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Wednesday, March 23, 2022

GRICE E GENOVESI

 Antonio Genovesi 1 2 non è uno di quei filosofi, che  fanno compiere un passo innanzi al pensiero filosofico.  A paragone del grande Giambattista Vico, che si gloria di  aver avuto maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue  opere con profondo rispetto : , il Genovesi apparisce come  uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che il  Vico ebbe tra i suoi contemporanei e tra gli uomini più  illuminati delle generazioni successive; i quali ebbero un  certo sentore di alcune teorie di lui, concordanti o no  con dottrine congeneri di altri pensatori e da annoverare  tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i  problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire,  non ebbero senso. Se pertanto nella storia del pensiero  il Vico rappresenta quello che egli rappresenta a’ nostri  occhi di storici che han penetrato il significato di quei  problemi, il Genovesi dopo di lui è un arresto o una de¬  viazione. Quella vena speculativa altissima nello scolaro    1 Discorso tenuto al Teatro Verdi di Salerno, il 17 gennaio 1932,  ì n occasione del monumento inaugurato lo stesso giorno a Castiglione  del Genovesi.   2 « L’illustre Giambattista Vico, uno de’ fu miei maestri, uomo  d’immortai fama per la sua Scienza Nuova » (Lez. di Comm.,  Napoli, 1783, IX, p. 12; parte II, c. I, § 5); «Il nostro Vico nella  Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei pochi che in queste ma¬  terie [su Omero] facciano onore all’ Italia » (Logica e Metafisica, Mi¬  lano, Classici italiani, 1835, p. 208. Cfr. ivi, p. 331).        72    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    è inaridita. Il pensiero ha cambiato strada, abbandonando  gli ardui argomenti con cui s’era cimentato.   Ma il paragone col Vico storicamente non è giusto.   I due pensatori in verità appartengono a due piani  storici, da uno dei quali non si passa all’altro direttamente.  Se il Genovesi non ebbe occhi per vedere i problemi del  Vico, neanche il Vico, dalla parte sua, ebbe occhi per  vedere quelli del Genovesi. Uomini di tempra diversa,  con diversi interessi spirituali, si può dire che il maestro  abbia pensato sempre al cielo, e lo scolaro alla terra.  L’uno non si guarda mai attorno se non come uomo  privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge alla  sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si  assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle  gioie e dai dolori della vita quotidiana. Dove non sono  in verità gli attori del dramma che egli ama studiare e  nel cui studio concentra infatti le energie più potenti  della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra i coe¬  tanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non  è di questo mondo. Quantunque il suo animo, propria¬  mente, sia a questo mondo legato così strettamente come  nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con sguardo  penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente  a intendere il significato, e in questo mondo appunto  agogni con titanico sforzo a conquistarsi razionalmente,  col pensiero, un suo posto. Ma questo mondo egli vuol  vederlo sub specie aeterni, come mondo che è sempre lo  stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti  sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con  immutabile legge.   L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita  intorno a lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle città  e nelle campagne; nello Stato e nella Chiesa; a Napoli,  per tutta Italia, e di là dalle Alpi. L’istruzione del  popolo e l’educazione dei giovani; l’agricoltura e il com-    ANTONIO GENOVESI    73    mercio; l’economia del Regno, e i problemi della feudalità  e della manomorta; il problema della moltitudine degli  ecclesiastici eccessiva in rapporto alla popolazione; e poi  la questione giurisdizionale e l’ardente lotta anticuria-  lista in difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte le  questioni che erano all’ordine del giorno nella Napoli del  tempo, o che uno spirito alacre ricavava da quelle a cui  la pubblica opinione s’interessava. E poiché i paesi  allora alla testa della cultura europea erano insieme  Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano in  quelle lingue i più letti, celebrati e discussi, ecco quelle  lingue, insieme con le classiche, a cui il Vico si era limitato,  studiate e possedute con animo pronto a seguire il movi¬  mento della letteratura straniera in ogni campo di ri¬  cerche filosofiche e sociali. Allargato quindi enormemente  l’orizzonte. Non più quel carattere antiquato e accade¬  mico della scienza tradizionale, nel cui cerchio si muove  ancora il Vico, modernissimo per la sostanza de’ suoi  problemi, arcaico per la forma (lingua ed erudizione)  E la modernità segna la fine di quel chiuso provincia¬  lismo, onde lo scrittore napoletano si era sentito sempre  cittadino di Napoli. Genovesi guarda più in là del  Garigliano e del Tronto. Egli si sente italiano; e come  italiano, partecipe dell’unica società europea della cultura.  Italiano e moderno, si lascia alle spalle il vecchio mondo  tradizionale dell’accademia fratesca e teologizzante e  dell’angusta provincia, e respira largo, apre le finestre  della scuola della letteratura e del pensiero, e vive nel  tempo suo e si sforza d’interessare gli uomini, tutti, al  sapere e al lavoro dell’ intelligenza.   Siamo, come dicevo, in un piano diverso da quello  della pura filosofia. Qui si può dire che la filosofia ri-  nunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli per  risorgere in forma più adeguata alle sue esigenze più  profonde. Ciò che è tante volte avvenuto nella storia;    6 - Gentile, Albori. I.    74    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    e avviene continuamente nella vita. Il pensiero sale, sale,  si purifica, si libera dal rappresentare fantastico e cor¬  pulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana,  per ridiscendere tosto al concreto della realtà che con  quell’astrazione ha cercato di definire e più perfetta¬  mente possedere: alla realtà che è corpo e fantasma,  e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso impeto  dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di  ogni esistenza e di ogni luce. Il progresso è pur sempre  in certo modo regresso; e se si volesse andare avanti,  avanti sempre, si finirebbe col precipitare nel vuoto.  Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna toccare  la terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come  l’Anteo della favola, da gigante che ha già la forza per  rialzarsi: che ha, in altri termini, un certo grado di co¬  scienza filosofica.   2. — Vogliamo sentire dallo stesso Genovesi qual fosse il  suo ideale di cultura ? Basta leggere un suo Discorso sopra  il vero fine delle lettere e delle scienze, che nel 1753 pubblicò  innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari  per far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi  per giustificare la nuova via per cui egli si metteva, dopo  aver anche lui pubblicato i suoi libri di Logica, di Me¬  tafisica e di Teologia in lingua latina. In questi stessi  libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze innova¬  trici del Genovesi e il carattere dominante del suo pen¬  siero filosofico, del quale ci proveremo qui appresso a  dare un sommario cenno ; ma ancora non è avvenuta la  radicale conversione per cui la mente dello scrittore, dopo  che ebbe trovato negli studi economici e sociali una ma¬  teria più adatta al suo genio, raggiunse la sua forma  storica, e ritrovò propriamente se stesso.   In questo Discorso il Genovesi propugna una sorta di  filosofia « reale », com’egli dice, e cioè pratica ed appli-    ANTONIO GENOVESI    75    cativa: come dire una filosofia non propriamente specu¬  lativa e filosofica; e prende a partito tutti i più celebrati  filosofi della tradizione e le loro dottrine. Esalta bensì  la ragione come quella che << più di tutte le nostre doti  ci rassomiglia a Dio », « la sola cosa, per cui l’uomo si  solleva sopra tutto ciò ch’è in terra»: la ragione, «arte  universale » governatrice di tutte le arti e strumenti onde  l’uman genere arricchisce la vita e viene ogni dì perfe¬  zionando il sistema dei mezzi diretti ad accrescerne il  benessere. Ma ne addita nelle astratte speculazioni e  schernisce i deviamenti già nell’antichità derivati appunto  dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni oziose,  sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima e  l’ammirazione dei semplici e a procacciare una riputazione  fallace.   « Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto so¬  gliono più stimare quel che meno intendono, i dialettici  ed i metafisici. I don Chisciotti della repubblica delle  lettere, combattenti con gli indistruttibili giganti delle  chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo ingegno,  loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usur¬  parono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca  fatale, che riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti  la Grecia, e ne’ secoli assai più vicini buona parte del-  1 ’ Europa ».   Eppure, la prima e più antica filosofia era stata una  « filosofia tutta cose ». I più antichi filosofi erano stati i  legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi di  etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di  tutti i buoni cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi  della società, così dovevano aver parte alle cure e alle  fatiche » pel bene pubblico e domestico. Vennero dopo i  tempi di corruzione, in cui prevalse la massima che l’ozio  fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia infi¬  nita di coloro che sono «peste del vero sapere e della      76 ALBORI DELLA NUOVA ITALIA   virtù»; «i quali si credettero nati o per garrire inutil¬  mente, o per disputare di cose inintelligibili, o per met¬  tere empiamente in ridicolo le sante ed utili cognizioni,  le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà ». Ven¬  nero i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti  de’ sogni dei poeti, o mercanti de’ propri»; vennero i  metafisici, «Penelopi della filosofia, implicati in disciorre  quelle tele, che eransi tessute colle loro mani » ; verniero  i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli alla  ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie  gittavan del negro, sotto cui il vero e il falso prendesse  un sol volto ». Socrate, — il gran Socrate, di cui fu detto  che richiamò la filosofia dal cielo in terra e a cui infatti  gli uomini devono di sapere che tutto quello che si vuole  intendere essi non lo possono cercare se non nel pensiero,  cioè in se medesimi, — dal Genovesi non è ricordato qui  se non come colui che insegnò la più ricca e la più bella  possessione dell’uomo essere l’ozio. Dei suoi scolari non  gli giova menzionare altri che Aristippo e Diogene il  Cinico, corruttori del costume. Di Pitagora a scherno  ricorda la monade e il binario; e l’uno di Parmenide; e  l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme di Platone  e le entelechie di Aristotele; ed altre cosiffatte «bambole  di ragione » degli altri più celebrati filosofi.   Che dire poi della filosofia medievale ? Non si può  leggerne la storia « senza aver pietà della debolezza del-  l’ingegno umano ». Poveri scolastici ! «Vestono corazze  di carta, che stimano del più fino metallo; e combattono  con i mulini a vento, come con i Giganti distruttori del-  l’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del nostro  mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa,  fuor che di ciò che ci appartiene o c’ interessa ».   In questa caricatura della storia della filosofia super¬  fluo avvertire lo strazio che il Genovesi fa delle più im¬  portanti dottrine dei maggiori pensatori. Voglio solo rife-        ANTONIO GENOVESI    77    rire in proposito un altro periodo, tipico documento  degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e insieme  dello spirito che la moveva:«La materia prima,  che Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagli Arabi,  fu di sì vivi e vaghi colori arricchita in mano di Abelardo,  e di alcuni altri, che divenne una Divinità, la quale poi  il più empio e il più freddo de’ filosofi del passato secolo,  si studiò di adornare con un sistema geometrico ». Allu¬  sione a Spinoza, che pure Genovesi aveva studiato con  grande interesse ’.   « Alle quali cose quante volte io penso », conchiude il  nostro filosofo, « forte mi meraviglio, come gli agricoltori,  i pastori e tutti gli altri coltivatori delle arti per cui l'uman  genere si sostiene, abbian potuto tollerare in pace una  razza di uomini, i quali, lungi di dar loro il menomo ri¬  schiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’ frutti  della loro industria godevano, pare che si ridessero delle  loro fatighe, o che gli riguardassero come animali di  altra specie, fatti da Dio in forma umana per servire  a’ loro piaceri ».   Lode a Bacone, che proclamò la necessità di ristaura-  zione dalle fondamenta tutto il sapere, e dimostrò che  « si poteva essere filosofo con assai gloria, senza essere  peso inutile agli altri uomini ». Lo studio della natura,  l’esperienza, « gran maestra delle utili cognizioni », la  geometria « nutrice di tutte le arti » vennero in grande  onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ebbe il  suo Ercole, uccisore dei mostri che la infestavano. L'Italia  ebbe Galileo. Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa a  questa nuova scienza, forse perché con maggior vigore  questa potesse irrompervi a rendere più glorioso il rin-    1 Cfr. la sua lettera dell' u sett. 1756 a R. Sterlich; dove racconta  come potè studiare, quando aveva 28 anni, 1 ’Etica di Spinoza: Leti,  fam., ed. Napoli, 1788, I, 124.     78    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    novamento che il Regno, ristaurato dal primo dei Bor¬  boni, doveva promuovere. Genovesi ha qui un concetto  che rammenta l’hegeliano spirito del mondo. « Egli è  veramente un certo Genio, che discorre per le nazioni,  e che in dati intervalli le anima, e le raccende, quello  che o primamente mena, o estinte ravviva le lettere e  le belle arti ». Ma questo Genio, secondo il Genovesi,   « vuol essere sempre accarezzato, sollecitato e alimen¬  tato. Può dirsi che la curiosità, la più utile molla del-  l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la gloria  l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi  e ’l rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’ali¬  menta ». Insomma, il rinnovamento del pensiero richie¬  deva a Napoli le più propizie condizioni create dalla  nuova vita impressa allo Stato dal nuovo Regno.   Grande infatti il progresso già avvenuto in Napoli,  delle arti, delle scienze, della ragione che le alimenta.  Ma « un certo lezzo dell’antica barbarie » (prisci vestigia  ruris) è rimasto tuttavia attaccato agli scrittori. La  ragione non è pervenuta ancora alla sua maturità: è  ancora tutta nell’ intelletto, e deve passare nel cuore e  nelle mani. È bella, non è operatrice; adorna, non utile.  Bisogna che diventi pratica e realtà; come può solamente  quando « tutta si è così diffusa nel costume e nelle arti,  che noi l’adoperiamo come sovrana regola, quasi senza  accorgercene » : come accade alle bestie, in cui « la cogni¬  zione è tutta uso, perché è l’arte di Dio lavorante su la  materia, ed in Dio non ci sono Enti di ragione»:  cioè le astrattezze che si annidano nel cervello dei filosofi.  I dotti napoletani hanno bensì coltivato lo studio delle  leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei dialettici:  questioni sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla vita.  Tutta una forma di sapere, in cui, insomma, secondo il  Genovesi, c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è cuore;  e c’è cattivo gusto. Manca, diremmo oggi, il senso scien-    ANTONIO GENOVESI    79    tifico; e gl'ingegni si credono più grandi quando sono  ammirati come incomprensibili, che quando stimati come  utili.   La pratica dell' insegnamento (insegnava già egli da  sedici anni) aveva dimostrato al Genovesi che Napoli era  un semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i migliori  ingoiavano avidamente la nuova filosofia prima di di¬  gerir la vecchia. Avvezzi alle sottigliezze vane e alla  « ciarleria », troppo ancora se ne compiacevano per fare  il debito onore alle scienze sode, feconde, che avevano  già trasformato la cultura inglese, francese, olandese.  Sacrifichiamo dunque « una volta la seduttrice e vana  gloria dell’astratta speculazione al giusto desiderio della  parte più grande degli uomini, i quali ci vogliono men  contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il divin  dono della ragione perché intendiamo, che il vero sapere  non è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ». Esso  deve giungere al popolo. Il quale ha bisogno di essere illu¬  minato, e non seguito nella sua naturale ritrosia alle  novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento tenace  alla tradizione. Deve essere indotto a profittare delle  osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere in¬  gentilito, rianimato, spronato ad elevarsi. E si deve quindi  operare su di esso non con le leggi che non cambiano gli  uomini, sì con la « savia educazione e coltura di questa  sì preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia a  sbucciare dal suo guscio ».   Curare l'educazione. È uno degli articoli principali  dell’apostolato del Genovesi 1 ; poiché i contemporanei,  a suo giudizio, curavano più i « testi di fiori » e le piante    1 Sulla educazione e istruzione popolare vedi Lez. di Comm., parte I,  cc. VI e Vili; e Logica, ed. cit., pp. 271-72. Senza educazione «oltre¬  ché non è possibile, che la popolazione si aumenti.... ma, pure dove  avviene che cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi¬  uomini, ma non di forze» (Lez. di Comm., t. I. p. 121).     8 o    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    peregrine che avevano per avventura ne’ loro giardini,  che non i figli. E raccomandava la massima diligenza  nella scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio,  mancava per questa parte il Regno di Napoli. Bisogna  sentire il ritratto vivo che ce ne ha lasciato:   « I maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’ur¬  banità e l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti  d’onore: sovente i loro moti, gesti, tuono di voce e tutto  il lor volto, che suol esser lo specchio dei ragazzi, spira  tutt’altra cosa che gentilezza: la loro lingua è più fre¬  quentemente un gergo corrotto de’ vari dialetti del nostro  Regno, che la bella e nobile della pulitissima Italia: final¬  mente, dirò io che il lor costume sia sempre il più puro  e il più santo ? Inoltre, quasi tutti si studiano di coltivar  assai più la memoria de’ loro allievi che la ragione e il  cuore. Un solecismo o barbarismo in lingua latina è da  loro più severamente punito, che molti a’ gentiluomini  sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi di  ragione e di costume. Si adirano anche spesso, gridano  e fanno dei schiamazzi in testa a’ loro allievi; gli battono  senza misericordia, e gli trattano più da servi, che da  figli: tutte cose più atte a fare o stupidi o villani o zotici  e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel sapere, nelle virtù,  nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben anche  spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito  dire a molti di coloro un proverbio, che fa disonore agli  esseri ragionevoli : che i fanciulli si curan  colle mazze».   3. — Un filosofo che parla questo linguaggio umano,  familiare, e che pensa come s’è veduto, dei filosofi e dei  loro sistemi, evidentemente non è un filosofo di professione.  Sarà un filosofo che avrà qualche cosa da dire più e meglio  dei filosofi di professione; ma non potrà facilmente an¬  dare d’accordo con questi. Così poco rispettoso di quelle    ANTONIO GENOVESI    Si    che sono le idee e le maniere per loro più rispettabili e  venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto fa¬  stidio verso le questioni che formano il nutrimento e il  vanto dei loro cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in  mezzo ad essi: ma vi starà a disagio, e se ne trarrà fuori,  spontaneamente o per necessità, appena se ne presenti  l’occasione.   L’abate Genovesi, nato nella terra di Castiglione 1 ’ Ognis¬  santi del 1713 *, fu avviato quattordicenne agli studi di  filosofia da un suo stretto congiunto, che gli insegnò per  due anni filosofia scolastica e per un terzo anno filosofìa  cartesiana (filosofìa di moda allora nel Napoletano);  quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato ad  apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini  minori nel 1730, promosso suddiacono nel settembre '35.  Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel seminario  di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo conto  con gran fervore ; finché nel '37 sarà ordinato prete J'e  un’eredità allora conseguita gli consentirà di recarsi l’anno  appresso a Napoli, per appagare in quella Università e  nella consuetudine degli illustri letterati della metropoli  la sua sete ardentissima di sapere. A Napoli frequentò  molti corsi; tra gli altri, fino al *41, quello di Giambattista  Vico; di cui, ci racconta un anonimo biografo, aveva  già da un anno letta la Scienza Nuova : « Il perché corse  ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la sua servitù, ebbe  l’onore della sua amicizia » 1 2 . Insoddisfatto della filosofìa  che s’insegnava, disegnò programmi suoi, e aprì una sua  scuola privata; finché nel '41 il Cappellano Maggiore  monsignor Galiani, che era l’uomo che poteva intenderlo,  gli affidò l’incarico d’insegnare nell’ Università Meta¬  fìsica. Aveva letto Malebranche, Locke, studiato Spinoza    1 Note di A. Cutolo alle Memorie autobiogr. del G., in Ardi. stor.  nap., 1924, p. 261.   2 Cutolo, Noie cit., p. 260.     82    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    e Leibniz; e dettava agli alunni, come volevano i rego¬  lamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne nacquero gli  Elementi di Metafisica in lingua latina, in cinque tomi; il  primo dei quali pubblicato nel '43, pel metodo geometrico  con cui la dottrina era esposta (metodo, si sussurrava, caro  ai protestanti), per le novità che conteneva, per le con¬  cessioni che faceva al razionalismo, per quello scetticismo  moderato che vi dominava, procurò all’autore ire e per¬  secuzioni dei censori ecclesiastici, aprendo una serie di  contestazioni teologiche, che alienarono sempre più il  suo animo dagli studi che rimanevano in Italia, e sopra¬  tutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei  frati.   Ma ecco che nel '44 il Galiani gli viene in aiuto pas¬  sandolo dall’ incarico di Metafisica alla cattedra ordinaria  di Etica : insegnamento più conforme all’ ingegno del  Genovesi, e da lui infatti tenuto per un decennio con  grande efficacia per l’eloquenza delle sue lezioni, la mo¬  dernità della dottrina, la ricchezza e praticità delle que¬  stioni trattate. Pure alla Metafìsica nel '45 s’aggiungeva  in cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino.  E queste opere si ristampavano e si diffondevano in  Italia e fuori d’Italia. Nondimeno l’autore nel '65 poteva  scrivere a un amico : « La Metafìsica (mia) fatta pei teo¬  logi e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici, come  neppure piace a me. E con tutto ciò, la Logica e la Meta¬  fìsica s’insegna in molti collegi di Francia, e in quasi  tutte le scuole di Germania» '. Avevano fortuna; poiché  questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel  loro andamento eclettico e largamente informativo ben  s’adattavano alla tendenza media degli studiosi non ri¬  solutamente moderni ma neppur ciecamente chiusi nella  tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et vetera    1 Leti, jam., II, 67.     ANTONIO GENOVESI    83    e farsi una filosofia senza compromettersi; ma, come  si vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche  i due libri De iure et officiis (1764) eran nati dalla scuola  e per la scuola (in usum tironum) ; e del pari altri due  brevi compendii latini di Logica ('5 2) e di Metafisica (’68).   Ma quando al Genovesi sarà possibile avere una scuola  a modo suo, intorno a materie nuove, indirizzate a pub¬  blica utilità, non contemplate nei vecchi quadri, egli non  scriverà più latino. Che gioia quando fu istituita per lui,  nell’ Università, la cattedra di « Commercio e Economia »,  fondata dal suo vecchio amico, facoltoso e autorevole,  il fiorentino Bartolomeo Intieri, studioso di macchine  agricole e di questioni economiche: ingegno pratico alla  toscana, avverso a ogni oziosità speculativa ! Allora il  Genovesi si sentì davvero maestro, e veramente filosofo.   Grande l’attesa nel pubblico per il nuovo insegnamento ;  ma potente altresì l’estro del nuovo insegnante e l’im¬  peto e il calore della sua eloquenza. Quando il 5 novembre  del ’54 tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento  nella vita del Genovesi e nella storia non soltanto della  cultura napoletana ma della scienza europea. Poiché que¬  sta del Genovesi fu la prima cattedra istituita in Europa  di Economia politica: dovuta, s’intende, non al semplice  intuito d’un privato ma al movimento degli studi che la  situazione economica del Regno di Napoli aveva prodotto.  In una lettera dello stesso mese il Genovesi scriveva a  un amico 1 : « Nel dì 5 corrente feci il mio discorso pre¬  liminare, 0 sia l'apertura alla nuova Cattedra del Com¬  mercio con uno straordinario concorso, tuttoché io non  avessi fatto invito. Parlai un’ora, non solo senza niente  aver mandato a memoria, ma senza aver niente scritto  di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso fu ricevuto  con applauso, e subito diffuso per tutta la città. È stata    Leu. falli., I, 108.     84    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    bella ! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho potuto  lor dire, che dopo averlo letto n’aveva perduto anche  l’originale.... Il giorno seguente cominciai a dettare.  Grande fu la meraviglia in sentir dettare italiano ; sicché,  essendomene accorto, nello incominciare la spiegazione  dovetti cominciare dai pregi della lingua italiana, e urtar  di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia.... La scuola  è stata sempre piena in guisa che molti non ci hanno  trovato luogo ; ma la maggior parte sono uditori di barba,  e di vari ceti. Gli scriventi sono circa cento.... Gran moto  è nato da queste lezioni nella città, e tutti i ceti domanda¬  vano libri di economia, di commercio, di arti, di agri¬  coltura ; e questo è buon principio ».   Da questo corso, che il Genovesi proseguì finché le  forze gli bastarono (morì il 23 settembre 1769, ma un  anno prima per malattia aveva dovuto lasciare la cat¬  tedra), trassero origine le belle Lezioni di Commercio ossia  di Economia civile in due volumi (1766 - 67), che rimar¬  ranno tra le opere classiche della nuova scienza: opera  riboccante d’ingegno, di erudizione, di brio e di amore  del pubblico interesse, dall’agricoltura alla pubblica istru¬  zione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del com¬  mercio della Gran Bretagna di John Cary con un Ragio¬  namento del Commercio in universale e lunghe e impor¬  tanti annotazioni del Genovesi sul commercio del Regno,  e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso  scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue  opere latine. Sono del '58 le sue Meditazioni filosofiche,  che arieggiano quelle di Cartesio; ed ebbero l’ammira¬  zione del Baretti 1 ; e del '59 le Lettere filosofiche ; come    1 Da leggere l'articolo che gli dedicò nel 2 0 numero della Frusta  Letteraria (15 ottobre 1763): dove il Baretti giudica il libro con questi  termini di alto elogio (ed. Piccioni, Bari, 1932, I, p. 40) :   « Fra le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra lingua,  io non ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli del Galileo,     ANTONIO GENOVESI    35    del '64 le Lettere accademiche. Nel '65 imprese a scrivere  in italiano un Corso di filosofia. E volle scriverlo per i  giovani (com’egli stesso faceva sapere a un amico) « che  son curiosi di sapere se le scienze potessero così parlare  italiano come una volta parlarono greco e latino. Il mo¬  tivo che mi muove, è una massima, che può stare che  sia falsa, ma 1’ ho nondimeno per vera, cioè che ogni  nazione che non ha molti libri di scienze e di arti nella  sua lingua è barbara ». Perciò in Francia nell’età di  Luigi XIV s’era cominciato a scrivere di filosofia in  francese. Perciò aveva seguito l'esempio l’Inghilterra.  E altrettanto si cominciava a fare in Germania. Dove  non si scrive nella propria lingua, dice il Genovesi, si  accenderà magari mi lume grande e brillantissimo, ma  questo resterà « nondimeno sepolto in que’ lanternoni da  antiquari d’onde non tralucono che pochi tenebrosi  raggi » 1.   E nelle stesse Lezioni di Commercio inculcava come    che sia tanto pregno di pensamento e di vera scienza quanto è questo  primo tomo di questo nostro ampio, sublime ed aggiustatissimo pen¬  satore Antonio Genovesi ».   Al Baretti non andava lo stile del Genovesi, seguace della scuola  toscaneggiante del Di Capua: «Una cosa però disapprovo in lui asso¬  lutamente, e questo è lo stile suo.... perché troppo a studio intralciato  e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero. — Com' è pos¬  sibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue tanto  stimabili meditazioni, — com’è possibile che un uomo il quale è una  aquila quando si tratta di pensare, si mostri poi un pollo quando si  tratta di esprimere i suoi pensieri ? Come mai un Genovesi ha potuto  avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi secchi e  tisici uccellacci di Toscana ? Eh, Genovesi mio, adopera gli abbin¬  dolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà ghi¬  ribizzo di scrivere qualche accademica diceria, qualche cicalata, qualche  insulsa tiritera al modo fiorentino antico e moderno; ma quando scrivi  le tue sublimi Meditazioni, lascia scorrere velocemente la penna....;  e lascia nelle Frammette e negli Asolani e ne’ Galatei, e in altri tali spre¬  gevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché.... e tutte  quell’altre cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri muffati gram-  maticuzzi vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra dello scri¬  vere ».   1 Cfr. la pref. alla Logica italiana.     86    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    « certissimo assioma politico » che una nazione non sarà  mai perfettamente culta nelle scienze, nelle arti, nelle  maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e i  libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà  dipendere da una lingua forestiera; la quale, non essendo  intesa che da una picciolissima parte del popolo, tutto  il resto sarà fuori della sfera del lume delle lettere....  Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre idee  e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere  in un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? ». 1 * 3  Finché in un paese le scienze saranno in un gergo stra¬  niero alla maggior parte del popolo, avremo sempre, dice  il Genovesi -, « molte scuole inutili, molto tempo perduto,  molti cervelli stupiditi; e mancheremo delle necessarie,  né ha possibile di avere delle buone teste ».   Con questo ideale di una scienza che penetri il popolo  per svegliarne e metterne in moto tutte le forze morali  ed economiche, il Genovesi voleva scuole e quando  furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata la pubblica  istruzione ed egli a tal fine invitato a scrivere un Piano  di riforme 3, non dimenticò nelle sue proposte le scuole  del popolo —; voleva metodi razionali e semplici perché  fossero efficaci gl’ insegnamenti accostati al popolo c ai  giovinetti; voleva accademie, che, abbandonando la vec¬  chia letteratura e le discussioni vane della filosofia in¬  feconda, si rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle  arti più necessarie alla vita; e voleva, come sè visto,  libri in italiano, attraenti e di facile lettura. Ma aveva  pure il suo ideale di una dottrina che, liberando il popolo  dalle superstizioni e dai pregiudizi, e rinvigorendo nelle  coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa che ne    1 Parte I, c. Vili, § 24.   = Op. cit., I, IX, p. 13.   3 Per questo Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. ga¬  lanti, Elogio stor. di A. Genovesi, Firenze, 1781, p. 108.     ANTONIO GENOVESI    37    è sempre il fondamento, potesse aprire la strada a quel  rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere negli  uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli  era l’apostolo. Tutto il suo sistema riformatore era in¬  somma ispirato a una filosofia.   Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di  Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contempo¬  ranei e più volte ristampati (è almeno da ricordare 1 edi¬  zione che della Logica volle curare, nel 1832, il Roma-  gnosi), sono entrati a far parte della letteratura filosofica  nazionale, si scorgono i lineamenti anche da chi non ri¬  cerchi i ponderosi volumi latini, che li precedettero e  prepararono.   Il Genovesi è un empirista t , ma non e un sensista, e  tanto meno un materialista. Combatte le idee innate,  ma cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto,  e la ragione, che l’uomo che medita trova in se stesso  come attività sovrana, libera, signoreggiatrice, col suo  giudizio, dell’universo, vede conforme a una ragione  creatrice universale, divina 1 2 . L’uomo per essa è immor¬  tale. Per essa destinato a vincere il dolore, a superare  ogni difficoltà, a viver felice. Questa ragione infatti non  è fredda astratta intelligenza. Essa è energia ( energetico ,  dice Genovesi) perché è anche passione, cuore i. Non    1 Come empirista, Genovesi, pur non ripudiando ogni metafisica,  insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche speculative alle  questioni essenziali per una concezione sana e morale della vita. Insi¬  stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano. Vedi Gentile,  Stona della filos. ital. dal Genovesi al Galluppi, Milano, Treves, 1930,  c. I’ dov'è particolarmente studiata la dottrina della conoscenza  di Genovesi. Oltre i luoghi ivi citati (voi. I, p. xm), e le frequenti di¬  chiarazioni che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1 infecondità  delle più astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi Logica, ed.  cit., pp. 250-51, 255. Notevole in special modo la lett. del 2 aprile 1763   a P. Saffiotti. ,   2 Vedi Meditazioni filosofiche, Milano, Silvestri, 1846, pp. 53 -° 3 .   Logica, p. 252.   1 Vedi Logica, pp. 260, 274-75.      83    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    distrugge la passione; una passione infatti si combatte  con un’altra passione. E poiché ogni essere è ragione, e  soffre e aspira a godere, essa, non essendo individuale,  ma comune e universale, stringe in un vincolo di amore  gli uomini.   Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione  leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche  per Genovesi i corpi, scomposti negli elementi semplici  di cui sono formati, si riducono a sostanze spirituali,  attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non sono  altro che fenomeni, nostre sensazioni.   Lo spirito è attività : è quella stessa forza che è in tutte  le cose che sono in natura, e che tende ad espandersi.  In noi questa forza si svela nella ragione, che è prima di  tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza è attiva  e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio,  a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo svol¬  gimento della ragione, che nel suo progressivo prevalere  è cultura sempre più intensa e sempre più diffusa; è  benessere in cui lo spirito viene ritrovando e procuran¬  dosi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è amore  degli altri, insieme coi quali ogni uomo viene adempiendo  in comune il destino della sua natura, la libera vita della  ragione.   Questa la fede del Genovesi. Questa la sorgente dell’en¬  tusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo dalla  cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,  infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il  segreto della potente azione da lui esercitata sul suo  tempo, promovendo nuovi studi, animando i giovani alla  lotta contro il vecchio mondo: contro la feudalità in fa¬  vore dei lavoratori della terra e della nascente borghesia;  contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il  pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la  religione; contro tutto ciò che nel pensiero e nelle isti-    ANTONIO GENOVESI    89    tuzioni impedisse 0 ostacolasse il libero sviluppo del  lavoro, della civiltà, della ragione.   Antonio Genovesi non fu un rivoluzionario; ma fu  un educatore di rivoluzionari, che quando scoppierà  in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di obbe¬  dire alla voce del vecchio maestro accogliendone una  scintilla anche a Napoli, e quindi suscitando il glorioso  incendio della Repubblica Partenopea, celebrazione di  una grande fede idealistica ancorché astrattamente gia¬  cobina, santificata dal martirio 0, uomini di grande  accorgimento ed equilibrio, come Galanti e Cuoco, con  più profonda intelligenza dell’ insegnamento del Genovesi,  ne trarranno argomento a una più realistica concezione  politica della libertà necessaria al popolo napoletano:  poiché vedranno come il maestro aveva veduto, che  questa libertà non poteva essere vitale, se non era forte  della forza di uno Stato ben ordinato e potente: di uno  Stato infine in cui tutta l’Italia, prima o poi, doveva  unirsi tutta in un corpo solo tra l’Alpi e il mare.   Questa idea di un’ Italia unificata dal Galanti, il più  fido dei discepoli del Genovesi, passò al Cuoco, e dal  Cuoco, come oggi sappiamo, passerà al Mazzini; ma era  stata preconizzata a Napoli dal Genovesi. La cui com¬  memorazione io non potrei meglio concludere che rileg¬  gendo una sua pagina del 1757, a proposito della sicurezza  necessaria al commercio, e impossibile senza una fiotta  militare adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno  di Napoli, che era tuttavia il maggiore e più potente  Stato d’Italia: «Vorrei io», scriveva nel detto anno il  Genovesi, «in questo luogo dire un pensiero, che ho  sempre meco d’intorno all’animo avuto, ed hollo tut¬  tavia; ma io temo ch’egli non sia per incontrar male   1 Sulla scuola del Genovesi e la sua importanza storica, A. Simioni,  Le origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale, voi. I, Mes¬  sina, Principato, 1925, pp. 152-99.    7 - Gentile, Albori. I.     90    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo nutri¬  scono per l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò pure  in qualunque parte sia per prendersi da chi non guarda  più in là del proprio utile.   « A voler considerare l’Italia nostra, e dalla parte del  suo sito, e da quella degl’ ingegni, e per quello che ha ella  altre volte fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e come  dilacerata, si converrà di leggieri, ch'ella tra tutte le na¬  zioni di Europa sia fatta a dominare; perocché il suo  clima non può esser più bello, né più acconcio il suo sito  rispetto alle terre e al mare che la circondano, né più  perspicaci e accorti e destri e capaci di scienze e di arti  e duranti di gran fatiche, e oltre a ciò più amanti della  vera gloria, i suoi popoli, di quel ch’essi sono. Ond’ è  dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto addietro al-  l’altre nazioni in tutto ciò, che par suo proprio, ma dive¬  nuta in certo modo serva di tutte quelle che il vogliono ?  Ella non è stata di ciò causa la sola mollezza, che le con¬  quiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa mor¬  bidezza, che le ricchezze e la pace v’avevano introdotta,  non durò lungo tempo; ma la vera cagione del suo avvi¬  limento è stata quell’averla i suoi figli medesimi in tante  e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha perduto il suo  primo nome e l’antico suo vigore.   « Gran cagione è questa della ruma delle nazioni. Pur  nondimeno, ella potrebbe meno nuocerci, se quei tanti  principati, deposta ormai la non necessaria gelosia, la  quale hanno spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero,  sperimentata e al comune d’Italia e a se medesimi fu¬  nesta, volessero meglio considerare i propri e i comuni  interessi, e in qualche forma di concordia e di unità ri¬  dursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder rifiorire  il vigore degl’ Italiani.   « Potrebbe per questa via aver l’Italia nostra delle  formidabili armate navali, e di tante truppe terrestri.    ANTONIO GENOVESI    91    che la facessero stimare e rispettare non che dalle po¬  tenze d’oltremare, che pure spesso l'infestano, ma dalle  più riguardevoli che sono in Europa. Ella non vorrebbe  ambire altro imperio, che quello che la natura le ha cir¬  coscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il suo.  Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e  le industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti  nuovo abito e la pristina bellezza prendere. Se questi  sensi s’ispirassero ai pastori di tutte le sue parti, forse  che non sarebbe questo un voto platonico. E mi pare che  i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri gelosi,  che per massime vecchie che son passate ai posteri più  per costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi  ch'erano: e quelle cagioni di reciproci timori, che pote¬  vano una volta essere ragionevoli, sono ora non solo vane,  ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si considerano.  Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le cose  sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla  concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e  vero interesse suol riunire anche i nemici: non avrà egli  forza da riunire i gelosi ?   Rettor del Cielo, io chieggo  Che la pietà che ti condusse in terra.   Ti volga al tuo diletto almo paese » ».    Al Genovesi dunque, il più filosofo dei grandi riforma¬  tori italiani del Settecento, spetta il merito di essere stato  il più italiano di tutti. Egli scosse il petto dei giovani, e  vi infuse una fede nella civiltà che è scienza ed è libertà.  Egli indicò agl’ Italiani 1 * Italia, che non c’era, ma co-    1 Carv, Storia del Comm. della Gran Bretagna, Napoli, 1757, II, p. 35.  Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa nelle sue Letture del  Risorgimento Italiano.        92    ALBORI DELLA NUOVA ITALIA    minciava a presentirsi, ed egli l’annunziò, insegnando  come le si potesse preparare la via. E la sua voce si riper¬  cosse di generazione in generazione, finché l’Italia venne.  E venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando  la letteratura alla vita, la filosofia all'uomo, ammaz¬  zando l’accademia e l’ozio ancorché dotto ed elegante,  educando il popolo a credere nella cultura, a servire  l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte.  Fulgido esempio i martiri del '99. Stato laico e veramente  sovrano, religione tutta rivolta alla vita dello spirito,  libera da ogni cupidigia e pretesa mondana; libera la  ragione, rispettata come cosa sacra la scienza, e la scuola  che la promuove. E di là dal breve confine della provincia,  per l’Italiano, l’Italia grande, laboriosa, armata, consa¬  pevole di una sua missione civile. Questa la scuola del  Genovesi. Perciò gl’ Italiani devono ricordare il suo nome;  perciò devono annoverare Antonio Genovesi, lui così  modesto, così riservato e chiuso tra la scuola e i libri, tra  i padri della patria. E nella scuola italiana particolar¬  mente deve esser ricordato come esempio ed ammonimento  contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre rina¬  scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in vita Antonio  Genovesi e furono perseguitati dalla sua dialettica e dal  suo frizzo, hanno cambiato veste, e non natura. E contro  di essi bisogna ancora combattere, ancora difendersi.  Perciò Genovesi è vivo. 

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