graduale loro
passaggio dal l'imperfetto al perfetto stato di loro forma zione, scorgesi
ancora chiaro l'indicato passaggio. Guardiamoci non pertanto dal credere
definitivi gli ultimi prodotti delle – 257 – analisi della materia, e
risguardiamoli sol tanto come i punti estremi della linea, che separa il
visibile dall'invisibile. V. Cellula, Elemento, Globetto. Ora senza considerare
le fibre come parti semplici ed elementari, giova risguardarle come i rudimenti
del sistema nervoso, la cognizione del quale spande lume sopra le funzioni del
cervello, o sia sull'orga nico meccanismo della vita sensitiva. Le fibre
nervose sono i minuti filamenti de quali son composti i nervi, e son quel le
che formano la massa del cervello. Da ogni punto di questa sorgon fibrille, che
unite insieme compongono la sua sostanza midollare. Le fibrille che nascono
dalla parte cor ticale formano la sostanza del cerebro, del cerebello, e della
midolla allungata ; e a volta loro le fibrille delle varie parti del cervello
formano la midolla spinale. I nervi dunque altro non sono, che unioni e
combinazioni di fibre, di cui le radici son tutte rinchiuse in una comune mem
brana. A queste radici vanno a finire le impressioni che ricevono i nervi dalle
sen sazioni, e son esse per conseguente le de positarie della sensibilità. Per
adattarle al ministerio, che è loro destinato, la natura le ha fatte molli,
flessibili, elastiche e ca paci di vibrazioni, non meccaniche, ma vitali; di
che principalmente faceva uopo, acciocchè le sensazioni, le quali cominciano
dall'esterno, fossero prestamente trasmesse alla ultima estremità loro; e
potessero nei fenomeni della visione e dell'udito esatta mente adempiere alla
comunicazione de gli effetti prodotti dalla luce e dal suono. Siffatte qualità
tengon le fibre in uno stato di continuo distendimento e di fles sibilità,
mediante la circolazione de'fluidi. Questi mentre le obligano di distendersi,
impediscono ch'esse cedano alla forza di contrazione. In questo contrasto di forze
appunto è riposta la conservazione e l'at tività della vita. V. Cervello ,
Mervo. FIDANZA (prat.), sicurezza d'animo nel l'aspettativa d'un fatto che si
desidera. È meno della confidanza o confidenza, ed è più della fiducia. V.
queste voci. FIDo (prat.), qualità d'ingenua fedel fà, la quale nasce da
benigna disposizione dell'animo, più che da abito o da studio. E però ha nel
suo significato proprio un che di diverso da fedele. V. questa voce. FIDUCIA
(prat.), speranza di conseguire una cosa che si desidera. E men di confidenza.
V. questa voce. FIEREzzA (prat.), disposizione alla inu manità, propria del
selvatico, o del bruto. FIGURA (spee. e disc.), l'effetto sensibile della
estensione terminata di un corpo. È una delle qualità della materia, ed è il mezzo
per lo quale ci si rende chiara l'idea del corpi. La figura diviene sensi bile,
o per la vista, mediante i colori, o per lo tatto, che fa distinguere i ter
mini della estensione del corpo. V. Esten sione, Materia, Qualità. Figura,
chiamano i gramatici, ogni maniera di dire, per la quale si orna il discorso,
risecando, o trasponendo le pa role che entrar dovrebbero nella costru zione
piana del discorso medesimo, o a quelle aggiugnendo altre per sovrab bondanza.
La gramatica generale riduce a quattro le figure principali, che sono
l'ellisse, il pleonasmo, la sillessi, e l'iperbato. Tutte le altre figure
retoriche – 258 – possono essere ad una di queste riferite. V. Costruzione.
FIGURATo (dise.), quel che è espresso con figure, o sia con segni, a quali si dà
un senso allegorico, o convenuto. Altra volta la filosofia dilettavasi delin
guaggi figurati. Ma questi non conven gono se non alle sette. Le sue dottrine
es ser debbono publiche, popolari, e non arcane o esoteriche. V. Esoterico.
FILANTROPIA (prat.), amor dell'umanità. Quantunque venga da taluni notato, co
me un grecismo dottrinale, pure è voca bolo caratteristico di tutte quelle
azioni, che non hanno una particolare causa di beneficenza, ma son dettate dal
desiderio e dall'amore del bene generale. FILAUZIA (grec. sup.), disordinato
amor di se medesimo. FilologiA (crit.), studio o amor delle lettere. Abbraccia
la parte del sapere umano, detta ancora erudizione, comechè la filo logia, nel
senso che comunemente se le dà, restringasi alla sola cognizione delle antiche
lingue. Ma l'erudizione è sì insepa rabile dalla filologia, che non si può dare
perfezione nell'una, quando sia disgiunta dall'altra, e ambedue non possono
essere divise dal filosofico criterio. V. Erudizione. FILoLoGo (erit.), chi
professa filologia, intesa nel suo vero senso. FILOSOFANTE (prat.), chi ostenta
filosofia. . FilºsofARE (spec.), attendere allo stu dio della filosofia.
FILosoFAccio (prat.), peggiorativo di filosofo. È termine di dispregio.
FILosopAsTRo (prat.), filosofo di poco conto e valore. FiLosoFEGGIARE (prat.),
dilettarsi di fi losofia. FilosoFETTo (prat.), chi ha pretensione di filosofo.
È pure termine di dispregio. FilosofiA (crit. e spec.) lo studio della
sapienza. La scienza del vero e del giusto. Il perfetto conoscimento dell'uomo,
di Dio, e della natura. La scienza delle divine ed umane cose. La cognizione
delle leggi della vita. Di tutte le cennate definizioni la prima è affatto
nominale; le altre posson dirsi reali, perchè spiegano, più o men chia ramente,
gli oggetti e lo scopo delle va rie parti delle scienze filosofiche. V. De
finizione. Del vocabolo filosofia, al dir di Cice rone, fu inventore Pitagora,
il quale mutò il fastoso titolo di sapiente in quello di stu dioso, o di amator
della sapienza. Ma che è quel, che gli antichi chiamarono sapien za? Da prima
fu di questo nome onorata l'investigazione delle cause naturali e delle origini
dell'universo: indi fu così deno minata la cognizione del fine e dedoveri della
vita: per ultimo abbracciò ella tutte le discipline, le quali tendono a svilup
pare e perfezionare le facoltà dell'umano intelletto. I Greci e i Romani la
divisero in tre parti: la scienza del costumi: lo studio della natura: l'arte
del dissertare. – 259 – Comechè l'uso del comune parlare ab bia perduto di mira
l'etimologia della pa rola, e scambia la filosofia colla sapien za; giova non
pertanto distinguerle, per chè un significato promiscuo all'uno e all'altro
vocabolo confonderebbe quello che è proprio di ciascun di essi: la ricerca e lo
studio del vero non può confondersi colla perfetta cognizione del vero stesso.
V. Sa pienza. - - Considerata oggi la filosofia come lo studio della ragione e
del pensiero, ha ricevuto da moderni una più ampia par tizione. Tre sono i
punti intorno a quali aggiransi tutte le speculazioni della men te: l'uomo,
Dio, e la natura. Da cia scuno di questi tre obbietti, come da al trettanti
tronchi derivano i vari rami del l'umano sapere. Dalla conoscenza dell'uomo
nasce la scienza delle sue facoltà intellet tuali ed attive, o sia la filosofia
specula tiva e la pratica, dalla cognizione degli attributi di Dio, la teologia
naturale; dal lo studio della natura le così dette scienze naturali. A tutte le
quali parti della filo sofia presiede quel poter direttivo della ra gione, che
assegna a ciascuna scienza, o arte il proprio subbietto, e ne determina i
limiti, e lo scopo. Questa è quella parte generale della scienza altra volta
detta filo sofia prima, che ora noi distinguiamo col nome di filosofia critica
(V. il disc. prelim.). Filosofia dello spirito umano è stato, con nuova
denominazione chiamato lo stu dio della psicologia, o della filosofia intel
lettuale, trattata da una moderna scuola col metodo analitico. La scuola, di
cui in tendiamo parlare è la seozzese, che ri conosce per suo fondatore
l'illustre dottor Tommaso Reid. Ricalcando le orme di co stui, Dugald Stewart
ha comentato e il lustrato la scienza del suo maestro, e le ha dato il nome di
filosofia dello spirito umano. Entrambi sentirono la necessità di ristaurare lo
studio della filosofia, dan dole per sue fondamenta le verità intui tive della
ragione, e l'analisi degl'in terni fatti dell'animo. Loro scopo fu di sbandire
il dogmatismo e le ipotesi della vecchia metafisica; di soggettare a nuova
discussione i principi dell'umana cognizio ne; e di farne risultare una
dottrina ragio nevole, la quale rispondesse da una parte alle opposte opinioni
desensisti e degl'idea listi, e dall'altra resistesse alla perniciosa dottrina
dello scetticismo, che aveva per le mani di Hume ricevuto l'ultimo compimen to.
Gl'idealisti avevano distrutto l'esistenza del mondo materiale; i sensisti la
causa in telligente, la legge e l'ordine morale della natura. Hume ragionando
sopra i principi degli uni e degli altri, erasi sforzato di di mostrare, nel
trattato della natura uma na, che i sensi ci dan fantasime e appa renze; che la
memoria è una facoltà ri produttrice del perpetuo sogno nel quale viviamo, e
che il ragionamento si pasce di principi, i quali non hanno altra realità di
quella che noi stessi loro concediamo. Gli epiteti di filosofia dello spirito
uma mo, o del senso comune furono da due riformatori della filosofia adoperati
come contrapposti delle dottrine che abbattevano i principi d'ogni credenza e
d'ogni cer lezza. Ciò non ostante i due cennati epiteti, non possono togliere
alle scienze intellet tuali il proprio loro nome, e possono tutto al più
esprimere una qualità che distin gue l'antica dalla nuova metafisica. For mano
in somma un titolo transitorio, utile a indicare comparativamente quel che la
scienza era, e quel che è. Servono in fine ad additare l'onorevole posto che i
suoi – 240 – riformatori occupar debbono nella storia della filosofia. V.
Idealismo, Metafisica, AScetticismo, Sensismo. Filosofia della storia è stato
detto lo studio del corso che han fatto le nazioni, ricavato
dall'avvicendamento delle cose, che si sono regolarmente succedute. Giam
battista Vico, fondatore di questo studio, decorollo col nome di nuova scienza.
Po trebbe ella ugualmente dirsi scienza della umanità, o della civiltà, o
ancora cri tica della storia, e quando fosse in questo aspetto risguardata,
l'argomento del Vico non sarebbe stato nuovo, comechè nuovo apparir possa
qualunque argomento nelle mani d'un pensator profondo come lui. Ma è questa una
scienza? In altri ter mini, può la sperienza de fatti contingenti acquistare il
carattere di scienza? La so luzione di cotesto problema, par che nasca dal
determinare se i fatti particolari degli uomini possano dirsi di loro natura
varia bili; o se in apparenza variabili, sieno in realtà capaci d'essere da una
certa legge determinati ? La quistione ci menerebbe dirittamente all'altra
della contingenza, o della necessità delle azioni umane. Per la qual cosa, se
lo studio della storia vuolsi dare come la scuola della sperienza, di rettrice
del costumi, del gusto, e del sa pere; se per non confondere un tale stu dio
nel vasto pelago della critica, vogliasi per mezzo suo formare un criterio
speciale, il quale ci faccia meglio conoscere il si mile cammino che gli uomini
percorrono, allorchè son collocati nella medesima si tuazione; in somma se si
vuol dimostrare, che l'uomo somiglia all'uomo, ognuno la considererà come la
più utile parte del l'umano sapere, come quella che reassu me le lezioni della
sperienza. Ma se si vuol dare alle azioni degli uomini (indi vidui o nazioni
che sieno) una legge eter ma come a fatti della natura; se vuolsi di chiarare
necessario uno più che un altro or dine di fatti, ognun vede le conseguenze,
alle quali precipitosa correrebbe cotesta fi losofia. E siccome da ogni falso
principio puossi logicamente giugnere ad un assur do, così giova additar quello
a cui tender potrebbe la recondita sapienza che oggi cer casi scavare dalla
storia. Se le nazioni, e l'umanità, debbano in determinate cir costanze trovarsi
necessariamente in date situazioni, se il corso della natura morale è regolato
da una legge invariabile, come la fisica, sarebbe tolto alla Provvidenza il
governo del mondo; il libero arbitrio sarebbe una illusione data all'uomo per
coprire i decreti immutabili del fato; la legge morale si troverebbe scritta
nell'or dine fisico dell'universo; e le leggi positive non sarebbero più una
derivazione di quel la, ma porterebbero soltanto impresso in se stesse la
traccia dell'umana o storica sapienza. V. Arbitrio, Legge, Universo. -
Frosoncine (prat. ), il correr dietro alle sottigliezze della filosofia.
FILosoFISMo (spec. e teol. ), vocabolo nuovo, introdotto dagli oltramontani per
esprimere la filosofia inreligiosa. FILosoro (spec.), chi coltiva le facoltà dell'animo,
eol fine di acquistare la sa pienza. V. Facoltà, Sapienza. - Il filosofo,
secondo Pitagora, è uno spet tatore, nel grande mercato del mondo, il quale
vede gli altri correr dietro alla gloria, all'avarizia, all'ambizione; e per se
nulla altro riserva, fuorchè la contem plazione delle opere della natura, e la
co gnizione del vero. - 241 - FiLosoroNE (prat.), accrescitivo di filo sofo,
capace del significato vero, e del l'ironico. FilosoFUoLo e FiLosoFUzzo
(prat.), di minutivi e disprezzativi insieme di filosofo. Val povero e falso
filosofo. FINALE. V. Causa, Fine. FINE (prat.), la meta dell'azione. V. Azione.
- Ogni azione presuppone un fine, sicco me ogni fatto contingente presuppone
una causa, o sia un atto della volontà, che l'abbia prodotto. Il concetto
dunque che la mente forma del fine, è diverso da quello della causa, comunque
il fine possa essere il motor della causa. V. Causa. Ciò non ostante cotesto
vocabolo ha nel linguaggio filosofico diversi altri significati, che posson
dirsi impropri. Considerato il fine, come un motivo determinante, vien da
taluni scambiato colla causa, nel quale senso è un equivalente della causa
finale. Considerato poi come lo scopo, cui la vo lontà indirizza l'azione, il
fine suol essere risguardato come l'effetto dell'azione stessa. In ognuno
dedinotati significati, il con cetto del fine presuppone l'altro del mez zo,
che è suo correlativo. V. Mezzo. Le categorie che facevano gli scolastici
intorno al fine non erano minori delle al tre loro dialettiche distinzioni.
Distingue vano essi il fine dell'opera dal fine del l'operante, il fine cujus
da quello detto cui, e il fine ultimo dallo intermedio. Il fine dell'opera sta
nella relazione della causa coll'effetto: il fine dell'operante sta nella
intenzione di costui: il fine cujus è quello cui corrisponde il mezzo che si
adopera: il cui è il mezzo stesso: l'ultimo è quello che non serve ad altro
fine, a diversità dell'intermedio o subalterno, che è nello stesso tempo fine,
e mezzo. Data l'idea del fine e del mezzo, la mente non ha bi sogno di altre
regole per distinguere le cennate differenze. FINEzzA (spec. e prat.), qualità
di pre cisione e di squisitezza, che si applica alle opere dell'intelletto. -
Vale ancora nelle azioni pratiche, af, fettuosa cortesia. FINITo (ontol.), quel
che è capace di accrescimento nella quantità, o nella qua lità. I matematici lo
definiscono: quello cui possono assegnarsi i termini, donde comincia, e dove
finisce. Ma questa de finizione è prettamente nominale, perchè spiega il nome,
e non la cosa. Andiamo alla cosa, e primamente os serviamo, che il vocabolo
finito è capace di due significati analoghi, uno nella quan tità propriamente
detta, l'altro nelle qua lità di qualunque sostanza o subbietto: in quello
esprime una data misura di esten sione o quantità: in questo una misura di
potenza, di virtù, o di perfezione. Cotesta differenza è quel che gli
scolastici espres sero colla distinzione del finito di esten sione, e del
finito di perfezione. Il nu mero e la linea somministrano gli esempi più facili
del finito di quantità e di esten sione: qualunque numero coll'addizione di
altre unità può crescere insino all'indefi nito : similmente qualsivoglia
linea, ag giugnendo sempre ad essa un'altra, può divenire sterminata ; il che
può dirsi an cora delle superficie e desolidi. Laonde noi concepiamo il numero,
l'estensione, e la materia in generale, come cose finite. Il finito poi di
perfezione, si concepisce ad - 242 - un dipresso come quello della estensione,
dacchè il più o il meno sono applicabili tan to alle cose concrete, quanto alle
astratte. Ogni subbietto o sostanza che si concepisca dotata d'uno o di più
gradi di forza, o di altra qualità o virtù, potrebbe averne una maggiore; il
che fa, che tutto quel che noi concepiamo come possibile è di sua natura
finito. Nè altra è la ragione, per la quale definiamo noi stessi Esseri fini,
ti, se non perchè sentiamo che molte per fezioni ci mancano, che posson darsi
al tri Esseri più perfetti di noi, e che tale certamente è l'Essere supremo, da
cui ri conosciamo l'esistenza e le condizioni che l'accompagnano. Vuolsi in
secondo luogo osservare che il concetto del finito è un'idea di paragone con
una cosa maggiore; il che è vero tanto nel finito di estensione, quanto in
quello di perfezione. Ora questa cosa maggiore, che noi concepiamo come
contrapposto del finito, è quel che dicesi infinito, di cui la definizione de
essere per necessità l'in versa di quella del finito. Diremo dunque che
l'infinito è quel che è incapace di qualunque accrescimento, o quello, cui non
possono assegnarsi termini di co minciamento, o di fine. V. Infinito.
Domandiamo ora, se il finito sia una negazione dell'infinito, o l'infinito lo
sia del finito? Una tal quistione facevasi da gli scolastici, e fu sorgente di
molte sot tigliezze. Lo scioglierla giova non sola mente a dimostrare la
necessità di schivare i giuochi delle parole, ma anche a far me glio
comprendere la nozione del finito e dell'infinito. La stessa quistione, che a
prima vista sembrar potrebbe del tutto gra maticale, enunciata in altri
termini, ac quista una maggiore importanza, e serve a rischiarare l'astratta
mozione di quei due - termini. Concepiam noi prima il finito o pur l'infinito?
Alla qual quistione succede l'altra, se l'infinito esista, e se di esso aver
possiamo una chiara nozione. Fermia moci alla prima, dapoichè nella seconda non
potremmo entrare, senz'aver prima, e nel suo luogo, parlato dell'infinito. . Un
termine negativo non è altro, che un vocabolo il quale separa un'idea dal
l'altra. L'infinito, che vuol dire non finito o sterminato, non importa altro,
se non l'affermazione, che è diverso dal finito ; siccome e converso il
vocabolo finito è un'altra affermazione, che esprime essere diverso
dall'infinito. L'uno dunque è ne. gativo dell'altro; nè dal considerare un de
due come positivo o negativo dell'al tro possiam pervenire a conoscere quale
delle due idee sia la prima a nascere nel la nostra mente; sì che alla
soluzione di tal quistione dobbiamo andare per altra via. Chi dice, che il
finito è diverso dal l' infinito, esprime una idea di relazione tra una cosa
minore e una maggiore, e anche, tra una cosa presente e un'al tra non presente,
a buon conto dice, questo corpo è minor di quello, o gue sto spirito è men
perfetto di quell'altro. Ora le idee di relazione son tra loro con nesse per
modo, che l'una non può stare senza dell'altra, o sia che dall'una nasce
l'altra. Per la qual cosa la nozione del fi mito e dell'infinito nasce da un
atto simul taneo della mente; il che non toglie la priorità dell'idea della esistenza
delle cose finite. Noi conosciam certamente le cose, che chiamiamo finite,
prima di quel che diciamo infinito, ma l'astratta nozione del finito e
dell'infinito la formiamo non pri ma che dal difetto, o dalla imperfezione di
quel che ci è noto, passiamo a conce pire l'esistenza del compiuto e del
perfetto. - 245 - Da quel che abbiamo sin qua detto ri sulta ancora, che la
nozione del finito contenga implicitamente quella dell'imper fetto; e per
l'opposito, che l'infinito, co me quello che è incapace di qualsivoglia
accrescimento di qualità, o di bontà, è per se stesso perfetto. V. Perfetto.
FINzrone (crit. e spee.), l'inventare un fatto, un pensiero, o un sentimento,
per cavarne una conseguenza vera, o utile. Tal è il significato proprio che la
lin gua italiana dà al vocabolo finzione. E sebbene lo avessimo preso da Latini
insieme col suo radicale fingere, pur tutta volta abbiam dato all'uno e
all'altro un senso speciale, quando che entrambi ne avevano in quella lingua
uno generico. I Latini davano al fingere il significato di forma re, o creare,
e per una traslazione lo ado peravano per simulare; laddove noi gli diamo
unicamente quello di supporre, e d'inventare di fantasia una cosa che non è.
Ciò non ostante la lingua italiana ha conservato al suo derivato finzione una
parte del significati latini, i quali corri spondono all'antica, e non alla sua
pre sente radice. Cotesta confusione di significati, parte antichi e parte
nuovi, è stata cagione della oscura e non esatta definizione, che è stata in
fino ad ora data della finzione; ed una tale oscurità ha a volta sua ingenerato
con che l'ingannare. Quest'ultima spezie di fine zione si riferisce a mendaci e
alle azioni dolose, che la filosofia morale condanna, e le leggi positive
puniscono; ma che pur entra nella definizione, la quale abbracciar debbe il
genere tutto intero. Ciò non ostante dopo averla compresa nella definizione, la
sciamone l'analisi a moralisti, e limitia moci alle finzioni speculative. Noi
fingiamo, quando formiamo una ipotesi, o un caso finto, del quale voglia mo
esaminare le relazioni, o gli effetti; quando, parlando, prendiamo i segni per
le cose significate; quando esprimiamo con figure, con allegorie, e con
allusioni i nostri pensieri; quando nella storia fac ciam dire o fare a personaggi
storici quel, che conviene al rispettivo loro carattere; quando scriviamo un
poema o un dram ma; quando componiamo suggetti ideali; quando per rappresentare
il bello, e anche il deforme, raccogliamo ne delineamenti o negli atteggiamenti
d'un uomo, d'un animale, o anche d'una pianta i tratti con venienti a caratteri
propri di ciascuno. Fin ge in somma tanto la ragione, quanto l'immaginazione:
fingono i geometri, gli oratori, gli storici, i poeti, e i pittori. Finge
ancora la legge, quando suppone un fatto, comechè avvenuto non sia ; e quando
lo interpreta in un senso sempre benigno, quantunque in realtà tale non fosse ;
il che chiamasi con proprio nome fusione nelle definizioni della poesia, e di
finzione, e presunzione di diritto. Non tutte le arti imitative. Rischiariamo
siffatte ambiguità, le quali son comuni a Fran cesi, che pure han tolto a
Latini la loro voce fiction, e le hanno dato gli stessi si gnificati che le
diamo noi. Niuno finge senza lo scopo di fare ser vire la finzione a qualche
cosa, com'è l'istruire se o gli altri, il dilettare, o an parliamo di queste
particolari spezie di fin zioni, perchè proprie delle leggi positive, le quali
non pertanto entrano ancor esse nella generalità della definizione. V. Fi gura,
Ipotesi, Presunzione, Segno. Tutte le divisate spezie di finzioni son tra loro
diverse, così per lo scopo che la mente si prefigge, come per la qualità s –
244 - della supposizione. Quanto allo scopo, può questo esser triplice: la
ricerca del ve ro, l'istruzione, il diletto. E siccome la ricerca del vero è
compresa nella istru zione; così possiamo ancora ridurre a due i fini d'ogni
finzione, l'istruire cioè o il dilettare. Ma potrebbe la mente fingere ogni
fatto qualunque, e crear fantasime, che non avessero alcuno de tre dinotati
fini? Gli scolastici, all'acume de quali nulla sfug gì, esaminarono una tal
quistione sotto l'aspetto d'una controversia morale e teo logica, perchè la
collegarono colla dottri ma del libero arbitrio. Domandarono essi, se la mente
abbia, o pur no, la facoltà di fingere tutto quel che le piaccia; e se negando
una tal facoltà, vengasi a negare la libertà della volontà? La soluzione fu,
che siccome la volontà si determina per motivi ragionevoli; così la mente non
può fingere tutto quel che resiste alla verità nota, o che involve
contraddizione. Usciamo ora da termini del caso, e svi luppiamo i principi, che
si trovano na scosi nella scolastica soluzione. Ripetiamo, che tranne i
dementi, niuno finge senza uno scopo, il quale può essere o la ve rità, o
l'insegnamento, o il semplice di letto. Da questa regola non è esclusa la
stessa poesia, come che più ardita nel fin gere di tutte le altre arti: Aut
prodesse volunt, aut delectare poetae Aut simul et jucunda, et idonea dicere
vitae. Ora tanto all'uno quanto all'altro scopo è necessario che la cosa, che
si finge, sia possibile. Il geometra, che per la solu zione d'un problema,
suppone tirata una linea, o descritta una figura, domanda che si ammetta un
fatto possibile, cui non manca altro, se non la realità della esi stenza.
Similmente il filosofo, che ragiona, e vuole per induzione, o per argomenti
giugnere ad una conseguenza certa o pro babile, de aver cura che le ipotesi,
delle quali si serve per trovare la verità, sien tutte possibili; dacchè se
supponesse cose, che sono fuori dell'ordine naturale, sco prirebbe subito il
punto falso del suo ra gionare. Sin qua basta la sola possibilità. Ma se
vogliamo chiamare a parte della fin zione ancora gli altri, è necessario, che
questa abbia un altro requisito, cioè che sia credibile, e per essere
credibile, uopo è che sia verisimile. L'oratore e il poeta i quali fingono un
fatto per cavarne una similitudine o un'al lusione, debbono saperlo presentare
in modo, che non abbia nulla di disconve niente al vero; altrimenti non
potrebbero essi stabilire comparazioni con cose che niuno sarebbe disposto a
concedere come vere, e rimarrebbero fallati nel proposito loro. Cotesta regola
è comune al discorso grave e al giocoso, dacchè la finzione per tanto piace,
per quanto più riesce in con traffare la verità: - Ficta voluptatis causa sint
proxima veris Mee quodeunque volet, poscat sibi fabula eredi. Lo stesso è delle
finzioni fatte per muo vere il sentimento degli ascoltanti o degli spettatori;
imperocchè noi ci commoviamo e piangiamo all'aspetto del finto come del vero,
purchè la corda della pietà sia toc cata all'unisono del nostro cuore; della
qual conformità l'oratore e il poeta uopo è, che dieno essi stessi l'esempio.
Di qua, il noto precetto, dato da Cicerone agli oratori: negue ad misericordiam
addu cetur, nisi ei tu signa doloris tui verbis, – 245 – sententiis, voce,
vultu, collacrimatione tizione delle finzioni in quattro generi: il denique
ostenderis (de Orat. Lib.ll. C.V.); perfetto, l'esagerato, il mostruoso, e e da
Orazio a drammatici e a poeti: Si vis me flere, dolendum est Primum ipsi tibi.
- In conclusione la finzione mancherebbe al suo scopo, se supponesse cose non
pos sibili e non credibili: la possibilità e la credibilità formano quella
verità, che tutti i maestri dell'arte critica e poetica han det to essere il
primo e principal requisito delle finzioni e della favola. Ma in che la favola
è diversa dalla fin zione? In niente altro, che nel rapporto della spezie al
genere. Le spezie della fin zione, che abbiam detto essere diverse per la
qualità della supposizione, possono es sere ridotte a due, cioè alla
composizione e alla imitazione. Le ipotesi e le figure vengono dalla ragione
quando ella vede essere facile il ricavare la verità più dal caso finto, che
dal vero: l'immaginazione compone e imita: la composizione e l'imi tazione
formano il campo di tutte le arti belle e imitative. Tali sono la poesia,
l'arte drammatica, la favola, la pittura, la scul tura, l'architettura. Coteste
arti non sono finzioni, siccome sono state da taluni fal samente definite, ma
vivono e si nutri scono di finzioni, o sia d'immagini e di figure da queste
imprestate. La poesia so prattutto, che è il linguaggio degli affetti e delle
passioni, attigne più delle altre dalle finzioni le sue immagini. Ma la re gola
a tutte comune è, che la finzione sia calcata sopra i tipi del vero, i quali,
sic come abbiam detto, sono la possibilità e la verisimiglianza. V. Arte,
Favola, Poesia, Possibilità, Verisimiglianza. Quegli stessi scrittori, che
scambiarono la finzione colla poesia, proposero la par il fantastieo. Cotesta
classificazione ab braccia più i vizi che le spezie del finto e del favoloso.
Lasciando stare il perfet to , che corrisponde alla finzione fondata sopra la
possibilità e la verisimiglianza ; gli altri generi comprendono le estremità
della fantasia, quantunque anche in que ste, abbiano gli autori di quella parti
zione confuso le gradazioni del passaggio dal vero al falso. Imperocchè nel
genere dell'esagerato compresero essi il maravi glioso, il quale sebbene esca
dalle regole e dalle ordinarie proporzioni della natura; pure ha la sua parte
di vero e di bello, che non oltrepassa i limiti della credibilità. Allorchè
facciamo intervenire la Divinità ne fatti umani; e quando spieghiamo per la sua
soprannaturale potenza tutto quello, di cui non possiamo assegnare una causa
sensibile, noi entriamo nel maraviglioso, ma nel maraviglioso credibile, e non
so lamente verisimile, ma spesse volte vero. I poemi intorno alla creazione ci
descrivono una verità, ornata da immagini, che non possiamo spiegare, ma alla
quale prestiamo piena fede. Allorchè noi personifichiamo gli spiriti, l'anima
umana, o le sue qualità, e quando ci trasportiamo col pensiero agli obbietti
invisibili, che sono al di là della vita, noi entriam pure nel maraviglioso,
senza cadere nel vizio della esagerazione. Qual poeta, o quale critico
chiamerebbe esagerati i poemi di Omero, e di Virgi lio, perchè fan prendere
agli Dei una parte nelle guerre e nelle passioni degli uomini; o la divina
comedia di Dante, perchè in questa, come in quelli passano i viventi a visitare
il regno demorti? Chi darebbe un simile giudizio de dialoghi de morti di
Luciano o di Fenelon? E quì conviene di – 246 – stinguere il maraviglioso
desensi da quello della ragione; anzi riserviamo l'epiteto di maraviglioso a
quel che sorprende i sen si, e chiamiamo trascendente ciò che è inesplicabile
per la ragione. Cotesto tra scendente ha una credibilità tutta propria, la
quale è fondata sopra un altro genere di verisimiglianza, che è l'opinione. Le
dottrine comuni de popoli, le credenze re ligiose, la civile e volgare
mitologia for-. mano il credibile e il verisimile del tempo in cui le cennate
dottrine o credenze erano accolte o professate. E però i poeti ei pittori
prendono dalla storia, e anche dalla favola il verisimile di quel tempo, quando
voglio no descriverlo, o al medesimo alludere. Quanto poi al maraviglioso
desensi, seb bene gli obbietti che il poeta o il pittore descrive o imita, si
allontanino dalle ordi narie regole della natura; pure non esce da limiti della
possibilità, e della comune verisimiglianza. Tal è quel genere di gran dioso,
nel quale i pittori, gli scultori, e gli stessi poeti colle descrizioni loro,
oltrepas sano le ordinarie proporzioni delle forme umane. La natura ha serbato
tra queste una varia misura, adattandola a luoghi, a cli mi e forse ancora alle
diverse età del ge nere umano: ha ella creato talvolta uomini di straordinaria
grandezza, che chiamiamo giganti: è verisimile ancora, che cotesti esempi più
frequenti fossero nel tempo del primo vigore delle umane razze. In con ferma di
tal congettura, la storia naturale ci dimostra le ossa di animali d'una straor
dinaria grandezza, che non han più alli gnato sulla terra. Tal è l'origine de
colossi, che l'arte ha poi imitato, e de quali gli antichi spezialmente si
servirono per rap presentare le divinità maggiori, o gli eroi, quando vollero
mettergli in un confronto di superiorità col comune degli uomini. La grandezza
delle forme per essi fu una espressione figurata della maggior potenza de numi,
e delle eminenti qualità degli eroi. Le ombre stesse del trapassati crede vano
essi, che ci rapparissero maggiori di quel che erano stati i corpi loro, sic
come Virgilio fa dire di Creusa: Visa mihi ante oculos, et nota major inago.
Ora chi oserebbe chiamar esagerate le opere de'bei colossi antichi e moderni,
come il Giove olimpico di Fidia, l'Apollo di Belvedere, o il Mosè del gran
Miche langelo? Diciamo dunque che il maravi glioso non solamente non esce dal
vero e dal bello naturale, ma può ancora ap partenere al perfetto, e al
sublime. Laonde l'esagerato, va interamente rilegato tra i vizi e non tra le
spezie delle arti imitative. L'argomento cresce, quando parliamo del mostruoso
e del fantastico. Distinguiamo l'immagine dalla fantasima, e l'immagi nare dal
fantasticare. L'uso delle imma gini è regolato dal criterio della ragione, sì
che esse formano la più bella parte de gli ornati delle arti imitative; laddove
le fantasime dipendono dal capriccio, e non si sottomettono ad alcuna regola.
V. Fan tasima, Immagine, La finzione, applicata a pratici porta menti della
vita, è capace di due signifi cati, dacchè si può o nascondere il proprio
pensiero, o dimostrarne uno per un altro Cotesto doppio senso ha dato origine
ai due vocaboli dissimulare, e simulare. Il dissimulare entra nella classe
delle azioni libere e indifferenti; e non solamente non contiene vizio, ma può
talvolta essere sug gerito dalla virtù che dicesi prudenza: è impropriamente
chiamato finzione, dapoi chè è un atto negativo, che equivale alla - 247 –
taciturnità e al silenzio. Il simulare per contrario è una pretta finzione,
perchè sostituisce un pensiero supposto ad un al tro vero. Ciò non ostante, non
acquista il carattere dell'illecito, se non quando è fatto coll'animo di
giovarsi dell'errore o dell'inganno altrui; che è quel che può darle la qualità
di dolo. V. Dissimulare, Dolo, Simulare. - FisicA (crit.), lo studio della
natura, detto dagli antichi, filosofia naturale. La natura e i fenomeni suoi,
insino a Galilei a Bacone e a Newton, furono stu diati con un fine e con un
metodo assai diversi da quelli, che sono stati di poi in trodotti da quei tre
grandi e celebrati in gegni. Prima di essi si vollero spiegare gli effetti per
le cause e per le ipotesi: dopo di loro, si sono spiegate le cause per gli
effetti, e da questi si è risalito in sino a quelle. Quantunque Cartesio fosse
stato il primo, che da fenomeni del moto avesse cercato ricavarne le leggi; pur
tutta volta vide la verità nel particolare, e non nel generale, avendo nel suoi
principi della filosofia stabilito come regola, che dalle cause conviene
dedurre gli effetti, e non dagli effetti le cause. Una massima del tutto
opposta stabilì Newton nel suo aureo libro, che porta il titolo di principi
della filosofia naturale, avendo dichiarato mere ipotesi tutte le spiegazioni,
che non erano dedotte dagli effetti. Questi dunque è stato il vero riformatore
dello studio della na tura, e la sua riforma fu operata col solo cambiamento
del metodo. Da lui in poi la Fisica ha abbandonato l'investigazione delle cause
a priori, ed è divenuta spe rimentale. - · Altra volta la Fisica distinguevasi
in ge nerale, e particolare, e questa dicevasi ancora sperimentale. Ma la
fisica gene rale era la metafisica de corpi, che cono scer voleva la
possibilità, le essenze, le cause, le relazioni, e gli accidenti degli Esseri
materiali. Noi abbiam conservato per abito delle scuole le antiche denomi
nazioni, ma diamo loro diversi significati. La fisica tutta intera è
sperimentale: chia miamo generale quella, che versa circa le proprietà comuni a
tutti i corpi: par ticolare l'altra che entra nella disamina delle proprietà
speciali de corpi e del loro componenti: le proprietà comuni sono l'estensione,
l'impenetrabilità, la divisibi lità, l'inerzia, la mobilità: altre non meno
generali, ma per così dire più recondite, perchè richiedono un maggiore studio
per esser poste in evidenza, sono la gravità, l'attrazione, la compressibilità,
e l'ela sticità: tra le proprietà generali la mobi lità è quella che apre alla
mente la co noscenza del moto e delle forze motrici, per le quali perveniamo a
spiegare le leg gi, d'onde nasce la possibilità, l'ordine e la uniforme e
costante successione dei fenomeni naturali. E però la Meccanica non solamente è
la principal parte della Fisica generale, ma è il fondamento di tutte le altre
scienze fisiche. Suo scopo è lo spiegare i fenomeni del corpi, che sono in
istato di movimento, o di ten denza al moto; il determinare la misura delle
forze, la velocità decorpi mossi, le resistenze loro, l'equilibrio che può
risul tare, tanto dalle dette resistenze, quanto dal concorso e dalla
composizione di più forze, applicate o ad un medesimo punto, o ad un sistema di
punti diversi. Abbrac cia ella ancora ogni sorta di moto rettili neo, o
curvilineo, e qualunque forza acce leratrice o motrice, il vapore, le pressioni
defluidi liquidi o aeriformi; potendo ancora essere applicata a valutare gli
effetti di qualunque altro agente della natura. Parli di questa scienza sono,
la Statica, che, versa circa i corpi duri, i quali sono in istato di
equilibrio; l'Idrostatica che trat ta dell'equilibrio de'corpi fluidi; la Dina
mica che si occupa del moto de corpi duri; l'Idrodinamica, che risguarda il
moto del le masse liquide. Riducendo in due classi generali le scienze che
risguardano il moto La ſisica generale prende ancora il no me di fisica
matematica, perchè senza il concorso e l'aiuto della geometria e del calcolo
non potrebbe valutare nè spiegare i fenomeni, i quali dipendono dalla mi sura della
quantità. Per tale concorso la meccanica è stata denominata, ora mate matica
mista in considerazione dell'appli cazione che facevasi degli astratti principi
della quantità a fenomeni naturali, e ora de corpi solidi, e de fluidi, si
assegnano, fisica matematica in grazia della necessa oggidì i primi alla
Meccanica, e i secondi alla Idraulica. V. Idraulica, Meccanica. Altra parte
delle scienze del moto e della Fisica generale, è la Meccanica celeste, la
quale ci spiega le leggi del moto, che regolano il corso periodico degli astri,
ed è con particolar denominazione chiamata l'astronomia geometrica. V.
Astronomia. Appartiene finalmente alla fisica gene rale anche l'Acustica, la
quale versa circa quella particolare spezie di moto, che ma nifestasi nelle vibrazioni
del corpi sonori. Suo obbietto è lo spiegare il fenomeno del suono prodotto da
quelle vibrazioni, le quali passando a traverso dell'aria atmo sferica, o di
altro fluido compressibile ed elastico, vengono a ferire l'esterne mem brane
dell'udito. V. Acustica. Quanto poi alla Fisica particolare, ver sando ella
circa le proprietà speciali dei corpi, abbraccia in primo luogo lo studio
de'fenomeni prodotti dalla varia azione, che esercitano su corpi i fluidi
imponderabili, come il calorico, l'elettricità, il magne tismo e la luce; ed in
secondo luogo la Chimica e la Fisiologia, delle quali l'una discende insino
alla investigazione delle molecule de corpi d'ogni sorta ; e l'altra svolge il
tessuto e l'economia della vita sen sitiva e animale decorpi organici. V. Chi
mica, Fisiologia, Fluido. ria associazione di ambedue quelle scienze. liteniamo
questa seconda denominazione come più generica, e più atta insieme a
comprendere la meccanica celeste, cono sciuta col nome di astronomia
geometrica. (V. il disc. prelim.). Fisico (crit.), addiet. Tutto quel che
appartiene alla natura, o alla scienza fisi ca. V. Fisica. Si adopera ancora in
signifieato di cor poreo o materiale, nel quale senso ha per suo contrapposto
il morale. V. Morale... FISIoGRAZIA (grec. sup.), il poter della natura, -,- -
FISIoGNOMONIA (erit.), arte di conoscere le qualità intellettuali e morali
dell'uomo per la ispezione del delineamenti del viso. Vuolsi distinguere
quest'arte dall'altra più antica di congetturare le qualità del l'animo da
tratti e dalla disposizione della fisonomia. La così detta fisiognomonia ri
conosce per suo primo autore il dotto me dico e notomista olandese Pietro
Camper (n. nel 1724 e m. nel 1789), il quale pretese misurare e graduare la
perfezione dell'intelletto per mezzo d'un angolo ch'ei chiamò faciale. Cotesto
angolo formavasi da una linea, che dal vertice scende verso – 249 – la radice
del naso, e da un'altra orizzon tale tirata dall'orecchio, che veniva con
quella a scontrarsi. L'angolo di novanta gradi era per l'autore l'indice della
per fezione. Le pruove della veracità di tal mi sura furono da lui ricavate
dagli esempi del bello delle greche fisonomie più, che dal perfetto
intellettuale e morale. Ma il suo assunto era altresì fondato sopra una falsa
supposizione anatomica. La linea ver ticale sarebbe caduta ad angolo retto
sopra l'altra orizzontale, se massima fosse stata la protuberanza dell'osso
frontale, la qual protuberanza era da lui data come una pruova del maggiore
sviluppamento dei lobi anteriori del cervello. Ora è dimostrato tra motomisti,
che la protuberanza dell'osso frontale non sempre corrisponde a quella del
cervello, perchè la distanza che inter cede tra due tavolati del cranio è
varia, d'onde segue che varia è pure la capacità de seni frontali. Non v'ha
dunque una naturale corrispondenza tra l'esterne pro tuberanze del cranio e le
interne del cer vello. In somma, il sistema di Camper fu un preludio di quello
di Gall, che apparve alquanti anni più tardi. V. Cranio, Cra niologia, Cerebro.
- FisioGRAFIA (grec. sup. ), descrizione della natura. FisIoLoGIA (crit. e
spee.), scienza del l'organismo, e della economia animale. È parte della
fisica, detta particolare, ed è la scienza madre di tutte le arti me diche,
perchè somministra loro la cogni zione delle leggi, le quali presiedono alla
economia, o sia alle funzioni vitali, na turali, o animali di tutti gli Esseri
orga nici, dotati di vita. Chiamansi vitali le funzioni che dipendono dalla
sana costi tuzione del cuore, devasi sanguigni, e del polmone: naturali quelle
degli organi nu trimentali: animali, quelle del cervello, de nervi e degli
organi delle sensazioni. Tutte le cennate funzioni son da questa scienza
considerate quali esse sono nello stato di perfetta sanità, che è lo stato nor
male della vita; d'onde poi ricava le sue regole generali intorno alla economia
del la vita, così sensitiva, come vegetativa, e animale. La teorica formata con
tali regole è quel che taluni han denominato biologia. V. questa voce.
Abbracciando ella i fatti e le leggi na turali, relative alla formazione, e
alle funzioni di tutti gli Esseri dotati di organi e di vita; prende il nome di
fisiologia generale, di cui son considerate come parti la fisiologia umana, o
antropologia, la comparata o sia quella degli animali inferiori all'uomo, e la
filologia, nome speciale, dato alla cognizione dell'orga nismo delle piante, e
dell'economia de gli Esseri dotati di sola vita vegetativa. I fatti, sopra i
quali fonda i suoi ragiona menti le sono somministrati dalla noto mia generale,
dalla comparata, e dalla fitotomia, che è la notomia delle piante. (Disc.
prelim.). V. queste voci. La fisiologia è stata da alcuni filosofi sensisti
risguardata come uno studio pre paratorio della psicologia; e da materia listi
è stata con essa confusa e identificata. Non neghiamo l'utilità che può questo
stu dio apprestare alla psicologia, facendole chiaramente distinguere i
fenomeni delle sensazioni, e il meccanismo, per lo quale la natura porta gli
esterni obbietti alla co noscenza dello spirito. Ma non può altresì negarsi,
essere stato il medesimo perni zioso per tutti coloro, i quali preoccupati da
una dottrina sistematica, o dal falso 52 – 250 - spirito della filosofia, non
han saputo, o voluto distinguere due ordini di fatti tra loro diversi, i
sensitivi cioè, e gl'in tellettuali. Cotesti fatti son tanto diversi, quanto
non hanno e non possono avere verun punto di contatto tra loro. Ciò non
ostante, dal perchè la sensibilità è ripo sta me nervi, i quali portano le
impres sioni ricevute in sino al cervello; e dal perchè, per la sensibilità
sviluppasi l'in telligenza, conchiusero i materialisti che l'intelligenza e
tutte le facoltà dell'animo stanno ne nervi. Una tal dottrina fu spinta
tant'oltre, che la psicologia fu considerata parte della zoologia; che le facoltà
dell'anima anda ronsi cercando nelle protuberanze del cra nio e del cervello; e
che delle due scienze, la fisiologia e la psicologia, ne fu fatta una sola, col
nome di frenologia. Tali sono l'estremità alle quali son corsi i mo derni
materialisti, per aver confuso i fatti della sensibilità con quelli della
intelligen za. V. Cervello, Cranio, Frenologia, Psicologia. FisioLogistA
(spec.), nome dato a quei filosofi, che han portato nella fisiologia lo studio
della psicologia. FISIoLoGo (spec.), chi coltiva la fisiologia. FIsIoNoMIA e
FIsoNoMIA (erit.), arte di congetturare le qualità dell'anima da li neamenti, e
dall'aria del volto. Come arte congetturale, somministra se gni e indizi
verisimili delle interne dispo sizioni dell'animo, spezialmente per lo mo vimento
degli occhi, che ne sono lo spec chio. Cotest'arte ebbe credito presso i Gre
ci, i quali la denominarono fisiognomia; e fu spezialmente trattata da
Aristotele, come un'arte che dicifera i segni, dalla natura impressi in ogni
spezie di animali, a guisa di altrettanti caratteri delle quali tà, che sono
loro proprie. Presso i moderni Giambattista Porta pretese rinnovare que si arte
ne libri della umana fisiognomia, de quali molto giovossi il Lavater ; sic come
il Porta erasi giovato depensieri di Aristotele e de suoi comentatori Polemone
e Adamanzio. In somma dalla influenza delle affezioni dell'anima sul corpo, e
dalle differenze caratteristiche delle diverse parti del corpo, pretese il
Porta ricavare i se gni cognoscitivi del carattere morale de gl'individui.
Roberto Fludd inglese, coe taneo di lui, insiem con tutte le arti mi steriose,
coltivò nel medesimo senso la fi. siognomia. Dopo di costoro Lavater nei saggi
fisiognomonici ed altri tornarono a trattar della fisonomia e del volto come
indice delle qualità, o almen di certe di sposizioni dell'animo; il che può
essere ammesso per vero, senza pretendere di trovare regole d'una certa e
determinata corrispondenza tra le forme materiali, e quelle dello spirito e
della intelligenza. Chi può dubitare, che nel movimento e nello sguardo degli
occhi non si vegga la pietà, l'ira, o la tristezza? Che nel moto stesso delle
ciglia e della fronte non si legga la modestia, o l'arroganza? Che il colore
del volto non annunzi il pudore? Che il moto delle labbra non manifesti la
disposizione dell'animo all'allegrezza, o alla mestizia? I passaggi che il
volto fa da uno decennati movimenti all'altro op posto, sono altrettante tinte
o gradazioni de due manifesti segni stabiliti dalla ma tura nel volto
dell'uomo, il riso, e il pianto. . D'altra parte, chi potrà negare che spes so
le più belle forme esterne nascondono – 251 - la fierezza e l'inumanità, e che
per con trario la più pura e candida virtù alber ghi ne più deformi corpi? V.
Volto. FirocRAFIA (grec. sup.), la descrizione delle piante, la quale non può
separarsi dalla Botanica e dalla Fitologia. FroLocIA (crit.), scienza delle
piante, nel quale generico significato sarebbe un addoppiatura del nome
botanica, comu nemente ricevuto, e potrebbe anche dirsi un grecismo superfluo.
- º In un senso meno ampio si adopera per denominare la fisiologia del
vegetabili, la quale giova che sia distinta dalla gene rale, e
dall'antropologia. FitoNoMAToTECNIA (gree. sup.), barba rismo, per lo quale si
è voluto da taluni recenti scrittori denominare l'arte di im porre i nomi alle
piante. - FIroToMIA (crit.), la notomia delle piante. FloRILEGIo (crit.),
scelta di amene com posizioni. E vocabolo perfettamente equivalente ad
antologia, dacchè contiene la stessa cosa espressa ora con due voci greche, e
ora con due altre latine; e per conseguente è un di quei sinonimi, che ci
vengono dalle nostre lingue madri. (V. il disc. prelim.). FLUIDITA' (spec.), lo
stato del corpi, che chiamiamo fluidi. - Si considera come il contrapposto
della durezza e della solidità. V. Durezza, Flui do, Solidità. FLUIDo (spee.),
corpo di cui le parti son libere e indipendenti tra loro, e però muovonsi in
ogni senso per qualunque pic ciola pressione. Lo stato di fluidità è l'opposto
della so lidità, quantunque la partizione de corpi in solidi e fluidi nasca da
un concetto più comune, che scientifico. Tra la soli dità, la mollezza, e la
fluidità la natura ha messo una tale gradazione, che non si può assolutamente
risguardare la soli dità, o la fluidità, come una delle due condizioni
necessarie di tutti i corpi. Se la cennata comune partizione s'intendesse in un
senso rigoroso, resterebbero fuori dell'una e dell'altra classe i liquidi
viscosi, le polveri, i corpi molli, i quali più o meno partecipano della
solidità e della flui dità insieme. La distinzione non pertanto delle due
cennate classi è fondata non solamente so pra una verità di senso, che possiamo
prendere a guida nell'analisi del fenomeni propri dell'uno o dell'altro stato,
ma an cora sopra la verità della causa, da cui nasce, tanto la differenza del
solido e del fluido, quanto la gradazione tra essi. Que sta causa è la forza
della coesione, di cui il massimo grado produce la solidità, e l'infimo la
fluidità. Scelgansi gli estremi dell'una e dell'altra, e facciansi da essi
rappresentare le rispettive loro classi, il granito, e l'acqua pura. Niuno
potrà non ravvisare una differenza caratteristica tra l'uno e l'altra, e
ciascuno riconoscerà la necessità di andare con altri nomi spie gando gli stati
intermedi tra quello e que sta. V. Coesione. La perfetta fluidità dell'acqua è
provata dall'esatto livello della sua superficie, al lorchè è in riposo; a
differenza de fluidi viscosi e delle polveri, le quali possono stare in riposo
sopra una obliquità più o meno grande. Una tal differenza nasce, º – 252 –
dacchè le molecule perfettamente libere e disunite non possono stare in
equilibrio alla superficie, se questa non è perfetta mente orizzontale, o per
meglio dire per pendicolare alla direzione della forza di gravità in ogni suo
punto. Parlando dunque dell'acqua pura, co me del perfetto fluido, noi siamo
soliti considerarlo come il primo agente della natura, o sia come l'instrumento
princi pale, per lo quale si operano la compo sizione e la trasformazione de
corpi solidi; come l'elemento necessario alla vita degli animali aquatici,
terrestri, e volatili; co me il principio fecondante della vegeta zione; e come
il motore e l'instrumento insieme delle arti e della industria dell'uo mo. A
differenza della materia solida, la natura genera, e fa nascere l'acqua sotto i
nostri occhi, ne forma i mari, i fiumi ei laghi; e non è in questa parte delle
opere sue men grandiosa, varia, e ammirabile, che nelle altre produzioni
dell'universo. E però non è scienza o arte, in cui non en tri per qualche parte
lo studio del fenomeni e delle proprietà dell'acqua. La geologia osserva
l'andamento de suoi corsi, e gli effetti delle sue infiltrazioni per conoscere
come fu il mondo plasmato: la geografia, per circoscrivere le grandi masse
d'acqua, che circondano la terra, o che scorrono per la sua superficie: la
Fisica generale, per ispiegare le leggi del moto e dell'equi librio de fluidi:
la chimica per conoscere i componenti dell'acqua insieme colle pro prietà di
questi; la fisiologia per applicarle alla economia del corpo umano. Infine le
arti tutte fanno dell'acqua quello stesso moltiplice uso, che ne ha fatto la
natura. Qual maraviglia, che l'antica Filosofia spe culativa la quale cercava
d'investigare l'es senza di tutte le sostanze naturali, avesse preteso ancora
conoscere la causa della fluidità ? I democritici pretendevano, che gli ato
metti i quali compongono i fluidi, doves sero essere lisci e rotondi, siccome
cel dice Lucrezio: Illa autem debent ea levibus atque rotundis Esse magis
fluida, quae corpore liquido constant. I peripatetici e gli scolastici andarono
ancora lungamente vagando intorno alla causa della fluidità: taluni
l'attribuirono alla forza d'un agente esterno: altri al moto perpetuo: altri al
fuoco: altri all'at trazione: altri alle affinità chimiche. Il vero è, che
ignoriamo del pari la causa della fluidità, e della durezza o coesione de'so
lidi. Lasciamo alla Fisica l'analisi delle proprietà dell'acqua e del loro
effetti, e li mitiamoci alla sola indicazione del caratteri, che distinguono le
varie spezie de fluidi. Son questi di tre sorte, liquidi, gassi, e vapori, le
quali ultime due spezie per talune qualità che son loro comuni, pren dono
spesso il nome di fluidi aeriformi. Il carattere proprio e discernitivo del
primi è la incompressibilità, laddove gli aeri formi hanno per loro qualità
caratteristica la compressibilità, da cui nasce ancora la dilatabilità, e
l'elasticità. V. Gas, Vapore. - Si distinguono poi i gassi da vapori, per
essere i primi permanenti, e i secondi temporanei. L'idrogeno, l'azoto,
l'ossige no ec., considerati isolatamente, non la sciano mai lo stato loro
aeriforme, quan dochè i vapori dell'acqua, o di altre so stanze liquide, col
solo abbassamento della temperatura ripigliano lo stato liquido dei corpi, da
quali furono emanati. Quanto alla compressibilità si può dir di essa quello
stesso, che abbiam detto – 255 – della fluidità, e che diremo della solidità,
cioè che è una qualità non assoluta ma relativa a nostri sensi, e alle
ordinarie forze di pressione. L'Accademia del Ci mento fu la prima a
stabilirla, mediante l'esperimento dell'acqua rinchiusa in una sfera d'oro, che
soggettò ad una fortissi ma pressione. L'effetto di tale sperimento fu, che in
luogo di restrignersi di volu me, l'acqua trapelò pe'pori di quel com
pattissimo metallo; il che venne a confer mare quell'altra comune sperienza,
che si fa chiudendo un liquido in un vaso, e eser citando su di esso una forte
pressione me diante uno stantuffo; ovvero avvicinando le pareti d'un vaso, in
cui l'acqua tro visi rinchiusa per diminuire lo spazio dallo stesso fluido
occupato. Nell'uno e nell'altro caso non si perviene mai colla forza delle
ordinarie pressioni a diminuire il volume del fluido; ma per contrario gli
effetti di quella forza mostransi sopra le pareti del vaso, o facendo trasudare
l'acqua pepori di quelle, o vincendo la forza della loro resistenza. - In
contrario delle cennate sperienze non sapevano i fisici persuadersi, che
l'acqua non fosse per nulla obbediente alla forza di compressione, dapoichè ella
dimostra avere una certa elasticità, allor quando trasmette il suono. Alla
perfine gli esperi menti del più recenti fisici, e spezialmente l'apparato del
celebre signor Oersted, sem brano aver dileguato il dubbio, e dato la giusta
misura della compressibilità dell'ac qua. Mediante il cennato apparato dimo
strasi, che sotto la pressione d'una colonna di mercurio dell'altezza di 76
centimetri (il che equivale al peso d'un'atmosfera), ottiensi la diminuzione di
quarantasei mi lionesimi di parti del volume dell'acqua. Cotesta infinitesimale
diminuzione scioglie forse il dubbio scientifico, circa l'incom pressibilità
assoluta, ma non vieta che que sta si stabilisca come il carattere discerni
tivo de fluidi liquidi, o sia dell'acqua. Ma l'acqua, come corpo soggetto
all'azione del calorico presentasi a noi in tre diversi stati, cioè di solido,
o sia di ghiac cio, di fluido liquido, e di fluido aerifor me, o sia di vapore.
Checchè ne abbian pensato taluni fisici, a noi sembra, che lo stato fluido
debba essere considerato come il naturale, e gli altri due come modi di essere,
cagionati dall'abbassamento della temperatura, o dall'azione del calore. Im
perocchè o si riguardi la maggior quan tità del fluido che la natura ha distri
buito per le diverse parti del globo , o la maggior importanza degli usi e de
bi sogni, a quali il fluido provvede; o la proporzione tra le basse e le
elevate tem perature dello stesso globo, non può non considerarsi come
ordinaria la fluidità in un corpo, che sotto questa forma è ne cessario e
indispensabile non meno alla economia della natura, che alla vita de gli Esseri
destinati a popolare la terra e le liquide masse del mare. Che se lo stato di
fluido dovesse essere considerato come accidentale, e come primitivo e naturale
quello del gelo e del ghiaccio, falsa ed erronea sarebbe la partizione de corpi
in solidi e in fluidi, e di questi dovrebbero i Fisici trattare, non come di un
genere di sostanze diverse dal solido, ma come di semplici modificazioni
prodotte dalla forza repulsiva del calorico. V. Gelo, Ghiaccio. FLUssioNE
(crit.), la differenza delle quantità matematiche variabili, così chia mata da
Newton. Quel che nell'algebra infinitesimale Leibnitz chiamò differenza, fu
detto da Newton flussione, dacchè avendo egli con siderato le quantità
matematiche, come generate dal moto, determinar volle il rap porto delle
velocità variabili, colle quali tali quantità vengon descritte. Tali velo cità
sono quelle, ch'egli chiamò flussioni delle quantità. Le quantità infinitamente
picciole furono dal Newton chiamate momenti, perchè con siderate come
incrementi o decrementi di quantità variabili, dette fluenti. Tranne i nomi e i
segni caratteristici delle differenziali, i metodi di Newton e di Leibnitz sono
gli stessi. V. Differen ziale. - FLUTTUAMENTo e FLUTTUAZIONE (prat.), senso
traslato, per lo quale esprimiamo tanto l'incertezza e i dubbi dell'animo,
quanto la variabilità della vita, e della fortuna. È più dell'agitazione, e
dell'on deggiamento. V. queste voci. FoLLEzzA e FoLLIA (prat.), levità di
mente, che fa cader l'uomo in vani pen sieri, e in azioni non giuste. Ha
diversi gradi, dacchè comincia dalla leggerezza, e quando sia divenuta abi
tuale, mena alla perdita del senno. Quando non è considerata come abitua le, si
riferisce alle azioni, e non a vizio della persona; nel quale senso chiamansi
folli anche le azioni dell'uomo sano, che son fatte senza avvedimento. Nello
stato abituale poi val meno di demenza, dac chè non esclude qualche lucido
intervallo. V. Demenza. FoMrre (prat.), incentivo a soddisfare gli appetiti
viziosi. E termine adoprato da moralisti per espri mere l'accensibile delle
passioni. FoNICA (gree, sup.), lo stesso che Acustica. FoNoLoGIA (gree. sup.),
altra addop piatura dell'Acustica, per la quale si vuol dinotare l'arte di dedurre
da principi geo metrici la natura, la cagione, gli effetti, e le proprietà del
suono. l principi geome trici intanto possono determinare la mi sura e per essa
le regole del suono, in quanto ne calcolano il moto a traverso dell'aria, o di
altro fluido compressibile; il che appunto è l'oggetto dell'Acustica. V.
Aeustica. - FoRcosTUMANZA (prat.), costume illibe rale d'uomo non educato, e
vile. FoRMA (ontol. e spec.), la naturale disposizione delle parti costitutive
de corpi, d'onde derivano la figura e le qualità loro. Scambiasi talvolta la
forma coll'essenza, comechè nel linguaggio filosofico l'essenza sia diversa
dalla forma; dinotando quella l'idea astratta del costitutivo del corpi, e
questa il complesso attuale delle loro qua lità essenziali, a giudizio del
sensi. V. Es S627220. Altra volta si è data a questo vocabolo un significato
astruso e metafisico, che è stato sorgente di vane scolastiche qui stioni. -
Aristotele chiamò forma, atto, o per fezione il principio compagno della mate
ria nella generazione di tutte le cose. Per forma intese egli una spezie di
anima for matrice, dalla quale le cose ricevono l'es senza, le qualità, le
facoltà, l'attività, il perchè fu detta ancora forma sostanziale per
distinguerla dalle forme accidentali, o sia dalla figura, dalla grandezza e
dalla disposizione artifiziale delle parti d'un cor po. In somma la forma
sostanziale de corpi 5ù – pesanti, è quel che gli fa discendere giu sta le
leggi della gravità loro, siccome quella del corpi leggieri gli fa montare.
Similmente dalla forma sostanziale dell'oro nasce la duttilità, la fusibilità,
il peso, il colore, ed ogni altra delle qualità che gli sono proprie. Il
cangiamento delle for me accidentali produce una semplice alte razione; laddove
quello della forma so stanziale produce distruzione, o sia corru zione e nuova
generazione. V. Materia. I platonici chiamarono forme le idee o i tipi
immutabili, sopra i quali i corpi fu rono modellati, il perchè le considerarono
come esseri eterni, di per loro stessi esi stenti. V. Idea. I Latini
scambiarono la voce greca tèsx. co vocaboli species e forma. Ma Cicerone
desiderò che ben si distinguesse il signifi cato de tre nomi species, notio, e
for ma. Per forma egli intese quella idea uni versale, nel cui concetto sta il
principio costitutivo del genere: genus est notio ad plures differentias
pertinens: forma est notio, cuius differentia ad caput ge neris, et quasi
fontem referri potest notio est, quod Graeci evyoto, dicunt, insita, et ante
percepta cujusque formae cognitio, enodationis indigens: formae igitur sunt
hae, in quas genus dividitur sine ullius praetermissione, ut si quis jus in
legem, morem, aequitatem divi dat. (Topica S.VII.). V. Genere, Idea, Mozione,
Spezie. - - , Bacone indicò la nozione della forma, come una di quelle confuse
e indetermi nate idee della scuola aristotelica, che con veniva sbandire, onde
richiamare la filo sofia dal fantastico alla realità. Rant ha richiamato in uso
il vocabolo forma, che adopera tanto per lo mate riale, quanto per le qualità
costitutive de gli Esseri intelligenti; il perchè ogni fa coltà cognoscitiva ha
le sue forme. Cotesto significato, del tutto metafisico, ha la sua radice in
una similitudine impropria, ri cavata dalla tempera, o dalla impronta, la quale
lascia la sua orma sopra quella materia molle che la riceve. Laonde for me
dello spirito, o dell'intelligenza son per lui le verità inerenti alle facoltà
intel lettive, che determinano la natura e la ca pacità loro. E siccome egli
ammise tre fa coltà cognoscitive, cioè la sensibilità, l'in telletto e la
ragione, così assegnò a cia scuna le proprie forme, delle quali formò un
catalogo di nuove categorie. V. Ca tegoria, Intelletto, Ragione, Sensibilità.
La percezione degli obbietti sensibili, è sempre accompagnata dall'idea del
tempo e dello spazio, dapoichè tutto quel che dai sensi ci viene, si concepisce
da noi nel tempo e nello spazio. Il tempo dunque e lo spazio son due forme
necessarie della sensibilità. V. Spazio, Tempo. I giudizi, che sono gli atti
propri del l'intelletto, han pure le forme loro, le quali sono la quantità, la
qualità, la re lazione, la modalità, o sia la nozione del modo. Imperciocchè
ogni nostro giu dizio risguarda o il più e il meno delle cose, o la qualità
loro, o la relazione de gli obbietti che tra loro compariamo, o il modo col
quale l'animo concepisce l'esi stenza delle relazioni, che formano l'ob bietto
dello stesso giudizio, che è quel che Kant chiama modalità. Ma ciascuna delle
cennate quattro spe zie di giudizi ha le sue categorie. I giu dizi di quantità possono
versare o circa uno, o circa più individui, o circa la ge neralità, il perchè
essi presuppongono in noi le nozioni di unità, di pluralità, e di totalità. I
giudizi di qualità poi, o di - 256 - rettamente affermano la qualità del sub
bietto, o la negano; ovvero l'affermano indirettamente, negando cioè la proposi
zione contraria; dal che nascono tre sorte di giudizi, l'affermativo, il
negativo, e il determinativo, i quali presuppongono tre altre nozioni
primitive, cioè la realtà, la negazione, e la determinazione. Quanto a giudizi
di relazione, questi versano, o circa un attributo che si considera come
esistente nel subbietto; o circa una propo sizione la quale è collegata ad
un'altra, considerata come principio, da cui quella deriva; o circa due o più proposizioni,
delle quali ammessa una, restano le altre escluse. Cotesti giudizi son chiamati
da Kant positivi, de quali i primi son detti ipotetici, i secondi disgiuntivi,
e reci prochi i terzi. Ciascuno di essi presup pone in noi le nozioni primitive
di so stanza, di causa, di reciprocazione. In fine ne giudizi di modalità le
cose sono considerate, o come solamente possibili, o come attualmente
esistenti, o come me cessarie, dal che nasce una triplice par tizione di
giudizi problematici, di giudizi da asserzione, e di giudizi dimostrativi, o
apodittici. Ciascuno di cotesti giudizi presuppone una mozione primitiva, cioè
la possibilità, l'esistenza, e la necessità. Segue poi la ragione, la quale non
ha altra forma se non la generalità, dapoi chè ella va sempre risalendo
dall'effetto alla causa per trovare un principio gene rale, che non dipenda da
altro. Ora il concetto della generalità presuppone l'al tra mozione primitiva
dell'assoluto, e non condizionale. In conclusione Kant ripro dusse un nuovo
catalogo di categorie, non degli obbietti del pensiero (come facevano gli
aristotelici), ma delle verità primitive, inerenti a ciascuna delle facoltà
dell'ani ma, che egli chiamò forme. Tali sono, il tempo, lo spazio, l'unità, la
plura lità, la totalità, la realtà, la negazione, la determinazione, la
sostanza, la causa, la reciprocazione, la possibilità, l'esisten za, la
necessità, l'assoluto. V. queste voci. In sino a che i filosofi non parleranno
una lingua comune, e non converranno intorno al significato del vocaboli propri
alla scienza, quel che questa potrebbe gua dagnare pe pensieri di qualche
profondo pensatore, si confonderà nel senso miste rioso delle astrazioni e
nell'ambiguità delle neologie. A buon conto, Kant chiama for me della
sensibilità e dell'intelligenza quelle nozioni primitive, che gli altri han
chia mato primi principi, verità intuitive, prime verità, o verità del comun
senso. Se poi le sue forme abbiano il carattere di prime verità, è una
quistione, di cui la soluzione dipende dalla disamina della genesi loro, o sia
dal vedere, se sieno per loro stesse evidenti, o se nascano da altre di loro
più chiare, ed intuitive. V. Principio, Senso, Verità. FoRMALE (ont. e spec.),
quel che na sce dalle qualità che noi risguardiamo, come costitutive delle cose.
, Differisce dall'essenziale, come l'essenza dalla forma. V. Essenza, Forma. -
Causa formale è stata detta quella che rende ragione dello stato decorpi per ri
spetto alle parti che li compongono, nel quale senso la forma stessa potrebbe
dirsi causa dell'essere loro. V. Causa. - FoRMIDABILE (prat.), la forza o
l'uomo che si teme con ispavento. - È più del terribile, perchè questo vo
cabolo si riferisce all'atto, e quello alla potenza. V. Terribile. - FoRmDINE
(prat.), latinismo ricevuto nella nostra lingua che prende il suo si gnificato
dall'antico, e vuol dire timor vee mente che ispira orrore. - Cicerone ne dà la
definizione stoica, cioè di timore permanente. E però il timor della pena è
stato detto formidine. V. Timore. FoRMoLA (dise. e spee. ), sentenziosa
enunciazione d'una generalità, atta a spie gare o a risolvere molti casi
particolari. Altravolta i giureconsulti davano le for mole per la regolarità
del loro atti legitti mi. Coteste formole eran pure generalità, ricavate da
atti particolari simili, capaci di formare un genere o una spezie, a quali
volevasi dare un carattere di esteriore uni formità. - Indi l'aritmetica, e
soprattutto l'alge bra, cominciò a chiamare formole quei prodotti generali del
calcolo, i quali con tengono la soluzione di molti casi partico lari, e sono
enunciati con poche cifre nu meriche, o letterali. L'uso di tali formole ha
grandemente contribuito a progressi del le scienze matematiche; tra perchè ha
som ministrato un mezzo facile per ritenere e diffondere le verità trovate; e perchè
è stato uno de mezzi pe quali il metodo ana litico ha scoverto la connessione
tra i fe nomeni particolari e le leggi generali della Ilatura. Dalla matematica
e dalla fisica, l'uso delle formole è passato ancora nella filo sofia
speculativa, e per sino nelle scienze positive, alle quali si è applicato il
crite rio filosofico. La storia, la politica, l'eco nomia publica,
l'erudizione, e in una parola sola, l'esperienza sonsi al nostro tempo
invaghite dell'uso delle formole, e credon pregio dell'opera il ridurre a
verità generali anche le coincidenze de'fatti par ticolari. Noi non condanniamo
una tale' tendenza, ma crediam vedere la ragione dell'abuso che se ne fa, in
taluni falsi prin cipi della moderna filosofia. Le generalità per esser vere,
uopo è che sien logicamente dedotte da una ragione comune a tutti i fatti
particolari i quali voglionsi in essa comprendere. Cotesta ra gione comune
esser dee la loro causa eſ. ficiente, o la origine dalla quale ripetano la
somiglianza delle relazioni loro. Allor chè da particolari si sale al generale
è fa cile trovare il punto di connessione nel quale tutti si scontrano; ma
quando da una causa presunta vogliansi far discen dere i particolari,
facilmente stabilisconsi false somiglianze ed erronee connessioni. La conseguenza
è , che le generalità deb bon essere formate a posteriori, e non a priori,
della verità della qual conclusione troviamo una pruova nelle categorie della
antica logica, e ne pretesi assiomi della dogmatica filosofia. Del resto la
ricerca delle cause diviene assai più ardua per que gli effetti, i quali
possonsi ripetere da più cause coefficienti. In tal caso essendo com plicata e
composta l'azion di queste, è dif. ficile tanto nell'un metodo quanto nell'al
tro il determinare, la parte di ciascuna di esse; ma la cennata difficoltà è
incom parabilmente maggiore, se tali cause vo gliansi stabilire a priori. Ora
sembraci di vedere, che l'amor delle formole nella filosofia speculativa e nel
cri terio filosofico siesi introdotto precisamente dal tempo, in cui talune
scuole filosofiche, han cominciato a spacciare una facoltà tra scendente, per
la quale l'animo crede di vedere a priori la ragione di tutte le cose, e
sistematicamente spiega anche i fatti con tingenti dell'uomo. A senso loro il
passato, il presente, e il futuro sono concatenati in 35 sieme per una
necessaria connessione, la quale procederà sempre insino ad una com piuta
perfezione di tutte le umane facoltà. Con tale assicuranza l'animo in ogni par
ticolare vede la conseguenza d'una causa già determinata, e però astrae, genera
lizza, e riduce in formola per sino i fatti figli della libera volontà
dell'uomo.V. Eco nomia, Filosofia, Storia. - FoRMoLARE (disc. e spec.), il
ridurre in formole. - - È vocabolo nuovo, introdotto dall'uso e dalla moda di ridurre
tutte le verità ge nerali in formole. FoRTEzzA (prat.), virtù per la quale
sopportiamo pazientemente la fatica e il do lore, ed affrontiamo il pericolo
senza ti IllOre, Cotesta definizione è di Cicerone. La for tezza, dice Seneca è
l'imperio che eserci tiamo sopra i propri affetti; ingens par que deis regnum:
imperare sibi, maxi mum imperium est. - , FoRTUIro (prat.), quel che interviene
contra la nostra espettazione, o di cui non troviamo ragione nel natural ordine
delle COSC. Il fortuito è una qualità, che diamo a tutto quel che consideriamo
avvenuto per caso. V. Caso. FoRTUNA (prat.), Essere immaginario, che dispensa i
beni e i mali, e presiede a fortuiti avvenimenti, lieti o tristi che sieno. -
L'idea, o per meglio dire, la fantasi ma di quest'Essere ci vien dalla supersti
zione degli antichi, e dalle immagini dei poeti. L'uso l'ha fatta passare ne
moderni, - idiomi, ne quali è adoperata, come un vocabolo di vago significato,
che esprime ora l'occulta ragione degli avvenimenti na turali, ora la mutabilità
delle cose uma ne e la caducità del beni esteriori della vita, e ora la stessa
condizion dell'uomo. De'quali vari significati, che gli dà l'uso del parlar
comune, quello che più si ac comoda ad un giusto senso morale, è l'in visibile
ragione, che presiede all'ordine del le cause naturali, e di cui disse Dante:
Ordind 9eneral ministro e duce - Che permutasse a tempo li ben vani - Di gente
in gente, ed uno in altro sangue Oltre la difension de'senni umani. Fonza
(ontol e spec.), virtù di muo vere, o di produrre un cangiamento nello stato de
corpi. V. Cangiamento, Moto, Wolfio definì la forza, un continuo co nato
dell'azione, la quale tende a can giare lo stato esterno o interno del sub
bietto, sul quale si esercita. Noi concepiamo nel moto de corpi due forze
contrarie: una, che imprime il moto, l'altra, che resiste alla impressione rice
vuta. La prima fu detta da Newton vis impressa, la seconda vis inertiae. Per
forza impressa egl'intese l'azione esercitata sopra qualche corpo, per mutare
il suo stato di resistenza: per forza d'inerzia la qualità propria ad ogni
corpo di per durare nello stato di quiete o di moto, insino a che un altro
corpo non venga a sturbarnelo. Ma lo stesso nome di forza, dato al prin cipio
dell'azione e della resistenza, con fonde il significato attivo col passivo. In
fatti lo stesso Newton avvertì che la forza dell'inerzia è un principio
passivo, per lo quale i corpi persistono nello stato di quiete e di moto, e
resistono alla forza impressa colla stessa proporzione, colla quale que sta
tende a mutare lo stato loro. Ciò non ostante Leibnitz introdusse la
distinzione e la denominazione di forze vive o morte, considerato avendo la
forza, o nello stato libero di azione, o nello stato di semplice potenza,
perchè frenato da un ostacolo. Ma di ciò la Meccanica.V. Conato, Inerzia. La
forza è diversa dalla causa, e dalla potenza, comechè gli scolastici l'abbiano
spesso scambiata coll'una e coll'altra. Per causa intender vogliamo l'azione
produt trice del cangiamento, o sia dell'effetto; per potenza, la capacità di
produrla; e per forza, il comato ridotto in atto, col rimovimento
dell'ostacolo, o sia della re sistenza. V. Causa, Potenza. Lo stesso vocabolo
trasportato alle cose morali, e agli obbietti intellettuali, riceve uno di quei
significati di similitudine, dei quali l'intelligenza è determinata dalla na
tura stessa del subbietto, cui vengono ap plicati. Così diciamo la forza
dell'ingegno, dell'immaginazione, del ragionare, o la forza degli affetti,
degli appetiti, delle passioni, ed altro. FossILE (crit. e spee. ), sostanza
natu rale, che giace riposta nel seno della ter ra. V. Sostanza. - - -
Distinguonsi i fossili in nativi e stra nieri. Mativi sono, i generati nel seno
stesso della terra, come le pietre, i cri stalli, le gemme, i metalli.
Stranieri di consi gli altri i quali vi si trovano per accidente, che gli ha
ivi trasportato. Son questi i fossili, lo studio de'quali somministra alla
geologia i principali ar gomenti, sopra i quali ella fonda le sue congetture
intorno alla prima formazione della Terra, e alle sue successive muta zioni.
Tra questi ella spezialmente consi dera i corpi organici petrificati, i terre
stri, i marini, e quelli che in epoche ri motissime hanno abitato il nostro
globo, e ora più non si trovano tra le spezie co nosciute. V. Geologia. - I
fossili formano, nella partizione del le produzioni naturali, uno de così detti
regni della natura, cioè l'animale, il vegetale, e il fossile. Se questa
partizio ne possa dirsi compiuta, vedi il discorso preliminare. - i Faase (dise),
locuzione considerata per rispetto al buono o cattivo assortimento del le
parole. È diverso dalla proposizione, la quale può essere espressa con più e
diverse frasi. V. Proposizione. - FRAUDE e FRoDE (prat.), violazione del
diritto altrui, commessa con astuzia, o in ganno. - E diversa dal dolo, che
esprime l'in tenzione più che l'atto. V. Dolo. FREDDEzzA (prat.), senso
traslato dal ghiaccio, che esprime privazione di senti mento, o pigrizia
nell'azione. . FREDDo (spee.), sensazione contraria al caldo, prodotta dalla
privazione del ca lorico. V. Caldo, Calorico. FREMERE e FREMITo (prat.), senso
tra slato dal romore che fa l'aria, o il vento racchiuso, per esprimere
l'interno moto, che suscita la rabbia, o lo sdegno vee mente. FRENESIA (prat.),
delirio continuato, o pazzia accompagnata da furore. V. Furore, it – 260 –
FRENoLoGIA (erit.), e nuova dottrina, che spiega le varie funzioni
dell'intelletto, e le sue più minute operazioni, per le ana tomiche
disposizioni dell'encefalo; e spe zialmente per le forme geografiche della
superficie di quello, e per la estensione comparata delle sue piegature ».
Ovvero, « dottrina dello spirito, della in telligenza, e delle facoltà
intellettuali ». La prima definizione spiega la natura della scienza, e
potrebbe dirsi reale, la seconda spiega solamente il nome. Tali sono le
definizioni che si danno della frenologia, da suoi fautori, da quali con viene
prenderle per formare un giusto con cetto del sistema loro, e del principi, so
pra i quali è fondato. Il dottor Gall fu il primo suo fondatore: Spurzheim gli
diede il nome di frenolo gia, per poter meglio identificare la psi cologia
colla fisiologia: l'identità dell'una e dell'altra scienza credesi già
dimostrata dapresenti frenologisti: la psicologia è ri caduta nelle mani del
fisiologisti, dal che è nata non solamente una psicologia fisio logica, ma
ancora una psicologia pato logica, la quale ne fenomeni della pazzia ci
dimostra le sorgenti delle facoltà e delle operazioni dell'intelletto: i
sezionatori e i preparatori anatomici son divenuti profes sori di psicologia,
della quale se taluno volesse compiangere lo stato, potrebbe ben dire, di
essere stata confinata all'ospedale. Scorriamo rapidamente, e senza antici
pazione di giudizi, la serie delle nuove idee frenologiche, secondo la
sposizione di un recente libro, nel quale l'autore ha detto di voler
determinare il vero valore delle antiche e delle nuove dottrine psico logiche,
purgandole ancora da quel che di falso e di esagerato vi hanno intruso le nuove
scismatiche società di frenologisti, che sonsi allontanati dalla purità della
dot trina di Gall e di Spurzheim. Noi non ci tiamo l'autore di tale libro
perchè lo sup poniamo vivente; e per quel che concerne le idee elementari della
dottrina di Gall, ci riferiamo a quel che ne abbiamo accen nato nell'articolo
cerebro. (V. ancora il primo vol. di questi saggi pag. 322). Principi della
Frenologia. « Sin da primordi dell'umano sapere, i filosofi ammisero una
pluralità di facoltà nello intelletto, alle quali riferirono le sue diverse
operazioni. Agli antichi han fatto eco i moderni, tra quali gli ultimi hanno
ampliato il numero e le partizioni delle facoltà. La generalità del filosofi di
tutti i sistemi conviene essere coteste facoltà in mate. Bene intendendo gli
autori che han più fortemente pugnato per le idee innate, e tra questi Platone,
Cartesio, e Leibnitz, non hanno essi inteso concedere come in nate le idee o le
facoltà intellettive, ma sì bene le inelinazioni, le disposizioni, le
virtualità, in una parola il sentimento e non l'intelligenza ». « Per molto
tempo la psicologia ha cer cato d'isolare l'uomo nella natura, e di dare
risalto agli attributi o facoltà che lo distinguono da bruti; quasi che volesse
pro durre i titoli della superiorità della spezie umana a rispetto delle altre
creature, e giustificare l'imperio che sopra di quelle esercitava. Dopo il
trascorrimento di molti secoli, e quando aveva già acquistato la sicurezza di
non perdere una tal superio rità, ha cominciato a cedere ad una parte delle sue
pretensioni, ed ha consentito di scendere di qualche grado nella scala, che lo
avvicina ad altre spezie di animali più immediate. Ciò non ostante sin da tempi
– 261 – della rimota antichità apparisce qualche barlume di quelle
rettificazioni che fa oggi la frenologia. Aristotele, attesa la mag gior
cognizione che ebbe della storia na turale e delle scienze morali, ammise, ol
tre l'anima razionale, un'altra anima irra zionale o sensitiva, nella quale si
svilup pano i vizi e le virtù. Quelli che non hanno espressamente riconosciuto
la pluralità del le anime, hanno più o meno distinto le fa coltà concupiscibili
o irascibili dalle razio mali; l'appetito dalla volontà; il sensitivo o
materiale dall'immateriale; l'intellettivo dall'attivo. Intanto la psicologia
continua va a considerare l'uomo intellettuale di verso dall'uomo pratico; in
pruova di che gli appetiti, gli affetti, la volontà non en travano per nulla
nella considerazione, e nell'analisi delle sue interne operazioni. In somma in
tutti i sistemi di filosofia apparsi insino a Reid e a Gall (e quì preghiamo
Reid di sopportare per poco la colleganza di Gall) si è fatta l'analisi della
sola parte intellettuale del pensiero, e non si è tenuto alcun conto degli
appetiti, delle inclinazio ni, degli affetti e delle passioni. La scienza
psicologica ha ricevuto il suo compimento quando è stata trattata sotto l'uno e
l'altro aspetto insieme, il sensitivo cioè e l'intel lettivo. Un tal progresso
della scienza co mincia da Hutcheson, ma è poi compiu tamente sviluppato da
Reid e da Gall». « Il sistema di psicologia di Reid vince tutti gli altri,
perchè non ha ommesso la parte sensitiva; perchè l'ha compresa tra le facoltà,
delle quali ha dimostrato la qua lità d'innate; perchè tratta delle facoltà,
non come di pure astrazioni, ma come di generi e di serie di azioni, che da
quelle ripetono il principio loro; e finalmente per chè le facoltà attive e
morali dell'uomo son considerate come anteriori e maggiori ancora delle
intellettive. La parte più no tabile del suo sistema è quella, che ris guarda
le facoltà attive, tra le quali entrano i così detti principi d'azione,
gl'istinti, gli abiti, gli appetiti, i desideri, gli af, fetti, e dopo questi i
principi razionali, come l'interesse bene inteso, e il senso del dovere. Le
facoltà che ci son comuni co bruti, dice il cennato autore, manife stansi prima
della ragione: noi siamo ani mali irragionevoli, e non pertanto dotati di
volontà, molto tempo prima che meri tassimo il nome di animali ragionevoli:
sebbene la ragione e la virtù sieno le pre rogative dell'uomo, pur tutta volta
son le ultime a svilupparsi: sviluppate non fanno nascere in noi nuove facoltà,
perchè re stiamo con quelle che Dio ci ha dato. Inol tre nell'esame del
rapporto che lega insieme l'intelletto e la volontà Reid non solamente considera
queste due facoltà come insepa rabili, ma sempre suole risguardare l'in
telletto, come un modo di azione della vo lontà. In una sola cosa Reid è rimaso
puro psicologista, e non si è dimostrato buon fisiologista, nell'applicazione
cioè degli esposti principi alle pratiche quistioni della libertà, o sia del
libero arbitrio ». « Unendo insieme quel che gli antichi psicologisti avevano
separato, cioè la vo lontà e l'intelletto; e ritenendo tutto quel che Reid
aveva detto intorno alle facoltà attive, Gall venne a spiegare gl'intimi rap
porti tra l'intelletto e la volontà, anzi a dimostrare, come quello dipenda da
que sta. L'uomo non vive per fare uso dell'at tenzione, della memoria, del
giudizio, e della immaginazione; ma vive per obbe dire alle impulsioni della
natura sensitiva, che vuol dire, de suoi bisogni, de desideri e delle passioni.
Le grandi facoltà intellet tuali altro non sono che interni instrumenti - 262 –
di quelle potenze, siccome i sensi ne sono gl'instrumenti esterni. La volontà e
non l'intelletto prender dee il primo posto tra le umane facoltà; nè può più
ammettersi quel doppio ordine di fatti, dipendenti dal l'intelletto, e dalla
volontà che han for mato lo studio della vecchia psicologia. Che se ancora da
taluni si distinguano, ciò si pratica per comodo dell'insegna mento, ma non
perehè cotesta dottrina abbia veruna realità di natura. Non so lamente non v'ha
di fatti isolati; ma il sentimento è il primo motore di tutte le facoltà. I
caratteri, che aver debbe una fa coltà, per dirsi primordiale, furon fissati da
Spurzheim, e sono: - 1.º de'esistere in una spezie di animali, e non in
un'altra: - 2.º dee variare nel due sessi della me desima spezie : - - - 3.º
de'essere proporzionata alle altre fa coltà dello stesso individuo: 4.° Non dee
manifestarsi contempora neamente colle altre facoltà, ma dee ap parire o
disparire prima o più tardi delle altre: - 5.º dee poter agire, o riposarsi da
se sola: 6.° dee propagarsi da padre in figlio distintamente dalle altre, e per
se sola: 7.º sola dovrà conservare il suo stato di sanità, o sola infermarsi ».
« Queste facoltà debbon essere come il centro di moto intorno a cui dovransi
unire tutti i fatti immediati e primitivi dell'in telligenza: sensazioni, idee,
inclinazioni, desideri, affetti, passioni, virtù, vizi, do lore, piacere; del
pari che tutti i modi in tellettuali, come l'attenzione, la memoria,
l'immaginazione, il giudizio. Da questa sistematica associazione, dovrà
attignersi una teorica più ragionevole, e più appli cabile alle quistioni di filosofia
pratica in torno alla ragione, al libero arbitrio, alla educazione, a delitti e
alle pene. Gall aveva da prima designato tali facoltà, ma conomi variabili
distinti, d'inclinazioni, di attitudini, e anche di sensi. Spurzheim le ha
disposte per classi, distinguendole in due ordini. Il primo ordine racchiude le
facoltà dette affettive, il secondo, le intellettuali. Quel primo ordine
contiene due generi, le inclinazioni e i sentimen. ti, il secondo ne ha tre, le
facoltà im mediale o i sensi esterni, le facoltà me, diate, dette percettive, e
le facoltà ri flessive ». - Da questa prima, e generica partizione nascono i
tanti organi del cervello, cia scuno de quali presiede ad uno istinto, ad un
desiderio, a una passione o ad una virtù. E quì rientrasi, come ognun vede
nella craniologia di Gall. Questi aveva ammesso ventisette organi cerebrali
comin ciando dallo istinto venereo, e terminando agli organi della teosofia e
della perseve ranza. Spurzheim ne riconobbe trentacin que, avendo aggiunto agli
organi di Gall quello della fame e della sete; e prima della sua morte altri,
tra quali quello detto del l'amor della vita. I più moderni, o alme no gli
ultimi che abbiam letto, son giunti a quarantasei organi. Lasciamo tutta que
sta parte descrittiva, e torniamo alla parte teoretica, nella quale stà il
nuovo paren tado stretto tra la psicologia e la fisiolo gia. Vediamo prima la
soluzione della grande quistione del libero arbitrio, e pas Serem di poi alla
conclusione del corollari generali i quali determinano, per servirci
dell'espressioni dell'autore, il valor com binato dell'una e dell'altra
scienza. « Conviene mettersi nel mezzo tra l'esa gerazioni della filosofia
puramente intel lettuale, la quale vagheggia le illusioni d'una libertà troppo
assoluta, e l'opinione de partigiani della necessità, i quali spie gano allo
stesso modo l'azione dell'uomo, che sente, si determina, ed opera, e l'azion
della pietra, la quale cade con una velocità, matematicamente proporzionale al
tempo. Tutti i principi di determinazione delle azioni possono essere partiti
in due generi: principi di egoismo, e principi di benevo lenza. Questi due
generi rappresentano l'anima concupiscibile, e la razionale; l'anima inferiore
e la superiore, la car ne, e lo spirito. Ora noi siamo più forte mente strascinati
da principi dell'egoismo, che da quelli della benevolenza. Ma i pri mi non sono
per se stessi efficaci a darci la spinta all'azione, e per divenire prin cipi
d'azione han bisogno ancor essi del sentimento, che gli spinga, cioè del pia
cere o del dolore. D'altra parte, non è vero, come il pretendono i fautori
della necessità, che l'uomo sia un agente ne cessario; dacchè è una verità di
senso co mune, che noi non operiamo senza un mo tivo che ci determina
all'azione. L'una e l'altra opinione sono incompatibili colla dot trina delle
facoltà innate ». E quì l'autore va cespicando per non dire nettamente quello
che vuol fare intendere, e che in altro luogo più chiaramente spiega, dopo di
aver dichiarato, che i moralisti ei teo logi hanno con accorgimento stabilito
co me dogma la dottrina del libero arbitrio, giacchè non potrebb'essere
razionalmente dimostrata. « Le deliberazioni morali sonº figlie delle
inclinazioni istintive: coteste inclinazioni sono impresse nel nostri orga mi:
non sono le stesse in tutti gli uomi mi: non v'ha nulla di più falso della pre
tesa eguaglianza delle facoltà naturali; nè del poter che si attribuisce
all'educazione di correggere le naturali inclinazioni. La natura sensitiva in
somma trae a se l'in tellettuale, dacchè questa non è che un modo di quella.
Collins, ha trattato me glio degli altri la quistione della libertà delle umane
azioni, siccome ha ben detto Voltaire. Ma Galli ha dato moto e vita ai pensieri
di Collins, e ha trasportato la qui stione della libertà dal campo delle sotti
gliezze metafisiche in quello della verità e della vita pratica. Dalla sua
dottrina dovrà nascere una riforma delle leggi penali, le quali sono alla
distanza di mille secoli da noi. Dovranno queste graduare con una migliore
scala le azioni che ora inesora bilmente perseguitano; ed essere calcate sul
principio, che le cause naturali ora lente e ora rapide conducono gli uomini a
delitti più spaventevoli. A questo modo solamente potremo accostumarci a
risguar dare i delinquenti, non come Esseri che me ritano d'essere crudelmente
puniti, ma co me uomini attaccati da una malattia mo rale, degni di
compassione, che bisogna curare, rendendoli migliori ». Conchiudiamo questo
quadro cocorollari generali, ne'quali trovasi formolata tutta la scienza frenologica.
« I. L'uomo è spinto da una curiosità innata a conoscere se stesso e tutta la
na tura. Per conoscere se stesso dee penetrare nel costitutivo essenziale del
pensiero. II. Acciocchè questa conoscenza sia com piuta, conviene che lo studio
delle sue fa coltà non si limiti all'età adulta della vita, ma abbracciar dee i
diversi periodi della sua esistenza. Conviene inoltre, che sia questo uno
studio comparato della sensi bilità e della ragione, considerate in tutte le
spezie degli animali, nelle diverse razze umane, nelle malattie mentali, e ne
di - 264 – versi ordini di fatti, che costituiscono il pensiero, cioè fatti
istintivi, fatti di sensa zione esterna e interna, e fatti intellettuali. III.
Per conoscere i fenomeni dell'intel letto, l'uomo far dee più che non fa per
quelli de sensi. Conviene, che divida, astragga, formi generi, classi, e
creiter mini generali; che supponga potenze, for ze, facoltà, e formi sistemi
di psicologia. Questo apparato di scienza, non gli dà motivo d'insuperbire, nè
di esser sicuro de propri concetti; ma è piuttosto una pruo va della sua
debolezza, e degli errori dai quali dee difendersi. IV. Un sistema di
psicologia dee ren dere ragione di tutti i fatti dell'intelletto, dal più
oscuro sentimento insino al più pronunziato fatto della coscienza; e dee per
conseguente discendere insino a'mo vimenti istintivi e meccanici; siccome per
l'opposito dee risalire, da una parte in sino al senso morale e alla coscienza,
e dall'altra, in sino al giudizio e al ragio namento. Due sono i sistemi più
compiuti, tra quali può cadere la scelta, uno di Reid e l'altro di Gall. Ma
questo è a quello pre feribile, perchè ha riannodato le facoltà in tellettuali,
i desideri e le passioni alle fa coltà primordiali, cioè alle sensitive. V.
Peristabilire una teorica vera e scien tifica intorno alla ragione, alla
volontà e al libero arbitrio, conviene ammettere, come principi fondamentali di
essa, la qualità innata delle facoltà sensitive (af. fettive), la diversità, e
spesso la contra rietà loro nello stesso individuo, il grande loro potere,
affatto indipendente dall'azio ne degli esterni obbietti. Cotesta teorica sarà
la base della educazione, cui darassi da ora innanzi men di potere, e più di
varietà. Col valutare giustamente i motivi di determinazione, il nuovo metodo
restri gnerà tra giusti limiti la libertà morale, e d'altra parte, stabilirà
più indulgenti relazioni tra gli uomini, e introdurrà una giustizia meno
eguale, e più giusta nella estimazione del delitti, e nella applicazione delle
pene. VI. La riunione del due sistemi della scuola Scozzese e della
frenologica, rende compiuta la psicologia per rispetto a suoi principi;
coltivando i quali, conoscerassi la necessità di rimpastare la parte che
risguarda le facoltà attive primordiali, e le facoltà intellettuali, che son
modi di quelle. Converrà piegare le partizioni scoz zesi a quelle di Gall e di
Spuraheim ; riconoscere che la memoria si confonde colle facoltà percettive,
alle quali Gall diede giustamente il nome di sensi o di memoria di luoghi, di cose,
e di per sone, che l'immaginazione non è altro, se non il talento poetieo e
l'idealità dei due cennati maestri ; che il giudizio e il ragionamento si
confondono eollo spirito di comparazione e di causalità ; e che questa ultima
facoltà è, a buon conto, la stessa cosa dello istinto della curiosità. Ri
formati i principi, la psicologia si andrà di mano in mano riformando, in sino
a che giunga a toccare l'apice dello scopo della frenologia, che è il conoscere
l'in terno per mezzo dell'esterno, e l'antive dere le attitudini e le facoltà
di ciascuno dalle forme dell'encefalo. VII. Non ostante le cose dette, tutta la
luce che potrassi acquistare nella teorica dell'uomo morale e attivo, non farà
per nulla avanzare o ritardare la marcia del miglioramento progressivo
dell'umanità, la quale cammina colla ruota del destino, ruota che schiaccerebbe
lo stesso Gall e Saint-Simon, se questi pretendessero di ar restarla.
L'educazione, la morale, la le – 265 – gislazione, la politica progrediscono
senza la filosofia, e spesso ancora in un senso tutto opposto a suoi precetti.
Tutto al più, se la filosofia saprà rappresentare l'uomo qual è, spezialmente
per le sue facoltà attive; e se mediante le formole dedotte dalle teorie
riuscirà a favorire e ad ac crescere la nostra invincibile tendenza a conoscere
la verità, avrà fatto tutto quel lo, che si può da lei attendere, e a cui può
ella aspirare ». Le sottilità e le fallacie di cotesto si stema si manifestano
di per se stesse. I frenologi prendono la maschera di spiri tualisti, per
illudergli, e per giovarsi dei principi e delle partizioni loro come dali già
concessi, con tal veste voglion fare alleanza con Hutcheson, Reid e Steteart, e
recitar da continuatori delle dottrine di questi: la loro alleanza non pertanto
è temporanea e durabile insino alle ulte riori modificazioni che il progresso
della frenologia dimostrerà necessarie alla dot trina delle facoltà: il
principio cardinale di tal dottrina è, che le facoltà sieno in genite o innate,
ma la conseguenza che ne cavano è tutta in favor delle facoltà sensitive, e non
delle intellettuali: dicono i frenologi esser due i principi delle umane
conoscenze, il senso esterno e l'interno, e sembrano voler fulminare i puri
sensi sti: vogliono subordinare l'intelligenza al senso, e dichiarar quella un
modo di que sto: son seguaci di Reid e di Stewart in sino a principi d'azione
meccanici o ami mali, ma dichiarano difettiva e corta la loro dottrina in
quanto a principi d'azione razionali, ammettono i motivi di deler minazione
istintivi, e negano ogni prepon deranza a volontari e intellettuali: non ri
conoscono altra libertà nella volontà, se non quella che può nascere da una sem
plice modificazione delle facoltà sensitive e appetitive: dichiarano la
dottrina del li bero arbitrio (egregiamente dimostrata da Reid e da Stewart),
una verità teologico dogmatica, e non razionale: dichiaran pri mordiali le sole
facoltà sensitive e appeti tive, perchè da queste ripetono l'essenza, la forma,
e il carattere discernitivo del l'uomo morale e intellettuale: le sue pri
mordiali facoltà son quelle, che nascono. dal suo interno organismo: tal è la
cor rispondenza dell'esterne e dell'interne for me dell'organismo, che da
quelle nasce la conoscenza di queste: l'educazione e qualunque altro abito
razionale possono se condare, ma non mutare la necessaria de terminazione delle
forme sensitive dell'uo mo: le leggi sono ingiuste, e sconoscono la natura
umana, allorchè puniscono co me volontarie le azioni criminose: queste possono,
alle peggiori, esser considerate come una infermità dello spirito, simile alla
follia. Ma a che giova lo studio del l'uomo e la conoscenza di se medesimo? A
null'altro, che ad osservare e a formo lare le operazioni della natura. L'uomo
e la società segue un cammino istintivo, e necessario, e però indipendente
dalla guida e dalla direzione della ragione: l'uo mo è un animale pratico: la
filosofia spe culativa non ha alcun potere sulla morale: è uno studio di
curiosità, e non di vera o utile istruzione! Che altro è la Frenologia se non
la dot trina del senso e della necessità? V. Azio ne, Facoltà, Libertà,
Mecessità, Senso. FRIvoLEzzA (prat.), qualità di uomo, che fa o dice cose di
niuna importanza. È diversa della leggerezza, di cui per altro può esser
conseguenza. V. Legge rezza. 54 – 266 – PRodE e FRoDo. V. Fraude. FRoNTE
(spec.), parte anteriore della faccia sopra le ciglia. È una delle grandi parti
della faccia, che più contribuisce al bello della umana fisonomia, e i
movimenti della quale, per la natural facilità di cui è dotata di con trarsi e
di distendersi, manifestano le in terne disposizioni dell'anima. Per questa
medesima ragione la sua immobilità di viene segno d'impudenza, di ostentazione
e di simulazione in quelli, che hanno sog giogato la modestia, o che studiano
di nascondere gl'interni affetti dell'animo. V. Fisonomia. FRUGALITA' (prat.),
temperanza negli alimenti. È una parte della virtù di temperanza. V. questa
voce. FRUIRE (prat.), servirsi di qualche cosa con giovamento, o con
soddisfazione del l'animo. È diverso dal godere, tra perchè si ap plica più
volentieri alle cose sensibili, e per chè il fruire contiene implicitamente
l'idea del consumo della cosa, di cui si fa uso. V. Godere. FUCATo (prat.),
epiteto d'uomo finto, che prende sembianze di virtù, o di pia cevolezze. E una
delle spezie della finzione, ed è men generico di altri epiteti che si usano
nello stesso senso, come mascherato, im bellettato, e orpellato. V. queste
voci. FUNZIONE (prat.), l'azione considerata come l'esercizio d'una facoltà
intellettiva, o attiva che sia. E però diconsi funzioni le operazioni
dell'animo, dell'intelletto, della volontà, e anche delle potenze sensitive.
FUoco (spec. ), la sostanza che con tiene e tramanda calore e luce. La parte
più tenue e volatile di tale so stanza è la fiamma. I suoi fenomeni son quelli
che abbiamo esposto negli articoli calore e calorico. V. queste voci. FURBERIA
(prat.), azione di chi con iscaltrezza ed inganno vuol conseguire un fine.È più
della scaltrezza, la quale include soltanto finezza. FURENTE (prat.), chi è nell'atto
del fu TOTe. È diverso da furibondo, e da furioso. FURIA (prat.), violenta
perturbazione dell'anima, cagionata da collera, o da al tra passione. Indica
uno stato passeggiero, e non per manente. FURIBONDo (prat.), pien di furore. E
più di furente e di furioso. FURIoso (prat.), colui che è abitual mente nel
furore. FURoRE (prat.), eccesso di collera, che non può essere dalla ragione
contenuto. Indica lo stato permanente o l'abito della furia. V. Collera,
Ragione. L'impotenza di contenerlo, può nascere dalle stesse cause che
producono la pazzia, o da violenta perturbazione delle passioni. Nel primo caso
il furore è una esacerba zione della insania: nel secondo è un vi – 267 – zio,
che opprime la ragione. E siccome in tal vizio si può cadere per la veemenza di
qualunque passione, così ogni loro tra sporto suol essere qualificato col nome
di furore. In generale la conseguenza del fu rore, come dice Cicerone, è la
cecità della mente, qualunque sia la causa da cui pro venga. V. Insania,
Passione. FUTURo (spec. e ont.), la durazione dello stato presente degli Esseri
e delle cose insino alla distruzione loro. È una induzione naturale, che la
mente ricava dalle nozioni del passato e della sue cessione delle idee, dalle
quali rileva, che quel che ora è presente, è stato altra volta futuro. V.
Durata, Passato, Presente. – 269 – CLASSI DE' VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA
LETTERA F. FILOSOFIA CRITICA. FILOSOFIA SPECULATIVA - Facoltà Fisico Facile e
Filosofia Fantasia Fisiognomonia Facilità Filosofismo Farmacia Fisiologia Facoltà
Filosofo Farmacologia Fisionomia e Fallacia Finezza Fasti Fisonomia Fallo
Finzione Favola Fitologia - Falso - Fisiologia Filologia Fitotomia Fantasia
Fisiologista Filologo Florilegio - Fantasima Fisiologo Filosofia Flussione
Fantasticaggine e Fluidità Finzione Fossile Fantasticheria Fluido Fisica
Frenologia Fatalismo Forma Fatalista Formale VOCI ONTOLOGICHE. Fato Formola
Fatto Formolare Finito Forza Fecondazione Forza Forma Futuro Fede Fossile
Formale Fenomeno Freddo - Fiamma Fronte Fibra Fuoco Figura Futuro Filosofare -
270 - FILOSOFIA DISCORSIVA, Facezia Facile e Facilità Facondia Fallacia Falso
Fantasima Fantasticaggine e Fantasticheria Fantasticare Favola Figurato Formola
Formolare Frase Fede TEoLoGIA NATURALE. Filosofismo – 271 – FILOSOFIA PRATICA.
Faccia Facile e Facilità Fallacia Fallo Falsità Fama Fanatico Fanatismo
Fantasticare Fare Farneticare Fastidio Fasto Fatica Fatto Fatuità Fatuo Favola
Favore Fede Fedele Fedeltà Fedità Felicità Ferinità Ferino Ferità Fermentazione
Fermento Fermezza Ferocia e Ferocità Ferventezza, Fervidezza e Fervore Fidanza
Fido Fiducia Fierezza Filantropia Filauzia Filosofante Fisiocrazia Filosofaccio
Fisiografia Filosofastro Fitografia Filosofeggiare Filosofetto Filosoficare
Filosofone Filosofuolo e Filosofuzzo Fine Finezza Fluttuamento e Fluttuazione
Follezza e Follia Fomite Forcostumanza Formidabile Formidine Fortezza Fortuito
Fortuna Fraude e Frode Freddezza Fremere e Fremito Frenesia Frivolezza
Frugalità Fruire Fucato Funzione Furberia Furente Furia Furibondo Furioso A
Furore GRECISMI SUPERFLUI. Fitonomatotecnia Fonica Fonologia - 275 - G Gemi
(prat.), ingannare per tra dimento, per ischerzo, o per celia, nel quale senso
dicesi ancora farsi gabbo di alcuno, - Differisce dal burlare, che più si avvi
cina al trastullare. V. queste voci. GABINETTo. V. Museo. GAGLIARDEzzA e
GAGLIARDIA (prat.), for za che nasce da vigore e da robustezza. È dote del
corpo, che impropriamente si applicherebbe all'animo. GAIEzzA (prat.),
contentezza dimostrata con parole, e con ilare disposizione del volto. -
Differisce dall'allegrezza, la quale è un sentimento spontaneo e naturale;
laddove la gaiezza proviene d'ordinario da educa zione, o da riflessione. V.
Allegrezza, Fducazione. GALLERIA. V. Museo. GALLoRIA (prat.), eccesso di
allegrezza, manifestata con gesti e moti del corpo. t. - GALvANISMo (spec.),
elettricità che si manifesta al contatto dei nervi e de mu scoli, così negli
animali viventi, come in quelli che hanno di recente perduto la vita, ma che
conservano ancora un resto di ca lor vitale. Cotesto fatto, avvertito la pri ma
volta dal medico Galvani, diede oc casione alle scoverte del celebre Volta, per
le quali la Fisica e la Chimica son tanto avanzate. Sul fenomeno della rana
osservato dal Galvani, sostenne il Volta, che l'elettricità sviluppasi col
contatto dei metalli in quello sperimento adoperati, dovendosi considerare la
rana come un sensibilissimo elettroscopio. Replicò il Gal vani che
l'elettricità dovevasi attribuire all'animale; ed avendo una tal contro versia
aguzzato l'ingegno del Volta, lo condusse alla costruzione della sua pila.
Questo maraviglioso instrumento, nel qua le l'elettricità si sviluppa col
concorso di metalli di diversa natura, aperse alla Fi sica un immenso campo di
nuovi feno meni elettrici; e ridotto poi a maggiore perfezione, è divenuto uno
de più potenti mezzi, che abbia la Chimica nella scom posizione de corpi. Il
caso dunque pre sentò a Galvani quella nuova spezie di elettricità, ed il genio
di Volta ne appro “fittò, per creare una nuova scienza elet trica. Nulla dimeno
non si sa, perchè i Fisici spesso preferiscano il nome di Gal vani per indicare
fenomeni elettrici, inte ramente dipendenti dalla pila, i quali però sarebbero
meglio detti voltaici. Così si è dato il nome di galvanometro ad un altro prezioso
instrumento, inventato dal Nobi li, e perfezionato dal chiarissimo Melloni,
quantunque il concetto di quella costruzione sia fondata su fenomeni della
pila, e ri conosca la sua origine dall'antica osserva zione del Volta, cioè che
l'elettricità può svilupparsi da un solo metallo, riscaldan dolo in una parte e
non nell'altra. Si imilmente una recente scoverta del celebre fisico Jacobi, il
quale ha osservato che l'azione della corrente elettrica della pila determina
le particelle metalliche, tenute 55 – 274 – in dissoluzione da un reagente
chimico, a congregarsi su di una forma apposita mente situata in uno de fuochi
della pila; ha ricevuto pure impropriamente il nome di metodo galvano-plastico.
º Doppio è l'oggetto della presente nota: primamente pare a noi, che sia un do
vere degli scienziati il guarentire gelosa mente a grandi uomini il merito
delle loro invenzioni: in secondo luogo, se è vero che i nomi debbon darci la
vera idea delle cose denominate, uopo è dire che impro pri sien quelli i quali
non adempiono un tale ufizio; il che è sopra tutto notabile nel linguaggio
scientifico, chesser dovreb be ad ogni altro parlare esempio di esat tezza e di
precisione. V. Elettrieità. GANGLIo (spee.), rigonfiamento di co lor bigio, di
consistenza dura, e alquanto elastico, e di omogeneo tessuto, che la natura ha
situato in diversi punti in tutta la lunghezza del nervi. I gangli pare che
sieno i centri dell'azione nervosa in tutti gli animali, i quali mancano del
sistema cerebro-spinale; e però formano il carattere distintivo della classe a
quelli opposta. Un tal carattere è comune ancora agli animali, ne quali i due
si stemi nervosi coesistono insieme, e ciò a rispetto di quello, di cui
l'influenza serve a regolare l'economia delle funzioni vege tative. Gall malamente
credette aver tro vato gangli nella midolla spinale. Chiamò egli con questo
nome talune masse di ma teria grigia, più molle e più polposa della materia
bianca e fibrosa; e suppose che vi fosse un rigonfiamento di tal materia nel
punto d'onde ha origine ogni paio di ner vi. Ma la sua supposizione non regge,
per chè non v'ha rigonfiamento alcuno ne siti d'onde sorgono i nervi, nè v'ha
nel seg mento corrispondente a detti siti più copia di materia grigia, che nel
loro intervalli. V. Cervello, Nervo. Alcuni moderni anatomici hanno esteso la
denominazione di ganglio alle così dette glandule conglobate o linfatiche, per
la ragione che i vasi linfatici comportansi organicamente verso di queste, come
i nervi verso i gangli. Ma quelli che ama no l'esattezza del linguaggio, han
ripu diato una tal denominazione, atteso che eterogenee sono le funzioni del
sistema assorbente ed assimilante, per rispetto a quelle del sistema nervoso.
GARBATEzzA e GARBo (prat.), cortesia dimostrata con maniere esteriori. Sono
diversi dalla affabilità, dall'avve nenza, dalla civiltà, dalla cortesia, dalla
gentilezza, dalla grazia, e dalla leggia dria, perchè ciascuna delle dinotate
qua lità ha un carattere proprio, che la distin gue dalle altre. V. queste
voci. La garbatezza e il garbo verso degli altri, è una dote acquistata per lo
studio e per l'abito, quando che quelle che ab biam testè mentovate
presuppongono tutte il concorso d'una disposizione naturale. GAs (spec.),
fluido aeriforme, compres sibile, elastico, dilatabile, capace di re frangere
la luce, di cui le molecule sono incessantemente spinte da una forza ripul siva
ad allontanarsi le une dalle altre; forza la quale vince l'altra opposta della
coesione, Il principal carattere che distingue i gassi da fluidi liquidi è la
compressibilità, co mechè in natura non si dia alcun fluido, che possa dirsi
veramente o assolutamente incompressibile. Ma diciamo della compres sibilità, e
del suo contrapposto quello stesso che abbiam detto della solidità e della flui
– 2 A ) - - dità. La legge di continuità che la natura ha seguito ne diversi
gradi o passaggi da uno stato all'altro della materia, ci vieta di formare
esatte classificazioni. Ciò non ostante cotali partizioni sono utili, anzi ne
cessarie allo studio delle qualità de corpi, e al metodo col quale dobbiam
procedere per conoscerne gli effetti. E in ciò la Fi sica fa quello stesso che
pratica la geome tria, cioè suppone i corpi dotati di qua lità assolute ed
uniformi, e da tale ipo tesi deduce conseguenze rigorosamente ve re. E siccome cotesto
stato normale o scien tifico non si trova mai nella condizione de composti;
così dal più o dal meno con cui questi si approssimano al vero, ne va luta e
misura i prodotti. V. Fluido. I gassi differiscono ancora da vapori, comechè
gli uni e gli altri si confondano sotto la denominazione di fluidi aeriformi.
La proprietà, che principalmente distingue i gassi da vapori è, che i primi non
pas sano facilmente allo stato liquido, come fanno i secondi, per modo che
senza gran di pressioni, o forti diminuzioni di tem peratura non si mostran
capaci di tal can giamento. Cotesta proprietà ha fatto dare a gassi l'aggiunto
di permanenti; seb bene debba dirsi della permanenza del gassi quello stesso,
che di sopra abbiam detto dell'incompressibilità del liquidi. Imperoc chè molti
gassi permanenti sono stati ri dotti allo stato liquido, mediante grandi
pressioni; d'onde si desume, che lo stesso avverrà degli altri, quando si potrà
per essi ottenere una conveniente pressione. L'ela sticità degassi differisce
pure da quella dei vapori, quando questi ultimi sien posti a contatto col loro
liquido generatore. Con siderati isolatamente, i vapori come i gas si,
obbediscono alla legge detta di Ma riotte, cioè che i volumi occupati da una
stessa massa di fluido, sono in ragione in versa delle pressioni da questa
sopportate, V. Vapore. Distingue ancora la Fisica i gassi in sem plici e
composti; e chiama semplici quelli de quali insino al presente non è ancora
riuscita a trovare altri principi di essi più semplici. Tali sono l'ossigeno,
il cloro, l'azoto e l'idrogeno. Ma può forse affer marsi, che sien questi,
altrettanti principi semplici della natura ? Noi abbiamo per più secoli
erroneamente creduto, che l'ac qua, l'aria, e il fuoco fossero gli elementi o
principi semplici di tutte le cose, per chè per mezzo loro si operano tutte le
tras formazioni della materia. Laonde dall'avergli considerati come gli agenti
imme diati della natura, passammo a dichia rargli gli elementi primitivi di
tutti i com posti. Alla perfine quando la Chimica ci fece scoprire ch'essi
possono risolversi in altri elementi più tenui e volatili, noi de ridemmo la
propria ignoranza, e siam passati ad allungare alquanto la scala di quelle
particelle, che chiamiamo molecule. Chi può antivedere le altre scoverte, alle
quali l'analisi potrà condurci? Certamente la natura ha stabilito un segno,
oltre il quale non permetterà, che noi le involia mo il segreto del suo
magistero. Vuolsi conchiudere il presente articolo con una osservazione
gramaticale. Perchè non dare al vocabolo gas, la terminazione italiana. La
lingua nostra per le regole della sua eufonia, non soffre terminazioni
straniere, e a somiglianza di quel che ave vano sempre praticato i Greci e i
Latini per rispetto alle voci barbariche, ha italia mato i termini che le
scienze, le arti, o l'uso ci han portato da altri idiomi. Per chè non diremmo
il gasso al singolare, e i gassi al plurale? ri – 276 – GAUDIo (prat.), placido
commovimento dell'animo, prodotto dal conseguimento d'un bene. Cotesta
definizione, che è pur quella della nostra Crusca, è tolta da Cicerone: Quum
ratione animus movetur placide atque eonstanter, tum illud cat Drva dicitur.
Cum autem, soggiugne, inaniter et ef fuse animus exsultat; tum illa laetitia
gestiens, vel nimia dici potest, quam ita definiunt: sine ratione animi
elationem. (Tusc. IV. S. 6). - Seneca fece la stessa distinzione tra gau do e
letizia, imperfecta adhue intersein ditur laetitia, sapienti vero conteaitur
gaudium. Quel che i latini chiamarono letizia ge stiente, gl'italiani denominano
gioia, o esultazione. V. queste voci. Abbiamo non pertanto conservato al vo
cabolo gaudio lo stesso significato latino, di che fa manifesta pruova Dante,
il quale chiama il regno celeste: Questo sicuro e gaudioso regno. E parlando
dello spettacolo del paradiso: Di che stupor doveva esser compiuto l Certo tra
esso, e'l gaudio mi facea Libito non udire e starmi muto. V. Letizia. i - - -
GELo (spec.), la temperatura dell'ac qua, che è passata allo stato solido del
ghiaccio. V. Ghiaccio. Se lo stato naturale dell'acqua sia il soli do, o pure
il liquido, vedi l'articolo fluido, º GELosIA (prat.), inquietudine dell'ani mo
per lo timore di perdere, o di non ot tenere una cosa che si ama. Differisce
dalla invidia, quantunque ab bia taluni de caratteri di questa passione: l'uom
geloso cerca di mantenere illeso il ben che possiede, e sta guardingo a cu
stodirlo e a difenderlo: l'invidioso brama la cosa che non possiede, e si
consuma di non possederla. Ma due gelosi i quali aspi rano ad un bene, che niun
de due possiede son due perfetti invidiosi. V. Invidia. Nel significato più
ovvio, la gelosia è propria della passione dell'amore, nella qua le suole
progredire dalla semplice inquietu dine insino alla febbre ardente e alla sma
nia. I suoi eccessi nascono da un doppio esaltamento della immaginazione, e
della sensibilità irritata. GEMERE (prat.), lentamente piangere, e con lamento.
GEMITo (prat.), la voce ch'esce fuori dal lento lamentarsi. GENERALE (spee. e
dise. ), tutto quel che comprende più cose singolari, o una qualità comune a
più individui. V. Indi aviduo, Qualità. Siccome concepiamo il generale per mez
zo de nomi che diamo alle cose, e alle qualità loro; così giova indagare, come
si Iſormino da noi tali nomi. Comechè le cose esistenti sien tutte singolari; pur
nondimeno l'astrazione logica ci procura un'altra sorta d'idee, di loro natura
complesse, le quali abbracciano le qualità comuni a più indivi dui, o più cose
singolari complessivamente considerate. I nomi dati alle cose singolari son
detti propri, quelli che designano qua lità comuni a più individui, son
chiamati appellativi: gli altri che indicano plura lità di Esseri o di cose,
diconsi collettivi. V. Appellativo, Collettivo, Proprio. ll nome di uomo dato
al primo della spezie umana che fu sulla terra, fu un nome proprio ; e tale fu
ancora quello dato al primo albero, o al primo fiume, o alla prima montagna,
che l'uomo vide, quando aperse la mente alla percezione degli obbietti esterni.
Ma non prima vide altri viventi a se simili, o altri alberi fiumi e montagne,
che cotesti nomi da propri che erano divennero appellativi. 0uanto a
collettivi, la pluralità degli ob bietti simili suggerì i nomi, che espri mono
l'idea del più, dalla quale nacque ancora quella del numero. V. Mumero.
Fermandoci a nomi appellativi o di qua lità, la mente non altrimenti li forma,
se non astraendo le qualità dal subbietto cui sono inerenti, e considerando
queste par titamente, o come necessarie ed inerenti a quel tale subbietto, o
come accessorie e passeggiere. Così astraendo le qualità dai subbietti; e
comparando le une alle altre, forma nuove idee generali delle qualità ne.
cessarie o costitutive d'ogni Essere, delle simili, delle diverse, e a ciascuna
di tali sorte d'idee assegna il nome di essenza, di attributo, di accidente, di
simile, di diverso, e così delle altre della stessa na tura. L'idea generale
dunque è il prodotto d'un'analisi, che la mente fa degli obbietti individuali
del pensiero; e il nome che le dà è un segno, il quale esprime due idee ad un
tempo, l'una delle qualità del sub bietto, l'altra della somiglianza del sub
bietti che hanno le medesime qualità. Que sto è quel doppio significato, che i
logici chiamarono comprensivo, e estensivo. Intesero essi per significato di
compren sione l'espressione delle qualità necessarie e costitutive del
subbietto, come l'idea del triangolo, la quale include in se quella della
figura, e del tre lati rettilinei, e per significato di estensione vollero
esprimere, che lo stesso nome abbraccia tutti i sub bietti, a quali conviene la
medesima idea. Ma chi non vede quanto vaga sia l'espres sione di significato di
comprensione, e quanto impropria sia l'altra di estensione, applicata ad un
atto del pensiero? Pare dunque che l'uno e l'altro concetto possa essere meglio
espresso denominando l'uno significato di qualità, e l'altro di somi 9lianza.
Un'altra distinzione han fatto i logici per rispetto a nomi generali, la quale
sembra appartenere più alla gramatica ge nerale, che all'analisi delle
operazioni dell'intelletto. Distinguono essi i termini generali univochi dagli
equivochi. Univo chi son quelli che hanno medesimezza di suono e di
significato: tali sono i nomi di uomo, di città, di fiume, di monta gna;
equivochi son quegli altri, che con un nome stesso esprimono idee diverse ;
come il vocabolo abito, che significa ad un tempo la veste per coprirci, e la
rei terazione dell'azione; o come la voce gallo che dinota o il pollo, o l'uomo
nato nel le Gallie. E tra siffatti equivochi, che i Greci chiamarono omonomi,
distinguono pure i gramatici, i così detti nomi ana loghi, i quali sebbene
abbiano due signi ficati diversi, pure l'uno dipende dall'al tro per affinità o
per somiglianza di rela zioni. Tali sarebbero per esempio il nome di sanità
applicato ora alla naturale co stituzione d'un corpo vivente, ora alla qualità
dell'aria o de'cibi, ed altri simi li. Le quali distinzioni non appartengono
all'analisi del pensiero, ma son proprie dello studio del linguaggio, e
dell'origine de vocaboli. V. Equivoco, Univoco. GENERALITA' (disc.), qualità di
voca bolo, o d'idea che comprende più cose o idee singolari. - 278 - Abbraccia
tanto il collettivo quanto l'astratto; e però nel primo senso vale uni
versalità di Esseri o di cose; e nel secon do, un'idea che conviene a più
subbietti, o anche una massima o una verità gene rale, non soggetta a
restrizioni, GENERALIzzARE (spec. e dise.), rendere comune a più subbietti la
qualità di uno, È vocabolo che esprime
Subscribe to:
Post Comments (Atom)
No comments:
Post a Comment