Concludiamo. Interrogala sotto ogni aspetto, la filo- sofia conduce a due inevitabili conseguenze, il regno della scienza, il regno dell'eguaglianza. Questo era l'in- tento dei primi filosofi, questo è l'intento della rivo- luzione. 'I primi filosofi ne furono i precursori: ma traditi dalla metafisica , sentivansi solitari , impo- tenti , inviluppati da ostacoli infiniti; e invocando i demoni, le favole , un artifizio estrinseco , un fe- lice inganno , cadevano sotto il felicissimo inganno della chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto 362 PARTE TERZA — SEZIONE TERZA la protezione di Cristo. Ma la rivoluzione liberò questo prigioniero delia teologia, ne divulgò la parola, la tras- mise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanità sulla terra colla forza della scienza e con quella del diritto. Da mezzo secolo la metafisica tende un'ultima insidia alla rivoluzione trasportando il problema della scienza nelle antinomie dell'essere, e il problema dell'egua- glianza nelle antinomie del diritto. Ne consegue, che abbiamo il regno della scienza fatta astrazione dalla verità, il regno della libertà falla astrazione dai dogmi, il regno dell'eguaglianza falla astrazione dal riparlo, il regno dell'industria fatta astrazione dal capitale: e s'incoraggiano le nazionalità senza badare all'uma- nità; si pensava perfino a fondare un impero meno l'impero, un papato meno il papato, quasi fosse pro- posito deliberalo di predicare la rivoluzione meno la rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'im- possibile. I miseri cavilli della metafisica sarebbero morti nel vuoto delle scuole, se leggi equivoche a di- segno non li avessero tratti in piazza per stabilire una tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Ma la tregua non regge; ad ogni momento vediamo avvicinarsi il giorno della guerra, e se ad alcuni può parere lontano, e se altri possono consigliare di dare tempo al tempo, si ricordino gli uomini di poca fede che quando la scienza scopre un errore per quanto sia teorica, lo lascia smascherato per sempre, e chi lo difende più non regna, e se sì ostina cade scon- fitto e accusato d'impostura. Si ricordino che la fede negli avvenimenti imprevisti non è cieca e viene au- torizzala dalla forza del vero che oggi tradito si ven- dica domani col corso naturale degli affari , delle CAPITOLO NONO 363 guerre, delle paci, della ricchezza, e perchè ogni verità è un valore, chi la scorge se ne impossessa e la sconta, e tiranno o tribuno giova a lutti sotto le forme più inaspettate. Si ricordino che non vi fu mai progresso che non toccasse alla proprietà o alla reli- gione che non venisse dalla scienza e dall'eguaglianza e che non si dovesse irnaginare con ardimento scanda- loso quasi fosse una profanazione. Si ricordino da ultimo che il dato di Voltaire, di Rousseau, di Weisshaupt ferve in ogni cuore; e, tolto il velo dell'astrattezza, già dairso al 93 quattro soli anni bastavano per passare dalla teoria alla pratica e per sostituire una genera- zione di tribuni, di generali, di insorgenti, di dittatori, di uomini d'azione all'inoffensiva generazione dei filo- sofi mandati alla bastiglia e qualche volta perfino pro- tetti tanto sembravano lontani dalla realtà. Quanto a noi figli del passato, discepoli degli stessi maestri da noi discussi, visto nella critica l'arme che ferma la metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli inutili tormenti dal campo della rivelazione naturale, visto che rinchiusi nel fatto, legali alla terra ogni giorno, ci sottrae alla rivelazione sopranaturale comunque si gradui il progresso e possa prendere delle forme mo- struose e talora nemiche, dal momento che sentimmo compiersi nella nostra mente la filosofia della rivolu- zione secondo l'inflessibile suo disegno, la linea retta fiparve la migliore e il dissimulare ci parve tradimento. Per sette anni il Ferrari tacque : non pia stu- di pubblicati sulle riviste francesi per far conosce- re al mondo T Italia del passato e del preseme, non più opuscoli politici per tracciare piani d'a- zione pamphlets violenti contro i suoi avversa- ri: gli amici lo avrebbero potuto creder morto. - 8o — EpIHjre la sua operosità si svolgeva occulta sotter- ranea silenziosa, tanto più assidua quanto meno era visibile: abbandonato il campo del giornali- smo dove le tracce del lavoro sono ben presto cancellate dall'incalzare di sempre nuovi proble- mi e dalle richieste di gusti sempre mutati, la- sciato il tumulto della vita politica, U Ferrari si era dedicato totalmente alla pura scienza. Il pre- sente Io affliggeva ed e^i si volgeva al passato ; l'Italia pareva ricaduta nella schiavitù e nell'abie- zione, ed egli la volle studiare libera e regina, quando marciando a capo di tutte le nazioni tra- smetteva l'urto delle sue continue rivoluzioni al mondo. Il Medio Evo italiano, il campo chiuso della sua attività storica, era sempre stato il suo lavoro e il suo tormento: grande nell'insieme e nei suoi più piccoli frammenti pareva che volesse sottrarsi ad ogni interpretazione razionale e organica, come se sotto il bel cielo d'Italia l'unica legge che go- vernava le continue rivoluzioni di cento stati dif- ferenti gli uni da^i altri come posti agli antipodi fosse il caso, il capriccio della fornina, l'arbitrio dell'individuo. Tutte le altre nazioni presentavano uno svolgimento storico organico, una forma po- litica costante che le contradistingueva in ogni e- poca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli di Napoleone III la Francia era sempre stata la na- zione della monarchia unitaria; la Germania era ancora governata dalla Dieta federale, l'Inghilter- ra dalla Camera dei Lordi come ai tempi di Otto- ne I e di Guglielmo il Conquistatore. Ma l'Italia — 8i — Qon poteva ridursi sotto nessuna categoria politi- ca; uè al principio della monarchia né a quello ddla repubblica, né all'Impero né al Papato : ftemmeno ad un sistema federale che raccoglies- se in organismo la varietà tumultuosa ed eslege dei ^uoi stati. {Rivoluzioni d'Italia, Voi. I, pag. Il): Da molti anni queste considerazioni si svolgevano lentamente nel mio spirito, per rendermi enigma- tiche e impenetrabili le vicessitudini di Milano di Fi- renze di Roma di Genova di Venezia, di tante città unite dal suolo e separate da irreduttibili diiTerenze. Qualunque fosse lo splendore estemo dei fatti, eran pur sempre vittorie senza scopo, sconfitte senza cau- sa, rivoluzioni senza idee, guerre senza soluzione. Le cronache degli Scriptores rerum Italicarum mi apparivano quasi statue rovesciate, quadri capovolti, medaglie sparse di un museo che una vandalica igno- ranza avesse devastato. Tutte le serie, tutte le simme- trie essendo dissestate da una mano sconosciuta; po- tevasi dire che TAriosto solo colla noncurante sua ironia avesse il diritto di sognare liberamente in mez- zo a questi cenci pomposi. Ma se la fecondità lussu- reggiante degli avvenimenti si rivoltava contro o- gni unità imperiale o pontificia; se essa facevasi gio- co delle repubbliche, delle signorìe, del candore dei cronisti e degli artifizi della retorica; se essa com- piacevasi di sconcertare tutti i sentimenti e tutte le analogie: io vedevo tanta grandezza dell'insieme e una tal forza nel minimo frammento, da non potermi arrendere all'idea che la patria di Gregorio VII e della Divina Commedia ingannasse l'aspettativa de- stata dal sentimento del bello, .per non essere se non un cumulo di accidenti eslegi. n Ferrari volle scoprire il spreto di una cosi A. PnutUU — Oiit80pp€ FtrrarL • — 82 — misteriosa apparenza, la legge vitale di un orga- nismo così complesso, lo scopo di una coA ab- bagliante fantasmagoria. Si tuffò nella storia me- dievale fino agli occhi : senza fermarsi alle com- pilazioni volle risalire alle fonti originali, meditò su tutte le pagine degli Scrìptores rerum Italica- rum, rìsfogliò le cronache, rivisse tra la polvere erudita coi vescovi e coi consoli coi settari e coi signori del buon tempo antico: e cosi mentre la turba degli gnomi, non comprendendo la sua soli- taria libertà superiore alle borie del nazionalismo miope e pettegolo, lo accusava di vilipendere la sua lingua e la sua patria, egli preparava in silen- zio airitalia uno tra i più bei monumenti di glo- ria che potessero inalzarle i suoi figli. Le Rivoluzioni d'Italia furono pubblicate la pri- ma volta a Parigi in francese nel 1858, ripubbli- cate in italiano tradotte dell'autore nel 1870-1872 : in questa seconda edizione, nonostante gli studi posteriori in seguito ai quali credette di avere scoperto la filosofia della storia e la legge perio- dica del movimento storico, guidato da un istin- to fortunato, non la ritoccò quasi affatto, non osò guastarla per farla servire alla sua teoria; quin- di noi terremo sott*occhio pel nostro studio Tedi- zione italiana, da cui son tolte le citazioni e a cui si riferiscono i rimandi. Per quel che già conosciamo della costinizione intellettuale del Ferrari, possiamo fin d'ora giu- dicarlo 11 tipo dello storico perfetto, perchè egli riunisce l'intelligenza artistica alla comprensione filosofica e al criterio di un sistema formato. Tut- - 83 - ti ì grandi storici sono artisti: artisti neil'inter- pretare gli uomini e i fatti, artisti nel rappresen- tarli e atteggiarli davanti al lettore in modo che sembrino attuali e spirino vita. Sono anche filo- sofi, in quanto hanno una WeUanschaung da cui traggono i criteri della interpretazione e del giu- dizio; ma di solito il loro sistema non è che im- plicito e irrìflesso come quello di qualsiasi indivi- duo che non si dedichi di proposito alla filoso- fia; qualche più rara volta c'è, ma preso a presti- to, non rielaborato né rivissuto individualmente, rimane estrinseco e astratto. Orbene la grandezza unica del Ferrari, la sua caratteristica qualità, con- siste nell'avere a fondamento della sua interpreta- zione un vero formato originale sistema filoso- fico. Non solo. Questo suo sistema, che anche og- gi è in gran parte vivo perchè rientra nel corso delle grandi concezioni, è il più adatto a dare u- na base filosofica all'interpretazione storica; per- chè considera la reahà come movimento, ed è tut- to pervaso dalla persuasione della razionalità che governa la realtà e la storia. Cosicché per quan- to il Ferrari come politico sia un uomo di parti- to militante e quanti altri mai fermo nelle sue idee, amante delle posizioni nette, insofferente degli equivoci; come storico noi possiamo essere sicuri che guarderà la storia dall'alto, saprà giu- dicare libero totalmente dalle preoccupazioni po- litiche del momento, saprà rispettare la veneran- da grandezza del passato senza querimonie per gli eroi mancanti e per le cause sconfitte, non fa- - 84- rà ddla narrazione dd passato un pamphlet <x)n- iro i suoi avversari ddl'oggi. In una parola sarà imparzude. Questo è il suo significato ragioaevo- le di una simile rìciiiesta dd senso comune, il quale esige non che lo storico non abbia un pun- to di vista a cui è impossibile sottrarsi; ma che abbia un punto di vista elevato, donde sì giustifi- chi, non si faccia il processo alla storia. Riepiloghiamo brevemente il sistema del Fer- rari, integrando la sua concezione più propriamen- te filosofica, cioè di valore assoluto, con le deter- minazioni empiriche onde egli cerca di dare una formula generale al movimento storico. II. Il mondo è alterazione svolgimento rivoluzio- ne; la storia è la narrazione di questo movimen- to intemo ed estemo, prodotto dall'antitesi delle contradizioni critiche insolubili ideali, e dalla lot- ta delle contradizioni positive reali che si cond- liano in una specie di equilibrio dinamico. In o- gni momento nel mare enorme ddl'umanità l'in- dividuo che ne fa parte come tm'onda o meglio ancora come una goccia ha suoi interessi parti- colari su cui nasce una sua rivdazione morale <1); messo di fronte a nitti gli altri innumerevoli suoi simili, mossi pure da forze utilitaristiche e morali varie e a volte contrastanti, lotta per eon- dUare le contradizioni in tm dstema politico, che (i) Non è se non la proclamazione del determinismo econo^ micCj che egli applica poi nel coreo della ina storia. -85- si attua sopramtto d^tro i confini dello stato. Ma ogni sistema» per legge ineluttabile di natura^ nutre dentro di sé un sistema opposto destinato a succedergli (1). La stocianoa è altro se non la narrazione del succedersi di questi sistemi nati da^i interessi e dalle rivelazioni morali variabili dell&'masse» divise tra loro> da una specie di lot- ta di cla|^e^<:te.r}esce^a. propagare sempre più la democrazia e a conquistare una più larga egua- glianza. Come si attua questo progresso dentro Io star to? Lo stato è duali^ato in due paniti contra-*) stanti che polarizzano gli interessi delle moltitur dini, il pardto rivoluzionario e il partito conser- vatore. La rivoluzione assale la forma tradizio- nale dello stato a nome di un nuovo principio, di una più larga democrazia^ con la forma politica opposta; monarchk)a negU. stati repubblicani^ fe- derale negli stati unitari, cattolica contro i pro- testanti,, erviceyersa. Vince perchè il progresso è necessità fatale della storia; ma appena il prin^ cipio da essa propugnato è stato accettato essa viene vinta dal partito conservatore, che traspor- ta il nuovo principio sulla base politica tradiziona- le onde lo stato si difende dallo stranilo. Perchè lo jstaio non è solo sulla terra; ai suoi confini un altro organismo nemico vive con in- tere^, cQnidoe, con tendee^o opposte. L'uma-. nità è quindi una specie di scaochiejra di nazioni che si prendono vicendevolmente a rovescio, un (i) Cfr< la notfi teorìa di Marx. — 86 — enorme meccanismo di ruote dentate ingranate runa nell'altra che girano in senso contrario, un sistema di forze disposte cosi che il partito oppo- sitore intemo di uno stato i sempre d'accordo col partito dominante dello stato vicino e rivale. O- gni stato è quindi straziato da una guerra inter- na e nello stesso tempo combattuto da una guer- ra estema : la lotta sociale domina e regge la lotta politica. Poiché appena dentro uno stato trionfa un nuovo sistema sociale, vien creata una nuova forma che allarga sempre più la democra- zia e Teguaglianza ; il movimento si diffonde a tutte le altre nazioni come il cerchio sollevato da una pietra gettata nel lago: e il nuovo sistema sociale vien trasmesso dal lavoro delle minoranze oppositrici a tutti gli stati. Guai se uno stato at- tarda troppo nella strada della rivoluzione socia- le! Esso vien conquistato da altri stati di civiltà superiore. Guai se non adotta la forma opposta dd contrasto I Viene assorbito dal vicino più po- tente. Gli stati le nazioni le razze possono quindi de- cadere e magari spegnersi, ma l'umanità non de- cade e su una linea di progresso continuo passa per una scala ascendente di sistemi sempre supe- riori. Nemmeno nei periodi più oscuri di barba- rie e più nefandi di cormzione si ha decadenza : Anche un popolo vive esso è in progresso, pro- gresso che può essere arrestato solo dal fatto fi- sico della sua totale disparizione per un catacli- sma naturale o per un eccidio universale. Rice- verà l'impulso politico che una volta egli dava al- - 87 - le altre nazioni^ accettando le nuove progressive forme politiche dall'esterno invece di crearle per sua spontanea originale vitalità; perderà magari Tindipendenza, ma la compenserà con un miglio- ramento sociale per cui accetta il vincitore; vedrà succedere al fiorire delle arti alla ricchezza indu- striale e commerciale sterilità intellettuale e mi- seria, ma avrà sempre un progresso sociale che lo compenserà di questa sua decadenza. Poiché fra popoli in lotta, come fra più indivi- dui, è naturale che il più forte vinca. Ed è an- che razionale. La forza dei grandi aggruppamen- ti storici non è la forza fisica, non è il peso bru- to del rinoceronte che schiaccia il fiore o il pu- gno del facchino che tappa la bocca al tribuno; ma è ordine, disciplina, saldezza economica, co- scienza nazionale, è in una parola forza spiritua- le. Non è la pura forza fisica brutale che vince nel gran campo di battaglia della storia, ma è la superiorità intellettuale e morale: la vittoria co- rona sempre il più degno, fatalmente destinata come la sconfitta; chi ha perduto se lo merita; chi è conquistato : o s'è lasciato liberamente con- quistare per godere di una civiltà superiore che colle sue forze non poteva raggiungere, o si è dimostrato nel paragone delle forze inferiore al suo vincitore che in compenso della libertà per- duta gli dà i vantaggi di un miglior sistema so- ciale. Certo gli uomini e gli stati agiscono spesso sot- to l'impulso di bisogni materiali e di egoismi per- sonali, ma la storia li adopera a tm fine che li - 88 — trascende; quella che Vico chiamava Pwwedenr za ed Hegel Astuzia della Ragbne trae dalle azio- ni egoistiche il bene dell'umanità, usa dei malvar gi per un'opera buona, della cupidigia delle con- quiste si serve per spandere la civiltà sulle regioni selvagge o barbare, di Nerone per iniziare la gran democratizzazione dell'Impero romano, di Fernando Cortez per conquistare l'America a u- na civiltà superiore. Il male nella storia non esi-^ ste come non esiste in natura : esso non è che in quanto ha in sé il bene, un granello di bene che solo gli permette di esistere; non è che un con- cetto dialettico senza realtà (!)• ^ storia è dun- que razionale. Non stiamo a spargere lacrime su- gli eroi sconfitti e sui popoli caduti; la storia li ha sacrificati con diritto a cause superiori : tatto quello che è avvenuto è avvenuto razionalmente. La storia dà dunque la vittoria al merito, pro- gredendo con la legge del minnno sforzo. Date tali forze in contrasto, la soluzione del sistema in un fatto sarà rigorosamente quale doveva per il valore delle forze; a quella maniera che in un sistema di forze flsiohe il loro rapporto è deter- minato dalla loro potenza. La storia è dunque ne» cessarla : la serie degli avvenimenti che dai tem* pi antichissimi arriva Ano a noi non poteva esse^ re diversa da quella che fu per arrivare a questo punto. Questa è una necessità a posteriori: non una necessità metafisica o teologica che (i) Cfr. B/ Crock: Storiti, cronaca e false storte. — Na- poli, Giannini, 1912 — pag. 24. — Questioni storiografiche^ Napoli, Giannini, 19:3 — passim. • - 89 - obblighi uomini e cose a seguire le linee di un piano traéciaro in antecedenza» ma una neces^ sita interna che nasce dal gioco delle forze uma- ne. Gli avvemmenti potevano variare, se le forze fossero state diverse; e cambiato uno degli anelli, la catena sarebbe certamente cambiata arrivando fino a noi : non si sarebbe giunti allora a questa mèta, ma ad un*altra imprevedibile, non meno necessaria secondo il valore di quelle forze. Cosi dalla storia vien cancellata la parola ca^o, che u- na volta si usava a indicare la ragione ignota co^ me dai geografi ìò spazio bianco a indicare una regione sconosciuta ; cosi vien cancellata là paro- la Ubero arbitrio inteso come un misterioso potere deirindividuo, che con la piccola fòrza della sua volontà potrebbe alterare il corso degli avveni- menti determinato dalle forze di volontà delFu^ manità intera. Per quanto un individuo voglia an- dar contro corrente, egli è sempre Aglio del suo tempo; per lottare contro esso deve accettarne la base comune di credenze ^e perflho le parole del- la discussione e le armi della battaglia; per quan^- to sia isolato non può mai impedire che la società lo insegua e lo tocchi per combatterlo o per ac- clamarlo. Non lasciamoci impressionare da certe parole e frasi, che potrebbero far credere a una costruzio- ne astratta a priori della storia : era nel carattere del Ferrari di calcare la mano troppo violentemen- te sopra certe affermazioni, di' mettere troppo in rilievo i caratteri comuni delle cose, di dare la forma assiomatica d'una verità assoluta a certb — QO — generalizzazioni di cui egli stesso riconosceva la relatività. Cosi quella storia ideale, che secondo certe sue parole dovrebbe essere qualche cosa che rimane sopra ai fatti ad essi indifferente e su- periore, assoluta sopra essi contingenti, come se nel blocco unico della storia si potesse tagliar fuo- ri il necessario dall'accidentale; ha qui perduto quasi totalmente il significato primitivo e non è altro se non una generalizzazione e semplificazio- ne dei fatd storici fatta a posteriori, per poter raccogliere i tratti caratti^istìci e per espediente didascalico onde non dover tornare ogni momen- to a ripetersi. Del resto il Ferrari stesso afferma che questa sua storia ideale ricade d'appiombo a coincidere colla positiva; ma una prova ben più decisiva ce Toffre la sua storia stessa, la quale è tutt'altro che una storia astratta a priori. Così il Ferrari si compiace spesso, sforzando al solito l'espressione, di chiamare geometrici, meccanici certi movimenti, di dare come perfettamente e- quivalenti certe rivoluzioni avvenute in forza di uno stesso principio — viceversa poi nella narra- zione fa vedere anche come, pur nate dallo stesso principio, si svolgono con forme individuali. Spesso pure e volentieri tira fuori la fatalità : ma questa non è affatto l'opposto di libertà indi- viduale che leghi con un misterioso potere pro- veniente dalla natura o da Dio ; non è altro se non la forza storica dell'ambiente, forza umana e im- manente dell'umanità, della massa, che soverchia naturalmente il conato d'un individuo. Premessi questi chiarimenti, diremo che il suo — 9» — sistema storico possiamo accettarlo. Mio Dio, non è di valore assoluto, non si attua quindi in tutti i casi colla stessa necessità e precisione con cui si attua un sistema fllosoflco : nonostante le sue esagerazioni verbali il Ferrari stesso ne era per- suaso, lo dimostra la sua opera. Ma perchè vor- remmo noi interdirci la generalizzazione, che è un processo necessario del pensiero? Che non si prendano le generalizzazioni, queste entità astrat- te, per realtà metafisiche; che non si costringa nel loro letto di Procuste l'individuo — d'accor- do. Ma perchè rifiutarle come strumento di ricer- ca e mezzo di spiegazione e di esposizione? E' generalizzazione evidentemente la divisione in pe- riodi storici (sistemi o principi): la storia è un corso continuo di avvenimenti simile a un fiume ; ma come il corso del fiume si può dividere in superiore e inferiore, così si può dividere, cosi si è sempre divisa la storia. E' generalizzazione il raccogliere gli innumerevoli partiti di uno sta- to in regnante e opponente, ma essa semplifica e spiega la realtà. La legge di opposizione, che or- ganizza gli stati vicini in senso inverso gli uni de- gli altri ,è pure una generalizzazione — e guai se uno volesse applicarla rigorosamente I Pure la forma politica de^i stati è una generalizzazione, perchè questa forma un tempo non era cosi e in- sensibilmente va sempre mutandosi. Lo stesso movimento dei prìncipi considerati come qualche- cosa d'assoluto, di perfettamente identico per tut- ti gli stati che li traducono nelle loro forme poli- tiche diverse, è una sempHBcazione generalizzata ; — 92 - - perchè qui contenuto o principio e forma sono ruu'uno, non si possono scindere né l'uno dal- l'altro, ni dagli uomini che li rappresentano, come fossero delle entità metafisiche. Di fronte a tanta ricchezza di pensiero non fac- ciamo dunque i sofistici pesatori di parole, non af- ferriamoci alla lettera cruda che uccide lo spirito, sdegniamo un procedimento che distrugge colla pedanterìa terribile dei cavillatori qualsiasi gran- d'uomo; e abbandoniamoci con simpatia al nostro autore cercando di intenderlo. Vediamo ora come questi prìncipi vengono ap- plicati airinterpretazione della storìa d'Italia. UT. L'enorme devastazione unitarìa di Roma aver va sottomesso tutti i popoli del mondo antico al dispotismo imperìale, per eguagliarli in una de- mocrazia vittoriosa di mtte le aristocrazie nazio- nali, per trasmettere loro la civiltà del pensiero . greco e della legge romana. Ma dopoché e$8i eb- bero conquistati i benefìci della civiltà e della de- mocrazia; quando i Galli e gli Afrìcani, gli Ibe- rì e gli Illiri furono tutti romani dinanzi all'ugua-, gliatrice legge imperiale^ allora l'interesse e il sentimento di patria li rivoltarono contro il fisca- lismo micidiale dell'Impero che, flagellato dalle onde del grati mare barbarìco minacciante ai con- fini, era costretto per le necessita della difesa a caricjBre di tasse i suoi cittadini o a maneggiare Je invasioni cacciandole l'una con l'altra — e un prò- — 93 ~ cesto di dissolvimento federale decompose la ci- clopica unità romana. Una invasione barbarica stabile venne accettata dai popoli per sfuggire al flagello delle invasioni perpetuamente rinnovanti- si che moltiplicavano le devastazioni (1); e la ca- duta dell'Impero romano d'Occidente fu salutata come una liberazione economica e politica, che conservava intatto nitto il progresso sociale di Ro- ma (476). Odoacre venne dunque accettato dall'Italia co- me liberatore; Teodorico, spedito contro di lui per un bieco disegno di reazione dall'Imperatore d'Oriente, una volta signore della terra doveva assumere la posizione e continuare la missione della sua vittima. (Fondazione del regno : 476-512). Senonchè lo spirito uhiàno nei suoi deside- ri non si ferma mai sotto la spinta di sempre nuovi bisogni; e una volta stabilito saldamente quel regno che li aveva liberati dal fiscalismo im- periale, gli Italiani vollero conquistare una mag- gior libertà, e si raccolsero attorno alla Chiesa cattolica repubblicana e federale per assalire il regno ariano e unitario dei barbari. Comincia la Lotta contro il regno barbaro estemo (512-774). Fulminati dalla potenza invisibile della Chiesd^ erede di Roma cadono gli eroici Goti (555) ; Nar- sete, che vuole sfruttare la vittoria romano-bizan- tina per rialzare una specie di regno bastardo, (i) Cfr. C. Balbo: Della storia if Italia. Bari, Laterza, 1913. Voi. I, pag. 104 : Bisogna dire che parerle una benedi- zione qnell' invasione stanziata dopo tante momentanee più cmdeli e più sovvertitrici. — 94 — non può rimaner saldo sul terreno malfido. {Riv. d'it. — Voi. I, pag. 69) : ... Ecco i Longobardi che giungono [568]. In ap- parenza marciano casualmente; formano una molti- tudine densa sozza vorace, che scende lentamente dai passi delle Alpi, si spande squallida compatta ardente come la lava, sepellisce sotto di sé le città che invade, le petriflca colFalito suo; nella sua bru- talità non infrange nemmeno gli ostacoli ma li cir- conda oltrepassandoli — ed invade metà della peniso- la fermandosi subitamente senza ragione alcuna. La scena è muta e desolata : si direbbe che tutto ce- de a leggi esclusivamente fìsiche, e che i Longobardi obbediscono al peso della loro propria materia. Senonchè questa massa in apparenza bruta di Longobardi evita a disegno tutti gli errori dei Goti : non errano come soldati, ma si stabilisco- no come un popolo di conquistatori nell'Italia del Nord e nel centro, rinunziando alle inutili vitto- rie del Mezzogiorno; fondano una rete strategica di fortezze che sorvegliano e imprigionano le grandi città romane sempre rivoluzionarie; trat- tano i vinti da conquistatori, sottomettendoli alla legge della spada e derubandoli del frutto del lo- ro lavoro. Inutile: Tltalia romana e cattolica ri- mane libera, sotto l'egida ufRciale della protezio- ne di Bisanzio ; e S. Gregorio Magno papa (590- 604) divenuto capo della federazione romana e rappresentante anche dei vinti del Regno, volta contro la barbarie longobarda tutti i miracoli del- la religione e la potenza spirituale del pontefice, a cui una nuova teologia dà il potere di condan- — 95 — nare o assolvere i morti prima del Giudizio uni- versale. Le due forze antagoniste rimangono dunque di fronte a influire Tuna sull'altra vicendevolmente : ma se i Longobardi eccitano col loro esempio r Italia romana a conquistarsi Tindipendenza poli- tica da Bisanzio, sperando cosi di ingoiarsela do- po; non possono sottrarsi all'influsso della Chie- sa, che con una rete sotterranea di silenziose co- spirazioni mina il sottosuolo dell'Italia regia per mezzo dei suoi cattolici. Prima decompone il re- gno opponendo al re ariano di Pavia, la capita- le longobarda, il re cattolico di Milano, la capi- tale romana ; e infine trionfa coll'avvento del cat- tolico Liutprando. I Goti avevano commesso l'er- rore di accettare il principio imperiale, i Longo- bardi commisero quello di accettare il principio cattolico : e paralizzati dalla inimicizia intema dei cattolici, caddero sotto il fuoco incrociato della rivoluzione romana e della eroica devozione fran- ca (1). Per quanto più tunani dei mostruosi re franchi, meno fiscali dei corrotti Bizantini, già seminazionalizzati da un processo di fusione coi vinti del regno; non furono mai accettati dall'I- talia romana, che organizzata antiteticamente li combattè con la rivoluzione col Papa coi Franchi. L'Italia romana non voleva il flagello d'un regno (l) Cfr. G, Volpe. Pisa e i Longobardi in Studi storici, Pisa, 19Ò1, pag. 412:.. Non il re franco fu il vero vincitore, ma 1* Italia e Roma, che avevan rotto la natia compagine delle genti d'Alboino, già predisposte a ciò dall' antica costituzione del popolo e dai modi della eonquista. - 96- .l>arbaro che avrebbe imbrìgliato la rivoluzione so- dale, legato i gran centri romani nella rete delle città militari in arretrato, sepellito sotto un'allu- vione barbarica le reliquie della civiltà romana conservate dal cattolicismo. E per impedire che potesse mai formarsi un regno su questa terra sacra alle rivoluzioni, de- stinata a spandere il fuoco della libertà su tutta l'Europa, l'Italia trasportò l'Impero in Occidente (800). Come rappresentanti del nuovo patto so- ciale che doveva essere la base del diritto pub- blico dell'Occidente a loro sottoposto, il Papa e l'Imperatore si divisero la penisola destinata ad essere la custode del loro duplice potere euro- peo : l'Imperatore ebbe l'Italia superiore, il Pa- pa Ravenna il centro occidentale e tutta l'Italia meridionale con le isole da conquistarsi ancora 3ui Bizantini. {Trasporto dell'Impero in Ocdden- te: 774-888). L'Italia perdeva quindi l'indipendenza naziona- le, ma acquistava la libertà: e per tutti i domini del Papa e dell'Imperatore il progresso sociale migliorava le condizioni dei Romani, non più sot- tomessi alla legge della spada barbarica, ma alla giurisdizione dei loro vescovi; rialzava la sorte delle città dell'industria e del commercio a danno (dei centri militari; soffiava nelle ceneri calde del- la coltura romana ad attivarne nuove scintille .So- lo le terre ancora escluse dal patto papaie-impe- riale, Venezia, le repubbliche meridionali, la Si- cilia, scontavano amaramente la loro indipenden- za politica con una inferiorità sociale, prodotta — 97 — dalla confusione bizantina dd potere temporale e del potere spirituale, la quale impediva la gran libertà del pensiero. Intanto Tunità dell'Impero d'Occidente andava decomponendosi sotto gli inetti successori di Car- lo Magno, e l'Italia marciava ancora alla testa del- le nazioni insegnando loro a conquistarsi una li- bertà federale (888). Ma poiché da questa risorge lo spettro micidia- le d'un regno barbaro interno, la rivoluzione pa- pale e imperiale sempre regnante approfittando delle rivalità tra i feudatari rende impossibile il regno d'Italia, lo condanna a non essere che una lotta di pretendenti, offrendo sempre la corona a due rivali e rialzando sempre il vinto contro il vincitore (Lotta contro il regno barbaro interno : 888-962) finché invocato dalle rivoluzioni italia- ne giunge Ottone I a rinnovare il patto papaie- imperiale. Egli distrugge per sempre il regno, di- sorganizza le marche dei discendenti dei barba- ri, esalta il clero romano, protegge i comuni ita- liani. La rivoluzione italiana si propaga a tutte le nazioni europee e modifica al suo esempio an- che la Chiesa. {Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 250) : L'Europa trovasi disposta come gli intervalli di «no scacchiere, gli uni bianchi gli altri neri, gli u- m unitari gli altri federali; presso gli uni la reli- gione prevale sulla legge, presso gli altri la legge primeggia sulla religione; i primi progrediscono con l'eguaglianza, i secondi con la libertà. La necessità della guerra condanna tutti i popoli a svolgersi al ro- vescio gli uni degli altri ; la stessa necessità della guer- A. Fbrrari — Giutéppt Ferrari. 7 - 98 - ra li obbliga pure ad accettare coll'una o coiraltra delle due forme la rivoluzione italiana che si propaga. Ci- gni stato in ritardo, ogni popolo che dimentica sé stesso che non prende la sua base d'operazione in opposizione ai suoi vicini, si trova debole impotente in contradizione con se stesso e soggiogato. Se si cerca Tinfluenza italiana in .una propaganda diretta» uniforme, non si scopre e bisogna negarla; se inve- ce si segue nell'urto delle azioni e delle reazioni che si estendono opposte le une alle altre.... si vede dap- pertutto la catastrofe del regno d'Italia riprodotta con esattezza similare, dappertutto l'antico stato carlo- vingio o pagano sparisce per cedere il posto ad un nuovo stato libero colle diete o popolare col re. IV. Liberata cosi per sempre dalla tirannia unita- ria di un re l'Italia può abbandonarsi alla carrìe- ra magica delle sue rivoluzioni, che sembrano frantumare in moti individuali variati disordinati la sua ideale unità di nazione, e a prima vista ci appaiono refrattarie a qualsiasi principio organi- co di interpretazione (Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 256): Fin qui noi abbiamo potuto sottomettere tutto al- l'azione dei principi; e la storia d'Italia si svolgeva una e logica, dominando i più svariati avvenimen- ti con una specie di continuità drammatica un tem- po vasta come il mondo. Odoacre abbraccia l'intera nazione col fatto unico del regno proclamato contro gli ultimi imperatori, che accampati da .banditi a Ravenna abbandonavano Milano ed Aquileia agli Un- ni e Roma ai Vandali. I Goti continuavano l'opera di Odoacre, fissando l'invasione unica del re in tutta — 99 — l'Italia. Bdisarìo e Narsele lottavano pure quali ca- pitani dell'unità Imporàde contro il ragno tondKo so Ravenna; e tutte le città, scacciando i Goti, si ria- nimavano con un risorgimento quasi repubblicano. Più tardi i due principi opposti dell'unità imperiale e dell'invasione regia si spartivano materialmente la penisola; e la terra, metà romana, metà longobarda, rimaneva una nella guerra dei popoli cattolici del Mez- zodì contro la dominazione ariana di Pavia; ancora una nel doppio slancio che estolleva le repubbliche cattoliche e il regno longobardo; sempre una nell'in- fallibile trionfo della religione delle repubbliche, che consegnava il regno a Carlo Magno per rifare l'Im- pero d'Occidente. L'unità sopravviveva nel patto di Carlo Magno esteso a tutta la vera Italia dipendente da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti egualmente nemici del Papato e dell'Impero; l'unità si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni posteriori con- tro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re italiani. Ad onta dell'anarchia e dei rivolgimenti di quattordici rivoluzioni, noi abbiamo visto la terra or- dinata nelle sue lotte, uniforme nel suo ultimo trion- fo, unanime nel disegno che rinnovava il patto della Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai primordi t due principi della rivoluzione cattolica e del regno nazionale, s'intendeva facilmente il senso di tutte le lotte; dal momento che una guerra scoppiava dove- va essere la guerra dei due principi : ci bastava il se- guire le due correnti, il nostro lavoro era eccezio- nale senza esser diffìcile, l'unità delle idee suppliva all'unità materiale dei fatti. Noi avevamo il diritto di sottomettere ad una unità eccezionale il moto ecce- zionale del Papato e dell'Impero; Napoli, Venezia, Bari, la Sicilia, Amalfi, Gaeta si scostavano da se stesse per lasciare il posto alla geografìa pontifìcia imperiale; e queste repubbliche ordinate al rovescio della vera Italia ne confermavano l'unità rivoluzio- naria, la sola che importava di seguire. — lOO — M« dai primi anni del XI secolo cambia la scena; il moto generale scioglie ^uestltalia che già scon- certava la critica: o^i città ha il suo eroe, le sue rivolttzioni, le sue guerre, il suo destino. I comuni non sembrano punto associati; nesstma federazione, nessuna lega, nessun' unione generale e apparente: Milano è straniera ad Ancona qtianto Arles Treverì o Cambra!. I popoli si combattono, gli avvenimenti si incrocicchiano in tutti i sensi, gli episodi sono in- numerevoli. Alcune città fondano delle colonie, altre si estendono colle conquiste, giungono i Normanni, la Chiesa si rivolta contro Tlmpero: quanto piti c'i- noltriamo, tanto più le forze della guerra e della li- bertà sembrano scatenarsi a caso. Lo spirito si tur- ba; l'Italia cessa di comprendere se stessa; i suoi storici non abbracciano più l'insieme della penisola: Giordanes, Paolo Diacono, Vamefrìdo e Liutprando non hanno successori; più non si scoprono se non dei frammenti di cronache, delle scene staccate. Più tardi ogni città ci presenta la sua biblioteca dì scrit- tori, i suoi poeti della barbarie municipale, il suo Ci- merò che canta nuove Iliadi. Eccoci in presenza di cento storie distinte diverse contradittorie, senza le- game palese: noi lo domandiamo, dove sarà la sto- ria d'Italia? Le nostre proprie idee ci danno il filo che ci gui- da attraverso il labirinto italiano. I comuni s'impa- droniscono del suolo per interpretare la vittoria da essi riportata col Papato e coli 'Impero; essi proseguo- no la loro guerra contro il regno, combattendo ogni rimembranza, ogni istituzione che richiama la legge, la forza, l'aristocrazia, l'esercito, la dominazione dei re; questo è lo scopo loro; essi marciano contro il Papa e l'Imperatore per distruggere nell'uno e nel- l'altro ogni principio che conserva le tracce dei Go- ti, dei Longobardi, dei barbari dell'Italia o dell'Euro- pa. La storia dei comuni non è dunque altro che la storia di una rivoluzione continua, lenta, fatale, e sempre trascinata dai suoi propri antecedenti a com- — IDI — battere il vecchio Papa e il vecchio Imperatore della barbarie, per creare un Papato, un Impero ideale, donde spariscano in modo cosmopolita tutte le trac- eie della dominazione delFuomo sull'uomo. Un grand 'errore ingombra la storia d'Italia, ne sconvolge i prìncipi il moto le epoche il progresso, e snatura il senso di tutti gli avvenimenti: ed è l'errore che la considera come il racconto di una guerra continua contro il Papa e l'Imperatore per conquistare l'indipendenza politica del governo o, co- me si dice in oggi, per respingere l'invasione dello straniero. Sotto questo aspetto l'Italia non sarebbe mai stata, la prima delle nazioni, e la sua storia riu- scirebbe a questa assurdità inammissibile: che do- po cinque secoli dì guerra non avrebbe né raggiun- to, né voluto lo scopo stesso della guerra. No! nac- que l'Italia pontificia e imperiale contro i Goti, con- tro i Longobardi, contro i re italiani provenzali e burgundi; nacque creando e interpretando il gran patto della Chiesa coli 'Impero; dominò le stesse con- quiste carlovinge cogli incanti della religione e colla magia della consacrazione imperiale: fino dai tempi di Teodorico la Chiesa e l'Impero sono stati i sim- boli della sua libertà, della sua redenzione, di ogni sua idea liberatrice sulla terra e nel cielo nel fatto e nel possibile; e con la costituzione dei due poteri essa ha organizzato una rivoluzione permanente, uni- versale, indefinita nelle sue aspirazioni verso l'avve- nire. Il primo dei suoi capi sotto l'aspetto politico è l'Imperatore, il più debole il piii legale il piti fede- rale dei re; il secondo suo capo è il Papa, cioè il più inerme tra i principi, il meno conquistatore dei sovrani: non avvi dunque conquista alcuna sul suo- lo italiano, ed al contrario il regno che era conquista- tore venne schiantato con una guerra così violenta che tutti gli stati dell'Europa ne rimasero scossi. Per- tanto non vi ha, né vi sarà mai guerra alcuna d'indi- pendenza; Il Pontefice e l'Imperatore non avranno se non pochissimi soldati, sempre costretti a fondarsi — I02 sulla forza stessa della terra. Che, ss sono assaliti, si è perchè sono oltrepassati dagli Italiani che voglio- no riformare il patto» che chiedono sempre un mi- glior Papa che non esiste, un Imperatore che dev'es- sere rifatto: nò punto reclamano una vuota indipen- denza; ma sostengono una guerra costituzionale in- tima organica per trasformare le idee le istituzioni la religione, una guerra dove il principio di respin- gere gli stranieri è sempre posposto al principio di distruggere ogni istituzione regia o feudale. E se il Papa e Tlmperatore resistono, non combattono se non come conservatori quasi indigeni, sostenuti dalle reazioni inteme che la libertà provoca e sormonta, imponendosi loro cosi d'epoca in epoca fino agli ulti- mi giorni del risorgimento italiano. La storia dei co- muni, considerata in tutta la sua durata, non è dun- que la storia di una guerra contro lo straniero, fatto unico materiale mille volte impotente; ma è la sto- ria di un fatto ideale organico sempre crescente: e poiché là dove le idee regnano il caso non può re- gnare, l'oscurità del labirinto italiano deve sparire - e qualora restasse la colpa sarebbe nostra. La rivoluzio- ne è la stessa in tutte le città : da per tutto essa ha lo stesso punto di partenza — la caduta del regno, lo stesso punto d'arrivo — il risorgimento italiano; da per tutto si svolge colle medesime idee rette dalla medesima logica; lenta o rapida, squallida o splen- dida, vittoriosa o vinta, le sue fasi sono determina- te anticipatamente dall'inflessìbile destino che sforza i principi a generare le loro conseguenze. Che i mil- le accidenti della guerra turbino adunque l'Italia, es- si saranno tutti travolti da una sola corrente; e vi sarà sempre una storia ideale e uniforme, comune a tutte le città da Ottone I alla flne del risorgi- mento. La storia ideale della città italiana si ripete a un patto di Carlo Magno, che essa interpreta e che tra- sforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore noli intendono che a mantenerlo nel senso il pih tar- — I03 — do, se ne dichiarano apertamente conservatori; la loro opera è sempre una restaurazione imperiale e pontificia. Ma hannovi forse restaurazioni nella sto- ria? Noi non ne conosciamo: gli antichi poteri che diconsi ristabiliti si trovano sempre trasformati, e non trionfano se non accettando Topera del tempo, e non ricompaiono sulla scena se non alla condizione di rappresentare i principi che la fatale ignoranza del governo tradizionale lasciava ai loro nemici. Stessa- mente il Papa e l'Imperatore compiono 'le loro re- staurazioni così dette eterne, seguendo passo passo la storia delle città italiane di cui amnistiano le ri- bellioni e accolgono le innovazioni. Egli è giusto che resistano; se non resistessero la rivoluzione non a- vrebbe nessuna ragione per manifestarsi e nel me- desimo tempo la storia ideale si fermerebbe. Ma e- gli è altresì giusto che, una volta sconfitti, si rista- biliscano, accettando il progresso che si è fatto stra- da e che passa allo stato di fatto compiuto o di fa- to ineluttabile; ed è così che tutte le epoche della storia ideale si riproducono nel patto di Carlo Ma- gno colla Chiesa. Una volta nel patto, esse si ripeto- no in tutti gli stati dell'Europa. Non sono forse il Papa e l'Imperatore i due grandi personaggi dell'Oc- cidente? bisogna dunque che propaghino da per tut- to le idee da essi rappresentate: d'altronde tutti gli stati non si svolgono forse simultaneamente gli uni contro gli altri? devono quindi accettare ogni pro- gresso, non foss'altro per combatterlo. Ecco quindi la trama ideale su cui scorrono tut- te le rivoluzioni italiane; la legge che ne governa la varietà a prima vista irreducibile di forme, e le costringe ad essere incasellate entro il quadro di due reazioni imperiali e pontificie. E' questo il periodo storico che il Ferrari ha studiato con più amore e trattato con più larghezza i la storia an- — I04 — t^rìorc al 962 e posteriore al 1530 è rispetdva- mente conaiderata come imrochizione e come epi- logo alla epopea di quel che egli chiama risorgi- mento italiano. Allontanato per sempre il perìcolo d'una tirai^ nide regia colla rinnovazione del patto papalo- imperìale e col trasporto dell'Impero in Germa- nia, r Italia che fln qui era stata l'alleata dd Pa- pa e dell'Imperatore comincia a combatterli ma non per distruggerli, bensì per riformarli, tra- scinata dagli antecedenti aUa lotta senza quartie- re contro ogni rimembranza del regno. La rivoluzione dtì Vescovi (962-1122) apre la serie. Nella città sfuggita ormai all'incubo dd re^ gno ecco si trovano di fronte due poteri : il conte goto longobardo o franco di discendenza, che vor- rebbe riprodurre in piccolo dentro la cerchia dd- le mura cittadine la tinmnide regia, che governa cdla legge ddla spada il popolo di discendenza ro- mana; e il vescovo romano di razza e di tradi- zione che protegge i deboli contro la prepotenza regia del conte barbaro, aprendo loro le porte del suo palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone impedisce agli sgherri del tiranno di entrare. B. popolo si serra attorno al suo vescovo, vuol es- sere giudicato dalla sua giustizia superiore a quel- la del conte come la ragione alla spada, si appas- siona per tutte le sup»*stizioni dd cattolicismo voltandde come armi ideali contro le alabarde de- — I05 — gli sgherri comitali^ finché un giorno scoppia im- prowisame&ie una sollevazione annata. Il conte si trova espulso, e nella città si comincia a sboz- zare colla formazione dd primo popolo raccolto dalla corte del conte e da quella del vescovo Tor- ganismo comunale italiano, che non è una deriva- zione germanica o romana ma nasoe adesso oomh battendo contro le memorie del regno. La rivolu- zione vescovile irraggiata dal focolare di ribeÌlto> ne delle città penetra nei feudi, ove sostituisce fa- miglie pie di tradizione romana e avversa al re- gtto (Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discen- denti dagli invasori ; conquista il Mezzogiorno pa^ ralizzato dalla confusione bizantina dei due pote- ri, al seguito delie schiere avventurose dei Nor- masni; e in RomB trionfa coHa libera elezione popolare e clericale di Gregorio VI nemico dei conti e dei patrizi. Ma i centi espulsi daUe città da un esercito d! straccicmi capitanati da un prete ricorrono all'au- torità legale del loro supremo tutore, l'Imperato- re, che vede oltraggiata la sua legge; e Corrado II di GebeHno comincia la reazione contro i ve- scovi. Invano : sconfitto da Eriberto di Milano, che oppone alla cavalleria feudale le picche dei popolani raccolti attorno al carroccio novdlamen- te creato, vede la sua reazione abortire nelle cit- tà e nei feudi deiritaUa imperiale e in Roma, e deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano dd- ritalia meridionale è il Papa, che l'ha avuta fai seguito al ^an patto carolingio: a lui quindi spetta di guidare la necessaria reazione contro 1 — io6 — Normanni rappresentanti meridionali del princi- pio vescovile, i quali dopo averto vinto sforzano S. Leone IX ad accettare la loro rivoluzione. E cosi Imperatore e Papa dopo avere ammistiata e legalizzata la rivoluzione italiana, come poteri eu- ropei la diffondono in tutta l'Europa; e perfino ndla Chiesa, la quale si appassiona per la vergi- nità mistica in odio dei preti ammogliati, che pro- fanano la sua repubblica immacolata con una spe- cie di feudalità clericale (1050). Appena ottenuta la legalizzazione della cacciata del conte, la rivoluzione entra in una seconda fa- se (1050-1122), continuando contro i vescovi no- minati dall'Imperatore che li incarica di sostene- re la parte dei conti, per strappare la libera ele- zione dei vescovi stessi — e una volta vittoriosa vuole la libera elezione del più grande dei vesco- vi, del Papa, che l'Imperatore si arrogava il di- ritto di imporre. Il monaco Ildebrando riunisce tutte le forze della rivoluzione per togliere Roma ai papi tedeschi, prima con l'elezione di Nicola II, poi con quella di Alessandro II contro l'anti- papa Cadaloo; e infine salito lui stesso sul tro- no pontificio assale per la prima volta la suprema- zia imperiale, e trasporta nella Chiesa la rivolu- zione vescovile compita predicando la crociata. Senonchè l'utopia di Gregorio VII conteneva il germe d'una reazione pontificia contro la libera elezione dei vescovi, che si sarebbe voluto tra- sportare dalle mani dell'Imperatore a quelle del Papa: cosicché al suo avvento gli uomini della rivoluzione passano nel campo nemico; dichiara- - I07 — no che il Papa non è il padrone della Chiesa ma, sottoposto al Vangelo alla tradizione ai concili, è il servitore dei servitori, e può essere deposto se manca alla sua missione. Ecco cosi la guerra del- le investiture che è la reazione papaie-imperiale contro la libera elezione dei vescovi : i due capi sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi in- terpretando con mente retograda l'antica tradi- zione; ma i popoli al seguito dei loro vescovi, come avevano atterrato il vecchio Impero sotto 1 colpi di Gregorio VII, atterrano il nuovo Pa- pato sotto quelli del nuovo Cesare rigenerato. Le città dirigono il Papa e l'Imperatore: sono im- periali quando il Papa trionfa e pontificie quan- do l'Imperatore prepondera, e finiscono col se- guire l'alleanza imperiale sulle terre della dona- zione e quella papale sulle terre dell'Imperatore. Roma determina l'azione di Gregorio VII sulla Germania; le città lombarde decidono Arrigo IV a resistere e gli danno la vittoria nonostante la sua sciocca sottomissione di Canossa, ma quan- do la sua vittoria diventa minacciosa disertano il suo campo e rialzano il Papa; e continuano in questo gioco a rimbalzello Anche riescono ad ot- tenere la libera elezione dei vescovi, che il Papa e l'Imperatore diffondono al solito — dopo con- cessa — a tutta l'Europa. Anche la prima crociata cade sotto la legge del- la rivoluzione vescovile: costituita coi quattro e- lementi della città italiana, la moltitudine il popo- lo i consoli e i vescovi, altro non è se non Te- — io8 — spetrìazioae volontaria della feudalità che lascia libera la terra alla giuriadizion^ dei vescovi. Abbiamo dato un sunto diffuso di questo perio- do per offrire un esempio più chiaro del metodo interpretativo del Ferrari : ora potremo procede- re più rapidamente. VI. Qi stati dell'Europa non avevano ancora com- pita la prima metà della rivoluzione dei vescovi che nelle città italiane dov'era nam essa era as- salila da una nuova rivoluzione, nei principi o- scura e indecisa, dopo cosi splendida e scandalo- sa c^ tuid i vescovi della cristiania ne erano scQS^ nelle loro sedi. La rivoluzione dei Couso^ 2i(U22-1184) passava anch'essa per due tesi: prima sostituiva il governo vescovUe ed governo consolare (11^1137); poi scatenava le une con- tro le i|kre città consolari, divise in due campi per conquistarsi con la guerra una più larga li- bertà dentro il patto papaie-imperiale (1137-1184). Nella città vescovile il vescovo essere religiosa e u-asmondano si trovava a capo della moltitudi- ne, agitata da tend^ize industriali e commercia- li completamenie mondane ch'egli non poteva soddisfare né raffrenare. Dall'opposizione nasce rifisurrezione : la città si muove prima conser- vando le apparenze dell'obbedienza, poi rinnova le sue istituzioni e crea un nuovo popolo più al- largato e democratico chiamato a legiferare nd parlamenti che, col tradizionale intervertimento di aUeanze nemico del Papa negli stati della Chiesa e nemico dell imperatore nellitalia imperiale, as- sale il diritto del regno a nome nel risorto di- ritto romano. La. immancabile reazione pontificia e imperiale procedeva questa volta unita : Innocenzo II e il suo alteato Lotario IH, capo dell'opposizione cat- tolica tedesca allora vittoriosa nellimpero, secon- do la formula generale di tutte le reazioni oppo- nevano il passato sempre vivo in essi al presen- te da cui erano assaliti ; e combattevano i conso- li fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed al- tra volta si ardentemente invocati dai popoli, ma non riuscivano che ad ottenere la fatale sconfitta. Ed ecco che appena vittoriosi della duplice rea- zione i consoli spingono le città le une contro le altre in quella guerra municipale, che fa la ma- raviglia e lo sdegno degli storici maldicenti con le lacrime agli occhi a tanto inesplicabile odio fra- temo. E' questo uno dei misteri più profondi del- la storia ditalia: la guerra municipale non si spiega né colla volontà del Papa e dell impera- tore, nò colla lotta fra i due capi della cristianità, nò colla duidità geografica di Roma e di Pavia, nò colle vertenze fra i diversi distretti, né colla HbeDione dei castelli. (Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 515): Guardiamo alla terra dove sorgono le città libe- re : la sua gìeografla é anticipatamente determinata da una rivoluzione anteriore. La rivoluzione dei vesco- vi ha disorganizzato il regno, ne ha paralizzata la — no — capitale, lìia isolata, ha degradato le città militari che l'assecondavano, le ha spodestate delle loro fun- zioni strategiche, ha soppiantato Pavia e i centri se- condari che erano padroni delle vie dei fiumi del commercio di tutto. Le città romane sono state rial- zate, opposte alle città militari; restituite all'impor- tanza naturale che loro davano il conmiercio, la ric- chezza, la facilità delle comunicazioni, le circoscrizio- ni diocesane stabilite dai Romani sotto l'impero del- la civiltà. Ne nasce che la terra è dualizzata in ogni parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate tutte le città le une contro le altre: ogni centro militare si trova in presenza di un centro romano a lui ostile; Tuno declina, l'altro s'inalza; l'uno immiserisce, l'al- tro prospera; l'uno langue, l'altro risorge. Nell'era dei vescovi la dualizzazione delle città non è ancora apparente, la legge imperiale e pontificia regna an- cora, la guerra si dissimula; e se i conti sono con- gedati, la metà della gerarchia sussiste ancora col ve- scovo che supplisce al conte, nasconde la guerra - e non vedonsi che lotte momentanee. Eriberto di Mi- lano non combatte le città dei dintorni se non per ordine dell'Imperatore... Ma nel momento dei conso- li la disorganizzazione vescovile del regno si fa lai- ca, la dualizzazione delle città diventa economica: più non trattasi di reclamare precedenze, giurisdizio- ni ecclesiastiche o feudali; si reclamano la ricchez- za, i fiumi, le strade, i transiti trasformati in istru- menti di prosperità o di miseria; il mercante, il fab- bricante, il ricco si sostituiscono al vescovo; nessu- na gerarchia, nessuna diplomazia superiore che raf- freni le rivalità; non i giudici per decidere sulle vertenze, le città devono giudicarsi da sé. Esse so- no in contatto immediato; il contatto diventa lotta, la rivoluzione dei consoli diventa guerra — si po- trebbe forse evitarla? — Guardiamo sempre la ter- ra. La rivoluzione dei consoli si sviluppa sul fondo stesso della prima rivoluzione dei vescovi, per rad- doppiare la disorganizzazione del regno e la degrada- — II I — zione delle città militari. Questa degradazione è fat- ta dal commercio, dall'industria; diventa la miseria dei centri regi, la prosperità dei centri commerciali : i primi son condannati a difendersi sotto pena di mo- rire, i secondi combattono anche prima di dichiarare guerra perchè basta loro il vivere il progredire per spegnere le città dell'antico regno; esse assorbono t frutti il succo gli umori del suolo italiano, esse ri- fanno tutte le strade tutte le comunicazioni al rove- scio del sistema militare, esse sostituiscono alla stra- tegia regia quella del commercio che procede lenta sorda implacabile col libero spaccio di tutte le merci. Come resistere loro se non colle armi? Ecco l'o- stilità dichiarata: ogni città militare lotta colle armi, coll'astuzia, con tutti i mezzi della politica; tutti soa buoni, tutti giusti trattandosi di difendere la patria. Se occorre si rivolgeranno le forze stesse della li- bertà e della civiltà contro le città più libere, più civili; si spingeranno alla ribellione i comuni inter- mediari promettendo loro l'indipendenza; si tenterà di smembrare le città romane, di attorniarle con bor- ghi insorti, di disorganizzare questo centro di disor- ganizzazione — e ne nascerà l'aff razionamento del- l'aff razionamento, la guerra della guerra. Fin qui abbiamo considerata solo la natura del suo- lo: e l'abbiamo trovato friabile, inconsistente, dispo- sto alle frane, e dualizzato come se avesse subito in tutte le sue molecole una doppia polarizzazione sot- to la pressione del Papato e dell'Impero. Prendiamo ora il compasso, misuriamolo; e noi vedremo che la guerra deve raddoppiare d'intensità. Qual'è la circo- scrizione della terra ove sorgono i consoli? La città vescovile si ferma ai corpi santi ; pivi oltre tutto è oc- cupato dai feudatari dell'Impero, la campagna è co- sa loro, l'irradiazione popolare della prima rivoluzio- ne ha dovuto soffermarsi nei limiti determinati dal- l'ombra della cattedrale. Ma i consoli possono forse rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuo- vo popolo, del doppio più potente coll'avvenimento — 112 — ddrinéttstrìa e del commercio, due volte più ricco grazie alla sua attività che moltiplicandosi trabocca oltre il vecchio recinto delle nmra; quindi si rinno- vano i bastioni, gli edilizi pubblici, il palazzo del co- nume, le fortezze, i cimiteri; la città s*adoma, s'in- grandisce e più non può capire nel proprio territo- rio, e segue coll'occhio i suoi fiumi le sue strade i suoi sbocchi: dei pedaggi altre volte insignificanti intralciano il corso delle merci, dei villaggi un tem- po inosservati le tagliano le comunicazioni; la città smania di estendersi, di svincolarsi dalle sue pasto- ie, di rompere ogni ostacolo. Pisa e Genova, die si trovano dinanzi delle terre lontane sul mare, fonda- no delle colonie consolari; ma per le città delFin- temo non hannovi terre vacue, la campagna appar- tiene alla feudalità, tutte le giurisdizioni son ar- mate, i confini sono spietati — e le città si getta- no sull'unico spazio che sia vuoto, sullo spazio della rivoluzione consolare. Ogni città che si governa coi consoli sfugge all'Impero o alla Chiesa nella misura stessa del consolato, e si presenta come la preda na- turale del nemico che l'osserva; essa è res nuUius: 9 combattimento è permesso naturale inevitabile; ed ogni città, ogni borgo aspira a diventare una capita- le; la guerra deve durare fino alla liquidazione gene- rale di tutte le pretensioni; l'Italia dev'essere rifatta per intero. Ora supponete il Papa e l'Imperatore a- nimati da sentimenti patemi e da benefiche intenzio- ni; supponeteli sempre pronti a intervenire per pre- dicare la pace l'unione la concordia; supponeteli ab- bastanza forti per ottenere innumerevoli conciliazio- ni ,per riparare mille torti, per render giustizia agli oppressi; supponeteli protettori, conservatori come devono essere secondo il dato primo del Papato e dell'Impero: le città riporteranno vittorie che non sa- ranno vittorie; le-sconfitte non saranno sconfitte; nes- suna guerra riuscirà ad alcuna soluzione; tosto otte- nuto un vantaggio bisognerà rialzare le torri spiana- te, ricostruire le mura smantellate, riedificare le ciN — 113 — tà incendiate, restituire il territorio conquistato; e al- la partenza del Papa deirimperatore e dei loro de- legati, le cause della guerra sussistendo ricondurran- no le città al combattimento; si rimarrà per secoli a battagliare in una casamatta, ai piedi di un ba- stione, sull'orlo di un fosso - per riportare mille vit- torie inutili, per subire mille sconfitte sempre ripa- rate. La guerra municipale che rimane dentro i con- fini della regione viene quindi ridotta al dualismo delle città militari e delle città romane costrutte le une a controsenso delle altre : di Milano e di Pavia la capitale di Alboino, di Mantova e di Ve- rona la prediletta di Teodorico, di Bologna e di Ravenna la capitale di Odoacre, di Firenze e di Fiesole, di Pisa e di Lucca, di Roma e delle cit- tà latine : anche il regno di Napoli si toglie all'a- nalogia degli altri regni per seguire la legge del- le città italiane, funzionando come una gran città cambattente con Palermo contro i rimasugli fe- derali dei piccoli stati greco-longobardi. Questa guerra che oggi si considera come un disordine odioso era nel secolo XII un progresso, una ri- voluzione, il primo passo delle città per determi- nare i loro confini a nome della propria libertà insultata e disconosciuta dalle vecchie giurisdi- zioni. Intanto Fed. Barbarossa ,capo della rivoluzio- ne vescovile in Germania, si propone di combat- tere in Italia la seconda fase della rivoluzione con- solare, sopprimendo la libertà della guerra muni- cipale che insulta alla sovranità dell'Impero: e A. PrrraRI — Giuseppa Ferrari. « — 114 — la sua reazione subisce vicende diverse secondo che si muove sulla terra delPantìco regno o su quella del Papa o del regno normanno. Nell'Al- ta Italia diventa capitano municipale delle città romane, manovrante da bandito con l'uniforme d* Imperatore, e invece di spegnere la guerra la conferma. Dopo i successi effìmeri dovuti alle città che lo secondavano nelle prime discese, vin- to dalla Lega Veronese dalla Lega Lombarda e dalla fondazione d'Alessandria, accorda il dirit- to alla guerra sanzionando nel trattato di Costan- za le due leghe di Pavia e di Milano. La battaglia di Legnano non è dunque una lotta repubblicana e nazionale dei liberi comuni contro l'Imperatore tedesco (1); ma una lotta fra le città romane gui- date da Milano è le città militari guidate da Pa- via, per ottenere dentro la gran giurisdizione del- l'Impero la libertà della guerra. La nuova rivoluzione, appena legalizzata dalla duplice repubblica europea del Papa e ddl' Im- peratore, si diffonde dappertutto dando ad ogni nazione dei governi con missioni consolari : perfi- no nella Chiesa, che assalita da ogni parte pren- de al rovescio i suoi nemici colle creazioni conso- lari dei cardinali, dei concili, dei nuovi ordini francescani; e sostituisce la conquista vicina del- l' Inquisizione alla conquista oltremarina della Crociata, e la scolastica di S. Tomaso e S. Bo- naventura all'indisciplina dei Francesi e dei cap- puccini. (i) Cfr. J« BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London, Macmillan, 1912 - png. 173. Non si dichiaraTano prìncipi repub- blicani, né si faceva appello alla nazionalità italiana. — 115 — VII. La terza grande rivoluzione italica prende no* me dai Cittadini e Concittadini (1184-1250) e pa9- sa per le fasi della guerra ai castelli (1184-1198) e della guerra cittadina che provoca la creazione del podestà (1198-1250). La città consolare, la quale non è altro se non un'oasi in mezzo alla foresta feudale del regno che copre ancora tutta la campagna inceppando il libero espandersi del commercio, una volta otte- nuta la libertà della guerra riflette che le città ri- vali sono troppo radicate alla terra, mentre i no- bili della campagna si presentano come vittime facili; e volta contro di loro l'impeto irresistibi- le della sua espansione economica e politica. Le città romane specialmente combattono con furore contro la moltitudine dei feudatari che le accer- chiano impedendo loro il respiro; e questa ulti- ma rivoluzione che estende la libertà alle campa- gne si presenta come la conclusione della gran guerra contro il regno, distrutto nelle sue soprav- vivenze campagnole dei castelli. Nella Bassa Ita- lia, che funziona come un gran municipio, la guer- ra ai castelli si confonde con la continuata guer- ra municipale di Palermo contro gli antichi cen- tri, ultimi nidi di feudatari di sangue longobardo sognatori di sorpassate franchige aristocratiche. La soluzione della prima fase, vittoriosa della reazione, apre una nuova lotta. I castellani, na- turalizzati e deportati per forza nel cuore della città che loro impone l'odiosa legge dell'ugua- — Ilo ^- glianza, si vendicano costruendo delle fortezze in- teme, armando i loro servi, conquistandosi coil'o- ro la moltitudine che voltano contro il popolo — e ricominciano un combattimento che come quel- lo fra città e città non può finire ; perchè il denaro è alle prese col denaro, la borsa colla borsa, la fi- nanza colla finanza : i proprietari della terra (con- cittadini) sono almeno forti come i possessori dei- fabbriche (cittadini). La lotta fra il Papa e l'Im- peratore si presenta ai cittadini e ai concittadini per riassumere ed eternizzare il loro combatti- mento: con la solita interversione d'alleanze i cittadini dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli di Roma e delle Due Sicilie invocano l'Imperato- re; al contrario i concittadini dell'Alta Italia se- guono l'Imperatore, mentre quelli della Bassa I- talia invocano il Papa contro Palermo. I torbidi continui, le prese d'armi improvvise, l'anarchia imperante, conducono alla creazione di un nuovo governo : i consoli nella loro qualità di capi dei cittadini come parti in causa non hanno quell'autorità imparziale che possa giudicare i due partiti, e lasciano il posto ad un nuovo magistrato nel tempo stesso giudice e capitano, ad una spe- cie di dittatore annuale che si chiama podestà. Preso all'estero e quindi superiore ai partiti egli stesso giudica e applica la sua legge con potere discrezionarìo — ma spirato il suo mandato è sottoposto a giudizio, e se trovato colpevole è con- dannato a multe a prigonia e talvolta alla morte. La reazione immancabile questa volta si sem- plifica. Il Papa è il protettore delle città romane — 117 — del Nord, T Imperatore è lui stesso il gran pode- stà delle Due Sicilie : la reazione imperlale non opprime quindi che i sudditi diretti dell'Impero, mentre la reazione pontificia non percuote che i popoli della Chiesa. Federico II assale qua! con- sole della Germania i podestà della Lombardia, diventa capo dei concittadini delle città romane e dei cittadini delle città militari; ma dentro al laberinto incrociato delle inimicizie dualizzate si trova impegnato in un combattimento a cui l'e- quivalenza delle forze non permette nessuna so- luzione — ed è costretto a riconoscere col fatta della guerra interna la nuova rivoluzione. (Riv. d'ItaUa — Voi. II, pag. 211): Visto da lungi nella confusione del XIIl secolo, Federico inganna gli storici col suo doppio prestigio di console della Germania e di podestà delle Due Si- cilie, e vien considerato come un essere onnipoten-^ te che avrebbe potuto fare Tltalia come voleva; e la poesia, che segue le grandi figure della storia per trasportarvi di pianta i suoi sogni i suoi disegni le sue utopie le sue speranze o i suoi rimpianti, stende silenziosamente il dito sul gran Federico, quasi ab- bia seco perduto non si sa qual misterioso destino d'Italia. Ma ha perduto le tradizioni solo dei Gebeli- ni, condannati alla demenza delle reazioni impossi- bili : il fatto della sua sconfitta non ammette né pen- timenti né correzioni; egli resta qual'è nel suo tem- po nel suo giorno nell'ora sua, simile all'uno dei mil- le geroglifici che la stenografia della storia traccia con la rapidità del lampo per un'eterna immobilità. Uti- le al Mezzodì, l'ultimo degli Hohenstauffen non po- teva né essere il podestà dell'alta Italia, né equilibrar runa coll'altra le due regioni del Mezzodì e del Nord, né reggere tutta la penisola con un potere di- — ii8 — screzionarìo e profressivo; le nozioni stesse di com- pensi, di equità giudiziaria, di discrezione politica o di despotismo beneflco erano anticipatamente elimi- nate dal progresso dalla vita e dalle rivoluzioni del- ritalia, che si svolgevano diverse variate affraziona- te da cento stati contradittori, la cui suprema feli- cità era di rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male fatto a Firenze non era compensato dal bene fatto a Lucca, un'umiliazione di Milano non toglievasi con alcuna indennità concessa a Pavia... (1) Un pode- stà unico regnante a Palermo a Roma ed a Milano; un regno unitario improvvisato ed esteso a tutta la penisola; una sola dominazione imposta d'un tratto all'antico regno ed alla donazione, ai conti, ai mar- chesi, ai cittadini, ai concittadini ed alla Santa Sede sarebbe stata come una montagna sovrapposta a tut- te le montagne, una devastazione inaudita di tutte le libertà, una esagerazione iperbolica del regno dei Longobardi, un cesariato neroniano che avrebbe d'un tratto fermata e inaridita la civilizzazione dell'Occi- dente. E come mai l'uomo che non poteva evitare la sua sconfitta decretata dai secoli avrebbe potuto ri- portare una simile vittoria? Dove avrebbe preso le sue fòrze? I suoi stessi pensieri partivano dal bas- so come la libertà generale... Al certo l'elevazione non mancava a Federico; e fissando lo sguardo su lui, a traverso i delitti della corona, lo spettacolo del- l'Impero e la commedia estema delle pompe, si sco- pre quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sem- pre m tutte le epoche della storia ; nel momento del- le grandi rivoluzioni, quando gli eroi nello spasimo (i) Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia morte di Arrigo F/Z-MìUbo, HoepU* 1910 • pag. 363:... N*to in un secoio di disordini e di contradiùoDi le quali spesso in Ini si pCTSonJlicaroiM>, chiamato a Kovemare regioni cba come hi G^- mania V lulia meridionale e U aellatttcieiiale avrebbero richiesto una politica diversa un indirizzo qualche veka addiritura oppo- sto, più volte egli disfece con una roano ciò che aveva costrui- to con 1' altra. — IIQ — del dolore dimenticavano un istante di essere tribu- ni re imperatori, per chiedere alla natura e agli astri se può darsi un esito ragionevole alle pazzie deirumanità. Egli si rivolge ai sapienti dell'Islami- smo, per cercare delle verità che la sua religione gli vieta di conquistare; li turba colle sue orgogliose in- terrogazioni su Dio, sull'anima, sulla provvidenza, sulla vita futura. Qualche volta, stomacato dalla fur- beria dei miracoli cristiani, si direbbe che sogna un califato d'occidente, col quale la ragione gli rende- rebbe la metà del potere ceduto da Carlo Magno al- la Chiesa. La tradizione profana lo segue appassio- natamente e, guerreggiando con le calunnie cattoli- che, gli attribuisce confusamente il pensiero di vo- ler regnare quale podestà delle tre religioni che si contendono la terra; essa gli fa dire che Mosè Ge- sù Cristo e Maometto sono i tre grandi impostori dell'umanità, che ingannano i mortali, che semina- no sulla terra il furore delle crociate, che bisogna do- marli e dominarli; e che ci dev'essere qualche cosa ad essi superiore, non fosse altro un etemo sonno, per calmare la ragione oltraggiata dai pontefici dagli ebrei dai cristiani e dai musulmani. Porse, nel suo disprezzo per i commedianti di Roma, nel suo amo- re per i Romani e per i castellani minacciati dal fuo- co della moltitudine e dell'inquisizione, pensava egli ad una rivoluzione religiosa; nel mentre che nume- rosi insensati si attendevano a vedere trasformato l'u- niverso da un incanto che rovescerebbe la tirannia imperiale. Ma nelle alte regioni del potere il libero arbitrio del pensiero, che si fa strada in mezzo alle più astratte possibilità, non serve che a rivelare di rimbalzo tutta la forza della fatalità. Sciagurati i Ce- sari che lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di parere ancora più religiosi degli altri; devono im- porre il silenzio l'obbedienza la cecità, e farsi ipo- criti impostori e persecutori di ogni filosofia; perchè la moltitudine adora i suoi preti i suoi ierofanti i suoi mistificatori, essa si nutre di favole di iperboli — I20 — di miracoli — questo è il suo pasto; e non sacrifi- ca i suoi capi più assurdi se non agli uomini che le promettono con maggior energia di continuarne gli errori. Podestà occulto di tre religioni, Federico II- gemeva sotto il peso occulto di una filosofia che lo condannava a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cat- tolico, ad abbruciare gli eretici e a disprezzare Tu- manità. Viceversa nel regno delle Due Sicilie la reazio- ne è guidata dal Papa, che come console dei con- cittadini del Mezzodì assale con le armi della ri- volta federale e della superstizione cattolica il suo vassallo (1) Federico 11 supremo podestà, ma è vinto nel momento stesso in cui trionfa nell'Alta Italia. E la sua sconfitta si ripetè a Roma, che organizzata a forma repubblicana lo obbliga a ce- dere di fronte a Brancaleone dell' Andalo podestà bolognese. La libertà della democrazia della sedi- zione e delle battaglie si svolge in tutta l'Italia proclamando il grande interregno, e si diffonde per tutta l'Europa e anche nella Chiesa dove i dottori combattono come cittadini e concittadini prendendo al rovescio gli stati, finché il Papa di- venta il giustiziere universale di tutte le dissiden- ze presenti passate e future come un podestà mi- triato. Vili. Ma nemmeno il podestà poteva durare sulla (i) Il possesso del regno di Sicilia lo metteva nella falsa posizione di un vassallo resistente al sno legittimo sovrano. — ' BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208. — 121 — scena un tempo maggiore di quello concessogli dal fato della rivoluzione^ la quale entrava nella nuova fase dei Guelfi e Ghibellini che si divide in periodo delle sette (1250-1280) e dei tiranni (1280-1313), al momento in cui la guerra civile straripava al disopra del governo pacificatore e i combattenti disprezzavano gli ordini del pode- stà. Chi sono questi furibondi che si scannano a vicenda proprio adesso che il grande interregno li libera alle lofo tendenze, permette ai Lombardi di adorare il loro Papa, ai Meridionali di vene- rare il loro Imperatore? Essi non derivano dal Papa e dall'Imperatore (1) non sono altro che le due sette dei cittadini e dei concittadini che rina- scono con duplicato furore, per darsi delle sem- pre nuove battaglie al seguito della quale una me- tà degli abitanti deve prendere la via dell'esilio. I cittadini delle città romane sono guelfi, all'oppo- sto dei cittadini delle città militari di Roma e del Regno delle Due Sicilie : i concittadini delle città romane sono ghibellini, mentre quelli delle città militari di Roma e del regno sono guelfi. Con u- na guerra tutta sociale» figli di una stessa città, essi combattono per conquistarla non per distrug- gerla; riconoscendo per la prima volta l'unità i- (i) Cfr. G. Volpe : Pisa, Firenze e Impero in Studi storici. Pisa, 1902, pag. 182: I-e varie cagioni delle lotte inter- ne ed esteme dei conìuni sono al di fuori di Papi e di Impera- tori, e indipendenti dalle cagioni che questi aggiungono di pro- prio quando si mescolano nelle gare dei comuni: quelle preeti- stono a queste e sono le vere arbitre della storia d' Italia del Medio Evo, a cui le due podestà servono pur illudendosi di co- mandare. — 122 — deale della nazione si stringono in alleanza coi settari del loro stesso colore, onde tutta la peni- sola è corsa come dalla rete di una circolazione di vene e di arterie moventisi a controsenso. Pa- ri è la forza degli interessi, pari la forza delle i- dee; la lotta adunque nel complesso della nazione è eterna e senza soluzione come una antinomia metafisica; ma prende possesso delle contradtzio- ni della guerra municipale, secondo la legge che dopo una minore o maggiore alternativa di espul- sioni fa inclinare sempre la vittoria a favore dei cittadini, del popolo : dei Guelfa quindi nelle cit- tà romane, dei Ghibellini nelle città militari. Essa allarga ancora la libertà nazionale dentro il patto di Carlo Magno, istituisce un nuovo popolo più numeroso dilatando la democrazia, e mira a crea- re secondo il tipo ideale formatosi con la genera- lizzazione delle sue due tendenze una nuova Chie- sa democratica e un nuovo Impero legale. Minacciato dalle due sette che fanno traballare il suo ux)no, il Papa non può regnare a Roma se non facendo un passo indietro per fermare la ri- voluzione, chiamando Carlo d'Angiò alla conqui- sta della Sicilia affinchè domini come un podestà imparziale sulle sette italiane. Ma Carlo diventa guelfo prima d'aver visto l'Italia e la reazione pa- pale è sconfitta. Questo orribile sconvolgimento è rivoluzionario, cioè benefico e liberatore : dirocca innumerevoli castelli sfuggiti alla guerra consola- re, estende la libertà alle arti ai mestieri alla plebe, compensa il decadimento delle città milita- ri col fiorire delle città romane arricchite dall'in- — 123 — dustria e dal commercio, rivela attraverso il colle- gamento antitetico delle sette Tunità nazionale, e dà due linguaggi due poesie due nuove religioni all'Italia. Il francese, lingua guelfa adottata dal- l'aristocrazia popolare delle città romane, bilancia l'italiano coltivato dalla corte ghibellina di Fede- rico II e di Manfredi, artificiosamente scelto dai dialetti di tutte le città ; finché viene a trionfare la nuova lingua guelfa della democrazia di Firenze. Il periodo dei Guelfi e Ghibellini entra adesso nella seconda fase dei tiranni (1280-1313). Il ti- ranno è il capo di una delle due sette che gli con- cedono un potere dispotico sacrificando la loro libertà quasi feudale nell'interesse della vittoria : esso compensa la violazione di tutli i diritti ac- quisiti coi favori prodigati alla moltitudine e col- la condotta vittoriosa della guerra estema, e per la prima volta rappresenta la terra sotto una for- ma individuale. Ma, capo di un partito destina- to dall'equilibrio delle forze ad alternare te scon- fitte con le vittorie, si avvia anch'egli ad una ca- tastrofe certissima. Le città che non entrano nel- l'era dei tiranni si contorcono nelle angosce del- la guerra civile non ancora disciplinata imbriglia- ta e mitigata, e in ritardo di una generazione nel corso della civiltà sono sorpassate dalle rivali co- me Firenze che rifiuta un tiranno guelfo in Gian della Bella, o son costrette a ricorrere a tiranni stranieri come Brescia o^ Piacenza fondate sul tiranno di Napoli. Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione op- ponendo la guerra pura e semplice all'ordine na- — Ì24 — sceme delle tirannie, per suscitare attraverso al- la penisola un ondulazione guelfa che distrugga le tirannie ghibelline ; e ricorre a Carlo di Valois. Lo scaglia Contro la Sicilia ma uivano : in tutte le città i Guelfi si trovano senza capi senza ripu- tazione senza potere e disonorati dall'invettiva immortale della Dmna Commedia. Invocato da Ghibellini d'Italia arriva infine Ar- rigo VII, che in ritardo come la sua patria di due rìvduzioni non vuole essere nò guelfo né ghibel- iino; e guida quindi una reazione opponendo ai furori delle tirannie la pacificazione sorpassata del podestà. Ma appena messo il piede sul suolo fa- tale ditalia, come i suoi predessori vien preso nell'ingranaggio politico delle inimicizie, costretto a diventar ghibellino, e muore sconfitto e si di- ce avvelenato dall'ostia guelfa dei monaci di Buon- convento, dopo ruminazione di Roma e l'affron- to di Roberto di Napoli. La rivoluzione dei ti- ranni penetra infine nel patto di Carlo Magno col- le teorie antitetiche di S. Tomaso e di Egidio Co- lonna, di Tolomeo da Lucca e di Dante, che pro- pongono come stato modello gli uni la tirannia guelfa gli altri la tirannia ghibellina. La Divina Commedia è la grande epopea della tirannia ghi- bellina trasportata nell'universo soprannaturale, dove Dio sostiene la parte del tiranno supremo; Dante è il poeta del terrore, dell'odio, della rab- bia, dell'esterminio sanzionato dalla necessità su^ prema di salvare il genere umano ; che da per tut- to immola sacrifica consacra i Guelfi del suo tem- — 125 — pò ad una eterna infamia, pur accettando tutta la democrazia guelfa del passato. La rivoluzione vittoriosa si diffonde per tutta l'Europa ; si riproduce nella Chiesa grazie a Bo- nifacio Vili e ai suoi successori d'Avignone; pe- netra nei conventi colle esplosioni guelfe e ghi- belline dei domenicani tomisti e dei francescani scottisti, nelle scuole coi realisti e nominalisti, e perfino nell'altro mondo dove si vogliono scacciar gli angeli dal cielo per ristabilirvi i demoni del- l'inferno. IX. A un certo momento il tiranno s'accorge che per regnare deve sfuggire alle ondulazioni guelfe e ghibelline, stabilendo il regno dell'imparzialità col disarmo colla corruzzione o con la distruzione dei settari nobili e repubblicani, nell'interesse del- l'agricoltura dell'industria e del commercio che vogliono ora la pace. Il reggimento repubblica- no già compromesso dai tiranni viene quindi abo- lito dai Signori (1313-1402) che regnano da de- spoti colla forza della intelligenza, sfuggendo di traverso al Papato e all'Impero senza prenderli mai di fronte; finiscono le guerre ai castelli e le guerre municipali fin qui insolute, dando predo- minio alle città progressive romane; si estendono colla forza della necessità, migliorando la sorte delle città conquistate trattate coll'imparzialità u- sata verso le due sette; e sempliflcando la geogra- fia delle due Italie, utilizzano ormai direttamen- — 126 — te il Papa nel Sud quasi guelfo e Tlmperatore nel Nord quasi ghibellino (Avvento dei Signori : 1318- 1336). Traviati derisi traditi dalla giurisprudenza che dimostrava in qual modo si poteva vivere nello stesso tempo nei due campi o passare sapiente- mente da un campo all'altro; i Guelfi e i Ghibel- lini non avevano altro mezzo che d'invocare ^ uni il tiranno d'Avignone gli altri il- gran tiranno dell'Impero, per disfare con una reazione gene- rale le nuove costruzioni delle signorie imparziali. Ma la signoria definitivamente vittoriosa di tre reazioni, una papale una imperiale e una combi- nata, penetra nel patto di Carlomagno, mentre i giureconsulti proclamano per la prima volta la so- vranità popolare di ogni nazione astrazion fatta dalla Chiesa e dall'Impero. Nella seconda fase della Prosperità dei Signori (1336-1378) a regno dei furfanti benefìci si pro- paga in tutte le città : le terre più timide, i centri più disgraziati, i villaggi più infelici vogliono cre- arsi dei capi al di fuori dei vecchi partiti: ogni città prende definitivamente il posto che le era stato indicato dai vescovi durante la rivoluzione del 1000: indi l'importanza di Milano, la petulan- za di Verona, l'inferiorità della Toscana e del Mezzodì. La signoria di Milano era frattanto giunta a tanta potenza cfie provocò per contraccolpo la reazione di una federazione repubblicana pontifi- cia e imperiale, in cui le città minacciate dalla vo- racità dd Biscione si alleavano coi poteri retrogra- — 127 — di per difendersi. Ma Tltalia ben presto lasciava a sé i suoi capi retrogradi e la reazione finiva col- la catastrofe dell'Impero, sceso con Carlo IV al- Timperdonabile bassezza di farsi mercante di di- jplomi; e col gran scisma della Chiesa divisa fra Urbano VII quasi ghibellino e Roberto di Savo- ia, che coi loro vicendevoli anatemi liberavano la ragione individuale dalle catene della religione. La terza fase del periodo dei signori è domina- ta dal dualismo fra Milano e Firenze (1378-1402). Un nuovo progresso inalza Milano, dove per can- cellare ogni rimembranza di atrocità tiranniche Galeazzo tradisce Barnabò suo zio. L'ambizione illumina i cronisti milanesi e suggerisce al Mussi Tidea di sopprimere la dominazione temporale della Chiesa per sottomettere T Italia all'unica si- gnoria dei Visconti. Ma quest'idea trasforma la signoria milanese benefica e rivoluzionaria lungo il suo raggio legittimo in un flagello per il resto della penisola, ed obbliga Firenze a difendere la liberta le leggi le tradizioni e le federazioni dei popoli italiani. Da quest'istante tutti i fenomeni della nazione si spiegano col contrasto fra Milano e Firenze, che si riflette nelle due rispettive scuo- le dei cronisti. Ma la vera Italia si trova superio- re al contrasto, rappresentata dal Petrarca da Bar- tolo e da Boccaccio, che tradiscono il Medio Evo a profitto dei moderni e impersonano l'empietà del nuovo scisma: l'uno conciliando ogni contra- dizione col suo classicismo accademico feroce so- lo contro la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando ' le nazioni dal gran patto papaie-imperiale per — 128 — mezzo della romanità, il terzo sepelleiido le im- posture del Medio Evo sotto le risate della sua novella federale. E* questo il momento in cui la bisantina Venezia esiliatasi fin dall'era dei vesco- vi toma nel sistema italiano. (Riv. d'Italia — Voi. III. pag. 108): ...Dimenticata fino dalla caduta del regno, appena frammista qua e là alle battaglie lombarde e friula- ne come una terra secondaria e affatto straniera, qua- si sconosciuta al Papa e all'Imperatore non meno che ai popoli e ai poeti d'Italia; si presenta d'un trat- tò ancorata a Rialto, carica di prede di ricchezze di simboli, simile ad una nave d'alta velatura che sa- rebbe entrata nel porto durante la notte, di ritomo da un lungo viaggio nelle regioni favolose d'Oriente. La signoria si propaga in tutta l'Europa, dove tutti gli stati capovolti dalla rivoluzione anteriore riprendono il loro atteggiamento naturale; e la Chiesa rinuncia alle lotte della scolastica fra i so- stenitori dell'individuo e quelli del genere, per diventare ciceroniana ed eclettica ad imitazione del Petrarca. Le conquiste sociali e politiche della signorìa vengono adesso minacciate dalla Crisi militare (1402-1494). I signori avevano composto i loro e- serciti di mercenari per disarmare i Guelfi e i Ghibellini e per tranquilizzare i cittadini tradizio- nalmente antimilitari; ma poiché, affascinati dal — 129 — demone della conquista vogliono mantenere eser- citi superiori alla loro potenzialità economica, fi- niscono per fallire e per cadere in balia della ple- be irritata e dei soldati insorti. La crisi si com- pie in tre tempi : prima la plebe insorgendo con- tro il flagello della miseria distrugge la signoria, risuscitando le forme politiche sorpassate della repubblica o della tirannia ; poi vedendo che quel- la libertà la ripiomba nelle demenze del passato accetta una nuova signoria, che limiti le sue am- bizioni conquistatrici al raggio legittimo consen- titole dai suoi mezzi finanziari. Il signore cosi ritemprato da una nuova consacrazione plebea si trova adesso di fronte al condotdere capo di una signoria volante di soldati su d'un territorio che non può sostenerli tutti e due, bisogna che uno scompaia : ora è il condotdere che diventa signore come Francesco Sforza, ora è la signorìa che toglie di mezzo il condottiero come Venezia fa del Carmagnola. La garanzia dell'oro, l'unica che resiste ancora in mezzo alla derisione universale di tutti i prin- cipi, conserva tutto il lavorio dei secoli preceden- ti : la federazione italiana si semplifica colla vitto- rai dei gran centri romani sulle città militari e le dualità invincibili; detronizzando diciassette dina- stie e distruggendo diciassette indipendenze inuti- li, uccise dai poveri e dai plebei secondo la gran legge che da Carlomagno in poi sacrificava l'or- goglio della nazionalità alle necessità della demo- crazia, perchè la fame è superiore all'ambizione delle monarchie e delle repubbliche. Indipendenti A. Ferrari — Giuseppe Ferrari. • — I30 — . nel fatto dal Papa e dall* Imperatore le signorìe se- colarizzate si uniscono nella cdebre lega del 1484, in cui Milano Venezia Firenze Roma e Napoli, di- chiarando di assoldare un condottiere a spese co- muni, stabiliscono il principio di tutte le federa- zioni : di formare uno stato solo contro al nemi- co benché ogni stato resti distinto e sovrano nel proprio territorio. Le reazioni di questo periodo sono appena accennate e non servono che a con- fermare la rivoluzione flnanziaria. La quale si riflette nelle lettere, dove si ha pri- ma la ricerca di tutti i valori, poi il rinascere del- le opere originali con Lorenzo col Poliziano e col Pulci, che malizioso come un signore liquida il Papa e l'Imperatore senza contestare i principi del Papato e dell'Impero. E penetra inflne nella Chiesa la quale, assalita dalla ribellione federa- le del Concilio di Costanza, si rigenera all'imi ta- zione di tutti gli stati mostrandovi le scintille d'un incendio universale di democrazia, che presto a- vrebbe divorato tutti i re e i dottori protettori del- la libertà e delle riforme; inventa la visione bea- tificata mettendo d'accordo l'Apocalisse e il pur- gatorio ; e fa adorare un Dio che vende le indul- genze per rendersi visibile nei capolavori del- l'arte. XI. L'Italia aveva fin qui squassato la face ideale della rivoluzione; marciando alla testa della civU- tà essa creava man mano le nuove forme politiche. — l$\ — che diffondeva per mezzo del Papa e dell impe- ratore a tutte le nazioni d'Europa. Ma ecco che durante il periodo della Decadenza dei Signori (1494-1530) la civiltà trasporta i nuovi centri in- cendiari in un'altra nazione (1); e la Francia chia- mata da Ludovico il Moro straripa improvvisa- mente con una espansione militare nellitalia, la quale sorpresa da questo imprevedibile progres- so è costretta a difendersi restaurando il Papato e l'Impero che l'astuzia dei signori aveva quasi esiliato, e resuscitando le forze indigene delle sette guelfe e ghibelline che il tradimento dei si- gnori aveva addormentato. Il meccanismo politico cosi adesso si rovescia : prima era l'Italia che tra- smetteva all'Europa l'impulso delle sue sempre nuove forme politiche per mezzo dei poteri euro- pei del Papa e dell'Imperatore; adesso è l'Euror pa che, mossa da un'altra nazione, per mezzo del Papa e dell'Imperatore trasmette il progresso al- litalia (1494-1512). Succede un altro passo indie- tro quando l'Italia è costretta a mettere il Papa e l'Imperatore sotto la Spagna (1512-1530) per difen- dersi dall'insurrezione germanica e federale di Lu- tero contro le sue rivoluzioni, contro la sua ci- viltà passata attaccata nel Papa ; che rappresenta- va tutto il suo lavorio religioso, la sua suprema- zia mondiale e che era pure uno dei due membri della federazione europea da essa creata (Riv. d'ItaUa — Voi. III, pag. 381) r (i) Cfr. C. Balbo: Dciln stona d' Italia - Voi. I., pag. 297: Finiva V età del primato (qualunque fosse) d* Italia; ioco- minciava quella dei primati occidentali di Spagna, poi Francia, poi Inghilterra. ~ 132 — L'eresia che aveva serpeggiato nel Nord fra le due patrie di Huss e di Wicleif reclamava anch'essa la sua espansione; le regioni che avevano respinto il giogo della centralizzazione dell'antica Roma si le- vano con nuovi Arminii, per respingere con le for- ze invisibili del pensiero l'unità pontifìcia che era sottentrata all'unità conquistatrice dei Romani; i po- poli la cui antica barbarie aveva imposto le sue fe- derazioni nomadi ai Cesari, opponevano le nuove fe- derazioni degli spiriti indipendenti ai demiurgo di Roma e al Cesare guelfo dell'Austria. II Nord del- l'Europa sorgeva dunque alla voce di Lutero; ed 0- gni individuo, diventato libero nel fòro intemo del- la propria coscienza, formulava cento gravami contro la monarchia del . Pontefice e contro le rivoluzioni d'Italia che l'avevano creata. Si sorgeva dunque con- tro la prima rivoluzione, che in odio del re di Pavia aveva divinizzato i preti i vescovi e il loro capo ; con- tro il prestigio magico che essi avevano messo ne- gli antichi simboli dell'eucaristia, della messa e del- le reliquie a confusione dei barbari; contro la san- tificazione dell'antica capitale con una gerarchia mi- steriosa che aveva umiliate tutte le città regie; e contro la superstizione incendiaria che aveva dato al- l'ordalia, all'altare e all'acqua benedetta il potere di sottrarre i delinquenti ai tribunali ed i popoli ai re. Non si risparmiò poi alcuna delle creazioni di Car- lo Magno : né la separazione dei due poteri ; né la donazione che faceva della Chiesa una potenza poli- tica; né la penitenza che metteva i suoi giudici al di sopra di tutti i giudici, le sue sentenze al di sopra di tutte le sentenze; né la liturgia che propagava il culto col fascino dei canti, delle pitture, delle scul- ture sconosciute alla Chiesa primitiva; né il purga- torio che raddoppiava la distanza fra il cielo e l'in- ferno, per far luogo agli incanti delle preghiere cle- ricali; né in una parola il pontefice che arrivava al- l'anno mille come un Dio fuori di Dio, vera ipostasi — «33 — della giustizia divina e proconsole di tutti i procon- soli istituiti sotto il nome di primati. La devastazione luterana si estendeva a tutte le rivoluzioni posteriori : e proscrìveva dell'era dei vescovi il celibato dei preti e tutte le riforme che fornivano armi spirituali temporali ali* unità pontifìcia; dell* e> ra dei consoli gli ordini mendicanti, le feste impo- nenti, Tesaltazione dei cardinali, Timpostura regnan- te e rimplacabile inquisizione; delfera delle due sette i tomisti e gli scottasti, le ecceità, i flatus vocis, le dotte puerilità che profanavano Dìo trasformando- lo in tiranno or guelfo e ora ghibeilino; del tempo dei signori il culto nell'atto stesso capriccioso, ma- teriale, e abbandonato al despotismo della frase ai periodi ciceroniani e al pennello di artisti sostituiti al- rinsegnamento degli apostoli; del tempo della crisi fìnalmente si assaliva il delitto che riassumeva tutti i delitti e che consisteva nel vendere le preghiere le assoluzioni le indulgenze le dispense tutto, per far denaro con una religione già materiale, e per molti- plicare cosi i capolavori che sostituivano ai miracoli di Crìsto quelli delle nove Muse. Non si voleva più ascoltare l'oracolo di Roma, le coscienze si rivoltavano contro la sua religione, le intelligenze contro i suoi dogmi, il pudore contro la sua morale. L'ira generale denunciava il sacerdote giudice confessore inquisitore funzionario e papista come un nemico del genere u- mano. Si chiedeva di vivere in una chiesa dove, ogni uomo diventato il proprio pontefice, la religione in- catenata al senso letterale della Bibbia, tutto l'an- damento divino ridotto alla stessa legalità di questo documento primitivo - l'opera arbitraria delle rivolu- zioni italiane sarebbe definitivamente abolita come una epidemia satanica, e tutta la signoria di Roma ma- ledetta come un sacrilegio commesso contro la li- bertà del Vangelo. L'Italia non era mai stata più violentemente oltraggiata : i Longobardi avevano ri- spettato la civiltà romana, i Goti di Teodorico l'ave- — 134 -- vano protetta — Lutero la fulminava; e se prima di lui si era declamato contro la nuova Babilonia, le si attribuivano adesso come delitti non solo i suoi vizi e le sue virtù ma altresì la sua grandezza e magni- ficenza. Gli Italiani difendono dunque il Papa e 1* Impe- ratore che rappresentano le loro rivoluzioni lega- lizzate, e questi si mettono sotto la protezione del- la Spagna per resistere al federalismo protestan- te dei luterani; mentre i signori rinunziano alla lega del 1484 che aveva congedato silenziosamen- te il Papa e l'Imperatore, e la nazione rinnova per un'ultima volta il patto di Carlo Magno col- la Chiesa. La restaurazione di Cario V non era una reazione: delle rivoluzioni italiane rispetta- va nitto il lavorio geografico e sociale, ben diffe- rente dalle reazioni anteriori che pretendevano farlo ren*ogradare; essa venne quindi accettata. Leone X riassume e sviluppa la grandezza dei suoi predecessori, mentre gl'increduli del suo tem- po si burlano della Chiesa e dell'Impero. — L'ar- te e la scienza trasportano nel campo ideale la rivoluzione di quell'epoca. L'Ariosto ne riBette l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso tem- po deride ed ammira il Medio Evo, dove sono ammessi all'onore dell'arte tutti i contrari della politica e della religione ^uabnente ridicoli e ve- nerabili, tutto il fantastico pagano e orientale non meno rispettabile delle favole della Chiesa — e la sua arte che rappresenta ancora oggi l'indole ita- liana è imitata da tutta la letteratura. Il Machia- velli può dirsi l'Ariosto in azione : volendo inse- — 135 — gnare le norme della politica rimane vuoto e a- sirattOy mentre fonda la teorìa che determina le leggi secondo cui si svolgono tutte le rivoluzioni possibili. Cosi nella vita è malpratico improvido senza importanza, ma la sua fama si estende len- tamente colle rivoluzioni ulteriori contro il patto di Carlo Magno colla Chiesa, man mano che l'u- manità si svincola dalle credenze soprannaturali e si basa sul razionale. XII. La nuova era politica della Rivoluzione prote- stante (1517-1648) propagata dalla Germania con- siste in un movimento che estende la fraternità umana oln*e assai la benedizione del Papa e la memoria di Roma e, conservando la distinzione dei due poteri che aveva inaugurato il regno del pensiero puro, la affida ad ogni individuo dive- nuto papa di se stesso una volta in regola colle leggi del suo stato. Essa si attua in forma oppo- sta negli stati germanici e negli stati latini: nei primi individuale legale federale distrugge il po- tere di Roma confermando quello dei prìncipi; nei secondi riforma le antiche dottrine della teo- crazia romana, opponendo alla rìvoluzione prote- stante la fraternità e la democrazia, le concentra- zioni ispaniche e le centralizzazioni francesi. In Italia produce il trìonfo degli stati ghibellini (Mi- lano Genova Firenze Napoli) sui loro opponen- ti guelfi e francesi d'alleanza, e il sacrificio dei Ghibellini nella minoranza degli stati dove i Guel- - 136 - fi devon regnare (Venezia Savoia Roma). La ri- volizione rinnova la letteratura col Tasso, il poe- ta della tenerezza che celebra la grande impresa cattolica della prima crociata; fonda la musica; e ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle teorie della fraternità in opposizione alla libertà prote- stante (1517-1573). La riforma appena vittoriosa è assalita da una reazione : cattolica e unitaria nei paesi protestanti, protestante e federale nei paesi cattolici, essa non fa che confermarla; sacrificando in Germania Wallenstein e in Francia gli Ugonotti; negli stati ghibeliini d'Italia i Guelfi francesi i Guisa i Vac- chero, e negli stati guelfi i Ghibellini spagnoli d'alleanza come i 500 cospiratori annegati da Ve- nezia. La letteratura nazionale sta per soccombe- re airinsurrezione dei dialetti; mentre che la ra- gion di stato liquida senza parere la religione e spegne il senso morale cogli scritti di mille me- diocrità misteriose; e la filosofia dà Bruno e T. Campanella : Tuno il martire del panteismo che afferma Punita della materia e la pluralità dei mondi; Taltro il rappresentante più grande dei- Tutopia politica dei popoli latini esagerante al- Tinfihito la fraternità l'unità e il despotismo, con- tro l'utopia opposta che si svolge secondo Lutero colla forza della libertà delle federazioni delle leggi (1573-1648). XIII. Il nuovo periodo storico che va dal 1648 al — «37 — 1789 e che si potrebbe definire del Despotisma illuminato è guidato dalla Francia; la quale in- segna a tutte le nazioni d'Europa l'indifferenza religiosa che secolarizza lo stato, la semplificazio- ne del governo colla distruzione dell'indipenden- za quasi feudale d'una nobiltà costretta a moder- nizzarsi, l'impostura e la libertà della ragion di stato nell'interesse delle moltitudini. Esso si at- tua in senso inverso negli stati monarchici e ne- gli stati federali colla centralizzazione o colla le- galità. In Italia la democratizzazione dell'aristo- crazia viene diffusa negli stati ghibellini dall'Im- pero d'Austria, nei guelfi dall' imitazione della Francia. I politici della ragion di stato sospendo- no le loro cicalate, i poeti dei dialetti cessano dal- le loro divagazioni, e le pompe dell'opera tradu- cono il secolo di Luigi XIV nella lingua univer- sale della musica diffusa dall'Italia a tutta l'Eu- ropa (Riv. d'Italia — Voi. Ili, pag. 575) : ... La nazione mantiene ormai la 3ua supremazia coirestatica inazione dei suoi cantanti. Non si affret- tano mai : gli eroi si precipitano al combattimento colla misura dell'andante, il nemico fugge senza po- tersi staccare dalla scena dove l'incatenano i ritomel- iì, le tenebrose sorprese si svolgono con cavatine i cui accenti riempiono le più vaste sale, si danno le pugnalate in battuta, le vittime cadono colle vibra- zioni isocrone del trillo - e nessuno s'impazienta per- chè rartista coll'arco alla mano ha abolite tutte le leggi delle verosimiglianze. Ma contro la secolarizzazione d'Europa abbia- mo l'immancabile reazione (1714-1789) guidata - 138 - dal cardinale Alberoni, che cupido di riconquista- re alla Spagna i domini di Carlo V aiuta in ogni stato i vecchi partiti per distruggere il nuovo pro- gresso. Ma il suo bieco disegno è distrutto in Francia dagli uomini della reggenza e dai filoso- fi delPenciclopedia, che diffondono in tutta l'Eu- ropa le idee del despotismo illuminato, mentre la Massoneria succede ai Gesuiti. In Italia l'Austria prende l'iniziativa delle riforme, il Regno di Na- poli diventa indipendente, il Piemonte si ricosti- tuisce e si estende ; mentre le repubbliche riman- gono indietro attardate dalla loro retrograda ari- stocrazia. — La nazione rivela la sua grandezza nella filosofia con Vico, il quale colle idee del de- spotismo illuminato mette a livello tutte le società e tutte le religioni; nella poesia con Metastasio il più tenero nemico degli dei, e con l'Alfieri il tra- gico poeta della guerra che vuole tutte le idee alla altezza dei nuovi tempi {Riv. d'Italia — Voi. Ili, pag. 595) : Deliziosamente illusa da queste cantilene rimate [di Metastasio] che svegliavano gli echi di tutti i teatri d'Europa, la folla italiana fu un giorno sor- presa e si direbbe intimorita da un nuovo spettacolo che portava la sfida alle pompe asiatiche dell'orche- stra. Senza musica, senza cori, senza strofe, senza rime, Alfieri fece salire i suoi attori su d'una scena squallida triste e nuda; e là quattro personaggi dalle figure astratte, impegnati in una azione unica stincata rapida, obbligata a giungere alla meta in ventiquat- tr'ore coli'orologio alla mano con un cadavere in terra e colla nuova moralità del vizio vittorioso e della virtù sacrificata — questi miserabili mezzi a — 139 — controsenso di tutti i pregiudizi fecero Teffetto di un drappello dì Spartani che fennassero Tannata di Ser- se. Il melodramma ne ricevette uno smacco irrepa- rabile, i suoi pomposi personaggi furono scompigliati, i loro gemiti sospirosi si fermarono subito; nessun poeta succedette a Metastasio; i maestri rimasero soli con taluni poeti pagati, con libretti insignificanti, con parole vuote di senso che si chiamano ancora in oggi le parole — e la poesia lasciò per sempre le ri- me effeminate, le pugnalate fantastiche, le virtiì ri- dicolmente languide e i cantanti castrati delle cappel- le principesche. Perchè Alfieri faceva finalmente vi- brare la corda della guerra, sconosciuta a tutti i drammaturghi dagli Arlecchini fino ai poeti cesarei. Più nuovo di Dante, più moderno di Shakespeare, e- gli inventava dei personaggi poetici per formarne dei veri; nuovo Orfeo voleva destare la libertà nazio- nale, che nella sua immobilità secolare non sapeva- si ornai come intendere. I cicisbei impallidirono, lo spasimante il patito il cavalier servente ed anche il signor marito si sentirono ridicoli, le civette si mor- sero le labbra, gli abbati si accigliarono, i patrizi dal- le code impdverate si guardarono intomo, e i capi- tani capirono che si poteva morire alla guerra. Il fuo- co sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al cospetto del governo, la tragedia penetrava nei gabi- netti, qualche volta esiliata dalle scene investiva il lettore a casa sua — e i suoi spettri inattesi gli in- timavano di spogliarsi del vecchio uomo, di levarsi, di pensare... XIV. L'ultimo perìodo storìco, non ancor chiuso quando il Ferrari scriveva, è quello della Rivolu- zione francese (1789-1858). Il suo principio con- siste nella divulgazione dei misteri del despoti- — I40 — sir.o illuminato per modo che il razionalismo libe- ro pensatore trionfi presso tutti i popoli, neiristi- mzione del codice che uguaglia politicamente tut- ti i cittadini, nell'avvento della proprietà borghe- se figlia dell'industria e del commercio. La rivo- luzione francese ricorre alla forma repubblicana antipatica alla nazione come a strumento di di- struzione, finché Napoleone trasporta nella for- ma tradizionale dell'assolutismo il contenuto nuo- vo, l'ultimo progresso; e lo diffonde con le ar- mi a nitta l'Europa dove l'esordio è quindi asso- lutistico e la conclusione libera. Cosi la Germa- nia dal despotismo della conquista napoleonica necessaria per trasmetterle la rivoluzione torna al- la sua federazione quasi repubblicana, alle specu- lazioni astratte, aUa libertà della sua arte; 1 Au- stria ritorna alla patema democrazia e alla bu- rocrazia meccanicamente esatta; l'Inghilterra ave- va già avuto nel suo territorio la esplosione che creava gH Stati Uniti anticipando le idee della ri- voluzione francese ; ma la Russia copia il progres- so francese direttamente coli' assolutismo degli Czar. L*ltalia si volge alla Francia per distruggere Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo pro- gresso ; e ad una prima tenue succede una secon- da più radicale trasformazione all'unitaria, Anche conquistati i principi nuovi ritoma con lavorio lento alla sua tradizionale federazione (1789- 1815). Al solito la rivoluzione francese è assalita da una reazione, che impone alla Francia la liber- tà costituzionale della dinastia borbonica, e vice- — 14» — versa air Europa il despotismo; ma essa si avvi- ticchia alle forme stesse della reazione per com- batterla e sconfiggerla nel 1848, in Francia colla repubblica che conduce al governo assoluto di Na- poleone III, presso i suoi avversari col ristabili- mento delle libertà costituzionali. In Italia abbia- mo pure assolutismo al rovescio della Francia; ma assolutismo che è costretto a diffondere il contenuto della rivoluzione, a far riforme ammi- nistrative, ad appellarsi alla moltitudine che ten- ta di voltare contro i liberali. Però la nazione volle scuotere questo odioso giogo dell'assoluti- smo e alla rivoluzione di febbraio corrispose l'e- splosione unitaria del Piemonte accettata per ri- formare il Papa e l'Imperatore; finché la religio- ne e la politica federalista si volsero contro Car- lo Alberto, che trasformava la guerra di libertà - in guerra di conquista interna non legittimata nemmeno dalla vittoria napoleonica, e da Villa- franca a Novara si distrusse un regno immagina- rio a profitto della federazione italiana. Ma il pro- gresso è richiesto tanto all'Austria costretta alle riforme e bilanciata dalla Francia, quanto al Pa- pato compromesso politicamente dalla doppia oc- cupazione dei due imperi rivali. Tutti i governi cedono ai principi deir89 per il rumore confuso delle nuove idee che attaccano la proprietà. E dal- la lotta fra la religione e la filosofia, fra i preti e i tribuni scaturisce il progresso; secondo che gli uni o gli altri, essendo detronizzati, trovansi nel- la necessità di proporre una più vasta democrazia per risalire al potere. 142 XV. Il sunto a bella posta diffuso che noi abbiamo steso tessendolo spesso di frasi e perìodi dell'au- tore basterà a dare un'idea adeguata della impor- tanza unica di quest'opera, in cui il Ferrarì di- spiega netta la sua incomparabile grandezza di storico. Per averne la misura paragonate la sua storia d'Italia, non dirò con uno di quei manuali in cui i fatti e i personaggi sono infilzati l'uno dietro all'altro come una corona di nocciole, ma anche coi libri di coloro che vanno per la maggio- re fra i moderni : con la voluminosa storia poli- tica d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con la sto- ria del Villari, che passa per il migliore dei no- stri storici viventi, in corso di pubblicazione a- desso presso Hoepli (1). Anche per una persona di quelle cosidette col- te che frequentano le società di lettura e fondano le università popolari la storia, secondo l'idea che ne ha portato dal liceo, è come una fantasmago- ria irragionevole, che sarebbe comica se non stil- lasse il sangue di innumerevoli vittime. II capric- cio la pazzia il caso sembrano movere questi in- numerevoli fantocci di un dramma senza processo e senza scioglimento; dove si vedono degli indi- vidui che si scannano senza ragione, delle na- zioni che si combattono senza sapere il perchè, delle invasioni barbariche piovute dal cielo, e so- pratutto una incessante lotta intema dei popoli {ì) Lf' /mvfsi'oni barba rù'hf, Milano, Hoepli, 1907; L' Ita^ Ita da Carlo Magno ad Arrigo VJJy id., 1910, — 143 — contro i governi che pare non proporsi mai uno scopo, fatta per para cattiveria. Pur troppo mol- ti manuali di storia sembrano scritti da gente che la pensa cosi! Ma anche molti degli storici più elevati, più scientifici diciamo, mancano del me- todo interpretativo in una maniera impressionan- te. La loro storia, costretta a rimanere attaccata ai personaggi ufficiali per avere almeno una u- nità apparente, è un seguito di biografie e di rac- contini legati gli uni agli altri dalla meccanica successione cronologica o da metafore vuote. A quel modo che i letterati seguaci del cosi detto metodo storico — che è per eccellenza il metodo antistorico — credevano che la critica avesse e- saurito il suo compito, una volta dimostrato che la tal canzone del Petrarca era stata scritta nella tale occasione per quel tal personaggio; cosi mol- ti storici credono ancora che il lavoro della sto- ria si limiti a mettere in sodo se un tal fatto più o meno particolare è accaduto in quel dato mo- do, se quella data istituzione politica era costitui- ta così e non altrimenti. Ma come di fronte a quei pseudo-letterati la critica afferma la necessi- tà di completare e integrare il loro lavoro da pu- ri manuali della letteratura con la ricostruzione con l'interpretazione col giudizio; cosi contro que- sta specie di positivismo storico non sarà mai ab- bastanza forte affermato che la storia non deve limitarsi alla descrizione estema dei fatti, ma li deve interpretare spiegare resuscitare, collocare in una lìnea di sviluppo per cui si veda sotto alle apparenti fermate o alle parziali decadenze lo — M4 — sviluppo continuo e progressivo della civiltil u- mana. Sta bene la ricerca del documento nuovo: noi non proclamiamo affatto inutile questo lavoro che è anzi la base necessaria su cui si deve svol- gere il lavoro veramente storico, ma affermiamo che il documento di per sé è inutile se non è u- sato, che è muto se non vien fatto parlare, che deve essere bruciato per rischiarare la storia; la quale non è soltanto, la Dio grazia, scovamen- to e pubblicazione della nota della lavandaia di Alessandro Manzoni o degli avvisi di fiere del comune di Simifonti, ma è narrazione dello svi- luppo civile dell'umanità. Non basta raccontare un fatto come è avvenuto; bisogna penetrare al di sotto della sua superficie squallida o brillante per ritrovarne l'intima ragione (1); bisogna i fat- ti singoli sgranati collegarli colKunità d'un prin- cipio che è il loro motore e la loro spiegazione; bisogna il succedersi dei diversi principi, dei di- versi sistemi sociali dimostrarlo dominato da una legge di continuo sviluppo, di progresso continuo. Or bene l'opera del Ferrari è un modello in- comparabile di storia interpretativa, di storia cioè vera. Di più, il Ferrari è uno storico completo. La (i) Cfr. T. B. Macaulay: History in Miscellaneous Wri- iififTi — Longmans, Green and Co.. London, 1906, pag. 139 : Nella invenzione sono dati i principi per tro%'are i fatti , nella storia sono dati i fatti per trovare ì principi; e lo scritto- re che non sa spiegare i fenomeni ueualmente bene come li nar- ra compie solo una metà del suo ufficio. I fatti sono semplice- cernente la scoria della storia. È dall' astratta verità che li pe- netra e sta latente fra essi come 1* oro nel minerale che la mas- sa deriva tutto il suo valore. — 145 — Storia vera è la narrazione e interpretazione di tutta l'attività umana, quindi non semplicemente della politica ma anche della artistica e della fi- losofica; perchè l'uomo è uno in nitte le sue mani- festazioni. Lo storico completo deve dunque dimo- strare come tutta l'attività umana di uno stesso pe- riodo abbia unità di caratteri, come arte e filoso- fia e politica siano tutte dominate da uno stesso principio storico; questo, come abbiam visto, il Ferrari fa; giudicando inoltre senza pregiudizi di aorta l'arte dal puro punto di vista estetico, il pensiero dal puro punto di vista filosofico. Ma la sua dote migliore è quella di essere to- talmente libero dai pregiudizi della morale miope dei buoni padri di famiglia, che vorrebbero ridur- re la storia a qualche cosa come un dramma a fine morale, con l'obbligo del n*ionfo per perso- naggi dotati di tutte le sette virtù cardinali e teo- logali. Nulla di più noioso che gli scritti di certi signori, perpetuamente scandalizzati di fronte al- la vitalità umana potente nei vizi come nelle vir- tù, perpetuamente predicanti contro le orge di Nerone o le crudeltà della Rivoluzione francese, ridotti alla disperazione di dover ricercare a forza dentro i fatti ribelli il trionfo della loro mo- ralità di scomunicare il 90% della storia. (La Chine, pag. 14) : ... Non c'è niente di meno storico che Io scopo morale perseguito sì ostinatamente da certi storici, i quali trasformano la storia in una specie di catechi- smo. Essa al contrario ammette tutti gli scioglimenti : A. Ferrari — Giuseppa Ferrari. 10 — 146 — ora tragica, ora comica, a volta indulgente e crudele, non si incarica di punire di ricompensare alcun e- roe; e domanda senza fine dei tiranni dei condottieri dei martiri degli stolti delle vittime. Perchè si vor- rebbe qui ch'essa s'inchinasse davanti a un innocente, là che s'irritasse contro un malvagio, e che si sosti- tuisse a Dio per ricompensare gli uomini secondo il loro merito; che fosse in una parola edificante per le madri di famiglia e per i bambini poppanti! Che l'arte debba essere giudicata da! puro pun- to di vista artistico, la fliosofia dal fllosoflco, si è finalmente cominciato a capire : pare che non si sia invece capito ancora che, per intendere e giudicare la storia, bisogna mettersi da un punto di vista superiore a quello della propria moralità individuale e contingente. La storia è un tessuto di azioni pratiche, che io posso quindi giudicare sia dal punto di vista eco- nomico che dal punto di vista morale ; posso cioè determinare se l'azione di quel dato individuo fu prodotta puramente da fini individuali, da Ani universali. Devo ad ogni modo ricordarmi bene che la moralità è formale, che è morale quello che l'uomo crede e sente morale; devo quindi ri- nunziare alla mia rivelazione morale — come di- rebbe il Ferrari — per rimettermi nei panni del- l'individuo che pretendo sottomettere al mio tri- bunale; e non portare le idee del secolo XX nel secolo V avanti Cristo, e non giudicare il Valen- tino coi criteri con cui si giudica un onesto im- piegato municipale padre di numerosa prole. Ma lo storico non deve limitarsi a mettere in — 147 — sodo se Gian Galeazzo Visconti tradì lo zio Bar- nabò per pura libidine di regno o per beneflcare i suoi popoli, liberandoli dall'ultimo vestigio della tirannia a nome di una più completa imparzialità ; anche nel caso del resto piuttosto raro in cui fa- zione sia determinata dal solo interesse individua- le, lo storico vero deve saperci discernere il bene, quel bene che l'individuo non cerca e non cura ma che il destino gli impone di compiere, e che solo permette alla sua azione di essere e le dà un senso. Cosi si viene veramente a dimostrare che la storia è il trionfo della moralità, che non è quella degli storici pudibondi; della moralità che non esiste senza il vizio perchè appunto è lotta contro il vizio; della moralità che si vale per i suoi fini di tutti gli istinti, di tutte le passioni, di tutte le colpe dell'uomo, condannato dal destino ad essere sempre e dovunque angelo e bruto. E veniamo ora a giudicare il valore della inter- pretazione concreta. XVI. Pensate che ai tempi del Ferrari la piti impor- tante storia d'Italia era il Sommario di C. Bal- bo (1), il quale in fondo non è molto superiore ad un manuale scolastico, come del resto ricono- sceva l'autore stesso: Finché non avremo un grande e vero corpo dì sto- ria nazionale, da cui si faccia poi con più facilità (i) Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier, iS^n, — 148 — ed esattezza uno di quei ristretti destinati ad andar per le mani di tutti, o come si dice un manuale; k> non so se mi ingannino le mie speranze di scrittore, ma tal mi pare possa esser questo (1) e dove lo sguardo dello storico è velato dal pre- giudizio deirindipendenza. Con le Révolutions d'ItaUe di E. Quinet (2) l'opera del Ferrari non ha altro serio punto di contatto che l'identità del titolo, del resto ormai classico (3). Se qualche va- ga somiglianza di concezione ci si trova (l'Italia spiega l'Europa — la sua lotta è per la libertà non per l'indipendenza — Venezia è estranea al- la vera Italia) si tratta di osservazioni ormai co- muni fra gli storici, o già anticipate dal Ferrari stesso nei suoi saggi sull'Italia anteriori al 1848 (4). Non parliamo degli storici anteriori di cui il Ferrari stesso mette in luce nella prefazione al- l'opera sua la deficenza interpretativa, per cui al- cuni volevano spiegare l'Italia col principio del- l'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello del- la Chiesa (Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ri- durla sotto la forma politica dei principati (Guic- ciardini) e altri sotto quella delle repubbliche (Si- gjmondi). Ma chi ha mai ancora oggi sessant'anni dopo vistq con tanta giustezza e profondità, giudicato da tanta altezza, narrato con tanta ala di poesia e forza di rappresentazione la storia d'Italia? (i) e. Balbo : Della storia tf Italia, — Bari, Laterza, 1913. Voi. I, pag. 6. (2) Paris, Dagnerre, 1857. (3) Cfr. Le Rri*oluziom d" Italia di C. Denina (1765). (4) Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino, Pomba 1864, pag. 88. — 149 — Chi potrebbe oppugnare la scoperta da lui fat- ta del ststema politico italiano impiantato sulla gran repubblica papato-imperiale che ha fatto del- l' Italia una nazione senza confini, perchè possa diventare U centro d'Europa che irraggia le sue continuamente nuove creazioni politiche a tutti gli stati? Solo questa idea può dominare e spie- gare coU'unità d'una legge la esuberante varietà delle forme politiche che prende lo spirito italia- no, scisso nelle due eteme antitesi dei Guelfi e dei Ghibellini. E solo quando si parta dal concet- to che gli Italiani lottano non per l'indipenden- za che sottragga la nazione al patto papaie-im- periale, ma per la libertà e per il progresso so- ciale, non per distruggere ma per riformare la repubblica dualizzata che è la loro franchigia ; di- ventano intelligibili le innumerevoli battaglie che ebbero il loro campo fra le Alpi e il mare. Non contro il Papa e l'Imperatore che proteggono la sua libertà dal pericolo d'un regno, che danno al- la nazione la gloria di essere il centro politico di tutta l'Europa, combattono i suoi Guelfi e i suoi Ghibellini per conquistare il lustro vano di una gretta indipendenza chiusa nei suoi confini; ma per riformare il Papa e l'Imperatore e costrin- gerli ad ammettere grado a grado nel loro patto il progresso sociale delle nuove forme politiche create dalla forza rivoluzionaria ddlitalia. Il po^ polo italiano è il gran protagonista che adopera i Papi e gli Imperatori, imponendo loro le parti che devono recitare sulla scena mobile ddla sto- — I50 — ria; che distrugge o chiama gii stranieri, sfrutta tutte le invasioni, maneggia Francesi e Tedeschi come strumenti per conquistare una sempre più larga democrazia. Tutta la gran guerra delle ri- voluzioni italiane si riduce, come per Vico la guer- ra intema della repubblica romana, a un con- trasto sociale del popolo con l'aristocrazia; che diventa anche contrasto di razza perchè il po- polo è italico e romano, l'aristocrazia è formata dai Goti dai Longobardi dai Franchi da tutti gli invasori e dai loro discendenti. Ltt gran guerra contro il regno barbaro estemo dei Goti e Lon- gobardi e contro il regno barbaro intemo dei Be- rengarì e degli Arduini, la rivoluzione dei vescovi contro i conti sono nello stesso tempo lotte di classe e di razza; da una parte il popolo romano, dall'altra i conquistatori barbari. E poiché i bar- bari hanno piantato piò profonde radici nelle cit- tà militari da essi colonizzate; la lotta fra le città romane e le militari si classifica pure sotto que- sta doppia antitesi; come la lotta ddle città con- tro i CMtdH, dei Cittadini coatro i Coocttttdini, dei GQdfi contro i GUbdliiii. Se non che man mano che si procede nella fusione barbarica, la lotta attenua il suo carattere di razza per accen- tuare quello di classe; già ncUt guorra cqmm 1 castelli i feudatari combtttoti daDe città altari barbare di tendenza si romanizzano facendo ami- cizia colle città romane; cosicché nell'era seguen- te noi vediamo la lotta incrociata in modo che nelle città romane i Cittadini sono romani e i Con- cittadini barbari, mentre nelle città militari è vice- — 151 — versa ; e nel periodo ancora successivo il popolo è guelfo nelle città romane e ghibellino nelle milita- ri. E siccome la vittoria è data all'elemento roma- no e all'elemento popolare insieme uniti : noi ve- diamo trionfare le grandi città dell'industria e del commercio; e il progresso della democrazia va di pari passo col risorgere dei grandi focolari del- la civiltà romana; finché colla costituzione della lega federale del 1484 il processo indigeno è com- piuto e i nuovi progressi della democrazia vengo- no dall'esterno, trasmessi a noi dal Papa e dal- l'Impero per mezzo dei Guelfi e dei Ghibellini. Chi ha mai saputo disegnare con tanta chiarezza i lineamenti della storia italiana, decomposta cosi nei suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il si- stema papaie-imperiale e la lotta non nazionale ma democratica per riformarlo non per distrug- gerlo, rimangono sempre le due idee che ci dan- no la chiave della storia nostra. Ma non meno giusta è l'interpretazione che il Ferrari ci dà dei particolari periodi storici. Alcu- ni periodi, come quelli dei vescovi, dei cittadmi e concittadini, dei tiranni sono da lui addirittu- ra scoperti; ma anche quegli altri che erano già conoscenza acquisita di qual luce non vengono da lui illuminati! Egli non usa le partizioni comuni che hanno il difetto di abbracciare troppo tempo e di sottomettere la nostra storia a un principio straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu sempre combattuto dall'espansione originaria no- stra; per es. l'enorme periodo del feudalismo che va da Carlo Magno ai Comuni è da lui decompo- — 152 — Sto nei due perìodi della lotta contro il regno bar- baro intemo e dei vescovi. Chi meglio di lui ha saputo spiegare la gran catastrofe dell* Impero ro- mano, che percuote di spavento come un mira- colo — dimostrando che fu rovesciato dai popo- li irritati dalla sua fiscalità, i quali vollero piut- tosto una invasione stabile che il continuamente rìnnovantesi disastro delle invasioni maneggiate dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la lot- ta delle investiture, condotta non dal Papa e dall'Imperatore, ma dai popoli italiani che si gio- vavano dell'uno contro l'altro per modificarli a vicenda, e costringerli a lasciar penetrare nd pat- to di Carlo Magno la gran rivoluzione della li- bera elezione dei vescovi? Chi meglio di lui ha saputo ritrovare il filo del progresso logico in mez- zo allo sconvolgimento vertiginoso della crisi mi- litare ; chi ha meglio di lui definito il periodo del- la decadenza dei signori come restaurazione pa- paie-imperiale non conquista, perchè liberamente invocata e accettata dai popoli che non si difendo- dono nemmeno con una battaglia? Nella storia moderna il Ferrari è un po' meno preciso e la interpretazione in qualche punto è ancora sogget- ta a completamento e a correzione — come egli stesso fa piti tardi, quando trasporta dalla Fran- cia all'Inghilterra il vanto di essere il centro d'ir- radiazione politica deir Europa, e anticipa il pe- riodo della Rivoluzione francese alla pace d'Aqui- sgrana (1748). — 153 — XVII. L'opera del Ferrari è in conclusione la messa in valore degli Scrìptores rerum Italicarum del Muratori, è la riabilitazione del Medio Evo; che anche oggi è comunemente considerato dalla gen- te cosi detta di cultura, la quale giudica coU'oc- chio velato dal pregiudizio classicistico del Rina- scimento, come un periodo di decadenza di bar- barie di traviamento mistico. I romantici special- mente stranieri nella loro nostalgia mistica e nel loro orgoglio nazionale furono i primi a rivendi- care il Medio Evo, però più dal punto di vista del sentimento che della ragione, finendo col consi- derarlo come un territorio di sogno dove la fan- tasia urtata dalle volgarità del presente potesse ri- coverarsi, in mezzo allo splendore magico di una società fantastica in cui un cavaliere poteva col suo valore conquistarsi un regno. Poi vennero i cattolici che lo celebrarono come la loro età dei- Toro ; il perìodo di trionfo delle loro idee; l'età in cui tutta la terra, popolata di gente che passa- va come pellegrina cogli occhi fissi al cielo, era sottoposta all'alta sovranità del Papa, che poteva imporre agli imperatori l'umiliazione di Canossa. Questa è per es. la concezione di Gioberti che, combinando col sentimento cattolico l'orgoglio na- zionale, celebrò il Papato come la ragjone della grandezza medievale d'Italia, dominante il mon- do colla religione come una volta coll'armi (I). (i) Del primato civile e moraU degli Italiani — Bniael- Us, 1843. — 154 — Adesso per converso, dove lui vedeva la luce e appunto per la stessa ragione la folla delle perso- ne colte vede le tenebre; e il Medio Evo è anco- ra per loro come un enorme deserto di schiavitù di barbarie di abiezione mistica, in cui fioriscono non si sa come le oasi dei liberi comuni a un cer- to punto distrutte dal simoun delle signmie. Nessuno ha saputo riabilitare con così alta giu- stizia il Medio Evo come il Ferrari. Esso sfata l'assurda leggenda della decadenza, dimostrando come anche nei secoli più bui il progresso sociale continui sotterraneo; come il popolo d'Italia non sia mai stato schiavo ma abbia, o accettato libe- ramente le invasioni perchè gli portavano un pro- gresso sociale, o lottato contro i conquistatori co- sì terrìbilmente da distruggerli; come egli solo protagonista oscuro e possente abbia creato e at- terrato Papi e Imperatori, invocandoli per distrug- gere il regno o combattendoli per riformarli. Non si tenti dunque di far passare per un popolo di puri mistici questo che, anche nelle epoche più teocratiche volto alla terra, si giovava della reli- gione come di un'arma spirituale più terribile del- le spade gotiche e delle aste longobarde, per raf- frenare e dominare colla magia di tma supersti- zione terribile gli enormi bestioni vellosi e trucu- lenti dei barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio dei Romani; che poi al tempo dei consoli, riget- tando l'aiuto della Chiesa ormai inutile, si vol- tava con una energia meravigliosa alle opere del- l'industria e del commercio e diventava il banchie- re dei re dell'Europa ,ritenendo la religione co- — 155 — me una tradizione da cui gli artisti potessero e- vocare un popolo di capolavori — che passò nove secoli in mezzo alle passioni forse più forti della vita, quelle della politica, colla spada alla manp. La decadenza poUtica comincia proprio nel perìo- do del Rinascimento, quando la civiltà trasporta altrove i suoi centri incendiari e V impulso vie- ne dal di fuori. Ma decadenza sociale, civile non c'è : come non c'è alia caduta dell'Impero roma- no, come non c'è all'avvento delle signorie sopra il comune: il gran processo sociale della demo- crazia aliargantesi continua, anche se non origi- nario proviene dall'Europa più avanti ormai nel- la scala storica ; questo progresso sociale della de- mocrazia si traduce in un continuo aumento di potenza dei centri romani, delle città industriali e commerciali. Non c'è salto come non c'è decaden- za, non si può quindi accettare l'interpretazione del Rinascimento come di un movimento che pren- da a rovescio il Medio Evo, di cui è invece la con- tinuità ideale; anche qui il Ferrari è confermato dai resultati ultimi dell'investigazione particolare dei nostri storici: Si vede dunque come le radici dell 'Umanesimo siano profondamente penetrate e ramiflcate nel ter- reno dell'Italia comunale; come esso sia intimamen- te moderno e nuovo, sia uno, come statua liberata dal blocco di marmo. (1) (i) G. Volpe : Bizantinismo e Rinascenza in Critica, — Bari, Laterza, 1905. Pag. 74. — 156 — XVIII. Ma il Ferrari non è solo un interpretatore ih nico, è anche un artista di primissimo ordine, che il buon Cantoni non si peritava di paragonare per la sua potenza drammatica di rappresentazione a Shakespeare : D*uno sguardo psicologico acuto e profondo, d'u- na mirabile facoltà di ridar vita movimento e colore agli uomini e ai fatti della storia; egli aveva in ciò le qualità più difficili che fanno i grandi drammatici, e avrebbe potuto forse divenire il più grande dei no- stri se un*altra tendenza più forte non lo avesse spinto alla filosofia : la tendenza cioè precocissima in lui ad ascendere ai principi assoluti, ai principi su- premi ed etemi che regolano la vita degli individui e delle nazioni (!) Le abbondanti e frequenti citazioni bastano a dare una idea della forza artistica con cui sa ca- ratterizzare uomini e cose, descrivere città, rap- presentare movimenti politici. Un periodo ampio; una vivezza calda e mossa di rappresentazione; un sottile humour tenue come il sorriso d*un uo- mo superiore che compatisce alle debolezze uma- ne, e nei tempo stesso un'accensione lirica una foga d'entusiasmo che gii fa mettere in luce la grandezza epica della storia in ogni minimo fatto; la forza dell'immagini che, atteggian- do come esseri viventi città e stati, vi si piantano nel cervello senza abbandonarvi più; formano le (:) G. Cantons: (/. Ferrar/, pag. 87. — »57 — doti di questo scrittore che avrebbe potuto anche nel campo dell'arte pura lasciare un'orma immor- tale. Con una fecondità versatilità profondità ve- ramente shakespeariana egli ha saputo creare una folla di personaggi e rappresentare una serie in- numerevole di rivolgimenti senza mai ripetersi, perchè sa colpire nella sua caratteristica la real- tà che mai si ripete. Per avere un'idea della sua forza drammatica leggete per esempio la narrazio- ne della lotta di Milano contro il vescovo papista Grossolano {Riv. d'Italia — Voi. I, pag. 395) e delle imprese di Ezelìno da Romano (Voi. II, pag. 278); per dare ancora un esempio della sua vivezza rappresentativa eccovi la descrizione di Genova che pare d'oggi (Voi. I, pag. 480) : Genova è un magnifico anfiteatro gettato fra il mare e la montagna, e tale che ì suoi abitanti non possono fare un passo senza salire sulle rupi o senza ondeggiare sull'acqua: sono montanari marittimi che riuniscono tutti gli estremi della miseria e della mu- nificenza. Nei loro viottoli stretti neri fangosi inac- cessibili alle carrozze si rizzano immensi palazzi, che disegnano le linee della loro abbagliante architettura sulle case piccole e misere che li accerchiano da ogni lato; le due riviere ci versano i loro marchesi, che vi si incontrano alla ventura colia moltitudine cen- ciosa dei marinai. Ad ogni rivoluzione la città on- deggia dall'aristocrazia alla democrazia come una go- letta di smisurata alberatura; e i suoi cronisti non possono dissimulare l'ondulazione dei consoli, specie di marea tumultuosa che monta a poco a poco fino a insabbiare il potere del vescovo. Superiore in questo al De Saiictis in cui il D'A- - 158 - nunzio poteva notare tante manchevolezze artisti- che e stilistiche da presagire a torto la sua dimen- ticanza, il Ferrari — anche dovesse la sua inter- pretazione essere dimostrata falsa da una critica superiore — rimarrebbe ancora immortale in que- sto capolavoro, che continuerebbe ad essere let- to come uno dei più bei romanzi storici d* Italia. XIX. Eppure con tanto valore artistico e storico que- sta sua opera non ebbe fortuna, nò nella prima e- dizione francese fatta per T Europa, né nella se- conda edizione italiana. Quello che è il suo pre- gio caratteristico fu appunto la causa del suo in- successo*, la concezione filosofica cosi profonda che era a base del suo lavoro di interpretazione rese quest'opera inintelligibile in un periodo di barbarie, in cui il positivismo dominante ottun- deva tutte le menti : la sua altezza cosi serena di giudizio Io fece trascurare da quegli uomini an- cor tutti accesi delle passioni politiche dal cui coz- zo usciva r Italia. Tipica a questo proposito è la recensione larghissima di G. Rosa alla edizione del 58; essa univa a qualcuna delle solite imman- cabili osservazioni di dettaglio la critica di uno che, irretito ancora nei pregiudizi comuni della nazionalità e del liberalismo astratto, pare spa- ventato che si possa refutare l'apologia dei Lon- gobardi o giustificare l'azione dei Gesuiti; seb- bene abbia una certa confusa sensazione che in ciò consiste la grandezza del Ferrari : — 159 — Per questa altezza nuova, per Tindipendenza dalle idee vecchie, per la vastità del concetto specialmente noi facciamo plauso alla storia del Ferrari. Che se non possiamo accettare tutte le di lui argomentazio- ni, se anche tutte le di lui teorie non reggeranno al- la prova della scienza storica progrediente; egli avrà prestato prezioso servigio agli studi italiani, avrà e- ducato a sollevarsi dalle angustie delle idee storiche, dalle tradizioni tiranniche dei partiti nazionali e sco- lastici. Per lui i giovani apprenderanno a contem- plare la storia da un'altezza che la ragguaglia a quel- la della civiltà, dove non giungono le ire delle pas- sioni, dove il male parziale appare coordinato a più vasto bene (1). Gli accade in piccolo e in breve come a quel Vico ch'egli venerava col nome di maestro: trop- po alto per il suo tempo non venne compreso. Anche coloro fra i moderni che citano questa sua opera, come per es. il Romano (2) o il Gianani (3), paiono non comprenderne affatto la terribile profondità il metodo l'interpretazione — e somi- gliano un po' a fanciulli che giochino colla cla- va di Ercole. Solo uno straniero, che amò e stu- diò ritalia, J. A. Sysmonds, autore di quella Renaissance in Italy non meno importante del piiji noto lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta percezione dell'importanza di questo libro. Infatti come nel- la prefazione del I voi. (L'era dei tiranni) ricor- (i) Archivio storico italiano, — Firenze, 1858. Nuova se- rie, tomo 3, pag. III. (2) Le Invasioni barbariche. — Milano, Vallardi. (3) / Comuni, — Milano, Vallardi. — i6o — dava espressamente (1), nel cap. II {La storia ita- liana) ne ripete con parole diverse e con qualche ampliamento o dilucidazione tutte le grandi idee» però da un punto di vista un pò* meno alto e non del tutto superiore ai pregiudizi del senso comu- ne, e nel seguito del volume non ne tiene molto conto. Nessuno tra gli storici moderni, tra cui ce ne sono diversi molto meritevoli per ricerche parti- colari, è riuscito a sollevarsi all'altezza del Fer- rari che rimane ancora unico solitario gigante, per darci un'interpretazione completa della storia d'I- talia. O meglio ci fu uno che tentò sebbene con for- ze inferiori : Alfredo Oriani. Solo in mezzo a u- na folla di positivisti che abbassavano arte e sto- ria alla portata dei loro intelletti piccini, Oriani ben comprese — e l'aveva appreso in gran par- te dal Ferrari — come la storia sia interpretazio- ne, spiegazione, visione dall'alto, resurrezione se- condo la parola di Michelet (2). Non c'è bisogno di abbassare l 'Oriani per innalzare il Ferrari : la condotta poco delicata di quello verso quest'ulti- mo, rammentato con citazioni che nascondono più che rivelare la derivazione, non deve indurci a negare il valore storico all'autore della Lotta pò- (i) J. A. Sysmonds: // Rinascinunto in Italia; Cera dei tiranni (vcrs. it,). — Torino, Roux e Viarciigo, 1900, pag. XX: Debbo anche manife&tare speciale gratitudine al Ferrari, del quale ho fatto miei non pochi {^iudirj nel capitolo sulla storia italiana scrìtto per la seconda edizione di questo volume, (2) A. Oriani: Fino a Dogali, - Bologna, Gherardi, 19 1 2 — Pag. 168. — i6i — litica. Esso fu il solo degno continuatore di Fer- rari; continuatore in quanto non propriamente storico del Medio Evo — i libri I e II della Lotta politica come è stato dimostrato (1) non sono al- tro se non un riassunto spesso colle stesse parole dal suo gran predecessore — ma storico del Ri- sorgimento italiano. Ad ogni modo, per quanto sia runico che possa tentare la prova del parago- ne, Oriani soccombe; come storico per l'inegua- glianza deirinterpretazione ora indovinata ora su- perficiale, come artista per la non rada enfatica esagerazione romagnola inferiore alla potente pre- cisione lombarda. Oriani si trova inoltre in una posizione sentimentale un po' meno adatta che non quella del Ferrari. In questo il senso del su- blime storico e l'entusiasmo di fronte alla gran- dezza va accompagnato a una calma serena, a una specie di fine bonario umorismo che sa tro- vare l'uomo magari contro il suo volere benefi- co anche sotto i cenci del mascalzone. Oriani ha della storia solo il senso tragico; brontola un po' troppo; troppo spesso va in collera col passato; non sa mantenersi cabno davanti agli errori dei suoi personaggi, errori spesso imposti dalla storia che qualche volta egli vorrebbe correggere. Que- sti difetti sono più sensibili nei due primi libri per mancanza di quella conoscenza diretta che è necessaria alla storia. Dopo si va avanti meglio, ma anche qui c'è da notare un po' di semplici- smo e astrattismo, più nelle forme che nel con- ci) l. Ambrosini : La lotta politica di A, Oriani nella Voce, 1908, Num. 17, 18, 19. A. Prrrari — Oimeppe Ferrari, 11 — 102 ^ cetto. Per es. egli dà come ragione dello scacco delta rivoluzione del 48 la sua forma federale, mentre poi nell'esposizione fa vedere come fu l'e- quivoco del popolo e il tradimento dei prìncipi. Ragionando a questa maniera vedrebbe più giu- sto il Ferrari che pensa precisamente l'opposto. Certo qualche po' delle lodi che danno all'Òrìani storico i crìdci moderni, il Croce (1) e il Borgfte- ^ se (2), spetta di diritto al Ferrari, di cui sono tre fra le immagini che quello cita per dare un esem- pio della forza rappresentativa del suo autore (Venezia — I Condottieri — Silvio Pellico). Concludiamo. Sare6be un'impossibile pretesa l'affermare che l'opera del Ferrari sia definitiva, perchè nulla c'è al mondo di definitivo, né la vi- ta né la filosofia né l'interpretazione storica. Ma come una filosofia è viva finché non è sorpassata e inverata, così una storia. Orbene — prima di buttare il libro del Ferrari fra le anticaglie — bi- sogna averlo sorpassato, e finora nessuno non so- lo non Tha superato ma non si è nemmeno solle- vato al suo livello. Noi consigliamo quindi a stu- diarlo: primo per imparare il metodo di Inter* pretare la storia ; secondo per meditare la sua in- terpretazione concreta, anche oggi tanto vera che 1 moderni studi particolari la confermano invece di distruggerla. E non solo in Italia, ma in tutta l'Europa il Ferrari merita un posto a parte su* periore ai più famosi : al Macaulay al Mommsen al Taine, per la stessa ragione che rende il De (ì) La Critica^ genn. i<)og. (2) La vita e il libro. Parte I. — Torino, Bocca* 1911. - 163 — Sanctis superiore a tutti i critici della letteratura^ per il senso filosofico che gli diresse la potenza interpretativa a risultati così grandi. Per racchiu- dere in una frase il resultato di queste mie osser- vazioni, Ferrari è il De Sanctis della storia poli- tica, lo storico dell'Italia medievale. Noi non esi- tiamo a considerarlo come il più gran rappresen- tante della storiografia romantica (1), sorpassato nelle sue fisime di filosofo della storia, ma ancor degno come storico concreto di essere il gran maestro della nostra generazione.
Thursday, March 31, 2022
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