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Friday, March 26, 2021

Grice e Ferri: implicatura erotica

 La filosofia platonica poggia su due basi: cioè su la dottrina delle idee e su quella dell'amore. Da esse provengono le teorie del vero e del bene, l'ordine dialettico e l'ordine morale in ogni sistema che accolga i principii e il metodo di Platone o della sua scuola.  Ne segue che per conoscere in modo sufficientemente esatto il Platonismo di Ficino, non basta di esaminare la sua dottrina delle idee e dell'intelletto; conviene eziandio studiare i suoi pensieri sull'amore.  Consideriamone adunque con lui la natura, l'oggetto, il fine, le specie, gli effetti, le attinenze coll'uomo, col mondo e con Dio; osserviamolo o immaginiamolo, com' egli fa, in se stesso e nei varii ordini degli enti; seguiamo rapidamente sulle sue traccie la splendore della bellezza e l'efficacia dell'amore nell'Antropologia, nella Cosmologia, nella Teologia, cioè nell'intera enciclopedia filosofica da lui percorsa nel suo Commento al Simposio platonico (TM)  (^ v. il fascicolo preceden to  Conf. La Dottrina dell' Amore secondo Plutone, lezione e note, anno V, vol. X, disp. 1° di questa Rivista.  (*) Questa esposizione fu lctta all'Istituto superiore di Firenze nel 1866. Dopo d'allora fu pubblicata dal prof. Vincenzo Di Giovanni della Vol. XXIX. Disp. 3.  18  L'amore generalmente considerato è desiderio di bellezza, e la bellezza è grazia che risulta da corrispondenza di cose o da unità.  Questa corrispondenza o unità è di tre specie; o è affatto spirituale e consiste nell'armonia delle virtù interiori dell'animo, o è percettibile mediante la vista e l'udito ed è composta di forme corporee o di voci. Dal che segue che il bello non essendo riferibile se non ai sensi dell'udito e della vista e all'intelletto, gli altri sensi e le altre facoltà sono esclusi dal privilegio di conseguirlo e di goderne, e quindi che l'amore non ha altri strumenti da applicare.  « Grato è a noi, dice Ficino, il vero e ottimo costume « dell'animo; grata è la speziosa figura del corpo; grata la « consonanza delle voci. E perchè queste tre cose, l'animo  Università di Palermo un'analisi accurata del Commento di Ficino sul Simposio platonico. Il lettore la troverà a pag. 205 delle sue Prclezioni lli Filosofia, Palermo 1877. Di questo Commento che è unito alla traduzione latina delle opere di Platone .si hanno, a mia notizia , almeno tre cdizioni italiane. Due sono del 1544, delle quali una fatta in Venezia senza nome di stampatore con questo titolo; Il Commento di Marsilio Ficino sopra il Convilo di Platone eil esso Convilo tradotlo in lingua loscana per llercole Barbarasa da Terni con dedica al maguifico messer Gio. Battista Grimaldi. Il Convito platonico vi è effettivamente trailotto in italiano ed unito al Commento, e il traduttore annunzia nella dedica la sua intenzione di tradurre tutti i dialoghi di Platone.  Un'altra è di Firenze, per Neri Dortelata con dedica di un Bartoli al Duca Cosimo de' Medici. Finalmente una terza è pure di Firenze e dovuta al Giunti nel 1591. Entrambe queste ultime hanno per titolo: Sopra lo Amore ouver Convilo di Plutone. Vi è premessa una dedica di Marsilio Ficino a Bernardo del Vero, cad Antonio Manetti, da cui risulta che la versione italiana del Commento cdito a Firenze dal Dortelata e riprodotto dal Giunti è opera propria di Ficino.  Le citazioni fatte in questa esposizione come gli estratti dati nell'Appendice sono tolti da essa.  Sulla origine c composizione del Commento veggasi l'Appendice. « come a lui accomodate e quasi incorporali di più prezzo « assai stima che l'altre tre (-), però è conveniente che egli più « avidamente queste ricerchi, con più ardore abbracci, con «più veemenza si maravigli. E questa grazia di virtù, figura «0 voce che chiama l'animo a sè e rapisce per mežzo della « ragione, viso e udito, rettamente si chiama bellezza ».  Se si vuole conoscere la vera natura d'amore occorre, secondo Ficino, formarsi un giusto concetto del suo oggetto. I ragionamenti del filosofo fiorentino su questo punto' méritano di essere riferiti.  Trovandosi il bello negli animi, nelle forme e nei suoni, è mestieri che la bellezza sia una essenza comune a questi tre oggetti. Non sarà dunque corporea, altrimenti non converrebbe agli animi; anzi tanto manca che la bellezza in se stessa considerata possa dirsi corporea, che il bello da noi ammirato nei suoni e nelle forme non procede dalla materia, ma da un principio diverso ed è esso pure incorporale.  Difatto il corpo pud perdere la sua bellezza quantunque la sua materia sostanzialmente non cambi, e può conservaro la stessa grandezza o la stessa piccolezza diventando bello o brutto ; cosicchè le condizioni del bello o del brutto non corrispondono alle condizioni della quantità e dell'estensione ; la bellezza e le sue vicende non dipendono punto dalla natura corporea e dai suoi più essenziali attributi.  « Nè si dica, continua Ficino, come fanno alcuni, che la « bellezza è una certa posizione di tutti i membri o veramente « commisurazione e proporzione con qualche soavità di colori.  [ocr errors] (") Oggetti e piaceri del gusto, dell'odorato e del tatto relativi alla nutrizione, conservazione e generazione.  <<  « Questa opinione non è ammissibile, imperocchè essendo  questa disposizione delle parti solo nelle cose composte, « nessuna cosa semplice sarebbe speciosa. Ma noi veggiamo « i puri colori, i lumi, una voce, un fulgor d'oro, il candor « dell'argento, la scienza, l'anima, la mente e Dio, le quali « cose sono semplici, esser belle. ·  La bellezza pud dunque esser in un composto, ma non s'anifica col composto, può essere nella proporzione, ma non s'identifica con essa. Avviene che stando ferma la medesima proporzione e misura della membra, il corpo non piace quanto prima. « Certamente, così Ficino, oggi nel corpo vostro « è la figura medesima che l'anno passato e non la medesima  grazia. Nessuna cosa più tardi invecchia che la figura, nes« suna più tosto invecchia che la grazia. E per questo è ma« nifesto non essere tutt'uno figura e pulchritudine. E ancora « spesso veggiamo essere in alcuno più retta disposizione « delle parti e misura che in un altro; l'altro nondimeno « non sappiamo per che cagione si giudica più formoso, e più « ardentemente si ama. E questo ci ammonisce che dobbiamo < stimare la formosità essere qualche altra cosa , oltre alla « disposizione de' membri. La medesima ragione ci ammae« stra che noi non sospettiamo la pulchritudine essere soavità « di colori : perchè spesse volte il colore in un vecchio è « più chiaro , e in un giovane è maggior grazia. E negli  uguali di età alcuna voita accade che quello che supera « l'altro di colore è superato di grazia e di bellezza » (Convito Orazione Va c. 3).  Il bello non è dunque nè mistione di figure e colori, nè proporzione di parti, nè materia, nè quantità , e quantunque apparisca nei corpi, non ne risulta come da sua causa ; la  <  spiritualità della bellezza si conferma ancora considerando le condizioni del suo conoscimento nel soggetto che l'apprende ; imperocchè cid che piace, ciò che desta il senso della grazia è la specie o immagine di alcuna persona accolta nell'animo; e questa specie è incorporale poichè è dentro allo spirito ; essa è una similitudine immateriale della cosa, non la cosa stessa, dal suo concorso proviene il sentimento estetico e non dalla materia incapace di conferircelo fintantochè le sue forme non sono poste in relazione con noi mediante la vista e l'intelletto. Infinita è la differenza fra la piccolezza della pupilla e l'ampiezza del cielo, ma in un punto solo lo spirito ne accoglie l'immagine e l'ammira !  Finalmente mentre gli istinti corporali si acquietano e soddisfano mediante un determinato conseguimento del loro fine, l'amore è insaziabile, e il suo andamento ci prova che havvi qualche cosa di superiore al corporeo e al finito in lui stesso e nel suo oggetto.  Difatto in che guisa si genera l'amore e l'odio? In che modo commossi dalla bellezza ne ammiriamo lo splendore, o ripugnando al brutto ne proviamo avversione? Eccolo. L'animo porta come impresse nel segreto di sua sostanza le ragioni delle cose ; quivi sono le primitive idee del vero, del bello, dell'onesto, dell' utile: quivi le cause più profonde dei nostri desiderii, le norme universali e spontanee che guidano il giudizio degli incolti, e formano di verità il senno naturale e istintivo dell' uomo.  Se l'immagine di una persona passando nell' animo discorda da quella figura dell'uomo che l'animo porta in sè stampata come un sigillo, subito dispiace, e come brutta genera odio ; se concorda, piace, e come bella si ama. «Per  « la qual cosa, continua Ficino, accade che alcuni scontran“dosi in noi, subito ci piacciono ovvero dispiacciono, benchè « noi non sappiamo la cagione di tale effetto. Perchè l'animo « impedito dal ministerio del corpo, non riguarda le forme « che sono per natura dentro a lui, ma per la naturale e « occulta sconvenienza o convenienza, seguita che la forma « della cosa esteriore, con la immagine sua pulsando la « forma della cosa medesima, che è dipinta nell'animo, dis« suoną ovvero consuona, e da questa occulta offensione, « ovpero allettamento, 'l'animo commosso, la detta cosa odia « ama » (Orazione V, c. 5).  La bellezza è dunque corrispondenza delle cose alle loro idee, e quella eziandio che risplende nel corpo è un certo atlo di vivacità e di grasia (ibidem, capit. 6) che dipende dal loro influsso. Poichè ordine. modo e specie, cioè distanza commisurata di parti , debita grandezza di membri , conveniente qualità di linee e di colori concorrono ad abbellire la figura umana, quando convengono fra loro e nella unità del suo tipo, quando concordano con le ragioni di ciascuna parto e con quella del tutto (ibidem, capitolo 6)  L'amore osservato in noi è dunque rivolto a un oggetto intelligibile; la bellezza che egli ricerca è cosa spirituale ; l'idea, la verità, a cui si riferisce la sua più profonda inclinazione tende a separarlo dal corpo, a innalzarlo sopra gli enti sensibili, a trasportarlo sulle ali della mente fra gli oggetti divini e immutabili. Ma che cosa è adunque allora l'ainore in sè, l'amore come principio di tutti gli amori; è egli dunque un Dio, è egli perfetto e beato, felice, ricco, virtuoso, bastante a se stesso ? Ovyero continuando a rappresentarlo sotto la forma del mito, dobbiamo figurarcelo , secondo  Diotima nel Convito di Platone, come un demone, cioè sotto la specie di un ente imperfetto, di un genio tramezzante il divino e l'umano, bello e brutto, ricco e povero, sapiente e ignorante, felice e infelice ? nato dalla Dea della povertà e dal Dio dell'abbondanza il giorno che i celesti celebravano i natali di Venere? Ficino ammette l' uno e l'altro concetto, ma dà più importanza al primo che al secondo e quest'ordine è conforme allo spirito generale del suo sistema. Mentre Platone nel Convito lasciando l'amore nel punto della sfera del finito che tocca l'infinito, ne fa soltanto un demone che aspira alla perfezione, ma che non giunge a conseguirla, Ficino, unendo il derniurgo del Timeo all'eros del Simposio, ravvisa in lui un demone e un dio, e più spesso il secondo che il primo, anzi egli attribuisce positivamente l'amore all'Essere infinito. Il Dio del Timco platonico, che non ha invidia , mentre vuole il mondo perchè ne ama l'idea; il Dio di Filone e di Cristo sono per lui il vero Dio, il suo Dio è come quello di Dante un amore infinito che spande la bellezza nell' uni  verso.  Ma prima di salire con lui alla regione più alta in cui possa recarsi la filosofia dell'amore, rimaniamo per qualche tempo ancora in terra e rendiamoci conto della sua vera natura nell'uomo.  A malgrado della tendenza mistica che distingue tutta la dottrina di Ficino ed era profondamente radicata nelle sue abitudini e nel suo carattere ; a malgrado dell'indirizzo spirituale e religioso che in tutto il suo Commento al Convito platonico egli si sforza di dare all' amore ; egli è per altro ben costretto di confessare che oltre al desiderio della verità e di quella bellezza che si attiene alla mente, un'altra incli  nazione l'accompagna, un altro istinto e un altro fine ne determina nell' uomo le fasi e lo svolgimento. Cosicchè dopo averlo definito semplicemente desiderio di bellezza, corregge con Platone la sua definizione quando si tratta di applicarla agli uomini, e ammette che è appetito di generare nel subbietto bello , per conservare vita perpetua nelle cose mortali. Questo, dic' egli, è il fine del nostro amore, questo è l'amore degli uomini viventi in terra.  Ne segue che egli pure debba con Socrate e con Platone distinguere i due influssi di Venere celeste e di Venere volgare, dividere fra esse l'attività umana ; le nostre aspirazioni e i nostri bisogni; che debba attribuire all' una la tendenza alla generazione e al godimento materiale, all'altra il desiderio della contemplazione e dei piaceri intellettuali e virtuosi , e che congiungendo questa doppia direzione dell' amore con la triplice forma della vita sensibile, attiva e contemplativa di cui l'uomo è capace, egli ravvisi nell'uva delle due Veneri la causa che ci innalza dalla voluttà al godimento della virtù e della scienza, nell'altra la cagione che ci abbassa dalla scienza e dalla virtù al piacere materiale; in quella la forza che ci fa salire per gli ordini della perfezione, in questa l'impulso che ci fa discendere i gradi della decadenza morale. Ficino svolge con compiacenza il concetto di questa opposizione e insiste lungamente sulla superiorità dell'amore spirituale ; il sentimento cristiano cho lo guida, la qualità del suo carattere, l'indole stessa della sua filosofia, i fini che egli si propone scrivendo dell'amore, gliene ne fanno per così dire una legge. E per fermo nella sua filosofia lo spirito signoreggia talmente che il corpo diventa una sua creazione, che l'anima dimora nella materia come  ospite e prigioniera, finchè ne abbia infranto per così dire i cancelli e sia tornata nella regione sopraceleste fra le anime beate. Immensa è la catena degli spiriti che Ficino, guidato dalla mistica cristiana, stende fra la terra e il cielo, e come ce ne convinceremo fra poco, l'Angelologia non è meno connessa presso di lui con la dialettica dell' amore che con quella dell'intelletto.  Inoltre il sentimento religioso e l'onestà della coscienza lo spinsero a combattere la scostumatezza dei contemporanei, a portare l'amore verso la meta più alta, a sollevarlo dal fango delle passioni epicuree. « Difatto, sogliono i mortali, « dice Ficino nella prefazione al Convito, quelle cose che « generalmente o spesso fanno, dopo lungo uso, farle bene, « e quanto più le frequentano farle meglio. Questo per la « nostra stoltiz.a falla in amore. Tutti continuamente amiamo « in qualche modo, tutti quasi amiamo male, e quanto più « amiamo, tanto peggio amiamo .... e cid avviene perchè « entriamo in questo faticoso viaggio d'amore, senza conoscer« ne il termine e i passi. » (Lettera a Bernardo del Nero).  È dunque nella cognizione di questo termine che si travaglia la sua filosofia. Insegnata da Diotima sacerdotessa di Mantinea a Socrate, trasmessa da Socrate a Platone essa viene significata dal filosofo fiorentino ai suoi concittadini per innalzare la loro mente al vero fine della vita. Ed egli è talmente persuaso della importanza della sua missione che l'insegnamento platonico su questo soggetto è per lui l'effetto d'un decreto della provvidenza, una vera rivelazione dello Spirito divino, un mezzo onde l'amore infinito riduce a sè gli amori erranti dei mortali, e li guida al godimento della bellezza assoluta. E così in questa coine nelle altro  parti della sua filosofia si ritrova quel miscuglio entusiastico di Platonismo e di Cristianesimo indefinito e largo che senza dubbio era frutto dei tempi, ma forse più ancora si atteneva al suo intelletto e a un'indole ondeggiante fra i dogmi alquanto incerti di una erudizione non sempre ben coordinata e precisa. Ma prima di giudicare la dottrina di Ficino sull'amore e di additare la causa dei suoi pregi e dei suoi difetti, facciamo di esporla il più completamente possibile.  Arriviamo con lui al termine della dialettica e prima vediamo che via convien tenere per conseguirlo. È quella medesimá che Platone insegnò nel Convito sotto il nome di Diotima, mostrando come l'animo nostro dai vestigii esteriori della bellezza sparsa nei corpi di una medesima specie, raccolga l'idea di uno bello solo e limitato, poi come delle bellezze distinte e coordinate delle specie corporee formi la bellezza più estesa di un solo genere ; poscia in che guisa passando dall'ordine fisico allo spirituale, dalle bellezze visibili alle invisibili, componga le specie, poi il genere del bello intellettuale e morale sparso nelle virtù, nelle scienze, nelle facoltà e doti tutte dell'essere spirituale, fintantochè accorgendosi che i due ordini partecipano a una medesima idea di perfezione e beltà infinita , sciolta da ogni limitazione, superiore ad ogni genere e specie, la mente si riposi nell'assoluta unità, e quella ami senza modo e misura (Convito, Orazione VI, capit. 18).  Tale è finalmente il termine della salita d'amore, tale è la fonte in cui si appaga la sua sete inestinguibile. « Bi« sogna, dice Ficino, cercarla altrove che nel fiume della ma« teria, e nei rivoli della quantità, figura e colori. O miseri « amanti in che luogo vi volgerete voi ? Chi fu quello che  [ocr errors][ocr errors] « accese l'ardentissima fiamma nei vostri cuori ? Qui è la « grande opera, qui è la fatica. Io ve lo dirò, ma attendete. (Oraz. V, capit. 3).  « La divina potenza superiormente allo universo, agli « angeli, e agli animi da lei creati, clementemente infonde, « siccome a suoi figliuoli, quel suo raggio, nel quale è virtù « feconda a qualunque cosa creare. Questo raggio divino in « questi, como più propinqui a Dio, dipinge l'ordine di « tutto il mondo, molto più espressamente che nella materia « mondana. Per la qnal cosa questa pittura del mondo, la « quale noi veggiamo tutta, negli angeli e negli animi è più « espressa che innanzi agli occhi. In quella è la figura di « qualunque specie, del sole, luna, stelle, degli elementi , « pietre, alberi e animali. Queste pitture si chiamano negli « angeli esemplari e idee, negli animi ragioni e notizie, nella « materia del mondo immagini e forme. Queste pitture son « chiare nel mondo, più chiare nell'animo e chiarissime sono « nell'angelo. Adunque un medesimo volto di Dio riluce in « tre specchi posti per ordine nell'angelo, nell'animo e nel « corpo mondano » (Oraz. IV, capit. 4).  Così Ficino congiunge la sua dottrina degli enti con quella dell'amore, la sua Angelologia con la sua Estetica ; così egli unisce il suo dogmatismo mistico con le belle osservazioni e i profondi concetti che ha ricavati da Platone e dalla scuola d’Alessandria ; così egli varia gli aspetti della filosofia dell'amore, non senza dilettare o abbagliare l'immaginazione e fornire all'animo poetico e religioso un pascolo dilettevole quantunque non sempre con uguale profitto per la so da scienza.  Di tre simboli si serve principalmente Ficino per espri  mere la relazione della bellezza divina colle bellezze create e la sua diffusione nel mondo; il lume, lo specchio e il cerchio. Ora seguendo le traccie di Platone egli ci rappresenta Dio come un sole intelligibile che non diversamente dal sole sensibile produce un lume universale, crea colle forze fecondate dal suo calore l'occhio e la facoltà di vedere, suscita e rende visibili nella materia le forme che l'adornano; ora volgendosi a considerare l'idealità delle cose mondane e a significarne l'origine, ce la rappresenta come un raggio che uscito dalla mente divina accende l'intelletto puro degli angeli, vi produce come in ispecchio gli esemplari degli enti, e di là si ripercuote come in altro specchio nei corpi, per giungere così riflesso all'animo nostro ed unirsi con quello che ci viene direttamente da Dio. Ora finalmente ci figura Dio come un centro posto in mezzo ai quattro cerchi concentrici della mente, dell'anima , della natura e della materia, ce lo dipinge come una forza infinita che da un punto solo raggia a tutti i punti delle circonferenze l'essere e la verità, il bene e la bellezza. Unità assoluta Dio penetra per tutto senza dividersi, proroca e regola il moto senza muoversi, produce il multiplo e il vario senza uscire di sua perfetta semplicità. Con un medesimo lume con una medesima efficacia egli raggia nel cerchio delle menti angeliche le idee o verità , in quello delle anime le ragioni o pensieri; nel cerchio della natura i semi; in quello della materia le forme.  In questi cerchi sono tre mondi che mediante la divina virtù passano dal nulla all'essere, dal caos all'ordine, dall'ordine alla perfezione; i mondi cioè della mente, delle anime e dei corpi. Ciascuno di essi è creato, attratto e perfezionato da Dio, il quale come fattore è principio, come perfezionatore è fine, come potenza attrattiva è mezzo universale degli enti. E il ternario della vita universale, mentre si manifesta nel ritmo cosmico della creazione, attrazione, e perfeziono delle cose, si palesa eziandio nella sostanza dei tre mondi della mente, dell'anima e della materia, e più alto ancora nel triplice attributo di Dio: Bontà, Bellezza e Giustizia. La Bontà crea, la Bellezza attrae, la Giustizia consuma l'opera dell'una e dell'altra. Cosicchè per ultimo tutto procede fontalmente da Dio, tutto è a Dio rapito e in lui tutto ritorna e consiste per atto terminativo o perfetto; tutto viene dall'unità e all'unità si riduce; e la causa principale di questo movimento è la bellezza, l'atto per così dire centrale di questa circolazione della vita è l'amore, amore perfetto e pieno possessore del bello in Dio, amore imperfetto e ricettore meno ampio del suo splendore nel mondo e nell'uomo, nell'angelo, nell'anima e nel corpo.  « Con essa (bellezza) dice Ficino, Dio rapisce a se il mondo « e il mondo è rapito da lui; un certo continuo attraimento è « tra Dio e il mondo; che da Dio comincia e nel mondo « trapassa, e finalmente in Dio termina, e come per un « certo cerchio, d'onde si ripartì, ritorna. Sicchè un cerchio « solo è quel medesimo da Dio nel mondo, e dal mondo in « Dio, e in tre modi si chiama. In quanto ei comincia in « Dio o alletta, Bellezza; in quanto ei passa nel mondo o « quel rapisce, Amore; in quanto, mentre che ei ritorna nello « autore, a lui congiunge l'opera sua, dilettazione. Lo amore « adunque cominciando dalla bellezza, termina in dilettazione».  Egli è a questa dilettazione o beatitudine che Ficino ci chiama, facendosi interprete della religione che suol chiamarsi  naturale, del Cristianesimo e del Platonismo; egli ce la promette nella vita sopramondana; in quell' Iperuranio che Platone da sublime poeta dipinge nel Fedro, in quel Cielo che il genio di Dante sparge di luce e letizia crescente di sfera in sfera fino alla bellezza sfolgorante dell'Empireo e alla maestà del trono divino. Nella sua immaginazione, riscaldata dal misticismo, i due concetti si fondono, i due cieli si unificano, le due religioni si mescolano in una essenza comune, e la intuizione poetica guida e signoreggia la mente del filosofo. Il linguaggio di Dante e di Platone viene successivamente e promiscuamente sulle sue labbra; poichè ora egli vede l'amor divino menar gli animi alla mensa dei celesti abbondante di ambrosia e di nettare, ora contempla l'ordine in cui il medesimo amore dispone per così dire i loro scanni, e la distribuzione con cui li rende quieti e beati. Ficino ammira la perenne effusione e letizia di un affetto che sempre si rinnova e si bea nella sua fonte eterna; congiungendo la terra al cielo, la vita mondana alla celeste, egli ravvisa nell'amore il vincolo dell'una e dell'altra, una medesima forza che si svolge e si perfeziona e quasi un medesimo dramma che s'inizia nella prigione del corpo e si compie in una esistenza pienamente libera e spirituale. Imperocchè i gradi di quelli che seggono nel convito celeste, dice Ficino, seguitano i gradi degli amanti; quelli che più eccellentemente Dio amarono, di più eccellenti vivande quivi si pascono. Ciascuno lo göde sotto un aspetto, e cioè sotto quel medesimo che più amd e imitd sulla terra; in lui la giustizia, la fortezza, la temperanza contempla il beato e fruisce secondo la virtù che lo distinse, secondo il mezzo onde il suo amore si sublimo, e l'idea onde la sua mente fu più inva  ghita (Orazione IV, c. 6). Ma qualunque sia il principio che informa la beatitudine di ciascun'anima, esso è sempre un aspetto di Dio, e per così dire uno splendore del suo volto; cosicchè la gerarchia delle idee divine costituisce i gradi della beatitudine e la medesimezza della divina natura ne forma l'unità.  Ecco ora spiegato l'enigma dell'amore secondo Marsilio Ficino; nell'ultima parte di questa dottrina voi ravvisate un predominio del sentimento religioso e dell'intuizione poetica sulla ragione filosofica, un'abitudine di dogmatizzare che si sostituisce all'atto schietto dell'osservare e del ragionare, o nondimeno una sintesi di concetti e di rappresentazioni che formano un tutt'insieme elevato e degno della nostra ponderata considerazione; sopratutto per le sue attinenze coi fini che Marsilio si proponeva, colla causa della religione allora cosi decaduta nei costumi e nelle credenze, e alla quale ogli si consacrava; colla poesia pazionale che mercè do'suoi commenti si ricongiungera all'Estetica di Platone; finalmente coll'arte che nella patria di Giotto e del Beato Angelico conseguira, mediante i suoi lavori, una coscienza più piena della propria idealità, e una spiegazione più compiuta delle sue inspirazioni.  Grau differenza certo è fra Platone c colui che volle essere suo schietto discepolo, ma non vi riuscì, nè poteva impedito dal suo proposito di conciliare la dottrina del filosofo Atoniese col Neoplatonismo degli Alessandrini e l'uno e l'altro col Cristianesimo. Platone avera bensì additato all'anima umana la bellezza incrcata e perfetta como termino supremo della sua contemplazione; aveva egli detto veramente che il corpo è una prigione per essa, e che la sua vita comincia colla morte corporeil ; aveva insegnato como un sublime do  [ocr errors] vere la fuga dalle cose sensibili alle intelligibili, dai fenomeni alle idee, e qualche altro pronunciato si troverebbe ancora nelle sue opere che divenne pei posteri germe prolifico di dottrine mistiche ed esclusive. Ma egli aveva pure fatto dell'amore un demone, e come un mediatore fra l'uomo e Dio, una sintesi dei contrarii, un misto di perfezione e d'imperfezione; per cui innalzandolo al cielo non lo separava dalla terra, rendendogli le ali non lo dividera dalle passioni e dagli istinti che nei suoi miti stupendi sono rappresentati dai cavalli del cocchio dell'anima e si connettono con le necessità, i fini e le vicende della vita terrena. Egli definisce 'propriamente l'amore il desiderio di generare nella bellezza, e dividendo questa generazione in materiale e spirituale, egli vede soggiacere all'impero e al connubio fecondo dell'amore e del bello la vita filosofica, religiosa, morale artistica e fisica dell'umanità ; per lui le opere belle e buone provengono tutte dall'idea e dall'amore, e la unione e fecondità di entrambi si scorgono nella vita dei grandi poeti, dei fondatori della religione, dei legislatori più sapienti, dei filosofi più sublimi, come nelle leggi secrete che astringono la vita del mondo al mantenimento dell'ordine universale e nei moti istintivi che portano gli animali all'accoppiamento e alla perpetuazione della specie.  Così è, Platone, a malgrado della tendenza profondamente idealistica della sua filosofia, non separa l'amore dalla realtà, e anzi talvolta lo lascia cosiffattamente errare fra gli scogli dei costumi e della società greca, che vi rompe spesso e perde le penne leggiere che debbono volgerlo all' alto e portarlo dalla terra al cielo.  Nella dottrina platonica il carattere religioso dell'amore  si fondava sul razionale, rimaneva dialettico e non si tramutava in un processo mistico. Sotto la guida dell'intelletto saliva dall'umano al divino per ricongiunger questo a quello, benchè i due termini non vi fossero uniti in quella intimità profonda che la trascendenza delle idee platoniche non poteva ammettere. La separazione originaria dell'intelligibile dal sensibile vi apriva bensì un adito al misticismo, come un mezzo di supplire alla insufficienza speculativa della metessi o partecipazione, ma non l'introduceva se non accessoriamente col mito e la immaginazione, chiamati a simboleggiare i misteri dell'oltretomba e a rappresentare artisticamente concetti scientifici sulle attinenze dell'anima col corpo e sulla produzione del mondo. Ma la dialettica ontologica di Ficino foggiata su quella di Proclo non poteva mantenersi in questi confini.  Presso di lui l'amore sembra non avere altr'ufficio sulla terra che di indirizzarci al cielo, i suoi ministerii antropologici, sociali, artistici, scientifici non valere che a rispetto della sua meta suprema. Era questi mezzi Ficino ne distingue principalmente quattro, la poesia, la religione, la divinazione o dono profetico e l'amor divino, e, nel suo modo di vedere, l'opera del sentimento predomina in essi talmente sulla ragione che dilatando il concetto attribuito dal Socrate platonico nel Fedro a Stesicoro e applicato nello Jone specialmente alla facoltà poetica, egli chiama furori gli affetti dai quali dipendono e misura i loro pregi dall'impulso entusiastico col quale concorrono ad unificar l'animo, toglierlo all'agitazione e al moto, accostarlo all'immobilità dell'angelo, e finalmente rapirlo in estasi sopra la moltitudine delle cose mondane fino all'essenza e unità divina (').  M) A conferma del carattere mistico del Commento di f'icino si aggiunga che nell'orazione quarta detta dal Landino il grazioso mito Vol. XXIX. Disp. 3.In Platone l'amore collegandosi colle simpatie naturali e colle tendenze ideali nobilitava gli istinti, stendeva un velo di bontà morale sulla passione, rendeva gli amanti intenti al reciproco, perfezionamento, desiderosi della vicendevole felicità, ammiratori di una comune bellezza; di guisa che in forza della efficacia ideale, dell' amore, un raggio di poesia e di virtù si stendeva sulle sue condizioni reali, ne purificava le funzioni e i fini, ne connetteva i' risultamenti col bene dell'individuo e della società.  Questo aspetto stupendo dell'affetto umano in cui risplende il bene pratico e civile, che si connette con l'eroismo e la gloria, con le virtù operative e feconde, o è stato trascurato o almeno non ha ricevuto il necessario srolgimento nella dottrina di Marsilio. Egli ci ammonisce per vero che dobbiamo, amar Dio in tutte le cose, e tutte le cose in Dio, e che per gịungere a questa purificazione dell'amore ci è mestieri di contemplare la pura essenza delle cose nella luce dei loro tipi ideali, che sono il raggio immediato della Verità e Bontà divina. Là noi troveremo il vero uomo , là vedremo la natura e il fine degli enti, il vero oggetto di tutti i nostri ufficii. Ma in che modo questi bei precetti possono essi applicarsi alla vita ? Ficino non ce lo dice; Ficino non discende da quest'altezza. Mentre Platone segue l'amore nelle sue fatiche e nelle sue ansie, mentre abbracciando con ardore il doppio ordine della  degli Androgini esposto da Aristofane nel Convito platonico è nel Commentu di Ficino trasportato dalla integrità e divisione dell'uomo alla integrità o divisione delle relazioni della conoscenza o attività psichica col lume sopranaturale e naturale. Separata. da Dio e aflidata al solo lame ingenito l'anima è come ridotta alla metà di se stessa, frutto della sua superbia. Essa non ritrova l'altra sua metà e non si reintegra che ritrovando il lume sopranaturale.  vita attiva e contemplativa lo conduce di grado in grado ad ammirare le bellezze del mondo ideale per farne penetrare la luce nelle operazioni e nelle forme del mondo reale, Ficino si contenta d'allontanarlo il più possibile dal corpo e dai suoi piaceri, di persuaderlo che la vista, l'udito e l'intelletto sono i soli mezzi di cui possa giovarsi al suo vero scopo. Ottimi intendimenti, eccellenti consigli, e certamente efficaci sugli animi ben naturati, quando vadano congiunti a due importanti condizioni, e cioè 1° di non dimezzare la natura umana dimenticandone gli imperiosi bisogni, gl' istinti e i fini provvidenziali, e 2o d'aprire all'umana attività una carriera in cui le sue passioni abbiano sfogo regolandosi colle norme della scienza della virtù. No, le idee non son fatte soltanto per essere vagheggiate da solitarii ed egoisti contemplativi, ma eziandio per essere recate all'atto, e sposate per così dire al mondo con fecondo connubio. L'idealismo non può essere la guida della umanità senza l'appoggio del realismo; l'uno e l'altro presi isolatamente sono esclusivi; la loro unione soltanto è vera e feconda. Invano Ficino rapito dalla idea della bellezza assoluta e vedendola scaturire dall'unità divina, mi traccia la via d'amare e mi consiglia di cercarne l'oggetto nell'unità degli enti spirituali, salendo dal corpo (forma) all'anima, dall'anima all'angelo, dall'angelo a Dio; in questa salita in cui la scienza gli rimprovera di realizzare l'astratto, separando la mente dall'anima per crear l'angelo, e di trasportare le tradizioni religiose nelle dottrine filosofiche, il cuore umano separato dalla realtà gli domanda imperiosamente di far ritorno alle sue vere condizioni; egli vuol essere innalzato, ma al patto di riportar tosto dalle sue peregrinazioni celesti, e, per cosi dire dal convito dei beati,  [ocr errors][ocr errors][merged small] quel nettare e quell' ambrosia che spargono di giustizia e bellezza le relazioni della vita, che pascono lo spirito di verità ideale per renderlo efficace operatore di beni e di virtù reali. Invano Ficino conforta i suoi contemporanei a contentarsi, nell'amore, degli atti della vita contemplativa; inutilmente egli deplora i corrotti costumi di una società scettica e dimentica del dovere. La baldanza trionfante dei sensi e della materia resiste alla sua voce come a quella del Savonarola. Lorenzo il magnifico non si distoglie dal suo epicureismo, e la gioventù fiorentina concorre avida e frequente a crescere il numero dei suoi imitatori. L'ascetismo del frate riformatore e il misticismo del sacerdote filosofo sono rimedii troppo superiori alle abitudini della società contemporanea. Essi sarebbero insufficienti a ricondurre qualunque altra società a quelle virtù che rampollando dalle nostre relazioni colla famiglia, colla patria e coll'umanità, innalzano l'amore pei gradi di una gerarchia disposta dalla natura fra l'individuo e l'autore del mondo morale. In questo ordine non bene apprezzato dall'idealismo stesso di Platone, consiste la vera salita d'amore; in queste sfere egli pud essere ad un tempo divino e umano, religioso e civile; egli pud diventar sublime senza cessare di essere pratico, prender per guida l'idea senza perdere di vista la realtà; in esse può spiegarsi la sua forza dal modesto affetto che nudrisce e veglia la vita infante delle mortali generazioni fino all'eroismo che rapito dalla bellezza della giustizia sacra e immola se stesso al trionfo della libertà e del diritto.  A questo segno aveva mestieri di essere condotta Firenze, a questa meta avrebbe dovuto rivolgersi l'Italia sulla fine del 400, per rifare le proprie convinzioni, per correggere  i  suoi costumi, per dare alla forza materiale un fondamento incrollabile nella forza morale.  In questo modo essa avrebbe dovuto provvedere per tempo a se medesima, e opporre l'usbergo della virtù e del coraggio allo straniero che stava per immergerle il ferro nel seno. Egli venne attratto dalla sua bellezza; la trovò mal difesa, la vinse e se ne insignor). Videro i sapienti di quel tempo lo strazio ch'egli ne fece schernendo la sua debole resistenza, e Ficino era fra essi.  Lagrimò il pio sacerdote su tanto male, ricordd agli uomini i loro trascorsi e i segni del cielo forieri di punizione; gl'invitd a rassegnarsi e a pentirsi. Un altro conforto egli porse a Firenze afflitta, interponendosi fra essa e Carlo VIII, e con orazione più informata a carità che a fermezza, si sforzo di volgere l'animo di lui a miti e clementi consigli. Cristiane intenzioni, pietosi ufficii! Ma altri aiuti, altri difensori richiedevano i tempi, e l'energia di Capponi mostrd di che tempra sono gli animi da cui dipende la salvezza dei popoli!  LUIGI FERRI  APPENDICE  Il libro di Ficino sopra l'Amore consta di Orazioni che espongono e commentano con indirizzo neoplatonico, quelle che sono contenute nel Convito di Platone. Ficino stesso narra nel capitolo primo l'origine e lo scopo del suo lavoro.  Platone spird (secondo la tradizione) in un convito nell'ottantunesimo anno di sua età il 7 di ottobre, giorno anniversario della sua nascita, cosicchè gli antichi platonici, ogni . anno, celebravano cotesto giorno in un convito.  Abbandonato per mille e dugento anni da Porfirio in poi il rito solenne, fu restaurato con regale apparato per ordine di Lorenzo il Magnifico nella villa di Caregri, sotto la direzione di Francesco Bandini che ne fu costituito Architriclino.  I convitati furono 9, pari cioè al numero delle muse. Sette figuransi le orazioni dette e corrispondono a quelle che sono contenute nel Convito platonico. Si trassero a sorte le parti da sostenersi e la sorto presaga dell'intenzione del vero commentatore le distribui precisamente nel modo più conveniente alle qualità dei personaggi del nuovo Simposio ; cosicchè la orazione di Fedro, bello e giovane retore, toccò a Giovanni Cavalcanti, che per virtù e nobiltà di animo come per bellezza esteriore fu chiamato l'eroe del Convito; la seconda detta da Pausania ad Antonio degli Agli vescovo di Fiesole, la terza di Erissimaco medico a Ficino medico; la quarta di Aristofane a Cristoforo Landino poeta; la quinta di Agatone a Carlo Marsuppini, la sesta di Socrate a Tommaso Benci, la settima di Alcibiade a Cristoforo Marsuppini. Ma il vescovo e il medico debbono partire per la cura delle anime e dei corpi e commettono le loro disputazioni a Giovanni Cavalcanti. Ficino non poteva essere più cortese coi suoi discepoli e amici platonici. In questo banchetto reale la cui fatica ideale e commemorativa è tutta sua egli si è ecclissato. Anche il Nuti e il Bandini che insieme cogli oratori compiono il numero sacro delle nove muse non sono da lui dimenticati. Al Bandini ordinatore del banchetto non aveva bisogno di attribuire altra parte che quella assegnatagli da Lorenzo; dal Nuti suppose fatta la lettura del Simposio platonico premessa ai commentarii. Secondo il Bandini (Specimen litteraturae Florentinae tomo II, p. 66) sarebbe il Cavalcanti che avrebbe persuaso Ficino a scrivere il libro dell'Amore per invogliare la gioventù della celeste bellezza.  La versione italiana del Commento di Ficino al Convito essendo divenuta ziuttosto rara, e desiderando far conoscere con qualche particolarità le speculazioni del filosofo fiorentino sull'Amore, stimo opportuno di aggiungere alcuni estratti alle citazioni contenute nel testo.  1.  Definizione della Bellezza e dell' Amore.  Bellezza è una certa grazia, la quale massimamente e il più delle volte nasce dalla corrispondenza di più cose; la quale corrispondenza è di tre ragioni. Il perchè la grazia che è negli animi è per la corrispondenza di più virtù. Quella che è nei corpi, nasce per la concordia di più colori e linee. È ancora grazia grandissima ne' suoni, per la consonanza di più voçi. Adunque di tre ragioni è la bellezza; cioè degli animi, de' corpi e delle voci. Quella dell'animo con la mente sola si conosce : quella de' corpi con gli occhi ; quella delle voci non con altro che con gli oreochi si comprende. Considerato adunque che la mente e il vedere e lo udire son quelle cose, con le quali sole noi possiamo fruiro essa bellezza ; e lo amore di fruire la bellezza desiderio sia ; bo. Amore sempre della mente, occhi è orecchi é contento. Lo appetito che gli altri sensi seguita, non amore, ma piuttosto libidine o rabbia si chiama.  II.  Spiritualità della Bellezza e sua relazione con la materia  e con l'arte. — Le proporzioni e l'espressione.  Finalmente che cosa è la bellezza del corpo ? Certamente è un certo atto, vivacità e grazia , che risplende nel corpo per lo influsso della sua idea. Questo splendore con discende nella materia, s' ella non è prima attissimamente preparata. E la preparazione del corpo vivente in tre cose s'adempie, ordine, modo e specie. L'ordine significa la distanza delle parti , il modo significa la quantità, la specie significa: lincamenti e colori. Perchè in prima bisogna che ciascuni membri del corpo abbino il sito naturale, e questo è che li orecchi, li occhi, il naso e. gli altri membri siano ne' luoghi loro, e che gli orecchi" 'amendoi egualmente sieno discosti dagli occhi. E questa parità di distanza che s'appartiene all'ordine, ancora non basta, se non vi s'aggiunge il modo delle parti: il quale attribuisce a qualunque membro la grandezza debita, attendendo alla proporzione di tutto il corpo. E questo è che tre nasi posti per lungo adempino la lunghezza d'un volto ; e ancora li due mezzi cerchi delli orecchi insieme congiunti, faccino il cerchio della bocca aperta: e questo medesimo faccino le ciglia se 1222, me si congiungono. La lunghezza del naso ragguagli la lunghezza del labbro e similmente dello orecchio : e i due tondi degli occhi , ragguaglino l' apertura della booca, otto capi faccino la lunghezza di tutto il corpo: c similmente le braccia distese per lato e le gambe distese faccino l' altozza del corpo. Oltre a questo stimiamo essere necessaria la spezie; acciocchè li artificiosi tratti delle linee e le crespe, e lo splendore degli occhi adornino l'ordine e modo delle parti. Queste tre cose benchè nella materia siano, nientedimeno parte alcuna del corpo essere non possono. L'ordine de'membri, non è membro alcuno : perchè lo ordine è in tatti. i membri, o nessun membro in tutti i membri si ritrova. Aggiugnesi che lo ordine non è altro che conveniente distanza delle parti; e la distanza ė o nulla , o vacuo ,  o un tratto di lince. Ma chi dirà le linee essere corpo ? Conciossinchè manchino di latitudine, e di profondità , necessarie al corpo. Oltre a questo il modo non è quantità, ma è termine di quantità. I termini sono superficie, linee, punti : le quali cose non avendo profondità non si debbono corpi chiamare. Collochiamo ancora la spezio non nella materia, ma nella gioconda concordia di lumi, ombre e linee. Per questa ragione si mostra essere la Bellezza dalla materia corporale tanto discosto, che non si comunica a essa materia, se non è disposta con quelle tre preparazioni incorporali, le quali abbiamo narrate (Orazione V, cap. 6).  che sono III.  L'amore nella creazione e nel mondo.  Tre mondi pongono (i Platonici): tre ancora saranno i caos. Prima che tutte le cose è Iddio autore di tutto, il quale noi esso Bene chiamiamo. Iddio prima crea la mente angelica : dipoi l'anima del mondo come vuole Platone: ultimamente il corpo dell' Universo. Esso sonimo Iddio non si chiama mondo, perchè il mondo significa ornamento di molte cose composto : ed cgli al tutto semplice intendere si debbe. M:: esso Iddio affermiamo essere di tutti i mondi principio e fine. La mente angelica è il primo mondo fatto da Dio; il secondo è l'anima dell'universo, il terzo è tutto questo edifizio che noi veggiamo. Certamente in questi tre mondi, ancora tre caos si considerano. In principio Iddio creò la sostanza della mente angelica, la quale ancora noi essenza nominiamo. Questa nel primo momento della sua creazione è senza forme e tenebrosa: ma perchè ella è nata da Dio, per un certo appetito innato , a Dio suo principio si rivolge: voltandosi a Dio, dal suo raggio è illustrata, e, per lo splendor di quel raggio, s'accende l'appetito suo. Acceso tatto a Dio si accosta ; 'accostandosi piglia le forme; imperocchè Iddio che tutto può, nella mente che a lui si accosta, scolpisce la natura di tutte le cose, che si creano. In quella adunque spiritalmente si dipingono tutte le cose che in questo mondo sono. Quivi le spere de' cieli, e degli elementi, quivi le stelle, quivi la natura de' vapori, le forme delle pietre , de' metalli, delle piante, e degli animali si generano. Queste spezie di tutte le cose, da divino aiuto, in quella superna mente concepute, essere le idee non dubitiamo ; e quella forma e idea de' cieli, spesse volte Iddio cielo chiamiamo; e la forma del primo pianeta Saturno, e del secondo Giove, e similmente si procede ne' pianeti che seguitano. Ancora quella idea di questo elemento del fuoco si chiama Iddio Vulcano, quella dell'aria Junone, e dell'acqua Nettuno, e della terra Plutone ; per la qual cosa, tutti gli dei assegnati a certe parti del mondo inferiore, sono le idee di queste parti in quella superna mente adunate. Ma innanzi che la mente angelica da Dio perfettamente ricevesse le idee, a lui si accostò; e prima che a lui si accostasse, era già di accostarsi acceso lo appetito suo ; e prima che il suo appetito si accendesse, aveva il divino raggio ricevuto : e prima che di tale splendore fosse capace , lo appetito suo naturale a Dio suo principio già si era rivolto  E il suo primo voltamento a Dio è il nascimento d'amore; la infusione del raggio, il nutrimento d'amore, e lo incendio che ne seguita, crescimento d'amore si chiama. Lo accostarsi a Dio è lo impeto d'amore ;  [ocr errors] la sua formazione è formazione d'amore, e lo adunamento di tutte le forme e idee i latini chiamano Mondo, e i greci Cosmo, che ornamento significa. La grazia di questo mondo e di questo ornamento è la bellezza alla quale subitamente che quello amore fu nato, tirò e condusse la mente angelica , la quale essendo brutta (caos) per suo mezzo bella divenne. Però tale è la condizione di amore che egli rapisce le cose alla bellezza, e le brutte alle belle aggiugne. (Orazione I, capo 2).  IV.  Amore legame universale.  Secondo che mostrammo, questo desiderio di amplificare la propria perfezione, che in tutti è infuso, spiega la nascosta e implicata fecondità di ciascuno, mentre che costringe germinare fuori i semi : e le forze di ciascheduno trae fuori : concepe i parti , e quasi con chiave apre i concetti e produce in luce. Per la qual cosii, tutte le parti del mondo, perchè sono opera di uno artefice, e membri di una medesima macchina, tri se in essere e vivere simili, per una scambievole caritii insieme si legano. In modo che meritamente si può dire lo Amore nodo perpetuo, e legaine del mondo, e delle parti sue immobile sostegno, e della universa macchina primo fondameuto. (Orazione III, capo 3).

Grice e Ferri: implicatura erotica

 Il lettore non ignora che il Bonghi ha intrapreso sino dalla sua giovinezza la versione delle opere di Platone. Interrotta e ripresa essa è ora condotta al sesto volume e comprende già i dialoghi : Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Protagora o i Sofisti, Eutidemo, Cratilo, Convito. Di quest'ultimo, o meglio della versione e del lavoro che il Bonghi ci ha dato su di esso, ci proponiamo di render conto brevemente.  Le traduzioni del Bonghi non valgono solo per lo sforzo quasi sempre felice di rendere nella nostra lingua i pregi mirabili dei Dialoghi platonici, segnatamente di quelli che si distinguono maggiormente per la forma arguta, agile e briosa del conversare, ma ben anco per gli studi profondi che da ellenista consumato e da pensatore acuto e vigoroso, egli ha compiuti sul testo e sulla dottrina del grande filosofo, e che in varia maniera e intento diverso di scritti, allargano la sua pubblicazione alle proporzioni di un commento filologico e filosofico, nonché di una illustrazione storica della filosofia di Platone. L'erudizione di cui l'autore dispone e a cui non isfugge nulla delle letterature straniere che risguardi l’Ellenismo in generale e particolarmente la filosofia greca, gli permette di trattar il soggetto in guisa da abbracciare i risultati delle ullime ricerche e della critica più recente. La distribuzione di questo volume, che è il sesto pubblicato, benchè porti la cifra IX e tale debba esser il suo posto nell'intera versione dei Dialoghi, può dare un'idea del modo di procedere in questi lavori. Si apre il volume con una lettera ad una ignota in cui si discorre con quello spirito arguto e vivace e veramente attico che tutti riconoscono nel Bonghi, dell'Amore che, nonstante un titolo diverso, forma veramente la sostanza del Dialogo, non senza toccare lo scabroso argomento degli amori greci e far intendere con delicatezza perchè la dedica di un tal Dialogo non potesse rivolgersi ad una signora, ma dovesse, per così dire, farsi in petto e rimanere misteriosa. Non possiamo trattenerci sulla rapida scorsa data dall'autore in questa lettera alla storia della Dottrina dell'Amore, ovveramente sugli accenni ch'egli fornisce a chi vorrà intraprenderla. Ci basti rilevarne queto tratto che, a suo avviso, la Dottrina platonica dell'Amore assai probabilmente non sarebbe nata senza la depravazione del bisogno e del sentimento che ha spinto l'animo di Socrate e di Platone a sublimare tanto l'amore, quanto nei costumi contemporanei, era divenuto basso e turpe; congettura suggerita certamente da un fatto storico e dalla sua connessione con una grande filosofia, ma che può parere soverchia considerando che la dialettica platonica eleva lo spirito dal finito all'infinito per le due vie unite del pensiero e dell'amore, il cui oggetto comune è l'idea. Non v'ha dubbio che il vizio combattuto da Socrate e da Platone porse un'occasione e una forma particolare allo svolgimeno e sopratutto alla esposizione di questa dialettica, ma essa è talmente connaturata all'intero corpo della dottrina e si ripresenta con tale frequenza, benché per parte, negli altri Dialoghi, e penetra del suo influsso talmente la psicologia e la morale platonica, da permettere di vedere nella salita dell'amore in Dio una parte della suil es. senza. Anche senza gli amori cosi detti greci, il sentimento umano avrebbe sempre offerto nelle sue inevitabili deviazioni qualche altra occasione a questa dottrina.  VOL. II.  Disp. II.  14.  Dopo la lettera anzidetta viene nel volume un Proemio dell'autore di circa 90 pagine diviso in dieci capitoli, nei quali si tratta successivamente del Convito di Senofonte, del Convito di Platone, del paragone dei due Conviti, della dottrina esposta nel Dialogo, poi della storia delle Dottrine affini in Aristotele, negli Stoici e negli Epicurei, nel Cristianesimo, in Plotino e nel Paganesimo ultimo. Seguono copiose ed erudite note alla Lettera ed al Proemio, poi la versione del Convito platonico e quella del Convito di Senofonte, ugualmente accompagnate da note e commenti. Con molta acuratezza ed analisi finissima, il Bonghi espone nel primo capitolo del Proemio il soggetto e l'ordito del Convito Senofonteo mostrando come bensi l'arte non vi sia estranea, ma come anche vi si ritragga un fatto realmente avvenuto coi personaggi che vi presero parte. Senofonte può avere abbellito o modificato in qualche parte i discorsi che vi furono tenuti, ma egli ne ha, senza dubbio, riferita la sostanza e conservato il carattere. Callia, Autolico, Antistene, Socrate e gli altri vi assistettero e vi presero la parola e doveltero farlo in modo conforme all'indole nota di ciascuno. Inducono tanto più a crederlo il modo, il soggetto e l'ordine vario dei discorsi di questo Convito. Ciascuno dei convitati parla di ciò di cui più si tiene, di guisa che se la relazione di Callia col giovane Autolico porge occasione a discorrere dell'amore, e l'amore ne diventa tanta parte, ognuno peraltro loda ciò che è più conforme al suo gusto e gli pare più degno.  Secondo il Bonghi, il vero scopo del Convito di Senofonte è di mostrare uno degli aspetti molteplici della personalità di Socrate e precisamente di dipingerla quale era in una allegra brigata fra amici che si ricambiano piacevolmente lo scherzo; e difatto Socrate vi è chiamato ruffiano, ed egli stesso accetta e si piace di essere chiamato cosi e si tiene del suo ruffianesimo più che di ogni altra cosa, ma la sua arte di mezzano è altamente morale e civile. Essa intende a mettere ciascuno in relazione col proprio spirito, e gl'individui che meritano le sue premure in relazione gli uni cogli altri in modo da porre concordia di virtù e d'amore fra i cittadini, amicandoli con sè stessi e rendendoli utili alla patria. Essa è ben più riformatrice dei costumi greci relativi all'amore, e tale appare negli atti e nei discorsi di Socrate riferiti in questo Convito, poichè egli, olre allo insegnare il modo di volgere al  bene intellettuale e civile l'amore pei fanciulli spiritualizzandolo, per cosi dire, mostra chiaramente di condannarlo nella sua parte materiale coll'additare, nell'amore per la donna, la legittima via segnata dalla natura alla passione amorosa e rialzando la donna dal disprezzo in cui era tenuta, ricordando con esempi le virtù di cui è capace.  Il Convito di Platone non è il racconto di un episodio storico della vita di Socrate, ma un'opera d'arte che, secondo l'avviso del Bonghi, deve essere succeduta allo scritto del suo condiscepolo. I personaggi non sono i medesimi che quelli del Convito di Senofonte. L'ordine dei discorsi non è libero come in quello, nè il soggetto loro vario e a scelta, ma l'uno e l'altro sono prestabiliti secondo il disegno di svolgere nei suoi vari aspetti l'argomento filosofico dell'amore; il quale successivamente da Fedro, da Pausania, da Erissimaco, da Aristofane, da Agatone e da Socrate, che riferisce un dialogo avuto con Diotima, sacerdotessa di Mantinea, è considerato, descritto e lodato come una divinità o come un sentimento, nei simboli mitologici e nei fatti sociali, ora come forza cosmica e funzione essenziale della vita universale, principio della generazione e della perpetuità delle specie, ora nel mito festevolmente inventato da Aristofane come mezzo di completare la nostra imperfetta natura mediante l'unione delle facoltà e delle attitudini che ci mancano e il cui complesso si trova in origine fuso nella unità della essenza umana primitiva, finalmente come mezzo d'innalzarsi, dietro la scorta delle idee, dalle bellezze particolari alla unità delle loro specie e dei loro generi fino a quella della bellezza suprema e increata che non si disgiunge dal bene assoluto.  Noi non possiamo riprodurre dalla dotta e particolareggiata esposizione del Bonghi questi discorsi. Ci limiteremo a riferire i gradi della scala dialettica segnati, secondo il Bongbi, nel discorso di Diotima per salire all'ultimo oggetto dell'amore. « La bellezza corporea è il primo scalino. Ma in questo primo « passo è una singola bellezza d'un corpo o d'un’anima quella a che muove l'anima dell'amante. Un secondo gradino consiď ste nel distaccarsi dalla bellezza singolare, considerando « che l'idea della bellezza che splende nei singoli corpi o nelle « singole anime, è una sola; e risalendo per tal modo da « tali bellezze singole alla idea, in cui ciascuno di tali due « generi di bellezza si raccoglie. Il che fatto ha occasione di « montare un terzo gradino; che è la comparazione dell'idea « della bellezza corporea con quella della bellezza spirituale. « Dove s'avvede, che questa è superiore di molto, onde egli « - e qui il quarto gradino --- non ha più considerazione alla « bellezza del corpo nella persona che prende ad amare, ma « solo alla bellezza dell'anima. L'azione ch'egli esercita su « questa, intrattenendola con ragionamenti adatti a renderla « migliore e ricercandone di tali, gli è motivo a riconoscere « che v'ha una bellezza morale, la quale irraggia del pari (ogni condotta di vita e ogni prescrizione di legge; che sarà « il quinto gradino. Dal quale l'ascensione prossima è alla ( contemplazione della bellezza dell'idea della scienza; ch'è ( sesto gradino.  « A questo punto egli ha già contemplate molte idee di « bellezza; s'è già distaccato da ogni bellezza singola; ha già « liberato il suo spirito da ogni attaccamento particolare; sic( chè è già in grado di contemplare un bello, che su tutte « tali bellezze s' elevi e tutte le raduni, e acquistarne scienza; ( che è il gradino settimo. Ma v'ha ancora più in su di quea sto, un bello, in cui ogni molteciplità o differenza si cona suma e spira. Dal bello di cui vi ha scienza, vi s'ascende, (e colla contemplazione di esso si giunge al sommo della « scala. Che natura ha questo bello supremo ? Perenne, im« mutabile...... perfetto, senza principio nè fine, sovrasensia bile...... inaccessibile a ragionamento o a scienza, comuni« cabile a ogni cosa...... integro sempre e  non accresciuto ( nè scemato mai. Qui è il fine e la beatitudine della vita ; « qui è la fonte d'ogni virtù vera. Nella contemplazione di « questo bello cogli occhi dello spirito che soli lo vedono, si a raggiunge la maggiore intrinsichezza col divino, e si diventa ( davvero immortali. »  Prima di giungere a tanta altezza di pensiero e di esporre il processo dialettico che vi conduce Diotima interrogando Socrate e servendosi del suo metodo, tratteggia un'analisi psicologica dell'amore in due modi e cioè in termini schiettamente filosofici e sotto i colori del mito giungendo col primo alla definizione che amore e desiderio di generare nella bellezza vuoi corporea, vuoi spirituale, e col secondo a rappresentarlo come partorito dalla Povertà unita al Dio Poro (Acquisto) nel giorno in cui gli Dei celebravano il natalizio di Venere; quindi la sua natura di Demone e non di un Dio, ma di tramezzante fra il mortale e l'immortale, sempre povero e ricco insieme, pel bisogno che soddisfatto rinasce e si perpetua nella vita perenne della specie. Il mito suddetto fece credere a parecchi interpreti e critici che Platone quivi, come in altri luoghi, ricorresse a invenzioni poetiche, quasi per nascondere la sua impotenza di arrivare col pensiero filosofico la perfezione espositiva delle parti più astruse delle sue dottrine; ma al Bonghi sembra, e secondo noi con ragione, che la spiegazione si trovi nel doppio aspetto dell'ingegno tutt'insieme filosofico e poetico di lui. Un'altra questione è risoluta dal Bonghi e cioè circa la personalità di Diotima, e la ragione per cui da essa e non da Socrate è esposta la dottrina Platonica dell'amore. A lui pare che di essa si parli con tali accenni alle sue relazioni con la storia d'Atene da escludere che non s'abbia da riguardare come persona reale. Potè poi giudicare Platone di dover fare di essa l'espositrice della dottrina, sia perchè egli distinse sempre o almeno generalmente i pensieri propri da quelli che ebbe comuni col suo maestro e i quali soltanto volle a lui attribuiti nei Dialoghi. Che poi una donna e di più una Sacerdotessa fosse la figura da lui prescelta, la ragione può esser doppia e cioè per elevare di tanto la donna nella intelligenza dell'amore di quanto l'opinione volgare ne abbassava gli uffici e il concetto, e in secondo luogo per esporre sotto forma di iniziazione una dottrina esistente ancora allo stato di intuizione e non sviluppata. Lo spazio ci manca per seguire l'autore nelle vicende dottrinali subite dal concetto dell'amore nelle scuole sopraenumerate che il Bonghi conduce colla sua solita perizia ed erudizione fino agli ultimi tempi del Paganesimo, non senza mostrare quanto le nostre idee si siano trasformate e purificate sotto l'influsso del Cristianesimo.

Grice e Ferri: implicatura erotica

 LUIGI FERRI     Nato a Bologna nel 1826, compì i suoi studi in Francia, e prese in quel paese nel 1850 la Licenza in Lettere. Dopo un periodo di insegnamento nei Licei francesi si stabilì in Italia. Grazie all’amicizia contratta con Mamiani, ed alla vicinanza delle sue prospettive con il platonismo di lui, dopo il 1857 poté assumere alcune cariche nelle scuole del Regno Sardo e poi del Regno d’Italia. Nominato nel 1865 alla cattedra di Storia della filosofia presso l’Istituto di studi superiori di Firenze, passò nel 1871 alla Sapienza di Roma, come titolare di Filosofia teoretica. Nel 1885 successe a Mamiani nella direzione della «Filosofia delle scuole italiane», periodico che ridenominò «Rivista italiana di Filosofia». Morì nel 1895.  Opere 1855 - Il genio di Aristotele. Discorso, Tip. delle Muse, Firenze, 38 pp.     1855 - Stato e relazioni della volontà, della coscienza e della personalità nel sonno, «Il Cimento», s. III, vol. V, 1855, pp. 421-432.     1855 - Della filosofia e del metodo di Rosmini, «Il Cimento», s. III, vol. VI, 1855, pp. 445-471.     1855 - Della filosofia del diritto presso Aristotele, «Il Cimento», s. III, vol. VI, 1855, pp. 713-772, 797-816, 899-925, 989-1005. Estr.: Tip. Franco, Torino 1855, 78 pp.     1858 - Intorno alla filosofia esposta nelle Confessioni del Mamiani e alle dottrine platoniche, «Riv. cont.», VI, 1858, vol. XIV, pp. 337-354.     1859 - Sulle dottrine platoniche e sulla loro conciliazione colle aristoteliche. Lettera a T. Mamiani, «Riv. cont.», VII, 1859, vol. XIX, pp. 292-319. Estr.: Torino 1859.     1863 - Sulle attinenze della filosofia e sua storia colla libertà e coll'incivilimento. Prolusione a un corso di storia della filosofia, Tip. Niccolai, Firenze, 43 pp.     1865 - Ciò che possa la Filosofia per l'istituzione civile dei popoli. Discorso inaugurale per la riapertura del R. Istituto di Studi Superiore di Firenze, Firenze, 18 pp.     1867 – Rec. di P. L. da Savigliano, La filosofia di Bossuet; di S. Turbiglio, Storia della filosofia; di C. Cantoni, G. B. Vico, NA, 1867, vol. IV, pp. 171-188.     1868 - La libertà del pensiero e la filosofia nelle università italiane, NA, 1868, vol. VII, pp. 693-715.     1869 - Essai sur l'histoire de la philosophie en Italie au dix-neuvième siècle, 2 voll., Durand et Didier, Paris, XX-466, 380 pp. [da rilevare: Bibliographie de la philosophie italienne du XIX siècle, vol. II, pp. 365-379].         1870 – L’epicureismo e l’atomismo. Considerazioni storico-critiche a proposito di un libro recente, FSI, I, 1870, vol. II, pp. 377-413. Estr.: Cellini, Firenze 1871, 37 pp.      1870 – Le Meditazioni cartesiane rinnovate nel sec XIX da T. Mamiani, NA, 1870, vol. XIII, pp. 403-412.     1870 - L'arte della rinascenza e i suoi recenti critici, NA, 1870, vol. XIV, pp. 286-312.     1870 – Il materialismo e la scienza moderna, NA, 1870, vol. XV, pp. 248-285, 759-786.     1870 – Rec. di Sesto Empirico, Delle istituzioni pirroniane. Libri tre, tradotti per la prima volta in italiano da S. Bissolati, Imola 1870, FSI, I, 1870, vol. I, pp. 389-395.     1870 – Il Dio di Anassagora e la filosofia greca prima di Socrate, FSI, I, 1870, vol. I, pp. 124-157. Estr.: s.n., s.l., 34 pp.     1870 – Polemica contro il materialismo, FSI, I, 1870, vol. II, pp. 225-237.     1870 – Rec. di R. Bobba, Saggio sulla Protologia di Ermengildo Pini, Torino 1870, FSI, I, 1870, vol. I, pp. 395-401.     1871 – Rec. di J. Bergmann, Grundlinien einer Theorie des Bewusstseins, Berlin 1870, FSI, II, 1871, vol. III, pp. 121-128.     1871 - Vico e la filosofia della storia [Rec. di C. Cantoni, Studi critici e comparativi; P. Siciliani, Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia; T. Mamiani, Principii di cosmologia (Teorica del progresso); S. Ferrari, La Chine et l'Europe], FSI, II, 1871, vol. III, pp. 198-218, 342-390.     1871 - Leonardo Da Vinci e la filosofia dell'Arte. Discorso, Unione tipogr. editr., Torino, 35 pp.     1872 - Rec. di F. Fiorentino, Pietro Pomponazzi. Studi storici su la scuola bolognese e padovana del sec. XVI con molti documenti inediti, Firenze 1869, ASI, s. III, vol. XV, 1872, pp. 65-96. Estr.: Cellini, Firenze 1872, 32 pp.     1872 - Il cardinale Niccolò di Cusa e la filosofia della religione, NA, 1872, vol. XX, pp. 100-125.     1872 - Le forme del pensiero filosofico o il metodo, FSI, III, 1872, vol. V, pp. 9-27.     1872 - Il senso comune nella filosofia e sua storia, FSI, III, 1872, vol. V, pp. 5-36. Estr.: Bernabei, Roma, 34 pp.     1872 - Dei giudizi sintetici a priori nella filosofia di Kant e nelle dottrine italiane del secolo XIX, FSI, III, 1872, vol. V, pp. 82-97.     1872 - Rec. di G. E. Kirchmann, La teorica del sapere, FSI, III, 1872, vol. VI, pp. 83-88.     1872 - Filosofia della Religione. Sulle attinenze della religione e della filosofia e sulla incomprensibilità divina. Lettera al Conte Mamiani, FSI, III, 1872, vol. VI, pp. 170-189.     1873 - Rec. di F. Fiorentino, La filosofia della natura e le dottrine di Bernardino Telesio, Firenze 1872, FSI, IV, 1873, vol. VIII, pp. 29-58. Estr.: Paravia, Torino 1873, 30 pp.     1873 - Del principio e concetto di causa nella scuola di Herbart, FSI, IV, 1873, vol. VII, pp. 43-74.     1873 - Leonardo da Vinci scienziato e filosofo. Vita e scritti secondo nuovi documenti, NA, 1873, vol. XXII, pp. 294-334.      1873 - Leonardo da Vinci e l'idea del mondo nella Rinascenza, NA, 1873, vol. XXIII, pp. 530-570.      1873 - L'ultimo libro di Strauss e i suoi critici, NA, 1873, vol. XXIV, pp. 449-488.     1874 - La forma del pensiero filosofico e l'ideale platonico della filosofia, FSI, V, 1874, vol. IX, pp. 31-55.     1874 - La Scienza morale in Francia. La morale par Paul Janet, FSI, V, 1874, vol. IX, pp. 117-152. Estr.: Ladrange, Paris 1874, 36 pp.     1874 – Rec. di H. Ulrici, Gott und der mensch, II: Grundzüge der praktischen Philosophie, Naturrecht, Ethik und Aesthetik, Leipzig 1873, FSI, V, 1874, vol. IX, pp. 321-364; vol. X, pp. 385-387.     1874 - La dottrina dell'amore secondo Platone, FSI, V, 1874, vol. X, pp. 75-105. Estr.: Tip. Paravia, Roma 1874, 33 pp.      1874 - L'evoluzione storica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici, NA, 1874, vol. XXVII, pp. 822-840.     1875 - L'insegnamento pedagogico superiore in Germania, Francia, nel Belgio e in Italia, in Legislazione comparata, Sansoni, Firenze 1875, pp. 285-360.     1875 - L'idea e l'esistenza di Dio nel libro postumo del Mill, NA, 1875, vol. XXVIII, pp. 656-671.     1875 - Importanza della psicologia nella filosofia moderna, FSI, VI, 1875, vol. XI, pp. 101-104.     1875-1877 - La coscienza. Studio psicologico e storico, FSI, VI, 1875, vol. XI, pp. 249-277; VII, 1876, vol. XIII, pp. 3-28, vol. XIV, pp. 261-284; VIII, 1877, vol. XVI, pp. 135-168.     1875 - Filosofia della religione. Il libro di Hartmann sulla Religione dell'Avvenire, FSI, VI, 1875, vol. XII, pp. 167-187.     1876 - Il Centenario del filosofo Herbart, NA, s. II, vol. II, 1876, pp. 151-157.      1876 - Le procès de Galilée après des documents inédits, «Rev. philosophique de la France et de l'étranger», 1876, vol. I, pp. 367-373.     1876 - Sulle vicende della filosofia in Roma. Discorso, Tip. Civelli, Roma 1876, 25 pp.     1876 - Il metodo psicologico e lo studio della coscienza, FSI, VII, 1876, vol. XIV, pp. 141-155.     1876 - Rec. di W. Windelband, Über den gegenwartigen Stand der psychologischen Forschung, Leipzig 1876, FSI, VII, 1876, vol. XIV, pp. 109-112.     1876 - Rec. di J. Frohschammer, Die Phantasie als Grundprinzip des Weltprozess, München 1876, FSI, VII, 1876, vol. XIV, pp. 368-370.     1876-1877 - Cenni biografici su Giuseppe Ferrari, «Acc. Lincei. Memorie», s. III, I, 1876-1877, pp. 186-193. Estr.: Tip. Salviucci, Roma 1877, 10 pp.     1876-1877 - La psicologia di Pietro Pomponazzi, secondo un manoscritto della Biblioteca Angelica di Roma, T, 3, 8, intitolato: Pomponatius in libros de anima. Memoria del prof. Luigi Ferri letta nelle sedute del 23 aprile e del 18 giugno 1876, «Acc. Lincei. Memorie», s. II, III, 1876-1877, pp. 333-548. Estr.: Salviucci, Roma 1877, 221 pp.      1876-1877 - Sulle vicende della fìlosofia in Roma. Discorso per la inaugurazione degli studi nella Università di Roma pronunciato il 2 novembre 1876, «Annuario Univ. di Roma». Estr.: Civelli, Roma 1877, 25 pp.     1877 - Rec. di H. Joli, Psychologie comparée, l'homme et l'animal, Paris 1877, FSI, VIII, 1877, vol. XV, pp. 135-141.     1877 - Rec. di C. Hermann, Der Gegensatz des Classischen und des Romantischen in der Neueren Philosophie, Leipzig 1877, FSI, VIII, 1877, vol. XV, pp. 289-294.     1877 - La questione dell'anima nel Pomponazzi. Risposta al sig. Fiorentino, FSI, VIII, 1877, vol. XV, pp. 393-416. Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma 1877, 24 pp.      1877 - L'io e la coscienza di sé, FSI, VIII, 1877, vol. XVI, pp. 135-168.     1877 - L’epicureismo nella storia e nella scienza, a proposito di una pubblicazione recente [G. Trezza, Epicuro e l'epicureismo, Firenze 1877], NA, s. II, vol. V, 1877, pp. 22-35.      1878 - I Limiti dell'idealismo, FSI, IX, 1878, vol. XVII, pp. 57-67.     1878 - L'Idea, FSI, IX, 1878, vol. XVIII, pp. 131-146.     1878 - Rec. di L. Strümpell, Die Geisteskräfte der Menschen vergleichen mit denen der Thiere, Leipzig 1878, FSI, IX, 1878, vol. XVIII, pp. 241-249.     1878 - La filosofia scozzese ed il suo ultimo storico Mc. Cosh, FSI, IX, 1878, vol. XVII, pp. 87-97.     1878 - Sulla dottrina psicologica dell'associazione considerata nelle sue attinenze colla genesi delle cognizioni. Saggio storico critico, «Acc. Lincei. Memorie», s. III, II, 1877-1878, pp. 769-858. Estr.: Tip. Salviucci, Roma, 1878, 93 pp. Ed. ampliata: La psicologia dell'associazione dall'Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma 1894, XIX-404 pp.     1878 - Rec. di G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno («Acc. Scienze Torino. Memorie», s. II, vol. XXX, pp. 1-259), FSI, IX, 1878, vol. XVII, pp. 118-122.     1879 - Rec. di F. Harms, Die Philosophie in ihrer Geschichte. I: Psychologie, Berlin 1878, FSI, X, 1879, vol. XIX, pp. 112-117.     1879 - L'assoluto e la mente. Lettera al conte Terenzio Mamiani, FSI, X, 1879, vol. XIX, pp. 137-148.     1879 - Il trattato di Cicerone sui Doveri. Conferenza, FSI, X, 1879, vol. XIX, pp. 291-312.     1879 - Rec. di Burman, Om den Nyare Italiankie Filosofien, Uppsala 1879, FSI, X, 1879, vol. XIX, pp. 374-375.     1879 - Rec. di M.J. Mourad, Deukrichtungen der neueren Zeit, eine Kritische Rundschau, Bonn 1879, FSI, X, 1879, vol. XX, pp. 254-256.     1879 - Rec. di A. Conti e G. Rossi, Esame della filosofia epicurea nelle sue fonti e nella storia, Firenze 1878, FSI, X, 1879, vol. XIX, pp. 370-372.       1879-1880 - Sulla storia dell'Accademia Platonica fondata in Firenze dai Medici. Parte I e II, «Acc. Lincei. Transunti», s. III, IV, 1879-1880, pp. 97-98, 123.     1880 - Rec. di A. Espinas, La philosophie expérirmentale en Italie, Paris 1880, FSI, XI, 1880, vol. XX, pp. 368-373.     1880 - La dottrina di Helmholtz sulla percezione, FSI, XI, 1880,  vol. XXI, pp. 211-225.     1880 - Delle Idee e propriamente della loro natura, classificazione e relazione [a proposito di una dissertazione di P. D’Ercole], FSI, XI, 1880, vol. XXII, pp. 113-121.       1880 - Rec. di J. I. Hoppe, Die persönliche Deukthätighrit, Würzburg 1880, FSI, XI, 1880, vol. XXII, pp. 229-233.     1880 - Il Positivismo e la Metafisica (L'essenza delle cose), FSI, XI, 1880, vol. XXII, pp. 319-343. Estr.: Salviucci, Roma 1880, 27 pp.     1880 - Un libro di Terenzio Mamiani sulla religione, NA, s. II, vol. XXI, 1880, pp. 65-92.     1880 - L'Accademia romana di S. Tommaso d'Aquino e l'istruzione filosofica del clero, NA, s. II, vol. XXIV, 1880, pp. 613-635.     1880-1881 - Sulla recente restaurazione della filosofia scolastica e tomistica considerata in ordine ai metodi degli studi ed alle attinenze dei sistemi colla scienza e colla storia, «Acc. Lincei. Transunti», s. III, V, 1880-1881, p. 29.     1880-1881 - Cenno bibliografico di alcune opere di A. Vera, «Acc. Lincei. Transunti», s. III, V, 1880-1881, pp. 183-184.     1880-1881 - Sulla percezione esteriore e sul fenomeno sensibile, «Acc. Lincei. Transunti», s. III, V, 1880-1881, p. 330.     1880 - Rec. di Documenti intorno a Giordano Bruno, a cura di D. Berti, Roma 1880, FSI, XI, 1880, vol. XXI, pp. 103-105.     1881 - Due parole alla «Civiltà Cattolica» sulla filosofia di S. Tommaso, FSI, XII, 1881, vol. XXIII, pp. 99-104.     1881 - Rec. di A. Franck, Réformateurs et Publicistes de l'Europe XVII siècle, Paris 1881, FSI, XII, 1881, vol. XXIII, pp. 171-181.     1881 - Rec. di R. Adamson, Über Kants Philosophie, Leipzig 1880, FSI, XII, 1881, vol. XXIII, pp. 326-330.     1881 - Rec. di J. Mc Cosh, The Emotions, London 1880, FSI, XII, 1881, vol. XXIV, pp. 102-108.     1881 - Petrarca e il suo influsso sul pensiero del Rinascimento FSI, XII, 1881, vol. XXIV, pp. 316-340. Estr.: Salviucci, Roma, 27 pp.     1881 - Rec. di L. Mabilleau, Essai sur la philosophie de la Renaissance en Italie: Cesare Cremonini, Paris 1881, FSI, XII, 1881, vol. XXIV, pp. 351-358.      1882 - Zanotti, F. M., La filosofia morale di Aristotele. Compendio. Con note e passi scelti dell'Etica Nicomachea per cura di L. Ferri e F. Zambaldi, G. B. Paravia e Comp., Torino [etc.] 1882, VII-276 pp.; 18832, VII-190-84 pp.; 18853, VII-490 pp.      1882 - Un nuovo libro sulla coscienza (La vraie conscience par Francisque Bouiller), Paris 1882, FSI, XIII, 1882, vol. XXVI, pp. 3-17.     1882 - Dottrina aristotelica del bene e sue attinenze colla civiltà greca e italiana, FSI, XIII, 1882, vol. XXV, pp. 135-169.     1882-1883 - Commemorazione di Bertrando Spaventa, «Acc. Lincei. Transunti», s. III, VII, pp. 193-196.     1882-1883 – Relazione sul concorso al premio reale per le Scienze filosofiche, «Acc. Lincei. Transunti», s. III, VII, pp. 45, 67-73.     1883 - La psichologie de l'association depuis Hobbes jusqu'à nos jours, Baillière, Paris, 378 pp.      1883 - Il fenomeno nelle sue relazioni con la sensazione, la percezione e l'oggetto, FSI, XIV, 1883, vol. XXVII, pp. 78-107.      1883 - Di Marsilio Ficino e delle cause della rinascenza del platonismo nel quattrocento, FSI, XIV, 1883, vol. XXVIII, pp. 180-201.     1883 - Leonardo da Vinci secondo i nuovi documenti, NA, s. II, vol. XLI, 1883, pp. 597-628.     1883-1885 - Analisi del concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Come contributo al dinamismo filosofico, «Acc. Lincei. Memorie», s. III, XII, 1883-1884, pp. 303-335; e «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, I, 1884-1885, pp. 299-300, 498-499. Estr.: Salviucci, Roma 1885, 35 pp.     1884 – Il platonismo del Ficino, FSI, XV, 1884, vol. XXIX, pp. 237-260.     1884 – La dottrina dell’amore del Ficino, FSI, XV, 1884, vol. XXIX, pp. 269-294.  1884 - Una lezione elementare di psicologia. Fatti psichici e fatti fisici, FSI, XV, 1884, vol. XXX, pp. 245-265.  1884 – L’idea della giustizia nella utopia di Platone. A proposito di recenti pubblicazioni, NA, s. II, vol. XLVII, 1884, pp. 28-45.     1884 - Storia della filosofia. Il platonismo di Marsilio Ficino. Le idee e la dialettica. La dottrina dell'amore, FSI, XV, 1884, vol. XXIX, pp. 237-260, 269-294. Estr.: Salviucci, Roma 1884, 28 pp.     1884 - Le malattie della memoria e la sostanzialità dell'anima, FSI, XV, 1884, vol. XXX, pp. 3-35.     1884 - Una lezione elementare di psicologia. I fatti psichici e i fatti fisici, FSI, XV, 1884, vol. XXX, pp. 245-265.     1884-1885 - Cenno bibliografico di un'opera di P. d'Ercole, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, I, 1884-1885, pp. 251-253     1884-1885 - Cenni bibliografici su una pubblicazione di A. Conti, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, I, 1884-1885, pp. 31-34.     1884-1885 - Cenno necrologico del socio Augusto Vera, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, I, 1884-1885, pp. 748-750.     1885 - Analisi del concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Contributi al dinamismo filosofico. Memoria, Salviucci, Roma, 35 pp.     1885 - Di alcuni uffici della filosofia nelle condizioni morali del nostro tempo, FSI, XVI, 1885, vol. XXXI, pp. 219-229.     1885 - Un libro recente di psicofisiologia (L'ipnotismo), FSI, XVI, 1885, vol. XXXII, pp. 105-114.     1885 - L'idea della personalità nella Filosofia moderna, FSI, XVI, 1885, vol. XXXI, pp. 11-27.     1885 - Rec. di A. Chiappelli, Del suicidio nei dialoghi di Platone, FSI, XVI, 1885, vol. XXXII, pp. 324-325.     1885-1886 - Commemorazione di T. Mamiani letta dal prof. Luigi Ferri all'Accademia dei Lincei nella seduta del 10 gennaio 1886,  «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, II, 1885-1886, pp. 29-52. Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma 1886, 40 pp.     1885-1886 - Delle condizioni del sistema filosofico nel nostro tempo, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, II, 1885-1886, pp. 196-199.     1885-1886 - Sulla vita e le opere di T. Mamiani, RIF, I, 1886, vol. I, pp. 7-32.     1886 - Il fenomeno sensibile e la percezione esteriore, ossia i fondamenti del realismo, «Acc. Lincei. Memorie», s. IV, II, 1886, pp. 251-275. Estr.: Tip. Acc. Lincei, Roma 1887, 27 pp.     1887 - Il monismo nella filosofia contemporanea, RIF, II, 1887, vol. I, pp. 217-227.     1887 - Rec. di A. Chiappelli, La cultura storica e il rinnovamento della filosofia, RIF, II, 1887, vol. I, pp. 286-288.     1887 - Lettera al sig. Antonino Pennisi-Mauro, RIF, II, 1887, vol. I, pp. 298-306.     1887 - Rec. di D. Levi, Giordano Bruno o la Religione del pensiero. L'uomo, l'Apostolo e il martire, RIF, II, 1887, vol. I, pp. 344-347; e «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, III, 1886-1887, pp. 547-549.     1887 - Rec. di E. Dal Pozzo di Mombello, L'evoluzione geologica inorganica animale ed umana, RIF, II, 1887, vol. I, pp. 288-291.     1887 - Le lauree in filosofia, RIF, II, 1887, vol. II, pp. 329-332.     1887 - Della idea del vero e sua relazione colla idea dell'essere, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, III, 1887, p. 549; e «Acc. Lincei. Memorie», s. IV, III, 1887, pp. 3-42. Estr.: Tip. Salviucci, Roma 1887, 42 pp.     1888 - La filosofia politica in Montesquieu e Aristotele, RIF, III, 1888, vol. I, pp. 113-133.     1888 - Rec. di M. Panizza, La fisiologia del sistema nervoso e i fatti psichici, Roma 1887, RIF, III, 1888, vol. I, pp. 182-191.     1888 - Di una vecchia definizione del concetto, RIF, III, 1888, vol. I, pp. 76-80.     1888 - Antonio Rosmini e il decreto del Sant'Uffizio, RIF, III, 1888, vol. I, pp. 275-289.     1888 - Il Convito di Platone tradotto da R. Bonghi, Roma 1888, RIF, III, 1888, vol. II, pp. 209-214.     1888 - Della idea dell'essere, «Acc. Lincei. Memorie», s. IV, IV, pp. 38-76. Estr.: Tip. Acc. Lincei, Roma 1888, 41 pp.     1888 - Cenno bibliografico di una pubblicazione di D. Berti, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, IV, 1888, pp. 405-409.     1888 - Cenno bibliografico di un'opera di R. Benzoni, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, IV, p. I, 1888, pp. 769-771; IV, p. 2, 1888, pp. 293-296.     1888 - La psicologia fisiologica e l'origine dei fatti psichici, NA, s. III, vol. XIV, 1888, pp. 424-443.     1889 - L'ultima critica di Ausonio Franchi, NA, s. III, vol. XXIV, 1889, pp. 507-518.     1889 - Un libro postumo di Spaventa. La dottrina della cognizione nell’hegelianismo, RIF, IV, 1889, vol. I, pp. 129-158.     1889 - La dottrina della conoscenza nell'Hegelianismo, RIF, IV, 1889, vol. I, pp. 146-147.      1889 - Rec. di A. Franck, La Kabbale ou la philosophie religieuse des Hebreux, Paris 1889, RIF, IV, 1889, vol. II, pp. 195-199.     1889 - Rec. di E. Colini, Notizie della vita e delle Opere di Terenzio Mamiani, Jesi 1889, RIF, IV, 1889, vol. I, pp. 228-230.     1889 - Rec. di D. Berti, Giordano Bruno da Nola, sua vita e sue dottrine. Nuova edizione riveduta e notabilmente accresciuta, Torino 1889, RIF, IV, 1889, vol. II, pp. 300-301.     1889 - Rec. di L. Credaro, Lo scetticismo degli Accademici, vol. I: Le fonti - la storia esterna - la dottrina fondamentale, Roma 1889, RIF, IV, 1889, vol. II, pp. 302-308.     1889 - Rec. di W. Lutoslawski, Jordani Bruno Nolani Opera inedita, manu propria scripta («Archiv. fur Geschichte der Philosophie», Bd. II, Helft, 1889) RIF, IV, 1889, vol. II, pp. 313-314.     1889 - Sui sistemi unitario e trinitario dell'essere, RIF, IV, 1889, vol. II, pp. 320-321.     1889 - Cenni bibliografici di pubblicazioni filosofiche dei Soci: Berti, St. Hilaire, e Tocco, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, V, pp. 917-919.     1889 - F. Cicchitti-Suriani, Della dottrina degli affetti e delle passioni secondo la filosofia stoica e cristiana. Saggio storico di psicologia morale con lettera di L. Ferri all'Autore, Tip. Aternina, Aquila, X-150 pp.     1890 - Sguardo retrospettivo: opinioni degli italiani intorno alle origini del Pitagorismo. Nota, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, VI, pp. 532-547. Estr.: Roma 1890, 16 pp.     1890 - Il problema della coscienza divina in un libro postumo di Bertrando Spaventa (Esperienza e metafisica), RIF, V, 1890, vol. I, pp. 257-279.     1890 - Rec. di C. Lessona, Elementi di Morale Sociale ad uso dei Licei (3° corso) e degli Istituti Tecnici, compilati secondo gli ultimi programmi, RIF, V, 1890, vol. I, pp. 373-383.     1891 - L'Accademia Platonica di Firenze e le sue vicende, NA, s. III, vol. XXXIV, 1891, pp. 226-244. Estr.: Roma 1891.     1891 - Cenno bibliografico su di un'opera di G. Carle, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, VII, 1891, p. 128.     1891 - Rec. di Les problèmes d'Aristote traduits en francais pour la première fois et accompagnés de notes par J. Barthélemy Saint-Hilaire, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. IV, VII, 1891, pp. 583-586.     1891 - Della conoscenza sensitiva, RIF, VI, 1891, vol. I, pp. 137-64; 1892, vol. I, pp. 421-463.     1891 - Alcune considerazioni sull’eclettismo, RIF, VI, 1891, vol. II, pp. 86-91.     1892 – Alcune considerazioni sulle categorie, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. V, I, 1892, pp. 459-474.     1892 - Notizia letteraria: I dialoghi di Platone tradotti da Ruggero Bonghi, vol. VI: Teeteto, Roma 1892, NA, s. III, vol. XXXVII, 1892, pp. 750-756.     1892 - La percezione intellettiva e il concetto, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. V, I, 1892, pp. 408-421.     1892 - Rec. di G. Zuccante, Saggi filosofici, 3 voll., Napoli 1872, RIF, VII, 1892, vol. I, pp. 138-139.     1893 - Cenno necrologico del Socio straniero E. Renan, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. V, I, 1892, pp. 819-821.     1893 - Commemorazione del Socio straniero Ippolito Taine, «Acc. Lincei. Rendiconti», s. V, II, 1893, pp. 235-237.     1893 - La percezione intellettiva e il concetto, RIF, VIII, 1893, vol. I, pp. 40-58.     1893 - Necrologia. Ippolito Taine, RIF, VIII, 1893, vol. I, pp. 396-398.     1893 - Necrologia di Giacomo Moleschott, RIF, VIII, 1893, vol. II, pp. 129-130.     1893 - Il carattere dello spirito italiano nella storia della filosofia, NA, s. III. vol. XLIII, pp. 5-21.     1894 - La psicologia dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma 1894, XIX-404 pp.     1894 - Rec. di P. Sabatier, Vie de S. François d'Assise, Paris 1894, RIF, IX, 1894, vol. II, pp. 352-369.      1895 - L'insegnamento della filosofia e l'educazione pubblica, RIF, X, 1895, vol. I, pp. 3-20. Estr.: Tip. Balbi, Roma 1895, 20 pp.     1893 - Il carattere nazionale e il classicismo nell’etica degli italiani, NA, s. III, vol. LV, 1893, pp. 440-459. Estr.: Tip. Forzani e C., Roma 1897,  22 pp.     1895 - Rec. di F. Maltese, Socialismo, RIF, X, 1895, vol. I, pp. 231-5.     1895 - Rec. di R. Federici, Les lois du Progrès déduites des phenomènes naturels, RIF, X, 1895, vol. I, pp. 119-122.     1898 - Manuale di pedagogia e didattica, Tip. Sociale, Ferrara, 112 pp.     1898 - L'evoluzione filosofica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici, RIF, XIII, 1898, vol. I, pp. 4-25.     1913 - Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine, in G. Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, Libreria Editoriale Milanese, Milano 1913; a cura di O. Campa, La Voce, Firenze  19243.  

Thursday, March 25, 2021

Grice e Ficino: implicatura erotica

 IL CONVITE (traduzione al toscano di Hectore Barrabasa).  Apollodoro: Credo proprio di essere ben preparato per soddisfare la vostra2 curiosità. L'altro giorno, infatti, venivo in città da casa mia, al Falero, quando uno che conosco3, dietro di me, mi chiama da lontano in tono scherzoso: "Ehi tu, del Falero4, Apollodoro, mi aspetti un momento?"Mi fermo e l'aspetto. E quello: "Apollodoro, t'ho cercato ovunque. Volevo domandarti dell'incontro di Agatone, di Socrate, di Alcibiade e degli altri che erano con loro al simposio, e così sapere quali discorsi lì si sono fatti sull'amore. Mi ha già raccontato qualcosa un altro, che ne aveva sentito parlare da Fenice5, il figlio di Filippo; mi ha detto che tu eri al corrente di tutto, ma lui, purtroppo, non poteva dir niente di preciso. E quindi ti prego, racconta: nessuno meglio di te può riportare i discorsi del tuo amico. Ma dimmi, per cominciare: eri presente a quella riunione o no?" "Si vede bene - rispondo io - che quel tizio non ti ha raccontato niente di preciso, se credi che la riunione che ti interessa sia avvenuta da poco, e io abbia potuto parteciparvi"."Io credevo così"."Ma com'è possibile, Glaucone? Sono molti anni - non lo sai? - che Agatone6 manca da Atene. E poi sono passati meno di tre anni da quando io frequento Socrate e sto attento tutti i giorni a quello che dice e che fa. [173] Prima me ne andavo di qua e di là, credendo di fare chissà che cosa, ed ero invece l'essere più vuoto che ci sia, come te adesso, che credi che qualsiasi occupazione sia meglio della filosofia"."Non mi prendere in giro - disse - e dimmi piuttosto quando c'è stata quella riunione.""Noi eravamo ancora dei ragazzini - gli rispondo -. Fu quando Agatone vinse il premio con la sua prima tragedia, il giorno successivo a quello in cui offrì, con i coreuti, il sacrificio in onore della sua vittoria”."Ma allora son passati molti anni. E a te chi ne ha parlato? Socrate stesso?""No, per Zeus, - dico io - ma la stessa persona che l'ha raccontato a Fenice, un certo Aristodemo7, del demo Cidateneo, uno mingherlino, sempre scalzo. C'era anche lui alla riunione: era uno degli ammiratori più appassionati di Socrate, allora, a quel che sembra. Io poi non ho certo mancato di chiedere a Socrate su ciò che avevo sentito da Aristodemo: e lui stesso mi ha confermato che il suo racconto era esatto." "E allora racconta, presto. La strada per la città sembra fatta apposta per chiacchierare, mentre andiamo."Ed eccoci dunque in cammino, parlando di queste cose: è per questo che sono così preparato, come v'ho detto all'inizio, per parlarne adesso. Se dunque questo racconto deve essere fatto anche a voi, son ben felice di farlo. Del resto, quando parlo io di filosofia, o altri ne parlano in mia presenza, provo la gioia più grande. Al contrario, quando sento parlare certe persone, e soprattutto i ricchi, gli uomini d'affari, la gente come voi, allora mi annoio e ho anche un po' pena per voi, che credete di fare chissà cosa e invece fate cose che non valgono niente. Da parte vostra, del resto, mi giudicate un poveretto, e forse lo sono davvero. Ma che siate voi dei poveretti, questo non lo sapete affatto, e io invece lo so.Amico di Apollodoro: Sei sempre lo stesso, Apollodoro. Dici sempre male di te e degli altri. Tu hai l'aria di pensare che, Socrate a parte, tutti gli altri siano dei poveretti, a cominciare da te stesso. Da dove ti viene il soprannome di "Tranquillo", proprio non si sa. Tu non cambi proprio mai: ce l'hai sempre con te stesso e con tutti gli altri, a parte Socrate8. Apollodoro: Ma carissimo, non è evidente? Questa opinione che ho di me e degli altri non prova forse quanto sia folle, quanto deliri? Amico di Apollodoro: Dai, Apollodoro, non val la pena adesso di star qui a litigare. Fa' piuttosto quel che ti abbiamo chiesto e raccontaci: che discorsi si fecero quella notte? Apollodoro: E va bene, ti racconterò più o meno cosa si disse. Ma forse è meglio che parta dall'inizio e cerchi di rifare per voi, a mia volta, il racconto di Aristodemo. Incontrai Socrate, mi disse, che usciva dal bagno e si era messo dei sandali, contro le sue abitudini9. Gli domandai, dove andasse, visto che si era fatto così bello. E lui mi rispose: "Vado a cena da Agatone. Ieri alla festa in onore della sua vittoria me ne son venuto via, perché mi dava fastidio tutta quella gente. Ma ho accettato di andar da lui oggi e così mi son fatto bello: voglio esser bello per andare da un bel giovane10. E tu? Che ne pensi di venire anche se non sei stato invitato?"Io risposi: "Ai tuoi ordini!""Allora seguimi, mi disse. Per questa volta faremo una piccola modifica al proverbio e diremo che le persone per bene vanno a cena senza invito dalle persone per bene. Del resto anche Omero non solo l'ha modificato questo proverbio, ma ha quasi rischiato di capovolgerlo. Rappresenta Agamennone come un guerriero di prim'ordine e Menelao come un guerriero senza coraggio; ma poi al pranzo offerto da Agamennone dopo un sacrificio ci fa vedere che arriva anche Menelao, che viene alla festa senza esser stato invitato13: l'uomo che val poco che va al festino di un uomo valoroso!".E a questo Aristodemo mi disse di aver risposto così:"Allora corro proprio un bel rischio, ma non per quel che dici tu, Socrate; credo piuttosto di essere, come in Omero, il pover'uomo che si presenta senza invito dal grand'uomo. Vedrai tu che mi ci porti quali scuse trovare, perché io non dirò certo di non essere stato invitato, dirò che mi hai invitato tu". "Due che vanno insieme, mi rispose, l'uno provvede all'altro14: e allora andiamo, che per via penseremo a cosa dire".E con questo proposito, mi disse, ci mettemmo in cammino. Ma Socrate, concentrato nei suoi pensieri, rimaneva indietro. Quando l'aspettavo, mi diceva di andar pure avanti. Arrivo da Agatone, la porta è aperta e mi trovo subito in una situazione un po' comica: uno schiavo mi viene incontro dalla casa e mi porta nella sala dove gli altri avevano già preso posto, già pronti per la cena. Mi vede Agatone e mi dice:"Aristodemo, arrivi al momento gusto per cenare con noi. Se sei venuto per qualcos'altro, rimanda tutto a più tardi, perché ieri ho cercato di invitarti ma non t'ho trovato. E Socrate? non è con te?"Allora mi volto, mi disse Aristodemo, e non lo vedo più. Non mi era dietro. Spiego dunque di essere venuto con Socrate, e che era stato lui ad invitarmi alla cena."Ben fatto, disse Agatone. Ma lui dov'è?""Era dietro a me sino ad un istante fa! dove può essere finito?"[175] "Ragazzo, disse allora Agatone ad un servo, va ben a vedere dov'è Socrate e portalo da noi. Tu Aristodemo intanto prendi posto su questo divano a fianco d'Erissimaco".E raccontava che mentre un domestico gli lava i piedi per potersi stendere sul divano, un altro arriva dicendone una nuova:"Questo Socrate di cui parlate s'è rintanato nel vestibolo dei vicini, ed è fermo là; ho avuto un bel chiamarlo, non è voluto venire"."Certo che è ben strano, disse Agatone. Ritorna subito a chiamarlo e non lasciarlo lì"."Non fate niente, dissi io, lasciatelo là piuttosto. E' un'abitudine che ha quella di mettersi in un angolo, non importa dove, e di restare là dov'è. Verrà presto, penso; non disturbatelo, lasciatelo tranquillo"."E va bene, facciamo così, disse Agatone, se lo dici tu! Quanto a noi, ragazzi portateci da mangiare. Voi portate sempre da mangiare quel che vi pare, quando non c'è nessuno a controllare - cosa che io peraltro non ho mai fatto nella mia vita! Ma oggi, fate finta che io e i miei amici siamo vostri invitati e portateci il meglio, tanto da meritare i nostri complimenti!"E così, disse Aristodemo, eccoci a tavola, ma Socrate non veniva. Agatone insisteva tutti i momenti per mandarlo a chiamare, ma io lo fermavo. Alla fine arrivò, diciamo verso la metà del pranzo, senza essersi poi fatto troppo aspettare, come spesso faceva. Allora Agatone, che si trovava da solo sull'ultimo divano, gli disse subito:"Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa apprendere subito per contatto diretto i tuoi pensieri là nel vestibolo; a qualcosa devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora là".Socrate si siede e fa:"Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero scivolare da chi ne ha più a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo accanto, tu ed io; come l'acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla coppa più piena alla più vuota. Se è così, voglio subito mettermi al tuo fianco, perché la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia coppa. Che per la verità è un po' così, incerta come un sogno, mentre la tua sapienza è limpida e può sfavillare ancora di più, lei che ha brillato con lo splendore della tua giovinezza e ier l'altro ha fatto faville davanti a più di trentamila greci, che prendo tutti a miei testimoni!" "Che fai, mi prendi in giro, Socrate?, disse Agatone. Sulla saggezza faremo i conti più tardi, te ed io, e prenderemo Dioniso a nostro giudice. Ma intanto pensiamo a cenare". E così, disse Aristodemo, Socrate prese posto sul divano. Dopo aver cenato, e gli altri con lui, e dopo aver fatto le libagioni, i canti in onore del dio e le cerimonie d'uso16, ci si preparò a bere. Fu Pausania, allora, a prendere la parola per dire più o meno così:"Carissimi, come si fa adesso a bere senza star male? io, ve lo dico subito, non mi sento troppo bene dopo la festa di ieri, perché ho bevuto un po' troppo e vorrei andarci piano stasera; del resto voi dovreste essere più o meno tutti nelle mie condizioni, perché c'eravate anche voi ieri. Allora, come possiamo fare per bere senza star male?"Intervenne Aristofane: "Ben detto, Pausania. Ti do proprio ragione, anch'io vorrei andarci piano a bere perché sono di quelli che ieri sera hanno forse un po' esagerato!"A queste parole, disse Aristodemo, intervenne Erissimaco17, il figlio di Acumeno: "Avete ragione, disse, ma sentiamo gli altri: tu che ne dici, Agatone, hai ancora la forza di bere?""Per nulla, rispose, non ce la faccio proprio"."A quanto sembra, disse Erissimaco, è proprio una fortuna per tutti - per me, per Aristodemo, per Fedro, per tutti quanti - che voi, i migliori bevitori, dobbiate adesso rinunciare, perché noi non ce la faremmo a starvi dietro. Farei un'eccezione per Socrate: è tanto bravo a bere che a non bere, per lui andrà sempre bene, qualunque cosa decidiamo18. E, visto che nessuno qui mi sembra disposto a bere del gran vino, forse riuscirò a non essere sgradito a nessuno dicendovi la verità sull'ubriachezza. Come medico devo subito dirvi che è evidente che ubriacarsi fa male. Del resto io non mi sento portato a bere fuori misura19, né a consigliare ad un altro di farlo, soprattutto se ha la testa ancora pesante per il giorno prima".Poi intervenne Fedro20, quello di Mirrinunte:"Quanto a me, io ti credo sempre se parli di medicina, ma oggi ti crederanno tutti, se non sono matti". Queste parole furono ascoltate e all'unanimità si decise che non si sarebbe passata la serata ad ubriacarsi e che ciascuno avrebbe bevuto quanto si sentiva."E dunque, riprese Erissimaco, visto che siamo d'accordo che ciascuno beva quanto vuole, senza nessun obbligo, io proporrei adesso di congedare la nostra giovane flautista21 che è appena entrata: per stasera suoni da sola o, se lo desidera, per le donne di casa. Noi, invece, passeremo la serata chiacchierando. Di cosa possiamo parlare? Io quasi quasi un'idea ce l'avrei, se volete ve la dico".Tutti furono d'accordo, disse Aristodemo, e chiesero a Erissimaco di fare la sua proposta. Questi riprese dicendo: "Parlerò, per cominciare, alla maniera della Melanippe di Euripide22, «perché non son mie queste parole», che adesso vi dirò, ma di Fedro, che è lì. Lui mi dice sempre, tutto indignato: «Non è strano, Erissimaco, che per tutti gli altri dèi vi siano inni e peana23 composti dai poeti e che in onore dell'Eros, un dio così potente, così grande, non vi sia stato ancora un solo poeta, tra tutti, che abbia composto il più piccolo elogio? Prendi, se vuoi, i sofisti di fama: scrivono in prosa l'elogio di Eracle, e d'altri ancora, come ha fatto l'ottimo Prodico24. Ma c'è di peggio. Non mi è capitato l'altro giorno di vedere il libro di un sapiente che faceva l'elogio del sale25, per la sua utilità? Ed altre cose dello stesso genere, lo sappiamo, sono state fatte oggetto di elogio. Ci si è data molta pena di trattare di parecchi argomenti, ma l'Eros, lui non ha trovato ancora nessuno sino ad ora che abbia avuto il coraggio di onorarlo come merita! Ecco come ci si dimentica di un grande dio!» Ebbene, io credo che su questo Fedro abbia ragione. Desidero dunque, da parte mia, portare il mio contributo onorandolo, facendo qualcosa che gli sia gradito; adesso quindi potremmo fare tutti un elogio di questo dio. Se siete d'accordo, avremmo così un argomento senza alcun dubbio davvero assai interessante con cui passare il nostro tempo. Potremmo, cominciando da sinistra verso destra, fare un elogio dell'Eros, il più bell'elogio di cui siamo capaci. Fedro parlerà per primo, perché è al primo posto ed è allo stesso tempo il padre di quest'idea". "Nessuno, mio caro Erissimaco, disse Socrate, voterà contro la tua proposta. Non sarò io ad oppormi, che dichiaro subito di non saper nulla di nulla, ma dell'Eros son proprio esperto26; non Agatone o Pausania, e certo neppure Aristofane, che trascorre tutto il suo tempo fra Dioniso e Afrodite, né gli altri che vedo qui stasera. Certo il compito è più difficile per noi che occupiamo gli ultimi posti. Ma se quelli che parlano prima di noi lo faranno davvero bene, ne saremo soddisfatti. Che Fedro cominci, con i nostri auguri! che faccia l'elogio dell'Eros!". Furono subito tutti d'accordo e tutti si unirono all'invito di Socrate. Aristodemo non si ricordava più esattamente ciò che ciascuno disse e io stesso non ricordo più bene ciò che lui mi raccontò. Le cose più importanti, o quel che a me è sembrato più degno di essere ricordato, adesso ve lo riporterò nella forma in cui ciascuno l'ha detto. Discorso di FedroE così, secondo Aristodemo, il primo a parlare fu Fedro, cominciando il suo discorso più o meno in questi termini:"E' un gran dio l'Eros, un dio che merita tutta l'ammirazione degli uomini e degli dèi per diverse ragioni, non ultima la sua origine. E' annoverato tra i più antichi dèi, e questo, aggiunse, è un onore. Di questa antichità abbiamo una prova: l'Eros non ha né padre né madre, e nessuno, né in poesia né in prosa, glielo ha mai attribuito. Esiodo27 ci dice che innanzitutto vi fu il Caos, "e la Terra dall'ampio seno, / sicura sede per tutti i viventi e l'Eros28...". E, in accordo con Esiodo, anche Acusilao29 dice che dopo il Caos sono nati questi due esseri, la Terra e l'Eros. Quanto a Parmenide30, parlando della generazione dice che "di tutti gli dèi, Eros fu il primo che la dea partorì". Così c'è ampio accordo nel dire che l'Eros è uno degli dèi più antichi.Essendo così antico, è per noi la sorgente dei più grandi beni31. Per me, io lo affermo, non c'è più grande bene nella giovinezza che avere un amante32 virtuoso e, se si ama, trovare eguale amore in chi si ama. Infatti i sentimenti che devono guidare per tutta la vita gli uomini destinati a vivere nel bene non possono ispirarsi né alla nobiltà della nascita né agli onori né alla ricchezza, né a null'altro: devono ispirarsi ad Eros. Ora, mi chiedo, quali sono questi sentimenti? La vergogna per le cattive azioni, l'attrazione per le azioni belle. Senza questo, nessuna città, nessun individuo potranno far mai nulla di grande e di buono. Così, io lo dichiaro, un uomo che ama, se sorpreso in flagrante a commettere un'azione malvagia o a subire per vigliaccheria, senza difendersi, una grave offesa, soffrirà certamente se a scoprirlo saranno suo padre o i suoi amici o chiunque altro; ma soffrirà molto di più se a scoprirlo sarà il suo amante. Ed è lo stesso per l'amato: è davanti al suo amante, noi lo sappiamo bene, che egli sentirà la più grande vergogna, quando sarà sorpreso a fare qualcosa di cui vergognarsi. Se esistesse un mezzo per mettere insieme una città o un esercito fatti solo da amanti e dai loro amati, essi si darebbero certamente il miglior governo che ci sia: allontanerebbero infatti da loro tutto ciò che è cattivo e rivaleggerebbero sulla via dell'onore33. E se questi amanti combattessero34 l'uno di fianco all'altro potrebbero vincere, per così dire, il mondo intero, anche se fossero soltanto un piccolo gruppo, perché sarebbero molto uniti tra loro. [179] Infatti per un innamorato sarebbe più intollerabile abbandonare i ranghi o gettare le armi35 sotto gli occhi del suo amato che sotto gli occhi del resto dell'esercito; preferirebbe piuttosto morire cento volte. Quanto ad abbandonare chi si ama, a non aiutarlo in caso di pericolo, nessuno è così vigliacco che l'Eros non riesca a ispirargli una forza divina rendendolo eguale a quelli che per natura hanno grande coraggio. Esattamente come in Omero il dio viene a ispirare l'ardore per la battaglia a certi eroi, così l'Eros fa questo dono agli innamorati, ed essi lo accettano da lui.Meglio ancora: morire per l'altro. Soltanto gli amanti accettano questo, non solo gli uomini, ma anche le donne. La figlia di Pelia, Alcesti36, ha dato ai Greci un esempio chiarissimo di ciò che dico. Soltanto essa acconsentì a morire per il suo sposo, che pure aveva un padre e una madre. La sua figura si eleva così in alto su di loro per la forza nata dal suo amore da farli apparire estranei al loro stesso figlio, senza altro legame con lui che il nome. Avendo agito in questo modo, il suo gesto è sembrato bellissimo, non solo agli uomini ma anche agli dèi. Essi concedono davvero a pochi il privilegio di richiamare in vita la loro anima dal fondo dell'Ade, una volta morti. Ebbene fra tanti eroi, autori delle più belle azioni, concessero questo privilegio proprio ad Alcesti ricordandosi del suo gesto che avevano tanto ammirato. A tal punto gli dèi onorano la dedizione e il coraggio al servizio dell'Eros. Al contrario essi mandarono via dall'Ade Orfeo37, figlio di Eagro, senza ottenere nulla: gli mostrarono soltanto un'immagine38 della donna per la quale era venuto, senza concedergliela. La sua anima, infatti, sembrava loro debole, perché altri non era che un suonatore di cetra; non aveva avuto il coraggio di morire, come Alcesti, per il suo amore, ma aveva cercato con tutti i mezzi di penetrare da vivo nel regno dei morti. E' certamente per questa ragione che essi gli hanno inflitto questa punizione e hanno fatto in modo che morisse per mano delle donne. Non hanno agito nello stesso modo con Achille39, il figlio di Teti: l'hanno trattato con onore, aprendogli la via per le isole dei beati. Achille infatti, avvertito dalla madre che sarebbe morto se avesse ucciso Ettore, e sarebbe invece tornato a casa finendo i suoi giorni da vecchio se non lo avesse fatto, scelse con coraggio di restare al fianco di Patroclo, il suo amante, vendicandolo: scelse non di morire per salvarlo, perché era già stato ucciso, ma di seguirlo sulla via della morte. Così gli dèi, pieni di ammirazione, gli hanno tributato onori eccezionali, per aver posto così in alto il suo amante.Eschilo scherza quando pretende che Achille sia l'amante di Patroclo: Achille era più bello non soltanto di Patroclo, ma anche di tutti gli altri eroi messi insieme; era un ragazzo, non aveva ancora la barba, ed era quindi assai più giovane di Patroclo, come dice Omero. Così se gli dèi onorano soprattutto questo particolare tipo di coraggio che si mette al servizio dell'amore, essi ammirano, stimano, ricompensano ancor di più la tenerezza dell'amato per l'amante che quella dell'amante per i suoi amati. L'amante, infatti, è più vicino al dio dell'amato, perché un dio lo possiede40. Ecco perché gli dèi hanno onorato Achille più che Alcesti, aprendogli la via per le isole dei beati.Ecco dunque, io lo dichiaro, l'Eros è tra gli dèi il più antico e il più degno, ha i maggiori titoli per guidare l'uomo sulla via della virtù e della felicità, sia in vita che nel regno dell'aldilà".Discorso di PausaniaFu questo pressappoco, secondo Aristodemo, il discorso di Fedro. Dopo Fedro parlarono altri, ma lui non si ricordava bene. Non me ne ha parlato e invece mi ha riportato il discorso di Pausania, che si espresse in questi termini:"Io credo, Fedro, che l'argomento sia mal posto quando ci si domanda semplicemente di fare l'elogio dell'Eros. Se di Eros ve ne fosse uno solo, potrebbe anche andar bene. Ma non è così: non ce n'è uno soltanto, e allora è bene prima spiegare di quale Eros dobbiamo tessere l'elogio. Cercherò dunque, da parte mia, di chiarire le cose su questo punto, di precisare innanzitutto quale amore si debba lodare e quindi pronuncerò un elogio che sia degno di questo dio. Tutti sappiamo che non c'è Afrodite senza Eros. Se dunque non vi fosse che una Afrodite, non vi sarebbe che un solo Eros. Ma essa è duplice, e quindi, necessariamente, abbiamo due Eros. Come negare che esistano due dee42? L'una, senza dubbio la più antica, non ha madre: è figlia di Urano, e la chiamiamo quindi la dea del cielo, Afrodite Urania; l'altra, la più giovane, è figlia di Zeus e di Dione, e la chiamiamo quindi la dea popolare, Afrodite Pandemia. E allora necessariamente l'Eros che serve l'una dovrà chiamarsi Eros Pandemio, quello che serve l'altra Eros Uranio. Certo, bisogna lodare tutti gli dèi; ma, detto questo, qual è il dominio dei due dèi? E' questo che dobbiamo provare a dire. Ogni azione si caratterizza per questo, che in sé non è né bella né brutta. In quello che adesso facciamo, bere, cantare, chiacchierare, non c'è nulla di bello in sé; è piuttosto il modo in cui si compie un'azione a dar questo o quel risultato, e così seguendo le regole della bellezza e della rettitudine un'azione diventa bella, al contrario senza rettitudine diventa brutta. E lo stesso avviene per l'atto d'amore, e quindi non tutto l'amore è bello e degno di elogio: lo è soltanto quello che porta ad amare bene43.Ora l'Eros compagno di Afrodita Pandemia certo è volgare e opera a casaccio: è proprio degli uomini da poco. Intanto queste persone si innamorano sia delle ragazze che dei ragazzi, indifferentemente; e poi amano i corpi, non l'anima, e preferiscono le persone meno intelligenti: vogliono arrivare dritto al loro scopo, non gl'importa il modo - che sia bello o brutto. Capita quindi che si imbattano nel bene, e capita anche il contrario. Come è ovvio, questo Eros si unisce alla più giovane delle due dee, che sin dal suo concepimento partecipa sia del maschile che del femminile. L'altro Eros, invece, partecipa dell'Afrodite Urania che da sempre è estranea all'elemento femminile e partecipa soltanto del maschile; e poi è la più antica e non conosce alcun impulso brutale. Per questa ragione quanti sono ispirati da questo Eros sono attratti dall'elemento maschile: essi amano teneramente il sesso per natura più forte e intelligente. E proprio da questa inclinazione ad innamorarsi dei ragazzi si possono riconoscere quanti sono posseduti con purezza da questo Eros, perché essi non amano i giovani prima che abbiano dato prova d'intelligenza. Ora, questo è impossibile che accada prima che i giovani siano abbastanza grandi da avere la prima barba. E' questa l'età, io credo, in cui è bene cominciare a rivolgere ad essi attenzioni d'amore, per restare poi con loro per tutta la vita, per legare le proprie esistenze, piuttosto che abusare della credulità di un giovane sciocco, farsi gioco di lui e piantarlo poi per correre dietro ad un altro. Ci vorrebbe una legge che proibisse di amare i ragazzi troppo giovani: così non si sprecherebbero tante cure per un risultato imprevedibile. Non è infatti possibile prevedere che cosa ne sarà di un ragazzino, se avrà vizi o virtù sia nel corpo che nell'anima. L'uomo che vale si pone senza dubbio da sé, e di buon grado, questa legge. Ma bisognerebbe anche che chi coltiva amori volgari abbia un limite, simile a quello che nella misura del possibile è imposto dalla legge che impedisce di avere relazioni d'amore con donne di condizione non servile. [182] Sono proprio questi amanti volgari, infatti, che hanno screditato l'Eros e dato a certuni il coraggio di dire che è una vergogna cedere ad un amante. Chi dice questo, lo fa perché ha davanti agli occhi la mancanza di tatto e di onestà di questi amanti volgari, mentre nessun gesto al mondo merita d'essere criticato quando la convenienza e la legge sono rispettate. Ancora di più: la regola di condotta, per quel che concerne l'Eros, è facile da comprendere nelle altre città44, perché la sua definizione è semplice. Nell'Elide, presso i Beoti, e nelle altre città in cui i cittadini non sono abili nel far grandi discorsi, la regola ammessa è semplice: è un bene cedere agli amanti e nessuno, giovane o vecchio, dirà mai che c'è da vergognarsi. Il fine, credo, è di evitare l'imbarazzo di dover convincere i giovani con la parola, perché non sono gran parlatori. Nella Ionia, al contrario, e in diverse altre zone, la regola dice che questo non va bene: sono paesi dominati dai Barbari. Presso i Barbari, infatti, a causa dei loro regimi tirannici, il giudizio comune è che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante: lo stesso giudizio si dà per l'amore per il sapere e per l'esercizio fisico. Senza dubbio, ai loro capi non conviene che nascano grandi intelligenze tra i sudditi, e neppure grandi amicizie e società saldamente unite, come in effetti l'Eros, più di ogni altra cosa al mondo, sa produrre45. Di questo hanno fatto esperienza anche i tiranni qui da noi: l'amore di Aristogitone e l'amicizia di Armodio46, sentimenti solidi, hanno distrutto il loro potere. Così là dove si ritiene che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante, questa convinzione è nata dalla debolezza morale della gente: desiderio di dominio presso i capi, vigliaccheria presso i sudditi. Là invece dove la regola ammette in tutta semplicità che è cosa buona, essa è nata per la pigrizia dell'animo di quella gente.Presso di noi la regola è molto più bella e, come ho detto, non è facile da comprendere. C'è da rifletterci, in effetti: è più bello, si dice, amare apertamente piuttosto che in segreto, e soprattutto amare i giovani di nascita migliore e di meriti più alti, anche se meno belli di altri; di più, chi è innamorato è straordinariamente incoraggiato da tutti, e nessuno pensa che faccia qualcosa di cui vergognarsi: il successo è il suo onore, lo scacco è la sua vergogna; e nei tentativi di conquista la regola elogia gli amanti per delle stravaganze che esporrebbero alle critiche più severe chiunque osasse comportarsi così per altri scopi. [183] Supponiamo infatti che uno voglia ottenere del denaro da qualcuno, che voglia esercitare una magistratura, o una qualsiasi funzione importante: se accetta di fare ciò che fanno gli amanti per i loro amati - assillarli con preghiere e suppliche, pronunciare grandi giuramenti, dormire dietro le loro porte, abbassarsi volontariamente ad ogni sorta di schiavitù che nessuno schiavo accetterebbe di buon grado - ebbene tutto questo gli sarà impedito sia dai suoi amici che dai suoi nemici: questi gli rimprovereranno la sua adulazione e la sua bassezza, quelli lo faranno ragionare e arrossiranno per lui. Queste cose, invece, sono ben viste per l'innamorato e la nostra regola non le critica affatto: sono qualcosa che si sta ad ammirare. E la cosa più strana è, secondo il detto popolare, che lui solo può giurare e ottenere grazia davanti agli dèi se tradisce i suoi giuramenti: dinanzi ad Afrodite, a quanto si dice, nessun giuramento vale. Così gli dèi e gli uomini danno agli innamorati una libertà totale: lo dice la nostra regola. E questo porta a pensare che la regola nella nostra città giudichi cose perfette la bellezza e l'amore, e l'amicizia che ricompensa gli amanti. Ma quando d'altra parte i padri fanno sorvegliare dai pedagoghi i loro figlioli innamorati, in modo che non possano parlar d'amore con i loro amanti; quando i giovani della loro età, i loro amici, li rimproverano per il loro amore; quando gli adulti non si oppongono a queste critiche e non le biasimano come fuori luogo; allora se si considera tutto questo si potrebbe credere, al contrario, che questo tipo di amore goda presso di noi di cattiva fama. Ecco, io credo, come stanno le cose. La faccenda non è per nulla semplice, come ho già detto all'inizio: in se stessa non è né bella né brutta. E' bella se le azioni sono belle, è brutta se le azioni sono brutte. E' cosa brutta cedere ad un uomo cattivo e per cattivi motivi; è cosa bella cedere ad un uomo di valore e per bei motivi. Ora chi si comporta male è, come prima dicevo, l'amante volgare, che ama il corpo più che l'anima. Non ha costanza, perché l'oggetto del suo amore è incostante. All'affievolirsi della bellezza del corpo che ama, egli "s'invola e va via", e tradisce senza vergogna alcuna tante belle parole, tante promesse. Ma chi ama il carattere di una persona per le sue alte qualità, resta fedele tutta la vita perché il suo amore riposa su qualcosa di costante. [184] Le nostre regole si propongono di mettere gli uomini alla prova della serietà e dell'onestà, perché si ceda agli uomini che valgono e si fuggano gli altri. Incoraggiano quindi a sceglier bene tra il cedere e il fuggire, creando delle prove che permettano di riconoscere di che natura sia l'amante, di che natura sia la sua anima. Su questo si fonda evidentemente la massima: «a cedere subito c'è da vergognarsi». Più tempo passa, infatti, più si ha la prova, sembra, della serietà dell'amore. Una seconda massima, poi, dice che c'è da vergognarsi a cedere per denaro o per averne vantaggi politici, sia che ci si intimorisca di fronte ad un'azione decisa, che rende incapaci di reagire, sia che non si respingano con sdegno le lusinghe della ricchezza e del successo politico: niente di tutto ciò ha l'aria d'essere solido e stabile, e dunque non può venirne alcuna generosa amicizia48. Non resta dunque, secondo la nostra regola, che una via onesta perché l'amato possa cedere all'amante. Presso di noi la regola è la seguente: come tra gli amanti non c'è nulla di umiliante nel far di se stessi degli schiavi consenzienti, secondo quella forma di schiavitù che prima dicevo, e non c'è il rischio di essere criticati, nello stesso modo rimane una sola altra forma di schiavitù volontaria che sfugga a ogni critica: quella che ha la virtù come proprio oggetto. La nostra regola infatti dice questo, che se si accetta di essere al servizio di un altro pensando di diventare migliori grazie a lui, nel sapere o in un'altra virtù, qualunque sia, questa servitù liberamente accolta non ha niente di cattivo e non è umiliante. Bisogna dunque riunire in una sola queste due regole, quella che riguarda l'amore verso i ragazzi e quella che riguarda l'amore per il sapere o per tutte le altre forme di virtù, se vogliamo che si abbia un bene dal fatto che l'amato ceda all'amante. Infatti quando le vie dell'amante e dell'amato si incontrano, ed essi insieme seguono la stessa regola, il primo di rendere al suo amato tutti i servizi compatibili con la giustizia, il secondo di dare all'uomo che cerca di farlo diventare saggio e buono tutte le forme di assistenza compatibili con la giustizia - l'uno potendo contribuire a dare l'intelligenza e tutte le forme di virtù, l'altro avendo bisogno di progredire nell'educazione e più in generale nel sapere -, allora in verità quando queste regole convergono, e in questo caso solamente, questa coincidenza fa sì che sia cosa bella che l'amato ceda all'amante. Altrimenti, è da escludere. Nel bene, anche se chi cede è completamente vittima della situazione, non c'è alcun disonore, ma in tutti gli altri casi, che si sia vittime o meno, c'è di che vergognarsi. [185] Infatti se c'è qualcuno che per arricchirsi ha ceduto a un'amante che crede ricco, e viene poi ingannato e non ottiene nulla, perché il suo amante si rivela povero, la cosa rimane riprovevole anche se si è una vittima. Un simile uomo sembra mostrare il fondo della sua anima: per denaro si presta a tutto verso il primo venuto, e questo non è affatto bello. Secondo lo stesso ragionamento se si cede a qualcuno credendolo pieno di qualità e pensando di diventare migliori legandosi a questo amante, e se in seguito ci si trova ingannati scoprendo la sua malvagità, quanto sia povero nella virtù, ebbene chi è stato ingannato non ha nulla di cui vergognarsi. Anche in questo caso, infatti, sembra rivelarsi la qualità dell'anima: la virtù e il progresso morale, in tutto e per tutto, sono l'oggetto della propria passione - e questa è la cosa più bella che ci sia. Quindi è bellissimo cedere, quando si cede per la virtù. Questo Eros viene dall'Afrodite Urania, ed è davvero divino e prezioso per la città come per gli individui, perché esige dall'amante e dall'amato che entrambi veglino su se stessi, per essere ricchi di virtù. Quanto agli altri, essi rivelano il legame con l'altra dea, l'Afrodite Pandemia.Ecco, mio caro Fedro: io non ho fatto che improvvisare; è questo il mio tributo per Eros". Dopo la pausa di Pausania - uso questo gioco di parole sullo stile dei maestri della parola49 - era venuto il turno di Aristofane, mi diceva Aristodemo. Ma caso volle che, o per la cena troppo abbondante o per qualche altra ragione, avesse il singhiozzo e non riuscisse a parlare. Chiese allora a Erissimaco, il medico, di parlare lui al posto suo:"Bisogna, Erissimaco, o che tu fermi il mio singhiozzo, o che tu parli al mio posto in attesa che mi passi"."E va bene, rispose Erissimaco, farò l'uno e l'altro. Parlerò al tuo posto e tu parlerai al mio quanto ti sarà passato il singhiozzo. Mentre parlo, se trattieni a lungo il respiro il tuo singhiozzo si deciderà ad andarsene. Se non se ne va, fai dei gargarismi con dell'acqua. E se non se ne va ancora, cerca qualcosa per solleticarti il naso e starnutire. Se lo farai una o due volte, per quanto tenace sia il tuo singhiozzo, se ne andrà"."A te parlare, dunque, disse Aristofane, io seguirò i tuoi consigli50".Discorso di Erissimaco[186] Allora Erissimaco prese la parola. "Io credo51, Pausania, che dopo un buon inizio tu non abbia risposto del tutto alle esigenze del soggetto trattato, ed è quindi necessario che io cerchi, da parte mia, di completare il suo discorso. La tua distinzione tra i due tipi di amore mi sembra eccellente. Ma essa non riguarda soltanto le anime degli uomini nei loro rapporti con le persone belle; riguarda anche i rapporti tra altri oggetti d'amore, tra altri esseri, che si tratti dei corpi degli animali o delle piante che la terra nutre: in una parola, riguarda tutti gli esseri viventi52. La medicina, la nostra arte, credo mi consenta questa osservazione. Essa permette di vedere che Eros è un grande dio, un dio meraviglioso, e che la sua azione si estende su tutto, sia nell'ordine dell'umano che del divino. Comincerò dalla medicina, per fare onore alla mia arte. La natura dei corpi comporta un duplice amore. Ciò che è sano nel corpo è ben diverso e dissimile da ciò che è malato, questo lo ammettono tutti. Ora, il dissimile ama e desidera il dissimile53: l'amore che è proprio della parte sana è dunque diverso dall'amore che è proprio della parte malata. Dunque, proprio come Pausania diceva che è cosa bella accordare i propri favori agli uomini che se lo meritano ed è cosa brutta cedere ai dissoluti, così quando si tratta dei corpi stessi favorire ciò che vi è di buono e di sano in ciascuno è cosa bella e necessaria, ed è questo che chiamiamo medicina, mentre bisogna rifiutarsi di favorire ciò che è malvagio e malsano, se si vogliono seguire le regole dell'arte. La medicina infatti, se vogliamo definirla in una parola, è la scienza dei fenomeni d'amore propri dei corpi, nei loro rapporti con il riempirsi e il vuotarsi, e chi da questi fenomeni sa diagnosticare il buono e il cattivo amore, ebbene questi è il miglior medico. Chi sa operare dei cambiamenti grazie ai quali si acquista un amore al posto dell'altro; chi sa far nascere l'amore nei corpi in cui manca e sa eliminarlo quando è di troppo; ebbene costui è davvero padrone di quest'arte. Senza alcun dubbio. Il medico deve essere capace di ristabilire l'amicizia e il mutuo amore tra gli elementi del corpo che più si odiano. Ora, gli elementi che più si odiano sono quelli contrari: il freddo e il caldo, l'amaro e il dolce, il secco e l'umido, e così via. E' per avere saputo mettere l'amore e la concordia tra questi elementi che il nostro antico padre Asclepio54 - a quel che dicono i nostri poeti, e io lo credo - è il fondatore della nostra arte. La medicina è dunque, come dicevo, tutta quanta governata da questo dio. E questo vale anche per la ginnastica e per l'agricoltura55. Quanto alla musica, non occorre una grande riflessione per vedere che è la stessa cosa. Senza dubbio è questo che vuol dire Eraclito, benché la sua espressione non sia felice. Egli dichiara infatti che l’uno «in sé discorde con se stesso si accorda, come l'armonia dell'arco e della lira56».Ora, è molto illogico affermare che l'armonia consiste in una opposizione o che essa è composta da elementi che si oppongono ancora. Ma egli voleva forse dire che a partire da una opposizione originaria, tra l'acuto e il grave, i due elementi in seguito si accordano e l'armonia si realizza grazie alla musica. Infatti, se veramente l'acuto e il grave si opponessero ancora, non si vede come potrebbe nascere l'armonia. L'armonia infatti è una consonanza, e una consonanza è una sorta di accordo. Ora, l'accordo di elementi opposti, se permangono opposti, è impossibile, e d'altro canto non può esserci armonia tra ciò che si oppone e non si accorda: nello stesso modo il ritmo nasce dal rapido e dal lento, cioè da elementi all'inizio opposti che in seguito si accordano. E come prima la medicina, adesso è la musica che introduce l'accordo tra tutti questi elementi, creando amore reciproco e accordo. E dunque la musica è essa stessa, nell'ordine dell'armonia e del ritmo, una scienza dei fenomeni dell'amore. Ora, se nella costituzione dell'armonia e del ritmo i fenomeni dell'amore possono essere osservati facilmente, questo accade perché non vi sono due specie d'amore. Ma quando per il pubblico si eseguono ritmi e armonie, sia componendole (in quella che si chiama composizione musicale) sia servendosi a seconda dei casi di composizioni melodiche o metriche composte da altri (in quella che si chiama educazione musicale), allora la cosa diventa difficile e si ha bisogno di un uomo del mestiere, che sia abile. Ecco allora tornare il discorso di prima: se bisogna cedere, è bene farlo con uomini dai costumi ben regolati, proprio per migliorarsi quando ancora non si hanno le stesse qualità; l'amore di questi uomini deve essere ben difeso e bisogna quindi rivolgersi all'Eros bello, all'Eros Uranio, quello della Musa Urania. L'altro è quello di Polimnia, l'Eros Pandemio57, che bisogna offrire con prudenza a chi viene ad offrirlo a noi, in modo da trarne piacere senza strafare; è come nella nostra arte, la medicina, che deve saper ben dosare il gusto per la buona cucina, per imparare a goderne senza ammalarsi. Così dunque in musica, in medicina, in tutto l'ordine delle cose divine e umane, è necessario proteggere nella misura del possibile l'uno e l'altro amore, poiché vi si trovano entrambi. Anche l'ordine delle stagioni dell'anno è riempito da questi due amori, e quando gli elementi di cui parlavo prima - il caldo e il freddo, il secco e l'umido - incontrano nei loro reciproci rapporti l'amore ben regolato, essi si armonizzano combinandosi nella giusta misura, allora portano l'abbondanza e la sanità agli uomini, agli animali, alle piante, senza causare alcun danno58. Ma quando nelle stagioni dell'anno prevale l'amore senza misura, rovina ogni cosa ed è causa di grandi disastri. La pestilenza, infatti, ha origine da questi fenomeni e così le più varie malattie che aggrediscono animali e piante: gelo, grandine, i mali delle piante, provengono dal desiderio senza limiti e misura nelle relazioni reciproche fra questi fenomeni, governate dall'amore. C'è una scienza che tratta nello stesso tempo del movimento degli astri e delle stagioni dell'anno: si chiama astronomia59.Tutti i sacrifici, poi, e tutto ciò che ha a che fare con la divinazione (cioè tutto ciò che mette in comunicazione gli dèi e gli uomini) non hanno altro scopo che quello di proteggere l'amore e di guarirlo. L'empietà nasce abitualmente dal non cedere all'amore ben regolato, dal non onorarlo, dal non riverirlo con ogni propria azione, ma dall'onorare l'altro amore, nei rapporti sia con i propri genitori, viventi o morti, sia con gli dèi. Questo è il compito assegnato alla divinazione: sorvegliare coloro che amano e guarirli. Ed è ancora lei, la divinazione, che permette l'amicizia tra gli dèi e gli uomini, perché essa conosce, nell'ordine degli umani, quei fenomeni d'amore che tendono al rispetto degli dèi e alla pietà.Questa è la molteplice, l'immensa o piuttosto l'universale potenza che è propria dell'Eros. E' lui ad agire, con moderazione e giustizia, per produrre delle opere buone, sia tra noi che tra gli dèi, con la più grande potenza: ci procura ogni felicità e ci rende capaci di vivere in società, di legare con vincoli di amicizia gli uni con gli altri ed anche con quegli esseri a noi superiori, gli dèi60.Anch'io, senza dubbio, ho tralasciato alcune cose nel mio elogio dell'Eros, ma non l'ho fatto apposta. Se ho dimenticato qualche punto, spetta a te, Aristofane, di colmare la lacuna. Però, se ti proponi di lodare il dio in un altro modo, fai pure, visto che il tuo singhiozzo se n'è andato."Allora, disse Aristodemo, Aristofane prese la parola:[189] "Il fatto è che se n'è sì andato, ma ho dovuto proprio applicare il tuo rimedio e starnutire. Non è strano che il buon ordine del mio corpo abbia bisogno di rumori e di solletico per starnutire? Sta di fatto, però, che il singhiozzo è passato appena ho starnutito!""Aristofane, amico mio, che dici?, riprese Erissimaco. Ci fai ridere prendendomi in giro un attimo prima di fare il tuo discorso? Così mi costringi a sorvegliare bene le tue parole, che tu non abbia ad esser comico proprio quando puoi parlare in tutta tranquillità".Aristofane si mise a ridere e disse:"Hai ragione Erissimaco, ritiro tutto. Ma non mi sorvegliare. Nel discorso che farò, infatti, dovrò dire non poche cose che faranno un po' ridere - e questo è un vantaggio, perché così la mia Musa si troverà su un terreno familiare -, ma ho proprio paura di essere un po' preso in giro!""Eh, Aristofane, tu prima lanci una frecciatina, poi te ne vuoi scappare, non è vero? Ma t'avverto, parla piuttosto come un uomo che deve rendere conto di quel che dice! Sta' tranquillo, però, da parte mia ti farò grazia, ma solo se vorrò!"Discorso di Aristofane "A dir la verità, Erissimaco61, - disse Aristofane -, ho intenzione di parlare diversamente da te e da Pausania. Infatti mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'Eros. Se se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è oggi,quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, così potrete essere maestri a vostra volta.Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati62, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina.Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere.Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole.Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. [190] Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi63, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra64. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda anche gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi.Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. «lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri65». Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto66. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico.  Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subita.Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo67. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione68 dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole69. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare. Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. [192] Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi davvero molto bravi nell’occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la paternità non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero ben lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosiffatto desidera ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte. Queste persone - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dire cosa desiderano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie del far l'amore72: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza73. Se, mentre sono insieme, Efesto74 si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dall'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: «Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?» A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'amato. Non più due, ma un essere solo75.La ragione è questa, che la nostra natura originaria76 è come l’ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani77. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto78, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene.Se dunque vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d'un tempo: egli promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità. Ecco, Erissimaco, questo è il mio discorso in onore di Eros. T'ho già pregato, non prendermi in giro per quel che ho detto. Dobbiamo ancora ascoltare, non dimenticarlo, i discorsi degli altri, di quelli che restano, Agatone e Socrate."Erissimaco, riferì Aristodemo, rispose così:"Sì sì, farò proprio come dici tu, perché il tuo discorso mi è piaciuto molto e anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone sono gran maestri nelle cose d'amore, penserei quasi quasi che siano a corto di argomenti, tante sono le cose che sono state dette. Ma ho piena fiducia in loro".E Socrate allora disse:[194] "Dici così perché hai già fatto la tua parte, Erissimaco. Ma se fossi al mio posto, ora o peggio ancora dopo il discorso di Agatone - che ti figuri se non sarà bellissimo -, avresti una gran paura e saresti proprio in imbarazzo, come me in questo momento"."Non mi fido mica di te Socrate, disse Agatone, tu vuoi farmi tremare all'idea che il nostro pubblico sarà attentissimo e si aspetta da me un discorso stupendo". "Ma Agatone, rispose Socrate, vuoi che mi dimentichi di tutte le volte che ti ho visto sul palco coi tuoi attori, sicuro di te, mentre ti rivolgevi ad un gran pubblico per presentare una tua opera? Non eri per niente emozionato, affatto,e adesso dovrei credere che lo sei davanti a noi, che siamo così pochi?""Come, Socrate? disse Agatone. Non mi crederai, spero, così innamorato del teatro da non capire che agli occhi di un uomo di buon senso poche persone intelligenti sono più da temere di una folla ignorante?""Farei molto male se lo credessi, mio buon Agatone, rispose Socrate, una simile mancanza di stile non ti si addice. Io so bene, invece, che se trovi gente che ritieni saggia, dai loro molta più importanza che alla folla. Però non credo affatto che noi siamo saggi. Perché c'eravamo anche noi tra il pubblico, là tra la folla. Ma se trovassi altra gente, dei saggi veri, ti vergogneresti,senza dubbio, davanti a loro al pensiero di far qualcosa di cui ci sia da vergognarsi. Che ne dici?""E' vero", rispose."Ma davanti alla folla non ti vergogneresti se pensassi di fare qualcosa di cui ci sia da vergognarsi?"Fedro a questo punto prese la parola e disse:"Mio caro Agatone, se rispondi, a Socrate non importerà proprio nulla se la conversazione prenderà una piega o l'altra, perché a lui basta avere qualcuno con cui chiacchierare, soprattutto se è un bel ragazzo. Ora, a me piace moltissimo ascoltare Socrate quando discute, ma adesso dobbiamo proprio occuparci dell'Eros, dobbiamo raccogliere il tributo da ciascuno di noi: i nostri discorsi in suo onore. Pagate il vostro debito verso il dio, poi tornerete a chiacchierare tra voi". Discorso di Agatone"Hai proprio ragione, Fedro, disse Agatone, e in effetti niente mi impedisce di rimandare la risposta perché avrò ancora ben l'occasione di chiacchierare con Socrate! C'è tempo.Voglio dirvi subito come intendo condurre il mio discorso, prima di cominciare. Tutti coloro che hanno già parlato non hanno per nulla, mi sembra, fatto l'elogio del dio. Hanno chiamato felici gli uomini per i beni che gli devono, ma chi egli sia esattamente, per aver fatto loro questi doni, ecco questo nessuno l'ha detto. [195] Ora, il solo modo corretto per fare un elogio, qualunque sia l'argomento, è quello di spiegare la natura dell'oggetto del discorso e la natura di ciò di cui è responsabile. E così dobbiamo procedere anche noi nell'elogio dell'Eros: mostrando innanzitutto la sua natura e quindi i doni che ci ha fatto.Dichiaro dunque che tra tutti gli dèi, esseri felici, Eros - mi sia permesso dirlo senza risvegliare la loro gelosia - è il più felice, perché è il più bello e il migliore. E' il più bello perché questa è la sua natura. Infatti, mio caro Fedro, è il più giovane tra gli dèi. Una grande prova dimostra che quel che dico è vero, e ce la offre lui stesso: Eros fugge la vecchiaia, che è rapida, si sa, e ci sorprende prima di quanto dovrebbe. L'Eros, è chiaro, la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Ma è sempre in compagnia della giovinezza, le resta vicino. Ha ragione il vecchio detto: "Il simile cerca il simile80". Io sono spesso d'accordo con Fedro, ma non trovo giusto dire che Eros sia più antico di Cronos e di Giapeto81. Io dichiaro, al contrario, che è il più giovane tra gli dèi, che è sempre giovane e che le vecchie lotte tra gli dèi di cui parlano Esiodo e Parmenide sono figlie della Necessità82, ma non di Eros, se questi poeti hanno detto il vero. Infatti gli dèi non si sarebbero mutilati l'un l'altro, non si sarebbero messi in ceppi né fatto tanta violenza se l'Eros fosse stato tra loro83. Avrebbero conosciuto invece l'amicizia e la pace, come adesso, nel tempo in cui sugli dèi l'Eros stende il suo dominio. Dunque, l'Eros è giovane, e non soltanto è giovane ma anche delicato. A lui è mancato un poeta, un Omero, che ne sapesse far vedere la delicatezza. Omero dice di Ate che essa è una dea e allo stesso tempo che è delicata, o almeno che lo sono i suoi piedi. Dice: "Son delicati i suoi piedi e non sfiorano il suolo, / ella avanza sfiorando le teste degli uomini". Un chiaro indice della sua delicatezza, ai miei occhi: la dea non posa i piedi sul duro, ma sul morbido. Utilizzeremo anche noi a proposito dell'Eros lo stesso indizio per affermare che è delicato: non cammina infatti sulla terra, né sulle teste, che poi tanto morbide non sono, ma si muove e abita in ciò che è più tenero al mondo. Eros infatti ha stabilito la sua dimora nel cuore e nell'anima degli uomini e degli dèi. Ma non senza distinzione in tutte le anime. Se ne incontra una che abbia un carattere duro, fugge via e va ad abitare in quelle in cui trova dolcezza. E' sempre a contatto, coi piedi e con tutto il suo essere, con ciò che tra tutte le cose tenere è più tenero, ed è quindi assai delicato, necessariamente. Ecco dunque, l'Eros è il più giovane e il più delicato degli esseri. E inoltre dobbiamo ricordare la flessibilità della sua forma, perché non potrebbe andare dappertutto né passare inosservato quando penetra nelle anime e quando ne esce, se fosse rigido. Dell'armonia, della duttilità della sua natura, ebbene di questo la sua grazia ne dà una prova eclatante, quella grazia che l'Eros possiede in massimo grado perché tra l'aspetto sgraziato e l'Eros la reciproca ostilità c'è da sempre. E che dire della bellezza della sua carnagione? Eros indugia tra i fiori. Su ciò che non fiorisce, sul fiore appassito, nel corpo o nell'anima o in ogni altra cosa, Eros non si posa: ma là dove i fiori e i profumi abbondano, là si posa, là sceglie la sua casa.Sulla bellezza del dio basta così, anche se davvero resta ancora molto da dire. Vorrei adesso parlare delle sue virtù. Ecco la più importante: Eros non fa né subisce ingiustizia, non fa torto a nessuno, uomo o dio, e non ne subisce da nessuno, né uomo né dio. La violenza non ha alcuna parte in ciò che subisce, ammesso che subisca qualcosa, perché la violenza non ha presa sull'Eros; non ne ha bisogno in tutto quel che fa perché tutti in tutto si mettono di buon grado al suo servizio. E gli accordi che si fanno di buon grado sono chiamati giusti dalle «leggi, le regine della città86».E con la giustizia ecco la più grande temperanza. La temperanza, si sa, è dominare piaceri e desideri. Ora, non c'è piacere più grande dell'Eros: gli altri piaceri sono più deboli e possono essere dominati dall'Eros; dominando piaceri e desideri, allora l'Eros deve essere temperante in massimo grado.Quanto al coraggio, «Ares stesso non può lottare contro Eros87». Infatti non è Ares che domina su Eros, ma Eros possiede Ares, se è vero che è innamorato di Afrodite88, come dicono. Ora colui che si impadronisce di qualcuno, è più forte di lui e chi riesce a possedere un altro che è pieno di coraggio deve avere ancora più coraggio di lui89.Fin qui ho parlato della giustizia, della temperanza e del coraggio del dio. Rimane la sua scienza e, nella misura della mie forze, devo proprio completare il mio elogio. Innanzitutto, poiché desidero onorare la mia arte come Erissimaco ha fatto con la sua, dirò che il dio è poeta così sapiente che rende poeti gli altri, a sua volta. Ogni uomo infatti diventa poeta quando l’Eros lo possiede, «anche se prima non conosceva le Muse90». Questo fatto, è chiaro, deve essere per noi una prova che Eros è abilissimo in tutte le arti governate dalle Muse. Infatti ciò che non si ha, o non si sa, non lo si può certo dare o insegnare agli altri. [197] Meglio ancora, nella creazione degli esseri viventi, di tutti, chi oserà negare che l'Eros possiede una scienza grazie a cui nascono e crescono tutti i viventi? Osserviamo d'altra parte la pratica delle arti: non sappiamo forse che l'uomo che ha avuto questo dio come maestro diviene celebre e illustre mentre quello che Eros non ha nemmeno sfiorato non ha alcun successo? E certo: il tiro con l'arco, la medicina, la divinazione sono delle abilità che Apollo deve al desiderio e all'amore che lo guida; così questo dio può dirsi discepolo dell'Eros, come le Muse lo sono per le arti che portano il loro nome, Efesto per l'arte di forgiare i metalli, Atena per la tessitura e Zeus infine «per il governo degli dèi e degli uomini91». Così tutti i conflitti tra gli dèi si sono appianati all'apparire di Eros tra loro, dell'amore per la bellezza, certo, perché Eros non si lega mai a ciò che è brutto. Ma prima di questo, come ho detto all'inizio, ogni specie di orribili eventi erano accaduti tra gli dèi, secondo quanto narrano le antiche storie, perché regnava la Necessità. Quando poi nacque questo dio, dall'amore per le cose belle nacque ogni bene, per gli dèi come per gli uomini92.Ecco perché, mio caro Fedro, posso dire che l'Eros è pieno di bellezza e bontà al più alto grado ed è quindi, per tutti gli esseri, la fonte dei più alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: Eros è il dio che dà «la pace agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore». E' lui a liberarci dall'odio, lui a donarci l'amicizia; di tutti i conviti, come il nostro adesso, è il fondatore; nelle feste, nei cori, nei sacrifici, è lui a farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni rancore, generosissimo di ogni bene, non sa cosa sia la malvagità, propizio ai buoni, esempio ai saggi, ammirato dagli dèi, è cercato da chi non ha amore, prezioso per chi lo possiede. Il Lusso, la Delicatezza, la Voluttà, le Grazie, la Passione, il Desiderio sono i suoi figli. E' pieno di attenzione verso i buoni ma si allontana dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel desiderio, nel discorso, egli è sempre lì, pronto a combattere. E' il nostro sostegno, la nostra salvezza per eccellenza. E' l'onore di tutti gli dèi, di tutti gli uomini; è la guida più bella, la migliore, e ogni uomo deve seguirlo, celebrare la sua gloria con splendidi inni e cantare con lui quel canto con cui conquista i cuori di tutti gli dèi e di tutti gli uomini.Ecco il mio discorso, carissimo Fedro: che sia la mia offerta al dio! La lieta fantasia e la grave serietà vi hanno avuto ciascuna la sua parte94, bilanciate come meglio è stato in mio potere fare."Quando Agatone ebbe finito di parlare - mi raccontò Aristodemo - tutti applaudirono perché si era espresso da par suo, in modo davvero degno del dio Eros. Allora Socrate si voltò verso Erissimaco e gli disse: "Erissimaco, figlio d'Acumeno, non avevo forse ragione? Non ho parlato in modo profetico prima, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato divinamente e io, dopo, sarei stato in imbarazzo?""Sul primo punto - rispose Erissimaco - sei stato buon profeta, io credo, dicendo che Agatone avrebbe parlato bene. Ma che tu sia in imbarazzo adesso, questo non lo credo proprio.""E come si potrebbe non esserlo, carissimo Erissimaco, - riprese Socrate - dovendo parlare dopo un discorso così bello, così seducente! Non è stato tutto perfetto, questo è vero; ma nella conclusione chi può non esser stato preso dall'incanto delle parole e delle frasi? Io mi riconosco subito incapace di avvicinarmi a tanta bellezza con le mie parole, e per un po' ho anche pensato di sgattaiolare via senza dir nulla. Ma non è possibile farlo. Il discorso di Agatone mi ha ricordato Gorgia, al punto da farmi temere quel che dice Omero: ho quasi creduto che Agatone alla fine del suo discorso gettasse sulla mia la testa di Gorgia, il terribile oratore, e mi trasformasse in pietra, facendomi diventare muto95. Ho capito allora di esser stato proprio un ingenuo quando vi ho promesso di fare anch'io, al mio turno, l’elogio di Eros, e quando ho detto di essere ben esperto delle cose d'amore: in effetti, devo confessare di non sapere affatto fare un elogio. Credevo, nella mia piena ignoranza, che si dovesse dire la verità sull'oggetto del proprio elogio, che questo fosse fondamentale: che bisognasse scegliere le verità più belle e disporle nell'ordine più elegante. Ero, naturalmente, tutto fiero al pensiero che avrei parlato bene: non conoscevo forse la vera maniera di fare un elogio? Ma, stando a quanto ho sentito, il metodo corretto di fare un elogio non è questo: bisogna piuttosto attribuire all'oggetto del proprio discorso le più grandi e le più belle qualità - che le abbia davvero o non le abbia non importa affatto. A quanto sembra il nostro accordo era di giocare a far le lodi di Eros, non di lodarlo veramente per quel che è. Ecco perché, io penso, voi muovete cielo e terra per attribuire ad Eros ogni cosa bella e proclamare l'eccellenza della sua natura come la grandezza delle sue opere: voi volete così farlo apparire il più bello e il più buono possibile - ma non si ingannano coloro che sanno96. [199] E certo è una bella cosa un elogio simile. Ma io ignoravo evidentemente questo modo di far le lodi, e siccome lo ignoravo, promisi anch'io di pronunciare un elogio al mio turno: «ma la lingua promise, non certo il mio cuore97». Dunque, addio alla mia promessa! Io un elogio così non ve lo faccio, non ne sono capace. Però, a condizione di dir solo la verità, se lo desiderate io accetto di prendere la parola, alla mia maniera e senza rivaleggiare con l'eleganza dei vostri discorsi, perché non ho nessuna intenzione di diventare ridicolo. Vedi tu, Fedro, se c'è ancora bisogno di un discorso di questo genere, che lasci intendere la verità su Eros - ma con le parole e lo stile che mi verranno al momento."Allora - disse Aristodemo - Fedro e gli altri lo pregarono di parlare come riteneva di dover fare."Ancora un momento, Fedro, - disse Socrate -: lasciami porre alcune piccole domande ad Agatone, in modo che possa mettermi d'accordo con lui prima di cominciare il mio discorso.""Ti lascio fare - disse Fedro -; domanda pure."E così - disse Aristodemo - Socrate cominciò pressappoco con queste parole:"Per la verità, mio buon Agatone, io dico che tu hai aperto bene la via dichiarando che bisognava innanzitutto mostrare qual è la natura dell'amore e come agisce: io trovo questo inizio davvero eccellente. Andiamo avanti, però, ti prego; dopo tutto quello che hai detto di bello e di buono sulla natura di Eros, rispondi a questa domanda: è nella natura dell'Eros essere amore di qualche cosa, oppure di niente? Io non ti domando se la sua natura è di essere amore per una madre o un padre, perché sarebbe comico domandare se l'Eros è una forma d'amore che si rivolge a una madre o a un padre. Ma se, a proposito del padre in quanto padre io domandassi: il padre è padre di qualcuno o no?,tu mi risponderesti senza dubbio - se volessi darmi una buona risposta - che il padre è padre di un figlio, o di una figlia. Non è vero?""Certo", disse Agatone."E non dirai la stessa cosa della madre?" - Agatone ne convenne."Rispondi ancora - disse Socrate - ad alcune domande, per meglio comprendere dove voglio arrivare. Se io domandassi: «Il fratello, in quanto fratello, è fratello di qualcuno o no?»Rispose che lo era."Dunque è fratello di un fratello o di una sorella?" - Agatone fu d'accordo."Prova allora - riprese Socrate - a far la stessa domanda per l'Eros: Eros è amore di niente o di qualcosa?""Di qualcosa, evidentemente".[200] "Tieni bene a mente questo carattere dell'Eros, allora, e dimmi ancora se egli desidera ciò che ama". "Lo desidera certamente", disse."Quando possiede ciò che desidera, è allora che l'ama, o quando non lo possiede?""Quando non lo possiede: è probabile che sia così" - disse. "Ma pensa bene - disse Socrate - se invece che probabile non è una certezza: non dobbiamo forse dire che desidera ciò che non possiede, e che non desidera affatto ciò che possiede già? Per me, mio caro Agatone, questo è chiarissimo98. Tu che ne pensi?""Sono dello stesso avviso", disse."E fai bene ad esserlo. Dunque un uomo che è grande potrà forse desiderare di esser grande? O di esser forte se è forte?""E impossibile, visto quel che abbiamo detto.""Non potrebbe infatti mancare di queste qualità, poiché ce le ha.""E così.""Però supponiamo - disse Socrate - che un uomo forte voglia esser forte, che un uomo agile voglia esser agile, che un uomo in buona salute voglia essere in buona salute. Si potrebbe forse pensare, per quel che riguarda queste qualità e tutte quelle dello stesso genere, che gli uomini che le hanno desiderano averle ancora. Lo dico per difenderci contro questo possibile errore. Se ci pensi, Agatone, è necessario che essi abbiano, al momento, ciascuna delle qualità che hanno, che le vogliano o meno: com'è possibile desiderare ciò che si ha già? Ma se qualcuno ci dicesse «Io sono adesso in buona salute, e desidero esserlo; io sono ricco, e desidero esserlo, desidero possedere quel che già possiedo», allora noi gli risponderemmo: «Tu hai la ricchezza, la salute, la forza; quel che desideri, è di averle ancora in futuro, perché per il presente, che tu lo voglia o no, le hai già. Dunque quando dici: io desidero ciò che adesso ho già, queste parole significano semplicemente: ciò che io ho adesso, desidero averlo anche per l'avvenire». Sei d'accordo, non è vero?Agatone - disse Aristodemo - lo riconobbe, e Socrate proseguì: "Se tutto questo è vero, desiderare le cose che non si hanno ancora, che non si possiedono, non è forse volere per l'avvenire che queste cose ci siano conservate?""Certo", disse. "Quindi l'uomo che si trova in questa situazione, e cioè chiunque provi un desiderio, desidera ciò che non ha ancora e che non è nel presente. E ciò che egli non ha, ciò che egli stesso non è, quel che gli manca, insomma, ecco l'oggetto del suo desiderio e del suo amore." "Sicuramente è così" - disse."Andiamo avanti, allora - disse Socrate. Ricapitoliamo i punti su cui siamo d’accordo. Non è forse vero, innanzitutto, che l'Eros si indirizza verso certe cose e, in secondo luogo, che queste cose sono quelle di cui sente la mancanza?""Sì", disse.[201] "E adesso, Agatone, ricordati cosa hai detto nel tuo discorso sulle cose verso cui si indirizza l'Eros. Se vuoi, te lo ricordo io stesso: più o meno, tu ci hai detto, credo, che gli dèi hanno risolto i loro conflitti grazie all'amore per la bellezza, perché non ci può essere amore verso quel che è brutto. Son più o meno le tue parole, non è vero?""Certo", disse Agatone."Tu rispondi come si deve, mio caro - disse Socrate -, e se le cose stanno come tu ci hai detto, l'Eros dovrebbe amare la bellezza, non certo la bruttezza, non è vero?"Agatone fu d'accordo."Ma non ci siamo trovati d'accordo anche su questo, che si ama ciò di cui si sente la mancanza e che non si possiede?""Sì", ammise."L'Eros manca quindi della bellezza e non la possiede?""Per forza", disse."Ma come? Chi manca della bellezza e non la possiede affatto, tu lo chiami bello99?""No di certo.""E allora, se le cose stanno così, sei ancora dell'avviso che Eros sia bello?""Temo proprio - disse Agatone - di aver parlato senza sapere quel che dicevo"."Però il tuo discorso era molto elegante, Agatone. Ma ancora una piccola domanda: le cose buone sono allo stesso tempo belle, secondo te?""Lo sono, a mio avviso"."Allora se all'Eros manca la bellezza e se le cose buone sono anche belle, all'Eros deve per forza mancare anche la bontà"."Di sicuro, Socrate - disse Agatone -, io non sono in grado di contraddirti: ammetto quel che tu dici"."No, carissimo Agatone - disse Socrate -, non me, ma la verità tu non puoi contraddire: Socrate, lui sì che è facile contraddirlo.Discorso di Socrate: Adesso ti lascerò un po' in pace. Ecco il discorso su Eros che ho ascoltato un giorno da una donna di Mantinea, Diotima100, molto competente su questo come su tanti altri argomenti. Fu lei che una volta, prima della peste, fece fare agli Ateniesi quei sacrifici che ritardarono di dieci anni l'epidemia. Proprio lei mi ha fatto capire molte cose su Eros. Adesso cercherò di fare del mio meglio per riportarvi le sue parole, partendo da tutto quello su cui Agatone ed io ci siamo trovati d'accordo. Come tu stesso hai detto, Agatone, bisogna innanzitutto chiarire la natura dell'Eros, i suoi attributi e le sue azioni. Forse la cosa più semplice è seguire nella mia esposizione lo stesso ordine che seguì la straniera nell'esame che mi fece. Io, infatti, le rispondevo un po' come adesso ha fatto Agatone con me: io dichiaravo che Eros è un grande dio e che ama le cose belle. Lei mi dimostrava che ero in errore con le stesse argomentazioni di cui mi sono servito discutendo con Agatone: Diotima diceva che Eros non è né bello, per usare le mie parole, né buono. E io le dicevo: «Ma come Diotima? Allora Eros è cattivo e brutto?»«Che dici? Questa è una bestemmia! - mi rispose -. Credi forse che tutto ciò che non è bello debba essere per forza brutto?»«Ma certo!»[202] "E perché mai? Chi non è sapiente deve per forza essere ignorante? Non ti sei mai accorto che c'è una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza102?» «E qual è?»«Avere un'opinione giusta, senza però saperla giustificare. Questo non è vero sapere: come posso parlare di scienza, se non so dimostrare che è vero quello che penso? Ma non è neppure piena ignoranza, perché per caso la mia opinione potrebbe corrispondere ai fatti. L'opinione giusta è quindi, suppongo, simile a quel che dicevo: sta a metà strada tra la piena conoscenza e l'ignoranza103».«E' vero», risposi.«Dunque chi non è bello non per questo è per forza brutto, né chi non è buono deve essere cattivo. E così è per l'Eros: poiché tu sei d'accordo con me che non può essere né buono né bello, non devi per questo credere che sia necessariamente cattivo e brutto. Eros - così mi disse Diotima - è a metà tra questi estremi».«Però - ripresi io - tutti concordano nel pensare che Eros sia un dio potente».«Dicendo tutti, parli degli ignoranti o di coloro che parlano sapendo cosa dicono?»«Io parlo proprio di tutti».Diotima si mise a ridere. «Come possono dire di lui che è un dio potente se dicono che non è affatto un dio?» «Ma chi dice questo?» dissi io.«Tu per esempio - disse - ed anch'io!»Ed io: "Ma cosa dici?»«E' tutto semplice - rispose -. Dimmi: non sei forse convinto che tutti gli dèi sono felici e belli? o oseresti sostenere che qualcuno degli dèi non è né bello né felice?»«lo non oserei proprio», risposi.«Ma chi è felice? non è chi possiede cose buone e belle?»«Certo».«Ma tu hai riconosciuto che Eros, mancando delle cose buone e belle, le desidera proprio perché gli mancano».«È vero, ero d'accordo con te su questo».«E allora come può essere un dio se le cose buone e belle gli mancano?»«Sembra impossibile, in effetti».«Come vedi - disse -, anche tu ritieni che Eros non sia un dio».«Chi sarà dunque Eros? un mortale?»«No di certo».«E allora?»«E come negli esempi precedenti, la sua natura è a mezza via tra il mortale e l'immortale».«Che vuoi dire, Diotima?»«E' un dèmone potente, Socrate. I demoni, infatti, hanno una natura intermedia tra quella dei mortali e quella degli dèi105».«Ma qual è il suo potere», chiesi.«Eros interpreta e trasmette agli dèi tutto ciò che viene dagli uomini, e agli uomini ciò che viene dagli dèi: da un lato le preghiere e i sacrifici degli uomini, dall'altro gli ordini degli dèi e i loro premi per i sacrifici compiuti; e in quanto è a mezza via tra gli uni e gli altri, contribuisce a superare la distanza tra loro, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito. Da lui viene l'arte divinatoria107, ed anche il sapere dei sacerdoti sui sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi, tutto quel che è divinazione e magia. Il divino non si mescola con ciò che è umano, ma, grazie ai dèmoni, in qualche modo gli dèi entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia nella veglia che nel sonno. L'uomo che sa queste cose è vicino al potere dei dèmoni, mentre chi sa altre cose - chi possiede un'arte, o un mestiere manuale - resta un artigiano qualsiasi o un operaio. Questi dèmoni sono numerosi e d'ogni tipo: uno di essi è Eros».«Chi è suo padre - domandai - e chi sua madre?»«E' una lunga storia109 - mi disse -. Adesso te la racconto. Il giorno in cui nacque Afrodite, gli dèi si radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c'era Poros110, il figlio di Metis. Dopo il banchetto, Penìa era venuta a mendicare, com'è naturale in un giorno di allegra abbondanza, e stava vicino alla porta. Poros aveva bevuto molto nettare (il vino, infatti, non esisteva ancora) e, un po' ubriaco, se ne andò nel giardino di Zeus e si addormentò. Penìa, nella sua povertà, ebbe l'idea di avere un figlio da Poros: così si sdraiò al suo fianco e restò incinta di Eros. Ecco perché Eros è compagno di Afrodite e suo servitore: concepito durante la festa per la nascita della dea, Eros è per natura amante della bellezza - e Afrodite è bella.Proprio perché figlio di Poros e di Penìa, Eros si trova nella condizione che dicevo: innanzitutto è sempre povero e non è affatto delicato e bello come si dice di solito, ma al contrario è rude, va a piedi nudi, è un senza-casa, dorme sempre sulla nuda terra, sotto le stelle, per strada davanti alle porte, perché ha la natura della madre e il bisogno l'accompagna sempre. D'altra parte, come suo padre, cerca sempre ciò che è bello e buono, è virile, risoluto, ardente, è un cacciatore di prim'ordine, sempre pronto a tramare inganni; desidera il sapere e sa trovare le strade per arrivare dove vuole, e così impiega nella filosofia tutto il tempo della sua vita, è un meraviglioso indovino, e ne sa di magie e di sofismi. E poi, per natura, non è né immortale né mortale. Nella stessa giornata sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi ritorna alla vita grazie alle mille risorse che deve a suo padre, ma presto tutte le risorse fuggono via: e così non è mai povero e non è mai ricco. Vive inoltre tra la saggezza e l'ignoranza, ed ecco come accade: nessun dio si occupa di filosofia e nessuno desidera diventare sapiente, perché tutti lo sono già. Chiunque possieda davvero il sapere, infatti, non fa filosofia; ma anche chi è del tutto ignorante non si occupa di filosofia e non desidera affatto il sapere. E questo è proprio quel che non va nell'essere ignoranti: non si è né belli, né buoni, né intelligenti, ma si crede di essere tutte queste cose. Non si desidera qualcosa se non si sente la sua mancanza».«Ma allora chi sono i filosofi, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?»«E' chiaro chi sono: anche un bambino può capirlo. Sono quelli che vivono a metà tra sapienza ed ignoranza, ed Eros è uno di questi esseri. La scienza, in effetti, è tra le cose più belle, e quindi Eros ama la bellezza: è quindi necessario che sia filosofo e, come tutti i filosofi, è in posizione intermedia tra i sapienti e gli ignoranti. La causa di questo è nella sua origine, perché è nato da un padre sapiente e pieno di risorse e da una madre povera tanto di conoscenze quanto di risorse115.Così, mio caro Socrate, è fatta la natura di questo dèmone116. L'idea, però, che tu ti eri fatta dell'Eros non mi sorprende per nulla: da quel che capisco dalle tue parole, tu credevi che Eros fosse l'amato, non l'amante. Per questa ragione, senza dubbio, ti sembrava che fosse pieno di ogni bellezza. Infatti l'oggetto dell'amore è sempre bello, delicato, perfetto, sa dare ogni felicità. Ma l'essenza di chi ama è differente: è quella che ti ho prima descritto117». Io allora ripresi:«E sia, straniera: tu hai proprio ragione. Ma se questa è la natura dell'Eros, a cosa può esser utile a noi uomini?»«Adesso cercherò di spiegartelo, Socrate. Eros ha dunque questo carattere e questa origine: ama le cose belle, come tu ben sai. Ora, prova a domandarti: che cos'è l'amore per le cose belle? o più chiaramente: chi ama le cose belle, le desidera; ma in che cosa consiste esattamente il desiderio che si prova quando si ama?»«Noi desideriamo che l'oggetto del nostro amore ci  appartenga», risposi io.«Questa tua risposta - disse - apre un nuovo problema: che cosa accade all'uomo che possiede le cose belle?» Io dichiarai che non ero affatto capace di rispondere a una domanda simile. «E allora - disse lei - parliamo del bene invece che del bello. Cosa mi dici se ti domando: chi ama le cose buone, le desidera: ma cosa desidera?»«Che siano sue», risposi.«E cosa accade all'uomo che le possiede? »«In questo caso posso rispondere più facilmente - dissi -: sarà felice».«In effetti proprio possedere ciò che è buono fa la felicità delle persone. Così non abbiamo più bisogno di domandarci che cosa vuole chi vuole essere felice, perché parlando della felicità abbiamo già toccato il fine ultimo del desiderio».«E' vero», dissi."Ma questa volontà, questo desiderio, tu pensi sia comune a tutti gli uomini? Tutti vogliono sempre possedere ciò che è buono? Dimmi cosa ne pensi»,«E' così, questa volontà è comune a tutti».«Ma allora, Socrate - riprese -, perché non diciamo che tutti gli uomini amano, se tutti desiderano sempre le stesse cose? Come mai, al contrario, diciamo che alcuni uomini amano ed altri non amano affatto?"«Sono stupito anch'io di questo», risposi.«Non devi stupirti, però - disse -. Il fatto è che l'amore ha molte forme, ma noi prendiamo una sola di queste forme e le diamo il nome generico di amore come se fosse l'unica. Questo nome andrebbe dato a tutte, ma per le altre forme usiamo nomi diversi».«Mi fai un esempio?», chiesi.«Certo. Tu sai che la capacità creativa delle persone può manifestarsi in molti campi. La creatività entra in gioco tutte le volte che qualche cosa viene prodotta, perché prima non c'era e poi c'è; così le opere degli artigiani, in tutti i campi, sono frutto della creatività e gli uomini che le fanno sono tutti dei creativi, degli artisti."«E' vero».«Però - continuò - tu sai che non li chiamiamo tutti artisti, ma diamo loro altri nomi. Tra tutti quelli che svolgono attività che hanno a che fare con la creatività, soltanto ad alcuni diamo il nome di artisti, di poeti: solo a quelli che compongono musica e versi. In realtà tutti lo sono. Solo i versi in musica chiamiamo arte, e soltanto questo è il dominio che riconosciamo agli artisti».«E' vero», dissi.«Ed è lo stesso per l'amore. In generale, ogni desiderio di ciò che è buono, che è bello, è per tutti "amore possente, Eros ingannevole120". Il desiderio umano ha mille forme diverse: alcune persone hanno la passione del denaro, o dello sport, o dello studio, ma noi non diciamo che amano, che sono innamorati. Altri, che seguono una particolare forma d'amore, ebbene solo per loro usiamo le parole che dovremmo usare per tutti: amore, amare, innamorati».«Sei proprio convincente», risposi.«Molti dicono, però, che amare significa cercare la propria metà. Io non sono d'accordo, perché non c'è affatto amore né per la metà né per l'intero, mio buon amico, se l'oggetto del nostro desiderio non è buono: le persone accettano di farsi tagliare anche i piedi o le mani, se sono convinte che queste parti possono portare dei mali. Io non credo affatto che ciascuno si affezioni a ciò che gli appartiene, a meno che non sia convinto che ciò che è suo sia buono e ciò che gli è estraneo sia cattivo. Gli uomini, infatti, non desiderano altro che il bene122. Non la pensi così anche tu?» «Certo, per Zeus», risposi.«Allora possiamo dire semplicemente che gli uomini desiderano ciò che è buono?»«Sì».«E non dobbiamo forse aggiungere che essi desiderano possedere ciò che è buono?»«Certo che dobbiamo».«E non soltanto possederlo, ma possederlo sempre». «Dobbiamo aggiungere anche questo».«Quindi - disse - l'amore è il desiderio di possedere sempre ciò che è buono?»«E' così», dissi.«Se è dunque chiaro - disse - che l'amore è questo, dimmi in quale forma, in quale genere di attività, l'ardore, la tensione estrema che accompagna lo sforzo di raggiungere questo fine, deve ricevere il nome di amore. Di quale tipo d'azione si tratta? Me lo sai dire? » «Certamente no - risposi -. Se lo sapessi, non sarei così pieno d'ammirazione davanti al tuo sapere e non verrei da te come allievo per imparare quel che sai».«Allora - riprese -, te lo dirò io: amare, sia per il corpo che per l'anima, significa creare nella bellezza». «Bisognerebbe essere degli indovini per capire cosa vuoi dire con queste parole, e io non lo sono affatto». «Mi esprimerò più chiaramente. Tutti gli uomini, mio caro Socrate, hanno capacità creative sia nel corpo che nell'anima. Tutti noi, quando abbiamo raggiunto una certa età, per natura proviamo il desiderio di generare, ma non si può generare nulla nella bruttezza: si può solo nella bellezza. Nell'unione dell'uomo e della donna c'è qualcosa di creativo, qualcosa di divino. Tutte le creature viventi sono mortali, ma in loro c'è una scintilla d'immortalità: è la fecondità dei sessi, la capacità di generare nuovi esseri viventi. Ma questo non può avvenire se non c'è armonia123: e non c'è armonia tra la bruttezza e tutto ciò che è divino, perché solo la bellezza è in armonia con gli dèi. Dunque nel concepire una nuova vita, la dea della Bellezza fa da Moira e da Ilitia124, la dea della nascita. Per questo, chi ha dentro di sé qualcosa di creativo, quando si avvicina a ciò che è bello prova gioia nel suo cuore, si apre al fascino della bellezza. E' il momento della generazione: egli crea. Ma quando si avvicina a ciò che è brutto, allora si chiude in se stesso scuro in volto e triste, cerca di allontanarsi, e così non crea affatto, anche se porta ancora dentro il suo seme fecondo,e ne soffre. Per questo chi sente la propria creatività pronta alla vita, è fortemente attratto dalla bellezza: soltanto chi possiede la bellezza è libero dalle sofferenze che ogni atto creativo comporta. E dunque Eros - concluse - non desidera affatto la bellezza, mio caro Socrate, come tu credi». «E cosa allora?»«Desidera creare e far nascere nuova vita nella bellezza." «Ammettiamolo», dissi.«E proprio così - ripeté -. Ma perché creare nuova vita? Perché per qualsiasi essere mortale l'eternità e l'immortalità possono consistere solo in questo: nel creare nuova vita. [Ora, il desiderio d'immortalità accompagna necessariamente quello del bene - lo sappiamo, ormai - se è vero che l'amore è desiderio di possedere per sempre il bene. E così da tutto quello che abbiamo detto segue questo, che l'amore ha come proprio oggetto l'immortalità126».Ecco quello che Diotima mi insegnava, parlando delle cose d'amore. Un giorno mi chiese:«Quale pensi che sia, Socrate, la causa dell'amore e del desiderio? Non vedi in che strano stato sono gli animali, quando il loro istinto li spinge a procreare? Tutti gli animali - che si muovano sulla terra o volino nell'aria - sembrano impazziti, l'amore li tormenta, e li spinge ad accoppiarsi. Poi quando viene il momento di nutrire i loro piccoli, sono sempre pronti a combattere per difenderli: anche i più deboli affrontano animali più forti di loro e sono pronti a sacrificarsi per amore dei loro piccoli. Soffrono loro le torture della fame, pur di sfamare i figli e far tutte le altre cose necessarie. Presso gli uomini si può pensare che tutto questo sia il frutto di una riflessione razionale. Ma presso gli animali, da dove proviene questo amore che li mette in tale stato? Puoi dirmelo?»Ancora una volta risposi che non ne sapevo nulla. E allora riprese:«E tu pensi di diventare un giorno davvero esperto nelle cose d'amore senza sapere questo?» «Ma è ben per quello, Diotima, come ti dico sempre, che ti sto vicino, perché so di avere bisogno di una guida. Allora dimmi perché accade tutto questo e quant'altro riguarda l'amore». «Se sei convinto - disse - che l'oggetto naturale dell'amore è quello sul quale abbiamo più volte discusso, non devi certo meravigliarti. Infatti su questo punto la natura mortale segue sempre lo stesso principio quando cerca, nella misura dei suoi mezzi, di perpetuare la vita e divenire immortale. E non può farlo che in questo modo, attraverso l'amore, che fa sì che un nuovo essere prenda il posto del vecchio. Riflettiamo:quando si dice che ciascun essere vivente rimane se stesso (per esempio che dalla nascita alla vecchiaia permane la sua identità), ebbene questo essere non ha mai in sé le stesse cose. Diciamo sì che è sempre lo stesso, ma in realtà non cessa mai di rinnovarsi ogni momento in certe parti, come i capelli, le ossa, il sangue, insomma in tutto il suo corpo. E questo non è vero soltanto per il suo corpo, ma anche per la sua anima: i sentimenti, il carattere, le opinioni, i desideri, i piaceri, i dolori, i timori, niente di tutto questo rimane costante per ciascuno di noi, ma tutto in noi nasce e muore. E accadono cose più strane ancora. Non solo in generale certe conoscenze nascono in noi mentre altre spariscono - e quindi nel campo della conoscenza noi non rimaniamo mai gli stessi -, ma ciascuna conoscenza in particolare subisce la stessa sorte. [208] Infatti noi dobbiamo esercitarci nello studio proprio perché alcune conoscenze ci sfuggono continuamente: le dimentichiamo, tendono ad andare via, e con lo studio, inversamente, fissando nella memoria ciò che vogliamo ricordare, le conserviamo. E' per questo che sembrano le stesse: in realtà le conserviamo rinnovandole. E' così che tutti gli esseri mortali si conservano: non sono sempre esattamente se stessi, come l'essere divino. Sembrano conservare la loro identità perché ciò che invecchia e va via è subito sostituito da qualcosa di nuovo, molto simile. Ecco in che modo - Socrate - ciò che è mortale partecipa127 dell'immortalità, nel suo corpo e in tutto il resto; l’immortale vi partecipa in modo del tutto diverso128. Non meravigliarti dunque se ciascun essere è dominato dall'amore e si preoccupa tanto dei propri figli, perché questo è nella natura dei viventi: è al servizio dell'immortalità129». Queste parole mi riempirono di stupore e glielo dissi: «Ma come, saggia Diotima, le cose stanno veramente così?»Ella mi rispose col tono serio di chi insegna:«Devi esserne certo, Socrate. Pensa alle ambizioni che hanno molte persone e ti meraviglierai senza dubbio della loro assurdità; se rifletti, meditando sulle mie parole, ti accorgerai di quanto è strano lo stato di coloro che desiderano diventare celebri e acquistare gloria immortale per l'eternità: sono disposti per questo a correre ogni rischio, più ancora che per difendere i loro figli. Sono pronti a mettere in gioco il loro denaro, ad affrontare tutti i disagi, a rischiare la loro stessa vita. Pensi forse che Alcesti sarebbe morta per Admeto, che Achille avrebbe seguito Patroclo sulla via della morte, che il vostro re Codro130 avrebbe affrontato la morte per conservare il regno ai suoi figli, se essi non avessero creduto di lasciare l'immortale ricordo del loro valore, che è giunto sino a noi? E' così, disse. A mio avviso, è per rendere immortale il loro valore, per acquisire un nome glorioso, che gli uomini fanno quel che fanno, e questo tanto più se le loro qualità personali sono alte - perché è l'immortalità che essi desiderano. Allora, disse, gli uomini fecondi nel corpo pensano soprattutto alle donne: il loro modo d'amare è tutto nel cercare di generare dei figli e così assicurare alla loro persona l'immortalità - questo essi credono - e la memoria di sé e la felicità per tutto il tempo a venire. [209] Altre persone, però, sono feconde nell'anima: c'è infatti una fecondità propria del nostro spirito che a volte è superiore a quella del corpo. Ecco qual è: è la forza creativa della saggezza e delle altre virtù in cui il nostro spirito eccelle. Questa fecondità eccelle nei poeti e in tutte le altre persone che per il loro mestiere devono usare la creatività. Ma dove la saggezza tocca le vette più alte e più belle è nell'ordinamento e nell'amministrazione della città attraverso la prudenza e la giustizia. Quando un uomo fecondo nel suo animo, simile agli dèi, coltiva sin da giovane il proprio spirito, e divenuto adulto sente il desiderio di mettere a frutto le sue capacità, allora cerca in ogni modo la bellezza - perché mai potrà essere creativo nella bruttezza. I suoi sentimenti si dirigono allora verso le cose belle piuttosto che verso le brutte, proprio perché la sua anima è feconda. Se incontra un'anima bella e generosa e sensibile, allora le dà tutto il suo cuore: davanti a lei saprà trovare le parole giuste per esprimere la sua forza interiore, per esaltare i doveri e le azioni di un uomo che vale: così potrà guidarla educandola. E secondo me, attraverso il contatto con la bellezza dell'anima dell'altro, con la sua costante presenza, potrà venire alla luce quanto di meglio portava in sé da tempo: in questo senso la sua anima crea, genera nuova vita. Che sia presente o assente, il suo pensiero va sempre all'altro che ama e così nutre ciò che nel rapporto con lui in sé ha generato. Tra gli esseri di questa natura si crea così una comunione più intima di quella che si ha con una donna quando si hanno dei bambini, un affetto più solido. Sono più belle, in effetti, ed assicurano meglio l'immortalità, le creature che nascono dalla loro unione132. Chiunque vorrà senza dubbio mettere al mondo simili creature piuttosto che bambini, se si pensa ad Omero, ad Esiodo e agli altri grandi poeti. Si osserverà con invidia quale discendenza essi hanno lasciato, capace di assicurare loro l'immortalità della gloria e della memoria, perché anche i figli spirituali di quei grandi sono immortali. O ancora, se vuoi - disse -, puoi pensare quale eredità Licurgo133 abbia lasciato agli Spartani per la salvezza della loro città e, si può dire, della Grecia intera. Per le stesse ragioni voi onorate Solone il padre delle vostre leggi, e in tutti i paesi - greci e barbari - sono onorati gli uomini che hanno prodotto grandi opere, mettendo a frutto le più alte capacità del loro spirito. In onore di quello che queste persone hanno saputo creare si sono già innalzati molti templi135, mentre questo non è mai accaduto fino ad oggi, per i figli nati dall'amore di un uomo e di una donna. Ecco, Socrate, le verità sull'amore alle quali tu puoi certamente essere iniziato. Ma le rivelazioni più profonde e la loro contemplazione - il fine ultimo della ricerca su Eros - non so se sono alla tua portata. Voglio però parlartene egualmente, senza diminuire il mio sforzo. Cerca di seguirmi, almeno finché puoi. Chi inizia il cammino che può portarlo al fine ultimo, sin da giovane deve essere attento alla bellezza fisica. In primo luogo, se chi lo dirige138 sa indirizzarlo sulla giusta strada139, si innamorerà di una sola persona e troverà con lei le parole per i dialoghi più belli140. Poi si accorgerà che la bellezza sensibile della persona che ama è sorella della bellezza di tutte le altre persone: se si deve ricercare la bellezza che è propria delle forme sensibili, non si può non capire che essa è una sola, identica per tutti. Capito questo, imparerà a innamorarsi della bellezza di tutte le persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovrà imparare a non valutare molto questa prima forma dell'amore, a giudicarla di minor valore. Poi, imparerà a innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della bellezza sensibile: a desiderare una persona per la sua anima bella, anche se non è fisicamente attraente. Con lei nasceranno discorsi così belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano. E giunto a questo punto, potrà imparare a riconoscere la bellezza in quel che fanno gli uomini e nelle leggi: scoprirà che essa è sempre simile a se stessa, e così la bellezza dei corpi gli apparirà ben piccola al confronto. Dalle azioni degli uomini, poi, sarà portato allo studio delle scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi fissi sull'immenso spazio su cui essa domina. Cesserà allora di innamorarsi della bellezza di un solo genere, d'una sola persona o di una sola azione - una forma d'amore che lo lascia ancora schiavo141 - e rinuncerà così alle limitazioni che lo avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai verso l'oceano infinito della bellezza142, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l'amore per il sapere143. Finché, reso forte e grande per il cammino compiuto, giungerà al punto da fissare i suoi occhi sulla scienza stessa della bellezza perfetta, di cui adesso ti parlerò144. Sforzati - mi disse Diotima - di dedicarti alle mie parole con tutta l'attenzione di cui sei capace. Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo contemplerà le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine; raggiungerà il vertice supremo dell'amore e allora improvvisamente gli apparirà la Bellezza nella sua meravigliosa natura, quella stessa, Socrate, che era il fine di tutti i suoi sforzi: eterna, senza nascita né morte145. Essa non si accresce né diminuisce, né è più o meno bella se vista da un lato o dall'altro. Essa è senza tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi punto di vista la si osservi. E tutti comprendono che è bella. La Bellezza non ha forme definite: non ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini sensibili o delle parole. Non è una teoria astratta. Non è uno dei caratteri di qualcosa di esteriore, per esempio di un essere vivente, o della Terra o del cielo, o non importa di cos'altro. No, essa apparirà all'uomo che è giunto sino a lei nella sua perfetta natura, eternamente identica a se stessa per l'unicità della sua forma. Tutte le cose belle sono belle perché partecipano della sua bellezza, ma esse nascono e muoiono - divenendo quindi più o meno belle - senza che questo abbia alcuna influenza su di lei. Iniziando il proprio cammino dal primo gradino della bellezza sensibile, l'uomo si eleva coltivando il suo fecondo amore per i giovani e così impara a percepire in loro i segni della pura e perfetta bellezza: allora potrà dire di non essere lontano dalla meta. Così, da soli o sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la bellezza sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo deve salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte, poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione della Bellezza in sé. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -, è il momento più alto nella vita di una persona: l'attimo in cui si contempla la Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno girare la testa: eppure tu e tanti altri accettereste di non mangiare né bere, per così dire, pur di poterli ammirare e poter stare con loro148. Cosa proverà l'anima allora nel fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurità, del tutto estranea all'imperfezione umana, ai colori, alle vanità sensibili? Cosa proverà il nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell'unicità della sua forma? Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente allora, quando vedrà la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa è visibile, quest'uomo potrà esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa immagine149 egli contempla, infatti, ma la virtù più autentica, in piena verità150. Egli coltiva in sé la vera virtù e la nutre: non sarà forse per questo amato dagli dèi? non diverrà tra gli uomini immortale?» Ecco, Fedro, e voi tutti che mi ascoltate, quel che mi disse Diotima. Ed è riuscita a convincermi, così come io - a mia volta - cerco di convincere gli altri: per dare alla natura umana il possesso di ciò che è bene, non si troverà miglior aiuto dell'Eros. Così - io lo dichiaro - ogni uomo deve onorare Eros; io onoro l'amore che è in me, io mi consacro all'Eros ed esorto gli altri a fare altrettanto. Per quanto è in mio potere fare, ora e sempre voglio esaltare la forza dell'Eros, e il suo valore. Ecco il mio discorso, Fedro. Consideralo, se vuoi, un elogio dell'Eros, altrimenti dagli il nome che vorrai". Questo disse Socrate. Mentre tutti si complimentavano con lui e Aristofane cercava di dirgli qualcosa perché Socrate di sfuggita aveva fatto una allusione al suo discorso151, ecco che si sentì bussare alla porta dell'atrio, e un gran vociare di gente allegra, e la voce di una suonatrice di flauto. "Ragazzi - disse Agatone - andate a vedere, presto. Se è uno dei miei amici, invitatelo ad entrare. Altrimenti dite che abbiamo già finito di bere e che stiamo andando a dormire." Un istante più tardi si sentì nell'atrio la voce di Alcibiade, non più molto in sé per il vino, che urlava a squarciagola. Domandava dove fosse Agatone, voleva essere accompagnato da lui. E così lo accompagnarono nella sala e stava in piedi solo perché una flautista e qualcun altro dei suoi compagni lo sostenevano. Fermo sulla soglia, portava in capo una corona di edera e di viole, la testa avvolta nei nastri. "Signori - disse - buona sera! Accettereste un uomo completamente ubriaco per bere con voi? oppure dobbiamo limitarci a mettere questa corona in testa ad Agatone e andar via subito? Siamo venuti per questo, infatti. Ieri, in effetti non sono potuto venire. Vengo adesso con i nastri sulla testa per passarli dalla mia alla testa dell'uomo che - nessuno si offenda - è il più sapiente e il più bello: voglio proprio incoronarlo. Ah, ridete di me perché sono ubriaco! Ridete, ridete, tanto lo so che è vero. Allora, mi volete rispondere? posso entrare o no? volete o no bere con me?" Allora tutti si misero ad applaudirlo, e gli dissero di entrare e prendere posto in mezzo a loro. Agatone lo chiamò, Alcibiade si diresse verso di lui, aiutato dai suoi compagni, e cominciò a togliersi i nastri dalla fronte per incoronare Agatone. Anche se ce l'aveva sotto gli occhi non si accorse di Socrate e andò a sedersi accanto ad Agatone, quasi addosso a Socrate che dovette fargli posto. Si sedette dunque in mezzo a loro, abbracciò Agatone e gli mise la corona sulla testa. "Ragazzi - disse Agatone - slacciate i sandali ad Alcibiade, che sia terzo in mezzo a noi.""Benissimo - disse Alcibiade -, ma chi è terzo con noi?" Dicendo così si voltò e c'era Socrate. Appena lo vide fece un balzo indietro e disse: "Per Eracle, chi c'è qui? Socrate? Che tiro mi hai teso! sdraiato accanto a me! Ti par questa la maniera di comparire quando uno meno se l'aspetta? E che ci vieni a fare qui? Potevi metterti accanto ad Aristofane o a un altro che voglia far lo spiritoso! E' che tu hai trovato il modo di sdraiarti accanto al più bello della compagnia!" "Agatone, per favore difendimi tu - dice Socrate -. Essere in amore per quest'uomo non mi costa certo poco. Dal giorno in cui mi sono invaghito di lui non ho più il diritto di guardare un solo bel ragazzo, nemmeno di rivolgergli la parola. E' geloso, invidioso, mi fa delle scene, me ne dice di tutti i colori e poco manca che me le dia. Dunque, attenzione, che non faccia adesso una scenata! Tenta di riconciliarci tu o, se tenta di picchiarmi, difendimi perché la sua ira e la sua follia d'amore mi fanno una paura terribile." "No - disse Alcibiade -, è impossibile: tra te e me nessuna riconciliazione. E per quel che hai detto faremo i conti un'altra volta. Per il momento, Agatone, passami qualcuno di quei nastri, che cinga la sua testa, questa testa meravigliosa. Voglio evitare che poi si lamenti che ho incoronato te mentre ho lasciato senza corona lui, che per i suoi discorsi vince tutti sempre, e non solamente una volta come te ieri." Dicendo questo prese dei nastri, incoronò Socrate e poi si sdraiò. Si mise comodo e disse:"Amici miei, avete proprio l'aria di voler far gli astemi. Ma questo non vi è permesso: bisogna bere, l’abbiamo convenuto tra noi! Sarò io il re del simposio, finché voi non avrete bevuto a sufficienza. Allora, Agatone, fammi portare una coppa, una grande, se c'è. No, no, non c'è bisogno. Ragazzo dice - portami quel vaso per tenere il vino in fresco." Ne aveva appena visto uno, che teneva otto cotili153 abbondanti. Lo fece riempire e bevve per primo. Poi ordinò di servire Socrate, dicendo: "Con Socrate, amici miei, non c'è niente da fare: quanto vorrà bere berrà, e non ci sarà verso di farlo ubriacare."Il servo allora portò il vino a Socrate che si mise a bere, mentre Erissimaco chiedeva:"E poi cosa facciamo, Alcibiade? Restiamo così, senza parlare di niente, la coppa in mano, senza cantare niente? beviamo soltanto, come degli assetati?" "Erissimaco - gli fa Alcibiade -, grande figlio di un padre grande e saggio, io ti saluto.""Ti saluto anch'io - dice Erissimaco -. E adesso cosa dobbiamo fare?""Siamo tutti ai tuoi ordini perché un medico, da solo, vale molti uomini. Obbediremo dunque ai tuoi desideri.""E allora ascoltami - dice Erissimaco -. Prima che tu arrivassi, avevamo deciso che ciascuno al suo turno, andando da sinistra verso destra, avrebbe fatto un discorso sull'Eros, il più bel discorso d'elogio. Noi l'abbiamo già fatto, adesso tocca a te, perché hai bevuto ed è giusto che anche tu faccia il tuo discorso. Poi ordina a Socrate quel che vuoi, e lui farà lo stesso con chi sta alla sua destra e così via.""Ben detto, Erissimaco - risponde Alcibiade -. Solo che se uno ha bevuto troppo, non può dire cose che stanno alla pari con chi è sobrio. E poi c'è Socrate: credi forse una sola parola di quel che ha appena detto? non lo sai che è tutto il contrario? Perché lui, se in sua presenza faccio l'elogio di qualcuno, d'un dio o di un'altra persona che non sia lui, non ci pensa due volte a menarmi.""Ma che dici!", gli fa Socrate."Per Poseidone - dice Alcibiade -, è inutile che protesti, perché in tua presenza io non posso fare l'elogio di nessuno, se non di te.""E allora fa così - dice Erissimaco -, se vuoi: fa un elogio di Socrate."Che dici? - riprese Alcibiade - tu credi che dovrei... Vuoi che me la prenda con un tipo così e mi vendichi davanti a voi?""Ma ragazzo, che ti passa per la testa? - dice Socrate. Perché mai vuoi fare il mio elogio? per prendermi in giro?""Voglio solo dire la verità: a te accettare o meno.""La verità? Benissimo, allora accetto. Anzi ti chiedo io di dirla." "Presto fatto - dice Alcibiade -. Quando a te, ti assegno un compito: se dico qualche cosa che non è vera, tronca a metà le mie parole, se vuoi, e dimmi che su quella cosa lì io mento, perché io volontariamente non racconterò certo delle balle. Però mescolerò un po' tutto nel mio discorso, e tu non meravigliarti, perché tu sei proprio un bel tipo e non è certo facile, nello stato in cui sono, ricordare con ordine proprio tutto. Discorso di Alcibiade: Per fare l'elogio di Socrate, amici, ricorrerò a delle immagini. Sono sicuro che lui penserà che voglia scherzare, e invece sono serissimo, perché voglio dire la verità. Io dichiaro dunque che Socrate è in tutto simile a quelle statuette dei Sileni154 che si vedono nelle botteghe degli scultori, con in mano zampogne e flauti. Se si aprono, dentro si vede che c'è l’immagine di un dio. E aggiungo che ha tutta l'aria di Marsia155, il satiro: eh sì, Socrate, gli somigli proprio, non vorrai negarlo! E non solo nell'aspetto! Ascoltami bene: non sei forse sempre tracotante? Se lo neghi, io produrrò dei testimoni. Ma, si dirà, Socrate è forse un suonatore di flauto? Sì, e ben più bravo di Marsia. Lui incantava tutti con quel che riusciva a fare col flauto, tanto che ancora oggi chi vuol suonare le sue arie deve imitarlo. Anche le musiche di Olimpo, io dico che erano di Marsia, il suo maestro. Le sue arie, suonate da un grande artista o da una ragazzina alle prime armi, sono sempre le sole capaci di incantarci, di farci sentire quanto bisogno abbiamo degli dèi: ci vien voglia di essere iniziati ai misteri, perché quelle musiche sono divine. Tu, Socrate, sei diverso da Marsia solo in questo, che non hai affatto bisogno di strumenti musicali per ottenere gli stessi risultati: ti bastano le parole. Una cosa è certa e dobbiamo dirla: quando ascoltiamo un altro oratore, il suo discorso non interessa quasi nessuno. Ma ascoltando te, o un altro - per mediocre che sia - che riporta le tue parole, tutti, ma proprio tutti, uomini, donne, ragazzi, siamo colpiti al cuore: qualcosa che non ci fa star tranquilli si impadronisce di noi. Quanto a me, amici, non vorrei sembrarvi del tutto ubriaco, ma bisogna che vi dica - come se fossi sotto giuramento - quale impressione ho avuto nel passato, ed ho ancora, ad ascoltare i suoi discorsi. Quando lo sento parlare, il mio cuore si mette a battere più forte di quello dei Coribanti158 in delirio e mi emoziono sino alle lacrime: e ne ho vista di gente provare le stesse emozioni. Ora, ascoltando Pericle159 ed altri grandi oratori, mi accorgevo certo che parlavano bene, ma non provavo niente di simile: la mia anima non era travolta, non sentiva il peso della schiavitù in cui era ridotta. Ma lui, questo Marsia, mi ha spesso messo in un tale stato da farmi sembrare impossibile vivere la mia vita normale - e questo, Socrate, non dirai che non è vero. [216] E ancora adesso - lo so benissimo - se accettassi di prestar ascolto alle sue parole, non potrei farne a meno: proverei le stesse emozioni. Socrate con i suoi discorsi mi obbliga a riconoscere i miei limiti: io non cerco di migliorare me stesso, e continuo lo stesso ad occuparmi degli affari degli Ateniesi160. Devo quindi fare violenza a me stesso, tapparmi le orecchie come se dovessi fuggire dalle Sirene, devo andar via per evitare di passare con lui il resto dei miei giorni. Soltanto davanti a lui ho provato un sentimento che nessuno si aspetterebbe di trovare in me: io ho avuto vergogna di me stesso. Socrate è il solo uomo davanti al quale io mi sia vergognato. E questo perché mi è impossibile - ne sono perfettamente cosciente - andargli contro, dire che non devo fare quello che mi ordina; ma appena mi allontano, cedo al richiamo degli onori della folla intorno a me161. Allora mi nascondo, come uno schiavo scappo via, ma quando lo rivedo mi vergogno per quel che prima ero stato costretto ad ammettere. Ci sono volte che non vorrei più vederlo al mondo, ma se questo accadesse so che sarei infelicissimo. Così, io non so proprio che cosa fare con quest'uomo. Ecco l'effetto delle sue arie da flauto, su di me e su tanti altri: ecco cosa questo satiro ci fa subire. Ma ascoltate ancora: voglio proprio mostrarvi come somigli alle statuette a cui l'ho già paragonato, e come il suo potere sia straordinario. Sappiatelo per certo: nessuno di voi lo conosce davvero e io, siccome ho già cominciato, voglio mostrarvelo sino in fondo. Guardatelo: Socrate ha un debole per i bei ragazzi, non smette mai di girar loro attorno, perde la testa per loro. D'altra parte lui ignora tutto, non sa mai niente - questa almeno è l'immagine che vuol dare. Non è questa la maniera di fare di un Sileno? Sì certo, perché questa è l'immagine esterna, come quella della statuetta di Sileno. Ma all'interno? Una volta aperta la statuetta, avete idea della saggezza che nasconde? Amici miei, sappiatelo: che uno sia bello, a lui non interessa affatto, non se ne accorge neppure - da non credersi - e lo stesso accade se uno è ricco o ha tutto quello che la gente ritiene invidiabile avere. Per lui, tutto questo non ha alcun valore, e noi non siamo niente ai suoi occhi163, ve lo assicuro. Passa tutta la sua giornata a fare il sornione, trattando con ironia un po' tutti. Ma quando diventa serio e la statuetta si apre, io non so se avete mai visto che immagini affascinanti contiene. Io le ho viste, simili agli dèi, preziose, perfette e belle, straordinarie: e così mi son sentito schiavo della sua volontà. Ero giovane, e credevo seriamente che lui fosse preso dalla mia bellezza; ho creduto fosse una fortuna per me, e un'occasione da non lasciar scappare. Ero veramente fiero della mia bellezza e così speravo che, ricambiando il suo interesse, avrei potuto aver parte della sua saggezza. Convinto di questo, una volta allontanai il mio servitore - di solito ce n'era sempre qualcuno quando vedevo Socrate, e non eravamo mai soli - e così restai da solo con lui. Devo proprio dirvi tutta la verità: ascoltatemi bene, e tu Socrate, se non dico bene correggimi. Eccomi dunque con lui, amici, da soli. Io credevo che avrebbe ben presto cominciato a parlare come si parla fra innamorati, e ne ero felice. Invece non fa assolutamente niente. Parla con me come sempre, restiamo tutto il giorno insieme, poi se ne va. Allora lo invitai a far esercizi di ginnastica con me, e così ci esercitavamo insieme: io speravo proprio di concludere qualcosa. Facemmo ginnastica insieme per un certo tempo, e spesso facevamo la lotta, ed eravamo soli. Che dirvi? Nessun passo avanti. Non riuscendo a niente con questi sistemi, pensai allora di puntar dritto al mio scopo. Non volevo affatto lasciar perdere, dopo essermi lanciato in questa impresa: dovevo subito vederci chiaro. Lo invito dunque a cena, come un innamorato che tende una trappola al suo amato167. Ma non accettò subito, anzi ci mise un po' di tempo a convincersi. La prima volta che venne, volle andar via subito dopo cena. Io, che mi vergognavo un po', lo lasciai andare. Ma feci un secondo tentativo: e in quell'occasione dopo cena io prolungai la conversazione, senza tregua, fino a notte fonda. Così quando lui volle andarsene, con la scusa che era tardi lo convinsi a restare. Era dunque coricato sul letto accanto al mio, là dove avevamo cenato, e nessun altro dormiva con noi. Fin qui, quel che ho raccontato potrei dirlo davanti a tutti. Ma quel che segue voi non me lo sentireste affatto dire se, come dice il proverbio, nel vino (bisogna o no parlare con la bocca dell'infanzia?) non ci fosse la verità. Del resto non mi par giusto lasciare in ombra quel che di meraviglioso fece Socrate, proprio adesso che ne sto facendo l'elogio. E poi io sono come uno morso da una vipera: queste persone, si dice, non raccontano affatto quel che han passato, se non ad altri che sono stati anch'essi morsi, perché solo loro possono comprendere, e scusare tutto ciò che si è osato fare o dire per l'angoscia del dolore.  E io son stato morso da un dente più crudele, e in una parte della persona che aumenta la crudeltà: nel cuore, nell'anima (poco importa il nome). La filosofia con i suoi discorsi mi ha trafitto col suo morso, che penetra più a fondo del dente della vipera168 quando si impadronisce dell'anima di un giovane non privo di talento e gli fa fare e dire ogni sorta di stravaganze - ed eccomi qua con Fedro, con Agatone, con Erissimaco, con Pausania, con Aristodemo, ed anche con Aristofane, senza parlare di Socrate, e con tanti altri, tutti attenti come me al delirio filosofico e alla sua forza dionisiaca. Vi chiedo dunque d'ascoltarmi perché certo mi perdonerete per quel che ho fatto allora e per quel che dico oggi. E voi servitori, voi tutti che siete profani, se state ascoltando, tappatevi le orecchie con le porte più spesse. E allora, miei amici, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, io pensai che non dovevo più giocare d'astuzia con lui, ma dire francamente il mio pensiero. Gli dissi allora, scuotendolo: "Dormi, Socrate?" "Per nulla", rispose. "Sai cosa penso?" "Che cosa?" "Penso che tu saresti un amante degno di me, il solo che lo sia, e vedo che esiti a parlarne. Quanto ai miei sentimenti, mi son convinto di questo: che è stupido, io credo, non cedere ai tuoi desideri in questo, come in ogni cosa in cui tu avessi bisogno, la mia fortuna o i miei amici. Niente, infatti, è più importante ai miei occhi che migliorare il più possibile me stesso, e io penso che su questa strada nessuno mi può aiutare più di te. Quindi mi vergognerei dinanzi alle persone sagge di non cedere ad un uomo come te più di quanto mi vergognerei dinanzi alla massa degli ignoranti di cedere." Mi ascolta, prende la sua solita aria ironica e mi dice: "Mio caro Alcibiade, se quel che dici sul mio conto è vero, se ho davvero il potere di renderti migliore, devo dire che ci sai proprio fare. Tu vedi senza dubbio in me una bellezza fuori del comune e ben differente dalla tua. Se l'aver visto questo ti spinge a legarti a me e a scambiare bellezza con bellezza, il guadagno che tu pensi di fare alle mie spalle non è affatto piccolo. Tu non vuoi più possedere l'apparenza della bellezza, ma la bellezza reale, e quindi sogni di scambiare - non c'è dubbio - il bronzo con l'oro170. [219] Eh no, mio bell'amico, guarda meglio! T'illudi sul mio conto: io non sono niente171. Lo sguardo della mente comincia davvero a esser penetrante quando gli occhi cominciano a veder meno: e tu sei ancora molto lontano da quel momento." Al che io rispondo: "Per quel che mi riguarda, sia ben chiaro, io non ho detto niente che non penso. A te, adesso, decidere ciò che è meglio per te e per me." "Hai ragione - mi fa -. Nei prossimi giorni noi ci chiariremo, e agiremo nella maniera che sembrerà migliore ad entrambi, su questo punto come su tutto il resto." Dopo questo dialogo, io credevo di aver lanciato un dardo che l'avesse trafitto. Mi alzai e, senza permettergli di reagire, stesi su di lui il mio mantello - era inverno - e mi allungai sotto il suo, ormai vecchio, e presi tra le mie braccia quest'essere veramente meraviglioso, demonico173, e restai con lui tutta la notte. Adesso non dirai che mento, Socrate. Ma tutto questo dimostra quanto lui fosse più forte: non degnò di uno sguardo la mia bellezza, non se ne curò affatto, fu quasi offensivo in questo. E dire che credevo di non essere affatto male, miei giudici (sì, giudici della superiorità di Socrate). Ebbene sappiatelo - ve lo giuro sugli dèi e sulle dee - io mi alzai dopo aver dormito a fianco di Socrate senza che nulla fosse accaduto, come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello maggiore. Immaginate il mio stato d'animo! Certo, mi ero quasi offeso, ma apprezzavo il suo carattere, la sua saggezza, la sua forza d'animo. Avevo trovato un essere dotato di un'intelligenza e di una fermezza che avrei credute introvabili: e così non potevo prendermela con lui e privarmi della sua compagnia, né d'altra parte vedevo come attirarlo dove volevo io. Sapevo bene che era totalmente invulnerabile al denaro, più di Aiace davanti alle armi. Sul solo punto in cui credevo si sarebbe lasciato catturare, ecco, era appena fuggito175. Insomma, completamente schiavo di quest'uomo, come mai nessuno lo è stato d'altri, gli giravo vanamente attorno. Tutto questo accadde prima della spedizione di Potidea176. Entrambi vi partecipammo, e prendemmo anche i pasti insieme. Quel che è certo, è che resisteva alle fatiche non solo meglio di me, ma di tutti gli altri. Quando capitava che le comunicazioni fossero interrotte in qualche punto, e in guerra succede, e noi restavamo senza mangiare, nessun altro aveva tanta resistenza alla fame. Al contrario, se eravamo ben riforniti, sapeva approfittarne meglio degli altri, in particolare per bere; non che ci fosse portato, ma se lo si forzava un po', lui poi superava tutti e - cosa assai strana - nessuno ha mai visto Socrate ubriaco. E credo che questa notte stessa avrete la prova di quanto dico. Quanto al freddo - e nella zona di Potidea gli inverni sono terribili - Socrate è del tutto straordinario. Vi racconto un episodio. Era un giorno di terribile gelo, quanto di peggio potete immaginare, uno di quei giorni in cui tutti evitano di uscire e se lo fanno si infagottano tutti, i piedi avvolti in panni di feltro o in pelli di agnello. Socrate se ne uscì coperto solo dal mantello che porta sempre andando a piedi nudi sul ghiaccio con più tranquillità di quelli che avevano le scarpe: e così i soldati lo guardavano di traverso, perché pensavano li volesse umiliare. E c'è dell'altro da dire. "E' straordinario ciò che fece e sopportò il forte eroe", laggiù in guerra: vale veramente la pena di sentire la storia che ho da raccontare. Un giorno si mise a meditare sin dal primo mattino, e restava fermo a seguire le sue idee. Non riusciva a venire a capo dei suoi problemi, e così stava lì, in piedi, a riflettere. Era già mezzogiorno e gli altri soldati l'osservavano, stupiti, e la voce che Socrate era in piedi a riflettere sin dal mattino presto cominciò a circolare; finché, venuta la sera, alcuni soldati della Ionia dopo cena portarono fuori i loro letti da campo - era estate - e si sdraiarono al fresco, a guardar Socrate, per vedere se avrebbe passato la notte in piedi. E così fece, sino alle prime luci del mattino. Solo allora se ne andò, dopo aver elevato una preghiera al Sole. Adesso, se volete, dobbiamo dir qualcosa della sua condotta in combattimento - perché anche su questo punto bisogna rendergli giustizia. Quando ci fu lo scontro per il quale i generali mi assegnarono un premio per il mio coraggio, riuscii a salvarmi proprio per merito suo. Ero ferito, lui si rifiutò di abbandonarmi e riuscì a salvare sia me che le mie armi. Allora io chiesi ai generali di assegnare il premio a te: non potrai certo, Socrate, dire adesso che io mento, e neppure rimproverarmi per quel che dico. Ma i generali, considerando la posizione in cui ero, volevano dare a me il premio, e tu hai personalmente insistito più di loro perché il premio invece andasse a me. Ricordo un'altra occasione, amici, in cui valeva la pena di vedere Socrate: fu quando il nostro esercito a Delio179 fu messo in rotta. In quell'occasione fu il caso a farmelo incontrare.  Io ero a cavallo, e lui era oplita. Stava ripiegando insieme a Lachete180, tra le truppe sbandate, quando io capito lì per caso, li vedo e per incoraggiarli dico loro che non li avrei abbandonati. In quell'occasione ho potuto osservare Socrate ancora meglio che a Potidea, perché avevo meno da temere, essendo a cavallo. Aveva più sangue freddo di Lachete - e quanto! - e dava l'impressione (uso le tue parole, Aristofane) di avanzare come se si trovasse in una strada d'Atene "sicuro di sé, gettando occhiate di fianco181", osservando con occhio tranquillo amici e nemici e facendo vedere chiaramente, e da lontano, che si sarebbe difeso sino in fondo se qualcuno avesse voluto attaccarlo. E così andava senza mostrare alcuna inquietudine, insieme con il suo compagno: gli opliti che, in simili situazioni, si comportano in questa maniera di solito non vengono affatto attaccati dai nemici, che invece inseguono chi scappa in disordine. Molti altri aspetti del carattere di Socrate potrebbero essere oggetti di un elogio, perché sono veramente ammirevoli. Riguardo a queste cose, però, anche altri uomini probabilmente meritano gli stessi elogi. C'è qualcosa in Socrate, invece, che lo rende meravigliosamente unico, assolutamente diverso da tutti gli altri uomini del passato e del presente. Infatti, volendo, si può trovare l'immagine di Achille in Brasida e in altri, Pericle può ricordare Nestore o Antenore, e questi casi non sono isolati: si possono fare paragoni simili a proposito di tanti altri. Ma l'incredibile di quest'uomo è che lui e i suoi discorsi non hanno paragoni né nel passato né oggi, per quanto si cerchi con attenzione, a meno che non lo si voglia paragonare come facevo io prima: non ad altri uomini, ma ai Sileni e ai Satiri - che si tratti di lui o delle sue parole. Sì, perché c'è una cosa che ho dimenticato di precisare: anche i suoi discorsi sono simili alle statuette dei Sileni che si aprono. Infatti, se si ascolta quel che dice Socrate, a prima vista le sue parole possono sembrare quasi comiche, tutte intrecciate con strani discorsi: esteriormente ricordano proprio gli intrecci della pelle di un satiro insolente. Parla di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori di pelli, ed ha sempre l'aria di dire le stesse cose con le stesse parole. Chi non sa o è poco attento, c'è caso che rida dei suoi discorsi. Ma se li apri e li osservi bene, penetrandone il senso, scopri che solo le sue parole hanno un loro senso profondo: parla come un dio, e la folla delle immagini che usa, affascinanti, rimandano sempre alla virtù. Chi lo ascolta è portato verso le cose più alte; anzi, meglio, è guidato a tenere sempre davanti gli occhi tutto quel che è necessario per diventare un uomo che vale. Ecco, amici, il mio elogio di Socrate. Quanto ai rimproveri che ho da fargli, li ho mescolati al racconto di quel che mi ha combinato. Del resto non sono il solo che ha trattato in questo modo: ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone, con Eutidemo, il figlio di Dioele, tutta gente che ha ingannato con la sua aria da innamorato, con la conseguenza che furono loro ad innamorarsi di lui. Io ti avverto, Agatone: non farti ingannare da quell'uomo! Che la nostra esperienza ti sia di monito! Che non accada come dice il proverbio: "l'ingenuo fanciullo non impara che soffrendo." Quando Alcibiade ebbe parlato così, l'ilarità fu generale, anche perché s'era capito ch'era ancora innamorato di Socrate. E così Socrate gli disse: "Tu non hai affatto l'aria d'aver bevuto, Alcibiade. Altrimenti non avresti fatto un discorso così sottile, tutto fatto per nascondere il tuo vero obiettivo, che è venuto fuori solo alla fine: ne hai parlato come se fosse una cosa secondaria, e invece tu hai fatto tutto un lungo discorso solo per cercare di guastare l'amicizia tra Agatone e me. E tutto perché sei convinto che io debba amare solo te, nessun altro che te, e che Agatone debba essere amato soltanto da te, da nessun altro che da te. Ma non t'è andata bene: il tuo dramma satiresco, la tua storia di Sileni, abbiamo capito tutti cosa significhi. E allora, mio caro Agatone, bisogna che lui non vinca a questo gioco: sta ben attento che nessuno possa mettersi tra me e te." E Agatone di rimando:"Hai detto proprio la verità, Socrate. E ne ho le prove: si è venuto a sdraiare proprio tra te e me, per separarci. Ma non ci guadagnerà niente a far così, perché io torno proprio a mettermi accanto a te." "Oh, bene, - disse Socrate - ti voglio proprio vicino!" "Per Zeus, - disse Alcibiade - quante me ne fa passare quest'uomo! Pensa sempre come fare per aver l'ultima parola con me. Socrate, sei proprio straordinario! Ma lascia almeno che Agatone stia tra noi due." "E' impossibile - disse Socrate -. Perché tu hai appena fatto il mio elogio, e io devo a mia volta far quello della persona che sta alla mia destra. Quindi, se Agatone si mette al tuo fianco, alla tua destra, dovrà mettersi a fare il mio elogio prima che io abbia fatto il suo. Lascialo piuttosto stare dov'è, mio divino amico, e non essere geloso se faccio il suo elogio, perché desidero proprio cantare le sue lodi".  "Bravo! - disse Agatone -. Lo vedi tu stesso, Alcibiade: non è proprio possibile che resti qui. Voglio a tutti i costi cambiar posto, e ascoltare il mio elogio da Socrate". "Ecco - disse Alcibiade -, finisce sempre così. Quando c'è Socrate, non c'è posto che per lui accanto ai bei ragazzi. Guarda che razza di ragione ha saputo trovare adesso per farselo stare vicino!" Agatone si era alzato per andarsi a mettere accanto a Socrate, quando all'improvviso tutta una banda di gente allegra spuntò dalla porta. Qualcuno era uscito e l'avevano trovata aperta, e così erano entrati e s'erano uniti alla compagnia. Gran baccano in tutta la sala: senza più alcuna regola, si bevve allegramente un sacco di vino. Allora, mi disse Aristodemo, Erissimaco, Fedro e qualcun altro andò via. Lui, Aristodemo, fu preso dal sonno e dormì tanto, perché le notti erano lunghe. Si svegliò ch'era giorno e i galli già cantavano. Alzatosi, vide che gli altri dormivano o erano andati via. Solo Agatone, Aristofane e Socrate erano ancora svegli e bevevano da una gran coppa che si passavano da sinistra a destra. Socrate chiacchierava con loro. Aristodemo non ricordava, mi disse, il resto della conversazione, perché non aveva potuto seguire l'inizio e dormicchiava ancora un po'. Ma in sostanza, disse, Socrate stava cercando di convincere gli altri a riconoscere che un uomo può riuscire egualmente bene a comporre commedie e tragedie, e che l'arte del poeta tragico non è diversa da quella del poeta comico. Loro furono costretti a dargli ragione, ma non è proprio che lo seguissero del tutto: stavano cominciando a dormicchiare. Il primo ad addormentarsi fu Aristofane, poi, ormai in pieno giorno, s'addormentò anche Agatone. Allora Socrate, visto che si erano addormentati, si alzò e andò via. Aristodemo lo seguì, come sempre faceva. Socrate andò al Liceo, si lavò e passò il resto della giornata come sempre faceva. Dopo, verso sera, se ne andò a casa a riposare.