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Wednesday, October 20, 2021

GRICE ITALICVS VI/X

 

 

 

Alberto Caracciolo. Keywords: in cammino verso il linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.

 

Caramella (Genova). Filosofo. Grice:”I like Caramella – like me, he is into the metaphysics of conversation! And he reminds me that I should re-read Vico!” --  Grice: “I like Caramella; he prefaced Fichte’s influential tract on ‘la filosofia della massoneria’ – but also wrote on more orthodox subjects like Kant, Cartesio, Bergson, and most of them!” – Grice: “Like me, he thought truth is found in conversation!” Ancora al liceo, comincia a collaborare con Gobetti, il quale gli affida la trattazione della filosofia su “Energie Nove”.  Dopo un primo contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di questi, entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista  Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta, docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia.  La sua vasta cultura, gli permise di vedere la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta funzione teoretica.  Altre opere: “Problemi e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania); Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei, M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce. Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica vichiana" di Caramella, in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di Caramella.Lo spirito nella filosofia di Caramella.Caramella. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 S. Caramella , La cultura ligure nell’alto Medioevo, in II Comune di Genova,  La recente V ita d i G io rd a n o Bruno, con documenti e ined i t i 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce l’opp o r tu n ità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella n o s tra regione, così sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce come su quella delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione dei fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte pagine dello Spampanato, nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti rispetti. Arrivò il Bruno in Genova poco prima della domenica delle Palme, nel 1576: anno in cui la festa cadeva il 15 aprile? Cont raria m en te al parere del Berti, il quale sostiene non essere capace di prova che il filosofo sia entrato nella nostra città, dobb iam o infatti tener presente una scena del Candelaio dove tino dei protagonisti giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda dell’asino, che adorano i Genoesi’3 », e il passo correlativo dello S p a c c io d e lla B e stia trio n fa n te , che dice proprio così : « Ho visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di p o rt ar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita aeternam p o s s id e b itis 4 ». I « religiosi di Castello» sono, è evidente, i Domenicani di Santa Maria di Castello, dove uffiziavano fin dal secolo X V 5 : e la preziosa reliquia doveva certo esser mostrata 1 Messina, Principato, 1921-22. Vedi, per l’argomento di questa com unicazione, a pp. 269-273. 3 Torino, Paravia, 18691; 18892. 3 ed. Spampanato (Bari, Laterza), pag. 29. 4 ed. Gentile (D ial. m orali di G. B., ivi, 1608), pp. 185-186. Q u e t if e t E c h a r d , S c rip t. ord. praed., t. il, p. in. Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - 2012 GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 49 al p opolo nella precisa circostanza della c o m m e m o r a z io n e del giorno in cui Gesù discese trionfante su ll’asina a G e r u s a l e m m e 1. Il Bruno veniva da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a avu to notizia che il processo istruttorio p endente presso l’ in q u isiz io n e, per i sospetti di erodossia avanzati contro di lui, n o n a n n u n ­ ziava buon esito: e così, deposto l’ abito, si diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò egli stesso, ai giu d ici di V enezia, di essere andato subito a N oli. Ma è prob abile c h e la peste, da cui quella plaga fu proprio in quel torno di rem po violentemente aiflitta, lo abbia genericam ente con sigliato a v o lgersi verto la Liguria, contrada m eno infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a fermarsi alm eno qualche g io r n o a G e ­ nova. Le sarcastiche espressioni dello Spaccio ci fanno im m aginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della vetusta ch iesa romanica, pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla caratteristica facciata o per gli ornamenti molteplici dell’ interno, eh’ è tutto un m usaico di con q uiste orientali, - e tan to m e n o di interesse psicologico e religioso per la folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di cruccio e di sd eg n o : lui da p o c o a ccostatosi alle nuove idee dei riformatori oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di patria e dall’ am ato co n v e n to napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli allievi p endevano dalla sua parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito, anche a G e n o v a ; a Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già n o ­ tizia tre giorni dapo il 15 aprile, il m ercoled ì s a n t o 2. E allora il Bruno, com e ci attestano, questa volta, più veracem ente, le sue note dichiarazioni ai giudici veneti, se ne a n d ò a N oli. Forse il ricordo dantesco, che per lui u m anista p oteva con tar qualche cosa, e la simiglianza del nom e con quello della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola repubblica, e anche, chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche c o n ­ siglio di amico lo spinsero in quel tranquillo rifugio, l’ u n ic o veramente tranquillo per lui nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a Noli, territorio g e n o e se , d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la gram m atica a’ putti ». « Io 1 P e r la s t o r i a d ella re liq u ia v. Im b r ia n i, N a ta n a r II in P ropu ­ gnatore, Vili, 1 (1875), p. 190-91. 3 M u tin e lli, Storia arcana ed aneddotica d’Italia, vol. 1, lib. li, pp. 306-307, Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - 2012 50 stetti in Noli.... circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica a’ figliuoli e leggendo la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spam panato, per ragioni di coerenza con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia durato un po’ più di quattro mesi; e cioè dalla fine d ’ aprile 1576 ai primi del 1577. C o m u n q u e, le occupazioni del Nolano a Noli sono ben chiare: l’ esule cercava di trar qualche mezzo di vita con lezioncine private. Ma anche « leggeva la Sfera a certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di Dante: che si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una teoria fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ ipotesi copernicana aveva, nella seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era d u n q u e penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici ; perfino a Noli alcuni giovani signori sentivano il b i s o g n o di stipendiare un povero erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del mondo. E il Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini che fur o n o oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che formano l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te sapere (a meno che venissero fuori i quaderni di q u e s t e sue legioni liguri) s’ egli già a Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi della Sfera per criticare il sistema tolem aico: o invece, come il Galilei ne’ suoi corsi allo Studio di Padova, si limitasse all’illustrazione del classico libretto. Un sacerdote napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis, che p otè consultare gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia del B ru no3 che a questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il quarto dopo i primi due di Napoli 1 D occ. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO, p. 6Ç8). 2 Vedi A. P e l l i z z a r i , Il quadrivio nel Rinascimento (Genova, Perrella, 1924). 3 G . Bruno (Napoli, 1889), p. 12-13. Ma cfr. L. A mabile, in A tti A cc. S cienze mor. e politiche di Napoli, vol. xxiv, pp. 468-469 n.; e s p a m p a n a t o , op. cit.., p. 273 n. (e anche T occo in Arch. fiir Gesch. d e r P h ilo s., IV, 1891, pp. 346-50; B onghi, ne La Cultura, Γ-15 ott. 1889, pp. 585-86; G en til e , G. Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze, Vallecchi 1920, pp. 63-64. Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - 2012 GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 51 e il terzo di Roma) « dalla Inquisizione dello Repubblica g e n o ­ vese»: ma dell’asserzione importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De Martinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di perseguirvelo), ma solo vi passò nel 1577. « Eppoi me partii de là [da Noli] ed andai prima a Savona, dove stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il P o 1 ». Da Venezia, di lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo, Milano. Qui rivestì l’ abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso, Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in Francia, oltre monti, lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. T r o ­ verà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la queta pace di Noli, mai più. ____________ S antino C aramella 1 Docc. veti., c. 8La Logica di Porto Reale. Con Prefazione del Prof. Santino ... Storia del pensiero e del gusto letterario in Italia ad uso dei licei.  La scuola di mistica fascista e la discoperta del vero Vico L'azione combinata della storiografia al bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del conformismo teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo, che fu lanciata dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella scuola milanese di mistica fascista. In tal modo la memoria storica degli italiani è stata privata della nozione necessaria a contrastare seriamente l'ideologia totalitaria e ad avviare gli studi filosofici su un cammino di ricerca opposto a quello tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo. Un percorso, quella anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo capo ad un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana - di segno contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Ruggero Zangrandi) degli intellettuali fascisti nel partito di Palmiro Togliatti. L'accertata esistenza di una forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice hegeliana, comunque, fa crollare i due pilastri della mistificazione comunista: la leggenda della complicità cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente in Germania - leggenda sintetizzata dal calunnioso slogan «Pio XII papa di Hitler» - e la rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un coacervo nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito staliniano.    La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo rivela, invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del pensiero cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano aderito al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria italiana. Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella prima fase della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista sembrava avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe sottoscritto l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani, causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di pensiero: una corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla tradizione cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Nino Tripodi (1911 - 1988), giovane interprete delle novità introdotte nella scuola milanese di mistica fascista dal cardinale Ildefonso Schuster e dal fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Agostino Gemelli (confronta «Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Cedam, 1941). Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un audace confronto tra lo storicismo cristiano di Giambattista Vico e la dottrina politica di Benito Mussolini.    L'affinità del fascismo e della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune tendenza a riconoscere che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che razionalmente pone un principio, ma la storia delle attività di tutti gli uomini che si svolgono come debbono svolgersi perché provvidenzialmente si compia la socialità che ad esse è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su Vico poiché «fu perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e quella delle creature, tra l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle cose create, come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se ricercata nel mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella quale la Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della divinità». Pubblicato nel 1941 e presto rimosso dalla censura di sinistra e dall'indifferenza di destra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Emilio Chiocchetti, Giorgio Del Vecchio, Francesco Amerio, Agostino Gemelli, Francesco Olgiati, Santino Caramella, Francesco Orestano, Armando Carlini e Balbino Giuliano) che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su Vico precursore dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per quanto concerne l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano, riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di sfondare quella parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa».    Di qui il ribaltamento della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di Vico quale orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in nome della genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo all'idealismo. Né Gentile, né Croce, anche se il primo ha la camicia nera e cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi indica in Vico l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua filosofia impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine, costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana, inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale definita dal pensiero che l'aveva posta. … La coscienza delle proprie virtù creatrici della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina provvidenza».    L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle chimere del razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e dell'amor fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle penetranti tesi formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema della strategia culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori dell'avanguardia cattolica (Giorgio Del Vecchio, Nicola Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Augusto Del Noce, Francisco Elias de Tejada, Rocco Montano, Francesco Grisi, Giovanni Torti) che nella filosofia di Vico vedranno lo strumento adatto a contrastare e battere i poteri dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto, nella parodia inscenata dal gramscismo. La posta in gioco era la corretta impostazione della dottrina del diritto naturale, in ultima analisi la soluzione del problema riguardante il rapporto tra la giustizia ideale e le cangianti leggi che i popoli producono nel corso della loro storia. Dagli scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse una indicazione che gli permise di risolvere il problema senza nulla concedere alle dottrine storicistiche contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve nel tempo: «esiste non una separazione ma una diversa gradazione d'intensità etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che è patrimonio universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato dall'insieme delle norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel suo progressivo avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie utilitaristiche, che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni umane.    Nella definizione del comune fondamento della teoria dello Stato, Tripodi sostiene, pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di Mussolini la Provvidenza fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico: «la provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della socialità che perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per cui vorrebbero tutto l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi conclude il suo ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel quale relativamente alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana e quella fascista» è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale: «l'uomo trova nello Stato l'organizzazione storica che gli consente di realizzare quei principi morali conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere alla sua stessa funzione trascendente di uomo». E' evidente che l'identificazione della dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione sulla necessità, imposta dai dubbi destati dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere con la cultura prevalente in Germania e di condurre all'approdo cattolico le vere ragioni dell'ideologia fascista.    E' però incontestabile che le tesi di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia tedesca aveva acceso sulla cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE (Giorgio Del Vecchio, Carlo Costamagna, Carmelo Ottaviano, Ernesto De Marzio, Vanni Teodorani, Giovanni Volpe, Gino Sottochiesa, Giuseppe Tricoli, Primo Siena, Dino Grammatico, Gaetano Rasi) l'istituto che progettava la trasformazione del MSI di Arturo Michelini in avanguardia di una moderna e rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata da Pio XII all'evoluzione del MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano le porte del futuro alla destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a Genova nel luglio del 1960, doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea culturale e politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo, la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche tesi di Fiuggi.  Nato a Genova il 22 giugno 1902 da Eleucadio e da Francesca Delfò, segui gli studi classici nella città natale. Ancora liceale, nel maggio del 1919, cominciò a collaborare a Energie nuove di P. Gobetti, con il quale aveva preso contatto epistolare fin dal 17 dic. 1918, dicendosi lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina filosofica crociana. Il Gobetti, ormai orientato verso interessi più specificamente politici, affidò al giovane C. la trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Dal luglio 1921, su segnalazione del Gobetti, Giuseppe Lombardo Radice cominciò ad accogliere i suoi scritti su L'Educazione nazionale.  In linea con l'orientamento pedagogico idealistico del Lombardo Radice, fin dall'inizio degli anni Venti il C. prese le distanze dal positivismo pedagogico con un contributo (Studi sul positivismo pedagogico, Firenze 1921), nato proprio da un suggerimento del pedagogista siciliano che nel dicembre 1919 glielo aveva proposto come tema di studio.  È qui osteggiato un pensiero ispirato agli schemi dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in particolare e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo (Spencer e Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione di un Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le critiche del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare nuove indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita umana, sociale e pratica.  Nello stesso orizzonte critico degli Studi si muovono Le scuole di Lenin (Firenze 1921), La pedagogia di Vincenzo Gioberti (ibid. 1922) e la Guida bibliografica della pedagogia, specialmente italiana e recente (ibid. 1923), che faceva seguito alla Bibliografia ragionata della pedagogia (Milano 1921) scritta in collaborazione con il Lombardo Radice.  Nutrito di idee democratiche, che gli facevano ritenere inadeguato per l'obiettivo della costruzione di una "nuova Italia" il vecchio quadro politico postunitario, il C. si impegnò politicamente partecipando alla costituzione a Genova di un gruppo democratico di sinistra, che aveva tra i leader Arturo Codignola. Dal 1920 collaborò sia all'Arduo, sia al quotidiano socialriformista Il Lavoro.  In particolare, tipico dei gruppo di pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione come strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui, anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del partito (pp. 106- 110).  Conseguita la laurea in filosofia nel 1923, nel 1924 il C. ottenne presso l'università di Genova la libera docenza in storia della filosofia e vinse il concorso per le grandi sedi per la cattedra di filosofia, pedagogia ed economia negli istituti magistrali, ottenendo come sede Genova. Frattanto la collaborazione con il Gobetti, che più che un sodalizio intellettuale aveva costituito un formativo comune impegno politico-sociale all'insegna del programma di democrazia liberale, lo portò in breve tempo allo scontro con il fascismo ormai trionfante. Dell'ottobre 1925 è la diffida dei prefetto di Torino contro la Rivoluzione liberale (alla quale il C. collaborava dal febbraio 1922) e i suoi redattori. La conferma di questo impegno politico e intellettuale, il C. la offrì ulteriormente curando la pubblicazione postuma di Risorgimento senza eroi (Torino 1926) del Gobetti e continuando a far uscire IlBaretti fino al 1928, pur orientando la rivista sempre più verso temi letterari e filosofici onde evitare scontri ancora più aspri con il regime. Nel 1926, grazie al Croce, che ormai era divenuto per lui - come per tanti altri antifascisti - "maestro di libertà", assunse la direzione della collana "Scrittori d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno fu costretto a rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui era stato invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di regime.  Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto il 21 apr. 1928; rinchiuso prima nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi trasferito a S. Vittore a Milano, fu scarcerato il 6 luglio dello stesso anno. Il 16 genn. 1929 venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le accuse - come si legge in una lettera al Croce del 5 febbr. 1929 (in Il Dialogo, 1980) - erano tra l'altro di aver collaborato "al giornale socialistoide-democratico Il Lavoro" di Genova e di aver avuto rapporti con l'associazione antifascista Giovane Italia, insomma di essere "in una condizione di incompatibilità con le direttive generali del governo". Scagionato anche grazie all'intervento del Croce, il C. fu riammesso all'insegnamento il 9 aprile e la libera docenza gli fu restituita con d. m. del 21 giugno 1929. Venne però destinato all'istituto magistrale di Messina, dove prese servizio dal 16 settembre.  Dall'ottobre di quell'anno ottenne l'incarico di filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso il magistero dell'università di Messina. Mantenne questi incarichi finché, nel 1933, vincitore di più concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia nell'università di Catania. Nel 1935 passò alla cattedra di filosofia teoretica (che terrà fino al 1950), conseguendo nel 1936 l'ordinariato.  Furono questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo di base, si intravvede in Religione, teosofia, filosofia (Messina 1931) e in Senso comune. Teoria e pratica (Bari 1933) lo sforzo di plasmare un proprio e originale impianto teoretico.  In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo tedesco e italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei distinti. L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello Spirito. Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo tentativo compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta emergere l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla concretezza dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale assunto, nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione di storia del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del pensiero occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella filosofia greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi nel pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia, la stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C. medianamente tra il Croce e il Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura indipendenza dal loro pensiero. La sua posizione teoretica può essere così schematizzata: la teoresi è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica dei distinti, mentre la prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi dei distinti non è un tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro stessa inscindibile relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà in Ideologia (Catania 1942), di guardare alla pratica come alla realizzazione della teoria, così che si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di un finalismo pratico della teoria.  All'approfondimento critico dei neoidealismo italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra ricerca filosofica e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra filosofia, scienza e fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia (Catania 1942), Metalogica: filosofia dell'esperienza (ibid. 1945), Metafisica vichiana (Palermo 1961), in cui è auspicata la possibilità della sopravvivenza del problema metafisico nell'orizzonte di una metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica (ibid. 1966).  In quest'ultima opera è affrontato il rapporto verità-conoscere, con l'intento di delimitare i confini del sapere scientifico e di affermare razionalmente la capacità di intelligere la realtà della rivelazione. Qui la religione, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione della religione ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferita una distinta funzione teoretica. La piena adesione del C. allo spiritualismo cristiano, dunque, fa si che sia elusa la riduzione della filosofia a metodologia, senza dover rinunciare alla fondamentale esigenza di criticità, e che l'interesse si concentri su quelle istanze spiritualistiche, invero in lui presenti dagli anni giovanili sia come atteggiamento di vita - lo si evince dalle Lettere dal carcere del 1928 - sia come ricerca originale di pensiero. In tal senso, l'adesione allo spiritualismo cristiano va dunque letta più nella prospettiva della continuità, dinamica e perciò trasformantesi e trasformante, che in quella della svolta.  Durante la sua lunga e proficua attività accademica, il C. ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside della facoltà di lettere e filosofia dell'università di Catania (1943-45); fu presidente di sezione del British Council di Catania (1944-50) e presidente di sezione della Società filosofica italiana a Catania (1947-50) e a Palermo (1951-72); fu anche presidente di sezione dell'Associazione pedagogica italiana. A Palermo si era stabilito definitivamente allorché venne chiamato prima alla cattedra di pedagogia (1950-52) e poi a quella di filosofia teoretica (1952-72) presso la facoltà di lettere e filosofia.  Il C. morì a Palermo il 26 genn. 1972.  Opere: Per un elenco completo si rinvia a Bibliografia degli scritti di S. C., a cura di T. Caramella, in Miscellanea di studi filosofici in memoria di S. C. (suppl. n. 7 degli Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo), Palermo 1974, pp. 371-414. Oltre alle opere citate ci limitiamo a ricordare qui: E. Bergson, Milano 1925; Antologia vichiana, Messina 1930; Breve storia della pedagogia, ibid. 1932; La filosofia di Plotino e il neoplatonismo, Catania 1940; Autocritica, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di M. F. Sciacca, Milano 1946, pp. 225-233; L'Enciclopedia di Hegel, Padova 1947; La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli 1947; Introduzione a Kant, Palermo 1956; La pedagogia tedesca in Italia, Roma 1964; Pedagogia. Saggio di voci nuove, ibid. 1967.  Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 1061, fasc. 21865. Per l'epistolario del C. contributi in: Lettere dal carcere di S. C., in Giornale di metafisica, XXX (1975), pp. 26-38; Carteggio con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, XVI (1980), pp.63-I16; Carteggio Lombardo Radice-S. C., a cura di T. Caramella, Genova 1983. Vedi inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di S. C., in Annali della facoltà di magistero della università di Palermo, 1971-72, pp. 5-15; P. Di Vona, Religione e filosofia nel pensiero giovanile di S. C., ibid., pp. 16-33; F. Conigliaro, Verità e dialogo nel pensiero di S. C., in Il Dialogo, VIII (1972), pp. 56-65; A. Guzzo, S. C., in Filosofia, XXIII (1972), pp. 165-167; M. F. Sciacca, Il pensiero di S. C., in Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, XXXII (1971 -73), n. 2, pp. 11-24; A. Sofia, Il dialogo di S. C. con gli uomini d'oggi, in Labor, XIV (1973), pp. 81-93; F. Cafaro, Commemoraz. di S. C., in Nuova Riv. pedagogica, XXIII (1973), pp. 17-26; P. Piovani, La dialettica del vero e del certo nella "metafisica vichiana" di S. C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di S. C., Palermo 1974, pp. 251 -262; M. Ganci, S. C., ibid., pp. 361-366; M. A. Raschini, Commemoraz. del prof. S. C., in Giornale di metafisica, XXIX (1974), pp. 465-472; F. Brancato, S. C.: senso fine e significato della storia, Trapani 1974; V. Mathieu, Filosofia contemporanea, Firenze 1978, pp. 8-10; P. Prini, La ontologia storico-dialettica di S. C., in Theorein, VIII (1979), pp. I-II; L. Pareyson, Inizi e caratteri del pensiero di S. C., in Giornale di metafisica, n. s., I (1979), pp. 305-330; M. Corselli, La vita dello spirito nella filosofia di S. C., in Labor, XXI (1980), pp. 157163; M. A. Raschini, Storiografia e metafisica nella interpretazione vichiana di S. C., in Filosofia oggi, V (1982), pp. 267-278; M. Corselli, La figura di S. C. nel periodo giovanile (1915-1921), in Labor, XXV (1984), pp. 71-79; G. M. Sciacca, S. C. filosofo, pedagogista, educatore, in Pegaso. Annali della facoltà di magistero della università di Palermo, 1983-84, pp. 9-22.

 

 

Santino Caramella. Keywords: “la verita in dialogo”, soggetto, intersoggetivita, lo spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramella” – The Swimming-Pool Library.

 

Caramello (Torino). Grice: “I love Caramello – he exemplifies all that I say about latitudinal and longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and Caramello has dedicated his life to him!”  Studia al prestigioso liceo classico Gioberti di Torino, entra in seminario e nel 1926 riceve l'ordinazione presbiteriale con una speciale dispensa papale dovuta alla giovane età a cui aveva completato gli studi. Si laurea a Torino. Insegna a Torino, e Chieri. Studia e cura Aquino. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur.  Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum.  Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.  His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.  Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis.  Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera.  Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae.  Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum significationem exponere.  Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno.  Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.  Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.  Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud omnes.  Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione.  Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.  Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.  Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus.  Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso.  Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima.  Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem.  Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.  Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.  Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis.  Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum.  Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.  Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter.  Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum.  Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio, licet non explicita.  Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Postquam philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.  Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat.  Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox significativa.  Sed cum vox sit quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas artificiales in abstracto.  Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.  Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi.  Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus.  Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit , manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae.  Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet.  Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter.  Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.  Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.  Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.  Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem.  Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera.  Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat.  Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari.  Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati.  Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.  Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum.  Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo.  Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto.  Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.  Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis.  Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum.  Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid.  Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens.  Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.  Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit.  Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem.  Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse.  Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis.  Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum.  Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum.  Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio.  Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae.  Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.  Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.  Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter.  Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.  Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.  Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est.  Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum.  Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam.  Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera.  Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam.  Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.  Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae.  Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium.  Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est.  Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.  Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa.  Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter.  Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis.  Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.  Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit.  Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans.  Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.  Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum.  Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti.  Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus.  Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera.  Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa.  Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam.  Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera.  Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto.  Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem.  Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.  De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis.  Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.  Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera.  Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem.  Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae.  Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici.  Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum.  Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal.  Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali.  Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.  Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera.  Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa.  Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae.  Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa.  Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria.  Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.  Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus.  In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur.  Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.  Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera.  Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis.  Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio.  [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus.  [80426] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria.  Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi.  Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen.  Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.  Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est.  Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis.  Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa.  Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur.  Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur.  Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte.  Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit.  Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.  Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis.  Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt.  Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.  Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant.  Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.  Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus.  Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.  Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo.  Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt.  Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio.  Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est.  Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur.  Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.  Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant.  Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.   Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.  Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant.  Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae.  Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.  Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera.  Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.  Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.  Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa.  Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera.  Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum.  Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum.  Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.  Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens.  Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres.  Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis.  Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.  Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur.  Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit.  [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae.  His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.  Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.  Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.  Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.  Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Pietro Caramello. Keywords: peryermeneias Aquino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramello” – The Swimming-Pool Library.

 

Carando (Pettinengo). Filosofo. Grice: “I like Carando; a typical Italian philosopher, got his ‘laurea,’ and attends literary salons! – There is a street named after him – whereas at Oxford the most we have is a “Logic lane!” --  Ennio Carando (Pettinengo), filosofo. Studia a Torino. Si avvicina all'anti-fascismo attraverso l'influenza di Juvalta (con cui discusse la tesi di laurea) e di Martinetti. Collaborò alla Rivista di filosofia di Martinetti, dove pubblicò un saggio su Spir. Insegna a Cuneo, Modena, Savona, La Spezia. Sebbene fosse quasi completamente cieco dopo l'armistizio si diede ad organizzare formazioni partigiane in Liguria e in Piemonte (fu anche presidente del secondo CLN spezzino). Era ispettore del Raggruppamento Divisioni Garibaldi nel Cuneese, quando fu catturato in seguito ad una delazione.  Sottoposto a torture atroci, non tradì i compagni di lotta e fu trucidato con il fratello Ettore, capitano di artiglieria a cavallo in servizio permanente effetivo e capo di stato maggiore della I Divisione Garibaldi. Un filosofo socratico. La metafisica civile di un filosofo socratico. Partigiano. Dopo l'armistizio Ennio Carando, che insegnava a La Spezia presso il Liceo Classico Costa, entrò attivamente nella lotta di liberazione organizzando formazioni partigiane in Liguria e in Piemonte. A chi gli chiedeva di non avventurarsi in quella decisione così pericolosa rispondeva fermamente: "Molti dei miei allievi sono caduti: un giorno i loro genitori potrebbero rimproverarmi di non aver avuto il loro stesso coraggio". Ennio Carando. Keywords: filosofo socratico, Socrate, Alcibiade. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carando” – The Swimming-Pool Library.

 

Carapelle (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Carcano; I cannot say he is an ultra-original philosopher, but I may – My favourite is actually a tract on him, on ‘meta-philosophy,’ or rather ‘language and metaphilosophy,’ which is what I’m all about! How philosophers misuse ‘believe,’ say – but Carcano has also philosophised on issues that seem very strange to Italians, like ‘logica e analisi,’ ‘semantica’ and ‘filosofia del linguaggio’ – brilliantly!” Quarto Duca di Montaltino, Nobile dei Marchesi di Carapelle. Noto per i suoi studi di fenomenologia, semantica, filosofia del linguaggio e più in generale di filosofia analitica. Studia a Napoli, durante i quali si formò alla scuola di Aliotta e si dedica allo studio delle scienze. Studia a Napoli e Roma. Sulla scia teoretica del suo tutore volle approfondire le problematiche poste dalla filosofia e riesaminare attentamente il linguaggio in uso. La sua tesi centrale è che correnti come il pragmatismo, il positivismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo e la psicoanalisi, fossero il portato dell'esigenza teoretica di una maggiore chiarezza – la chiarezza non e sufficiente -- delle varie questioni che emergevano da una crisi culturale, vitale ed esistenziale. Al centro di tale crisi giganteggia la polemica fra senza senso metafisico e senso anti-metafisica, soprattutto a causa del vigore critico del positivismo logico, contro il quale a sua volta lui -- che ritiene necessaria una sostanziale alleanza o quantomeno un aperto dialogo fra la metafisica e la scienza -- pone diversi rilievi critici, principale dei quali è quello di minare alla base l'unità dell'esperienza, alla Oakeshott -- che senza una cornice o una struttura metafisica in cui inserirsi rimarrebbe indefinitamente frammentata in percezioni fra loro irrelate. A questo inconveniente si può rimediare temperando il positivismo con lo sperimentalismo, ovvero accompagnando alla piena accettazione del metodo una piena apertura all’esperienza così come “esperienza” è stata intesa, ad esempio, nella fenomenologia intenzionalista intersoggetiva di Husserl. In questo senso si può procedere a mantenere una costante tensione sui problemi posti dalla filosofia, in opposizione a ogni dogma di sistema, e al contempo non cadere nell'angoscia a cui conduce lo scetticismo radicale che tutto rifiuta, compresa l'esperienza. Non si tratterebbe dunque per la filosofia di definire verità immutabili ma di sincronizzarsi col ritmo del metodo basato sull’esperienza fenomenologico, sussumendo i risultati sperimentali e integrandoli nel continuum di una struttura metafisica mediante il ponte dell'esperienza. Altre opere: “Filosofia e civiltà” (Perrella, Roma); Filosofia (Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma); Il problema filosofico. Fratelli Bocca, Roma); La semantica, Fratelli Bocca, Roma – cf. Grice, “Semantics and Metaphysics”) Metodologia filosofica, una rivoluzione filosofica minore. Libreria scientifica editrice, Napoli 1958. Esistenza ed alienazione” (CEDAM, Padova); Scienza unificata, Unita della scienza (Sansoni, Firenze); Analisi e forma logica (CEDAM, Padova); Il concetto di informativita, CEDAM, Padova); La filosofia linguistica, Bulzoni Editore, Roma. Dizionario biografico degli italiani, Roma. Ben altrimenti articolato e puntuale ci sembra l'intervento operato sulla fenomenologia da Paolo Filiasi Carcano di Montaltino de Carapelle, quarto duca di Montaltino, ed allievo di Aliotta a Na­poli e pur fedele estensore delle sue teorie, sulle quali, per questo mo­ tivo, ci siamo nell'ultima parte dilungati sorvolando sullo scarso ruolo t-he gioca in esse l'opera di Husserl. L'iter formativo di Filiasi Carcano (1911-1977) interseca situazioni ed esperienze riscontrabili, come ve­ dremo, anche in altri giovani filosofi della stessa generazione. Di più, nel .suo caso, c'è una singolare — e probabilmente indotta — analogia con la vicenda teoretica del primo Husserl. In realtà, — scrive l'autore in un brano autobiografico del 1956 — io non posso dire di essere venuto alla filosofia in maniera diretta, per un'intima voca­ zione alla speculazione o per un normale maturarsi dei miei studi e della mia men­ talità giovanile, ma questa era soprattutto caratterizzata da un'intensa passione pèrle scienze e da una viva disposizione per la matematica54. Questo germinale orientamento, unito a una sensibilità religiosa che non tarderà a manifestarsi, ebbe come primo e scontato effetto di allontanare Filiasi Garcano dall'area neo-idealistica, il cui radicale immanentismo, la esclusione dei concetti di peccato e di grazia e l'avversione per ogni for- 53 Ibidem, p. 7. 54 P. Filiasi Carcano, 17 ruolo della metodologia nel rinnovamento della filo­ sofia contemporanea, in AA.W., La filosofia contemporanea in Italia. Invito al dialogo, Asti, Arethusa, 1958, p. 219.   LA PRIMA ONDATA DI STUDI HUSSERLIANI NEGLI ANNI TRENTA 59 ma di naturalismo, non potevano in alcun modo essere accettati 55. Di qui un sentimento di estraneità e di insoddisfazione subito denunciati fin dai primi scritti, l'intima perplessità e la difficoltà di orientarsi in una temperie culturale già decisa e fissata nelle sue grandi linee da altri. E, d'altro canto, un naturale rivolgersi al problema metodologico, come pre­ liminare assunzione di consapevolezza circa i percorsi teoretici che con­ veniva seguire per ottenere uno scopo valido, senza tuttavia ancora nul­ la presumere circa la necessità di quei percorsi o la natura di questo sco­ po. In tal senso, l'elaborazione di una qualsivoglia metodologia doveva prevedere come esito programmatico, da un lato, una sorta di epochizza- zione delle grandi tematiche metafisiche e della tradizionale formulazione dèi problemi, dall'altro lato, un lungo e paziente lavoro di analisi, con­ fronto, chiarificazióne e comprensione che consentisse di recuperare, di quelle tematiche e di quei problemi, il contenuto più autentico. Ma più lo sguardo critico del giovane filòsofo andrà maturando fino ad abbracciare nel suo complesso il controverso panorama culturale del tempo, più quel programma iniziale perderà la sua connotazione prope­ deutica per trasformarsi in compito destinale, in una ' fighi for clarity* che assumeva i termini di un radicale esame di coscienza nei confronti della filosofia. Scrive Filiasi Carcano: Confesserò che varie volte ho avuto ed ho l'impressione di non aver abba­ stanza compreso, e per questo alla mia spontanea insoddisfazione (al tempo stesso scientifica e religiosa) si mescola un senso di incomprensione. Questo stato d'animo spiega bene il mio atteggiamento che non è propriamente di critica (...), ma ha piut­ tosto il carattere di un prescindere, di una sospensione del giudizio, di una messa in parentesi, in attesa di una più matura riflessione 56. Al fondo dei dualismi e delle vuote polemiche che, nella comunità filoso- fica italiana degli anni Trenta, sembravano prevaricare sulle più urgenti esigenze scientifiche e di sviluppo, Filiasi Carcano coglie i sintomi dì un conflitto epocale, di una inquietudine psicologica e di un'incertezza morale che andranno a comporsi in una vera e propria fenomenologia della crisi. ' Crisi della civiltà ', anzitutto, come recita il titolo della sua opera prima 57, dove al desiderio di fuggire l'alternativa del dogmatismo fa da 55 Per questi punti mi sono riferito a M. L. Gavazzo, Paolo Filiasi Carcano,. «Filosofia oggi», X, 1, 1987, pp. 57-74. ; * P; Filiasi Carcano, // ruolo della metodologia, ;cit., p. 220. 57 Cfr. P. Filiasi Carcano, Crisi della civiltà e orientamenti della filosofia   60 .CAPITOLO TERZO contraltare l'eterno dissidio tra ragione e fede. Crisi esistenziale, di con­ seguenza, dovuta al prevalere delle tendenze scettiche e antimetafisiche su quelle spirituali e religiose. Crisi della filosofia, infine, fondata sulla raggiunta consapevolezza del suo carattere problematico, sull'incapacità di realizzare interamente la pienezza del suo concetto. Come moto di reazione immediata occorreva allora, oltreché circoscrivere le proprie pre­ tese conoscitive ponendosi su un piano risolutamente pragmatico, assur­ gere ad una più compiuta presa di coscienza storica e conciliare la filoso­ fia con una mentalità scientificamente educata. Solo, cioè, il confronto con una seria problematica scientifica (la quale Filiasi Carcano vedeva realizzata nell'ottica positivista dello sperimentalismo aliottiano) avreb­ be potuto segnare per la filosofia l'avvento di una più matura riflessione intorno alle proprie dinamiche interne e ai propri genuini compiti critici. E a questo scopo parve a Filiasi Carcano, fin dai suoi studi d'esor­ dio, singolarmente soccorrevole proprio l'opera di Edmund Husserl. Scri­ ve Angiolo Maros Dell'Oro: A un certo punto si intromise Husserl. Filiasi Carcano pensò, o sperò, che là fenomenologia sarebbe stata la ' scienza delle scienze', capace di indicargli la via zu den Sachen selbsf, per dirla con le parole del suo fondatore. Da allora è stata invece per lui l'enzima patologico di una problematica acuta 58. Sùbito rifiutata, in realtà, come idealismo metafisico, quale eira frettolo­ samente spacciata in certe grossolane versioni del tempo (non esclusa, lo ^bbiamo visto, .quella del suo, maestro), la fenomenologia viene aggredita alla radice dal giovane studioso, con una cura e un rigore filologico — i quali pure riscontreremo in altri suoi coetanei — giustificabili solo con l'urgenza di una richiesta culturale cui l'ambiente nostrano non poteva evidentemente soddisfare. Non è un caso che Filiasi Carcano insista, fin dal suo primo articolo dedicato ad Husserl, sul valore della fenomeno­ logia, ad un tempo, emblematico, nel quadro d'insieme della filosofia contemporanea, e liberatorio rispetto al giogo dei tradizionali dogmi idealistici che i giovani, soprattutto in Italia, si sentivano gravare sulle spalle ". contemporanea, pref. di A. Aliotta, Roma, Libreria Editrice Francesco Perrella, 1939, pp. VIII-202. • s* Cff. Il pensiero scientifico ìtt Italia '(1930-1960), Creiriòria, Màngiarotti Editore, 1963, p. 108. 39 Cfr. P. Filiasi Cartario/ Da Carierò'ad H«w&f/, :« Ricerche filoSofìche », VI, 1; 1936; pp: 18*34.   LA PRIMA ONDATA DI STUDI HUSSERLIANI NEGLI ANNI TRENTA 61 In piena coscienza, — scriverà l'autore nel 1939 — se abbiamo voluto scio­ gliere l'esperienza da una necessaria interpretazione idealistica, non è stato per forzarla nuovamente nei quadri di una metafisica esistenziale, ma per ridare ad essa, secondo lo schietto spirito della fenomenologia, tutta la sua libertà 60. Tale schiettezza, corroborata da un carattere decisamente antisistema­ tico e dal recupero di una vitale esigenza descrittiva, avrebbe consentito lo schiudersi di un nuovo, vastissimo territorio di indagine, sospeso tra constatazione positivistica e determinazione metafisica, ma capace, al tem­ po stesso, di metter capo ad un positivismo di grado superiore e ad un più autentico pensare metafisico. Si trattava, in sostanza, non tanto di dedurre i caratteri di una nuova positività oppure di rifondare una me- tafisica, quanto piuttosto di guadagnare un più saldo punto d'osserva­ zione dal quale far spaziare sul multiverso esperienziale il proprio sguar­ do fenomenologicamente addestrato. È in questo punto che la fenome­ nologia, riabilitando l'intuizione in quanto fonte originaria di autorità (Rechtsquelle), operando in base al principio dell'assenza di presupposti e offrendo i quadri noetico-noematici per la sistemazione effettiva del suo programma di ricerca, veniva ad innestarsi sul tronco dello sperimenta­ lismo di stampo aliottiano, che Filiasi Carcano aveva assimilato a Napoli negli anni del suo apprendistato filosofia). Il ritorno ' alle cose stesse * predetto dalla fenomenologia non solo manteneva intatta la coscienza cri­ tica rimanendo al di qua di ogni soglia metafisica, ma anche e più che mai serviva a ribadire il carattere scientifico e descrittivo della filosofia. In un passo del 1941 si possono scorrere, a modo di riscontro, i punti di un vero e proprio manifesto sperimentalista: Descrivere la nostra esperienza nel mondo con l'aiuto della critica più raffi­ nata; cercare di raccordarne i vari aspetti in sintesi sempre più vaste e più com­ prensive, esprimenti, per cosi dire, gradi diversi della nostra conoscenza del mon­ do; non perdere mai il senso profondo della problematicità continuamente svol- gentesi dal corso stesso della nostra riflessione; infine stare in guardia contro tutte le astrazioni che rischiano di alterare e disperdere il ritmo spontaneo della vita: sono questi i principali motivi dello sperimentalismo e (...) al tempo stesso, i modi mediante i quali esso va incontro alle più attuali esigenze logiche e metodologiche del pensiero contemporaneo61. D'altro canto, si diceva, non è neppure precluso a questo program- *° P. Filiasi Carcano, Crisi della civiltà, cit., p. 138. 61 P. Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo, Roma, Perrella, 1941, p. 120.   62 ......... CAPITOLO TERZO ma un esito trascendente, e a fenderlo possibile sarà ancora una volta, in virtù della sua cruciale natura teoretica, proprio l'atteggiamento feno­ menologico. Scrive Filiasi Carcano: In realtà, il dilemma tra una scienza che escluda l'intuizione e una intui­ zione che escluda la scienza, non c'è che su di un piano realistico ma non su di un piano fenomenologicamente ridotto: su questo piano scienza e intuizione tornano ad accordarsi, accogliendo una pluralità di esperienze, tutte in un certo senso le­ gittime e primitive, ma tutte viste in un particolare atteggiamento di spirito che sospende ogni giudizio metafisico. È questo, com'io l'intendo, il modo particola­ rissimo con cui la filosofia può tornare oggi ad occuparsi di metafisica 62. Certo, nella prospettiva husserliana, il problema del trascendens puro e semplice, che farà da sfondo a tutto il percorso speculativo di Filiasi Carcano, sembrava rimanere ingiudicato o, almeno, intenzionalmente rin­ viato in una sorta di ' al di là ' conoscitivo, Ma in ordine alla missione spirituale che l'uomo deve poter esplicare nel mondo storico, il metodo fenomenologico conserva tutta la sua efficacia. Esso —nota Filiasi Carcano nelle ultime pagine del suo Antimetafisica e spe­ rimentalismo — certo difficilmente può condurre a risultati, ma compie per lo meno analisi e descrizioni interessanti, e tanto più notevoli in quanto tende a sollevare il velo dell'abitudine per farci ritrovare le primitive intuizioni della vita religiosa 63. Dato questo suo carattere peculiare e l'orizzonte significativo nel quale viene assunta fin dal principio, la fenomenologia continuerà a va­ lere per Filiasi Carcano come referente teoretico di prim'ordine, accom­ pagnandolo, con la tensione e la profondità tipiche delle esperienze fon­ damentali, in tutti i futuri sviluppi della sua speculazione. III.3. - LASCUOLATORINESE. ANNIDALEPASTOREENORBERTOBOBBIO. La terza grande area di interesse per il pensiero hussèrliano negli anni Trenta in Italia, fa capo all'Università.di Torino e si costituisce prin­ cipalmente intorno all'attività 4i tre studiosi: il primo, già incontrato e che, in qualche modo, fa da ponte fra questa e la neoscolastica mila­ nese è Carlo Mazzantini; il secondo è Annibale Pastore —ne parleremo ora — che teneva nell'ateneo torinese la cattedra di filosofia teoretica; 6- P, Filiasi Corcano,. Crisi .della civiltà, .eit,,. p.., 184. ,: ; 63 P. Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo, cit., p. 153. Paolo Filiasi Carcano di Montaltino di Carapelle. Paolo Filiasi Carcano. Paolo Carcano. Montaltino. Keywords: semantica, quarto duca di montaltino, semantica ed esperienza, semantica e fenomenologia, filiasi carcano, montaltino, carapelle. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Montaltino” – The Swimming-Pool Library.

 

Carbonara (Potenza). Grice: “I like Carbonara; my favourite of his tracts are one on ‘del bello,’ – another one on ‘dissegno per una filosofia critica dell’esperienza pura: immediatezza e reflessione’ – but mostly his ‘esperienza e prassi,’ which fits nicely with my functionalist method in philosophical psychology: there is input (esperienza), but there is ‘prassi,’ the behavioural output --; I would prefer this to the tract on the ‘filossofia critica’ since I’m not sure we need ‘reflexion’ to explain, say, communication – not at least in the way Carbonara does use ‘reflessione,’ alla Husserl.  Conseguito il diploma liceale, si trasferì a Napoli, frequentando la facoltà di filosofia. Ottenuta la laurea sotto Aliotta, collabora per “Logos”. Insegna a Campobasso, Nocera Inferiore, Cagliari, Catania, e Napoli.  Con “Disegno d'una filosofia critica dell'esperienza pura”, rifacendosi alla filosofia kantiana e riprendendo il discorso idealistico ne mette in rilievo il tentativo fallito di Gentile di dare concretezza all’astratto. Nell'attualismo, il ritorno all’atto, al fatto, si risolve infatti nell'atto sempre uguale e sempre diverso del pensare, unica realtà e verità del pensiero e della storia: «vera storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell'eterno atto del pensare»..  Il problema secondo Carbonara anda esaminato riportandolo alla sua origine, cioè al problema del rapporto tra esperienza e concetto, tra realtà e concetto così come era stato affrontato dalla filosofia kantiana e che Gentile crede di risolvere stabilendo un rapporto dialettico tra il concetto e il suo negativo all'interno del concetto stesso. La soluzione invece era in nuce secondo Carbonara nella sintesi a priori kantiana dove convivono forma (segnante) e contenuto (segnato) per cui la coscienza è per un verso forma, contenitore (segnante) di un contenuto (segnato) storico e per un altro *coincide* col suo contenuto (segnato) in quanto il contenuto (segnato) non avrebbe realtà al di fuori della forma della coscienza segnante.  La successiva questione si pone considerando oltre il rapporto del pensiero – il segnante -- con la materia quella collegata all'origine del pensiero stesso. Ancora una volta Kant intravede la soluzione nella teoria dell' “io penso” che però va ora intesa non come la struttura logico-metafisica della realtà storica, ma come la sua struttura psicologica ma *trascendentale* o "esistenziale", secondo una concezione della "filosofia dell'esperienza pura" nel senso che l'esperienza coincide col divenire della vita dello spirito e deve restare indifferente al problema, ch'è propriamente di natura ontologica, circa la sua dipendenza o indipendenza da una realtà diversa dal mio spirito. Il rapporto tra pensiero e materia porta Carbonara ad indagare quello tra filosofia e scienza con “Scienza e filosofia” in Galilei, in cui sostiene che mentre da un punto di vista filosofico non si può andare oltre l'ambito dell'autocoscienza (il mio spirito – Il “I am hearing a noise” di Grice) del cogito cartesiano, al contrario la scienza si basa sulla necessità di fondarsi sul mondo esterno (nel spirito dell’altro – intersoggetivita). Forse la soluzione di questa antinomia, sostiene Carbonara, va ricercata nell'insoddisfazione dello stesso idealismo verso se stesso  non potendo rinunciare a se stesso ma neppure al suo opposto -- nec tecum nec sine te  -- solus ipse. Si interessa anche della filosofia rinascimentale a Firenze. Nota come in quel periodo si fosse realizzata una fusione tra il cristianesimo e il neo-platonismo così come ad esempio in Ficino prete cattolico che visse la sua fede come teologia razionale dando una base filosofica, trascurando la stessa rivelazione, alla sua spiritualità religiosa:  In Ficino, il platonismo si congiunge al cristianesimo non soltanto sul fondamento di una religiosità profonda da cui il primo appare permeato, ma anche per una tradizione storica ininterrotta, per cui l'antichissima saggezza, ripensata da Platone e dai neoplatonici, si ritrova trasfigurata ma tuttavia persistente nei Padri della Chiesa e nei dottori della Scolastica. Come apprendiamo dall'Epistolario di Ficino, la sapienza e intesa come un dono divino e come mezzo per cui l'uomo può elevarsi fino a Dio. Tale principio fu poi appreso da Pitagora, Eraclito, Platone, Aristotele, i neoplatonici. Riemerse nella speculazione filosofica ispirata dalla Rivelazione cristiana e si ritrovò quindi in Agostino. Lo stesso Cicerone figura nella catena dei platonici romani.  Riallacciandosi a quella tradizione e meditando sui testi platonici, Ficino concepí il disegno, portato a termine di ricostruire su fondamento platonico la teologia il platonismo vi è considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui princípi coincidono con quelli della rivelazione. Tale coincidenza è il principale argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo rispetto alle altre religioni positive. Del resto Ficino è disposto ad ammettere che qualsiasi culto, purché esercitato con animo puro, reca onore e gradimento a Dio. Altre opere: “L'individuo, i dividui, e la storia; Scienza e filosofia in Galilei; Esperienza; Umanesimo e Rinascimento (Catania) Del Bello; Introduzione alla Filosofia (Napoli;  Materialismo storico e idealismo critico; Sviluppo e problemi dell'estetica crociana; I presocratici; Esperienza ed umanesimo (Napoli) La filosofia di Plotino; “Persona e libertà”; Ricerche di un'estetica del contenuto”; Esperienza e prassi; Discorso empirico delle arti, Il platonismo nel Rinascimento. Cleto Carbonara. Keywords: esperienza, dull title: “l’empirismo come filosofia dell’esperienza”! – i periti conversazionale – esperienza dell’altro, persona e persone – solipsism, anti-solipsismo – esperienza, sperimento, esperire, perito, perizia, per, fare, fahren, --. altri, altro, l’altro, l’altri. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbonara” – The Swimming-Pool Library.

 

Carbone (Mantova). Grice: “I love Carbone; my favourite of his tracts are on the ‘unexpressible’ – a contradictio in terminis – and on ‘the flesh and the voice’ –  but the favourite-favourite are  his tract on ‘il bello’ (‘eidos ed eidolon’) and even more, his “La dialettica”.  Si laurea a Bologna con “Marxismo: i soggetti nella storia". Studia a Padova. Insegna a Milano. Opere: Condannàti alla libertà, adattamento teatrale del romanzo di Sartre L'età della ragione, che è stato messo in scena in quello stesso anno. Fonda a  Pisa  con il sostegno del Leverhulme Trust un Programma  di ricerca sulla filosofia, concentrandolo su alcune delle sue figure più importanti e sulle parole-chiave: l'essere, la vita, il concetto». Dirige la collana f«L'occhio e lo spirito. Estetica, fenomenologia, per Mimesis Edizioni.  Si concentra sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, indagandone il duplice ma unitario significato estetico di riflessione filosofica sull'esperienza percettiva e sull'esperienza artistica attraverso l'esame del parallelo interesse manifestato da Merleau-Ponty per Cézanne e Proust. Tale indirizzo di studi si è allargato dapprima a una più vasta considerazione della fenomenologia e poi a quella del pensiero post-strutturalistico sviluppatosi in Francia, pur mantenendosi imperniato sul parallelo interesse per la riflessione filosofica sulla pittura e sulla letteratura moderne. Questo ampliamento ha inoltre condotto gli studi ad affrontare tematiche di carattere gnoseologico e ontologico, spingendolo anche a problematizzare il tradizionale rapporto tra la filosofia e la "non filosofia". Tli orientamenti hanno trovato sbocco in una riflessione sul peculiare statuto delle immagini nella nostra epoca, sulle possibili implicazioni etico-politiche del rapporto con esse e sulla dimensione ontologica dell'"essere in comune" (morire insieme, dividualita, dividuo). che in tali implicazioni troverebbe espressione. Cura Merleau-Ponty (Il visibile e l'invisibile; Linguaggio Storia Natura, La Natura, È possibile oggi la filosofia? Saggi eretici sulla filosofia della storia) e Cassirer -- Eidos ed eidolon, il bello.  Influenzato prevalentemente da Merleau-Ponty, di cui ha sviluppato in maniera teoreticamente personale alcune nozioni. Tra queste, spicca il concetto di "idea sensibile", intesa quale essenza che s'inaugura nel nostro incontro col sensibile e da questo rimane inseparabile, sedimentandosi in una temporalità retroflessa --"tempo mitico". Alla prima di queste nozioni è dedicato il dittico “Ai confini dell'esprimibile” e “Una deformazione senza precedente: la idea sensibile Porta a sintesi le implicazioni filosofiche delle nozioni sopra citate nel concetto di "de-formazione senza precedenti", con cui egli intende caratterizzare il peculiare statuto che a suo avviso la de-formazione assume nell'arte, al fine di staccarsi dal principio imitativo della rappresentazione e dunque dalla concezione del modello inteso quale “forma” preliminarmente data. Alle nozioni sopra menzionate si è andata successivamente collegando quella di "precessione reciproca" tra l’immaginario e il reale che Carbone ha proposto di dar conto del prodursi della peculiare temporalità retroflessa detta "tempo mitico". Cerca di sviluppare le implicazioni etico-politiche della concezione della memoria legata all'idea di "deformazione senza precedenti" nella sua riflessione sue venti di cui ha sottolineato l'irriducibile carattere visivo indagandolo pertanto mediante un approccio anzitutto estetico. Cerca le radici ontologiche di tali implicazioni etico-politiche della filosofia, proponendo le nozioni di "a-individuale" e di "dividuo" per sottolineare l'intrinseco carattere re-lazionale (e dunque il divenire e la divisibilità) di ogni identità.  Altre opere: “Ai confini dell'esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Milano, Guerini e Associati); Il sensibile e l'eccedente. Mondo estetico, arte, pensiero, Milano, Guerini e Associati); Di alcuni motivi in Marcel Proust, Milano, Libreria Cortina); La carne e la voce. In dialogo tra estetica ed etica, Milano, Mimesis); Essere morti insieme (Torino, Bollati Boringhieri). Sullo schermo dell'estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare, Milano, Mimesis). Una deformazione senza precedenti. la idea sensibile, Macerata, Quodlibet). Mauro Carbone. Keywords: “individuo e dividuo” eidos, il bello, essere en comune, mit-sein, #DialetticaDegl’EntrambiDividui -- -- --. Merleau-Ponty ‘linguaggio’, individuus, dividuus, dividuo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbone” – The Swimming-Pool Library.

 

Carboni (Livorno). Filosofo. Grice: “I love Carboni – my favourite of his tracts is ‘between the image and the ‘parable’” – a semiotics of communication with sections on ‘the tacit response,’ through the looking-glass’, ‘towards the hypertext,’ and quoting extensively from some ‘conversational-implicature’ passages in Aristotle’s metaphysics, ‘To ask ‘why is man man?’ is to ask nothing!” “For some expressions, analogy suffices!” Insegna a Roma, Bari, Viterbo.  Altre opere: L’angelo del fare. Melotti e la ceramica (Skira) e Il colore nell’arte (Jaca).  Cura Dorfles, Brandi, Deleuze, Guattari, Adorno. Tra le recensioni dei suoi saggi si segnalano: Giacomo Marramao, Gianni Vattimo (“L’Espresso”), Gillo Dorfles (“Il Corriere della Sera”), Victor Stoichita (“il manifesto”). Al Festival delle Letterature di Mantova hanno presentato i suoi saggi Sini  e Didi-Huberman. Scrive su  “Nòema” e “Images Re-vues” e sulla “Rivista di Estetica”.   “L’Impossibile Critico. Paradosso della critica d’arte, Kappa); “Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori Riuniti); “Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi); “Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Castelvecchi); “L’ornamentale. Tra arte e decorazione, Jaca); “L’occhio e la pagina. Tra immagine e parola, Jaca); “Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, Laterza); “La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, Jaca); “Di più di tutto. Figure dell’eccesso, Castelvecchi); “Analfabeatles. Filosofia di una passione elementare, Castelvecchi); “Il genio è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee” Jaca); “Malevič. L'ultima icona. Arte, filosofia, teologia, Jaca).  Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State, Martin Myrone Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State Martin Myrone Abstract From 1808 the British Museum in London began regularly to open its newly established Townley Gallery so that art students could draw from the ancient sculptures housed there. This article documents and comments on this development in art education, based on an analysis of the 165 individuals recorded in the surviving register of attendance at the Museum, covering the period 1809–17. The register is presented as a photographic record, with a transcription and biographical directory. The accompanying essay situates the opening of the Museum’s sculpture rooms to students within a farreaching set of historical shifts. It argues that this new museum access contributed to the early nineteenth-century emergence of a liberal state. But if the rhetoric surrounding this development emphasized freedom and general public benefit in the spirit of liberalization, the evidence suggests that this new level of access actually served to further entrench the “middleclassification” of art education at this historical juncture. Authors Martin Myrone is an art historian and curator based in London, and is currently convenor of the British Art Network based at the Paul Mellon Centre for Studies in British Art. Acknowledgements The register of students admitted to the Townley Gallery was originally consulted during my term as Paul Mellon Mid-Career Fellow in 2014–15. Thank you to Mark Hallett and Sarah Victoria Turner of the Mellon Centre for their continuing support and guidance, to Baillie Card and Rose Bell for their careful editorial work, Tom Scutt for crafting the digital presentation of my research, the two anonymous readers for their valuable critical input, and to Antony Griffiths, formerly of the British Museum, and Hugo Chapman, Angela Roche, and Sheila O’Connell of the British Museum, for providing access to the register and for their advice. I am especially indebted to Mark Pomeroy, archivist, and his colleagues at the Royal Academy of Arts for the access provided to materials there and for advice and suggestions. I would also like to thank Viccy Coltman, Brad Feltham, Martin Hopkinson, Sarah Monks, Sarah Moulden, Michael Phillips, Jacob Simon, Greg Sullivan, and Alison Wright. Cite as Martin Myrone, "Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State", British Art Studies, Issue 5, https://dx.doi.org/10.17658/issn.2058-5462/issue-05/mmyrone From the summer of 1808 the British Museum in London began regularly to open its newly established galleries of Graeco-Roman sculpture for art students. The collection, made up almost entirely of pieces previously owned by Charles Townley, had been purchased for the nation in 1805 and installed in a new extension to the Museum’s first home, Montagu House, which was built earlier in 1808. After some protracted discussion with the Royal Academy, detailed below, the collection was made available for its students in time for the royal opening of the Townley Gallery on 3 June 1808. From January 1809, a written record was kept of students admitted to draw from the antique. This volume survives in the library of the Department of Prints and Drawings at the British Museum and identifies one hundred and sixtyfive separate individuals admitted through to 1817. 1 The register forms the focus of this essay and is presented here as a facsimile and transcription, with an accompanying directory of student biographies (see supplementary materials below). This may be taken as a straightforward contribution to the literature on early nineteenth-century art education, and the author hopes it may be useful as such. However, it also situates the opening of the Museum’s sculpture rooms to students within a rather more far-reaching set of historical shifts. Namely, it argues that this new form of museum access was part of the early nineteenth-century emergence of a liberal state that “actively governs through freedom (free ‘individuals’, markets, societies, and so on, which are only ‘free’ because the state makes them so)”. 2 Access to the British Museum was “free” in that there were no charges or fees. Meanwhile, the arrangement offered a degree of freedom to the students themselves; they were expected to be largely self-selecting and self-regulating. When the arrangement was exposed to public scrutiny, as a result of questions asked in parliament in 1821, the freedom of access and the service this did to the public good were emphasized. But, once closely scrutinized, the evidence suggests that this manifestation of the freedoms encouraged by the liberal state had a social disciplinary role (even if disciplinary function can hardly be recognized as such), in serving to further entrench the “middle-classification” of art at this historical juncture. 3 The conjunction of art education and a grandiose notion such as the liberal state may be unexpected, and rests on three key assertions. The first is that art worlds are structured and in their structure have a homological relationship with the larger social environment. 4 The initial part of this statement (that art worlds are structured) may not be especially hard to swallow, given the relatively formalized and hierarchical nature of the London art world during the early nineteenth century, when cultural authority was vested in a small number of institutions, and the practices associated with academic tradition in principle still held sway. However, that the structure of the art world, in its hierarchical dimension, may also be homologically related to the larger field of power, so that social relationships are reproduced within this relatively autonomous sphere, is more clearly contentious, and runs contrary to commonplace beliefs and expectations about talent and luck in determining personal fate in the modern age—artists’ fortunes most especially. In fact, in the period under review here, the artist became an exemplary figure in the new narratives of social mobility: the art world came to serve as a model of how talent or sheer good fortune could override social origins and destinies. 5 The second assertion is that the Royal Academy and British Museum were developing new forms of state institution, underpinned by the conjoined principles of freedom of access and public benefit. Such has been argued importantly by Holger Hoock, and while I depart from his arguments in some key regards, his insights into the status of these institutions and the role of forms of public–private partnership in their formation are crucial. 6 The third assertion (and this marks a departure from Hoock), is that the state is not a stable, centralized entity, or site of power either “up above” or “below” historical actors. Instead, it is taken to be the sum of actions and dispositions ostensibly volunteered by these historical agents in all their multitude and variety. The crucial point of reference here is the sustained body of work on the liberal state by the historian Patrick Joyce, deploying the work of Bruno Latour and Michel Foucault, among others, to yield a more materialistic and decentralized understanding of the emergence and role of state bodies. 7 The state, in this view, is composed of technologies, disciplinary structures, habits of mind, and ways of doing things. The mechanics of art education, insofar as this involves the movement through or exclusion of individuals from identified places, the arrangement of their bodies in relation to one another and to their model, the management of their behaviour within those places, the very motion of their bodies, hands, and eyes under the surveillance of their peers, teachers or other authorities, may be considered as a form of biopolitics; the student who entered his or her name into the British Museum’s register of admission was producing his or her governmentality. 8 The argument here is emphatically historical and states that this arrangement, while it may have precedents and may have been seminal, belongs to an historical moment—the emergence of the liberal state. My case, which can be sketched out only in outline in this context, is that the emergence of the familiar institutional arrangements of the modern art world between the 1770s and the 1830s (in the form of actual institutions and regulatory structures or permissions, including annual exhibitions, centralized art schools supported by the state directly and indirectly, emphasis on quantifiable measures of access and engagement as the test of public value, and so forth) represents in an exemplary way the illusory freedoms promoted by liberalism, and renewed by present-day “neo- liberalism”, as addressed by commentators from the prophetic Karl Polanyi through to the later work of Foucault and Bourdieu on the state, and Luc Boltanski and Eve Chiapello, among others. 9 The early nineteenth-century art world can be proposed as a privileged focus of attention because it was still of a scale which can allow for the kinds of data-based analysis which must underpin any sort of sociological exploration, and because its individual membership can be documented in fine detail in a manner which is simply not possible at an earlier historical date. Paradoxically, despite its announced commitment to non-intervention and personal freedom, the emerging liberal state generated huge amounts of documentation about society and its individual members—tax records, parochial and civil records, the national census from 1801—which digitilization has made more readily available than ever before, allowing this generation of artists to be documented as never previously. 10 The production of artistic identities through these records is not unrelated to changes in artistic identity itself over the same timeframe. One way of realizing this might be to consider the period outlined above—c. 1770–1830s—not as a period from the foundation of the Royal Academy (1769) to its removal to Trafalgar Square, or even as the era of Romanticism, as much literary and cultural history-writing would dictate, but as the era from Adam Smith’s Wealth of Nations (1776) to the Reform Act (1832) and the Speenhamland system, a last experiment in patrician social care before the Poor Law Amendment Act (1834), taking in Thomas Malthus and David Ricardo. The challenge is thinking of these two frameworks not in sequential or spatially differentiated ways, but as simultaneous and identical. Within this emerging liberal state the figure of the artist is attributed with a special degree and form of freedom, what has conventionally been alluded to, in generally sociologically imprecise ways, as a feature of “Romanticism”, slumping into “bohemianism” and a generic idea of art student lifestyle. If this was a moment of unprecedented state investment in the arts (from the Royal Academy through to the Schools of Design) and government scrutiny (notably with the Select Committees), it simultaneously saw the emergence of artistic identities expressing the values of personal freedom, freedom from regulation, and even active opposition to the state. I propose that art education, as it took shape in the emerging liberal state, might be explored as a “liberogenic” phenomenon: among those “devices intended to produce freedom which potentially risk producing exactly the opposite.” 11 As such, it may have renewed pertinence for our own time, although this does not entail seeing a “causal” relationship between the past and present, or a linear genetic relationship between then and now. In fact, the purpose of this commentary, and the larger project it arises from, 12 is rather to trouble our relationship with that past. The intention is not, however, to point unequivocally to the era under consideration as here entailing “the making of a modern art world”, with the rise of art education and museums access representing a stage towards democratization, as illuminated in stellar fashion by the great Romantic artists (J. M. W. Turner—famously the son of a lowly London barber—pre-eminently). I would want instead to take seriously Jacques Rancière’s call for “a past that puts a radical requirement at the centre of the present”, eschewing causality and “nostalgia” in favour of “challenging the relationship of the present to that past”. 13 If giving attention to the “freedom” of art education at the advent of the liberal state provides any insight at all, it should do so by troubling rather than affirming our narratives of the genesis of a modern art world. Access to the Townley Gallery The arrival at the Museum of the Townley marbles, together with the development of the prints and drawings collection and its installation in new, secure rooms in the same wing, fundamentally changed the character of the institution. As Neil Chambers has noted, having been primarily a repository of (often celebrated) curiosities of many different forms, quite suddenly “The Museum was now a centre for art and the study of sculpture.” 14 The shift was acknowledged internally at the Museum by the creation in 1807 of a distinct Department of Antiquities, which also had responsibility for the collection of prints and drawings. But while the significance of the opening of the Townley Gallery in the history of the British Museum is clear, the opening of the collection to students has barely been noticed in the art-historical literature. The register has been overlooked almost entirely, and the relevance of this development in student access may not even be immediately obvious. 15 Figure 1. William Chambers, The Sculpture Collection of Charles Townley in the dining room of his house in Park Street, Westminster, 1794, watercolour, 39 x 54 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Figure 2. Attributed to Joseph Nollekens, The Discobolus, 1791–1805, drawing, 48 x 35 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Townley’s collection had already famously been on display for many years at his private house in Park Street, London. William Chambers’ (or Chalmers’) drawing of the Park Street display from 1794 includes a well-dressed young woman drawing under the supervision or advice of a man, promoting the idea that the collection was available for sufficiently genteel students of the art more generally (fig. 1). In his recollections of the London art world, J. T. Smith described “those rooms of Mr Townley’s house, in which that gentleman’s liberality employed me when a boy, with many other students in the Royal Academy, to make drawings for his portfolios”. 16 Smith’s former employer, the sculptor Joseph Nollekens, has been identified among the more established artists who were also engaged by Townley to draw from marbles in the collection (fig. 2). As Viccy Coltman has noted, “The townhouse at 7 Park Street, Westminster became an unofficial counterpoint to the English arts establishment that was the Royal Academy: as an academy of ancient sculpture, much as Sir John Soane’s London housemuseum in Lincoln’s Inn Fields would become an academy of architecture in the early 19th century.” 17 Evidently, a number of the students and artists admitted to draw from the Townley marbles once they were at the British Museum knew them formerly at first hand from visiting 7 Park Street; for instance, William Skelton, admitted to draw at the Museum in 1809, had apparently already studied and engraved three busts from the collection for inclusion in the design of Townley’s visiting card (fig. 3). Townley had hoped for a separate gallery to be erected to house the collection, but his executors, his brother Edward Townley Standish and uncle John Townley were unable to agree a plan. 18 The sale of the collection to the Museum was a compromise. With the erection of a new gallery space for the collection underway, the Museum considered how special access might be given to artists. That the question was posed at all should be an indication of how far the realm of cultural consumption and production was being folded in to the emerging liberal state at this juncture. At a meeting of the Trustees on 28 February 1807, a committee was set up to consider how the prints and drawings collections might be used by artists, and to draw up “Regulations . . . for the Admission of Strangers to view the Gallery of Antiquities either separately from, or together with the rest of the Museum: And also for the Admission of Artists”. 19 Figure 3. William Skelton, Charles Townley's visiting card, 1778–1848, etching, 65 x 96 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum With the Gallery still under construction, the Sub-Committee was not obliged to move quickly, and it proved to be a protracted and unexpectedly fractious affair. 20 It was not until the Museum’s general meeting of 13 February 1808, that the principal librarian, Joseph Planta, reported “his opinion of the best time & mode of admission of Strangers as well as artists, to the Gallery of Antiquities”, with the request that Benjamin West, President of the Royal Academy, be asked to attend a further meeting. 21 After delays, he did so on 10 March, after which the Council drew up a set of regulations. 22 These went back to the Academy with additions and changes, which were accepted by the Council who wrote to the British Museum on the 10 May to that effect, noting that a General Meeting of the Academy was to take place, “to prepare the final arrangement for his Majesty’s approbation”. 23 Accordingly, at the British Museum, the Sub-Committee’s reports and proposals were approved by the Standing Committee, with “Resolutions founded on the above mentioned Reports” read at the General Meeting of 14 May. 24 The resolutions, numbered so as to be inserted in the existing regulations regarding admissions, were confirmed in the meeting of 21 May, over three months after what should have been a straightforward matter was raised (see Appendix, below). 25 Clause number eight, concerning the payment of Academicians charged with the supervision of students, evidently caused some consternation within the Academy, as recorded in the diary of Joseph Farington. 26 The relative authority of the Council and General Assembly had been a contentious matter in previous years, and the lengthy dispute over arrangements with the Museum reflected lingering tensions. On 12 July 1808 the proposals were read, and “After a long conversation it was Resolved to adjourn.” 27 The subject was taken up on re-convening on 21 July, but without resolution. 28 At yet another meeting, on 26 July 1808, the point about the Academy’s provision of superintendents to monitor the students while at the British Museum was referred back to Council. 29 We have to turn to Farington’s diary for a fuller account. He noted that the Academy’s General Assembly had met on 12 July “for the purpose of receiving a Law made by the Council ‘That permission having been granted by the Trustees of the British Museum for Students to study from the Antiques &c at the Museum, certain days are fixed upon for that purpose, & that an Academician shall attend each day at the Museum & to be paid 2 guineas for each day’s attendance’ . . . Much discussion took place.” 30 At a further meeting: “The Correspondence of the Council with the Sub Committee of the British Museum was read from the beginning” and “much discussion” was had about the supervision of the students, Farington making the point that: as the studies of the British Museum shd. be considered those of completion and not to learn the Elements of art the Academy shd. not recommend any student whose abilities & conduct wd. not warrant it, that it should be considered the last stage of study, when those admitted wd. not require constant inspection; therefore daily attendance of a Member of the Academy wd. not be necessary. 31 The point of contest may have concerned the right of the Council to organize things independent of the General Assembly of the Academicians, and a more general question about economy (“Northcote proposed that the Academician who in rotation shall attend at the British Museum, shd. have 3 guineas a day. West thought one guinea sufficient”). 32 But Farington’s point is more revealing in indicating the expectation that the selected students of the Academy were to be largely self-regulating, and self-disciplining; they were to be granted freedom because they had already internalized the discipline required by these institutions. Figure 4. Front cover, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The matter finally settled, students were admitted to the Townley Gallery from at least the beginning of 1809: the first entries in the register book are dated 14 January 1809 (figs. 4 and 5 to 11). On that date four students were enrolled, although only one of them was at the Royal Academy. That was Henry Monro, the son of Dr Thomas Monro, Physician at Bedlam and an amateur and collector who ran the influential “academy” at his home in Adelphi Terrace. The other students included two of the daughters of Thomas Paytherus, a successful London apothecary, and a Ralph Irvine of Great Howland Street, who seems quite certainly to have been Hugh Irvine, the Scottish landscape painter and a member of the landowning Irvine family of Drum, who gave that address in the exhibition catalogue of the British Institution’s show in 1809. Another five students registered in February and July. This included another recently registered Royal Academy student, Henry Sass, whose name was entered into the Academy’s books in 1805, recommended for study at the British Museum by the architect and RA John Soane, and the artists William Skelton, Adam Buck, Samuel Drummond, and Maria Singleton. The mix of amateur and professional artists, young and old, and indeed the mix of male and female students (discussed below), continued throughout the register. View this illustration online Figure 5. Page 1, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of British Museum View this illustration online Figure 6. Page 2, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 7. Page 3, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 8. Page 4, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 9. Page 5, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 10. Page 6, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 11. Page 7, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Eight of the twelve students registered on 11 November were current Academy students; this proportion of Academy students to others continues throughout the record. But on the same day Planta noted to the standing committee that the Royal Academicians not having availed themselves of the Regulations in favour of their Pupils, & many applications having been made to him for leave to draw in the Gallery of Antiquities, he therefore submitted to the consideration of the Trustees, whether persons duly recommended might not be admitted in the same manner as in the Reading Room. 33 The matter was referred on to the general meeting. 34 On 9 December 1809 the new regulations were confirmed: Students who apply for Admission to the Gallery are to specify their descriptions & places of abode; and every one who applies, if not known to any Trustee or Officer, will produce a recommendation from some person of known & approved Character, particularly, if possible, from one of the Professors in the Royal Academy. 35 On 10 February 1810 it was instructed “That the Regulation respecting the mode of Admission of Students to the Gallery of Sculpture, as made at the last General Meeting be printed & hung up in the Hall, & at the entrance into the Gallery”. 36 The students admitted through 1810 were predominantly students at the Royal Academy, but also included the emigré natural history painter the Chevalier de Barde and Charles Muss, already established as an enamel and glass painter. The same pattern was apparent in subsequent years. Twenty-five students were registered in 1811 and again in 1812, before numbers dropped to twelve in 1813, eight in 1814, picking up with nineteen in 1815, and dropping to nine in 1816. The Museum’s original stipulation that no more than twenty Academy students be admitted each year did not, it appears, create any undue constraints on the flow of admissions. Far from having a monopoly over student admissions, as the Museum’s original regulations had anticipated, the Royal Academy had apparently been distinctly laissez-faire, doing little to try to push students forward to make up the numbers. The galleries the students gained access to comprised a sequence of rooms within the new wing added to accommodate the growing collection of sculptural antiquities, notably the Egyptian material taken from the French at Alexandria in 1801. The Egyptian antiquities dominated the galleries in terms of sheer size, although the visual centrepiece, whether viewed from the Egyptian hall or through the extended enfilade of rooms II–V where the Townley marbles were displayed, was the Discobolus (fig. 12). 37 The intimate scale of the galleries brought benefits, as German architect Karl Friedrich Schinkel noted on his visit of 1826: “Gallery of antiquities in very small rooms, lit from above, very restful and satisfying”. 38 But is also imposed a practical limit on the numbers of students who could attend. This changed when, in 1817, the Elgin marbles were put on display at Montagu House in spacious, if warehouse-like, temporary rooms newly annexed to the Townley Gallery (fig. 13). The spike of interest recorded in the register, with thirty-seven students listed under the heading “1817”, must reflect this new opportunity. The register terminates at this point, although the volume continued to be used to record students and artists admitted to the prints and drawings room (upstairs from the Townley Gallery) from 1815 through to the 1840s. 39 Figure 12. Anonymous, View through the Egyptian Room, in the Townley Gallery at the British Museum, 1820, watercolour, 36.1 x 44.3 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Figure 13. William Henry Prior, View in the old Elgin room at the British Museum, 1817, watercolour, 38.8 x 48.1 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Some form of register must have been maintained, but appears not to have survived, and evidence of student attendance after 1817 is largely a matter of anecdotal record. 40 These later records also, incidentally, point to the variety of student practice in the galleries. While the Museum’s original stipulations made the presumption that admitted artists would be drawing (“each student shall provide himself with a Portfolio in which his Name is written, and with Paper as well as Chalk”), students evidently worked in different media as well. James Ward referred explicitly to “modelling” in the Museum in his diary entries of 1817; and George Scharf’s watercolour of the interior of the Townley Gallery from 1827 (fig. 14) shows a student sitting on boxes at work at an easel, with what appears to be a paintbrush in his right hand and a palette in his left. 41 Nonetheless, the Townley marbles had lost much of their allure. Jack Tupper, a rather unsuccessful artist associated with the Pre-Raphaelite Brotherhood, recalled his growing disillusion when studying at the British Museum in the late 1830s: “So the glory of the Townley Gallery faded: the grandeur of ‘Rome’ passed.” 42 Figure 14. George Scharf, View of the Townley Gallery, 1827, watercolour, 30.6 x 22 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The material record of student activity in the Townley Gallery, in the form of images which seem definitely to derive from this special access to the Museum, is extremely scarce. 43 Whatever was produced in the Gallery was, after all, generally only for the purposes of study, and was unlikely to be retained or valued after the artist’s death. John Wood, a dedicated student at the Royal Academy from 1819, noted: “I am surprised at the comparatively few drawings I made in the Antique School at the Royal Academy, including my probationary one, not exceeding five, with an outline from the group of the Laocoon.—In the British Museum I made a chalk drawing from the statue of Libēra for Mr Sass”, that is, the Townley Venus, apparently drawn by Wood as an exercise for the well-known drawing teacher Henry Sass. 44 Student drawings after the antique must have been numerous, but that does not mean they were preserved. J. M. W. Turner had apparently attended the Plaster Academy over one hundred and thirty times up to the point he became an ARA, in 1799. 45 Yet even with a figure of his stature, whose studio contents were so completely preserved, and whose dedication to academic study was so notable, we have only a handful of drawings which appear certainly to derive from his time at the schools. 46 There are, doubtless, traces of study in the Museum to be uncovered in finished works of the period. Charles Lock Eastlake’s youthful figure of Brutus in his ambitious early work is evidently a direct lift from the marble of Actaeon attacked by his own hounds in the Townley collection; he had been admitted to draw from the antique in 1810 (figs. 15 and 16). But given the dissemination of classical prototypes (in graphic form as well as in plaster) it would be hard to insist that it was only access to the British Museum’s antiquities which made such allusion strictly possible. Figure 15. Charles Lock Eastlake, Brutus Exhorting the Romans to Revenge the Death of Lucretia, 1814, oil on canvas, 116.8 x 152.4 cm. Collection of the Wiliamson Art Gallery & Museum. Digital image courtesy of Wiliamson Art Gallery & Museum Figure 16. Anonymous, Marble figure of Actaeon attacked by his hounds, Roman 2nd Century, marble, 0.99 metres high. Collection of the British Museum (1805,0703.3). Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The Register of Students as Social Record Of arguably greater interest than the question of the “influence” of access to the marbles on artistic practice is the evidence the register provides about the social profile of the students. This takes us to the heart of the question about the relationship between art education and the state. This was, in fact, a question raised at the time. The British Museum was in 1821 obliged to draw up a report on student and public attendance of the Museum, prompted by Thomas Barrett Lennard MP, who had entered a motion in the House of Commons seeking reassurance that this publicly funded institution was not “merely an establishment for the gratification of private favour or individual patronage”. 47 Lennard’s questions arose from a growing body of criticism directed against the Museum, which turned on the question of whether, as a publicly funded body, everyone could expect free access, or only a more specialist minority. As one critic jibed in 1822, “If the British Museum is open only to the friends of the librarians, & their friends’ friends, it ceases to be a public institution.” 48 The report elicited by Lennard’s question provided a detailed breakdown of admissions. With regard to providing access to draw from the antique, the Museum indulged the impression that it not only fulfilled but exceeded its commitment to admitting Royal Academy students: providing the figures for the period 1809–17 (based, surely, on the register under consideration here), the Museum’s report elaborated: The Statute for the admission of Students in the Gallery of Sculptures being among those required by the Order of the House of Commons, it may not be irrelevant to add, that the number of students who were admitted to make drawings in the Townley Gallery, from the year 1809 to the year 1817, amounted to an average of something more than twenty. 49 Notably, this summary gives the clear impression that the antiques were being opened to the students of the Royal Academy; such is, quite reasonably, presumed by Derek Cash in his recent, careful commentary on admission procedures at the Museum. 50 The report also pointed to recent changes: In 1818, immediately subsequent to the opening of the Elgin Room, two hundred and twenty-three students were admitted: in 1819, sixty-nine more were admitted, and in 1820, sixty-three. It asserted that, now: Every student sent by the keeper of the Royal Academy, upon the production of his academy ticket, is admitted without further reference to make his drawings: and other persons are occasionally admitted, on simply exhibiting the proofs of their qualification. According to the present practice, each student has leave to exhibit his finished drawing, from any article in the Gallery, for one week after its completion. 51 Thus stated, the Museum appeared to be fulfilling its public duty in providing free access to appropriately qualified students. The bare figures might seem to indicate a steady rise in student interest, which could be taken as a marker of quantitative success. In one of the earliest historical accounts of the Museum, Edward Edwards implied that the statistical record was evidence of how Planta had progressively extended access to the Museum: “From the outset he administered the Reading Room itself with much liberality . . . As respects the Department of Antiquities, the students admitted to draw were in 1809 less than twenty; in 1818 two hundred and twenty-three were admitted.” 52 At that level of abstraction the information appears beyond dispute. What I test in the remainder of this essay is how these statements stand up to the more individualized account of student activity represented in the biographical record. That record does include the most assiduous students of the Royal Academy of the time, who certainly did not need the kind of “constant inspection” Farington worried about, the kind of student anticipated by the Museum’s regulations. Among these we could count Henry Monro, Samuel F. B. Morse and Charles Robert Leslie, William Brockedon, Henry Perronet Briggs, William Etty and Henry Sass, the last two famously dedicated as students of the Academy. 53 However, the full biographical survey of the register points to a more complicated situation. Of the one hundred and sixty-five individuals named in the register, it has proved possible to establish biographical profiles for the majority: details are most lacking for about twenty-four of the attending students, although in most of those cases we can conjecture at least some biographical context. 54 Slightly less than half the total number of individuals listed were recorded as students at the Academy at a date which makes it reasonably likely that they were actively attending the schools when they were admitted to the British Museum (eighty in all). 55 Around twenty more established male artists attended, and several of these were formerly students at the Royal Academy, including John Samuel Agar, John Flaxman, and James Ward. Whether they were pursuing their private studies or undertaking more specific professional tasks is not always clear. There are, certainly, a few cases where the latter appears to be the case. When William Henry Hunt was admitted it was explicitly for the purpose of preparing drawings for a publication; both William Skelton and John Samuel Agar were probably admitted in connection with his ongoing work engraving from sculptures at the Museum. It seems likely that the “Students to Mr Meyer”, that is, the engraver and print publisher Henry Meyer, were engaged on professional business, as was Thomas Welsh, recommended by the publisher Thomas Woodfall. More striking, though, is the determined presence in the register of artists who did not pursue the art professionally or full-time, including the relatively well-documented Chevalier de Barde, Arthur Champernowne, John Disney, Hugh Irvine (assuming he is the “Ralph Irvine” who appears in the register), Robert Batty, Edward John Burrow, Edward Vernon Utterson, and a number of others designated as “Esq”, so clearly from the polite classes, even if their exact identities remain unclear. There are at least fifteen male individuals who appear to come from backgrounds sufficiently socially elevated or affluent enough to suggest they were taking an amateur interest rather than pursuing serious studies. 56 Enough of these men are known to have practised art to make it quite certain that they were not, at least generally, being admitted to consult the collection without intending to draw, and John Disney was admitted explicitly “to make a sketch of a Mausoleum”. Notable, in this regard, are the large number of women admitted to study, most of whom are or appear to be from polite backgrounds, including the Paytherus sisters, Elizabeth Appleton, Louisa Champernowne, Miss Carmichael, Elizabeth Batty, Miss Home, Lucy Adams, Jane Gurney, Maria Singleton, and Anne Seymour Damer. 57 Some were established artists, or became so; others were pursuing art as a polite accomplishment, or at least we can assume so given their family circumstances; in other cases the situation is by no means clear-cut. All were admitted without special comment or notice despite the issues of propriety around the drawing of even the sculptured nude figure by female artists which crops up in contemporary commentaries. 58 This may be all the more striking given the relative paucity of women admitted as readers at the British Museum library over the same period: only three out of the three hundred and thirty-three admitted between 1770 and 1810, as surveyed by Derek Cash. 59 On this evidence, the field of artistic study was, in the most literal terms, relatively female compared even to the study of literature or history. This points to an under-explored context for the inculcation of the students into life as an artist: the “feminine” sphere of the home, and of siblings (whether brothers or sisters) alongside parents. We have, surely, barely begun to consider the family as the context in which artists are made as much as, if not more than, the studio and academy. Nor is it straightforward to assume that those individuals who had enrolled as Academy students also had expectations about the professional pursuit of the art. Among the Academy students who attended, a large proportion, including a majority of the most assiduous, were from polite social backgrounds, with fathers in the professions, or who were office-holders or from the landowning classes, including Henry Monro, John Penwarne, Richard Cook, William Drury Shaw, Charles Lock Eastlake, Henry Perronet Briggs, Alexander Huey, Thomas Cooley, Samuel F. B. Morse, Andrew Geddes, John Zephaniah Bell, Thomas Christmas, John Owen Tudor, and Samuel Hancock. Others were the sons of elite tradesmen, highly specialized craftsmen or merchants, including William Brockedon, Seymour Kirkup, Charles Robert Leslie, Gideon Manton, and John Zephaniah Bell. These were not, either, predestined to be artists, by simply following in their father’s footsteps, but were opting in to an artistic career, having had, usually, a decent education, and access to material and social support. In many cases their brothers, who shared the same upbringing, became doctors or lawyers, property-owners or merchants. A number of individual students gave up the practice of the art—Thomas Christmas became a landowner in Willisden; Richard Cook was able to retire, wealthy; Seymour Kirkup languished in Rome dabbling in the arts; William Brockedon became more engaged as an inventor and traveller; while others were never really obliged to draw an income from their practice but pursued art as a pastime. It remains the case that there was a high level of occupational inheritance; perhaps thirty-eight of the students (23 percent) had fathers who were architects, engravers or artists in painting or sculpture. Many were the sons of established artists (including Rossi, Bone, Stothard, Ward, Dawe, Wyatt, Bonomi, and the brothers Stephanoff); a few were part of “dynasties” encompassing generations engaged in the arts (Wyatt, Wyon, Hakewill, Landseer). Even then, there is the case of John Morton (noted confusingly as “John Martin” in the register, although the address given provides for a firm identification), who, although the son of an artist and a student at the Royal Academy, exhibited personally as an “Honorary”, suggesting he was not professionally engaged. That his brother became quite prominent as a physician suggests that this was a quite emphatically middle-class family setting. There are several points to derive from this information, even as lightly sketched as it necessarily is here. Firstly, it is noteworthy that while female students were a minority they were a definite presence; in this regard, the British Museum was like other spaces of artistic study, notably the painting school at the British Institution. 60 The observation is upheld by the contemporary records of student attendance at the British Institution or of copyists at Dulwich Picture Gallery, and should serve as a reminder that the Royal Academy was exceptional among the spaces of art education in being so entirely male. 61 Secondly, it is striking how few came from humble backgrounds unconnected with the art world; really, only a handful, which would include John Tannock (son of a shoemaker in Scotland), William Etty (son of a baker in York), John Jackson (son of a village tailor in Yorkshire), and William Henry Hunt (whose father was a London tin-plate worker). The circumstances which led to their gaining access to the London art world are, therefore, noteworthy, as a third and most important point would be to emphasize how emphatically metropolitan, polite, and middle-class was the British Museum as a site of artistic education. The Townley Gallery on student days was a place where working artists, students, amateurs, and patrons mingled. 62 While the Royal Academy is conventionally seen as an engine of professionalization, it is striking that the social affiliations of artists point to strong, arguably increasingly strong, affiliations between amateurs and professionals—to the extent that our terminology around this point needs to be reconsidered. Looking over the biographical survey, the kind of social suffering or precariousness typically associated with artists’ lives, perhaps especially during the era of industrialization, is markedly absent. When it does appear—most strikingly with the grim life-stories of the siblings Jabez and Sarah Newell—they are among the minority of students from backgrounds neither closely connected with the art world, nor comfortably middle-class or genteel. The examples of stellar social ascent and achievement on the basis of talent alone are real; but they are the exceptions rather than representative. The relative weight of personal and Academic connection is exposed in the record of the provision of references for students. Of the forty-three referees recorded between 1809 and 1816, less than half (nineteen) were Academicians. One of those was Henry Fuseli, who as Keeper of the Academy Schools through this period must have provided references as part of his duties, and accordingly provided the second largest number of recommendations (nineteen; all but one students at the RA). The lead in providing references was taken by William Alexander, artist and keeper of prints and drawings (twenty-two; mainly but not exclusively students). Overall, officers and Trustees were most active in admitting students. Most only ever provided a reference for one, or at most a handful, and the jibe about “friends of the librarians, & their friends’ friends” contains some truth. But the same point applies to the artists, most of whom only ever recommended one student, often known personally to them already: David Wilkie recommended his assistant, John Zephaniah Bell; George Dawe provided a reference for his own son; Thomas Lawrence for his pupil William Etty; Thomas Phillips and John Flaxman, the relatives of fellow Academicians; Thomas Stothard, the son of a neighbour (Kempe). Geography, too, seems to have played a role, with referees often coming from the same area as their favoured student: Francis Horner recommended John Henning, whom he had known in their native Scotland; the Scottish George Chalmers recommended James Tannock; Arthur Champernowne put forward William Brockedon, his protégé, whom he had supported in moving from Devon to the metropolis to pursue art; James Northcote recommended two fellow West Countrymen; Benjamin West, notorious for giving special assistance to visiting American students, two such (Leslie and Morse). If the admission procedure could be interpreted as an opportunity for the Academy to assert a corporate, professionalized identity, based purely on merit, we can nonetheless detect underlying patterns of kinship, personal, social, and geographical affiliation. Simply stated, even if study at the Museum was free and freely available, any given student would still need to access a letter of reference and the time to go to the Museum (as well as the material means to acquire the portfolio, paper, and chalks anticipated by the Trustees). The opening hours for students militated against anyone attending who had to use these daylight hours for work, a point which was made quite often with reference to the Reading Room through this period. 63 The most assiduous students needed the time free to study at the British Museum, something that well-off students like Eastlake, Brockedon, Briggs, and Monro had readily available to them. Their peers at the Academy who were obliged to work during the day to make a living, or who were serving apprenticeships, would simply not be able to make the hours available at the Museum. 64 The ambitious painter Thomas Christmas was free to attend the Museum, having dedicated himself to study after working as a clerk, but his brother, Charles George Christmas, who held down a job in the Audit Office, would have struggled; accounting for his studies at the Academy, he had told Farington, “He shd. continue to do the business at the Auditors' Office, Whitehall, which occupies Him from 10 oClock till 3 each day, as it will keep His mind free from anxiety abt. His means of living and leave Him with a feeling of independence.” 65 Given that the students were admitted to the Townley Gallery from noon to 4 o’clock in the afternoon, and that the Trustees continued to prohibit the use of artificial lights in the Museum, there was scarcely any real possibility of Charles George Christmas attending, although he also enjoyed the comforts of a middle-class home background (their father was a Bank of England official). With the ascent of utilitarian criticism, visitor levels were turned to anew as a measure of the institution’s fulfilment or failure to fulfil its “national” purpose. On strictly statistical terms, the Museum seemed to be successful at providing opportunities for art students. Only under the closest scrutiny, with attention to the “micro-history” of individual lives, does that illusion start to be tested. It is, though, at this “micro” level that we can apprehend the characteristic paradox of an emerging cultural modernity, one that is still with us. Yet the point, to follow Rancière, is not to see the past ascent of a present situation, but to force ourselves to feel uneasy with that sense of recognition and its tacit model of history. The evidence is that free access to culture and the (circumscribed) promotion of equality were combined with socially restrictive patterns of preferment. 66 Study at the British Museum may have been free, and freely available to properly qualified students of the Academy, but you needed to be in the right place at the right time, to have the time available, and, indeed, to know or at least be able to access the right people, to get in. This point may seem unduly sociological or even tendentious, but overlooking it involves a denial of the socially invested nature of time, specifically, of the scholastic time (given over to study or contemplation or to creation) mythically removed from the influence of social forces. 67 The acts of nomination which saw certain men and women given special access to the Townley Gallery, acts so seemingly trivial in themselves involving perhaps only an exchange of words and a scribbled note, were microcosmic manifestations of social authority of the most far-reaching kind. 68 When Robert Butt, the principal manager of the bronze and porcelain department at Messrs Howell & James, Regent-street, was examined by the Select Committee on Arts and Manufactures in 1835, he noted: The process by which a knowledge of the arts of painting and sculpture is now acquired is this: a young man receives tuition from a private master; he draws from the antique at the British Museum for a certain time, and when he shows that he has sufficient talent to qualify him for a student of the Royal Academy he is admitted; but the expense of acquiring that preliminary knowledge is considerable, and the young artist must also be maintained by his relatives during the time that he is acquiring it. 69 The following year, in a further parliamentary committee, this time dedicated to testing out the British Museum’s claims to public status, James Crabb, “House Decorator” of Shoe Lane, Fleet Street, was asked, “Did you ever obtain any assistance, by means of casts, from the better specimens of sculpture in the Museum or elsewhere?”, to which he replied, “I should derive assistance from them if I had the opportunity, but I have not time.” 70 Considered sociologically, as the personal experience of these men seems to have obliged them to do, time was certainly of the essence. The prevalence of students with secure middle-class backgrounds at the British Museum might, then, be taken as evidence of an early phase in the “middle-classification” of art practice, the awkward but evocative phrase used recently by Angela McRobbie in her eye-opening observations of careers in the present-day creative industries. 71 Whatever emphasis may be put on equality of access to educational opportunity, however rigorously fairminded and anonymized the tests and measures involved in admission procedures, without forms of positive support to counterbalance or actively adjust social inequalities, those same inequalities will tend to be reproduced, homologically, in the educational field. This is patently not a simple matter of social and material advantage underpinning artistic enterprise in a wholly predictable way; such would be a nonsense, in light of the many students who did not enjoy such advantages. Instead, it is the very flexibility built into the exclusionary processes of the emerging cultural field which is significant—the possibility that talented students could get access, gain reputation, achieve success, without being limited by their social origins. “Freeing” art education allowed for the expression of personal preferences or dispositions at an individual level, which at an aggregate level reproduced larger power relations. Exposing that ultimately exclusionary process, which may be marked only in small differences, in personal dispositions and behaviours, in the personal choices and decisions which are neither truly personal nor really pure as choices, is no small task. This essay, and the biographical survey accompanying it, with its details of a multitude of student lives otherwise scarcely recorded or recognized, is intended as a small contribution to that larger project, with the excess of data presented here perhaps imposing, in itself, new requirements on our understanding of the history of art education. Appendix Regulations for the admission of students of the Royal Academy to the Townley Gallery at the British Museum (May 1808): [7] That the students of the Royal Academy be admitted into the Gallery of Antiquities upon every Friday in the months of April, May, June, & July, & every day in the months of August and September, from the hours of twelve to four, except on Wednesdays and Saturdays the Students, not exceeding twenty at a time, to be admitted by a Ticket from the President and Council of the Royal Academy, signed by their Secretary. [8] The better to maintain decorum among the Students, a person properly qualified shall be nominated by the Royal Academy from their own body, who shall attend during the hours of study; the name of such person to be signified in writing, from time to time, by the Secretary of the Royal Academy to the Principal Librarian of the British Museum. [9] That the members of the Royal Academy have access to the Gallery of Antiquities at all admissible times, upon application to the Principal Librarian or the Senior under Librarian in Residence [10] That on the Fridays in April, May June & July one of the officers of the Department of Antiquities do attend in the Gallery of Antiquities according to Rotation in discharge of his ordinary Duty. [11] That in the months of August & September some one of the several Officers of the Museum, then in Residence, do (according to a Rotation to be agreed upon by themselves & confirmed by the Principal Librarian) attend on the Gallery upon the Days for the admission of Students. [12] That the attendants in the Department of Antiquities be always present in the Gallery during the times when the Students are admitted. 72 Footnotes The original register is held in the Keeper’s Office, Department of Prints and Drawings, British Museum. Patrick Joyce, “Speaking up for the State” (2014), https://www.opendemocracy.net/ourkingdom/patrick-joyce/ speaking-up-for-state. These points are made in light of a larger research project, which has given rise to the present study: a biographical survey of all the students of paintings, sculpture, and engraving who were active at the Royal Academy schools between its foundation in 1769 and 1830 together with a monograph, provisionally titled The Talent of Success: The Royal Academy Schools in the Age of Turner, Blake and Constable, c. 1770–1840 (forthcoming). This fuller survey indicates several important shifts over these decades, including a fundamantal shift in the proportion of students coming from family backgrounds in the arts and design-oriented trades, in comparison with those coming from professional and genteel backgrounds. It exposes, specifically, a new group whose fathers were engaged as “officers”, in the civil service or bureaucratic roles, who in turn had a disproportionate representation within the developing art establishment (as Academicians, or as officials in other cultural bodies). The term “art world”, as designating a space of co-production, stems from Howard S. Becker, Art Worlds (1984), rev. edn (Berkeley, CA: University of California Press, 2008). As deployed here, it is closer in conception to the sociological “field” as detailed by Pierre Bourdieu across a succession of influential works. Notable among these, for present purposes because of its methodological statement about the homological analysis of the world (field) of art in relation to the field of power, is The Rules of Art, trans. Susan Emanuel (Cambridge: Polity Press, 1996), esp. 214–15. See, notably, the chapter on “Workers in Art” in Samuel Smiles’s Self-Help, first published 1859 with numerous further editions. On the self-motivated artist as the model for all forms of work, see Angela McRobbie, Be Creative: Making a Living in the New Culture Industries (Cambridge: Polity Press, 2016), esp. 70–76. Holger Hoock, The King’s Artists: The Royal Academy of Arts and the Politics of British Culture, 1760–1840 (Oxford: Oxford University Press, 2003) and Hoock, “The British State and the Anglo-French Wars Over Antiquities, 1798–1858”, Historical Journal 50, no. 1 (2007): 49–72. Patrick Joyce, The Rule of Freedom: Liberalism and the Modern City (London: Verso, 2003) and Joyce, The State of Freedom: A Social History of the British State Since 1800 (Cambridge: Cambridge University Press, 2013); also his “What is the Social in Social History?”, Past and Present 206, no. 1 (2010): 213–48. On this Foucauldian framing of art education and creative production within liberalism, see McRobbie, Be Creative, 71–76 and passim. Karl Polanyi, The Great Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944; Boston, MA: Beacon Press, 2002); Michel Foucault, The Birth of Biopolitics: Lectures at the Collège de France, 1978–1979, ed. Michel Sennelert, trans. Graham Burchell (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008); Luc Boltanski and Eve Chiapello, The New Spirit of Capitalism, trans. Gregory Elliott (London and New York: Verso, 2007); Pierre Bourdieu, On the State: Lectures at the Collège de France, 1989–1992, ed. Patrick Champagne and others, trans. David Fernbach (Cambridge: Polity Press, 2014). See Edward Higgs, Identifying the English: A History of Personal Identification 1500 to the Present (London: Bloomsbury, 2011), 97–119. Higgs’s account is, essentially, positive about the liberties and rights secured by this rising documentation. The position taken here is more determinedly Foucauldian. For the foundational role of statistics in “liberalisation”, and the hidden affinities between the liberal and the totalitarian, see Michael Foucault, “Society Must Be Defended”: Lectures at the Collège de France, 1975–76, ed. Mauro Bertani and Alessandro Fontana, trans. David Macey (London: Penguin, 2004). Foucault, Birth of Biopolitics, 69. A biographical dictionary of Royal Academy students from 1769–1830. See note 3, above. Jacques Rancière, The Method of Equality: Interviews with Laurent Jeanpierre and Dork Zabunyan, trans. Julie Rose (Cambridge: Polity Press, 2016), 108. Neil Chambers, Joseph Banks and the British Museum: The World of Collecting, 1770–1830 (London: Routledge, 2007), 107. The register is mentioned in the notice of Seymour Kirkup in G. E. Bentley, Blake Records, 2nd edn (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 2004), 289n. Kirkup was an unusually assiduous student at the Museum, admitted in 1809 and renewing his ticket through to 1812. The reference in Bentley appears to be the only published reference to the register. The admission of the Paytherus sisters to draw at the Museum is noted by James Hamilton in his London Lights: The Minds that Moved the City that Shook the World, 1805–51 (London: John Murray, 2007), 72, although with reference to the early Reading Room register (marked “1795”) in the British Museum Central Archive, rather than the volume in Prints and Drawings. See J. T. Smith, Nollekens and his Times, 2 vols., 2nd edn (London: Henry Colburn, 1829), 1: 242. Viccy Coltman, Classical Sculpture and the Culture of Collecting in Britain since 1760 (Oxford: Oxford University Press, 2009), 242–44. See B. F. Cook, The Townley Marbles (London: British Museum Press, 1985) and Ian Jenkins, Archaeologists and Aesthetes in the Sculpture Galleries of the British Museum, 1800–1939 (London: British Museum Press, 1992). Chambers, Joseph Banks, 107. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 Derek Cash, “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to 1836”, British Museum Occasional Papers 133 (2002), 68. http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/ access_to_museum_culture.aspx. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1029–30. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/50–52. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/59. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1034. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1043–144. Cf. “Chapter III: Concerning the Admission into the British Museum”, in Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of the Contents of the British Museum (London, 1808), 15–16. Joseph Farington, The Diary of Joseph Farington, ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre, and others, 17 vols. (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 1978–98), 9: 3284. Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/366, 370. Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/371. Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/372–73. Diary of Joseph Farington, 9: 3313. Diary of Joseph Farington, 9: 3317. Diary of Joseph Farington, 9: 3284. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2426. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2428. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1069. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1070. The arrangement of the galleries was first detailed in a written description provided by Westmacott for Prince Hoare’s Academic Annals (London, 1809) and in Taylor Combe’s A Description of the Ancient Marbles in the British Museum, 3 vols. (London, 1812–17). See Cook, Townley Marbles, 59–61. Karl Friedrich Schinkel, “The English Journey”: Journal of a Visit to France and Britain in 1826, ed. David Bindman and Gottfried Riemann (New Haven, CT, and London, 1993), 74. The record of admissions to view prints and drawings must have arisen from the new regulations issued by the Trustees in November 1814; see, Antony Griffiths, “The Department of Prints and Drawings during the First Century of the British Museum”, The Burlington Magazine 136, 1097 (1994): 536. In March 1817 the student artist William Bewick wrote to his brother: “I last Monday set my name down as a student in the British Museum.” See Thomas Landseer, ed., Life and Letters of William Bewick (Artist), 2 vols. (London: Hurst and Blackett, 1871), 1: 37. Edward Nygren, “James Ward, RA (1769–1859): Papers and Patrons”, Walpole Society 75 (2013): 16. Jack Tupper, “Extracts from the Diary of an Artist. No.V”, The Crayon, 12 December 1855, 368. An album of drawings of the Townley Marbles in the British Museum (2010,5006.1877.1–40) appears to have been collected by Townley himself, so dates to before the installation of the marbles at the Museum. The drawings serve as records of the objects rather than student exercises. The drawings by John Samuel Agar in the Getty Research Institute are evidently preparatory for the prints published in Specimens of Antient Sculpture. BL Add MS 37,163 f.106. This and other figures in the Townley collection could also be found as casts in the Royal Academy’s plaster schools, so even if Wood’s drawing, for example, could be traced, it could not definitively be said to be made in the Townley Gallery. See Ann Chumbley and Ian Warrell, Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary Life, exh. cat. (London: Tate Gallery, 1989), 12–13. Eric Shanes, Young Mr Turner: The First Forty Years, 1775–1815 (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 2016), 33–34. Hansard (House of Commons), 16 February 1821, c.724 (online at http://hansard.millbanksystems.com/commons/ 1821/feb/16/british-museum). See Cash, “Access to Museum Culture”, 197–225 for a full account of public discussions around this date. Quoted in Cash, “Access to Museum Culture”, 208. British Museum: Returns to two Orders of the Honourable House of Commons, dated 16 th February 1821, House of Commons, 23 February 1821, 2. Cash “Access to Museum Culture”, 71. Quoted in The Literary Chronicle, 17 March 1821, 168. Edward Edwards, Lives of the Founders of the British Museum (London: Trübner and Co., 1870), 520. 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 Bibliography Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of the Contents of the British Museum. London, 1808. Becker, Howard S. Art Worlds (1984). Rev. edn. Berkeley, CA: University of California Press, 2008. Bentley, G. E. Blake Records. 2nd edn. New Haven and London: Yale University Press, 2004. Boltanski, Luc, and Eve Chiapello. The New Spirit of Capitalism. Trans. Gregory Elliott. London and New York: Verso, 2007. See Martin Myrone, “Something too Academical: The Problem with Etty”, in William Etty: Art and Controversy, ed. Sarah Burnage, Mark Hallett, and Laura Turner (London: Philip Wilson, 2011), 47–59. The barest and most conjectural biographies include those for William Carr of New Broad Street; W. W. Torrington; Edward Thomson; Richard Moses; and Mr Lewer. Information is most notably lacking for the trio of Miss Cowper, Miss Moula, and Mr Turner of Gower Street; William Hamilton of Stafford Place; William Irving of Montague Street; Thomas Williams of Hatton Garden; Daniel Jones; M. Hatley of Albermarle Street; Miss Edgar; Miss Carmichael of Granville Street; Mr Atwood; Mr Higgins of Norfolk Street; George Pisey of Castle Street; Charles White of George Street; Robert Walter Page of Wigmore Street; Henry A. Matthew; Thomas Welsh; and John Hall. Students were entered as “probationers” for a period of three months (which might be extended), and once registered could attend the Schools for a period of ten years. Ralph Irvine; Arthur Champernowne; the Chevalier de Barde; John Disney; John Campbell; Edward Utterson; John Lambert; Robert Batty; Alexander Huey; Richard Thomson; Charles Toplis; John Frederick Williams; Edward Burrows; William Carr; W. W. Torrington. Jane Landseer; Janet Ross; Georgiana Ross; the two Misses Paytherus; H. Edgar; Maria Singleton; Elizabeth Appleton; Louisa Champernowne; Miss Carmichael; Elizabeth Batty; Frances Edwards; Eliza Kempe; Ann Damer; Miss Cowper; Miss Moula; Miss Trotter; Miss Adams; Sarah Newell; Emma Kendrick; Jane Gurney. Gentleman’s Magazine (1820) and A Trip to Paris in August and September (1815), quoted by William T. Whitley in his Art in England, 1800–1820 (London: Medici Society, 1928), 263, as evidence that “It was still thought improper for women to study from such figures” as the Apollo Belvedere. Cash, “Access to Museum Culture”, 113. As the American Samuel F. B. Morse (a student at the Royal Academy and the British Museum) noted in 1811: “I was surprised on entering the gallery of paintings at the British Institution, at seeing eight or ten ladies as well as gentlemen, with their easels and palettes and oil colours, employed in copying some of the pictures. You can see from this circumstance in what estimation the art is held here, since ladies of distinction, without hesitation or reserve, are willing to draw in public.” See Edward Lind Morse, ed., Samuel F. B. Morse: His Letters and Journals, 2 vols. (Boston, MA: Houghton Mifflin, 1914), 1: 45. Lists of students admitted to copy at the British Institution appear in the Directors’ minutes, NAL RC V 12–14, and in contemporary press reports. Individuals admitted to copy at Dulwich Picture Gallery were routinely listed in the “Bourgeois Book of Regulations” from 1820; photocopies and notes at Dulwich Picture Gallery, C1 and H3. This is expecially clearly expressed in James Ward’s diary notes on his visits in 1817, meeting there the artists William Skelton, Joseph Clover, Henry Fuseli, and William Long, but also the gentlemen collectors and scholars William Lock, Edward Utterson, and Francis Douce (Nygren, “James Ward”). See Cash, “Access to Museum Culture”, 217 and passim. Although the timing of the Academy’s evening classes might seem to be more accommodating, even this may have been challenging. The master of Richard Westall, later a watercolour painter, “permitted him to draw at the Royal Academy, in the evenings; but for that indulgence he worked a corresponding number of hours in the morning”. Gentleman's Magazine, February 1837, 213. Diary of Joseph Farington, 4: 4783. On educational tests as linking “macro” and “micro”, “both sectoral mechanisms or unique situations and societal arrangements”, see Boltanski and Chiapello, New Spirit of Capitalism, 32. See Pierre Bourdieu, Pascalian Meditations, trans. Richard Nice (Stanford, CA: Stanford University Press, 2000). “Acts of nomination, from the most trivial acts of bureaucracy, like the issuing of an identity card, or a sickness or disablement certification, to the most solemn, which consecrate nobilities, lead, in a kind of infinite regress, to the realization of God on earth, the State, which guarantees, in the last resort, the infinite series of acts of authority certifying by delegation the validity of the certificates of legitimate existence”, Bourdieu, Pascalian Meditations, 245. The potentially trivial nature of the acts of nomination involved in gaining access to the British Museum is highlighted in Joseph Planta’s own account of providing recommendations (for the Reading Room) often only on the basis of casual conversations. See Cash, “Access to Museum Culture”, 207. Report of the Select Committee on Arts and Manufactures, House of Commons, 4 September 1835, 40. Report of the Select Committee on the British Museum, quoted in Edward Edwards, Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the Select Committee on the British Museum, 2nd edn (London [1839]), 14. McRobbie, Be Creative. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1043–144. 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 Bourdieu, Pierre. On the State: Lectures at the Collège de France, 1989–1992. Ed. Patrick Champagne and others. Trans. David Fernbach. Cambridge: Polity Press, 2014. – – –. Pascalian Meditations. Trans. Richard Nice. Stanford, CA: Stanford University Press, 2000. – – –. The Rules of Art. Trans. Susan Emanuel. Cambridge: Polity Press, 1996. Cash, Derek. “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to 1836.” British Museum Occasional Papers 133 (2002) http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/ access_to_museum_culture.aspx Chambers, Neil. Joseph Banks and the British Museum: The World of Collecting, 1770–1830. London: Routledge, 2007. Chumbley, Ann, and Ian Warrell. Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary Life. London: Tate Gallery, 1989. Coltman, Viccy. Classical Sculpture and the Culture of Collecting in Britain since 1760. Oxford: Oxford University Press, 2009. Combe, Taylor. A Description of the Ancient Marbles in the British Museum, 3 vols. London, 1812–17. Cook, B. F. The Townley Marbles. London: British Museum Press, 1985. Edwards, Edward. Lives of the Founders of the British Museum. London: Trübner and Co., 1870. – – –. Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the Select Committee on the British Museum. 2nd edn. London [1839]. Farington, Joseph. The Diary of Joseph Farington. Ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre and others. 17 vols. New Haven and London: Yale University Press, 1978–98. Foucault, Michel. The Birth of Biopolitics: Lectures at the Collège de France, 1978–1979. Ed. Michel Sennelert. Trans. Graham Burchell. Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008. – – –. “Society Must Be Defended”: Lectures at the Collège de France, 1975–76. Ed. Mauro Bertani and Alessandro Fontana. Trans. David Macey. London: Penguin, 2004. Griffiths, Antony. “The Department of Prints and Drawings during the First Century of the British Museum.” The Burlington Magazine 136 (1994): 531–44. Hamilton, James. London Lights: The Minds that Moved the City that Shook the World, 1805–51. London: John Murray, 2007. Higgs, Edward. Identifying the English: A History of Personal Identification 1500 to the Present. London: Bloomsbury, 2011. Hoock, Holger. “The British State and the Anglo-French Wars Over Antiquities, 1798–1858.” Historical Journal 50, no. 1 (2007): 49–72. – – –. The King’s Artists: The Royal Academy of Arts and the Politics of British Culture, 1760–1840. Oxford: Oxford University Press, 2003. Jenkins, Ian. Archaeologists and Aesthetes in the Sculpture Galleries of the British Museum, 1800–1939. London: British Museum Press, 1992. Joyce, Patrick. The Rule of Freedom: Liberalism and the Modern City. London: Verso, 2003. – – –. “Speaking up for the State” (2014). https://www.opendemocracy.net/ourkingdom/patrick-joyce/speaking-up-for-state – – –. The State of Freedom: A Social History of the British State Since 1800. Cambridge: Cambridge University Press, 2013. – – –. “What is the Social in Social History?” Past and Present 206, no. 1 (2010): 213–48. Landseer, Thomas, ed. Life and Letters of William Bewick (Artist). 2 vols. London: Hurst and Blackett, 1871. McRobbie, Angela. Be Creative: Making a Living in the New Culture Industries. Cambridge: Polity Press, 2016. Morse, Edward Lind, ed. Samuel F. B. Morse: His Letters and Journals. 2 vols. Boston: Houghton Mifflin, 1914 Myrone, Martin. “Something too Academical: The Problem with Etty.” In William Etty: Art and Controversy, ed. Sarah Burnage, Mark Hallett, and Laura Turner. London: Philip Wilson, 2011, 47–59. Nygren, Edward. “James Ward, RA (1769–1859): Papers and Patrons.” Walpole Society 75 (2013). Polanyi, Karl. The Great Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944). Boston, MA: Beacon Press, 2002. Rancière, Jacques. The Method of Equality: Interviews with Laurent Jeanpierre and Dork Zabunyan. Trans. Julie Rose. Cambridge: Polity Press, 2016. Schinkel, Karl Friedrich. “English Journey”: Journal of a Visit to France and Britain in 1826. Ed. David Bindman and Gottfried Riemann. New Haven, CT, and London: Yale University Press, 1993. Shanes, Eric. Young Mr Turner: The First Forty Years, 1775–1815. New Haven, CT, and London: Yale University Press, 2016. Smiles, Samuel. Self-Help: With Illustrations of Character and Conduct. London: John Murray, 1859. Smith, J. T. Nollekens and his Times, 2 vols. 2nd edn, London: Henry Colburn, 1829. Tupper, Jack. “Extracts from the Diary of an Artist. No.V.” The Crayon, 12 December 1855. Whitley, William T. Art in England, 1800–1820. London: Medici Society, 1928. Massimo Carboni. Keywords: estetica, arte, icona, parola, immagine, filosofia antica, il concetto dell’antico, l’antico – l’antico e il moderno – drawing from the antique – antico – filosofia antica, arte antica, statuaria antica, the lure of the antique – il gusto e l’antico --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carboni” – The Swimming-Pool Library.

 

levi: filosofo italiano - Italian philosopher of Jewish descent. Author of “Storia della filosofia romana.”

 

giornale critico della filosofia italiana.

 

Giovanni d. “Positivismo italiano.”

 

cassiodoro: noble Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cassiodoro," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia

 

casalegno, paolo. Italian philosopher author of “H. P. Grice” in “Filosofia del linguaggio.”

 

cattaneo: essential Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cattaneo," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

CARCHIA (Torino). Grice:”I once joked that if I’m introduce dto Mr. Poodle as ‘our man in eighteenth century aesthetics, the implictum is that he ain’t good at it! Not with Carchia: because (a) Carchia is a serious philosopher (b) he conceives aesthetics alla Baumagarten, having to do with communication  (“nome e immagine”, “interpretazione ed emancipazione”) and with not just the aesthetis qua sensus – but its truth value (“immagine e verita,” “l’intelligible estetico”) – a genius! On topc, my favourite piece of his philosophising is on the torso del belvedere as representing the ‘rhetoric of the sublime’!” Si laurea a Torino sotto Vattimo con la dissertazione “Il Linguaggio”. Insegna a Viterbo e Roma. Studioso di filosofia antica, traduttore. Opere: Orfismo e tragedia; Estetica ed erotica; Dall'apparenza al mistero; La legittimazione dell'arte; Arte e bellezza; L'estetica antica, ecc.  Si è anche occupato, di arte e comunicazione dei popoli 'primitivi' e di artisti contemporanei quali Savinio, Sbarluzzi e Lanzardo. La casa editrice Quodlibet raccoglie le sue opere postume. Rusce ad immaginare la filosofla, a porla in immagini -- nel solco della filosofia italiana dall'Umanesimo a Vico. Minima immoralia. Aforismi tralasciati nell'edizione italiana (Einaudi, 1954), Milano: L'erba voglio); Comunità e comunicazione (Torino: Rosemberg & Sellier); prefazione e cura di Henry Corbin, L'imâm nascosto, Milano: Celuc, 1979; Milano: SE); Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato, Milano: Celuc); Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi, Torino : Rosemberg & Sellier); Erotica. Saggio sull'immaginazione, Milano: Celuc) L'intelligibile (Napoli: Guida); Dall'apparenza al mistero. La nascita del romanzo, Milano: Celuc); Il mito in pittura. La tradizione come critica, Milano: Celuc); cura di Arnold Gehlen, Quadri d'epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Napoli: Guida) Retorica del sublime, Roma-Bari: Laterza); Il bello (Bologna: Il Mulino); Interpretazione ed emancipazione. Torino: Dipartimento di ermeneutica); introduzione a Karl Löwith, Scritti sul Giappone, Soveria Mannelli: Rubbettino); “La favola dell'essere. Commento al Sofista” (Macerata: Quodlibet); Estetica, Roma-Bari: Laterza);  L'estetica antica, Roma-Bari: Laterza); L'amore del pensiero, Macerata: Quodlibet); Nome e immagine (Benjamin, Roma: Bulzoni); Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Monica Ferrando, prefazione di Sergio Givone, Roma: Edizioni di storia e letteratura, 2003  88-8498-112-3 Kant e la verità dell'apparenza, Gianluca Garelli, Torino: Ananke, 2006  88-7325-151-X introduzione a Walter Friedrich Otto, Il poeta e gli antichi dèi, Rovereto: Zandonai. L’immaginazione come orizzonte nomade della conoscenza. Produttività e trascendentalità dell’immaginazione nella critica del giudizio. L’immaginazione senza immagini. La notte delle immagini, il ricordo, la memoria. L’immaginazione come autotrasparire dell’apparenza rappresentativa. Naturalismo simbolico e simbolica naturale. Angelologia. Alighieri: spiritus phantasticus e alta fantasia. Gemellarità dell’immaginazione gnostica. L’immaginazione speculativa. Simbolismo e imagismo. Il fantastico come ideologia. Il romantico. L’immaginazione come dimora del padre. Demone e allegoria. La forza del nome. Icona e coscienza sofianica. Mistica. Mimesi e metessi. La nuova accademia: l’estetico. Paradigma, schema, immagine. Gianni Carchia. Keywords: erotica, il bello, la comunicazione dei primitivi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carchia” – The Swimming-Pool Library.

 

CARDANO (Pavia). Filosofo. Grice: “I’m sure Cardano does not mean chance by aleae! It’s a Roman notion, not an Arabic one!” Grice: “Cardano is a fascinating philosopher, but then so is I [sic]!” Grice: “My faavourite philosophical topic by Cardano is what he calls, well, his Italian translators call – recall that Italian philosophy is written in the ‘learned’! – ‘gioco d’azzardo’, ludo alaea – which is what conversation is – what is conversation is not a game of azzardo? But Cardano also refutes all that Malcolm says about ‘dreaming,’ never mind Freud – Italians are obsessed with a male sleeping: Rinaldo, Tasso, Botticelli (“sleeping Mars”), not to mention the search for the Etruscan equivalent to ‘oneiron,’ the god – one of my most precious souvenirs is a little medal of Cardano: not so much for his very Roman nose (charming as it is) but for the backside, which represents Oneiron, indeed, aong the ladies!” Poliedrica figura del Rinascimento. Riconosciuto come il fondatore della probabilità, coefficiente binomiale e teorema binomial. A lui si deve anche la parziale invenzione dell’ implicatura e della serratura, della sospensione cardanicache permette il moto libero, ad esempio, delle bussole nautiche ed è alla base del funzionamento del giroscopioe della riscoperta del giunto cardanico. Animos scio esse immortales, modum nescio. So che l'anima è immortale, ma non ho capito come funzioni la cosa. Figlio del nobile Fazio, un giurista esperto nella matematica tanto da essere consultato da da Vinci su alcuni problemi di geometria.  Fazio conobbe a Milano la vedova, madre di tre figli, Chiara Micheri (o de Micheriis) di cui s'innamora iniziando con questa, che vive con la famiglia del defunto marito, una relazione clandestina che porta al concepimento di un quarto figlio. Per non essere coinvolto nello scandalo prega un suo amico di Pavia, il patrizio Isidoro Resta, affinché assumesse Chiara come governante nella sua casa. Prima che lei partorisse, i suoi tre figli morirono quasi contemporaneamente di peste e lei tenta allora di abortire, senza riuscirci, del nascituro che ebbe il nome di Gerolamo e che lasciò scritto nella sua autobiografia. Dopo che mia madre tenta senza risultato dei preparati per abortire, vengo alla luce a Pavia. Come morto, infatti, sono nato, anzi sono stato strappato al suo grembo, con i capelli neri e ricciuti. Il bambino contrasse la peste dalla sua balia, che ne morì, e fu allevato da altre nutrici. E trasferito a Milano dal padre che anda ad abitare con lui solo quando ha solo sette anni, età in cui prese ad accompagnare il padre nei suoi viaggi d'affari. Essendo delicato di salute, si ammala gravemente. Solo dopo una lunga convalescenza poté riprendere a viaggiare con il padre dedicandosi nel frattempo agli studi di filosofia, nei quali ha modo di eccedere per le sue doti quando puo iscriversi a Pavia e Mantova per studiare filosofia, contrariamente ai desideri del padre che avrebbe preferito avviarlo agli studi giuridici.  Lasciata Milano in preda alla peste e sconvolta dalla guerra francese, si trasfere a Padova e si laurea a Venezia. E oggetto dell'astio che molti tutori hanno nei confronti di quello tutee geniale ma dal carattere scontroso e talora offensive. Sono poco rispettoso e non ho peli sulla lingua, soprattutto mi lascio trascinare dall'ira, al punto che poi mi dispiace e me ne vergogno. Riconosco che tra i miei vizi ce n'è uno molto grande e tutto particolare: quello di non riuscire a trattenermianzi ne gododal dire a chi mi ascolta ciò che gli risulta sgradevole udire. Persevero in questo difetto coscientemente e volontariamente, pur sapendo quanti nemici da solo mi abbia procurator. Nel frattempo a Milano e morto il padre che ha regolarizzato la sua convivenza sposando la madre del filosofo.  Non potendo tornare a Milano per l'epidemia e la guerra, prese dimora a Piove di Sacco. Esercita la sua professione a Gallarate.  Ottenne la cattedra per l'insegnamento della filosofia presso le scuole Piattine di Milano, dove aveva insegnato anche il padre. La sua fama di esperto dottore si accrebbe per aver risanato alcuni membri della famiglia Borromeo. Dovette rifiutare alcuni incarichi di prestigio perché non retribuiti fino a quando e ammesso nel Collegio dei medici di Milano. Accetta di ricoprire la cattedra di filosofia a Pavia, rifiutando le offerte che gli venivano reiterate dal papa Paolo III. Cura, con esiti positivi, l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, malato d'asma. Intuì probabilmente la natura allergica della malattia proibendo a Hamilton di usare cuscini e materassi di piume. Per aumentare la sua fama volle fare l'oroscopo all'arcivescovo e al re, e lesse nelle stelle un futuro radioso per entrambi. Hamilton fu impiccato quasi subito dai riformatori. Il re muore di tubercolosi. Rifiuta le prestigiose e ben retribuite offerte del re di Francia e della regina di Scozia.  Colpito da un doloroso avvenimento riguardante il figlio Giovanni Battista, medico anche lui, che, nonostante gli avvertimenti del padre, aveva voluto sposare una donna povera e di cattivi costume. Per necessità economiche il figlio coabita dai parenti della moglie avviando una convivenza caratterizzata dalla nascita successiva di tre figli e da continui litigi dovuti anche alle infedeltà della moglie che egli decise di uccidere, con la complicità di una serva, facendole mangiare una focaccia avvelenata con l'arsenico. Arrestato subito per uxoricidio, il figlio confessa il delitto e dopo un veloce processo, nonostante la difesa con tutti i mezzi messa in atto dal padre, fu condannato alla decapitazione. Gerolamo, convinto che la durezza della condanna fosse dovuta all'invidia dei suoi colleghi, per sfuggire alle malevole voci che lo accusavano di intrattenere rapporti illeciti con i suoi tutee, si trasfere a Bologna. Venne ulteriormente amareggiato dalla condotta scapestrata del figlio Aldo che lo diffama per tutta la città e che arriva a derubarlo così che il padre dovette denunciarlo alle autorità che espulsero il figlio dal territorio bolognese. A questa disgrazia si aggiunse inaspettata la notizia che si stava preparando contro di lui un'accusa di eresia tanto che il cardinale Giovanni Morone gli consigliò di lasciare il pubblico insegnamento della filosofia. Questa misura prudenziale non valse però a salvare Gerolamo che fu arrestato per eresia assieme al suo tutee Rodolfo Silvestri che non volle abbandonare il tutore. Non si conoscono le accuse che gli erano rivolte dall'Inquisizione. Tuttavia si era distinto per una certa imprudenza nei confronti della Chiesa, governata dal severo Papa Pio V, per aver compilato un oroscopo di Gesù, la cui vita così sarebbe stata decisa dalle stelle, scritto l'encomio di Nerone, persecutore dei cristiani, e soprattutto per i suoi confidenziali rapporti con i circoli protestanti frequentati dal suo tuteei, dal genero e dall'editore e tipografo dei suoi libri. Nonostante le testimonianze a suo favore di quasi tutti i suoi tutee, Cardano fu messo in carcere e poi agli arresti domiciliari sino a quando la Sacra Congregazione tramite l'inquisitore di Bologna gli impose la professione dell'abiura prima in forma grave (de vehementi) coram populo e successivamente in forma meno infamante (coram congregationem).  Si sottopose docilmente alla abiura promettendo in una lettera a papa Pio V di non insegnare più pubblicamente filosofia (la cattedra all'università gli era stata intanto tolta) e di non pubblicare altre opere.  Lasciata Bologna Cardano si trasfere, sotto la diretta protezione di Pio V, a Roma dove fu ben accolto ma gli fu negata una pensione che gli fu invece assegnata da Gregorio XIII che era stato suo tutee a Bologna..E ammesso al Collegio romano. Si dedica alla composizione della sua autobiografia De vita propria. Il punto focale della sua filosofia è il concetto rinascimentale di “uomo universale" che dà alla sua ricerca della verità un contenuto enciclopedico. Scrive più di duecento opere che solo in parte furono pubblicate nel XVI secolo e che, altrettanto parzialmente, confluirono nei dieci volumi della monumentale “Opera omnia” dove si trattano temi di metafisica, omosessualita, mascolinita, il machio, il maschile, la medicina, scienze naturali, matematica, astronomia, scienze occulte, tecnologia. Egli, che si occupa anche della interpretazione dei sogni, della chiromanzia, della numerologia, del paranormale rende difficile distinguere nella sua filosofia il contenuti moderno del sapere dalle tradizioni metafisiche e magiche del passato. Vuole arrivare a una sistemazione unitaria della molteplicità dei saperi così che la nostra incerta conoscenza eviterebbe la confusione se potesse discendere dall'uno ai molti. Ma questo obiettivo, di origine neo-platonica, sfugge però all'uomo il quale allora è preferibile che occupi il suo intelletto in quei campi dove riesce, quasi come un dio creatore o ‘genitore’ – o ingegnero, a fare le cose. Questo avviene nell’aritmetica che si incarna nell'esperienza in un rapporto astratto-concreto la cui definizione ancora non è in grado di elaborare  Dopo aver analizzato nel “De subtilitate” i molteplici principi delle cose naturali e artificiali, si rivolge allo studio di tutto l'universo e delle sue parti (De rerum varietate), che concepisce come legate da sim-patia (attrazione) e anti-patia (repulsione) fra gli astri e l'uomo) e connessioni che consentono al filosofo, che conosce il linguaggio della natura e gli effetti degli influssi astrali sulla vita sessuale umana, di compiere quei "miracoli naturali" che sono le magie, di elaborare previsioni astrologiche e di stendere gli oroscopi delle religioni come quello dedicato a Cristo.  Il contributo in matematica  Noto soprattutto per i suoi contributi all'aritmetica, pubblica le soluzioni dell'equazione cubica e dell'equazione quartica nella sua “Ars magna”. Parte della soluzione dell'equazione cubica gli era stata comunicata da Tartaglia. Successivamente questi sostenne che Cardano aveva giurato di non renderla pubblica e di rispettarla come di sua origine. Si avvia così una disputa che dura un decennio. Cardano sostenne di averne pubblicato il testo solo quando era venuto a sapere che il Tartaglia avrebbe appreso la soluzione dalla voce dal bolognese Scipione del Ferro. La soluzione di Tartaglia, pur essendo successiva a quella di Scipione Dal Ferro (comunque mai pubblicata), risulta essere indipendente da questa. La soluzione della equazione cubica è detta comunque di Cardano-Tartaglia. L'equazione quartica venne invece risolta da Lodovico Ferrari, un tutee di Cardano. Nella prefazione dell'“Ars Magna” vengono accreditati sia Tartaglia che Ferrari. Nei suoi sviluppi delle soluzioni occasionalmente si serve del concetto di numero complesso, ma senza riconoscerne l'importanza come invece saprà fare Bombelli. Nell'ambito della scienza medica, l'esempio di Vesalio, che negli stessi anni aveva contestato l'anatomia galenica, spinse Cardano a definire Galeno un cattivo interprete di Ippocrate. Le sue critiche a Galeno erano comunque presentate come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più antica e, si presumeva, più autentica. Fu il primo a descrivere la febbre tifoide. Venne invitato in Scozia a curare l'Arcivescovo di Sant'Andrea che soffe di asma probabilmente d'origine allergica. Seguendo i precetti di Maimonide riusce a guarirlo utilizzando delle cure modernissime per l'epoca: eliminare piume e polvere e mantenere una dieta controllata. Al ritorno dalla Scozia si ferma a Londra, dove incontrò il re d'Inghilterra per il quale redasse un oroscopo secondo il quale prospetta Edoardo VI una lunga vita seppure turbata da alcune malattie. La sua fama di si diffuse in Inghilterra tanto da interessare Shakespeare che nella "Tempesta" rappresenta un personaggio molto simile a Cardano ed inoltre una prova della sua perdurante popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione del suo ‘De Consolatione’ è proprio il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo celeberrimo monologo ‘Essere o non essere’. De subtilitate e il libro che Amleto tiene in mano all'inizio del secondo atto, quando Polonio gli domanda cosa stia leggendo e lui risponde: "parole, parole, parole". Progetta inoltre svariati meccanismi tra i quali:  la serratura a combinazione; la sospensione cardanica, consistente in tre anelli concentrici collegati da snodi, in grado di ospitare una bussola o un giroscopio, garantendo la libertà di movimento dello strumento; il giunto cardanico, dispositivo che consente di trasmettere un moto rotatorio da un asse a un altro di diverso orientamento e viene tuttora usato in milioni di veicoli. Ma pare fosse già conosciuto, anche se porta il suo nome perché appare nella sua opera De Rerum Varietate  in una illustrazione navale. L'invenzione di questo tipo di giunto in realtà risale almeno al III secolo a.C., ad opera di scienziati greci come Filone di Bisanzio, che nella sua opera Belopoiika lo descrive chiaramente. Egli dette svariati contributi anche all'idrodinamica. Sostene l'impossibilità del moto perpetuo, con l'eccezione dei corpi celesti. Pubblica anche due opere enciclopediche di scienze naturali che contengono un'ampia varietà di invenzioni, fatti ed enunciati afferenti all'occultismo e alla superstizione: il De Subtilitate e successivamente il De Varietate. Introdusse la griglia cardanica, un procedimento crittografico.A Cardano è attribuito anche il gioco rompicapo descritto nel De subtilitate, ma probabilmente risalente a un periodo più antico, chiamato Gli anelli di Cardano. Altre opere: Della sua vita avventurosa e molto travagliata, rimane testimonianza nella sua autobiografia. Ebbe spesso problemi di denaro e per cavarsela si dedicò ai giochi d'azzardo per i quali ha una vera passione di cui si pente. Così ho dilapidato contemporaneamente la mia reputazione, il mio tempo e il mio denaro. (zeugma – segnato da ‘dilapidare’ – denaro, dilapidare il suo tempo, dilapidare la sua reputazione. Pubblica un saggio sulle probabilità nel gioco, “De ludo aleae” che contiene la prima trattazione sistematica della probabilità, insieme a una sezione dedicata a metodi per barare efficacemente. Oltre alla produzione dialettica, di carattere più strettamente filosofico sono invece il De subtilitate e il De rerum varietate, ampie raccolte delle sue osservazioni empiriche e delle sue speculazioni occultistiche.  Della sua produzione filosofica sterminata possono considerarsi come le opere più importanti:  De malo recentiorum medicorum usu libellus, Venezia, 1536 (medicina). Practica arithmetice et mensurandi singularis, Milano. Artis magnae sive de regulis algebraicis liber unus (conosciuta anche come Ars magna), Nuremberg. De immortalitate. Opus novum de proportionibus. Contradicentium medicorum. De subtilitate rerum, Norimberga, editore Johann Petreius (fenomeni naturali). De libris propriis, De restitutione temporum et motuum coelestium; De duodecim geniturarum -- commento astrologico a dodici nascite illustri. De rerum varietate, Basilea, editore Heinrich Petri. Fenomeni naturali. De signo. De causis, signis, ac locis Morborum. Bologna. Opus novum de proportionibus numerorum, motuum, ponderum, sonorum, aliarumque rerum mensurandarum. Item de aliza regula, Basilea (matematica). De vita propria. Proxeneta  (politica).  Metoscopia libris tredecim, et octingentis faciei humanae eiconibus complexa, Liber de ludo aleae, postumo (probabilità). Le sue opere vennero raccolte e pubblicate a Lione  in 10 volumi. L’Encomio di Nerone. A lui è dedicato il cratere lunare Cardano e un asteroide. È intitolato a lui l'Istituto  "G. Cardano" della sua città natale, nel cui cortile interno è posta una scultura che rappresenta il giunto cardanico, nonché infine l'omonimo collegio universitario pavese.  La blockchain "Cardano" (ADA) prende il suo nome, in quanto basata su un approccio scientifico e matematico. Della mia vita. Somniorum synesiorum omnis generis insomnia explicantes (Basilea). tti del Convegno, Castello Visconti di San Vito, Somma Lombardo, Varese ed. Cardano); Università Bocconi. Equazione di terzo grado"  Il Rinascimento. Omeopatia e allergie, Tecniche Nuove); Cardano, Edizioni Cardano, Il Prospero della "Tempesta”  somiglia tanto a Cardano in Corriere. La tecnologia scientifica, in La rivoluzione dimenticata: il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli Editore); Il libro della mia vita, Cerebro editore); Della mia vita, Alfonso Ingegno, Serra e Riva editori, Milano). La formula segreta. Il duello matematico che infiammò l'Italia del Rinascimento. ileae, per Ludouicum Lucium); “De propria vita” (Milano, Sonzogno). Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci Antonii Ravaud. Aforismi (Milano, Xenia). Palingenesi. Dizionario biografico degli italiani. Il filosofo quantistico. L’avventure di Cardano, filosofo e giocatore d'azzardo (Bollati Boringhieri, Torino Edizione); “La mia vita” (Milano, Luni). Che sfortuna essere un genio. Indice delle Opera omnia Volume 1                                              Frontespizio  Lettera dedicatoria  Praefatio  Vita Cardani per Gabrielem Naudaeum  Testimonia  Elenchus generalis  Index librorum tomi primi  Previlege du roy 1.1De vita propria    Le redazioni del 1544, 1557 e 1562    (Archivio) 1.2De libris propriis (Archivio) 1.3De Socratis studio (Archivio) 1.4Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis (Archivio) 1.5Actio in Thessalicum medicum (Archivio) 1.6Neronis encomium (Archivio) 1.7Podagrae encomium (Archivio) 1.8Mnemosynon (Archivio) 1.9De orthographia (Archivio) 1.10De ludo aleae  (Archivio) 1.11De uno (Archivio) 1.12Hyperchen (Archivio) 1.13Dialectica (Archivio) 1.14Contradictiones logicae (Archivio) 1.15Norma vitae consarcinata, sacra vocata (Archivio) 1.16Proxeneta (Archivio) 1.17De praeceptis ad filios (Archivio) 1.18De optimo vitae genere (Archivio) 1.19De sapientia (Archivio) 1.20De summo bono (Archivio) 1.21De consolatione (Archivio) 1.22Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani ipsius patris  (Archivio) 1.23Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione (Archivio) 1.24Dialogus Tetim seu de humanis consiliis (Archivio) 1.25Dialogus Guglielmus seu de morte (Archivio) 1.26De minimis et propinquis (Archivio) 1.27Hymnus seu canticum ad Deum (Archivio)  Indice rerum Volume 2  Frontespizio  Index librorum tomi 2.1De utilitate ex adversis capienda (Archivio) 2.2De natura (Archivio) 2.3Theonoston seu de tranquilitate (Archivio) 2.4Theonoston seu de vita producenda (Archivio) 2.5Theonoston seu de animi immortalitate  (Archivio) 2.6Theonoston seu de contemplatione (Archivio) 2.7Theonoston seu hyperboraeorum historia (Archivio) 2.8De immortalitate animorum (Archivio) 2.9De secretis (Archivio) 2.10De gemmis et coloribus (Archivio) 2.11De aqua (Archivio) 2.12De vitali aqua seu de aethere (Archivio) 2.13De aceti natura (Archivio) 2.14Problemata (Archivio) 2.15Se la qualità può trapassare di subbietto in subbietto (Archivio) 2.16Discorso del vacuo  (Archivio)  De fulgure liber unus  Indice rerum Volume 3  Frontespizio  Index librorum tomi 3.1De rerum varietate (Archivio) 3.2De subtilitate (Archivio) 3.3In calumniatorem librorum de subtilitate (Archivio)  Indice rerum Volume 4  Frontespizio  Index librorum tomi 4.1 De numerorum proprietatibus (Archivio) 4.2Practica arithmeticae (Archivio) 4.3Libellus qui dicitur, Computus minor (Archivio) 4.4Ars magna (Archivio) 4.5Ars magna arithmeticae  (Archivio) 4.6De aliza regula (Archivio) 4.7Sermo de plus et minus (Archivio) 4.8Geometriae encomium (Archivio) 4.9Exaereton mathematicorum (Archivio) 4.10De proportionibus (Archivio) 4.11Operatione della linea (Archivio) 4.12Della natura de principii et regole musicali (Archivio) Volume 5  Frontespizio  Index librorum tomi 5.1De restitutione temporum et motuum coelestium (Archivio) 5.2De providentia ex anni constitutione (Archivio) 5.3Aphorismorum astronomicorum segmenta septem (Archivio) 5.4In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis (Archivio) 5.5De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus (Archivio) 5.6De iudiciis geniturarum (Archivio) 5.7De exemplis centum geniturarum (Archivio) 5.8Geniturarum exempla  (Archivio) 5. De interrogationibus (Archivio) 5.10De revolutionibus (Archivio) 5.11De supplemento almanach (Archivio) 5.12Somniorum synesiorum (Archivio) 5.13Astrologiae encomium (Archivio) Volume 6  Frontespizio  Index librorum tomi 6.1 Medicinae encomium (Archivio) 6.2De sanitate tuenda (Archivio) 6.3Contradicentium medicorum (Archivio) Volume 7  Frontespizio  Index librorum tomi 7.1De usu ciborum  (Archivio) 7.2De causis, signis ac locis morborum (Archivio) 7.3De urinis (Archivio) 7.4Ars curandi parva (Archivio) 7.5 De methodo medendi (Archivio) 7.6De cina radice (Archivio) 7.7De sarza parilia (Archivio) 7.8Disputationes per epistolas liber unus (Archivio) 7.9De venenis (Archivio) 7.10In librum Hippocratis de alimento commentaria (Archivio) Volume 8  Frontespizio Index librorum tomi 8.1In librum Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria (Archivio) 8.2In septem aphorismorum Hippocratis commentaria (Archivio) 8.3In Hippocratis coi prognostica commentaria (Archivio) Volume 9  Frontespizio  Index librorum tomi 9.1In librum Hippocratis de septimestri partu commentaria (Archivio) 9.2Examen XXII. aegrorum Hippocratis (Archivio) 9.3Consilia (Archivio) 9.4De dentibus (Archivio) 9.5De rationali curandi ratione (Archivio) 9.6De facultatibus medicamentorum (Archivio) 9.7De morbo regio (Archivio) 9.8De morbis articularibus  (Archivio) 9.9Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen (Avicenna)  (Archivio) 9.10Vita Ludovici Ferrarii (Archivio) 9.11Vita Andreae Alciati (Archivio) Volume 10  Frontespizio  Index librorum tomi 10.1De arcanis aeternitatis  (Archivio) 10.2Politices seu Moralium liber unus (Archivio) 10.3Elementa Graeca (Archivio) 10.4De inventione (Archivio) 10.5 De naturalibus viribus (Archivio) 10.6 De musica (Archivio) 10.7Artis arithmeticae tractatus de integris (Archivio) 10.8Expositio Anatomiae Mundini (Archivio) 10.9In libros Hippocratis de victu in acutis commentaria (Archivio) 10.10In libros epidemiorum Hippocratis commentaria (Archivio) 10.11De epilepsia (Archivio) 10.12De apoplexia  (Archivio) 10.13De humanis civilibus successionibus (Paralipomena)  (Archivio) 10.14De humana perfectione (Paralipomena) (Archivio) 10.15Peri thaumason seu de admirandis (Paralipomena) (Archivio) 10.16De dubiis naturalibus (Paralipomena) (Archivio) 10.17De rebus factis raris et artificiis (Paralipomena) (Archivio) 10.18De humana compositione naturalium (Paralipomena) (Archivio) 10.19De mirabilibus morbis et symptomatibus (Paralipomena) (Archivio) 10.20De astrorum et temporum ratione et divisionibus (Paralipomena) (Archivio) 10.21De mathematicis quaesitis (Paralipomena) (Archivio) 10.22Historiae lapidum, metallicorum et metallorum (Paralipomena) (Archivio) 10.23Historiae animalium (Paralipomena) (Archivio) 10.24Historiae plantarum (Paralipomena) (Archivio) 10.25De anima (Paralipomena) (Archivio) 10.26De dubiis ex historiis (Paralipomena) (Archivio) 10.27De clarorum virorum vita et libris (Paralipomena) (Archivio) 10.28De hominum antiquorum illustrium iudicio (Paralipomena) (Archivio) 10.29De usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore (Paralipomena)  (Archivio) 10.30De sapiente (Paralipomena) (Archivio)  Indice rerum. De vita propria. De libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De orthographia. De ludo aleae. De uno. Hyperchen. Dialectica. Contradictiones logicae. Norma vitae consarcinata, sacra vocata. Proxeneta. De praeceptis ad filios. De optimo vitae genere. De sapientia. De summo bono. De consolatione. Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani ipsius patris. Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione. Dialogus Tetim seu de humanis consiliis. Dialogus Guglielmus seu de morte. De minimis et propinquis. Hymnus seu canticum ad Deum. De utilitate ex adversis capienda. De natura. Theonoston seu de tranquilitate. Theonoston seu de vita producenda. Theonoston seu de animi immortalitate. Theonoston seu de contemplatione. Theonoston seu hyperboraeorum historia. De immortalitate animorum. De secretis. De gemmis et coloribus. De aqua. De vitali aqua seu de aethere. De aceti natura. Problemata. Se la qualità può trapassare di subbietto in subbietto. Del vacuo. De fulgure. De rerum varietate. De subtilitate. In calumniatorem librorum de subtilitate. De numerorum proprietatibus. Practica arithmeticae. Libellus qui dicitur, Computus minor. Ars magna. Ars magna arithmeticae. De aliza regula. Sermo de plus et minus. Geometriae encomium. Exaereton mathematicorum. De proportionibus. Operatione della linea. Della natura de principii et regole musicali. De restitutione temporum et motuum coelestium. De providentia ex anni constitutione. Aphorismorum astronomicorum segmenta septem. In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis. De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum. De exemplis centum geniturarum. Geniturarum exempla. De interrogationibus. De revolutionibus. De supplemento almanach. Somniorum synesiorum. Astrologiae encomium. Medicinae encomium. De sanitate tuenda. Contradicentium medicorum. De usu ciborum. De causis, signis ac locis morborum. De urinis. Ars curandi parva. De methodo medendi. De cina radice. De sarza parilia. Disputationes per epistolas. De venenis. In librum Hippocratis de alimento commentaria. In librum Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria. In septem aphorismorum Hippocratis commentaria. In Hippocratis coi prognostica commentaria. In librum Hippocratis de septimestri partu commentaria. Examen XXII. aegrorum Hippocratis. Consilia. De dentibus. De rationali curandi ratione. De facultatibus medicamentorum. De morbo regio. De morbis articularibus. Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen (Avicenna). Vita Ludovici Ferrarii. Vita Andreae Alciati. De arcanis aeternitatis. Politices seu Moralium. Elementa Graeca. De inventione. De naturalibus viribus. De musica. Artis arithmeticae tractatus de integris. Expositio Anatomiae Mundini. In libros Hippocratis de victu in acutis commentaria. In libros epidemiorum Hippocratis commentaria. De epilepsia. De apoplexia. Paralipomena. De humanis civilibus successionibus. De humana perfectione. Peri thaumason seu de admirandis. De dubiis naturalibus. De rebus factis raris et artificiis. De humana compositione naturalium. De mirabilibus morbis et symptomatibus. De astrorum et temporum ratione et divisionibus. De mathematicis quaesitis. Historiae lapidum, metallicorum et metallorum. Historiae animalium. Historiae plantarum. De anima. De dubiis ex historiis. De clarorum virorum vita et libris. De hominum antiquorum illustrium iudicio. De usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente.Hieronymus Cardanus. Hieronimo Cardano. Gerolamo Cardano. Keywords: masculinity, machio – maschile, Prospero, De signo, De signis, de Casis, signis, ac locis Morborum, ten volumes of “Opera omnia” analytic index – he wrote about almost everything – including logic, dialettica, metafisica, psicologia, anima, fisionomia, same-sex, he criticised Galenus for not realizing the distinction that at 14, a puer becomes an adolescent – his oeuvre is being examined in masculinity studies – masculinity Italian, Bolognese masculinity. He claimed that Bolognese males were ‘tasteful’ and underrated compared to Milaenese or Florentine males – he lived all over the place – he had many tutees, whose names survive – he was possibly paranoid – Silvestri was his best known tutee –analytic index of “Opera Omnia” --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.

 

 

CARDANO (Lumellogno). Filosofo. lombardia -- Grice: “If William was called Ockham, I should be called Harborne, and Petrus Lombardia!” --  Pietro Lombardo rappresentato in una miniatura a decorazione di una littera notabilior di un manoscritto Pietro Lombardo o Pier Lombardo (Lumellogno di Novara, 1100Parigi, 1160 circa) teologo e vescovo italiano. Nacque a Novara o nei dintorni (a Lumellogno esiste una lapide su di una casa che risorda il luogo della nascita) , all'inizio del XII secolo. Ricevette la sua prima formazione teologica a Bologna, dove acquisì una perfetta conoscenza del Decretum Gratiani. Dopo il 1136 si recò a Reims e poi a Parigi, dove fino alla sua elevazione alla sede vescovile di questa città (1159) insegnò teologia. Almeno una volta in questo periodo, tra il 1145 e il 1153, si recò alla corte pontificia, dove venne a conoscenza della traduzione del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, compiuta da Burgundio Pisano per incarico di Eugenio III. Quasi certamente nel 1147 fu uno dei teologi che nel sinodo parigino presero posizione contro Gilberto Porretano.  Dopo un breve episcopato (1159-1160) morì il 21 o 22 luglio del 1160 (non del 1164). Il suo epitaffio si conservò nella chiesa di Saint Marcel fino alla Rivoluzione francese. Dante lo nomina in Paradiso, X, 106-108.  Oltre ai commenti all'opera di Paolo di Tarso e ai Salmi, la sua opera maggiore rimane il Liber Sententiarum (Libro delle Sentenze), scritta fra il 1150 ed il 1152 e per la quale ottenne l'appellativo di Magister Sententiarum. Sebbene il testo rientri in un genere letterario tipico della teologia medievale, ossia l'esposizione delle sentenze delle autorità di fede (i padri della chiesa ed i riferimenti biblici) l'opera del Lombardo, per l'ampiezza delle fonti e la sua originalità, diverrà il testo di riferimento per la didattica nelle facoltà di teologia e l'elaborazione letteraria nello stesso campo fino alla fine del XVI secolo. Egli infatti attinge ad una vasta letteratura in merito, adottando anche testi che normalmente non erano contemplati in queste composizioni, come Il De fide ortodoxa di Giovanni Damasceno.  Con la sua opera il Lombardo tenta di sistematizzare e armonizzare la disparità e le divergenze che la pluralità delle auctoritates aveva generato, dando luogo ad un certo scompiglio ermeneutico e dottrinale. Riprendendo la classica distinzione agostiniana tra signa e res, Lombardo afferma che il motivo delle divergenze non appartiene alla natura delle cose trattate, bensì alla metodologia esegetica.  Il testo si divide in quattro parti:  la prima tratta di Dio, della sua natura e dei suoi attributi; la seconda delle creazione degli angeli, del mondo e dell'uomo sino al peccato originale; la terza dell'incarnazione cristica e della promessa della Grazia; la quarta dei sacramenti. Anche lo sviluppo del testo mantiene la distinzione tra res (le prime tre parti) e signa (l'ultima) Lo stile del Lombardo snoda l'esposizione delle sentenze coll'eleganza dialettica di tipo anselmiano mantenendosi aderente al rispetto delle varie auctoritates anche riguardo o stile letterario col quale egli opera una volontaria mimesi.  Il testo venne criticato sin dalla sua prima uscita per via del cosiddetto nichilismo cristologico. Lombardo descrive infatti l'incarnazione nei termini di assumptus homo, ossia la persona divina del Cristo avrebbe assunto una natura umana (accessoriamente). Ciò contrastava con la determinazione di origine boeziana per la quale la natura cristologica traeva la sua forma da un sinolo unico di divino ed umano. Note  Per approfondimenti vedere: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,  II, pag.30 e seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia  I, II, III, quarta edizione, Torino, Utet, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Utet 1998)  Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,  II, pag. 37 e seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia  I, II, III, quarta edizione, Torino, Utet, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Utet 1998)  Marcia L. Colish, Peter Lombard, Leiden, Brill, 1994 (due volumi). Pietro Lombardo. Atti del XLIII Convegno storico internazionale : Todi, 8-10 ottobre 2006, Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull'alto Medioevo, 2007.  Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di "Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia) Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Pietro Lombardo Collabora a Wikiquote Citazionio su Pietro Lombardo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Pietro Lombardo  Pietro Lombardo, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Pelster, Pietro Lombardo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Pietro Lombardo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Francesco Siri, Pietro Lombardo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Pietro Lombardo / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Pietro Lombardo, .    su Pietro Lombardo, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Pietro Lombardo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.  Sofia Vanni Rovighi, Pietro Lombardo, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970. Petrus Lombardus, Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici analitici.Hugh Chisholm , Peter Lombard, in Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge University Press. Refs.: Luigi Speranza, “Philosophical psychology in the commentaries of Pietro Lombardo and Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Lombardia Grice: “It is strange that he was called Piero da Lombardia; it would be like ‘a lad from shropshire.’ ‘Lombardia,’ unlike Ockham, ain’t a townbut a full regionIt’s different with ‘veneto,’ which is toponymic and metonymic for Venice. But if Milano was the main ever settlement in Lombardia this would be “Peter, the one from Milan.” Lombardo Pietro Lombardo Lumellogno Cardano – Grice: “It’s only natural that he was Pietro Cardano – after the city in Lombardy, Cardano – Plus, the implicature that he went by “Peter of Lombardy” having been born in Piemonte, means that the locals never saw him as one of their own!” --  Pietro Cardano – la stirpe Cardano 1600 --. Familia patrizia di Novara.  Pietro Cardano. Keywords: Cardano.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.

 

CARDIA (Roma). Filosofo. Grice: “Cardia is what I would call the Italian Hart – with a tweak – Italy and religion is Cardia’s forte – recall that the bishop of Rome has the roots in the ‘pontifex’ of old Rome, so he knows what he’s talking about!” – Grice: “Like me, Cardia has philosophised, as what the Italians call a professore di filosofia del diritto, on the ethical versus legal implicatures of the very idea of a ‘right’ (diritto). We don’t have that economy of vocabulary in Engish – calling Hart the professor of right would be unnacepptable at Oxford!”. Si laurea a Roma. Clifton has chapel services and a focus on Christianity. This is the Chapel: here, my son, Your father thought the thoughts of youth, And heard the words that one by one The touch of Life has turn'd to truth. Here in a day that is not far, You too may speak with noble ghosts Of manhood and the vows of war You made before the Lord of Hosts. The magnificent Chapel sits at the heart of Clifton both spiritually and physically and has played an important part of life. Topped by a striking copper-clad lantern and built from soft red and honey-coloured stone, the Chapel provides Christian calm, and forms a powerful link between past and present. It is a place where the community come to mark milestones and celebrate successes, and for quiet contemplation or spiritual guidance.  Brass plates placed on the back of the staff stalls mark the names of all those who have carved out a reputation. High on the walls are memorials of pupils of another age who died by accident or disease serving the Empire. One bears the moving epitaph ‘A good life hath but few days but a good name endureth forever.’  The Chapel was built to a design by C. Hansom. It is a narrow aisleless building. It is the gift of the widow of W. J. Guthrie. Hansom is given permission to quarry sufficient stone from the grounds of Clifton for the purposes of the Chapel building". The Chapel building is licensed by the Bishop of Gloucester and Bristol.  Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 Nicola Colaianni (ordinario di Diritto ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari) Quale laicità * Con questo libro Carlo Cardia si affaccia sul versante polemistico della letteratura giuridica con la maestria affinata attraverso una copiosa produzione saggistica e con la non comune versatilità che negli ultimi anni lo ha portato ad occuparsi dei problemi di tutela non solo delle confessioni religiose ma anche dei diritti umani. I bersagli della polemica sono indicati nel sottotitolo: etica, multiculturalismo, islam, non in sé naturalmente ma in quanto declinati in maniera rispettivamente relativistica, separatistica, fondamentalistica. Capaci cioè di esaltare le identità oltre ogni limite e di attentare, quindi, a quello “stato laico sociale” che, dopo secoli di storia travagliata e i totalitarismi del secolo breve, a cavallo del nuovo millennio ha trionfato un po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente. Questo carattere ben si coglie secondo l’autore nella “rivincita dei concordati”. Un fenomeno effettivamente impressionante, tanto più perché si inserisce in un trend favorevole alle relazioni con le confessioni, da cui non prendono le distanze neanche l’Unione europea, in base ad una dichiarazione allegata al trattato di Amsterdam, e la Francia della Loi de séparation, secondo le proposte della commissione governativa Machelon1 . Da esso Cardia deduce che lo stato è ormai amico delle religioni, che contribuisce attivamente a sottrarre all’irrilevanza degli affari privati e a reimmettere nel circuito pubblico, relegando l’ostilità del laicismo ottocentesco nel museo della memoria.  * Recensione a C. CARDIA, Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 202, destinata alla pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino, n. 3 del 2007. 1  Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, su Reset, n. 102/2007.  Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 2 Dal quale non varranno a riesumarla le “guerricciole”, rinfocolate dal “micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere un po’ dell’epopea del passato” e non si accorge che ormai lo stato italiano gli accordi li fa anche con confessioni non cattoliche e, peraltro, non è l’unico ad integrare le scuole private e confessionali nel sistema scolastico, ad assicurare l’insegnamento religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a finanziare lautamente la chiesa cattolica ma anche le altre confessioni. L’agile sintesi storico-politica, condotta nella prima metà del libro, consente a Cardia di avallare questa laicità realistica, che ad altri2 è sembrata più propriamente “praticistica”. A quella stregua l’autore tratta con sufficienza i rinnovati contrasti tra stato e chiesa (che pure sono al centro delle preoccupazioni di altri libri coevi3 ) tanto quanto con drammaticità le sfide suindicate. A cominciare dal multiculturalismo, che in effetti nella versione spinta si presenta sotto la forma di un comunitarismo senza coesione. Il “fascino discreto” che in molti differenzialisti suscitano gli statuti personali, di medioevale o ottomana memoria, è giustamente visto come una relativizzazione della laicità: a vantaggio, in particolare, dell’islam. Ovviamente Cardia è severo con la “partita giocata su due tavoli”: non si può invocare la laicità contro i “simboli e la memoria del cristianesimo” e a favore di quelli dell’islam, per cui “verrebbero estromessi i crocifissi, ma sarebbero ammessi il velo e la preghiera degli islamici”. Ma i termini del paragone sono omogenei solo apparentemente: il crocifisso fa problema per la laicità non se portato addosso al corpo, se fa parte del libero abbigliamento dei cittadini (come il velo o altri segni religiosi), ma in quanto esposto autoritativamente, cioè imposto, negli spazi pubblici, scolastici, giudiziari. In effetti, è tutta la seconda parte del libro a risentire di questa drammatizzazione impressa ai vari scenari. Islam versus cristianesimo. Di là un sistema chiuso ad ogni interpretazione evolutiva, un’identità fissa e immutabile, di qua una religione tollerante, aperta all’interpretazione storico-critica dei testi sacri e alla laicità, la quale in essa sarebbe addirittura “germinata”. La schematizzazione diventa  2  Per esempio a P. BELLINI nel libro coevo Il diritto d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità. 3  Come quelli di G. ZAGREBELSKY, Lo stato e la chiesa, o di E. BIANCHI, La differenza cristiana, o di G.E. RUSCONI, Non abusare di Dio.  Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 3 inevitabile. In realtà, l’involuzione della seconda metà del XX secolo, a parte i fanatismi e i terrorismi, non è riuscita a spegnere le numerose voci laiche dell’islam moderno4  né, a livello istituzionale, ad annullare, pur frenandola, l’applicazione negli stati islamici di una legge non religiosa, il kanun, “nel senso laico di ‘legge di stato’ (…) in contrapposizione alla sharī ‘a” 5 . D’altro canto, bisogna riconoscere che abbiamo tutti sovracaricato il detto evangelico “Quae sunt Caesaris Caesari, quae sunt Dei Deo” di un significato improprio e anacronistico, in termini appunto di laicità, che nessun biblista ha mai potuto avallare (vorrei ricordare qui almeno Giuseppe Barbaglio, che ci ha lasciato pochi mesi fa: nel suo La laicità del credente non cita mai il versetto di Matteo). Storicamente poi, anche a voler retrodatare – seguendo Ernst-Wolfgang Böckenförde6 - alla lotta delle investiture l’inizio del processo di secolarizzazione, non v’è dubbio che per secoli la chiesa ha sostenuto la supremazia del potere spirituale ratione peccati o salutis anche nella sfera mondana. E al giorno d’oggi la più netta distinzione degli ordini formulata dal Concilio non sta impedendo il tentativo di informare la legislazione italiana al magistero ecclesiastico: è la chiesa dei no alla procreazione medica assistita (divieto dell’eterologa, della diagnosi preimpianto dell’embrione), al testamento biologico, visto come anticamera di pratiche eutanasiche, al riconoscimento pubblico di unioni civili in qualsiasi forma (pacs, dico, cus, ecc.), emblematicamente (a luglio alla Camera) al richiamo del principio di laicità come fondamento di una legge sulla libertà di religione (che pur non tocca la chiesa cattolica). Neanche Cardia indulge su questi punti. Il suo no è altrettanto netto. In nome della laicità e contro il relativismo etico. Ma poiché su quei punti, con varie sfumature, il pensiero laico (di non credenti e agnostici ma anche di credenti) è per il sì, è evidente che ci si trova davanti ad una diversa concezione della laicità. Tanto rispettabile nei suoi riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò antichi o “ancestrali”, quanto incapace di far capire - per dirla con Jürgen Habermas7  - “quale ruolo e significato i fondamenti giuridici secolarizzati della costituzione possono avere per una società  4  Cfr. l’antologia di P. BRANCA e quelle più recenti di V. COLOMBO. 5  Così ne Il linguaggio politico dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel libro. 6  Cfr. E.-W. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. 7  Cfr. J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 4 postsecolare”, come la nostra. In una democrazia necessariamente relativistica (se, al contrario, fosse assolutistica non sarebbe democrazia, insegna Kelsen) la laicità alimenta norme non di supremazia ma di compatibilità, espressive di una vocazione non paternalistica, ma responsabilizzante, nei rapporti tra stato e cittadini: visti non come meri educandi, da guidare nelle scelte etiche in base a valori esterni, ma come persone responsabili delle loro scelte nella propria autonomia e capaci di mediarle alla ricerca di quella “giusta”8 . Una laicità pluralistica e perciò non espressiva di una sola cultura ma interculturale (come dovrebbe porsi ormai tutto il diritto secondo Otfried Höffe9 ). Le cui sfide, e il libro di Cardia stimola ad intraprendere questo percorso di riflessione, non vengono da una parte sola.  8  In questo senso rilegge il da mi factum, dabo tibi ius S. RODOTÀ, La vita e le regole. 9  Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e diritto penale. LA LAICITA’ IN ITALIA (Carlo Cardia) (Convegno Giuristi cattolici, 9 dicembre 2006) Sommario. Premessa. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione. 2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento culturale. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo. 4. La crisi della laicità. Laicità ed etica. 5. Cultura laica e questione islamica. 6. Laicità e multiculturalismo. Ambiguità e prospettive. Premessa. E’ mia intenzione soffermarmi sulle problematiche attuali della laicità in Italia, anche perché sono diverse e complesse. Però, penso sia necessario dare spazio a qualche riflessione storica che ci aiuti a comprendere meglio le questioni che abbiamo di fronte nel tempo presente. Si tratta, più che di una analisi organica, di spunti ricostruttivi utili a cogliere alcune costanti della nostra tradizione. Ho avvertito questa esigenza perché l’esperienza italiana ha un tratto caratteristico che non si rinviene altrove, avendo dato vita nello spazio di poco più di un secolo a tre tipologie diverse di relazioni ecclesiastiche: una laico-separatista, una di tipo concordatario neo-confessionista, e quella costituzionale che poi si è evoluta nel quadro di una Europa che ha finito per seguire il nostro modello. Infine, l’Italia sta vivendo una vera crisi della laicità, in rapporto alla questione etica, e al multiculturalismo, ed è entrata in quella globalizzazione dei rapporti tra religione e società che riguarda l’Occidente nel suo complesso. Quindi, l’esperienza italiana non è comprensibile all’interno di un solo orizzonte storico-culturale, mentre l’analisi deve mantenere un respiro più ampio e saper individuare delle linee trasversali di riflessione, dei fili conduttori che chiariscano il percorso storico complessivo che si è compiuto. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione Il primo filo conduttore che voglio privilegiare è il rapporto che si è determinato tra conflitto e moderazione, tra correnti estreme del pensiero laico, e di quello cattolico, e soluzioni storico- 2 normative che sono state adottate. La storiografia più accreditata ci ha abituati a interpretare questo rapporto a tutto favore della conflittualità e a discapito della moderazione. Ancora oggi il conflitto tra Stato e Chiesa è considerato un tratto eminente della storia italiana, il punto focale che illumina tutto il resto. Il processo di unificazione nazionale viene letto alla luce del contrasto tra laici e cattolici, della fine del potere temporale, della prevalenza della modernizzazione sul conservatorismo cattolico. Anche l’epoca autoritaria che dà vita ai Patti Lateranensi è vista in chiave di rivincita cattolica e di sconfitta laica, come un rovesciamento di fronte rispetto all’epoca liberale. Questa interpretazione resta valida perché permette di capire tante pagine della nostra storia nazionale, ma può essere integrata con un’altra chiave di lettura che aiuti a vedere anche i chiaro-scuri, i toni più morbidi, della storia italiana. Questa chiave di lettura è quella della moderazione e dell’equilibrio che, pur nelle vicende aspre che conosciamo, ha segnato la storia italiana. L’Italia è stata moderata ed equilibrata nel separatismo, in parte nel sistema concordatario del 1929, in modo speciale nella elaborazione della Costituzione. Quando parlo di moderazione non intendo esaltare il carattere per così dire compromissorio generalmente riconosciuto alla genti italiche. Mi riferisco ad un dato realmente presente nelle nostre leggi, in ampi settori della cultura laica e di quella cattolica, che ci aiuta a meglio comprendere la storia e l’evoluzione della laicità in Italia. La moderazione del periodo separatista si manifesta in tanti modi, ma nell’insieme consente all’Italia di operare un sottile, solido compromesso con l’anima cattolica del paese su punti essenziali, ed evita l’affermazione di tendenze francesizzanti che pure esistono in esponenti della classe dirigente liberale. In Italia non si afferma mai l’idea della reformatio ecclesiae come obiettivo proprio dello Stato. L’aspirazione ad una evoluzione della Chiesa è parte integrante del pensiero laico e dei riformatori cattolici dell’Ottocento, ma da noi non si trovano tracce significative di quel disegno (tipicamente transalpino) che mira alla costituzione civile del clero, a stravolgere le strutture ecclesiastiche, a creare una chiesa nazionale quieta e obbediente al potere civile. La struttura della Chiesa, gli enti ecclesiastici mantenuti, l’educazione e la disciplina del clero, non subiscono ingerenze o stravolgimenti diretti a modificarne la natura. Nel dibattito sulle Facoltà di teologia è il ministro Correnti che respinge le tentazioni giurisdizionaliste e afferma che lo Stato non ha “né interesse, né volontà, né facoltà di creare teologi”, che l’evoluzione della religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa troverà in sé stessa, e solo in se stessa può trovare, la volontà e la forza di ravvicinarsi” alla modernità. L’unico intervento chirurgico è quello che sopprime le corporazioni e le congregazioni religiose. Ma anche in questo intervento, che storicamente si giustifica con la necessità di ridistribuire la grande proprietà ecclesiastica, non mancano i segni di moderazione, se vogliamo della dissimulazione. Come quando le comunità religiose si ricostituiscono progressivamente al riparo delle c.d. frodi pie, che consentono l’utilizzazioni di proprietà immobiliari messe a disposizione da veri prestanome. Comunque, a nessuno in Italia è mai venuto in mente di adottare leggi draconiane come quelle transalpine del 1901 e 1902, la prima che vieta alle congregazioni religiose non riconosciute l’insegnamento, la seconda che prevede multa e carcere per chi apra una scuola nella quale insegni anche un solo religioso. Ho sfioato il problema della scuola, perché su questo terreno si opera il più grande compromesso italiano, sul quale storici e giuristi si soffermano poco. Alla laicizzazione della scuola italiana, con la Legge Casati del 1859, non segue la cancellazione della presenza cattolica nel corpo scolastico pubblico. Se l’insegnamento religioso viene escluso nelle scuole superiori, rimane però in quelle elementari. La Legge Coppino del 1877 non dice nulla al  3 riguardo, e questo silenzio, con l’aiuto del Consiglio di Stato, consente di mantenere l’insegnamento religioso che, ci dice Francesco Scaduto, viene attivato da quasi tutti i Consigli comunali e seguito dalla totalità delle famiglie italiane. Neanche si può dire che la questione passi sotto silenzio, perché un Regolamento del 1908 conferma l’insegnamento religioso, e la Camera respinge nello stesso anno una mozione di Bissolati che chiede di vietare ogni presenza religiosa nelle scuole. Molto chiaramente Minghetti compara gli inconvenienti di una scuola che preveda l’insegnamento religioso a quelli di una scuola che lo esclude, e afferma che “i primi saranno sempre minori di quelli di una scuola che dovrebbe essere popolare, ma che senza Dio ripugna alla coscienza popolare e addiviene atta a soddisfare soltanto una piccola minoranza”. Si può dire che è poco, invece è moltissimo, perché la scuola elementare è l’unica vera scuola di massa dell’epoca. Per questa ragione l’Italia separatista ha operato le grandi riforme della modernità ma ha saputo mantenere un raccordo di fondo tra il sentire comune della popolazione e una legislazione non aggressiva e non punitiva. E’ l’Italia laica e separatista che affida ai maestri e alle maestrine della letteratura dell’Ottocento l’onere di trasmettere elementari ma importanti valori religiosi e morali nelle nuove generazioni. 2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento culturale L’elogio della moderazione non deve fare aggio sull’altro fattore endemico dell’esperienza italiana, su quella arretratezza che, in modo diverso, caratterizza alcuni settori della cultura laica, e della cultura cattolica, e che provoca per lungo tempo un isolamento rispetto ad altre più avanzate esperienze europee e alla cultura anglosassone, cioè rispetto al resto del mondo. Mi riferisco alle correnti laiciste che animano la cultura politica, danno vita al pensiero più autenticamente anticlericale, rendono la laicità ostile alla religione. Ma anche all’arroccarsi di quell’intransigenza che frena la capacità di iniziativa dei cattolici, li estranea a lungo dalla vita politica del Paese. Nel conflitto, e nel corto circuito, tra intransigenza cattolica e correnti laiciste sta la radice di una chiusura provinciale che in Italia condiziona a lungo le relazioni ecclesiastiche. Il radicarsi di queste tendenze immette nella cultura italiana semi che tornano a fiorire di tanto in tanto. Il laicismo estremo produce cultura, mentalità, costume, e fa sì che anche da noi come in Francia e in Spagna, laicità voglia dire tante cose negative: estraniazione della religione dalla società e dalla dimensione pubblica, ostilità alla scuola privata nonostante il liberalismo sia altrove il difensore del pluralismo scolastico, riduzione della Chiesa ad un ambito puramente cultuale. In Italia, come oltr’Alpe, il termine laico è contrapposto a cattolico, e questa antitesi, sconosciuta nei paesi anglosassoni, diviene da noi categoria del pensiero e del linguaggio. Quando faccio riferimento alle tendenze laiciste mi riferisco sia all’anticlericalismo di matrice ottocentesca che alle correnti culturali di grande dignità che da Spaventa a Bissolati rivivono poi in Gaetano Salvemini e in Ernesto Rossi, e che di più aspirano ad una Chiesa riformata, apparentemente tutta spirituale ma muta sul piano civile e sociale. Queste correnti si ravvivano quando l’accordo del 1929 tra Chiesa e fascismo di fatto umilia la laicità, provocando una frattura seria tra la cultura laica ed un cattolicesimo al quale viene restituito un ruolo di primo piano, ma con il sacrificio di altre idealità e di altri ruoli. Anche  4 l’intransigenza cattolica riaffiora più volte nella storia italiana, impedisce a tratti di cogliere le trasformazioni della società, di discernere gli aspetti positivi dalle spinte disgreganti, porta all’arroccamento su posizioni che potrebbero essere evitate. La critica più autentica a questo corto circuito non è diretta alle singole posizioni radicali che produce, quanto al fatto che da lì è derivato un certo isolamento rispetto alla cultura anglosassone, rispetto ad altre esperienze europee, come quelle dell’Olanda, del Belgio e della Germania, dove già nell’Ottocento maturano equilibri più stabili tra religione e società. Una conferma di questo provincialismo sta nell’incomunicabilità tra esperienza italiana ed esperienza statunitense, alla quale pure molti laici si richiamano, senza mai averla capita e forse conosciuta. Lo stesso Salvemini, che pure conosceva la società americana, di quell’esperienza evoca sempre e soltanto la parola separatismo, non i suoi contenuti, né la sua anima pregna di rispetto e di amicizia verso la religione. Possiamo verificare questa lontananza della cultura laica rispetto alle correnti del pensiero anglosassone su un particolare problema, quello della scuola privata, nel quale il liberalismo italiano si è discostato dai canoni del liberalismo classico per seguire un indirizzo statalistico destinato a dominare a lungo. C’un dibattito di metà Ottocento (oggi dimenticato ma molto importante all’epoca) nel quale Domenico Berti critica quei liberali che per paura di monopolio combattono la libertà di insegnamento, e afferma che questa trae il suo diritto dall’individuo medesimo, dalla sua libertà, ed è da annoverarsi tra “gli altri diritti naturali”. E’ Bertando Spaventa che si oppone a Berti ed esplicita la vera ragione della contrarietà alla scuola privata. La ragione sta nel fatto che “i paladini” del libero insegnamento finiscono per portare acqua al mulino della “libertà del papa”, perché in Italia dare via libera alle scuole private vuol dire favorire la scuola cattolica. Quindi, con grande trasparenza si riconosce che il vero liberalismo postula la libertà della scuola, ma in Italia questo liberalismo non è praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici. Insomma, al liberalismo si ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da parte. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In Italia, però, si ritrova un altro elemento equilibratore che consente di attenuare le asperità e finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate in sede di Costituente. Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese conosce, e che tocca all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche su questo problema vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto alla storiografia prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il punto di maggiore attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo dell’intransigenza cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia, pur nei termini del conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un elemento equilibratore nel periodo separatista, nel 1929 con la stipulazione dei Patti Lateranensi, soprattutto all’atto della elaborazione della Costituzione democratica. Quando parlo di elemento equilibratore intendo dire che la presenza della Santa Sede ha fatto uscire il meglio di sé dalla classe dirigente liberale nell’Ottocento, ha attenuato gli effetti che i Patti Lateranensi hanno avuto sulla società italiana, ha favorito notevolmente il lavoro che ha  5 portato alla formulazione del disegno costituzionale complessivo dei rapporti tra Stato e Chiesa. Già nell’Ottocento, la classe dirigente liberale conferma la propria lungimiranza con quella Legge delle Guarentigie che, pur temporaneamente, risolve la più grande questione storica europea, e, dovendo misurarsi con un evento che interessa i cattolici di tutto il mondo, si rivela capace di ad attenuare, smussare, equilibrare le asperità del separatismo. Anche nel 1929, quando il Concordato ferisce duramente la laicità e la cultura laica italiana, la soluzione definitiva del questione romana stempera il valore politico del patto con il fascismo. Non a caso il giudizio delle forze politiche antifasciste sui Patti Lateranensi si presenta come scisso in due: severo e aspro, anche da parte cattolica, nei confronti dell’accordo politico tra Chiesa e fascismo e del Concordato, ma positivo e accogliente nei confronti del Trattato del Laterano. Sin dall’inizio Benedetto Croce approva la soluzione della questione romana, riservando le sue critiche al Concordato. Ma anche Gaetano Salvemini, durissimo con il Concordato, riconosce che la questione romana è ben risolta, anzi afferma che ciò che è stato fatto nel 1929 avrebbero dovuto farlo i liberali nel 1871. Infine, i programmi elaborati dai leader dell’antifascismo durante la guerra in vista della ricostruzione del Paese, concordano nel non voler rimettere in discussione i risultati del Trattato del Laterano. Credo si possa dire che, senza una questione romana risolta in quel modo nel 1929, forse non avremmo avuto quel tipo di rapporti con la Chiesa che l’Italia ha elaborato nel 1946-47 e che ha saputo anticipare un modello oggi utilizzato in un numero considerevole di Paesi europei. Nell’incontro tra le correnti del cattolicesimo democratico e la maggioranza della cultura laica, l’Italia trova il modo di abbandonare un certo provincialismo e riesce a parlare un linguaggio europeo, supera quel corto circuito che l’aveva appesantita a lungo. Le scelte del costituente non sono riconducibili al solo articolo 7, quanto alla maturazione di una laicità che è destinata a fare scuola, a prefigurare un modello di Stato laico sociale che diverrà prevalente nell’Europa che si unisce e conosce la fine dei totalitarismi. Si tratta di una laicità complessa dove converge il meglio della tradizione separatista (in materia di libertà religiosa), e dove il laicismo è superato dal riconoscimento pieno della presenza e del ruolo sociale della religione. Si abbatte il muro della incomunicabilità tra religione e società, si conferma e si estende il metodo della contrattazione e dell’incontro, tra Stato e Chiese; si supera l’ultimo tabù dell’Ottocento, per il quale nessun culto dovrebbe essere finanziato dallo Stato perché lo impedirebbero le differenti opinioni religiose dei cittadini. Sul finire del Novecento questo Stato laico sociale trionfa un po’ dovunque. Non si contano più i concordati tra Santa Sede e Stati in Europa, che sono oltre 20, come non si contano più intese, accordi, convenzioni tra Stato e confessioni religiose, protestanti, ebraica, islamica, e altro ancora. Ma è nel merito delle relazioni ecclesiastiche che il modello italiano fa scuola in Europa. Dall’Atlantico alla Russia, ovunque troviamo una laicità fondata su principi comuni: libertà religiosa, tutelata nel quadro dei diritti umani, riconoscimento delle Chiese come entità impegnate in molteplici attività, sostegno pubblico alle confessioni. Insomma, un mixer tra la tradizione nordamericana di amicizia verso la religione, e la tradizione europea di contrattazione e reciproca integrazione. Tanto solido è questo nuovo orizzonte di laicità sociale che ormai in Europa si discute di riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa soltanto in Inghilterra e nei Paesi protestanti del nord, dove ancora esistono Chiese ufficiali sottomesse e apparentate alle dinastie regnanti.  6 4. La crisi della laicità. Laicità ed etica La laicità, invece, torna di attualità e vive una crisi di cui non siamo ancora pienamente consapevoli, su terreni nuovi e in editi, come quelli dell’etica e del multiculturalismo. Si tratta di fenomeni molto diversi, perché nel primo caso siamo di fronte ad un uso indebito, quasi una strumentalizzazione, del concetto di laicità, nel secondo assistiamo ad un pericoloso arretramento dei valori più intimi dello Stato laico. Non entro nel merito del rapporto tra etica e diritto. Non è oggetto della mia relazione, non è possibile neanche sfiorarlo nella sua complessità. La mia attenzione è più ristretta, riguarda il rapporto che esisterebbe tra laicità ed etica nel momento in cui un ordinamento è chiamato a pronunciarsi su questioni decisive per la collettività, come la famiglia, l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e via di seguito. Alcune elaborazione teoriche danno per scontato che il pluralismo etico non è che un altro aspetto del pluralismo religioso, e “come oggi ammettiamo e rispettiamo le varie confessioni religiose (…), così dobbiamo riconoscere le varie moralità che affiancano o sostituiscono la fede religiosa”. D’altra parte, si aggiunge, come nella religione non si dà verità oggettiva, ma solo opinioni, così in campo etico lo Stato deve accettare tutte le convinzioni e le scelte che si contendono il campo. Questa similitudine tra religione ed etica è accattivante, ma nasconde un’insidia dialettica. In primo luogo perché la neutralità dello Stato riguarda le convinzioni religiose, la sfera più intima della spiritualità e della coscienza, non i comportamenti delle persone, tanto meno quelli che coinvolgono gli altri. In questa materia la legge non pretende mai di definire qual è la verità, ma sceglie sulla base di valori che hanno una loro validità nel tempo, nella struttura sociale nella quale si incarnano, e che possono dar vita a equilibri diversi tra etica e diritto. In secondo luogo, si trascura il fatto che una neutralità dello Stato estesa a tutte le scelte etiche porterebbe alla paralisi del legislatore e allo svuotamento della funzione della legge. L’ordinamento non si interesserebbe più della procreazione, dei doveri verso i figli, non potrebbe più disciplinare il matrimonio, dovrebbe consentire tutto in materia di bioetica. Uno Stato eticamente neutrale dovrebbe disporre il “rompete le righe” e preoccuparsi solo di regolare il traffico delle attività sociali. C’è, poi, un corollario di questa impostazione che viene utilizzato frequentemente. Si tratta di quel ritornello che in Italia viene ripetuto spesso, secondo il quale in queste materie lo Stato deve permettere, non proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno, ma se proibisce impedisce a qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza l’eutanasia non obbliga nessuno a praticarla, ma consente a chi vuole di scegliere un’altra opzione. Se permette la fecondazione eterologa, non la impone, ma se la nega erode spazi all’autonomia individuale. Io credo che ci troviamo di fronte ad un uso improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se applicata coerentemente, questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si sentirebbero di sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana, perché una legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare cellule e individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i propri convincimenti. Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per determinare alcune caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore della pelle o degli occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a queste operazioni, mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale. Questa impostazione dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere positivamente al recente quesito del Kings College, se sia lecito produrre ibridi di umanità e animalità. Infatti, consentendo questa  7 pratica non si impone a nessun ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si violerebbe la libertà di quanti non hanno remore nel procedere su questa strada. Molti sostenitori del relativismo si dichiarano contrari alla clonazione, alla chimera e ad altre scelte estreme, ma spesso non sanno dire il perché. E non sanno dirlo perché dovrebbero riconoscere che clonazione e chimera possono essere escluse soltanto se si fa leva su valori antropologici primari, meritevoli di trovare spazio nel mondo del diritto. Si dovrebbe allora riconoscere che la laicità dello Stato non c’entra nulla quando la discussione riguarda questi valori. E che nel gioco democratico della discussione, del convincimento, si determineranno gli equilibri essenziali, modificabili nel tempo, sui confini del diritto, sul rapporto tra autonomia e solidarietà. In questa discussione vi è spazio per tutti, per le convinzioni religiose e per quelle filosofiche, per l’apporto delle scienze e la mediazione della politica. Ma se il confronto viene by-passato ricorrendo alla laicità per sbarrare la strada a determinate scelte, vuol dire allora che c’è insicurezza in alcune posizioni relativistiche, le quali non riescono ad elaborare valori convincenti, e utilizzano impropriamente la laicità per dare alle proprie tesi una forza che probabilmente non hanno. 5. Cultura laica e questione islamica L’analisi si fa più complessa se affrontiamo il tema del multiculturalismo, perché questo fenomeno costituisce una grande opportunità ma anche un grande rischio. Una opportunità per la laicità, che può far risaltare il suo volto accogliente e il suo carattere universale di fronte al mischiarsi delle popolazioni, delle pagine della storia, e della geografia. Ma anche un rischio se con il multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle nostre società antiche intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un lontano passato. Le prime risposte a questo evento sono deludenti, alcune preoccupanti, ma tutte riflettono un disorientamento generale. Vi sono a volte reazioni di tipo islamofobico che fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure e diffidenze, che vogliono negare all’islam ciò che la laicità deve garantire a tutti. Mi sembra, però, che siano prevalenti le reazioni opposte, perché la cultura laica sta rispondendo con uno spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Il multiculturalismo sta facendo emergere una insicurezza dei valori della laicità, della loro validità e tendenziale universalità. Anche quell’orgoglio che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e storia, sembra vacillare di fronte a chi appare più estraneo ai principi di libertà ed eguaglianza. Potrei citare una pluralità di fatti, ed eventi, che sembrano slegati tra di loro ma sono uniti da un robusto filo conduttore. Ne indico alcuni per far riflettere sul loro significato complessivo. Pochi si accorgono che si sta creando un divario crescente tra l’atteggiamento nei confronti delle Chiese tradizionali e quello che si manifesta di fronte a clamorose lesioni della laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime riflettono un’antica suscettibilità, quasi la memoria del conflitto, le altre sono fatte di stupore e di silenzi. Se una Chiesa lucra ancora oggi qualche favore giuridico, si reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato sarebbe in pericolo. Ma se vengono lanciate fatwe di morte contro letterati, giornalisti o registi, per offese all’Islam, si tratta di episodi che non riguardano lo Stato laico, non costituiscono istigazione all’omicidio. Se una fatwa viene eseguita, l’omicidio è di competenza della cronaca nera.  8 Se in un paese europeo si discute su temi etici, le prese di posizione delle Chiese cristiane sono viste come espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se, in Europa o ai suoi confini, avvengono omicidi di donne che rifiutano regole tribali, di derivazione islamica o meno, oppure se il diritto di cambiare religione conduce ancora alla morte o all’emarginazione sociale, si considerano questi eventi come frutto di arretratezza, anziché un salto indietro nella storia della laicità. Nessun grido, nessun manifesto, nessun convegno è dedicato loro. Uno strabismo particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile. Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti per rendere effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e pratiche aliene che discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano ribellione o ripulsa. Un tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole oscurantiste e censorie, alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi, e di frenare la licenziosità con cui veniva usata la figura femminile. Oggi tace, quasi si nasconde, quando le donne vengono chiuse nel burqa, o si chiedono classi separate nelle scuole, spiagge differenziate, reparti ospedalieri distinti, o gli uomini rifiutano di essere subordinati sul lavoro a dirigenti donne, e via di seguito. In diversi paesi occidentali, dall’Inghilterra al Canada, dalla Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa si moltiplicano le proposte di introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza che suscitino scandalo per la ferita che porterebbero ai diritti umani fondamentali. Soltanto il 24 ottobre corso, con grande ritardo, il Parlamento europeo, ha approvato una risoluzione (peraltro molto positiva) sulla condizione delle donne, sulla illegalità della poligamia, sulla lesione dei diritti fondamentali. Le reazioni islamiche al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sono ormai note, e non mi ci devo soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto che, in tema di laicità, ha sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più rigorosi laicisti hanno mantenuto nel difendere la libertà di parola e di espressione contro minacce, violenze, ricatti. Eppure, per decenni questi gruppi hanno ripetuto sino alla nausea il pensiero di Voltaire per il quale, anche se non si condividono le idee di un altro, si è però pronti a spendere la propria vita perché l’altro possa esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non si è spesa neanche una parola per difendere il diritto del Papa, come di chiunque altro, ad esprimere le proprie valutazione sul rapporto tra fede e violenza. A questi silenzi si aggiunge un fenomeno culturale meno appariscente e più sotterraneo. Il cattolicesimo, e il cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per criticare e sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità, per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull’intreccio tra altre religioni e sistemi politici dittatoriali, oggi prevale l’afasia nella cultura liberale, in quella marxista o anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica illuministica e storicistica che, pur con asprezze a faziosità, ha saputo fustigare, in certa misura ha contribuito a rinnovare, le Chiese delle nostre società, scelga il silenzio di fronte a ben più pesanti congiunzioni tra religione, violenza, dispotismi più o meno teocratici. Tutto ciò apre degli interrogativi sul futuro della laicità in Italia e in Europa; e li apre non su un punto o su un altro, ma sulla spinta propulsiva che la laicità ha esercitato nel realizzare lo Stato moderno. Da questi, e altri episodi, sta scaturendo una sorta di assuefazione rassegnata di fronte alla mutazione genetica della laicità come la conosciamo in Occidente, che può portare ad un esito paradossale: ad una laicità occhiuta e diffidente verso le religioni tradizionali e ad un multiculturalismo disarmato e senza valori verso altre religioni e tradizioni. Sarebbe la fine della neutralità dello Stato.   9 6. Laicità e multiculturalismo in Italia. Ambiguità e prospettive Per meglio capire i rischi di questa frattura tra laicità e multiculturalismo torniamo per un attimo all’esperienza italiana. L’Italia, ancora una volta, si è dimostrata più di altri Paesi equilibrata e accogliente, non condizionata da pregiudizi etnici o religiosi. L’Italia non ha fatto la guerra al velo, e a nessun simbolo religioso, forse perché di simboli confessionali ne conosce tanti da tanto tempo, dalle cattedrali alle chiese, dai conventi ai battisteri, alle fogge vestiarie di religiosi e religiose d’ogni genere. Quindi non avvertiamo disagio per un modesto velo che peraltro può appellarsi alla libertà di abbigliamento. L’Italia ha predisposto una vasta rete di accoglienza e sostegno sociale per l’immigrazione; sta cercando in tanti modi di soddisfare le esigenze di culto dei soggetti dell’immigrazione; prevede nei contratti di lavoro spazi per pratiche religiose, diversità alimentari, tradizioni come quello del ramadan. Ma questo che può essere considerato legittimamente un nostro vanto, si sta trasformando lentamente in qualcosa d’altro. Si sta trasformando nell’oscuramento di principi e valori essenziali, e nella accettazione di una cultura della separatezza che può colpire la laicità. Parlo della tendenza a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, e più in genere, tutta una simbologia e una tradizione di memorie del cristianesimo, riprendendo concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la notizia che nelle scuole, negli alberghi, in luoghi pubblici e privati diminuiscono i presepi e gli alberi di natale per non urtare suscettibilità di persone aderenti ad altri culti. Si realizza così quella che da tempo definisco una partita giocata su due tavoli: quello della laicità che limita o cancella simboli e presenze cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima altri simboli o presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi sintomi di un cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti fondamentali dei cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la presenza del burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono in qualche parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi pubblici, si consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti dalle nostre leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di significato univoco, e ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della perdita di senso della laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della laicità si offrisse il volto più maturo e accogliente, quello che sa distinguere tra quanto di autenticamente religioso emerge da una tradizione, e quanto appartiene ad arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e tutelare il patrimonio spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa criticare e respingere ciò che collide con il sistema universale dei diritti umani, con la libertà religiosa, con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa, cioè, promuovere il meglio della nostra e delle altrui tradizioni, ma si impegna a far arretrare il resto. Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e potremmo dedicarvi un altro convegno. 

 

Carlo Cardia. Keywords: filosofia vs. teologia, italia anti-papista, il filosofo italiano deve essere neutro in questione di religione. Verdi – il papa – stati papali – repubblica italiana – liberta di culto – giurisprudenza – religione dell’antica roma – il pontifice nella religione romana antica – credenza religiosa – credenza naturale – credenza super-naturale – il sovra-naturale – il naturale – l’idea di religione nella antica Roma – il mito romano – la mitologia romana antica – il sacro – il pagano – la filosofia della roma antica pagana – la critica dei antichi romani al cristianesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardia” – The Swimming-Pool Library.  

 

CARDONE (Palmi). Filosofo. Grice: “Cardone plays with a coinage, sobraumnao, in Dionigio e Luciano – it triggers implicata: what’s wrong with ‘human’? One is reminded of Pico (‘dignita dell’uomo’) and D’Annunzio – it is a problem of linguistic botanising for Italian phiosophers, ‘altreuomo’ being rendered as a translation of Emersen’s ‘plus man’ – and cf. Carlyle – D’Annunzio, who should have known better, prefers ‘suPer,’ when we know that in the ‘volgare,’ the ‘p’ becomes ‘v’, so Cardone has it just right!” Si laurea a Roma. Membro de Partito Socialista Unitario. Fonda "Ebe" e la rivista "Rivista". Fonda “Ricerche filosofiche”. Fonda la Società Filosofica Calabrese. Aattività deontologica per la realizzazione di un'etica sociale della Cultura, in difesa e promozione della civiltà, onde onorarlo per le sue incessanti iniziative anche in favore della fratellanza umana. Altre opere: Saggi di storia, filosofia e diritto; Il relativismo gnoseologico” (Palmi, A.Genovesi & figli ed); Reazione collettiva (Torino, Paravia & C); I filosofi calabresi nella storia della filosofia, con appendice sui sociologi e gli psicologi, Palmi, A.Genovesi & Figli ed., “La filosofia dello Stato” (Città di Castello, Casa Editrice Il Solco); Filosofia della vita, Città di Castello, Casa Editrice Il Solco); Umanismo (Messina); Cristianesimo, liberalismo e comunismo, Palmi, G. Palermo ed); Il Divenire e l'Uomo, Palmi, Ricerche filosofiche, “Civiltà, Palmi, G. Palermo ed); Vita di Gesù secondo il Vangelo incompiuto, Modena-Roma, Guanda Editore); La filosofia di Gesù, Milano, Bocca ed); L'uomo nel cosmo. Storia e prospettive, Palmi, Ricerche filosofiche ed); Bio critica, a cura della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Bologna, Mareggiani ed); Seguito alla Bio critica, a cura della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Cosenza, MIT); La vita come esperienza inutile, Cosenza, Pellegrini); L'ozio la contemplazione il gioco la tecnica l'anarchismo, Roma, Ricerche). Ricerche filosofiche, Torino, Edizioni di Filosofia). Il Divenire” (Padova, Rebellato Editore). Si vis pacem para pacem, Montepulciano, Editori Del Grifo,  Ludi. Bologna, Soc. Tip. Mareggiani ed); I confini dell'anima, Palmi, Ed. Del Fondaco di Cultura); La banca della carità” (Milano, M. Gastaldi ed., 1962 Terapia del tramonto (Milano, M. Gastaldi); Il figlio del dittatore” (Milano, M. Gastaldi); Canti del Sant'Elia, Poggibonsi, Lalli); L'assenza e la mancanza: meditazioni quasi poetiche, Cosenza, MIT). Dialogo sulla solitudine. divenir e vita. Filosofo-poeta. Un inattuale nella sua attualita. Domenico Cardone. Domenico Antonio Cardone. Keywords: “Ricerche filosofiche”; futilitarianism, inutilitarianism, Grice, “The philosophy of life,” Grice, “Philosophy of life”, essere e divenire – il sovraumano, Nietzsche, Bergson, D’Annunzio, sobra-uomo, super-uomo. Jesus as a philosopher! -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardone” – The Swimming-Pool Library.

 

CARIFI: (Pistoia). Filosofo. Grice: “I would call Carifi a poet rather than a philosopher! He did indeed philosophise ‘in difesa della filosofia,’ but that  should read of ‘his’ ‘filosofia,’ which he sees as an elaboration on death! My favourite are his ‘lezioni’ di filosofia and his ‘ablativo assoluto,’ something English lacks, but ‘deo volente’ doesn’t!” --  Studia sotto Bigongiari, tra i maggiori esponenti dell'ermetismo fiorentino,  profondamente influenzato dalle voci liriche di Rilke e Trakl, su cui si è esercitato anche come traduttore, oltre a essere poeta, svolge l'attività di critico letterario e filosofico. Autore de “Il segreto”. Al fianco degli studi filosofici, vi sono quelli di psicoanalisi a Milano. Mentre nelle liriche si risente la dizione rilkiana e emerge il debito verso Heidegger, nei componimenti successivi questi motivi vengono amalgamati a nuove istanze della sensibilità. In particolare dopo la dura prova della malattia, l'incidente, come lui chiama l'ictus da cui è stato colpito, i suoi versi abbracciano una nuova forma di rarefazione dissolvente in cui l'essere, attraversato dal dolore, cerca una via estrema di comunicazione per ricongiungersi al mondo.  Luoghi e figure dell'anima. Due sono i temi che incardinano la sua poetica: la madre e il legame con la città natale, Pistoia, che di quel rapporto affettivo è l'emanazione, entrambi raccolti filosoficamente nel rimando all'infanzia, epoca originaria dei sensi, periodo d'elezione per l'anima ma anche ingrato, di cui si fatica a cogliere l'essenza se non a patto di una discesa spossante. Ora è l'attimo che attende, è l'istante che prepara i tempi a un altro istante dove si deve attendere l'infanzia, quella bastarda che era là, tragico volto dei bambini. La madre, dolorosa musa, abbandonata dal marito quando il bambino aveva appena tre anni, ha lungamente accompagnato e sorretto la voce del figlio. La sua scomparsa è una perdita incolmabile nella vita e nel suo immaginario. La città rappresenta un caldo grembo, dove tutto rimanda a quel legame dissolto ma anche alle tante amicizie e perfino a quegli spiriti gentili di artisti e letterati che continuano ad aggirarsi, figure di sogno, nelle strette strade del centro. Bigongiari era di Pistoia. Era figlio del capostazione e abitava in Via del Vento, accanto a Manzini. Nei miei viaggi onirici li vedo tutti e due, Bigongiari e Manzini, camminare tra Via del Vento e Via Verdi, in silenzio perché parlano una lingua muta, una lingua del deserto che solo i poeti e i mistici capiscono. Nei suoi versi rivive di continuo la devozione spirituale per il luogo, la cui essenza poetica sta nell'intreccio di memorie che lo abitano, un passato con cui si misura in uno stato di incerta beatitudine tra sogno e veglia. Nasco filosofo con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia parla del cielo, delle foreste degli uomini, fa un salto verso la verità. Abbandona il linguaggio su cui, bene o male, la filosofia regge e sceglie un linguaggio pre-sentativo'', il linguaggio della presenza.  La sua ricerca è la risposta alle varie vicende dell’uomo. L’uomo colma e coglie sé stesso attraverso il percorso del lume, l’apertura alla conoscenza. L’uomo mite che miete la luce, capace di cuore della verità, che non rinuncia al pensiero della responsabilità e della parola, è l’uomo Carifi. Non bisogna accostarsi a lui con il timore di leggere un incomprensibile tomo di filosofia analitica alla teoria dell’implicatura di Grice, sia pur condividendo con lui che non esistono concetti semplici, né concetti già pronti, perché la filosofia analitica di Grice è, Grice morto, in divenire, è in movimento. Un sottile ma preciso filo conduttore che caratterizza la raccolta delle sue lunghe e silenziose riflessioni è la pratica dell’intensità, destini che si rivelano fino in fondo. Esercita il bello della profondità portandola, a tutti, sul piano conoscitivo della conversazione. Le sue opere sono cammini culturali e spirituali dove l’uomo ed il valore sono all’unisono un giro concentrico di piaceri.  La conversazione è un abisso che, in un’intima solidarietà, unisce il moto interiore all’estetica dell’espressione, e la conversazione diviene il veicolo principale dove il silenzio meditativo e contemplativo si colora di una dimensione inter-oggettiva. La conoscenza dell'altro .L'uomo del pensiero: Roberto Edizione Polistampa, Firenze. Poesia e filosofia convivono e si alternano nella sua vasta produzione, tra i maggiori autori contemporanei. E conosciuto per i testi filosofici e per l’intensa attività poetica, influenzata, a partire dagli anni Ottanta, dall’amicizia con Bigongiari; ma anche per le traduzioni in italiano di Hesse, Rousseau, Racine, Bataille, Trakl e Weil. La poesia è una stretta di mano su «Naturart», rivista di cultura, Giorgio Tesi Editrice»  Scopre il dolore con la perdita della madre che diventa la sua ossessione poetica, descritta come un pozzo in cui scendere. Le sue due antologie poetiche (Infanzia; Nel ferro dei balocchi), pur seguendo percorsi diversi, si ergono entrambe su due abissi: l'infanzia personale, ma al contempo quella di intere generazioni europee, segnate da un legame indissolubile. Archivio Festival Letteratura, Palazzo Ducale, Mantova. È una poesia in cui la forte componente autobiografica trasfigura il vissuto, in quanto ciò che si racconta assume valore paradigmatico: situazioni ed episodi emblematici in cui l’uomo incontra l’assoluto. Incontro su «VIinforma», rivista culturale della Banca di credito coooperativo di S. Pietro in Vincio»  «La raccolta Madre, proprio perché torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare al complessivo percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un momento di passaggio e di mutamento, determinato prima dall’avvicinamento al buddismo, poi dalla malattia. Giuseppe Grattacaso, Supplica alla madre su «Succedeoggi» Cultura nell’informazione quotidiana»  Opere Raccolte poetiche Simulacri (Forum/Quinta Generazione, Forlì); Infanzia (Società di Poesia, Milano, rist. Raffaelli, Rimini ); L'obbedienza (Crocetti, Milano); Occidente (Crocetti, Milano); Amore e destino (Crocetti, Milano); Poesie (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); Casa nell'ombra (Almanacco Mondadori, Milano); Il Figlio (Jaca Book, Milano); Amore d'autunno (Guanda, Parma-Milano); Europa (Jaca Book, Milano); Il gelo e la luce (Le Lettere, Firenze); La pietà e la memoria (Edizioni ETS, Pisa); D'improvviso e altre poesie scelte (Via del Vento edizioni); Nel ferro dei balocchi (Crocetti, Milano 2008); Tibet (Le Lettere, Firenze ); Madre (Le Lettere, Firenze); Il Segreto (Le Lettere, Firenze ); Racconti Victor e la bestia (Via del Vento edizioni, Pistoia); Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento edizioni, Pistoia); Destini (Libreria dell'Orso editrice, Pistoia); Saggi Il gesto di Callicle (Società di Poesia, Milano); Il segreto e il dono (EGEA, Milano); Le parole del pensiero (Le Lettere, Firenze); Il male e la luce (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); L'essere e l'abbandono (Il Ramo d'Oro, Firenze); Nomi del Novecento (Le Lettere, Firenze); Nome di donna (Raffaelli, Rimini ). Note  Rainer Maria Rilke, L'angelo e altre poesie, Via del Vento edizioni, 2008; Georg Trakl, La notte e altre poesie, traduzione di Massimo Baldi e Roberto Carifi, Postfazione di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni. Tiene la rubrica mensile "Per competenza" sulla rivista «Poesia». Per ulteriori notizie si veda la sezione dedicata ai cenni biografici del poeta nel volume Roberto Carifi, D'improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento edizioni, Da Roberto Carifi, Tibet, Le Lettere, .  Da Pistoia in parole. Passeggiate con gli scrittori in città e dintorni, Alba Andreini, introduzione di Roberto Carifi, Edizioni ETS, .  M. Baudino, Nel mitico mondo di Carifi, «Gazzetta del Popolo»; C. Viviani, Il mito e il nuovo inquilino, «Il Giorno», F. Ermini, Il mito per relazionarsi al reale, «Il quotidiano dei lavoratori», G. Giudici, Il gesto di Callicle, «L'Espresso»; A. Porta, Il gesto di Callicle, «Alfabeta», M. Spinella, La microfisica del significante poetico, «Rinascita», nQui sento odor di buoni versi, «Il Messaggero»; Infanzia, «Il piccolo Hans», Al fuoco di un altro amore, Jaca Book, L'anima e la forma nel verso. «Avvenire»; P.F.Iacuzzi, Il paradosso della poesia italiana. «Paradigma»; Utopisti e menestrelli, «L'indice», R. Nostalgia del tragico, «Corriere del Ticino»; I Quaderni del Battello Ebbro. Basso continuo del rumore bellico per litanie epiche sull'occidente, «Il Manifesto». Il filo del tramonto e del rimpianto, «Il Giornale», La poesia, il luogo del ritorno a casa, «La Nazione», La lingua continua a battere dove la carità duole, «Il Mattino»,   Il buio mondo che ci avvolge, «Il Sole 24 ore», Il lato oscuro delle cose, «La Repubblica»;  Sul vuoto appesi alla parola, «La Nazione», Amore senza tempo, «Il Sole 24 ore», ; E per musa ispiratrice la nostalgia, «Avvenire»,  Classici pensosi versi, «Gazzetta di Parma», Amore per una donna e per il nulla, «Il Giorno», Gli amori di Carifi, «La Nazione»; B. Manetti, Carifi il poeta errante, «La Repubblica»; D. Attanasio, Amore e morte trascendenti segreti, «Il Manifesto», R. Copioli, Carifi: il desiderio è mitico, «Avvenire», 14 maggio 1994; E. Grasso, L'amore quando il lume si spegne, «L'Unità»; A. Donati, Intervista a Roberto Carifi, «Il Giorno», Doni al confine del tempo, «Il Sole 24 ore»; L'angelo poetico della solitudine, «Il Giorno», R. Figli innamorati del proprio destino, «Avvenire»; Il male come provocazione estetica – estetica del male -- Chiaroscuro con lampada e scialle, «Il Sole 24 ore»; Chi son? Sono un poeta, «Il Giornale»; Il dolore nelle sillabe, «La Gazzetta di Parma»; Un angelo in esilio, «Avvenimenti»; U. Piersanti, Il figlio, «Tutto Libri»; Bigongiari, Carifi: parole e voce di Figlio, «La Nazione»; Quel contratto da verificare, «Il Sole 24 ore», Angeli sospesi tra essere e abbandono, «Avvenire», Un neoromantico invoca il cuore, i sogni, l'addio, «Tutto Libri»,  Amore d'autunno, «L'Espresso», Morte di madre. Quando la poesia "riversa la vita", «Il Giornale», L’elegia di uno stile semplice, «Avvenire»; Quei legami vitali tra figlio e madre, «La Nazione»; Tra infelicità e silenzio, «Il Sole 24 ore»; Un dolcissimo amore d'autunno, «Il Giornale», L'estetica dell'amore, «Il Tirreno», Dalla parte del cuore, «Gazzetta di Parma»; E. Coco, Rivista de Literatura. Un dialogo a distanza sull'alterità del figlio, introduzione a R. Carifi e U. Buscioni, Figure dell'abbandono, maschiettoemusolino, Siena; Il pathos del sublime: la poesia di Carifi, «Atelier», D. Fiesoli, Europa, «Il Tirreno», B. Garavelli, Addio alla madre, «Avvenire», G. Colotti, Europa, «Il Manifesto»;  La religiosa tragicità di Carifi, «Poesia»; F. A. Scorrano, La conoscenza dell'altro. L'uomo del pensiero. Edizione Polistampa, Firenze, S. Ramat, Roberto Carifi nel nome della madre, «Il Giornale»,  Per la sezione bibliografica questa voce trae informazioni dalla  inglese.   Piero Bigongiari Gianna Manzini Pistoia Via del Vento edizioni //poesia.blog.rainews//09/blog Poesia Rai News L'UOMO DEL PENSIERO. Saggio sulla poesia di Carifi Tre poesie su «Sagarana», su sagarana.net. Una recensione di Infanzia, su margininversi.blogspot. Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore articolo di Andrea Galgano su «Clandestino». Roberto Carifi. Keywords: filosofia e poesia – l’implicatura del poeta – l’implicatura di Blake – l’implicatura di Guglielmo Blake – rhyme or reason – the invention of rhyme – l’invenzione della rima – empedocle: ragione senza rima -- Heidegger, conversation, language, silence, being, inter-subjectivity. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carifi” – The Swimming-Pool Library.

 

CARLE (Chiusa di Pesio). Filosofo. Grice: “I like Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract on ‘exceptio’ is eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can found it on Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he speaks of a ‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls ‘social philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome of joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del positivismo.  La dottrina giuridica del fallimento nel diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia Università); Prospetto d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale, Torino, F.lli Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le origini del diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La filosofia del diritto nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli italiani.  Positivismo: ius – fatto – non valore – l’implicatura di Romolo e Remo. Naturalism – giusnaturalismo – forza – autorita – ius -- LE ORIGINI DEL DIRITTO ROMANO RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA. Fuit haec sapientia quondam Publica privatis secernere , sacra profanis . HOR., poet Ars . LABOR NOR TORINO FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE Via del Corso , 216-217. Via Cerretapi, 8 DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA Università, 12 Piazza Plebiscito , 2 S. Maria al Ros .°, 23 (N. Carosio ) (N. Carosio )TORINO VINCENZO BONA, Tip . di S. M. Al Rettore Magnifico della Università di Bologna, 16.11.54 TS home La nobile Università di Bologna , commemorando in questi giorni l'ottavo centenario dalla sua fondazione, ci rammenta anche l'epoca, in cui essa iniziando gli studi sul diritto romano si rese benemerita di tutto il mondo civile. Agli omaggi, che in questa occa sione solenne convengono costi d'ogni paese, mi sia consentito di aggiungere quello di un'opera ispirata al desiderio di mantenere viva nella gioventù studiosa italiana la tradizione civile e politica di Roma. Di Lei Rettore Magnifico bord Torino, Devot.mo ed obblimo G. C. 251303 سے PREFAZIONE Ritornato di proposito allo studio del diritto romano, in seguito all'incarico affidatomi di insegnarne la storia nella R.Università di Torino , parvemi di rileggere uno di quei libri, la cui meditazione può riempiere tutta una vita , perché ad ogni lettura e ad ogni età offrono campo ad osservazioni, che prima erano sfuggite . Quegli studii di giurisprudenza comparata , che in questi ultimi anni si vennero facendo sulle istituzioni primitive di quel periodo gentilizio, nel quale debbono essere cercate le fondamenta , sovra cui furono poscia edificate le città, mi parvero irradiare di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e aprire nuove vie per spiegare il processo , con cui ebbe ad essere iniziata la formazione del medesimo. È strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le grandi elaborazioni del genere umano, è certamente quella , che ebbe ad essere mag giormente studiata nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi risultati, continui pur sempre ad essere un grande mistero il processo , con cui i Romani giunsero ad elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui essi e non altri riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa singolarità deve es sere riposta in ciò, che per risolvere il problema delle origini del diritto romano non può bastare lo studio staccato dei frammenti , VI - nė l'esegesi applicata ai testi, ma conviene ricomporre le epoche, raccogliere i rottami che ci pervennero di esse, colmarne le la cune, riportarsi col pensiero alle condizioni economiche e sociali del primitivo popolo romano, sforzarsi di rivivere in quel tempo e di pensare in certo modo alla romana, tener conto delle parti colari attitudini dell'ingegno romano, far procedere di pari passo la formazione della città e lo svolgimento delle sue istitu zioni pubbliche e private: conviene insomma ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale di Roma, e cercare cosi di decifrare la pagina più splendida della vita del diritto nella storia dell'umanità . Certo era naturale cosa , che uno stu dioso della Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal sapesse resistere alle attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non di venir meno,madi perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato con tutte le forze. Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e storico, che governò la formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi esordii, non coll'intento di sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con quello più modesto di valermi deimateriali che furono raccolti con tanta diligenza , sopratutto in Ger mania. Miaccinsi poi all'arduo compito con un entusiasmo, che forse più non conviene alla mia età ,ma che ebbe il van taggio di rendermi aggradevole la lunga fatica , e che vorrei trasfondere nella gioventù studiosa , unitamente alla convinzione profonda, che le grandielaborazioni dell'ingegno umano,mentre cambiarono in maestri dell'umanità coloro, che giunsero a crearle, hanno anche il pregio di confortare ed elevare il pensiero di coloro , che si travagliano per comprendere il processo natu rale, che ne governd la formazione. Debbo tuttavia una confessione al lettore benevolo : ed è che VII - il presente lavoro , cominciato forse coll idea , non preconcetta ,ma latente, che il diritto pubblico e privato di Roma fosse il frutto di una evoluzione determinata dalle condizioni esteriori, in cui si trovò il popolo romano, riusci invece a conclusioni alquanto diverse . I Romani, cosi nel formare la propria città, come nel Pelaborare le proprie istituzioni pubbliche e private, seguirono un processo, che chiamerei di selezione ; anziché essere dominati dai fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e di sottomet terli alla logica inesorabile del proprio diritto. Come le mura della loro città furono costruite coi massi più solidi delle co struzioni gentilizie: cosi i concetti, che stanno a base del loro diritto pubblico e privato, furono trascelti nel seno stesso della organizzazione gentilizia ,ma trapiantati nella città ed isolati cosi dall'ambiente, in cui si erano formati, si cambiarono in altrettante concezioni logiche, che si vennero poi svolgendo ed accomodando alle esigenzedella vita civile e politica . Anche questo fu un processo naturale; ma non è più il processo, che governa la formazione degli strati geologici, che si sovrappon gono gli uni agli altri e serbano l'impronta dei bassi fondi sovra cui si vengono precipitando ,bensi il processo, che governa la formazione dei cristalli, per cui gli elementi affini, depurati da ogni scoria, si vengono, per dir cosi, ricercando ed attraendo e si dispongono costantemente secondo quelle forme tipiche , che ne governano la formazione. Di quiconseguita, che ildiritto romano non èuna produzione determinata esclusivamente dall'ambiente e dalle condizioni esteriori; ma è già l'opera in parte consapevole dello spirito vivo ed operoso di un popolo, il quale, valendosi di attitudini naturali, che in questa parte si possono chiamare veramente meravigliose, riusci a secernere e ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani , a modellarla in concetti VIII tipici, a svolgere i medesimi in tutte le conseguenze, di cui po tevano essere capaci, e a trasmettere cosi alle nazioni moderne un capolavoro di arte giuridica , che nel proprio genere può essere paragonato ai capolavori dell'arte greca . Questo è il risultato ultimo,a cui sono pervenuto : per la prova del medesimo invito gli imparziali amici del vero a leggere il libro, nel quale, malgrado la varietà immensa dei particolari, ho cercato di riprodurre quella coerenza organica , che è la carat teristica dello svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Torino. Roma e le istituzioni delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La fondazione della città e i varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni e le leggende , da cui appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non avrebbe avuto infanzia , ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata , il quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli esuli e ai rifugiati dalle comunpubbliche e private di Roma. Torino. Roma e le istituzioni delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La fondazione della città e i varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni e le leggende , da cui appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non avrebbe avuto infanzia , ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata , il quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli esuli e ai rifugiati dalle comunanze vicine. Sarebbe il fondatore stesso che avrebbe dato a Roma le sue istituzioni pubbliche e private , mentre il suo successore le avrebbe data l'organizzazione del culto , finchè da ultimo Roma già ingrandita , mediante l'incorporazione di popoli e di genti diverse , avrebbe ricevuto una nuova organizzazione civile , politica e militare per opera di Servio Tullio , che si sarebbe così meritato il nome di secondo fondatore della città . Per tal modo la forza dapprima, poi la religione e da ultimo la sapienza civile hanno posto, le fondamenta dell'eterna città , e le sue istituzioni civili e politiche appariscono come una creazione personale dei Re, fra i quali la tradizione avrebbe perfino distribuito il compito . Il suo fondatore è Latino, mentre invece è Sabino l'organizzatore del culto , e da ultimo è probabilmente di origine etrusca quegli, che ne ha riformato compiutamente l'organizzazione civile e politica e ha stabilito quelle istituzioni, che riceveranno poi il proprio svolgimento durante l'epoca repubblicana. Da un altro lato invece la stessa tradizione circonda la fonda zione di Roma di cerimonie religiose, di carattere tradizionale, che suppongono una religione già compiutamente formata, e fa apparire Roma nella storia con un nucleo di istituzioni pubbliche e private , che dovranno poi svolgersi con un rigore pressochè geometrico, ma che intanto suppongono una lunga elaborazione anteriore (1). 2. Di fronte a questa apparente contraddizione, il maggior pro blema, che si presentava alla scienza storica contemporanea, era quello di sostituire alla storia leggendaria delle origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le origini delle istituzioni pri mitive con cui essa appare nella storia. In questa ricostruzione la critica moderna dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a noi pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leg gende;madovette poi riaccostarsi alle medesime, e finì per giungere a questo risultato, che le istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono esser ritenute come l'opera esclusivamente personale dei Re, ma debbono essere riguardate come il frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in un periodo anteriore di or ganizzazione sociale, che sarebbe il periodo dell'organizzazione gen tilizia o patriarcale. Roma insomma, secondo i risultati della critica moderna, avvalorati anche dagli studii comparativi fatti sui popoli primitivi sopratutto di origine ariana , avrebbe continuata quell'opera di formazione della convivenza civile e politica , che era già stata iniziata dalle altre popolazioni italiche , le cui memorie risalgono ad epoca anteriore a quella che è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è presso le genti latine ed italiche, che debbono essere cercate le origini delle primitive istituzioni di Roma. 3. Secondo il computo più universalmente adottato , Roma è stata fondata nell'anno 753 avanti l' êra volgare e sarebbe com parsa fra popolazioni diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite dall'organizzazione gentilizia , e stavano avviandosi ad una vera e propria organizzazione civile e politica . Senza entrare nella questione dei rapporti, che possono correre fra ( 1) Per un riassunto esatto delle tradizioni intorno alla storia primitiva di Roma fino all'anno 283 dalla sua fondazione, accompagnato da una critica finissima per separare il nucleo primitivo della tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da vedersi il BONGHI, Storia di Roma, vol. 1º. Per lo studio delle istituzioni poli tiche importa sopratutto il libro terzo, che si occupa appunto della costituzione politica di Roma, secondo CICERONE, Livio, Dionisio , da pag . 513 al fine. Milano, 1884. - 3 le stirpi italiche e le stirpi elleniche e in quella della loro prove nienza dall'Oriente ( 1), questo è certo che fra le stirpi italiche già erano pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di potenza le stirpi Umbro - Sabelliche, Latine ed Etrusche. Scavi di data recente (fatti nel 1874 e nel 1883) hanno dimostrato , che il sito occupato da Roma doveva già essere popolato da un'epoca assai remota e del tutto preistorica. Sopratutto fu scoperta sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza dimostra che una città etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena ) sarebbe esistita anche prima del periodo reale leggendario , e costituisce una prova molto importante contro quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine esclusiva mente latina e sabina, tenderebbe ad escludere o quanto meno ad attenuare l'influenza dell'elemento etrusco ( 2 ). (1) Tale provenienza delle stirpi Italiche dalle razze Ariane e la conseguente loro , parentela colle Elleniche, colle Germaniche, Celtiche e Slave, è oggidì universalmente ammessa, salvo che si mantiene ancora sempre una grande oscurità circa l'origine della razza Etrusca . Tra gli autori recenti ha recato un contributo alla dimostra zione di tale provenienza il Leist, Graeco-italische Rechtsgeschichte. Jena , 1884 , sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di certi concetti primitivi comuni agli Arii dell'India e alle genti Italiche ed Elleniche. È da vedersi la parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui discorre dei concetti di rita , themis e ratio , pag . 175 e seguenti. Quest'origine comune è pure ammessa dal BERNHÖFT, Staat und Recht der Römischen Königszeit. Stuttgart, 1882 , pag. 33 a 40. Per quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le istituzioni elaboratesi nell'Oriente dagli Arii primitivi ebbero a ricevere presso gli Arii dell'India , della Persia, e poscia nell'Occi dente presso i Greci, gli Italici ed i Germani, mi rimetto a quanto ho scritto nell'o pera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Torino , 1880, i cui primidue libri sono appunto dedicati a tale svolgimento. ( 2) Sono a vedersi in proposito le notizie sugli scavi, che si pubblicano dall'Ac cademia dei Lincei. Come riassunto degli studii topografici fatti intorno a Roma fino a questi ultimi tempi mi sono valso dell'opera di HENRY MIDDLETON, Ancient Rome, Edinburgh, 1885, il quale parla di questi nuovi scavi e dei resti dell'antichissima Roma, a pag. 42 e seguenti. Fra gli autori che tendono a scemare l'influenza del l'elemento Etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il MOMMSEN , il LANGE, e fra i recenti il Pelham nella sua storia di Roma antica pubblicata nel volume XX della Encyclopedia Britannica , ninth edition , Edinburgh, pag. 731, 1886 , vº Rome. Com batte questa opinione il Taddeinel suo lavoro : Roma e i suoi Municipii. Firenze, 1886 , pag . 45 e seg . Senza pretendere di risolvere la questione, è lecito osservare che mal si può sostenere la niuna influenza su Roma primitiva di un popolo come l'Etrusco che aveva già delle città in siti vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu fondata, e che diede a Roma i tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più profondamente non solo l'aspetto esteriore della città, ma anche la costituzione politica della medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il suolo italico , per quanto ora si ritengano tutte uscite dalla stirpe Aria, avevano però dimen ticata la provenienza comuneed apparivano distinte fra di loro di ori gine, di costumi e non avevano fra di loro comunanza di matri monii ; solo erano ravvicinate da feste religiose e da certi luoghi di mercato, ove tacevano i conflitti e si praticavano gli scambi ed i commerci. Quanto alla loro organizzazione sociale, esse , secondo l'opinione del Mommsen , del Leist , del Lange, si trovavano nel periodo di transizione dall'organizzazione gentilizia di carattere patriarcale all'organizzazione politica della città e del municipio . Però anche a questo riguardo si presentavano in stadii e gradazioni diverse  . 4. Le stirpi Umbro -Sabelliche appariscono con un carattere pro fondamente religioso ; sono dedite ancora più alla pastorizia che al l'agricoltura ; preferiscono per formarvi le proprie sedi i luoghi montani e conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che è proprio degli abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e proprie città , ma in villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze rurali, e serbano le traccie di una potente organizzazione gentilizia , di cui pud trovarsi un notevole esempio nella gens Claudia . Queste stirpi anche più tardi dimostrarono poca attitudine alla formazione di un vero e proprio Stato, come lo provano le sorti dei bellicosi Sanniti, che sono appunto derivati dal ceppo Umbro-Sabellico (1). 5. Trovansi invece già in condizione più progredita , per quel che riguarda l'organizzazione sociale , le stirpi Latine. Il Lazio infatti appare diviso in altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite da una aggregazione di famiglie e di genti, le quali discen dono da un antenato comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio . Tali aggregazioni di genti, che chiamansi tribù , abitano nei vici e nei pagi; ma, riconoscendo la loro origine co mune, anzichè avere una esistenza del tutto separata ed indipen dente, entrano già a far parte di un'aggregazione più vasta, che costi ( 1) In ciò sono d'accordo il Mommsen , Histoire Romaine. Trad. De Guerle. Paris, 1882, Tome 1er, pag . 140 e seg., ed anche il Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier. Paris, 1885, Tome 1er, pag. 13. Quest'ultimo attri buisce alle genti Sabine un carattere più conservatore che non alle Latine. - 5 - tuisce poi il populus e la civitas. Questa aggregazione più vasta non solo aveva comune la lingua , il costume e la religione , ma eziandio le leggi, l'amministrazione della giustizia e la difesa contro gli attacchi e le aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio , il quale centro comune era l'urbs, così chiamata dall'orbita sacra che la circondava, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza , a cui riparare nei momenti di pericolo , il tempio della divinità patrona dell'intiera comunanza , il luogo ove si ammini strava giustizia , il sito per il mercato e per le pubbliche riunioni. Questi stabilimenti pertanto, più che vere e proprie città quali noile intendiamo, erano piuttosto inizii di città future, in quanto che esse contenevano sopratutto quegli edifizii, che avevano pubblica desti nazione. L'urbs era in certo modo il centro della vita pubblica per le diverse comunanze di villaggio, come lo dimostrano anche le varie porte esistenti nel muro di cinta, le quali porgevano modo di accedervi agli abitanti dei diversi villaggi. Si aggiunge che le varie città latine, le quali, secondo la tradizione, sarebbero state in numero di trenta , erano anche confederate fra di loro e mettevano capo ad una capitale, che era Alba Longa (1 ). Cid dimostra come le popolazioni latine già fossero abbastanza pro gredite nella loro organizzazione sociale, poichè, pur continuando an cora a vivere nelle comunanze di villaggio , erano pero già pervenute a concepire e in parte ad attuare quella vita pubblica comune, che doveva poi svolgersi nella città e nel municipio . 6. Vengono infine le stirpi Etrusche, la cui civiltà è ancora og . gidi celata nel mistero , perchè le traccie di essa furono in certo modo cancellate ed assorbite da Roma. Non può tuttavia esser dubbio, che esse già erano in condizione di maggior progresso eco nomico e civile delle altre popolazioni italiche, in quanto che posse devano vere e popolose città , conoscevano le arti e la moneta, e per essere dedite al commercio si trovavano in comunicazione mag giore cogli altri popoli e sopratutto coiGreci. Anche presso di queste era largamente svolto l'elemento religioso, come lo dimostra la sa pienza loro attribuita nell'arte augurale e nella consultazione degli auspizii, come pure la tradizione, che presso di essi esistessero libri, ( 1) MOMMSEN , op. e loc. cit., pag. 44 e seg .; FUSTEL DE COULANGES, La cité an tique, Paris, 1876 , pag. 274. 6 - che determinavano i riti con cui le città dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui la loro popolazione doveva essere ripartita in tribù ed in curie (1). Del resto anche l'antica costituzione della città etrusca , secondo il Mommsen, si accostava nei suoi tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio dalla organizzazione patriar cale all'organizzazione muicipale già erasi spinto più oltre , in quanto che le stirpi Etrusche, per essere sopratutto dedite alla na vigazione eda nei suoi tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio dalla organizzazione patriar cale all'organizzazione muicipale già erasi spinto più oltre , in quanto che le stirpi Etrusche, per essere sopratutto dedite alla na vigazione ed al commercio , erano state naturalmente condotte a svolgere di preferenza le comunanze urbane, che non le comunanze di carattere esclusivamente rurale . I capi Etruschi avevano il nome di Lucumoni; la popolazione delle loro citt dividevasi in no bili ed in plebei, come pure in tribù ed in curie , e se al disopra delle singole città apparivano eziandio delle confederazioni, i vincoli pero che stringevano insieme le varie città , che entravano a costituirle , non erano co si intimi e stretti come quelli che esistevano fra le città della confederazione latina. Esse infine pure presentano le traccie dell'organizzazione gentilizia , ma queste sono già alquanto più alterate per il maggior svolgimento a cui è pervenuta la co munanza civile e politica (2). 7. È a questo punto dello svolgimento dell'organizzazione sociale e della convivenza civile , che Roma compare nella storia . Per quanto possano esservi dei dubbi sull'influenza, che su di essa ab biano esercitato più tardi l'elemento latino e l'elemento etrusco , questo è certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere costituito da un gruppo di uomini armati di origine latina. Sono i Ra mnenses , guidati da Romolo e usciti come colonia o per secessio da Alba Longa, che hanno fondato quella Roma palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue mura , di cui sussistono ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di Roma quadrata (3 ). (1) Festo, v° Rituales: « Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae , centuriae distribuantur, exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad bellum ac pacem pertinentia » . ( 2) MOMMSEN, op . e loc. cit., pag. 155. V. il LANGE, op . cit., pag. 14 , ove cerca di distinguere il popolo dei Rasennae, che sarebbero secondo lui i veri Etruschi, che egli ritiene di origine Aria ma di provenienza settentrionale, dagli abitanti del Vicus Tuscus, che apparterrebbero invece ai Tursci, da lui ritenuti di origine Umbra. (3) È questa la Roma, il cui pomoerium è stato descritto da TACITO, Ann. XII, 24 . Nulla vi ha di ripugnante nella tradizione, che questa mano di guerrieri, stabilitasi colla forza in un sito chiuso e fortificato , siasi dapprima trovata in lotta aperta colle altre comunanze , che erano stabilite in prossimità del Palatino. Essa però ben presto esercitò una attrazione potente sulle popolazioni vicine, e si trasformò in un centro per la vita pubblica di una confederazione di varie comunanze di villaggio , che erano disperse in quell'antico septimontium , che ci è descritto dal giureconsulto M. Antistio Labeone, il quale avrebbe compreso il Palatino, il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio (1). Cosi pure dovette presto entrare nella federa zione anche una comunanza di origine sabina, che era stabilita sul Quirinale . Di qui la conseguenza, che le tradizioni antiche ed anche gli studi recenti, fatti sulla topografia di Roma, condurrebbero a conchiudere che Roma primitiva avrebbe attraversato nel periodo, che suole essere assegnato al regno del suo fondatore , due stadii ben distinti nella propria formazione. Nel suo primo comparire infatti Roma non è ancora che lo sta bilimento romuleo , il quale, malgrado la denominazione che già assume di vera e propria città, consiste nella sede fortificata di una tribù di origine latina , che è quella dei Ramnenses , ancorchè intorno ad essa già si trovi in via di formazione una plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto, secondo la tradizione, mediante l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle comunanze vicine (2 ). Più tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di origine latina entra dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con comunanze già prima stabilite sui colli vicini, e allora Roma diviene centro e capo di tale federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota la questione relativa al pomoerium , che alcuni vorrebbero collocare entro le mura fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là delle mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium . La questione fu di recente trattata con grande corredo di erudizione dal CARLOWA, Romische Rechtsgeschichte, Leipzig , 1885. Erster Band , § 8, pag . 59 e seg ., dove sembra propendere per l'opi nione, che il pomoerium servisse di confine fra il territorio dell'urbs e l'ager circo stante. Cf. MIDDLETON , op. cit., pag . 45 . (1) Il testo di LABEONE è riportato dall'HUSCHKE, Iurisprudentiae anti- Iustinianeae quae supersunt. Ed. quarta , Lipsiae, 1879. LABEO, n ° 14, pag . 111. (2 ) Un accenno a questo concetto trovasi nel Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 25 : tuttavia non pare che il medesimo consideri lo stabilimento romuleo come una semplice tribù . 8 cetto latino, ossia nella sede della vita pubblica di queste varie co munanze . Questi due stadii nella formazione di Roma primitiva , di cui non si tiene sempre sufficiente conto , sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal giureconsulto Pomponio , secondo il quale Romolo non sarebbe proceduto alla divisione della città in curie su bito dopo la fondazione di essa , ma vi sarebbe invece addivenuto soltanto « aucta ad aliquem modum civitate » , cioè quando altre comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di partecipare ad una vita pubblica comune (1) . 8. Gli elementi primitivi, che secondo la tradizione sarebbero en trati a far parte della comunanza romana in questo suo primo pe riodo di ingrandimento , sarebbero dalla stessa tradizione ridotti a tre tribù, cioè alla tribù dei Ramnenses, che era quella dei fonda tori, a quella dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale , i quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum , come lo dimostra il fatto che i capi delle due tribù avreb bero regnato insieme e poscia i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum . L'origine di questo ultimo elemento è incerta , ma dovette probabilmente essere etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie città in prossimità del sito , ove Roma fu edificata , Cosi intesa la formazione di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la incorporazione delle tre tribù nella comu nanza romana avrebbe dovuto operarsi fin dal periodo assegnato dalla tradizione al regno di Romolo (2); il che però non toglie, ed ( 1) POMPONIUS, L. 2 Dig. ( 1, 2 ). (2) Credo doversi accogliere questa opinione nell' intricatissima questione, perchè non si comprenderebbe la divisione tripartita della città , che viene attribuita a Romolo, quando il concorso delle tre tribù non si fosse effettuato durante il suo regno. Vero è, che nella storia primitiva di Roma havvi un momento storico, in cui per l'aggiunzione di nuovi elementi si raddoppia il numero dei membri dei collegi sacer dotali e quello delle centurie dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa sempre sulla 9 anzi spiega anche meglio come Roma, risultando di elementi diversi fin dalla propria origine, abbia poi accolte nella comunanza nuove genti di origine latina, come di origine sabina e di origine etrusca, ed abbia in certo modo esercitata una specie di attrazione sopra queste varie stirpi italiche, come lo dimostrano le tradizioni rela tive alla cooptazione delle genti albane, quelle relative a Celes Vi benna e alla venuta di Tarquinio a Roma colla sua gente, ed all'in corporazione, avvenuta negli inizii del periodo repubblicano, della gente Claudia di origine sabina. 9. Intanto però il fatto , che Roma avrebbe preso le mosse da uno stabilimento romuleo di origine latina , fondato in guisa analoga a quella con cui si fondavano anche più tardi le colonie e con una analoga ripartizione dal territorio occupato , spiega il carattere che Roma ebbe poi sempre a ritenere di città eminentemente latina , in quanto che gli elementi, che si vennero aggiungendo al nucleo primitivo , dovettero entrare nei quadri propri dello stabilimento la tino. Ciò accadde per mezzo di successive federazioni, una delle quali, quella coi Luceres, sarebbe stata un foedus non aequum , in quanto che il nuovo elemento sarebbe entrato nella comunanza in una condizione inferiore (1 ). Conviene quindi conchiudere, che Roma primitiva, oltre all'essere di origine latina , fu anche foggiata sul modello delle città latine , e che quindi, al pari dell'urbs delle popolazioni del Lazio, diventò fin dapprincipio una città federale, che può essere considerata come il centro della vita pubblica di varie comunanze di villaggio . È però naturale, che questa tra sformazione, per cui Roma cessò di essere esclusivamente la sede fortificata di una tribù per diventare centro e capo di una confe derazione, abbia fatto sentire la necessità di fortificare anche il Capitolino, e di munire di un vallum od agger l'Aventino, co struzioni queste, che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute dallo stesso Romolo, ma di cui non rimasero più gli avanzi, che sono base di tre, il che indica che già anteriormente dovevano esservi tre tribù , che con correvano alla formazione di Roma. Cfr. Bloch , Les origines du Sénat Romain . Paris, 1883, pag. 13 e seg ., e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ , Manuel des institutions romaines. Paris , 1886, pag. 5, nota 1. (1) Il principio « prior in tempore, potior in iure è dai Romani applicato non solo in tema di diritto privato, ma anche in tema di diritto pubblico. Questo con cetto è ancora espressansente enunciato nella legge 74 , § 1, Cod. Theod . 12, 1 . « Anteriore tempore adscitos ipsa aequum est antiquitate defendi » 10 - invece notevoli quanto alla primitiva Roma quadrata . Vero è che questa narrazione di Dionisio fu posta in dubbio dalla critica contemporanea ; ma egli è certo che in se stessa non ha nulla di improbabile, in quanto che era ben naturale, essendosi estesa la co munanza colla federazione di altre popolazioni vicine, che anche il caput ed il centro di Roma fosse trasportato in un sito, a cui fosse più facile l'accesso dalle varie comunanze , e che non fosse la di mora pressochè esclusiva di una delle tribù confederate , come era della città palatina (1). Si comprende pertanto come, sotto lo stesso Romolo o sotto i Re che lo seguirono, la fortezza della città e il tempio della divinità patrona comune siansi fondati sul Capitolino e come a poco a poco gli edifizii pubblici di Roma antica siansi venuti concentrando fra il Palatino ed il Capitolino, in quel sito appunto in cui ancora oggidi si ammirano le grandi reliquie degli edifizii pubblici di Roma antica ; edifizii che al tempo dell'Impero già erano considerati come una specie di museo, e come tali erano divenuti oggetto di venerazione e di culto , ed erano custoditi qual memoria di una vita politica, che ormai aveva cessato di esistere . 10. A questo periodo però, che può dirsi di semplice confederazione, ne succedette un altro , in cui cominciò ad effettuarsi una vera e propria incorporazione delle varie comunanze di villaggio in una città , la quale, fortificata e chiusa in se stessa , apparisse paurosa e potente alle popolazioni vicine. – Due cose si richiedevano per una simile trasformazione. Conveniva anzitutto che alla distinzione delle tre tribù primitive, che ricordava ancor sempre la loro ori gine diversa, si facessero sottentrare altre distinzioni, le quali so stituissero al vincolo genealogico il vincolo territoriale , e che gli elementi diversi, che erano entrati a far parte della stessa comu nanza politica e militare , fossero anche stretti insieme, mediante la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la vigorosa espressione di Floro, cominciò a mescolarsi insieme il sangue di elementi originariamente diversi, i quali finirono col tempo per costituire un unico corpo ed un organismo coerente in tutte le sue parti (2 ). (1) Dion., II, 37. Cfr. MIDDLETON , Ancient Rome, pag . 58 . (2) FLORUS, III, 18: « Quippe cum populus Romanus Etruscos , Latinos, Sabi nosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem ducat, corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est » . - ll - Questi sono i divisamenti, che, incominciando da Tarquinio Prisco , già cominciano a delinearsi nella mente dei re. – È noto infatti che Tarquinio Prisco già avrebbe tentato , secondo la tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre primitive e di rompere così il mo dello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta formando. Il suo tentativo però trovò opposizione nell'augure sabino Atto Navio, che qui evidentemente si fa interprete dello spirito conservatore del pa triziato romano, e quindi l'opera di Tarquinio Prisco dovette li mitarsi a fare entrare gli elementi sopraggiunti nei quadri delle tribù primitive. Gli è perciò , che gli viene attribuito di aver raddop piato il nu mero delle Vestali, di aver duplicato il numero delle cen turie degli equites , aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses , Luceres primi le tre dei Ramnenses, Titienses, Lu ceres secundi, e di avere infine anche raddoppiato o quanto meno portato a trecento il numero dei senatori con aggiungere ai patres maiorum gentium quelli minorum gentium (1). Così pure è ormai dimostrato che i re anteriori a Servio Tullio già avevano iniziato dei lavori di cinta e di fortificazione, che poi furono com presi nella cinta Serviana, e che la grande opera di questa nuova cerchia di Roma già era incominciata sotto Tarquinio Prisco . 11. L'una e l'altra opera fu poi continuata da Servio Tullio , che forte dell'appoggio della plebe e di parte anche del popolo, sembra aver fatto a meno anche dell'approvazione dei padri. Egli infatti, senza distruggere la primitiva organizzazione di Roma, fondata ancora sulla discendenza, riusci a creare, accanto alla medesima, una nuova organizzazione militare, politica e tributaria , per cui la popolazione romana ricevette una nuova ripartizione in classi ed in centurie, e il suo territorio venne ad essere diviso in tribù locali. Così pure riusci a compiere quell'opera gigantesca della cinta , che fu dal nome di lui chiamata Serviana , i cui avanzi formano ancora oggi la meraviglia degli investigatori dell'antichità e dimo strano da soli la grandiosità e l'unità del concepimento, malgrado che parecchi re avessero partecipato alla costruzione di quelle mura e di quell'agger , che poi furono chiamati Serviani; costruzione, che sarebbe pressochè incomprensibile se non fosse stata compiuta col concorso di quelle plebs, ormai già fatta numerosa , che con Servio (1) Cic. de Rep., 2, 20. V. LANGE, Op. cit. e loc. cit., pag . 81 e seg . 12 Tullio sarebbe entrata a far parte del Populus Romanus Quiri tium ( 1). È da questo momento che Roma appare chiusa e fortificata nelle proprie mura, già splendida di edifizii, ricca eziandio di una popo lazione urbana, che può ancora essere accresciuta senza che occorra di estenderne ilpomoerium . È da quest'epoca parimenti, che Roma, forte del rigore del proprio diritto e della propria disciplina dome stica e militare, si mette in lotta aperta con tutte le tribù o genti, che non siano disposte ad accettarne la superiorità o l'alleanza . Noi ci troviamo così di fronte alla Roma storica , conquistatrice e legislatrice prima dell'Italia e poscia dell'universo, degna di essere studiata nelle sue lotte intestine e nella sua unità compatta di fronte alle altre genti. Tuttavia , anche dopo Servio Tullio, Roma non giunge mai a chiudere nelle proprie mura tutta la sua popolazione , ma soltanto le quattro tribù urbane, mentre è ben maggiore il numero delle tribù rustiche. e lo spazio dalle medesime occupato . Per tal modo essa continua ancor sempre ad essere il centro della vita pubblica , a cui mettono capo le popolazioni sparse nelle comunanze di villaggio o pagi, che la circondano, ed è la sua persistenza in questo processo già seguito in Roma primitiva e non mai abbando nato anche più tardi, che spiega come Roma abbia potuto cambiarsi in una città , i cui cittadini erano sparsi dapprima in tutto il Lazio , poi per tutta l'Italia , e da ultimo per tutto il territorio dell'impero . 12. Se ho insistito alquanto lungamente sopra questo concetto, gli è per dimostrare come non possa accettarsi l'opinione che sull'auto rità del Mommsen e di altri fu pressochè universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto incomprensibile la storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata fin da principio l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti e dei territorii dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito nella for mazione delle città Latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen , ed è in contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii inizii fu modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non fu che la capitale di una federazione e il centro della sua vita pubblica , mentre lasciò che le genti e le famiglie con ( 1) V. in proposito l'articolo del BARATTIERI, Sulle fortificazioni di Roma all'epoca dei re. Nuova Antologia . Gennaio 1887. - 13 tinuassero la propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio , alle quali continud a lasciare i proprii territorii genti lizii. La sua formazione pertanto non è dovuta ad un processodi aggregazione, ma ad un processo di selezione, cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo . Qui basterà il notare che questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva conduce a conseguenze molto diverse da quelle, ch e furono pressochè universalmente adottate. Partendo infatti dall'idea di una semplice aggregazione si giunge a trasportare le gentes fra le ripartizioni delle città, come ha fatto il Niebhur; a so stenere col Mommsen che la primitiva proprietà di Roma fu una proprietà collettiva come quella delle gentes , ciò che è smentito as solutamente dal diritto primitivo di Roma, a dare collo stesso autore un carattere assolutamente patriarcale alla primitiva costi tuzione di Roma, e ad una quantità di altre illazioni, che rendono del tutto inesplicabile e contradditoria la storia primitiva di quel po polo , che ha usato una maggior logica nello svolgimento delle proprie istituzioni. Con questo sistema si dovette necessariamente giungere a considerare la storia primitiva di Roma come una serie di leg gende, che sarebbero state inventate da un popolo , che in tutto il 1 resto si è dimostrato invece ben poco fantastico , nell'intento di combinare l'umiltà delle proprie origini colla grandiosità dello svol gimento, che ebbe a ricevere dappoi (1). (1) Parrà strano che nella mia pochezza venga a combattere opinioni, le quali appariscono suffragate da un così gran cumulo di erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si trattasse di questo o di quel documento storico, ma dalmo mento che trattasi di ricostruire in base alle induzioni più probabili il processo, che Roma seguì nella propria formazione, mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le opinioni inesatte dei grandi scrittori, che pongono gli altri sopra una falsa via . È incredibile la quantità di induzioni errate, che produsse nella storia di Roma la confusione fatta dal Niebuur dell'organizzazione gentilizia coll'organizzazione politica allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio le gentes, e sostenne così che queste fossero una divisione politica della città . Tutta la critica storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero scorgere nella città un'aggregazione di gentes, il che rese del tutto inesplicabile la storia primitiva di Roma. Mi basterà citare fra gli altri; il MOMMSEN, op. cit. e loc. cit., pag. 77 , ove dice che le genti erano incorporate tali e quali nello Stato con tutti i loro territorii e con tutte le famiglie, che contene vano e che il gruppo della famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato » ; il LANGE, op. cit ., pag. 37 e seg ., ove con uno sforzo mirabile, ma sfortunato, di sottigliezza, vuol trovare ad ogni costo i caratteri della famiglia nello Stato romano; 14 - 13. Parmi invece un processo assai più logico e che può condurre a risultati assai più verosimili quello, che ebbe già ad esser iniziato dal Bonghi, di prendere Roma, quale essa si presenta nelle tradizioni esa minate col sussidio della critica . Dal momento che Roma si è veramente staccata da una popolazione latina , è naturale che essa sia stata dapprima foggiata sul modello delle città latine, e che abbia continuata tenacemente l'opera già da queste incominciata di organiz zare , accanto alla vita patriarcale e gentilizia , quella vita pubblica, che dispiegasi appunto nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione gentilizia , ed è con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale ; solo richiama a se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che prima si compievano nel seno dell'orga nizzazione gentilizia , ed è in tale intento che essa intraprende l'ela borazione del proprio diritto pubblico e privato . Una volta poi che quest'opera è iniziata , Roma, con quella tenacità di proposito , che è sopratutto propria del popolo romano , non si arresta nell'opera sua sinchè non sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio seno una vita pubblica e municipale,ma a cambiare il mondo allora conosciuto in un complesso di città , di colonie, di provincie orga nizzate tutte a somiglianza di se medesima, e gli abitanti dell'impero in cittadini di un'unica città . La qual opera fu compiuta da Roma seguendo sempre quel medesimo processo , a cui erasi attenuta nella sua primitiva formazione. 14. È per questo motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni pubbliche e private di Roma senza tener dietro alla sua formazione esteriore, quale può ricavarsi dagli studii topogra e il Sumner MainE, L'ancien droit, trad . Courcelle Seneuil, pag. 121, dove, dopo aver detto che la gens era una aggregazione di famiglie, e la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per dire che la città non è essa stessa che « un'aggregazione di tribù e la repubblica una collezione di persone legate per discendenza comune all'autore di una famiglia primitiva » , il che certamente non può ammettersi. Del resto la gravissima questione sarà trattata più a lungo nel lib. II, Cap. I, quando si discor rerà della costituzione primitiva di Roma. 15 fici recentemente fatti intorno all'antica Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa formazione progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di Roma, viene anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua religione, del suo senato , dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito , dei suoi collegi sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione delle sue isti tuzioni pubbliche e private, poichè ciascun popolo imprime sopratutto il proprio carattere in quella parte dell'opera sua, in cui giunse senz'alcun dubbio a maggiore grandezza (1 ). A ciò si aggiunge la considerazione già stata fatta da un autore assai benemerito della ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è il Rubino, secondo il quale le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi tempi di Roma, debbono distinguersi in due specie . Vi hanno quelle relative alla costituzione primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici , che sono collegati con essa , e queste fino a prova contraria debbono essere ritenute per vere ; perchè trattasi (1) Vi ha questo di particolare nella storia di Roma, che lo svolgimento di essa , sotto qualsiasi aspetto sia considerato, presentasi organico e coerente in tutte le sue parti. Ne derivò che tanto le investigazioni pazienti e minute quanto le ricostru zioni ardite, che si vennero succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intel ligenza di Roma primitiva . Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica , della sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia , dei suoi mo. numenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni giuridiche. Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa , che vi sono autori che, se guendo soltanto il formarsi della sua religione e dei suoi collegi sacerdotali, cerca rono di inferirne gli stadii della sua formazione progressiva , come tentò di fare il Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, Paris, 1871, e Manuel des institutions romaines, Paris , 1886 ; altri, che tentarono di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento di un istituto particolare, come sarebbe quello del Senato , come il WILLEMS, Le sénat de la république romaine, Paris, 1878 , 2 vol. , come pure il Blocu, Les origines du sénat romain, Paris, 1883, od anche quello dell'or dine dei cavalieri, come tentò di fare il Belot, Histoire des chevaliers romains, Paris, 1866 , 2 vol. — Non può però esservi dubbio che penetrarono più profondamente nella vita primitiva di Roma quelli sopratutto, che, come il Vico ed il Niebuur, ne ricercarono la storia nelle lotte degli ordini, che entravano a costituirla e nello svol gimento delle istituzioni giuridiche e politiche. Il diritto è la grande occupazione di Roma, e quindi è quello che conserva meglio le vestigia di un'epoca pre-romana. Esso formò il pensiero costante non solo dei sacerdoti, dei patrizi, e dei giurecon sulti, ma ancora dei poeti, per modo che fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come egli dice, < ... disiecti membra poetae » potè giungere a ricostruire in parte l'edifizio giuridico di Roma, anche nei particolari minuti della sua procedura . Henriot, Maurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome, Paris, 1865 , 3 vol. 16 d'un argomento che aveva un carattere pressochè sacro per il po polo Romano, e in cui concentrava tutta la propria vita , per guisa che esso continuò sempre a svolgere con pertinacia e con co stanza quei concetti e quelle istituzioni, che furono posti durante lo stesso periodo regio . Hanvi invece le tradizioni, che si riferi scono a racconti di guerre e ad incidenti, che le avrebbero accom pagnate, a vicende di uomini illustri, a quei particolari insomma che dånno vita ed attrattiva alla storia romana, e queste rimasero per lungo tempo affidate alla leggenda popolare e poterono cosi essere alterate sia dalla vanità nazionale che dalla vanità delle grandi famiglie di Roma. Bene è vero , come osserva il Bonghi, che anche nella prima parte possono essersi introdotte delle altera zioni, che furono causate dal partito diverso , a cui appartengono gli scrittori (1), ma siccome trattasi di istituzioni, che ebbero un pro cesso storico non mai interrotto , cosi egli è ben più facile di rista bilire la verità , che non quando trattasi di semplici incidenti della storia di Roma, che, non collegandosi così strettamente col resto, potevano dare argomento ad altrettante leggende, che si arricchivano di nuovi particolari, a misura che si veniva ripetendone la narrazione. Dopo aver cosi seguita la formazione progressiva della comunanza romana vediamo ora gli elementi, che si trovano in lotta nell'in terno della medesima. (1) È da vedersi al riguardo Bonghi, La fede degli storici superstiti di Roma antica , capitolo desunto dalla 2a parte del II volume, che anche ora non è pubbli cato, malgrado il desiderio che l'illustre autore e gli Italiani tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che egli solo è in condizione di compiere. Rirista storica italiana. Torino, 1886. Fascicolo 1º, pag. 25 e seg . - 17 - CAPITOLO II. Il patriziato e la plebe in Roma primitiva. 15. Una delle circostanze più accertate della condizione di Roma primitiva si è , che nella popolazione della medesima cominciò fin dai primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello cioè fra il patriziato e la plebe. La tradizione cercò di spiegare questo dualismo dicendo, che Romolo avrebbe aperto un asilo , ove si potessero rifu giare coloro, che per qualunque ragione avessero dovuto abbando nare la propria città . Ciò farebbe credere che la distinzione fra il patriziato e la plebe fosse in certo modo nata con Roma, quando non fosse certo , che cotale distinzione già esisteva in altre città , e non vi fossero formole antiche , che accennassero al doppio elemento coi vocaboli di populus et plebes (1). Sembra anzi che le stesse tribù primitive, che entrarono nella costituzione della più antica comunanza romana, già avessero con sè una propria plebe, indipendentemente da quella che si sarebbe rifugiata nell'asilo aperto da Romolo, in quanto che, secondo il racconto di Dionisio, uno dei primi provvedimenti di Romolo sarebbe stato quello di affidare ai plebei la coltura dei campi, l'allevamento del bestiame e l'esercizio delle arti manuali, e di collocarle sotto la clientela dei padri, il che sarebbe anche con fermato da Cicerone come pure da un luogo di Festo , secondo cui i senatori sarebbero stati chiamati patres, in quanto che erano incari cati di fare distribuzione di terre ad un ordine inferiore di persone (tenuioribus) (2). ( 1) La distinzione fra il populus e la plebes trovasi ancora in un documento im portantissimo, cioè nella lex latina tabulae Bantinae, ove è ripetuta più volte la frase « quisque eorunt sciet hanc legem populum plebemve iousisse » formola che ha certo grande importanza quando si consideri che era tradizione romana quella di conservare le formole arcaiche nel tenore delle proprie leggi. Quella formola dimo stra che populus e plebes dovevano dapprima essere distinti e che, quando i due elementi si fusero insieme nella comunanza , per qualche tempo ancora i due voca boli serbarono rispettivamente la primitiva loro significazione. V. la lex latina tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, pag. 51-53. Ed. 54. Friburgi, 1887. (2 ) Quanto al testo di Dionisio, esso è riportato in greco e nella traduzione latina nel Bruns, Fontes, pag. 3 e nota 2. Quanto a quello di Festo, vº Patres, è bene di G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 2 18 - 16. Questo è certo che il patriziato e la plebe, anche quando giungono a considerarsi come parti della medesima comunanza e a far parte dello stesso popolo , il che è accaduto molto tempo dopo l'epoca della fondazione, come si dimostrerà a suo tempo, continuano sempre a costituire due ordini e pressochè due caste compiutamente distinte, fra le quali non esiste ne identità di istituzioni, nè comu nanza di tradizioni, nè il diritto di connubio . — Mentre il patriziato si presenta colle tradizioni di un passato, le cui origini si perdono nel l'oscurità dei tempi e debbono forse essere cercate nello stesso Oriente, e con una organizzazione potente, le cui traccie si mantengono ancora durante il periodo storico ; la plebe invece presentasi dapprima come una massa mobile, composta di elementi eterogenei e diorigine probabilmente diversa ( 1). Essa ha pochissima importanza negli inizii di Roma,ma viene sempre più crescendo in numero e in potenza, anche perchè, a differenza del patriziato , può continuamente acco gliere nel proprio seno nuovi elementi. Durante il periodo regio la plebe non sembra ancora essere in condizione di affrontare la lotta col patri ziato , ma cominciando dalla repubblica i conflitti si fanno pressoché quotidiani, cosi in materia di diritto pubblico che di diritto privato, e dalle discussioni, che seguono fra idue ordini, si può raccogliere che le differenze essenziali, che servivano a distinguerli, erano essenzialmente le seguenti. I patrizi anzitutto erano e si ritenevano i fondatori della urbs e i soli membri della civitas, mentre la plebe era un elemento , che trovavasi in condizione inferiore e che per la maggior parte era sopravvenuto più tardi, nè poteva quindi, secondo le idee del patriziato , pretendere ad un pareggiamento completo . Quelli avevano un'organizzazione potente, che era quella per gentes, la cui forza veniva ancora ad accrescersi mediante l'istituto della qui riportarlo : a Patres senatores ideo appellati sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus, ac si liberis propriis » . V. Bruns, p. 351. Questi passi unita mente a quello di CICERONE, De rep., 2, 9 : « Romulus habuit plebem in clientelas principum descriptam » rispondono abbastanza all'opinione di coloro, che come il LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag . 59 ed il Padelletti, Storia del dir . rom ., pag . 19 , sostengono, che l'origine della plebe sia posteriore alla fondazione della città , ed abbia solo avuto origine « coll'ammissione di persone libere nella cittadinanza e nel territorio dello Stato ,avvenuta per atto pubblico e accompagnata dalla concessione in proprietà di terreni da coltivare » . PADELLETTI, op . e loc. cit. (1) Cfr. MUIRHÉAD, Hist. Introd ., pag. 10 . 19 -- clientela ( 1). Il patriziato quindi poteva indicare la serie dei proprii antenati e dimostrare che i medesimi eran sempre stati ingenui e che niuno di essi erasi trovato in condizione servile. La plebe invece, se si deve credere alle ragioni poste innanzi molto più tardi dagli oratori patrizii, allorchè trattavasi nel 309 di Roma di respingere la legge Canuleia diretta a togliere il divieto dei connubii fra i due ordini , non conosceva ancora la famiglia or ganizzata in base al potere del padre ed al culto degli antenati, per cui le unioni plebee non erano dai patrizii considerate come iustae nuptiae, nè santificate dalla partecipazione al medesimo culto ; ma erano semplici matrimonia , in cui il vincolo di parentela era determinato piuttosto dalla cognazione materna, che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che ancora dopo la legge delle XII Tavole il patriziato non poteva comprendere una comunanza di connubio fra esso e la plebe, come lo dimostrano le parole di Livio relative al plebiscito Canuleio : rogationem promulgavit, qua con taminari sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur (2). – Da ultimo una differenza importantissima consisteva anche in questo , che solo il patriziato possedeva gli auspicia , cosicchè tutti gli atti, che lo riguardavano, assumevano un carattere solenne e religioso; mentre la plebe, pur avendo una religione e feste ( 1) Gellio , Noc. Att., 10 , 20 chiama la plebe quella parte della popolazione ro mana, nella quale « gentes patriciae non insunt ». È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra patrizii e plebe ( X , 8 ) gli oratori di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli ad avere le gentes con parole, che riassumono i titoli di superiorità del patriziato: « semper ista audita sunt eadem : penes vos solos au spicia esse, vos solos gentes habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque ecc. » . Pare tuttavia che non possa affatto escludersi l'esistenza di gentes plebeiae, le quali però costituivano una eccezione. La causa di questo fatto può essere duplice ; —o queste gentes potevano derivare dalle popolazionidelle città latine, che già avevano un'organizzazione simile a quella delle genti patrizie, seb bene non fossero più state ammesse nel patriziato, – o la formazione di queste gentes dovette accadere più tardi, quando una parte della plebe, entrata a far parte della nobiltà, cercò essa pure di imitare l'organizzazione gentilizia , il che cominciò ad es sere possibile dopo le leggi Licinie Sestie, colle quali la plebe fu ammessa al con solato. Così Cicerone ci attesta, che la famiglia dei Marcelli erasi staccata dall'antica gente patrizia dei Claudii (De Orat., I, 176). Così pure egli ci parla di una gens Minucia, che sarebbe stata plebea (In Verr., I, 45 ). Fra gli autori recenti sull'ar gomento sono da vedersi il Voigt, XII Tafeln , Leipzig , 1883 , I, pag . 262 e seg . e il KARLOWA, Röm ., R. G., I, pag . 36 e 37. (2 ) Liv ., Hist., IV , 1. - 20 popolari, non possedeva gli auspicia , nè aveva un proprio culto gentilizio (sacra gentilicia ). Queste differenze erano tali, che sebbene le circostanze conducessero col tempo i due ordini a far parte della stessa comunanza, era pero naturale , che essi non potessero entrarvi alle stesse condizioni. 17. Dalle differenze sovra enumerate questo intanto si può inferire , che in Roma primitiva la superiorità , che si attribuiva il patriziato sulla plebe, trova sopratutto la propria causa in ciò, che esso era già era più progredito nell'organizzazione sociale , ed era prima uscito dallo stato di confusione, di privata violenza e di promi scuità primitive, che esso riteneva in parte essere ancora proprie della plebe. Esso sapeva indicare i proprii antenati, aveva con servato gelosamente le proprie tradizioni, ed era già pervenuto al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di più erano le gentes, che aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come pure erano le tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e dopo aver assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città , in cui provvedevano ai comuni interessi ed ob bed no ad una legge, espressione della volontà comune (1 ). Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città del loro eser cito, era spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè le molti tudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e fortificata un'aggregazione di genti patrizie , ma chi tenga conto della umana natura , che in questa parte non sembra ancora essersi modificata , non può certo meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la massima : prior in tempore, potior in iure, e si siano cosi prevalse del vantaggio , che loro somministrava una più antica esperienza delle cose civili ed umane, per conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza civile . Piuttosto è da am mirarsi la tenacità e perseveranza di una plebe, la quale, composta (1) Quinto all'origine ed al carattere del patriziato primitivo di Roma, contiene delle buone ed acute osservazioni l'articolo del FREEMAN nell'ultima edizione del l'Encyclopedia Britannica , pº Nobility , ove il patriziato romano è posto a para gone cogli Eupatridi di Grecia, colla nobiltà feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, Histoire des Romains. Paris, 1870, I, pag . 10, ove parla del patriziato come di un'istituzione propria delle società primitive e nota le analogie e le differenze fra i patrizii di Roma e i bramani dell'India . Cfr. Muir HEAD, op. cit., pag. 5-8 . - 21 dapprima di elementi eterogenei e priva di qualsiasi organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare l'organizzazione propria del patriziato, creare genti plebee accanto alle genti patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto , di quello cioè della proprietà quiritaria , riusci a valersi delmedesimo come di stru mento e di mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e po litica , e perfino l'ammissione a quegli auspicia , a quei sacerdotia , e a quella scienza del diritto , che solo molto tardi vennero ad es sere comunicati ai plebei ( 1). 18. Questo intanto può aversi per certo, che la formazione del patriziato e della plebe costituisce in certo modo la questione fon damentale della storia politica e giuridica di Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i servi ed i clienti, ma questi due elementi non hanno certo l'importanza della plebe, che dovrà poi avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che i servi entrano a far parte della famiglia ed i clienti rientrano anch'essi nell'organizzazione gentilizia . Di più tanto gli uni comegli altri, al lorchè riescono a svincolarsi dal padrone o dal patrono, entrano a far parte della plebe, che è quella veramente , che sostiene e vince la lotta per il pareggiamento giuridico e politico col patriziato . Quindi è che nè i clienti, né i servi come tali riescono ad avere una piena personalità giuridica e civile; poichè i primi scompariscono a poco a poco o si trasformano in semplici salutatores, ed i secondi si man tengono bensì, ma non giungono mai, durante il predominio di Roma, ad essere riconosciuti come capaci di diritto . La questione limitasi pertanto al patriziato ed alla plebe , ed è quindi l'origine di questi due elementi, che è il maggior problema, che offra la storia primitiva di Roma. Cið non ostante, sinchè non siansi esaminate l'organizzazione del patriziato e la composizione della plebe , non pud certo affrontarsi il problema della origine delle due classi. – Basterà unicamente, per l'intelligenza di ciò che verrà dopo, di osservare che le differenze, che esistevano fra di esse negli inizii (1) Queste lotte per il pareggiamento sono largamente esposte dal LANGE, Hi stoire intérieure de Rome, I, pag. 111 a 218. I risultati poi della lotta sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, Milano, 1879, e sopratutto nel cap . I, Le assemblee elettorali, p. 1-135 . 22 di Roma, la superiorità pressochè incontestata dei patrizii e l'ossequio pressochè servile dei plebei nei primi tempi della città dimostrano ab bastanza, che la loro distinzione non potè certamente essere opera della legge, nè delle circostanze storiche speciali, in cui Roma ebbe a tro varsi ; ma dovette essere il frutto di una lunga evoluzione storica , la cui preparazione deve essere cercata in un periodo anteriore di orga nizzazione sociale. Non può esservi dubbio, che l'origine di una di stinzione, così altamente radicata nel costume e nelle abitudini delle due classi, deve essere cercata in quei cataclismi, che dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel sovrapporsi delle stirpi italiche, di origine Aria, sovra altre stirpi, che già abitavano il suolo , sovra cui esse si arrestarono nelle proprie migrazioni. Essa è una distinzione, che deve certa mente rannodarsi ad una divisione ben più antica , e le cui traccie si mantengono sempre nella storia dell'umanità , che è quella fra la classe dei conquistatori, dei vincitori, dei primi pervenuti a sta bilirsi in un determinato suolo , e quella dei soggiogati, dei vinti, e dei sopraggiunti più tardi a porre la propria sede in un suolo, che altri aveano prima occupato e sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e fortificati. Egli è certo, che nel sopraggiungere delle stirpi italiche mi granti dall'Oriente dovette certamente avverarsi un periodo di privata violenza non dissimile da quello, che accadde più tardi allorchè le popo lazioni germaniche invasero l'Impero Romano. Anche allora dovettero esservii vincitori ed i vinti, e frammezzo a quella promiscuità di genti e a quella prevalenza della forza , che ci ricordano ancora gli scrittori latini quando ci parlano di connubia more foerarum e di viri duro ex robore nati, dovette sentirsi urgentissimo il bisogno di una prote zione giuridica e di una forte organizzazione sociale (1). Dovettero ( 1) Sono sopratutto i poeti latini, come interpreti delle primitive tradizioni e leg gende, che alludono frequentemente a questo stato primitivo , in cui dovettero tro varsi le genti italiche, ora descrivendo una età dell'oro, che assegnano al regno di Saturno, che sembra corrispondere al Savitar degli Arii, ed ora accennando eziandio a un periodo, in cui avrebbe imperato la forza e la violenza. È veramente preziosa in proposito e riflette mirabilmente la coscienza primitiva delle genti italiche la raccolta , che l'Henriot ebbe a fare dei testi dei poeti latini, che possono avere qualche attinenza col diritto, nella sua opera col titolo : Mæurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome d'après les poètes latins. Paris, 1865, 3 vol. I testi, che ram mentano la presunta età dell'oro, si possono vedere nel tomo I, pag. 5 a 7 e quelli relativi all'imperio della forza da pag . 32 a 38. È poi notabile come tutti i poeti accennino al concetto di un diritto naturale, preesistente alla formazione del civile consorzio, e tutti esprimano con grande efficacia l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine delle leggi. 23 allora succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon minori di quelli, che si attribuiscono al nostro suolo , e furono questi cataclismi, che condussero necessariamente alla formazione di un aristocrazia territoriale, militare e patriarcale ad un tempo, che era il solo ed unico mezzo per uscire da uno stato di promiscuità e di violenza. Fu questa aristocrazia , che comprese i padri nella famiglia , i pa troni nella gente e i patrizi nella tribù, ed abbracciò cosi tutte quelle genti, le quali, memori forse di istituzioni che eransi altrove elaborate, trapiantarono frammezzo al disordine ed alla lotta la potente or ganizzazione gentilizia, che una volta formata si chiuse in certo modo in se stessa e riguardo come di origine inferiore tutti coloro che non appartenevano alla medesima. Fu questa aristocrazia po tentemente organizzata per gentes, che costituì la classe privilegiata e che meritava dapprima anche di essere considerata come tale ; ma accanto alla medesima dovette naturalmente formarsi una classe subordinata , i cui gradi corrispondono precisamente ai varii stadii dell'organizzazione gentilizia, in quanto che comprende i servi nella famiglia , i clienti nella gente , ed i plebei, che cominciano a compa rire colla tribù . Per tal modo nelle popolazioni, che si vengono così organizzando, si disegnano per spontanea e naturale formazione, due strati, che si corrispondono fra di loro , e mentre in una lunga e lenta evoluzione, di cui non sopravisse alcun ricordo, salvo nella lingua e negli og getti trovati nelle tombe, i padri della famiglia si cambiano in pa troni nella gente e quindi in patrizi nella tribù, anche i servimano messi dal padrone mutansi in clienti del patrono ed i clienti rimasti senza patrono formano il primo nucleo della plebe . Padri, patroni e patrizi sono i sedimenti successivi della classe dei vincitori, dei pro prietari delle terre, dei primi organizzatori di una vita sociale; mentre i servi, i clienti ed i plebei rappresentano i varii stadii, per cui passa la classe inferiore dei vinti, e di quelli che, per avere una prote zione, si accalcano intorno allo stabilimento delle casate patrizie. I primi possono indicare i proprii antenati ed escludere qualsiasi origine servile; mentre i plebei, se giunsero col tempo ed essere indi pendenti dal patriziato , appartennero probabilmente alla classe dei servi e dei clienti, e non ebbero dapprima quelle giuste nozze, che ac certavano la discendenza per la linea maschile. È in questo modo che il patriziato venne formandosi l'alto concetto della propria su periorità e che giunse fino a dire, se non a credere, che discendeva dagli dei (il che del resto non era intieramente falso dal momento 24 - che avevano elevato a divinità i proprii antenati) (1) ; mentre la plebe, memore forse della servitù antica, trovasi dapprima in una abbie zione pressochè servile , da cui non venne a liberarsi che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo potente di famiglie latine, che appartenevano alle città conquistate da Roma. Intanto perd fra le due classi vi ha questa differenza , che la prima tende a tir coscriversi, anche per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una organizzazione così gerarchica , eome era l'organizzazione genti lizia, la quale non poteva accogliere degli individui ma soltanto delle altre genti ; mentre la plebe, appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece ad incorporarsi nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa pud accogliere i vinti che non siano ridotti in ischiavitù , gli emigranti che non siano ricevuti come clienti, e non solo può aggregare nel proprio seno delle famiglie , ma anche individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui erano uniti, abbisognino di protezione e di tutela . Intanto pero fra l'uno e l'altro ordine , la grande differenza è questa , che nelle origini solo il patriziato ha una vera posizione di diritto,mentre la plebe non ha dapprima cheuna posizione di fatto . Il patriziato e il popolo da esso costituito è un ordine ; mentre la plebe non è che una moltitudine , una folla non ancora or ganizzata ; quello ha tradizioni militari , religiose , giuridiche , mentre questa non ha dapprima che quelle costumanze e quegli usi, che possono formarsi in una folla di provenienza diversa e di for mazione del tutto recente ; quello ha una religione gentilizia, for matasi nel suo seno mediante il culto degli antenati, mentre questa non ha che un complesso di credenze popolari, che ancora abbiso gnano di ricevere una forma religiosa . Ben si comprende quindi, che la distanza era grande e che doveva essere assai malagevole di raccogliere i due elementi nella stessa comunanza, elaborando un diritto, che potesse essere comune ad en trambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due ordini, importa di ricer care più particolarmente l'organizzazione già formata del patri ziato , e quella ancora in via di formazione, che dovrà poi compren dere la plebe. (1) Liv., X , 8. « En unquam fando audistis patricios primo esse factos, non de caelo demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos ! » . 25 – CAPITOLO III. Il patriziato e la sua organizzazione gentilizia . sl. Sguardo generale all'organizzazione delle genti patrizie e ai diversi gradi della medesima. 19. Non può esservi dubbio, che a costituire il patriziato primitivo di Roma concorsero elementi diversi, usciti per la maggior parte da quelle tre stirpi di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for mare la comunanza romana. Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste sonovi quelle che figurano come più antiche, genti di origine sabina, ed altre  , in numero forse minore, di origine etrusca (1). L'origine diversa poi facilmente persuade, che le loro istituzioni tradizionali dovevano anche essere dissimili , e che quindi quella completa analogia di istituzioni, che in esse apparisce più tardi, do vette essere l'effetto di una lenta assimilazione , che vennesi ope rando gradatamente mediante la loro partecipazione ad una stessa comunanza civile e politica (2 ). 20. Tuttavia, malgrado le differenze che potevano esservi nelle sue tradizioni, il patriziato romano, comunque fosse originariamente composto, presenta fin dalle origini della città le traccie di un'or ganizzazione potente di carattere patriarcale, che è l'organizzazione gentilizia . Non è qui il caso di cercare, se questa organizzazione per genti sia stata una necessità storica per uscire da quello stato di conflitto e di privata violenza , che dovette avverarsi all'epoca delle migrazioni, e se sia stata invece una istituzione, che le stirpi migranti già avevano elaborata altrove e che loro servi per sovrap porsi alle popolazioni indigene, il ehe sembra essere più probabile ; ( 1) L'enumerazione delle primitive genti patrizie col riassunto delle opinioni di. verse intorno alla loro origine e alle molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di esse, può trovarsi nel Bonghi, Storia di Roma, vol. 1°, Appendice al lib. II, pag . 472 a 512. (2) Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ. Ivi l'autore cerca perfino di determi nare la parte, che nel diritto privato dovrebbe attribuirsi alle varie stirpi. 26 questo in ogni caso deve aversi per certo , che è in virtù di questa organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto potessero essere diverse di numero e di potenza, appariscono perd foggiate sul medesimo modello . Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi in via di dissoluzione ; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto alterato nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile e politico, dal quale è assai difficile sce verarlo . Ciò non ostante dalle vestigia , che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito eminentemente conservatore del popolo romano, si può dedurre che l'organizzazione gentilizia dovette nel patriziato romano presentarsi in gradazioni diverse , tutte stretta mente connesse fra di loro. Esse sono : la famiglia fondata sull'a gnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla clientela , e da ultimo la tribú , in cui già compare nei proprii inizii la distinzione fra il patriziato e la plebe (1). 21. Sarebbe certo cosa di grande interesse il ricercare qui se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia abbia prese le mosse dalla famiglia, o dalla gente , o dalla tribù; ma ciò ci recherebbe a quel l'epoca e a quel sito , in cui le stirpi Arie ponevano le prime basi dell'organizzazione patriarcale, cominciando probabilmente dal più piccolo e più naturale dei gruppi, che era la famiglia (2 ). Qui perd non sarà inopportuno il mettere innanzi, almeno a titolo di con gettura, che dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia quello, che probabilmente servi per la migrazione delle varie stirpi dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il gruppo della gens. Ciò è dimo (1) Questa stessa gradazione è accolta dal SUMNER MAINE, Ancien droit, p. 121 , ma non è invece quella seguita dal Leist, Graeco- Italische R. G., § 18 a 36 , il quale parmi non distingua sempre abbastanza due cose affatto diverse fra loro, che sono l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica, considerando come altret tante divisioni del populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le gentes. (2) Senza voler quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per le lunghe, non posso però tralasciare di notare, che la così detta famiglia patriarcale non deve ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè essa è già una famiglia, le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa del suo entrare a far parte della organizzazione gentilizia. È nota in proposito la discussione, anche oggi non defi nita , fra il SumnER MAINE, Early law and custom , London, 1883 , c. VII, pag . 192 a 232 da una parte, ed il MORGAN ed il Mac-Lennan dall'altra , come pure la cri tica fatta, alla teoria patriarcale del SUMNER Maine, dallo SPENCER , Principes de sociologie, II, pag. 317 a 348. 27 strato dal fatto , che è dalla gente che il patrizio romano deriva quel nome, che esso ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmet tere poi ai proprii discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche nuova incorporazione nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti (1). Mentre la famiglia è il gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una vera e propria comunanza di villaggio, in cui si preparano gli elementi costitutivi della città , la gente invece è il gruppo intermedio , che då giusta mente il suo nome e la propria impronta all'organizzazione genti lizia, perchè di sua natura è un gruppo più elastico e pieghevole di tutti gli altri, e che può meglio accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione. La gens infatti è più forte e nume rosa della famiglia , perchè continua a stringere insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono anche unite tra di loro da un medesimo culto , e intanto è più compatta della tribus, la quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di ori gine diversa o hanno già dimenticata l'origine comune , può già fornire argomento a dissidii fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla . La gente poi è per sua natura tale, che ora può cam biarsi in una carovana in migrazione, ora attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche raccogliersi a guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa mai sorgere questione di preminenza , perchè è la consuetudine, che designa chi debba esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che tutti i suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella gente, che si vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le genti che, aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, dånno origine alla tribù , la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad essere così di avviamento alla convivenza civile e politica . I tre gruppi tuttavia sono sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si ven gono sovrapponendo l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul medesimo modello , che è quello del gruppo patriarcale , e si vengono reciprocamente influenzando per guisa, che tutti appa riscono come strati diversi di un'unica organizzazione. Di qui la (1) Cfr. Willems, Le droit public romain , 56 édition. Paris, 1883, pp. 25 , 30 , 31 e 48 . 28 conseguenza , che tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza civile e politica , compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di convivenza civile , colla diffe renza tuttavia , che nella famiglia prevale ancor sempre il vincolo del sangue, e nella tribù già si fa strada il vincolo civile e politico , mentre la gente è quella, che ha il carattere più schiettamente pa triarcale ( 1) 22. Cid premesso quanto ai caratteri generali della organizzazione gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali fattezze, desumen dole dalle traccie che ancora ne rimangono nella storia primitiva di Roma, nella quale vi ha questo di particolare che, anche quando un'istituzione si dissolve, si sanno mantenere le forme esteriori della medesima. In cid sarà bene incominciare dalla famiglia, come quella che ebbe ad esser meglio conservata e intanto costituisce il gruppo più ristretto dell'organizzazione gentilizia . $ 2 . La famiglia come parte dell'organizzazione gentilizia . 23. Per quanto sia vero che la famiglia , quale presentasi più tardi nel diritto quiritario , sia una istituzione comune così al patriziato che alla plebe, sonvi tuttavia forti argomenti per credere che la sua primitiva organizzazione fosse di origine patrizia . Fra gli altri argomenti l'importantissimo è questo , che una moltitudine come la plebe, che era di provenienza diversa e di formazione ancora del tutto recente, non poteva possedere fin dai suoi inizii una organizzazione famigliare , che presuppone una lunga serie di antenati e perciò una lunga elaborazione anteriore. Ciò del resto è anche dimostrato da che nelle origini il vocabolo di patres indicava sopratutto i capi delle famiglie patrizie, e perfino gli stessi senatori, che certo usci ( 1) Quanto ai caratteri comuni al gruppo patriarcale degli Arii, alla gens romana ed al révos dei greci ed alla letteratura copiosissima sull'argomento , mi rimetto alla mia opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Torino , 1880. Lib . I, cap. I, ed all'opuscolo : Genesi e svolgimento delle varie forme di con vivenza civile e politica . Torino, 1878. Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle istituzioni primitive presso le genti di origine Aria , oltre le opere già citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm . Königszeit, Stuttgart, 1882 e il Leist, op. cit. 29 vano dal patriziato, al modo stesso che il vocabolo di patricii in dicava i figli dei patres. Lo stesso provano eziandio le nozze con farreate , certamente proprie del patriziato , che nelle leggi attribuite a Romolo ed a Numa sembrano essere il solo modo con cui si po tevano contrarre le giuste nozze (1 ). Si aggiunge infine il carattere agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il quale non è e non può essere un carattere originario , ma è una conseguenza della stessa organizzazione gentilizia , di cui la famiglia entrava a far parte. Dal momento infatti, che in questo periodo non esisteva ancora una vera comunanza civile e politica , diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne assumesse le funzioni e le veci , e che perciò anche la famiglia, in quanto ne faceva parte, venisse a ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del padre, che non sul vincolo del sangue . È questa la causa per cui la fa miglia primitiva Romana sembra , almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del sangue, per guadagnare in forza ed in potenza , unificandosi sotto la potestà del proprio capo. Una volta poi che il fondamento della unione domestica si riponeva nella potestà del padre, era una conseguenza logicamente inevitabile , che come il padre prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia , cosi l'agnazione, ossia la discendenza dal padre, per la linea maschile, dovesse prevalere nella composizione diessa . È in questo senso , che la famiglia primitiva Romana viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il primo anello e come ilnucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia . Essa infatti ha una costi tuzione eminentemente monarchica, perchè tanto le persone, che la costituiscono, quanto le cose , che ne formano il patrimonio , dipen dono esclusivamente dalla potestà del padre. 24. La famiglia patrizia poi è un vero e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi. Finchè infatti vive il padre, nel cui potere essa trovasi unificata , la famiglia è un vero corpo vivente , che può andar soggetto a continui mutamenti, in quanto che vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono entrarvi. Quando poi il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla sua potestà possono ancora continuare a tenere (1) Dion ., 2 , 25 e 2, 63, il cui testo è riportato dal Bruns, Fontes « Leges Re giae » , pag. 6 e 9 . 30 indiviso il patrimonio comune, assecondando un antico costume ro. mano, che si esprimeva colle parole conservateci da Gellio « ercto non cito » le quali significano in sostanza che non si dovesse pro cedere alla divisione immediata del patrimonio (1). In tal caso si mantiene fra gli agnati un di soggetti alla patria potestà una specie di società universale di tutti i beni, per cui sembra in certo modo che si perpetui ancora l'esistenza della famiglia , e si ha così quella famiglia in largo senso , di cui ci parlano ancora i classici Giureconsulti, che la chiamavano « familia omnium agnatorum » . Questa indivi sione dovette certamente essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la causa per cui, oltre la famiglia nel vero senso della pa rola , che comprende tutti quelli che sono soggetti alla patria potestà, venne delineandosi una famiglia più vasta , che è quella degli agnati, la quale sebbene abbia cessato di essere unificata dalla potestà del padre, continua tuttavia ancora ad essere unita insieme e a costituire un tutto ( consortium ), stante l'indivisione del patrimonio . Ciò però non toglie che il concetto della famiglia agnatizia siasi poscia cam biato e che si siano compresi col nome di agnati tutti coloro, che (1 ) Mi fo lecito di mettere innanzi questa interpretazione delle parole arcaiche « ercto non cito » e ciò in base a quello che ci attesta Servio , il quale interpre tando questa espressione, dice appunto, che essa significa « patrimonio vel hereditate non divisa » , Serv., in Aen ., VIII, 642 (Bruns, Fontes, pag. 403). Queste parole furono poi applicate per indicare in genere la « societas omnium bonorum » in virtù della quale , secondo l'attestazione di Gellio : comnes simul in cohortem recepti erant, quod quisque familiae, pecuniae habebat in medium dabat, et coibatur societas in separabilis, tamquam illud fuit antiquum consortium , quod iure atque verbo romano appellatur cercto non cito » . - Che poi queste parole siano in certo modo un'antica clausola testamentaria , con cui il padre proibiva la divisione immediata appare da ciò, che ercto deriva certamente da ercisco e cito è un avverbio che deriva da cieo e significa « prontamente » . Vedi BRÉAL e Bailly, Dictionnaire étymologique latin , Paris, 1886 , pº Ercisco e Cieo . Che poi veramente presso gli antichi romani fosse consuetudine di mantenere, per quanto fosse possibile, l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo citato dal KARLOWA, Röm . R. G., pag. 93, ricavato dalle PETRI, Excep. legum romanarum , lib . I, cap . 19, De vendenda hereditate: « Consuetudo antiquorum esse solebat, ut frater de rebus suis immobilibus non venderet nisi fratri, propinquus propinquo, nec consors nisi consorti, si emere vellent » . È questo forse il motivo, per cui presso i Romani un heredium potera conservarsi integro nella stessa famiglia per parecchie generazioni, e un vicus poteva essere costituito per in tiero di famiglie appartenenti alla stessa gens, senza mescolanza di elementi estranei. Cid sarà meglio dimostrato nel seguente capitolo ove trattasi appunto prietà nel periodo gentilizio > . della pro -- - - 31 erano stati sotto la patria potestà della stessa persona, come quelli che avevano formato parte di una medesima casa ed erano usciti dalla medesima gente (1) . 25. Tuttavia, per ben comprendere il carattere della famiglia patrizia primitiva , vuolsi sempre aver presente , che essa non è già un orga nismo isolato , ma è parte di un organismo maggiore di cui costituisce il nucleo più ristretto . Diqui la conseguenza che quel potere del padre , che giuridicamente considerato sembra essere senza confini, trovasi nella realtà limitato sia dal tribunale domestico , che circonda il capo di famiglia, sia dal consiglio dei padri, che trovasi nella gente e nella tribù , per guisa che i temperamenti, chenon vi sarebbero nella natura del potere paterno, si incontrano invece nel costume e nell'organiz zazione gerarchica , di cui la famiglia entra a far parte . È per questo motivo, che tutti gli atti, che toccano in qualche modo l'organizzazione gentilizia, quali sarebbero l'adrogatio, che serve a perpetuarla quando manca una prole diretta , il testamento , che modifica le regole con suetudinarie relative alla successione, ed anche il matrimonio per confarreatio di uno dei membri della famiglia, devono essere fatti coll' intervento , colla testimonianza e perfino coll'approvazione dei capi di famiglia , che entrano a formare la gente e la tribù ; il che ancora appare dalle formalità, che accompagnarono questi atti nei primitempi di Roma. Intanto è incontrastabile, che anche la successione legittima e la tutela assumono un carattere del tutto gentilizio , in quanto che l'una e l'altra , sebbene non stabiliscano delle differenze per causa del sesso o per causa di primogenitura , mirano però fino all' evi denza a conservare il patrimonio e l'amministrazione di essa nella ( 1) Leg. 195 , $ 2 e 196 , Dig ., De verb . signif. (50, 16 ): « Communi iure, scrive Ulpiano, familiam dicimus omnium agnatorum , nam , etsi patre familias mortuo, sin guli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae appellabantur, quia ex eadem domo et gente proditi sunt » . Qui viene ad essere evidente, che la giurisprudenza classica , che non poteva più favorire quella indivisione che era tanto accetta agli antichi romani, conservò però sempre il concetto della famiglia degli agnati, non più desumendolo dalla indivisione del patrimonio famigliare, ma dalla circostanza che gli agnati erano un tempo dimorati nella stessa casa ed erano stati sotto la patria potestà del medesimo capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo del prof. SEMERARO , Enciclopedia giuridica italiana , vº Agnazione, vol. I, parte 2*, pag . 720 . 32 linea agnatizia ; il che può scorgersi ancora nella legislazione de cemvirale, la quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte riusci a far prevalere pressochè intieramente il sistema di succes sione e di tutela , che dovevano essere in vigore presso il patriziato durante il periodo gentilizio . — Quanto al testamento , esso era certa mente conosciuto in questo periodo, ma collo spirito che prevaleva nell'organizzazione gentilizia si può affermare con certezza, che esso , dovendo essere fatto coll'approvazione del consiglio degli anziani e nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè servire qual mezzo per sottrarre l'eredità alla gente , dovette invece servire per ritardare od impedire la soverchia divisione dei patrimoni (1). 26. Intanto è pure da notarsi il carattere speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel periodo gentilizio , in quanto essa compren deva eziandio nella propria cerchia un numero più o meno grande di servi, che in antico erano anche detti famuli, dal vocabolo famel, che in lingua osca significa appunto servo ; dal quale, secondo Festo , sarebbe anche derivato l'antico vocabolo famuletium , che avrebbe significato servitium (2 ). È infatti per mezzo dei servi, a cui era ( 1) Da quanto è esposto nel testo si può ricavare l'importantissima conseguenza, che a suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto romano primitivo, che il concetto di comproprietà , in virtù del quale i figli durante la vita del padre sono comproprietarii dell'heredium , e dopo la morte di esso in certa guisa eredi di se stessi (heredes sui), come pure quello, in virtù di cui è dal novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle femmine, degli impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine rimonta ed è anzi un effetto della stessa organizzazione gentilizia , di cui la famiglia entrava a far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non doveva certo essere applicazione del principio : a uti paterfamilias super familia tutelave suae rei legassit, ita ius esto » , ma doveva mirare sopratutto all'ercto non cito . Il testamento esisteva ,ma nell'intento di serbare il patrimonio indiviso e di trasmetterlo tale di generazione in generazione. L'importante concetto di questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente espresso in uno degli ultimi lavori del compianto Ernesto Dubois, alla cui memoria mando qui un riverente saluto , nel suo ultimo diligentissimo lavoro col titolo : La saisine héréditaire en droit ro main , Paris, 1880, da lui pubblicato nella Nouvelle revue historique de droit fran çais et étranger, ove, combattendo il Maynz ed altri autori, dimostra che gli eredi suoi erano immediatamente investiti dell'eredità , senza che occorresse accettazione della medesima e ciò appunto in base a questa comproprietà famigliare. Al concetto del DuBois è solo da aggiungersi, che cið era un effetto dell'organizzazione genti lizia prima esistente, idea , che egli già aveva in germe, come lo dimostrano le pa role con cui egli conchiude il suo lavoro, ma che non ebbe più campo di svolgere. (2) V. Festo, vº Famuli (Bruns, Fontes, pag. 338 ). 33 affidato il servizio rustico od urbano ( familia rustica , familia ur bana) che la famiglia primitiva veniva ad essere organizzata per modo da bastare a qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio diede un carat tere speciale alla vita economica dell'antichità e cooperò a dare alla famiglia antica il carattere di un tutto organico e coerente in tutte le sue parti. La servitù ebbe per effetto, come ben nota il Padelletti, di fare in guisa che i prodotti non venissero a cambiare di possessore in tutto il corso del loro processo produttivo, perchè i servi erano impie gati non soltanto nella produzione, ma benanche nella trasformazione e nel trasporto dei prodotti. Per tal modo ogni famiglia tendeva a supplire a tutti i suoi bisogni, e intanto ogni capo di famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere ricco di greggi ed armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e intanto attendere eziandio al commercio dei proprii prodotti (1). Pud tuttavia affer marsi con certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie fossero sopratutto ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso frequentissimo di vocaboli anche di carattere giuridico de rivanti dall'industria pastorale ( quae ex pecoribus pendent), il che, secondo Festo e Varrone, deriva appunto da cid, che presso imaggiori le ricchezze ed i patrimoni si componevano sopratutto di greggi e di armenti ( 2 ) . e (1) PADELLETTI, Storia del dir. rom ., pag. 15. Sull'importanza della servitù nella famiglia primitiva è da vedersi il PERNICE, M. Antistius Labeo , Halle, 1873, I, pag. 110 e seg., ove parla dei rapporti degli schiavi colla casa di cui fanno parte, sopratutto il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer , Leipzig, 1879. Erster Theil, pag. 133 a 191. (2) Fra questi vocaboli basti citare quello, che ebbe poi tanta parte nel vocabo lario giuridico, di agere, che, secondo il BRÉAL, nel suo significato primitivo suo nava « spingere, stimolare » , e si applicava sopratutto al gregge ; quello di grex talvolta applicato al popolo ; quello di ovilia adoperato per significare i recinti (septa ) ove il popolo era distribuito per dare il voto nei comizii ; i vocaboli di abgregare, adgregare, congregare citati appunto da Festo come vocaboli di origine pastorale ( Bruns, Fontes, pag. 331); quelli di pecunia , di peculium , di peculatus, di ager compascuus, e molti altri i quali spiegano come VARRONE ( Bruns, Fontes, p. 388 ) finisca per esclamare : « Romanorum populum a pastoribus esse ortum , quis non dicit ? Mulcta etiam nunc, ex vetere instituto, bubus et ovibus dicitur, et aes anti quissimum , quod est flatum , pecore est notatum » . Si vedrà invece a suo tempo che mentre la ricchezza del patriziato primitivo consisteva di preferenza in greggi, in mandre ed armenti, che pascolavano nei compascua della tribù , e poscia nell'ager pubblicus della città , la plebe invece fin dagli inizii diede sopratutto opera all'agri coltura, concentrandosi nella coltura del proprio heredium o mancipium . Questo G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 3 - 34 27. Del resto quello , che qui importava, era sopratutto di mettere in evidenza il carattere gentilizio della famiglia ; poichè essa, fra le isti tuzioni anteriori alla comunanza, è certamente quella che conservò più lungamente il suo carattere primitivo . Quindi anche nel periodo storico si troveranno nel patriziato romano quelle stesse formalità so lenni e quelle cerimonie religiose , che dovevano accompagnare gli atti relativi alla famiglia durante il periodo gentilizio . La sola differenza consisterà in questo, che all'approvazione dei padri del gruppo gen tilizio nella comunanza civile e politica sottentrerå - o la testimo nianza dei dieci Quiriti che rappresentavano le curie in cui divi devasi la tribù e l'intervento dei Pontefici , siccome accade nelle confarreatio, - o l'approvazione delle curie, coll'intervento pure dei Pontefici, siccome accade nella adrogatio e nel testamento , che per il patriziato verranno a compiersi davanti all'assemblea delle curie, cioè in calatis comitiis (curiatis). Credo ad ogni modo, che anche questa breve esposizione dei ca ratteri della famiglia del patriziato romano dimostri abbastanza che essa non deve essere riguardata come una istituzione del tutto pri mitiva, come alcuni vorrebbero considerarla (1 ), in quanto che la medesima già erasi scostata in parte dalle sue primitive e naturali fattezze , a causa della influenza, che ebbe ad esercitare su di essa l'organizzazione gentilizia , di cui era entrata a far parte. Essa in sommanon è più la famiglia, quale dovette uscire dagli istinti e dalle tendenze naturali del genere umano ; ma è già una famiglia che in parte ha soffocato i naturali affetti onde fortificarsi per la lotta per l'esistenza e per entrare in un'organizzazione, che funge da associa zione domestica , religiosa,militare e politica ad un tempo. Ed è anche questa la ragione, che la renderebbe a noi pressochè incomprensi bile, se non fosse riportata nell'ambiente in cui ebbe a formarsi. svolgimento storico pertanto conferinerebbe il risultato, a cui giunsero lo SPENCER ed altri sociologi, secondo il quale sarebbe stato sopratutto il periodo della vita pa storale, che avrebbe determinato la formazione e l'afforzamento di quell'organizza zione gentilizia, che trovasi così profondamente radicata presso il primitivo patri ziato romano ( V. SPENCER , Principes de sociologie, Paris, 1879, II, pag. 338 e seg .). (1) Tale è ad esempio l'opinione del Sumner Maine , che in questa parte fu com battuto dallo SPENCER , op. e loc . cit. - 35 - $ 3 . La gens e la sua importanza per il patriziato di Roma. 28. Se la famiglia , quale comparisce più tardi nel diritto Quiri tario, riproduce pur sempre i caratteri dell'antica famiglia patrizia, altrettanto invece non può dirsi della gens, la quale perciò è assai più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Sebbene in fatti la gens mantengasi ancora lungamente durante la comunanza civile e politica , viene tuttavia fin dalle origini della convivenza civile e politica , ad essere sottoposta ad un processo di dissolu zione, in quanto che una parte delle sue funzioni di un tempo , quelle cioè che avevano un carattere politico o militare o legisla tivo , finiscono per essere a poco a poco assorbite dalla città . A cid si aggiunge, che in questa parte la grande autorità del Niebhur, sulla fede di un testo di Dionisio , a cui diede una interpretazione che non può essere ammessa , pose gli investigatori della storia primi tiva di Roma in un indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre dere per lungo tempo, che la gens non fosse che una ripartizione politica della città (1). Per tal modo l'organizzazione politica della (1) NIEBHUR , Histoire romaine, trad . Golbery, Paris, 1830, Tome II , ove parla : des maisons patriciennes et des curies e specialmente a pag. 19. Ivi l'illustre sto rico, avendo trovato che Dionisio divideva in dekádec le curie , pensò che queste decurie non potessero essere che le gentes e trasportò così l'organizzazione genti lizia nella città, concetto , che d'allora in poi ha dominato le ricerche contempo ranee intorno a Roma primitiva , per guisa che occorre pressochè universalmente di trovare che la città di Roma si divideva in tribù , queste in curie e queste ul time in gentes. Così, ad esempio, anche gli autori più recenti, pur avendo modifi cato il concetto della gens con ritenerlo un ampliamento naturale della famiglia, continuano pur sempre in questa distinzione. Citerò fra gli altri il KARLOWA, Röm . R. G., I, § 2, il quale continua ad essere intitolato : Das Volk und seine Glie derungen (tribus, curiae, gentes), quasi che il popolo romano sia stato mairipartito in gentes ; ed il Leist, Graeco- Italische R.G. che segue pure la stessa distinzione, $ 23, pag. 144. Così pure il WILLEMS, Le droit public romain , Paris, 1883, pag. 36 , che continua ancor esso a dire, che le curie si suddividono in gentes . Questa distin zione non fu mai accennata dagli antichi scrittori, i quali soltanto ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si raccoglievano ex generibus hominum , il che significa solamente, che nella composizione delle curie si teneva conto della discen denza, mentre invece nei comizii centuriati si badava al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus insomma è ricavato dalle gentes,ma non fu mai diviso in gentes. 36 città venne ad essere confusa con quella patriarcale della gente e i due elementi gentilizio e politico si confusero per modo che per qualche tempo fu impossibile riuscire a sceverarli, ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in dottissimi scrittori, le conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le indagini furono rimesse in una via , che poteva condurre a qualche risultato, allorchè gli studii , che si vennero facendo sul gruppo patriarcale nell'Oriente, dimostrarono che anteriormente alla città era lungamente durato un altro pe riodo di organizzazione sociale , che riceveva appunto il suo carat tere fondamentale dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente , era poi stata trasportata nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi Italiche ( 1). Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente, ove per circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile nelle sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire nel suo carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in parte trasfor mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di ricostruzione poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto alle dekádes di Dionisio , il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece una divisione delle centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure una divisione del senato (MUELLER, Philologus, XXXIV , p. 96-104 , 1874). Si può infatti comprendere che i senatori, che erano cento prima e trecento dappoi, si dividessero in decurie, e che così pure si facesse delle tre centurie primitive degli equites, ma non si può veramente capire come le curie, divisione dei Quiriti, che erano uomini di arme, potessero suddividersi in gentes, le quali , essendo un ampliamento della fa miglia , comprendevano maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di seguito. (1) Il merito di aver richiamato l'attenzione sul gruppo patriarcale presso le stirpi Arie, è da attribuirsi sopratutto al SumnER MAINE, L'ancien droit, chap. V. La so ciété primitive et l'ancien droit, pag. 107 a 163. Tuttavia mi pare giustizia il far notare, che il primo che abbia, se non provata , almeno intuita questa organizzazione patriarcale delle genti primitive fu sopratutto il nostro Vico, il quale per compro varla ebbe a citare quegli stessi versi di Omero, in cui parlasi delle istituzioni pri mitive dei Ciclopi (V. 22, Scienza nuova, lib. II, ediz. Ferrari, Milano, 1836. Opere, vol. V , p. 269 , ove parla dell'economia poetica e dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia del mondo), dai quali prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag . 118 ); versi del resto, che già erano stati citati da Platone nel dia logo delle Leggi, quando voleva appunto dimostrare che il patriarcato era stata l'organizzazione sociale primitiva non solo presso i Greci,ma anche presso i Barbari. Plato , Leges, III, Ed. Didot, Paris, 1848. Del resto che l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti gli Arii e quindi anche aiGreci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma più argomento di discussione. (Per maggiori particolari vedi Carle, La vita del diritto , lib . I e II, e sopratutto a pag . 90 e seg .) i 37 esse più di tutte le altre stirpi hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi e determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono le proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico . Di qui la conseguenza, che, a parer mio , i veri caratteri dell'organizzazione per gentes possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive genti del Lazio , che non nella stessa India, ove l'elemento religioso preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la gente, anzichè essere una divisione artificiale della città , deve invece es sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione gentilizia . Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria potestà , maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da qualsiasi rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo patriarcale, la gens è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta può avere le proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è talora indicata la stessa gens: (1) e talvolta invece può avere già dato origine a tante pro (1) Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per significare la gens nel se guente passo di Festo : « Familia antea in liberis hominibus dicebatur, quorum dux et princeps generis vocabatur pater et materfamilias ; unde familia nobilium Pompi liorum , Valeriorum , Corneliorum (Bruxs, Fontes, pag . 338 ). Si possono vederne molti altri esempi nel Voigt, Die XII Tafeln , Leipzig, 1883, II, pag . 760. In ciò si ha una nuova prova che la familia e la gens fanno parte della stessa organizzazione, per guisa che i due vocaboli si scambiano fra di loro . Mentre è difficile trovare negli antichi scrittori il vocabolo di familia per indicare il populus , loro pare invece di essere più esatti, paragonandolo ad un grez e dividendolo al pari di questo in altrettanti capita . Del resto sono abbastanza noti i significati molteplici, che ha il vocabolo familia nel diritto primitivo di Roma, ove significa ora un complesso di persone o 38 paggini diverse da prendere quasi le proporzioni di una grande e numerosa tribù, come la tradizione ci narra essere accaduto della gens Claudia , da cui sarebbe originata la tribù dei Claudienses, e della gens Fabia, le cui proporzioni pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze affrontare , secondo la tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa militare , che in tristi circostanze ap pariva ardua alla intiera città. 30. Non è dubbio tuttavia , che le popolazioni italiche e sopratutto quelle del Lazio dovettero avere un criterio per scindere la gens propriamente detta dalla familia in stretto senso e se fosse lecita una congettura avvalorata da una quantità notevole di indizii, la stregua dovette essere la seguente. Non vi ha dubbio che i caratteri distintivi della famiglia primitiva erano due, cioè la patria potestà del suo capo e l'esistenza di un patrimonio , probabilmente chiamato here dium , che apparteneva esclusivamente alla famiglia nella persona del proprio capo . Di qui la conseguenza , che tutti i discendenti nella linea maschile (comprese anche le femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio e quelle entrate in esso per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo costituivano la famiglia in stretto senso ; ma questa poi continuava ancora a mantenersi e a considerarsi tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa trimonio indiviso di essa perpetuava in certo modo l'unità fami gliare . Che se invece i fratelli, dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano a dividersi il patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni l'unità primitiva , in allora venivano ad esservi altrettante famiglie , di cui ciascuna aveva un proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima gens, perchè continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il proprio antenato. La gens comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa della famiglia , e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che come tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum , finchè il loro patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità , allorchè questa divisione era seguita . È di qui che provenne la difficoltà, ancora non superata , per distin di cose, ora un complesso di persone, ora soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il complesso dei servi (familia rustica ed urbana). Cfr. Voigt, Op. cit. II, pag. 8 e segg. - 39 guere gli agnati dai gentiles, perchè colla divisione del patrimonio gli uni si potevano convertire negli altri e fu solo posteriormente allorchè diventò più rara questa indivisione, che si chiamarono agnati tutti coloro, che un tempo si erano trovati sotto la patria potestà della stessa persona, ai quali si aggiunsero poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il comune capo non fosse premorto . Non è quindi il caso di dover supporre col Muirhead , che l'ordine degli agnati, cosi nella successione che nella tutela legittima, sia stata una creazione artificiale della legislazione decemvirale per provvedere alla successione e alla tutela dei plebei, che mancavano di genti. Gli artificii nelle epoche primitive sono meno frequenti che non si creda, e non si possono supporre che quando ve ne siano prove dirette, quale è quella, ad esempio , che abbiamo quanto alla fin zione di postliminio ed altre analoghe . Per contro il gruppo degli agnati può benissimo essere attribuito ad una formazione spontanea durante il periodo gentilizio, poichè era cosa naturale , come notd più tardi il giureconsulto, che l'essere stati un tempo sotto la patria potestà della stessa persona e l'aver partecipato al godimento dello stesso patrimonio dovesse distinguere il gruppo degli agnati da quello più remoto dei semplici gentiles, che solo avevano comune la discen denza da uno stesso antenato , ma che non avevano mai dimorato nella stessa casa, nè avevano mai formato parte della stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente strano ed incomprensibile, che la le gislazione decemvirale avesse dovuto essa creare il concetto degli agnati, mentre è appunto quest'agnazione, che sta a base delle or ganizzazioni domestica e gentilizia, le quali certo già esistevano pre cedentemente (1) . C ( 1) Che l'ordine degli agnati sia stata una creazione della legislazione decemvi. rale, è uno dei concetti veramente nuovi enunciati dall'illustre autore dell'Historical Introduction . Egli quindi insiste più volte sul medesimo e dopo averlo accennato a pag. 43 nel testo e nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra a pag. 121 e 172 e note relative. Il solo suo argomento però consiste nei due testi di Ulpiano da lui citati , ove il giureconsulto mentre dice che : lege duodecim tabularum testamentariae hereditates confirmantur » , usa invece, quanto alla successione legittima, l'espressione che « legitimae hereditatis ius ex lege duodecim tabularum descendit » , espressione che pure adopera altrove quanto alla tutela legittima. È però evidente , che qui il giureconsulto non parla solo della successione degli agnati, ma di tutta la succes sione legittima, e quindi anche degli heredes sui, e dei gentiles, per guisa che, se stesse il ragionamento del MUIRHEAD , converrebbe dire, che secondo il giureconsulto tutto il sistema della successione legittima discende dalle XII tavole. E questo ve 40 31. La gente intanto, dopo essere partita dal gruppo degli agnati, che avevano diviso il patrimonio paterno, poteva poi prendere uno svol gimento grandissimo, in quanto che essa poteva abbracciare tutte le diramazioni per la linea maschile , che si staccavano da ciascuno di questi agnati e non cessava mai di costituire una sola aggregazione gentilizia , finchè tutte le famiglie continuassero ad avere lo stesso nome e a professare il culto del medesimo antenato . Potevano perd darsi dei casi, in cui la gente cosi pervenuta ad un numero stragrande di persone venisse a ripartirsi essa stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche allora il nome primitivo della gens è sempre conservato , ma ciascuna delle diramazioni prende un proprio agnomen o cognomen , che ne costituisce in certo modo la caratteri stica , ed è seguendo la serie dei cognomina, che si possono seguire le propaggini tutte della stessa pianta . Cosi accadde, ad esempio, della gens Claudia , la quale già numerosissima conservava ancora una sola denominazione, ma che più tardi venne assumendo una quantità di cognomina diversi, che indicano in certo modo il punto , in cui sopra un unico ceppo cominciarono ad apparire diramazioni diverse. Lo stesso è a dirsi della gens Cornelia e di molte altre, il che serve, anche a spiegare come nel tempo in cui anche quella parte della plebe, che già era pervenuta alla nobiltà cercava di imitare l'antica or ganizzazione gentilizia , si veggano delle gentes plebeiae staccarsi da un fusto patrizio. Ciò infatti deve probabilmente indicare un antico vincolo di clientela , che stringeva l'antenato, da cui parti la forma zione della gente plebea, ad un'antica gente patrizia . 32. Bastano queste considerazioni per spiegare l'energia vitale, che ramente fu quello, che volle dire il giureconsulto ; poichè furono appunto le XII tavole, che, nell'intento di appoggiare l'organizzazione gentilizia, trasportarono di peso la successione legittima esistente nelle tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può vedersi uno dei motivi, per cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un sistema di successione, che era disadatto alla città e conduceva all'esclusione di per sone care, credevasi quasi dimorire disonorato, se moriva senza testamento. Fu quindi tutta la successione legittima e non soltanto l'ordine degli agnati, che fu creazione dei decemviri, i quali la tolsero dipeso dell'organizzazione gentilizia ; in cui già eranvi le distinzioni di heredes sui, di agnati e di gentiles, come appare dal fatto, che tutta l'organizzazione gentilizia è fondata sull'agnazione, il che è pure ammesso dal MUIRhead. Ciò del resto sarà meglio comprovato quando si tornerà sul gravissimo argomento , discorrendo della successione legittima in base alle XII tavole. Quanto all'agnazione e ai caratteri di essa è pure da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , II, pag. 15 e seg. - 4 ) - poteva avere un gruppo , che, ad una compattezza pressochè uguale a quella della famiglia , accoppiava talvolta il numero e la forza della tribù, sopratutto allorchè essa era capitanata da uomini di energia tenace e di propositi costanti, come furono per parecchie genera zioni quelli, che guidavano la gens Claudia o la gens Valeria , e come in essa potessero anche perpetuarsi tradizioni diverse , ostili o favorevoli alla plebe dapprima e poi al partito popolare. È questo carattere della gens, che spiega la perennità di un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie, malgrado una quantità di influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne l'azione. Così pure deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive , di fronte alla potenza assorbente della città , finirono per scompa rire fin dal periodo regio con Servio Tullio , le genti invece per . durarono per parecchi secoli, sostennero in poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui numero veniva facendosi sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a dare un contri buto larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per secoli erano stati loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini per consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie, che si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà , come lo dimostra il fatto , che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di quello di ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che ormai trovavasi in decadenza . 33. Intanto i due caratteri fondamentali della gens, quali si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle antiche genti italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella descrizione dei particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti, cioè : 1 ° alla discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome, nel culto , e nel sepolcro comune; 2° ed alla ingenuità perenne dei membri, che entrano a costituirla , per modo che essa deve essersi ser bata immune da qualsiasi mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi caratteri è quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il Pontefice Q. Muzio Scevola volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da Cicerone, è quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte alla plebe . Esse ave - 42 vano attraversato un lungo periodo di lotta e di privata violenza vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas era indizio, che esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue non erasi mai mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la conseguenza eziandio , che il vocabolo patricii in sostanza non significava che gli ingenui, il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del loro sangue con quello servile. 34. Questi due caratteri sono dimostrati anzitutto dalle varie diffini zioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da Festo, da Isidoro e da altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei gentili da un antenato comune, e da quella anche di Cicerone, il quale, parlando di un nome comune (qui inter se codem nomine sunt) non esclude certamente , ma conferma il carattere della comune discendenza e in tanto vi aggiunge quello della ingenuità non interrotta dei gentiles. Questa del resto è pur confermata da ciò , che la plebe stessa nelle sue discussioni coi patrizii se non ammetteva la loro discendenza dagli Dei riconosceva però , che il vocabolo patrizii nelle sue origini do veva significare ingenui (1). - Di qui intanto si comprende come dapprima il patrizio e poscia tutti i cittadini romani avessero tre appellazioni, di cui la prima (praenomen ) indicava l'individuo, l'altra che era il vero nome (nomen) designava la gente , a cui egli appar teneva in quanto la gente era in certo modo il gruppo che conte neva le diverse famiglie , e la terza infine ( cognomen) designava la famiglia, in quanto questa era una particolare diramazione, della gente (2 ). A queste appellazioni si potevano poi anche aggiungere (1) Festus, vo Gentilis : « Gentilis dicitur ex eodem genere natus, et is qui simili nomine appellatur » . Bruns, Fontes, pag . 339; VARRO, De lingua latina, VIII, 4 : « Ut in hominibus quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis ; ut enim ab Aemilio homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine declinatae gen tilitates nominales » . Bruns, Fontes, pag. 389 ; Isiporus, IX , 2, 1 : « Gens est mul. titudo ab uno principio orta , appellata propter generationes familiarum , id est a gi gnendo uti natio a nascendo ». Bruns, pag. 409 ; CICERO, Top. 6 : « Gentiles sunt qui inter se eodem nomine sunt. Qui ab ingenuis oriundi sunt. Quorum maiorum nemo servitutem servivit. Qui capite non sunt deminuti » . V. anche Liv., X , 8 . (2 ) Per ciò che si riferisce ai nomi romani è da vedersi il MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885 ; e sopratutto la trattazione veramente magistrale del Mar QUARDT, Das Privatleben der Römer, Erster Theil, p . 7 a 25. Ivi egli nota come vi fossero gruppi, che non avevano cognomen , come gli Antonië, i Duilii, i Fla minii ecc., pag. 13 , not. 2. Quanto agli esempi citatinel testo a pag.40, è pare a ve. dersi il Bonghi, Storia di Roma, I, Appendice sulle primitive genti patrizie, nella parte, che si riferisce alla gens Claudia e Cornelia , pag. 490-91. 43 uno o più soprannomi (agnomina), che servivano a contraddistin guere l'individuo stesso o per essere egli stato adottato da altra fa miglia , o per impresa da lui compiuta, o per indicare le suddistin zioni operatesi nella stessa famiglia ( 1). Può darsi che in antico potesse esservi anche qualche indicazione della località abitata dalla gente, a cui apparteneva l'individuo, come lo dimostrano i sopran nomiprimitividi Regillensis, Collatinus e simili (2 ). Di questo avreb besi un indizio nel fatto, che allora quando il territorio di Roma fu veramente distribuito in tribù locali, anche la indicazione della tribù comparve a completare le denominazioni del cittadino romano, e precedette anzi il soprannome suo particolare. Del resto questi caratteri particolari della gens sono anche com provati dalla radice gen, comune alla gens latina e al révos dei Greci, che significa generare e produrre; come pure da ciò , che i nomi gentilizii sono nomi di persona piuttostochè di luoghi, e che i diritti gentilizii, come il ius hereditatis, il ius curae, il ius sepul chri sono di carattere eminentemente privato . Così è pure dei sacra gentilicia , i quali da Festo sono annoverati fra i sacra privata , che sono a spese delle singole genti, e contrapposti ai sacra pub blica, che si compiono invece a pubbliche spese (3 ). Solo sembra far eccezione il ius decretorum ; ma oltrecchè questo diritto sembra nel periodo storico esercitarsi di preferenza in cose d'ordine privato , il medesimo pud facilmente essere spiegato quando si consideri, che la gente aveva compiuto un tempo funzioni politiche, che non po terono scomparire di un tratto anche colla formazione della città (4 ). (1) Tali sono le appellazioni di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius Scipio Asiaticus, di Publius Cornelius Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT, op. cit., p . 15. (2 ) VARRO, De ling. lat., VIII, 82: « In hoc ipso analogia non est, quod alii no mina habent ab oppidis, alii aut non habent, aut non , ut debent, habent » . BRUNS, pag . 387. (3 ) FESTUS, p Publica : « Publica sacra , quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curiis, sacellis, et privata , quae pro singulis homi nibus, familiis, gentibus fiunt » . Bruns, pag . 358 . (4 ) I casi ricordati dalla storia , in cui le gentes si sarebbero valse del ius decre torum , sarebbero i seguenti: la gens Fabia vietò ai suoi membri il celibato e la esposizione degli infanti (Dion. IX , 22 ) ; la gens Manlia proscrisse il prenome di Marcus (Liv., VI, 20), e la gens Claudia quello di Lucius (Svet., Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi ricordi. Più tardi però fu il Senato, che prese simili prov vedimenti, vietando il prenome di Marcus agli Antonië (Plut., Cic., 19), e quello 44 35. È invece assai più difficile l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna della gens da quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico . Non si può anzitutto accertare, se la gens avesse sempre e costantemente un proprio capo (princeps gentis) (1), o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio dei padri o indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di qualche impresa da compiere, come quando, ad esempio , Atto Clauso avrebbe abbandonato Regillo per recarsi a Roma. Questo però è certo , che la gente dovette avere un consiglio di anziani o di padri, che raccoglieva in sè la somma dei poteri, e conservava e trasmetteva le tradizioni della gente . Era nel suo seno , che si sceglievano gli ar bitri e gli amichevoli compositori delle controversie, che potevano sorgere fra i varii capi di famiglia, che appartenevano alla mede sima gente . Era questo consiglio parimenti, che sull'ager gentilicius faceva degli assegni di terre ai clienti, ed attribuiva gli heredia alle nuove famiglie che si formavano nel seno della gente ; era ilmede simo ancora , che poteva richiedere il servizio militare non solo dei suoi membri (gentiles), ma anche dei dipendenti da essa (gentilicii ). Cosi pure era questo consiglio, che sovra intendeva alla pubblica e privata condotta dei singoli capi di famiglia, preveniva e reprimeva gli abusi dell'autorità domestica, ed impediva eziandio che i capi di famiglia , contro il buon costume della gente, disperdessero quei beni (bona paterna avitaque) di cui in certo modo erano custodi nel l'interesse proprio e della famiglia e che, potendo, dovevano trasmet . tere ai proprii eredi. Era la gente infine che , in mancanza di prossimi agnati, era chiamata a succedere al capo di famiglia morto senza eredi suoi, e che doveva perciò anche provvedere alla tutela perpetua delle femmine e a quella dei figli, che fossero rimasti or di Cnaeus ai Calpurnii Pisones ( Tac., Ann., III, 17). Partivano eziandio dalla gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da vedersi in proposito l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, Le droit funéraire à Rome, Paris , 1886 , n . 114 , p. 97, dove dice che la gens conservò il suo sepolcro gentilizio, finchè si mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri, cioè fin sotto l'impero. Fu al lora che incominciarono i sepolcri di famiglia od ereditarii. Secondo quest'autore ($ 118 , pag. 99), mentre i liberti partecipavano ai sacra gentilicia , e quindi proba bilmente anche al sepulchrum gentilicium , essi invece erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale avevano diritto soltanto gli agnati. (1 ) In proposito del princeps gentis o magister gentis è da vedersi il Voigt , Die XII Tafeln , II, pag. 771 e seg ., ove parla dei poteri al medesimo spettanti. - 45 - fani prima di essere pervenuti alla pubertà , come pure doveva es sere essa , che facevasi vindice delle offese , che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a costituirla. Da ultimo fra i membri della gente esisteva l'obbligo della reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti, riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie , e vendicati se fossero stati uccisi od ingiuriati (1).Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo del nome, quello del culto, e quello del sepolcro, sarà facile il comprendere come un gruppo così intimamente connesso , unito nel passato e nell'avvenire, in vita e dopo la morte , nelle cose divine ed umane non potesse essere facilmente distrutto dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella città (2 ). Esso continud, durante il periodo storico, ad avere una quantità di istituzioni tutte sue proprie , come lo dimo strano i vocaboli di gentilis e di gentilicius, l'esistenza anche nel periodo storico di un ager gentilicius, quelli dei sacra gentilicia , del sepulchrum gentilicium , per modo che, anche prima del for marsi della città, dovette svolgersi tutto un ius gentilicium , che governava appunto i rapporti fra le varie persone, che entravano a costituire il gruppo gentilizio . Esso quindi non deve confondersi col ius gentilitatis , che indica il complesso dei diritti spettanti ai gentiles, al modo stesso che il ius civitatis indicherà poi i diritti spettanti al civis. Così pure non può esservi dubbio , che il vocabolo di iura gentium , che poscia ebbe a prendere un così largo svolgi mento, dovette nascere già in questo periodo per indicare appunto i rapporti, che intercedevano fra le varie genti e i capi delle mede sime ( 3 ) . (1) Quanto ai poteri della gens, tanto sui gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , II , pag . 774 . (2) La bibliografia copiosissima intorno alla gens può vedersi nel BOUCHÉ-LECLERCQ , Institutions romaines, pag. 7 in nota , come pure nel WILLEMS, Le droit public romain , pag. 36, nota 4 . ( 3) Fra gli autori recenti, che tentarono la ricostruzione del ius gentilicium , sono a vedersi sopratutto il KARLOWA, Römische R. G., pag . 35, il MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 5 a 8. Parmi tuttavia importante il distinguere il ius gentilicium , che comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella dei dipen denti da essi o gentilici , il ius gentilitatis che significa il complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente (gentiles), e i iura gentium , che governano i rapporti fra le varie gentes . - 46 $ 4. – Il patronato e la clientela nell'organizzazione gentilizia . 36. Fra gli istituti di questo ius gentilicium , quello che più me rita di essere preso in considerazione è certo quello della clientela , essendo essa una delle cause del numero e dell'importanza , a cui giun sero gli antichi gruppi gentilizii. I clienti, durante il periodo storico , costituiscono una classe in feriore di persone, che appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere ereditario, in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda (1). Le due persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario , sono indicate coi vocaboli di patrono e di cliente , il quale ultimo vocabolo , secondo l'opinione ora general mente adottata , deriva da cluere, che significa audire nel senso di essere obbediente (2). Come tali , i clienti entrano a far parte della gente, a cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la quantità di gentiles ; ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi nel gruppo gentilizio una classe di uomini, di condizione infe riore, che in una posizione già alquanto migliorata corrisponde al l'ordine dei servi e dei famuli in seno dell'organizzazione domestica . Essi non partecipano al ius gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium (3 ). 37. È lo storico Dionisio quegli, che ci ha conservato l'enumera zione più particolareggiata delle obbligazioni e dei diritti, che inter cedono fra il patrono ed il cliente , attribuendo l'istituto della clien ( 1) Cfr. Willems, Le droit public romain , pag . 26. Non potrei però convenire in ciò , che egli considera i clienti come una classe speciale di cittadini di diritto inferiore , perchè la clientela in ogni tempo fu sempre considerata come un rapporto di diritto privato e non mai come un rapporto di diritto pubblico , che bastasse ad attribuire da solo la qualità di cittadino. I clienti poterono poi avere tale qualità quando ebbero degli assegni in terre dal proprio patrono , mediante cui poterono figurare nel censo, ma non si capisce veramente come potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto di suffragio persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le proprie ragioni in giudizio, ma abbisognavano perciò del patrono. Questa è ancora sempre una conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica . (2 ) V. BRÉAL, Dict. étym . lat., vo Clueo . (3 ) Cfr. MUIRHEAD , Encyclopedia Britannica, vº Patron and client, vol. XVIII. 1 47 tela allo stesso Romolo ; ma egli è evidente , che anche la sua descri zione già altera alquanto le primitive fattezze della clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare nella convivenza civile e politica un'istituzione, che era nata e si era svolta nell'organizzazione gen tilizia . Secondo Dionisio , il cliente aveva delle obbligazioni, nelle quali si può scorgere un carattere, che noi chiameremmo semi feudale. Egli infatti deve al patrono riverenza e rispetto ; deve ac compagnarlo alla guerra ; soccorrerlo pecuniariamente in certe occa sioni, come nel caso di matrimonio delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se siano prigionieri, come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di giustizia , ed anche quelle dei sacra gentilicia . Ciò tutto fa credere, che i clienti ottenessero dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla cui coltura potevano ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le terre loro assegnate facevano parte dell'ager gentilicius , proprietà collettiva della gente ; il che non rende esatta ,ma spiega l'antica etimologia as segnata al vocabolo di clientes, che si dicevano così chiamati « quasi colentes » ,perché avrebbero coltivate le terre dei padri (1). Infine Dio nisio parla perfino dell'obbligazione del cliente di non poter votare contro il patrono, la quale dimostrerebbe come la clientela , adatta al gruppo gentilizio, veniva ad essere un'istituzione ripugnante al carattere di una comunanza civile e politica (2 ). Alla sua volta poi il patrono doveva al cliente protezione e di fesa , e quindi era tenuto a provvederlo diciò , che fosse necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia , il che facevasi me diante concessione di terre, che il cliente coltivava per suo conto. Esso doveva di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone, rappresentarlo in giudizio , apprendergli il diritto (clienti promere iura ), ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo (1) È Servius, In Aeneidem , 6 , 609 , che vuol derivare il vocabolo di clientes da quasi colentes in quanto che scrive : « Si enim clientes quasi colentes sunt, pa troni quasi patres, tantundem est clientem quantum filium fallere » . Bruns, op . cit., pag. 403. Parmi tuttavia che, tenendo conto del contesto della frase di Servio, qui il vocabolo quasi colentes non accenni tanto al coltivare le terre, quanto piuttosto all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono, per guisa che anche l'e timologia di Servio confermerebbe quella oggidì adottata . (2 ) Diox . 2 , 10. Questo passo di Dionisio, in cui egli riporta le obligazioni rispet tive del patrono e del cliente, attribuendo in certo modo l'origine della clientela a Romolo, è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, pag . 4 . 48 modo in considerazione di membro della gente, ancorchè in con dizione inferiore, in quanto che nella gerarchia gentilizia il cliente veniva bensì dopo gli agnati, ma era prima dei cognati e degli affini, i quali appartenevano ad un altro gruppo ( 1). Questi obblighi poi scambievoli, in mancanza di sanzione giuri dica, erano collocati sotto la protezione del fas come lo dimostra la legislazione posteriore delle XII Tavole, la quale, sanzionando un obbligazione certo preesistente, ebbe a stabilire « si patronus clienti fraudem fecerit, sacer esto » , ed al pari di tutti gli altri rapporti gentilizii avevano un carattere ereditario . Infine, siccome patrono e cliente appartengono entrambi allo stesso gruppo gentilizio , ancorchè in posizione diversa , cosi Dionisio va fino a dire, che essi non possono proseguirsi reciprocamente in giudizio , condizione anche questa, che , consentanea al carattere dell'organiz zazione gentilizia, ripugna invece a quello della convivenza civile e politica , ove ognuno deve avere il mezzo di poter far valere le proprie ragioni davanti ad un'autorità , che accorda a tutti la propria protezione (2 ). 38. Basta questa breve esposizione per dimostrare, come la clientela fosse un istituto nato e svolto nell'organizzazione gentilizia prima esistente, che continuò ancora per qualche tempo a produrre i proprii effetti nella città , ove tuttavia si trovò compiutamente disadatto , perchè ripugnava a quell'uguaglianza di posizione giuridica , che deve esservi fra coloro , che partecipano alla medesima cittadinanza. Essa quindi era destinata necessariamente a scomparire o quanto meno a trasformarsi, in quanto che nella città le persone, che tro vansi in condizione inferiore, possono essere aggruppate nella plebe e fare a meno della protezione del patrono, essendovi un'altra autorità che li tutela. Di qui la conseguenza , che la clientela potè ancora mantenersi finchè i due ordini in lotta fra di loro si ( 1) MASURIUS SABINUS, « In officiis apud maiores ita observatum est; primum tu telae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato , postea adfini » . HUSCHKE, Jurisp . ante-iust. quae sup., pag. 124. Aulo Gellio invece accenna ad un'altra opinione, che dà la preferenza al cliente sull'ospite. Noct. Att., V, 13. Che poi il cliente entri in certo modo a far parte della famiglia è affermato da Festus, yº Patronus. « Pa tronus a patre cur ab antiquis dictus sit , manifestum ; ut quia ut liberi , sic etiam clientes numerari inter domesticos quodammodo possunt > ; Bruns, pag. 351. (2) Cfr. Karlowa, Römische R. G., I, pag . 39. 49 attennero ancora strettamente alla propria organizzazione e rappre sentarono in certo modo due elementi fra di loro contrapposti nella medesima città ; ma dopo il pareggiamento invece dei due ordini, la clientela riusci solo più a mantenersi di nome, anzichè di fatto ; senza più importare quegli obblighi di carattere religioso ed ereditario , che ne conseguivano un tempo. I clientes si scambiarono cosi in semplici aderenti, che accompagnavano il patrizio od anche l'homo novus nella piazza e nel foro e ne costituivano in certo modo il corteo , e diventarono anche semplici salutatores ; il che tuttavia non tolse , che il vocabolo cliente sopravvivesse alla istituzione da esso indicata , e rimanesse ad indicare il rapporto di colui che si affida al patrocinio legale di un'altra persona, ricordando così uno dei primitivi uffici, che il patrono aveva certamente avuto verso il proprio cliente. Tuttavia, anche dopo il pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera clientela già scompariva nei rapporti fra i cittadini Romani, noi la vediamo sopravvivere nei rapporti dei cit tadini Romani colle altre genti, in quanto che trovansi le traccie di un ius applicationis, la cui origine rimonta alle tradizioni gen tilizie, col quale un individuo, un municipio , un Re od un popolo straniero ricorrevano al patronato di un cittadino Romano per far va lere o avanti al Senato o davanti ai magistrati di Roma ragioni e diritti che essi non sarebbero stati in caso di far riconoscere (1) . Così pure nell'interno della città , la clientela, ancorchè scomparsa come istituzione giuridica , continua pur sempre ad esercitare una grandissima influenza sopratutto nel periodo delle elezioni, nel quale tutte le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle che ricordano uno stato di cose ormai scomparso . (1) Accenna al ius applicationis CICERONE, De orat. 1, 39, ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il carattere di questa istituzione. Sonvi però autori, che, come il MISPOULET, vorrebbero scorgere nelmedesimo la forma contrattuale della clientela . Les institutions politiques de Rome, Paris, 1882, I, pag. 22. In ogni caso converrebbe pur sempre dire, che il ius applicationis poteva essere la forma, che rivestiva il rapporto della clientela nell'epoca romana, ma non si potrebbe affer mare altrettanto dell'epoca gentilizia . Le formole epigrafiche, da lui citate in nota , si riferiscono alla così detta pubblica clientela, che era già stata creata a somi glianza di quella prima esistente. Del resto punto non ripugna, che anche la clien tela potesse assumere un carattere contrattuale e che la formola di essa potesse anche essere analoga a quella ricostrutta dal Voigt. « Te mihi patronum capio . At ego suscipio poichè noi troviamo qualcosa di analogo anche nella deditio. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 4 50 39. Quanto alla clientela , fu sopratutto disputata ed ha veramente grande importanza la questione intorno alla origine di essa . Si è sostenuto in proposito che i clienti fossero i primi plebei stati ripartiti da Romolo sotto il patronato dei patrizii; che essi fos sero i primi abitanti del Lazio ridotti a vassalli; che fossero gli im migranti in Roma in seguito all'asilo aperto da Romolo ; che essi infine fossero antichi servi manomessi, la quale opinione, posta in nanzi dal Mommsen, si appoggerebbe sull'analogia, che corre fra gli obblighi primitivi del cliente verso il patrono e quelli che ancora si mantengono durante il periodo storico a carico dei liberti verso il patrono (1) Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere la clientela nella sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al carattere dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta dal Mommsen, per cui i primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi dopo un lungo e fedele servizio nel seno della famiglia , sarebbero diventati clienti nel seno della gente, a cui apparteneva il proprio patrono. Ciò era non solo naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che , se cosi non fosse stato , i servi manomessi si sarebbero trovati abban donati a se stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e politica . Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione naturale e spontanea , che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa , e tende così a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene quindi ad essere na turale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii gruppi gentilizii e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costu manza per cui coloro, che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere accolti come clienti o gentilicii nella gente . La clien tela in tal modo veniva a costituire una condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il servo , e si comprende eziandio come la sua coabitazione in una famiglia potesse da una parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del sepolcro gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella qualità di servo era preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente , (1) L'esposizione più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione degli autori, che ebbero a professarle , occorre nel .WILLEMS, Le droit public Romain , pag. 28 ; e nel Borché-LECLERC, Instit. Rom ., pag. 9. - - 51 - 40. È in questo senso che il concetto del Mommsen può essere accettato ; ma il medesimo vuol essere reso compiuto col ritenere che qui dovette verificarsi un processo , che è comune a tutte le isti tuzioni primitive, per cui, una volta creata la configurazione giuri. dica della clientela per mezzo di elementi usciti dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia , si poterono poi fare entrare in essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati da un gruppo abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la pro tezione o difesa di esso . Come quindi era stato naturale , che il servo affrancato dal capo di famiglia diventasse cliente della gente a cui esso apparteneva, così dovette pure essere naturale , che una volta creato il rapporto religioso, giuridico ed ereditario della clientela fossero compresi nella medesima anche gli immigranti, che si rifu giavano presso la gente, vincolandosi mediante il ius applicationis ad uno dei membri di essa , che ne diventava il patrono ; quelli, che per un diritto di guerra universalmente riconosciuto fra le varie genti, essendo posti nella condizione di dediticii, venivano ad esser privi di religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza ; quelli, che erano soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e si imponeva nel sito da essi occupato; quelli che, fermata la propria sede accanto ad uno stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano con cessioni di terra e riconoscevano così il patronato delle medesime; tutti quelli insomma, che in un'epoca di lotta e di privata violenza cercavano protezione e difesa presso la gente, e che questa, per affi nità di stirpe o per altro motivo, riteneva di poter accogliere nella comunanza gentilizia , assegnando perd ai medesimi una posizione subordinata (1). 41. Cid intanto dimostra come la clientela fosse una istituzione indispensabile in questo periodo di organizzazione sociale , poichè serviva ad incorporare nel gruppo gentilizio persone, che altrimenti si sarebbero trovate nell'isolamento e percid prive di diritto , e quindi, mentre da una parte accresceva il numero e la forza delle genti, dall'altra procurava al cliente una protezione giuridica, di cui sa rebbe stato altrimenti privato. In questo senso non è certamente (1) Questa più larga estensione data all'origine della clientela ,che, senza escludere l'opinione del MOMmsen, la comprende , sembra essere giustificata dal seguente passo di Gellio, V , 13 : « Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum sese dediderunt » . 52 destituita di fondamento la potente intuizione del nostro Vico , il quale riteneva che la clientela o come egli la chiama il famulato fosse un mezzo indispensabile per giungere ai governi civili , in quanto che essa fu effettivamente il primo mezzo,mediante il quale individui e famiglie di origine diversa poterono, coll'accettare una posizione dipendente e subordinata, essere aggregate ad un gruppo , a cui non appartenevano per nascita, senza tuttavia essere assorbiti in tieramente nel gruppo stesso nella qualità di famuli e di servi (1) . Non può quindi essere accolta l'opinione di coloro, che vorrebbero collocare il cliente in una posizione intermedia fra il servo ed il plebeo, poichè sebbene sia vero che l'uno poteva trasformarsi nel l'altro, tuttavia la clientela e la plebe sono istituti, che compariscono in stadii diversi dell'organizzazione sociale. Mentre la clientela appartiene ancora totalmente all'organizzazione gentilizia , il com parire invece della plebe segna già l'iniziarsi della vita civile e politica in seno della tribù , donde la conseguenza che la città for mandosi soffocherà la clientela , mentre verrà invece a somministrare il terreno, sovra cui la plebe potrà dispiegare la propria attività ed energia . $ 5 . La tribus come il gruppo più ampio dell'organizzazione gentilizia . 42. Al disopra della gens compare infine nella organizzazione delle genti Italiche un'aggregazione più vasta , che è quella della tribú , come lo dimostra il fatto , che, secondo la tradizione, sarebbe dal confederarsi delle tribù dei Ramnenses, dei Titienses e dei Luceres, che sarebbe uscita la città di Roma, allorchè essa cesso di essere il primitivo stabilimento romuleo. La tribù tuttavia, delle istituzioni anteriori alla città, è certo la più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Siccome infatti essa, per le funzioni eser citate , era tra le varie aggregazioni quella , che più si accostava alla città propriamente detta , così è anche quella, che per la prima fu assorbita dalla medesima, per modo che il nome stesso delle tre tribù primitive di Roma sarebbesi forse perduto, se non l'avesse (1) Vico, Seconda scienza nuova , Lib. II . Della famiglia dei famoli innanzi delle città , senza la quale non potevano affatto nascere le città . Op. comp. Ed. Milano, 1836 , vol. V , pag. 296. 53 conservato la curiosità investigatrice di qualche antiquario, e non ne fossero rimaste le vestigia nelle sei centurie degli equites (sex suffragia) composte dei Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi (1). 43. Gli è perciò che come fu assai difficile il discernere la gente dall'aggregazione più ristretta dalla famiglia , cosi non è meno dif ficile il constatare in qual modo alle genti venga a sovrapporsi la tribù e come, riunendosi le prime, venga ad apparire la seconda . Di questo pero possiamo essere certi, che le tribù primitive di Roma risultavano composte da una aggregazione di genti, le quali si venivano raggruppando intorno al capo di una gente preva lente fra tutte le altre, da cui desumevano il loro nome com plessivo, il quale percið era ricavato dalla persona, che guidava la tribù, più che dal luogo, ove questa era stabilita . Così, per arre starsi alle due tribù primitive, la cui origine è meglio accertata , si può essere certi, che la tribù dei Ramnenses ricava il proprio nome complessivo da Romolo e da Remo, che erano a capo di essa, se condo la tradizione ; il che è pure di quella dei Titienses, il cui nome deriva da Tito Tazio capo della tribù sabina, stabilita sul Quirinale ; nel che è anche a notarsi, che il nome della tribù viene ad essere composto in guisa diversa da quello della gens, per guisa che mentre parlasi di una gens Romilia , Titia è Claudia , le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes o Ramnenses, dei Ti ties o Titienses, e dei Claudienses. (2 ). Di qui pud indursi, che la (1) Non mancano negli autori delle trattazioni anche relativamente alla tribù ; ma di regola essa suol essere considerata come una ripartizione della città , nè cer casi di ricostruire la tribù primitiva, che sola può porgere il mezzo di comprendere la formazione della città . Tutti però concordano in riconoscere, che altre sono le tribù primitive, fondate sul vincolo genealogico, ed altre quelle posteriori introdotte da Servio Tallio , desunte invece dalle località , ove erano stabilite. Cfr . CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag . 79 e seg . (2) Non può certamente essere accettata l'etimologia di VARRONE, De ling . lat. 55 (Bruns, pag . 378 ), il quale vorrebbe in certa guisa far derivare il nome delle tre tribù dalle tre parti dell'agro, che sarebbe stato fra esse distribuito. « Ager Ro manus, primum divisus in partes tres, a quo tribus appellatae Titiensium , Ramnium , Lucerum » . Infatti l'opinione di Varrone in questa parte è contraddetta da Livio , da Servio , da Dionisio , che fanno invece derivare il nome delle tre tribù non dalle località, ma dal nome dei loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo modo le tribù primitive con quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il 54 tribù comincia a delinearsi, allorchè viene ad avverarsi un'aggre gazione di gentes, le quali, non essendo più strette dal vincolo della comune discendenza , si raggruppano intorno al capo della stirpe pre valente fra di esse e mentre conservano in particolare i proprii nomi gentilizii, assumono in comune un nome, che desumono dal proprio capo. 44. Questa formazione novella viene poi ad essere determinata ogni qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere oc casione a questo aggregarsi delle gentes . Di qui la conseguenza che la tribú - o può assumere un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei Ramnenses, che sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una spedizione di carattere militare, o può invece avere il carattere di una vera e propria comunanza di villaggio , come era di quella dei Titienses già stabilita sul Qui rinale . Tanto nell'uno quanto nell'altro caso essa assume immedia tamente un carattere religioso, ponendosi sotto la protezione di una divinità, comune patrona, perchè fra le genti primitive non si pud comprendere un'aggregazione qualsiasi senza un vincolo religioso che la stringa insieme (1). Qui intanto l'unificazione del gruppo diventa indispensabile , anche per l'intento che la tribù si propone di con seguire, e quindi viene ad accentuarsi assai più che nella gente la figura di un capo, che potrà prendere il nome di praetor o di dic . fatto, che egli dopo continua con dire: « Ab hoc agro quatuor quoque partes urbis tribus dictae ab locis , Suburana, Palatina, Esquilina, Collina, etc. » . Del resto non pud neppure ammettersi, che occorresse una divisione dell'agro fra le tre tribù, dal momento che ciascuna continuava ad avere il proprio terrritorio , salvo che si trat tasse, non di una ripartizione di territorio, ma di una divisione meramente ammi nistrativa , come dovette appunto essere. (1) Secondo il Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è incontrastabile nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi studii sui Pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de' Ramnenses sarebbe stato quello di Marte e Quirino ; quello della tribù dei Titienses sarebbe stato quello di Quirino e di Giano e quello infine della tribù de' Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità sembrino talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a Quirino, come pure diGiove e di Giano. Si può aggiungere, che della triplice divinità rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che erano quelli diMarte, di Qui rino e diGiove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricaverebbe indizi dei diversi stadii, che Roma ebbe a percorrere nella sua formazione progressiva. Institutions Romaines, pag. 477 a 494 . 55 tator, se la tribù trovasi avviata ad una spedizione ; di iudex in tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di una comunanza di villaggio già ferma in un determinato sito ; dimeddix , come accadeva presso gli Osci, ed infine anche di rex , sebbene questo vocabolo , sembri comparire di preferenza quando trattisi del capo di una città propriamente detta . Tuttavia questo capo suol essere nella tribù ancora designato di preferenza dalla nascita , che non dall'elezione; come lo dimostra il fatto , che i due duci della tribù dei Ramnenses sono entrambi di stirpe regia e per essere gemelli debbono cono scere mediante gli auspicii quale di essi sia chiamato a fondare la città , o meglio il primo stabilimento romuleo sul Palatino. Quando invece da capo della tribù dei Ramnenses, Romolo debba già trasfor marsi in reggitore della civitas, formatasi mediante la confedera zione di varie tribù , in allora , secondo Dionisio, sarà già necessaria l'approvazione dei padri e la creazione del popolo (1 ). Però accanto al capo si mantiene ancor sempre un consiglio, che può continuarsi a chiamare dei patres , perchè è effettivamente composto dei capi delle singole genti, e a cui probabilmente già viene data la deno minazione di senatus. Infine nella tribù già può avverarsi la riunione (comitium ) degli uomini, che colle armi ( iuniores) o col consiglio (seniores) possono provvedere alla comune difesa od al comune in teresse ; donde la conseguenza , che già nella stessa tribù può ve nirsi iniziando il concetto eminentemente concreto ed organico del populus, salvo che gli elementi per costituirlo si ricavano ancora direttamente dalle varie genti (ex generibus hominum ), cosicchè la sua classificazione continua ancora sempre ad avere un carattere prettamente gentilizio . 45. Questa naturale formazione della tribù dimostra , come la me desima corrisponda fra le genti Italiche a ciò che per l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di vîc o comunanza di villaggio , e fra iGreci col vocabolo di dñuos (2). Essa costituisce in certo modo (1 ) Dion. II , 3. (2 ) V. HAUSSOULIER, La vie municipale en Attique. Pref., 3. Devo però far no tare che, secondo l'autore, il dñuos dei Greci sarebbe già una vera associazione civile e politica e corrisponderebbe alla curia e più soventi al pagus, sebbene a mio avviso la curia ed il pagus siano due cose compiutamente diverse. La curia infatti è una divisione politica delle città , mentre il pagus sarebbe la località, in cui dimora la tribus. Crederei quindi più esatto che il dñuos corrisponda a quest'ultima. 56 il più largo sviluppo, a cui pervenne l'organizzazione patriarcale , perchè mentre il suo elemento costitutivo e il modello, a cui si in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio , da essa pero già si vengono elaborando quegli elementi, che, trasportati nella comunanza civile e politica , finiranno per dare origine ad un rapporto del tutto nuovo, che è quello della civitas , il quale più non dispiegasi nel pagus come la tribù , ma bensi nell'urbs. Ben si potrebbe osservare contro questo tentativo di ricostruzione, che la tribù mal pud essere stata l'ultimo stadio dell'organizzazione patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima ripartizione della città ; ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando si consideri, che era dalla tribus, che si erano ricavati i primi ele menti, in base a cui si costituiva la città , come lo dimostrano anche i vocaboli di tribunus, tributum , tribunal, i quali tutti richiamano l'antica tribù, e quindi era conforme al processo costantemente seguito nelle formazioni Italiche, che l'edifizio novello della città si ripartisse nell'interno sul modello degli elementi primitivi, che con correvano a costituirlo . D'altronde è noto , che le tribù di Servio Tullio hanno un carattere di preferenza locale e non già genealogico come le tribù primitive (1 ). 46. Intanto, senza volere per ora trattare a fondo dell'origine della plebe, non sarà inopportuno indicare, che è certamente colla formazione delle tribù , il cui nucleo è ancor sempre composto di genti patrizie, che può essersi iniziata la formazione della plebs, essendo naturale che attorno ad uno stabilimento di genti patrizie, che già riconoscono un capo , si venisse formando una comunanza plebea, che provvedesse al proprio sostentamento, o coltivando terre concesse dalle genti o dal capo di esse, o esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il bisogno di questo nuovo elemento poteva essere sentito dalle stesse genti, per quanto esse coi loro servi e coi loro clienti fossero organizzate in guisa da poter bastare da sole a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle Quanto al diverso svolgimento di questi varii elementi nell'India , nella Persia , in Grecia e in Roma, vedi Carle, La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita so ciale. Lib . I e II, come pure : Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e politica , colle opere ivi citate. ( 1) La distinzione è fatta nettamente da Dionisio (4 , 15), il quale chiama la tribù primitiva qulai revikai e quelle di Servio Tullo qulai totikaí. - 57 antiche formole , in cui parlasi di populus et plebes, dualismo il quale fa credere che dovette esservi un tempo, in cui si chiamo populus l'assemblea politica e militare ricavata dal seno delle genti, secondo il rito e l'ordine prescritto dalle consuetudini e dalle tra dizioni, mentre invece si chiamd plebes dapprima e poscia plebs (da pleo , riempire) quella moltitudine ragunaticcia , che dopo essersi cominciata a formare con clienti rimasti senza patrono e che come tali venivano ad essere esclusi dal gruppo gentilizio , potè poi una volta formata accrescersi in guise varie e molteplici. Questo infatti risulta dalla storia delle primitive istituzioni sociali , che il compito più difficile nella grande povertà delle idee primitive è la forma zione di un nuovo gruppo ; ma quando esso è formato e corrisponde alle esigenze dei tempi, viene ad essere un potente richiamo per tutti gli elementi, che per questo o quel motivo si vengono stac cando dall'organizzazione prima esistente , e che abbandonati a se cercano un nucleo novello a cui possano aderire. § 6 . Sguardo sintetico ai varii gruppi dell'organizzazione gentilizia . 47. Riassumendo questa lenta e faticosa ricostruzione dell'orga nizzazione sociale delle genti Italiche anteriore alla città , credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come l'organizzazione stessa siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale e spontanea formazione, costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che si vennero sovrapponendo l'uno all'altro, in modo pero che gli ele menti, che formansi in ciascuno di essi, subiscono delle trasforma zioni allorchè passano in quelli che vengono dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave questione della pro venienza delle genti Italiche , è molto probabile, che esse già re cassero con sè l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non avesse forse assunto quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi. Furono i conflitti delle genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo , le lotte fra vincitori e vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti, che presto dimenticarono la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi dei varii gradi dell'organizza zione gentilizia e condussero alla formazione di una potente ari. stocrazia territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che attrasse 58 anche i vinti nei quadri del proprio ordinamento , collocandoli però in una posizione subordinata a quella dei vincitori. Ne consegui che la famiglia , per rendersi atta a sostenere i con . flitti cogli altri gruppi, si venne concentrando e raggruppando sotto il potere del proprio capo, il quale sembra quasi perdere l'aureola di padre per assumere quella di sacerdote, di giudice , di uomo di guerra e di fondatore di una schiatta destinata a perpetuarsi. Intanto le per sone, cheda lui dipendono, si dividono in liberi o figli e in servi o fa muli, due vocaboli che si contrappongono fra di loro ed indicano due classi di uomini, che per molti secoli rimarranno distinte per contrassegnare in certo modo la discendenza dei vincitori e quella dei vinti. Di qui quel carattere eminentemente monarchico della costi tuzione della famiglia gentilizia , che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria fini per attribuire alla medesima quella speciale impronta , che i giureconsulti romani più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari degli altri popoli. La gente invece continua sempre a ritenere alquanto dell'ela sticità primitiva, nè giunge ad una concentrazione uguale a quella della famiglia ; ma intanto, memore del culto del proprio antenato , custode gelosa delle proprie tradizioni, riunita e resa compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai clienti, si cambia anch'essa in una specie di corporazione potente, che continua ad essere il perno del l'organizzazione gentilizia, e mentre da una parte tiene unite le famiglie, dall'altra , aggruppandosi con altre genti, dà origine alla tribù . Intanto però anche in essa continua quel dualismo, che già erasi rivelato nella famiglia , salvo che i rapporti fra quelli, che un di furono i vincitori e quelli che furono i vinti, rimettono al quanto della propria rigidezza , e vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles ed i gentilicii, i cui rapporti. prendono un carattere pres sochè giuridico nel patronato e nella clientela . Così pure nella gente , accanto all'elemento monarchico della famiglia , già viene a svolgersi un elemento, che potrebbe chiamarsi aristocratico , il quale costituisce un consiglio degli anziani, che concentra in sè medesimo le principali funzioni, che appartengono alla gente. Da ultimo nella tribu havvi pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto fra le medesime già distinguesi una gente , che predo mina su tutte le altre e viene così ad essere ritenuta come di stirpe regia . Di qui la conseguenza , che in essa compare la figura di un capo, che è il principe della gente, che predomina su tutte le altre, conservasi il consiglio degli anziani, che già mutasi in senato , 59 perchè è già composto dei capi di genti diverse , ma intanto aggiun gesi l'elemento democratico o popolare , che componesi di tutti gli uomini, che, ricavati dalle varie genti, possono valere come uomini di armi o come uomini di consiglio . Cid però non toglie, che continui sempre il dualismo, che già esi steva negli altri gruppi in quanto che accanto al popolo formasi la plebe, la quale trovasi dapprima al di fuori della comunanza gentilizia e ha percid più un'esistenza di fatto , che non un'esistenza di diritto . Essa è dapprima riguardata con disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri consacrati dalla religione e dal diritto delle genti; ma cið non toglie, che passandosi dall'organizzazione gentilizia alla città essa sia l'unico elemento, che possa sostenere la lotta coll'antico ordine di cose . Per tal modo si avverò nel periodo gentilizio una vera forma zione naturale delle varie condizioni di persone e dei varii elementi, che entrarono più tardi a costituire la comunanza civile e politica. Che anzi, mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si vengono lentamente e gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi di base alla futura città : Tantae molis erat romanam condere gentem . Non è già che questo processo di naturale formazione sia proprio soltanto delle genti Italiche, in quanto che le traccie di essa ap pariscono evidenti presso tutte le stirpi di origine Aria ed anche presso quelle di origine Semitica e Camitica (1). Nessuna però giunse a racchiudere i varii stadii di questa formazione in forme più determinate e precise delle stirpi italiche, e furono esse parimenti che, gettando nel crogiuolo i materiali tutti elaborati e conservati nel periodo gentilizio, seppero ricavarne le basi e il fondamento del l'eterna città . (1) Ciò è stato provato largamente dal SUMNER MAINE, L'ancien droit , pag. 107 a 163. È poi interessantissima a questo proposito la comparazione, che viene facendo il Revillout fra l'organizzazione domestica dei Romani e quella che vigeva presso gli Egiziani nella sua opera col titolo : Cours de droit égiptien , Paris, 1884, della quale può considerarsi come un compimento, per ciò che si riferisce alle forme di celebrazione del matrimonio, il lavoro del suo allievo PATURET, La condition juri dique de la femme dans l'ancien Egipte, Paris, 1886. - 60 CAPITOLO IV . La proprietà nel periodo gentilizio e gli istituti attinenti alla medesima. S 1. – Dubbii circa l'origine della proprietà nella storia primitiva di Roma. 48. Fra i problemi, che presenta la storia delle istituzioni primitive di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo degli autori è certo quello, che si riferisce all'origine di quella forma di proprietà , che suol essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale in certo modo venne ad essere il modello, sovra cui si foggið la proprietà presso la maggior parte dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a noi pervenute sembrano presen tare alcune contraddizioni a prima giunta inesplicabili. Da una parte infatti, anche dopo la formazione della città , si rinvengono ancora le traccie di una proprietà collettiva , conosciuta sotto il nome di ager gentilicius e di ager compascuus,mentre dall'altra la proprietà qui ritaria si presenta fin dai proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed esclusivo, che sembra perfino escludere la possibilità dell'esistenza anteriore di una proprietà collettiva. A cið si aggiunge, che mentre da una parte la storia primitiva di Roma ci dipinge il patriziato fin dai più antichi tempi in condizionitali da concentrare nelle sue mani tutto il capitale (pecunia ) allora esistente, e come il proprietario pressochè esclusivo di una gran parte del territorio , dall'altra la tradizione parla di una ripartizione fatta da Romolo del territorio Romano e di un assegno da esso fatto di soli due iugeri (bina iugera) ai capi di famiglia, che lo avevano seguito, il quale assegno avrebbe co stituito il primo patrimonio (heredium ) del più antico patriziato , che era quello della tribù dei Ramnenses (1). (1) Ecco i principali passi di antichi scrittori che si riferiscono all'argomento : VARRO, De re rustica, 10, 2 : « Bina iugera , quod a Romulo primum divisa viritim , quae heredem sequerentur, heredium appellarunt» . Plinius, Hist. nat., 18, 2 , 7: « Bina tunciugera populo romano satis erant, nullique maiorem modum attribuit (Romulus) » . Lo stesso Plinio poi, 18 , 3, 10 scrive : « M. Curii nota dictio est, perniciosum intel legi civem , cui septem iugera non essent satis . Haec autem mensura plebi post ex ictos reges adsignata esto. Brons, Fontes, pag. 387. Se ne ricaverebbe pertanto - 61 49. Non è quindi meraviglia se le congetture a questo proposito siansi avviate in direzioni compiutamente diverse. Alcuni riten nero che la proprietà privata in Roma sia stata una creazione dello Stato , ma contro questa opinione si è giustamente osservato , che l'idea di una sovranità territoriale fu affatto ignota ai Romani, per guisa che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe loro parsa un segno di soggezione odioso tanto, che fino all'Impero Roma e l'Italia ne furono escluse ( 1). In senso contrario si fa perd notare, che non può ammettersi che la proprietà in Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione storica , che sarebbesi avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma avrebbe esordito con un concetto della proprietà , che presso gli altri popoli non si rinviene che quando essi sono pervenuti al termine della loro evoluzione. Ne deriva che, lasciando in disparte le gradazioni diverse delle opi nioni intermedie, le teorie estreme si potrebbero ridurre essenzial mente alle seguenti. Vi ha l'opinione del Niebhur, del Mommsen , seguita anche da molti altri, fra cui noterd il De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma, come presso gli altri popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e non sarebbesi cambiata in proprietà esclusivamente privata ed individuale , che colla ammessione della plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti dallo Stato ai che ai primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non fu che di due iugeri, mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche al patriziato. Per contro gli as segni posteriori, incominciando da Numa, appariscono fatti ai plebei ed anzi aipiù po veri della plebe. Solo fa eccezione Cicerone, il quale direbbe che Numa avrebbe diviso fra i cittadini l'agro pubblico conquistato sotto Romolo « agros divisit viritim viribus » « De rep. II, 14 » , ma in ciò è contraddetto da Dionisio , il quale parla di una di stribuzione da Numa fatta ai più poveri, II, 62. Quanto agl'assegni attribuiti ai re, che vennero dopo, sono tutti fatti alla plebe, ed è dopo le leggi Licinie Sestie, che i medesimi furono portati a sette iugeri. Ciò è attestato fra gli altri da Columella, De re rustica , 1, 3, 10 , « Post reges exactos Liciniana illa septem iugera , quae plebi tribunus viritim diviserat,maiores quaestus antiquis retulere, quam nunc nobis praebent amplissima vetereta » . Ho citato questi varii testi per provare, che il solo assegno fatto ai primi padri o capi di famiglia fu quello di due iugeri attribuito a Romolo, mentre gli altri sono fatti alla plebe; il che dimostra che i padri dovettero continuare ad avere i loro agri gentilizii. (1) V. PADELLETTI, Storia del diritto Romano, con annotazioni del prof. Cogliolo , Firenze, 1886, pag. 214, ove si sforza , e a parer mio, inutilmente, a dimostrare che il piccolo heredium di due iugeri poteva bastare ai bisogni della famiglia , stante la coltura intensiva applicata al medesimo. - 62 singoli cittadini (1 ) ; e vi ha quella invece, sostenuta con ardore dal nostro Padelletti, secondo cui sarebbe affatto esclusa questa origine collettiva dalla proprietà, in quanto che l'istituto della medesima, quale si è svolto fin dai più antichi tempi di Roma, per usare le sue stesse parole, avrebbe assunto un carattere spiccatamente pri vato ed avrebbe segnato il grado più perfetto, a cui sia pervenuto il regime della proprietà (2). 50. È poi degno di nota che siccome oggidi la ricerca intorno all'origine delle proprietà assunse le proporzioni di una questione economica e sociale, in quanto che ad essa si rannodano teorie diverse intorno all'ordinamento delle proprietà , così la ricerca delle sue origini presso un popolo , le cui istituzioni esercitarono tanta influenza sopra tutti gli altri, ha assunto eziandio il carattere di un problema economico e sociale . Sonvi infatti coloro che, come il Laveleye ed altri autori più o meno apertamente favorevoli ad un ordinamento collettivo della proprietà , vogliono trovare, anche presso ( 1) L'autore, che primo approfondì i concetti dell'ager publicus e dell'ager pri vatus, è certamente il Niedhur, Histoire romaine, III, pag. 175 a 222. Egli però sembra partire dal preconcetto, che anteriormente a Roma non esistesse proprietà privata, e che questa fosse stata costituita mediante gli assegni stati fatti alla plebe. La sua opinione fu seguita dal Puchta , Corso delle Istituzioni. Trad. Turchiarulo, $ 285 , dal MOMMSEN, Histoire romaine, I, chap. XII et XIII, pag . 189 e seg. Segue pare questa opinione il De-RUGGERO nei suoi dotti articoli sull'ager publicus-privatus, e sulle agrariae leges, inserti nell'Enciclopedia giuridica italiana , come pure nel suo precedente lavoro, La gens in Roma avanti la formazione del comune. Napoli, 1872. (2 ) PADELLETTI, op . cit., pag . 220. Nota 1°. La questione dell'origine collettiva della proprietà cominciò dall'essere posta in campo dal Sumner Maine, L'ancien droit, chap. VIII, Histoire de la propriété primitive, pag . 231 a 288. Essa poi fu allar gata dal Laveleye del suo libro, La propriété et ses formes primitives, dove si oc cupa della proprietà presso i Romani da pag . 177 a 193. Di recente poi la discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà primitiva presso i Germani, in occasione di una dissertazione letta dal FUSTEL DE COULANGES all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui egli sostiene che anche i primitivi Germani avrebbero conosciuta la proprietà famigliare e privata. Alla discussione presero parte il GEFFROY, il Glasson, l'AucoC e il Ravaisson, e ne uscì una specie di studio comparativo fra la proprietà e la famiglia romana e la proprietà e la famiglia dei primitivi Germani. Compte rendu de l'Académie des sciences morales et politiques, 1885, 1er vol., pag. 705 a 812 e 2me vol., pag. 1 a 66. L'opinione del FusTEL DE COULANGES, quanto alla proprietà privata già conosciuta dai Germani, era stata già sostenuta in modo anche più esclusivo dal Denman W. Ross, The early of Land-holding among the Germans. Boston, 1883, pag. 40. 63 i Romani, le traccie di una proprietà collettiva,mentre altri, soste . nitori invece della proprietà privata ed individuale, cercano di avere per sè l'autorità di un grande popolo per giustificare la forma di proprietà che è loro prediletta . Il vero si è che tanto l'una come l'altra teoria solleva dei grandi dubbi. Da una parte infatti, quando si riconosca presso i Romani solo una proprietà originaria mente collettiva , viene ad essere inesplicabile come un popolo , che suole procedere così gradatamente nella trasformazione delle proprie istituzioni giuridiche, abbia potuto senza altro operare una rivolu zione così radicale nel concetto della proprietà . Dall'altra , se si sostiene che la proprietà Romana fu senz'altro una proprietà asso luta ed esclusiva , non è men vero che il popolo Romano sembre rebbe appartarsi da tutta l'evoluzione della proprietà , quale almeno sarebbe stata formolata da coloro , che si occuparono delle forme pri mitive dalla medesima assunte. In questa condizione di cose non pud negarsi la gravità e la im portanza del problema, e questo è certo che il medesimo non potrà mai essere risolto , finché non si ricerchino le condizioni della pro prietà presso le genti del Lazio, per mettersi cosi in caso di ap prezzare le trasformazioni, che esse ebbero a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla comunanza civile e politica . 51. Tuttavia, prima di inoltrarsi nella ricerca, non sarà inopportuno di premunirsi contro alcune idee, che, sopratutto in questi ultimi tempi, si vennero introducendo intorno alla legge di evoluzione sto rica, che governa la proprietà. Il Laveleye, in una notevole opera sua , ha cercato di stabilire sopra una grande quantità di fatti una legge storica, secondo cui la proprietà avrebbe cominciato dall'e sistere sotto forma collettiva e poi sarebbe venuta assumendo un ca rattere sempre più individuale, lasciando così sottintendere, che l'u nico rimedio di ovviare a questa individualizzazione soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare l'istituzione ai propri inizii ( 1). (1) L'opera del LAVELEYE è quella già citata col titolo: La propriété et ses formes primitives. Paris 1874, e la legge storica ricordata nel testo è da lui formolata nello stesso primo capitolo, pag. 4 ,il che giustifica alquanto la censura fattaglidal PADELLETTI di essersi sforzato a dimostrare una tesi. Del resto le idee del LAVELEYE hanno tro vato molti seguaci e possono anche essere accettate in certi confini, con che non si voglia cambiare in una legge storica generale un fenomeno, che ebbe solo a veri ficarsi in un periodo dell'umanità stessa, cioè nel periodo gentilizio. Di più si potrebbe 64 Senza entrare ora nella discussione di questa legge, devesi però notare, che ricerche di altri investigatori imparziali, fra i quali lo Spencer, hanno già dimostrato , che una legge di questa natura non pud essere ammessa, in quanto che presso popoli del tutto primitivi già si trovano le traccie di una proprietà privata ed individuale (1 ). Quindi è che l'unica legge storica , relativa all'evoluzione della pro prietà , che allo stato attuale degli studi possa formolarsi, sarebbe che la proprietà , essendo una istituzione eminentemente sociale, ebbe in tutti i tempi ad assumere tante forme, quanti sono gli stadii per corsi dall'organizzazione sociale . Sopratutto poi la storia delle isti tuzioni giuridiche presso i varii popoli dimostra, che le sorti della proprietà si presentano strettamente connesse con quelle della fa miglia , cosa del resto che può essere facilmente compresa quando si consideri, che il primo bisogno della famiglia fu certamente quello di assicurare il proprio sostentamento . Siccome perd la famiglia nel periodo, che suole essere chiamato patriarcale , entra essa stessa a far parte di un organizzazione maggiore, che è l'organizzazione gentilizia , cosi anche la proprietà finisce per assumere tante con figurazioni diverse, quanti sono i gradi di questa organizzazione sociale. Ciò può scorgersi anche presso quei popoli, i quali sono recati come esempio da quelli, che sostengono che nelle origini sa rebbe prevalso il regime collettivo della proprietà , quali sarebbero le antiche comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il cui ter sempre notare al LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia provato che l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione veramente primitiva, non si potrà neppure sostenere che la forma di proprietà , che trovasi durante l'organizzazione gentilizia , sia la forma veramente primitiva . Quanto alla letteratura copiosa sull'argo mento, può vedersi il dotto lavoro del VioLLET, Précis de l'histoire du droit français. Paris, 1886 , pag. 481 e 482. L'autore ritiene, che la proprietà privata e la collettiva possano essere ugualmente antiche, ma che nella origine abbia avuta prevalenza la proprietà collettiva, mentre la proprietà individuale sarebbe stata ristretta a qualche cosa mobile di uso esclusivamente personale. Questa proprietà collettiva si sarebbe poi venuta frazionando ed avrebbe assunto un carattere sempre più individuale, in quanto che la proprietà famigliare e privata avrebbe prevalso su quella più estesa della tribù. L'autore però non spiega , come ciò abbia potuto accadere,mentre il pas saggio può invece essere seguìto presso i Greci ed i Romani. VIOLLET, op . cit., pag . 71 e 72. (1) V. SPENCER , Principes de sociologie, vol. III, Paris, 1883, pag . 717, ove egli parla « de la fausseté de la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la propriété individuelle était inconnue aux hommes primitifs » . - - 65 ritorio , secondo consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una viene ad essere assegnata alle singole fa miglie ; l'altra è lasciata a prato ed a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero determinato di capi di be stiame; e l'altra infine è considerata come proprietà della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare certi diritti i singoli comunisti (1). Or bene se la legge dell'evoluzione storica della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini, credo di poter af fermare in base ai fatti, che la storia della proprietà romana non solo non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece, che conserva le traccie più evidenti di tale evoluzione. § 2. – La domus, il vicus ed il pagus e i loro rapporti colle varie forme di proprietà . 52.Non è dubbio anzitutto , che presso i Romani le sorti della pro prietà e quelle della famiglia procedettero strettamente connesse fra di loro . Basterebbe a dimostrarlo il fatto, che il Quirite, come si vedrà a suo tempo , entrò nella comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario sopratutto del suolo , e che nel diritto primitivo di Roma i poteri del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così strettamente uniti fra di loro , che un solo vocabolo , quello appunto di familia , comprende le une e le altre (2). A ciò si aggiunge che è un prin cipio, costantemente applicato dai Romani, quello per cui non può esi stere nè alcuno stadio di organizzazione sociale , nè alcuna corpora zione anche di carattere sacerdotale senza che le debba essere asse gnato un patrimonio , il quale, indicato col vocabolo generico di ager, (1) V. LAVELEYE, op. cit., Chap . II, V , VI, come pure il SUMNER Maine, Village Communities. London , 1872 ; Early history of institutions. London , 1875. Early law and custom . London, 1883. (2 ) Questa è la significazione che il vocabolo « familia > riceve nell'antico diritto, come lo dimostrano le espressioni familia habere , emere, mancipio dare e simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la proprietà, come può vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie significazioni del vocabolo familia , coi testi che loro servono di appoggio, possono vedersi nel Roby, Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, 1884. Notae ad Tit. « de usufructu » , pag. 48, vº Familiae. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 5 - 66 può essere chiamato , secondo i casi, ager privatus, gentilicius, compascuus, publicus, communis, peregrinus e simili (1). Ciò prova fino all'evidenza , che il Romano primitivo, allorchè si presenta nella storia, ha già il concetto profondamente radicato , che non possa quasi esservi la famiglia senza una proprietà , che le serva di sede e le fornisca i mezzi di sostentamento , e che questo con cetto fu da esso applicato a tutte le altre corporazioni, le quali tutte furono primitivamente modellate sulla famiglia . Non è quindi pos sibile il sostenere, che la proprietà privata o meglio famigliare possa , presso i Romani, considerarsi come una creazione dello Stato, ma conviene necessariamente ammettere che fosse conosciuta già prima, se appena fondato lo Stato, il primo atto che esso compie , secondo la tradizione, è quello di assegnare una proprietà ai singoli capi di famiglia. È questo il motivo per cui anche qui, per comprendere l'istituto della proprietà quale comparisce in Roma, conviene cer carne l'origine presso le genti, fra cui Roma si è formata . Vero è che sono pochissime le vestigia veramente genuine, che ci riman gano dello stato di cose, che esisteva anteriormente a Roma ; ma tuttavia anche con pochi frammenti non è impossibile la ricostru zione di questa condizione anteriore, quando si tenga conto del pro cesso costantemente seguito dai Romani, anche nel periodo storico , che è quello di trasportare nel periodo seguente i concetti e le istituzioni, che ebbero ad elaborarsi nel periodo anteriore. 53. Intanto un primo sussidio può aversi in questo carattere del l'organizzazione gentilizia , per cui essa, a misura che giunge a produrre un nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al pre cedente , viene ad essere naturalmente condotta a creare una sede esteriore, in cui il gruppo stesso possa trovare il proprio svolgimento . Come più tardi la sede esteriore della civitas è stata l'urbs (2 ) , così le sedi esteriori dei varii gruppi gentilizii sembrano, presso le an tiche genti italiche, essere state indicate coi vocaboli certo antichis simi di domus, di vicus e di pagus (3 ). (1) Cf. De-RUGGERO, Enciclopedia giuridica italiana , vº Ager publicus-privatus. Vol. I, Parte II“, pag. 604. ( 2) L'antichità di questi vocaboli è dimostrata dal fatto, che già nel sanscrito si trovano i termini corrispondenti. Ciò può vedersi nel Pictet, Origines Indo Européennes ; Paris, 1877, II, pag . 305 , come pure nel BRÉAL, Dict. étym . lat. ai vocaboli indicati. (3) Non vi è dubbio , che tutti questi vocaboli già esistevano anteriormente alla - 67 Domus è la sede del capo famiglia coi proprii figli e coi proprii servi, sede, che può anche avere un cortile ed essere circondata da un piccolo orto e forse anche da un piccolo ager, che uniti colla casa costituiscono un tutto , che con un vocabolo non meno antico poteva es sere chiamato heredium da herus, od anche mancipium , perchè di pendeva direttamente dalla manus del capo di famiglia, intesa come la somma dei poteri al medesimospettanti, o infine anche familia , perchè comprendeva tanto i liberi quanto i seroi (1 ). Non vi ha poi dubbio che è dalla domus, che si staccherà più tardi il concetto di domi nium e si capisce anche che di questo dominium , il quale potrà poi acquistare una larghissima estensione, la parte più sacra, più preziosa, quella , da cui il capo di famiglia si separerà più a malincuore e che egli vorrebbe perpetuare nella famiglia , continuerà sempre ad essere riposta in quel nucleo primitivo, che costituiva l'heredium , e che nel diritto quiritario prese poi il nome di mancipium . 54. La riunione poi delle abitazioni di diverse famiglie , provviste di un cortile e cinte da uno spazio , a somiglianza diquelle che Tacito ci descrive presso i primitiviGermani (2 ), viene a costituire il vicus, il quale di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le abitazioni delle familiae, che dividono il medesimo culto e appar tengono alla medesima gente . Il vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e si comprendono cosi le circostanze attestateci da Festo : che i vici si trovavano di preferenza presso quei popoli, che non avevano ancora delle città , quali erano i Marsi ed iPeligni;che essi erano stabiliti fra i campi (in agris); e che se essi già avevano un luogo di mercato , non avevano però sempre un luogo, dove si am ministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister vici, a somiglianza del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel pagus (3). Cid dimostra , che se il vicus poteva svolgersi formazione della comunanza, e quindi dalla loro esistenza si può argomentare che dovevano pur conoscersi le istituzioni, che con essi erano indicate. (1) Quanto alle domus familiaque è da vedersi il numero stragrande dei passi raccolti dal Voigt, Die XII Tafeln , II, pag . 6 e 7 , nota 2 . (2 ) TACITUS , Germania, XVI. (3) Festo , vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ognialtro vocabolo, la cui significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le significazioni diverse, che ilmedesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina il vicus, finchè trovasi ancora fra i campi (in agris), ed è a proposito di questo primo vicus, che egli dice « sed ex vicis partim habent rempubblicam , et ius dicitur, partim nihil eorum et 68 talvolta in guisa da prendere le proporzioni ed avere le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede di una comunanza puramente gentilizia. Era poi naturale, che come le singole fa miglie in esso avevano il proprio heredium , cosi anche il vicus, sede della gente , fosse circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano anche fare gli assegni ai clienti (1 ). 55. Viene ultimo il pagus, ove esiste un sito per il mercato , ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi giustizia , sito, che probabilmente può già essere chiamato forum (2),almodo stesso che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi senza alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae aguntur, negotii gerendi causa » ; poi trova il vicus nel seno degli oppida , e dice che comprende « id genus aedificiorum , quae continentia sunt his oppidis, quae itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque dissimilibus discriminis causa sunt distributa » . Tuttavia , anche nella città , il vicus indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei vicoli privati, che dànno accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns, Fontes, pag. 375. (1) L'interporsi di un elemento estraneo nel seno del vicus era poi naturalmente impedito da quella antica consuetudine romana, per cui il fratello vendeva al fra tello, il vicino al vicino, il consorte al consorte. V. sopra pag. 30, nota 1. Che poi esistesse veramente una proprietà spettante al vicus e destinata ad uso comune degli abitanti di esso lo dimostrano certe iscrizioni, in cui il vicus quale persona giuridica fa contratti di compra e di vendita, Corpus inscrip. latin . I, 603; del resto anche il Digesto ammette il vicus a ricevere donazionie legati. L. 73, 1 Dig. (30 , 1). È da vedersi, quanto ai vocaboli con cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle lingue Indo-Europee, il Pictet, Origines Indo-Européennes, II, pag . 308. Quanto al con cetto del vicus e delle vicinitas presso i Germani vedi il DENMAM W.Ross, Land holding among the Germans. Boston , 1883 , pag. 46. (2) Il vocabolo di forum è uno di quelli, che ci indica il processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo, venivano trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al concetto ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che forum significd il vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto al defunto. V. Bruns, Fontes, pag. 339; poi sappiamo da VARRONE, De lingua latina , V , 145, che le genti latine « quo conferrent suas con troversias et quae vendere vellent quo ferrent, forum appellarunt » ; infine l'abbre viatore di VERRIO Flacco colla sua consueta diligenza ci dice che « Forum sex modis intellegitur ; primo negotiationis locus ; alio, in quo iudicia fieri, cum populo agi, contiones haberi solent; tertio cum is , qui provinciae praeest, forum agere dicitur, cum civitates vocat et de controversiis earum cognoscit, ecc .) Brons, loc. cit. Per tal modo il luogo di convegno per i parenti, che piangono un defunto, viene col tempo a convertirsi nel sito , ove il magistrato romano risolve le controversie fra le città ed i popoli. 69 servirà ad indicare tutte le cariche della città . Nel pagus per tanto havvi già un accenno alla vita civile, e quindi si può rite nere con certezza, che esso è già la riunione di più vici e comprende il complesso delle abitazioni occorrenti per un'intera tribù . Ciò del resto è dimostrato dal fatto , che le tribù rustiche di Servio Tullio presero il nome di tanti pagi, che prima esistevano nella stessa località . Così pure, nota il Lange , è dimostrato che il pagus Succusanus fu sostituito dalla tribus Suburana, che è una delle quattro tribù urbane dello stesso Servio, come pure vi sono iscri zioni, che parlano di un pagus Aventiniensis e di un pagus lanicu lensis, nei quali nomi è anche degna di nota la terminazione di essi, che è analoga a quella, con cui si indicano le popolazioni, che com pongono le tribù (1). È poi anche naturale , che questo pagus abbia pur esso un ager, certamente situato a maggiore distanza, perchè in prossimità vi sono gli agri gentilicii, e che questo ager chiamisi compascuus, e che comprenda talvolta eziandio , oltre il sito vera mente destinato per il pascolo , anche delle siloae e dei saltus (2 ) . $ 3 . L'ager privatus, gentilicius, compascuus. 56. Intanto da questa configurazione esteriore dell'organizzazione gentilizia si può inferire che , almodo stesso che questa venne forman dosi per una naturale sovrapposizione di varii gruppi, così anche le varie forme di proprietà si vennero assidendo l'una sull'altra . L'ager (1) LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 23. (2 ) Cfr . NIEBHUR, Histoire Romaine, III, pag. 112. Del saltus è da vedersi la diffinizione di Elio GALLO conservatasi da Festo , pº Saltus. I saltus potevano essere oggetto di proprietà collettiva del pagus e della città , ed anche di proprietà privata . È poi degno di nota, che il vocabolo saltus, allorchè già si venivano formando i lati fondi permodoche, secondo Plinio , sei persone possedevanometà dell'Africa (Hist. nat., XVIII, 7), finì per significare quegli immensi dominii, posseduti da privati e soventi anche dall' Imperatore, sovra cui dimorava una popolazione, di carattere pressochè colonico, che dipendeva più dall'arbitrio del possessore o del suo procurator, che non dalle leggi dell'Impero. Riguardo ad uno di questi saltus, situato appunto nell'Africa e chiamato Saltus BURANITANUS, si scoperse di recente nel 1880 una importante iscri zione, che contiene una petizione della popolazione del saltus all'Imperatore. Fondan dosi su di essa l'ESMEIN , sostiene che in questi saltus abbia cominciato a formarsi l'istituzione del colonato. — Mélanges d'histoire du droit et de critique. Paris, 1886 , pag. 293 a 322. V. pure FUSTEL DE COULANGES, Le colonat romain . Paris, 1885. - 70 si viene, per dir così, atteggiando in tante guise, quanti sono i gruppi che si vengono sovrapponendo. Presentasi anzitutto la casa (domus od anche tugurium , se nel con tado) colla sua corte, coll'orto e col campicello attiguo, che appar tiene alla famiglia nella persona del suo capo, e ne costituisce l'heredium , la familia , il mancipium (1); ma siccome ogni capo di famiglia , oltre questa parte sostanziale del suo patrimonio, può anche avere un capitale circolante, composto di greggi e di armenti e di altre cose mobili, così è naturale , che accanto al concetto dell'here dium si formi quello del peculium , accanto a quello della familia quello della pecunia e accanto a quello del mancipium quello del nec mancipium ; distinzione, che tornerà poi in acconcio per spiegare a suo tempo la famosa divisione del diritto quiritario fra le resmancipii e le res nec mancipii( 2).Che veramente questa forma di proprietà già preesistesse alla comunanza romana viene ad essere provato da cid , che fin dal primo formarsi di questa occorrono i concetti di herus, di heredium , di heres, il qual ultimo vocabolo ha pur la stessa origine di herus e scrivesi talvolta anche semplicemente eres, per guisa che anche questo vocabolo in antico significava , se non il vero proprietario, al meno il comproprietario, come lo prova la testimonianza di Festo , secondo la quale « heres apud antiquos pro domino ponebatur » . Non vi ha poi dubbio , che con questi vocaboli ha eziandio strettis sima attinenza il vocabolo di herctum o erctum , che significa ripar tizione da erciscere, donde proviene la denominazione certamente antica dell'actio familiae erciscundae. Tuttavia, comegià si accennd, è un costume antichissimo quello indicatoci dall'« ercto non cito » di Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a mio avviso, quella di non venire ad una pronta divisione e che indica il più antico dei con (1) Trovo confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium dal dottissimo lavoro, di recente pubblicato dal Voigt, così benemerito degli studii sull'antica Roma, col titolo , Die römischen Privataltertümer und römische Kulturgeschichte, estratto dall' Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft , pubblicato dal Beck in Nördlingen , pag. 750 a 931. Quivi il Voigt, pag . 772, ritiene che l'heredium com . prenda l'hortus, l'ager , la cohors o chors, il pomatum , più tardi detto anche pomarium , e di più la casa, detta anche tugurium , che comprende il granarium , il foenilium , il palearium ecc. Ivi poi si trova citata tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche la italiana , così spesso trascurata . (2 ) Anche il Voigt, op. cit., pag. 782, sembra accostarsi alla significazione qui attribuita al dualismo di familia pecuniaque, senza però accennare alla correlazione, che sembra esistere eziandio fra heredium e peculium ,mancipium e nec mancipium , 71 sorzii e delle società , che è quella fra i fratelli e gli agnati, che lascia vano indivisa l'eredità ed il patrimonio ( 1). Intanto la conseguenza viene ad essere questa , che i vocaboli di mancipium e di manceps, quelli di familia e di pater familias rimontano tutti al periodo gen tilizio, e segnano, insieme con herus ed heredium , l'atteggiamento diverso sotto cui poteva essere considerata la figura molteplice del capo di famiglia . Diquesti vocaboli però quello che significava meglio il potere giuridico del capo di famiglia era quello certamente di man ceps e di mancipium , ed è questa forse la causa , per cui il vocabolo , che prevarrà più tardi neldiritto quiritario sarà quello di mancipium , al quale solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex iure Qui ritium . 57. Non vi è poi dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si sovrapponesse l'ager gentilicius, che era quello spazio, non com preso negli heredia , che trovavasi nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi come proprietà collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius, che potevansi fare degli assegni ai clienti, i quali però non avevano una vera proprietà, ma ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di semplice precario ( 2). Dell'esistenza diquesto ager gentilicius e del modo di ripartirlo noi troviamo ancora un esempio durante il periodo storico , in occasione della venuta a Roma di Atto Clauso , e della sua gente. Questi veniva di Regillo per porre la propria dimora nel territorio stesso di Roma, senza che vi siano elementi nè per affermare nè per negare, che egli con ciò avesse rinunziato all'agro gentilizio, che doveva certamente essere posseduto colà da una gente che, come la Claudia all'epoca (1) Questa induzione, a cui già ebbi occasione di accennare, parlando della familia omnium agnatorum , trova una conferma nel diligente lavoro del POISNEL , Les sociétés universelles chez les Romains, specialmente in quella parte ove si occupa del pri mitivo consortium , accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra fratelli ed agnati, stante l'indivisione del patrimonio .(Nouvelle revue historique de droit français et étranger, 1879 , I, pag. 443 a 462). È anche degna di nota l'attinenza fra i vo caboli di consortium e di consors con quello di sors, che dapprima indicava la quota di eredità spettante a ciascuno. V. BRÉAL, Dict. étym . lat., vu Sors. Ciò è anche con fermato dall'antica espressione di familia inercta nel significato di indivisa , ricordata da Paolo Diacono 118, 8 . Cfr. in proposito i passi citati dal Voigt, Die XII Ta feln , II, pag . 112, nota 18 . ( 2) Festo, v° Patres. Tale è pure l'opinione dell'Esmein , Les baux de cinq ans en droit romain . (Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886 , p. 222). - 72 della sua venuta a Roma, avrebbe, secondo la tradizione, compresi ben cinque mila clienti. Questo è certo, che dal momento che egli abbandonava la sua sede originaria e veniva accolto nel patriziato romano, mediante la cooptatio , gli fu dato un tale spazio di ter reno oltre l'Aniene, che egli potè assegnare due iugeri in godimento a tutti i suoi clienti, oltre al che gli sarebbero ancora rimasti 25 iu geri per sè e la sua gente . Questo assegno di territorio , mediante il quale fu la gente Claudia, chediede il nome a quella tribù rustica, non impedi, secondo Dionisio, che fosse eziandio assegnato ad Atto Clauso un sito nel circuito stesso di Roma, ove potesse abitare egli e la sua famiglia (1). È facile il vedere, che qui occorrono i concetti tanto dell'heredium , quanto dell’ager gentilicius, e si ha pur anche la prova , che nell'organizzazione gentilizia era alla stessa gensod al con siglio di essa , che si apparteneva di fare il riparto fra le singole famiglie ed anche gli assegni ai clienti. Di qui deriva la conseguenza , che, fra le varie forme della proprietà nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra tutte le altre è la proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè almodo stesso che è nella gens, che si formano le famiglie , cosi è pure dall'ager gentilicius, che si ricavano gli heredia . Cosi pure è anche probabile che, in mancanza di eredi suoi,i quali possono in certo modo essere considerati quali comproprietarii dell'heredium , e in difetto eziandio di agnati prossimi, che mantengano ancora indiviso l'asse paterno, questi heredia tornino all’ager gentilicius, cioè alla sorgente stessa , da cui essi furono staccati. 58. Da ultimo sonvi eziandio molti indizii dell'esistenza di una proprietà , che consideravasi come spettante alla intiera tribù , e che prendeva il nome di ager compascuus, di compascua,di pascua, presso le genti del Lazio piuttosto dedite alla pastorizia , e di communia o communalia nell'Etruria (2 ). Pud darsianzi, che un ager compascuus potesse esservi già nello stesso vicus, come lo dimostrerebbe la def finizione di Festo : compascuus ager relictus ad pascendum com muniter vicinis ; ma in ogni caso non vi ha dubbio , che questo com . pascuus ager certo esisteva nel pagus e già dava origine ad una ( 1) Dion., V , 40. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 283, 84 . (2) L'esistenza di questi compascua è dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori. Basti il seguente di FRONTINO: « Est et pascuorum proprietas, pertinens ad fundos, sed in commune, propter quod ea compascua communia appellantur, qui busdam provinciis pro indiviso » . Bruns, Fontes, pag. 334 . 73 specie di pubblico reddito (vectigal), consistente nel contributo, che dovevano dare gli abitanti, che ivi pascolavano i proprii greggi ed armenti, contributo , che all'epoca romana viene poi ad essere indicato col nome di scriptura (1). Una prova dell'esistenza di questi pascua e di ciò, che essi costituirono forse le prime sorgenti di reddito pub blico, può ricavarsi da un testo prezioso di Plinio , il quale, dopo aver detto che pecunia a pecude appellatur , cosa del resto che è attestata da tutti gli antiquarii, aggiunge questo particolare im portantissimo : etiam nunc in tabulis censoriis PASCUA dicuntur omnia , ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat (2 ); il che vuol dire in sostanza , che i Romani, in questa parte conservatori come in tutto il resto, finirono per indicare col vocabolo primitivo dei pascua, che costituivano la proprietà collet tiva della tribù , tutta quella parte della proprietà collettiva del po . pulus, ossia dell’ager publicus, da cui il popolo stesso ricavava qualche reddito . Del resto l'esistenza di questo ager compascuus sarebbe anche accennata in quel tradizionale riparto , che Romolo avrebbe fatto fra i Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina, poiché delle tre parti una sarebbe stata assegnata al Re ed al culto ; l'altra alle singole famiglie e avrebbe costituito gli heredia ; e la terza sarebbe stata appunto l'ager compascuus, che fu anche la prima forma di ager publicus, in cui le genti patrizie, probabilmente de dite ancora in parte alla pastorizia, potevano far pascolare i proprii greggi ed armenti (3 ). i 59. Credo che le cose premesse dimostrino abbastanza : 1. Che, anche anteriormente alla formazione della città , la proprietà già esi stesse in tante gradazioni, quanti erano i gruppi, che entravano nella stessa organizzazione gentilizia , per modo che vi era una proprietà privata o meglio famigliare , una proprietà gentilizia , e una proprietà spettante alla comunanza della tribù ; 2º Che di queste varie forme di proprietà , quella che predominava era la proprietà gentilizia , perchè da essa uscivano e ad essa ritornavano gli heredia , come poi erano anche i capi di famiglia delle varie genti, che avevano il godimento dei compascua ; nel che può forse trovarsi l'origine pro (1) NIEBHUR , Histoire romaine, III, pag . 212 ; Voigt, Die römis. Privataltert., pag. 787 ; LANGE, Histoire intér. de Rome, pag . 150. (2) Plinio , Hist. nat., 18 , 3, 11. (3) Dion., II, 7. Cfr. NIEBHUR, Hist. rom ., III, pag. 211. - 74 - babile di quel fatto importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie riputarono per qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager publicus, il quale nella città non è che una tras formazione ed un ampliamento per mezzo della conquista del primitivo ager compascuus (1); 3. Che queste varie formedi proprietà nel periodo gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si vengono tempe rando e limitando scambievolmente per guisa, che il potere giuridi camente illimitato del capo di famiglia sul proprio heredium nel co stume gentilizio viene ad essere trattenuto da una quantità di tem peramenti, che ne impediscono qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia ; 4º Che quindi anche quel potere, che più tardi fu affidato al pretore di interdire nel iudicium de moribus quel padre di fa miglia che disperdesse i bona paterna avitaque, dovette certamente rimontare alle consuetudini gentilizie e che probabilmente appartenne al consiglio degli anziani della gens di frenare queste dispersioni e prodigalità del capo di famiglia con un iudicium , che era veramente de moribus e con una formola, che certo dovette essere analoga a quella più tardi adoperata dal Pretore (2 ). S 4. – Di alcune questioni del diritto primitivo attinenti alla proprietà gentilizia . 60. Le cose premesse intanto ci mettono anche in condizione di poter risolvere in poche parole alcune questioni grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano primitivo . La prima di esse sta in vedere se gli antichi heredia , ossia quei bina iugera, che Romolo avrebbe distribuito ai capi di famiglia e di cui Varrone dice che erano così chiamati in quanto che heredem sequerentur, debbano o non ritenersi inalienabili, e se i figli debbano considerarsi come com proprietarii del patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della trasformazione, che subi l'heredium ossia la proprietà famigliare e (1) Questa esclusione dei plebei dall'agro pubblico, almeno nei primi tempi della Repubblica , è attestato da un testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli Annali di qualche autore più antico, « Quicumque propter plebitatem agro pubblico eiecti sunt ,, Bruns, Fontes, pag. 391; il che è pur confermato da un passo di Sallustio , Hist. I, 9: « regibus exactos servili imperio patres plebem exercere, agro pellere » . (2) Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., pag . 32, il quale accenna per nota, che anche in Grecia vi era un' eguale sollecitudine per i beni aviti. 75 privata colla formazione della città , noi possiamo perd affermare con certezza ; lº che questo concetto dell'heredium esisteva già anterior mente ed erasi naturalmente formato durante il periodo gentilizio; 2º che l'heredium doveva potersi alienare dal capo di famiglia, perchè, se questa alienazione non fosse stata possibile , non si comprenderebbe il concetto e l'esistenza di un commercium , come pure non si compren derebbe l'esistenza certo antichissima di un iudicium demoribus, di- a retto appunto ad impedire l'imprudente e prodiga dispersione di questo patrimonio , che nel suo concetto informatore era destinato ad essere trasmesso dai genitori nei figli e da questi ai nipoti ; 3º che tuttavia questa alienazione, durante il periodo gentilizio , dovette essere gover nata da solenni formalità e dovette forse anche compiersi colla ap provazione o quanto meno colla testimonianza dei notabili del vil laggio ; 4º che infine nella primitiva organizzazione gentilizia i figli si riputavano comproprietarii sopratutto di quella parte del patri monio paterno che costituiva l'heredium , il che sarebbe in certo modo indicato dal vocabolo heres, che in antico avrebbe significato comproprietario , e che posteriormente continuò a significare la mede sima cosa mediante l'espressione più completa di heredes sui (1). 61. Insomma nel concetto primitivo il padre è come custode e deten tore del patrimonio famigliare nell'interesse suo e della sua prole. È questo probabilmente il motivo, per cui non dovette nei primitempi di Romaavere nulla di ripugnante almodo dipensare e diagire del tempo quel concetto giuridico del diritto quiritario primitivo , che ora a noi appare cosi ostico e pressochè inesplicabile, per cui tutto ciò che ap. partiene od è acquistato dalla moglie, dai figli, dai servi, finisce per essere considerato come di spettanza del padre e tutto ciò, che essi stipulano od acquistano, deve in certo modo ritenersi fatto per conto e nell'interesse del capo di famiglia . Questo concetto infatti, mentre indica l'unificazione potente della famiglia romana sotto l'aspetto giuridico, prova eziandio la comunione ed intimità di vita, che do veva esistere nel costume della medesima ; comunione ed intimità di cui il diritto non si occupa , perchè non doveva occuparsene, ma che sono largamente attestate da tutti gli scrittori, che richia (1) Ciò è anche confermato dalla nota proposizione di Gaio, II, 157: « Qui quidem heredes sui ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quo dammodo domini existimantur » . 76 mano la memoria della primitiva famiglia , governata dal mos pa trius, ac disciplina (1). Ad ogni modo la conseguenza ultima della nostra ricerca è questa, che, se gli heredia erano alienabili allorchè l'individuo era ancora legato nei vincoli strettissimi dell'organizza zione gentilizia , per maggior ragione dovettero esser tali, quando egli venne ad essere libero cittadino di una libera città . 62. Intanto se si ammette che nell'organizzazione della proprietà nel periodo gentilizio la forma prevalente è quella della proprietà gentilizia, in quanto che essa da una parte origina la proprietà pri vata e famigliare e dall'altra si estende al godimento della proprietà collettiva della tribù, è facile il dedurne la conseguenza , che il sistema di successione, allora introdotto dal costume e che fini col tempo per cambiarsi in successione legittima, dovette proporsi essenzial mente per iscopo di mantenere e perpetuare la proprietà nella gente con impedire che la medesima potesse passare ad estranei. Si com prende pertanto , che in base al costume gentilizio la proprietà vada ai figli , che ne sono comproprietarii, ed anche agli agnati prossimi, finchè essi mantengono indiviso il patrimonio paterno, ma appena questi manchino, dovranno succedere i gentiles e questi non indivi dualmente, come alcuni credono, ma collettivamente in quanto cioè formano la comunanza gentilizia . Ed il motivo è questo , che se la legge di una città pud favorire il riparto immediato fra gli eredi, il co stume invece di una comunanza gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto non cito , come dicevano gli antichi Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei patrimonii; perchè essa mira , non a favorire lo svolgimento dell'individualità del capo di famiglia , ma a rendere compatto per quanto è possibile il gruppo, in cui gli individui vengono ad essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo incontrastabile , che la successione, quale com pare nei primitivi tempi di Roma e quale esisteva anteriormente , non ammetteva nè distinzioni di primogenitura , nè distinzioni di sesso , quanto alle persone che erano chiamate a succedere ; ma si può anche (1) Cic., Cato maior, 11, 37, parlando di Appio Claudio il cieco scrive: « Quatuor robustos filios, quinque filias, tantam domum , tantas clientelas Appius regebat et caecus et senex ... Tenebat non modo auctoritatem , sed etiam imperium in suos ; metuebant servi, verebantur liberi, carum omnes habebant; vigebat in illa domo mos patrius ac disciplina o . - 77 - essere certi, che il costume dovette certamente dirigersi costantemente , se non a favorire il primogenito, almeno ad impedire, che si venisse alla divisione del patrimonio, ed anche ad evitare, che le femmine colla libera disposizione della parte di sostanza , che loro apparteneva , potessero compromettere gli interessi della gente . Ciò infatti viene ad essere comprovato dalla tutela perpetua , a cui le donne erano soggette per parte degli agnati ; tutela che aveva sopratutto lo scopo di sottrarre alle femmine la libera disposizione delle proprie cose , e che col tempo diventò per modo odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti, trovarono modo di sottrarvisi mediante quell'espediente giuridico , di carattere eminentemente romano, che è la coemptio fiduciaria (1) 63. Quanto alle istituzioni dell'adrogatio e del testamentum , non può esservi dubbio , che esse dovettero certamente esistere nel costume antico dei maggiori, anche anteriormente alla formazione di Roma, in quanto che esse sono istituzioni, che compariscono compiutamente formate , come appare da ciò che le XII tavole , nei frammenti a noi pervenuti, non parlano dell'adrogatio e quanto al testamento non fanno che confermare una istituzione preesistente. Di più era ben naturale , che il concetto dell'una e dell'altro dovessero presentarsi naturalmente a capi di famiglia , che da una parte erano tutti in tesi al culto dell'antenato e dall'altra erano fissi nel pensiero di perpetuarsi in una posterità , che continuasse il proprio culto genti lizio. Istituzioni quindi, come l'adrogatio e come il testamento, erano acconcie e indispensabili ad una organizzazione come la gentilizia , ma intanto cosi l'una che l'altra non potevano nella medesima ser vire come mezzo per soddisfare ad un affetto o ad una predilezione capricciosa , ma dovevano avere l'unico scopo di provvedere alla per petuazione della famiglia e del suo culto (2 ). (1) Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una persona che non diventa marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomet tere da lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio, I, 137. Fu questa coemptio, che fece dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela . (2) Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag . 45 e 46. Potrà sembrare poco logico, che io qui discorra , trattando della proprietà , anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui 78 64. Questo carattere è incontrastabile per ciò , che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale era una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una famiglia ed un culto , che sarebbero andati perduti per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle for malità, che furono poscia seguite dal patriziato nella comunanza ro mana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie ) conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si operava fra le famiglie della stessa gente, poteva forse bastare l'approvazione del consiglio della gente , ma se seguiva invece fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento , ma se si considera , che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne ,che lo spirito infor matore del testamento in questo periodo gentilizio doveva essere del tutto analogo a quello , che ispirava l'adrogatio . Il testamento per sua natura è tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propriamorte, l'impero di una volontà arbitraria , così può anche es sere ilmezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella riparti zione e quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo , che la successione invalsa nel periodo gentilizio , secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di vista gentilizio . L'uno di essi con sisteva nel diritto , che i figli avevano di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra , e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano . 79 vasi per stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che faceva si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio . Queste conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia , che miravano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpe tuarlo come tale nella famiglia . Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si ispiravano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere l'approvazione degli anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta ripartizione del patrimonio , usando le antiche parole « ercto non cito » – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine, come quella , che doveva essere riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea mone della famiglia e del suo culto (2 ). (1) Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una persona che non diventa marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomet tere da lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio, I, 137. Fu questa coemptio, che fece dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela . (2) Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag . 45 e 46. Potrà sembrare poco logico, che io qui discorra , trattando della proprietà , anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui 78 64. Questo carattere è incontrastabile per ciò , che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale era una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una famiglia ed un culto , che sarebbero andati perduti per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle for malità, che furono poscia seguite dal patriziato nella comunanza ro mana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie ) conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si operava fra le famiglie della stessa gente, poteva forse bastare l'approvazione del consiglio della gente , ma se seguiva invece fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento , ma se si considera , che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne ,che lo spirito infor matore del testamento in questo periodo gentilizio doveva essere del tutto analogo a quello , che ispirava l'adrogatio . Il testamento per sua natura è tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propriamorte, l'impero di una volontà arbitraria , così può anche es sere ilmezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella riparti zione e quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo , che la successione invalsa nel periodo gentilizio , secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di vista gentilizio . L'uno di essi con sisteva nel diritto , che i figli avevano di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra , e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano . 79 vasi per stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che faceva si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio . Queste conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia , che miravano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpe tuarlo come tale nella famiglia . Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si ispiravano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere l'approvazione degli anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta ripartizione del patrimonio , usando le antiche parole « ercto non cito » – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine, come quella , che doveva essere riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea maschile . Si può quindi conchiudere, che per lo genti patrizie il testamento non dovette certamente essere un mezzoper. disporre liberamente e a capriccio delle proprie cose, come fu poi il testamento nel di ritto quiritario ; ma dovette servire alle medesime per conseguire quello scopo , che anche oggi si propongono bene spesso i capi delle famiglie, anche non patrizie ma solo ricche ed agiate, allorchè , dettando il loro testamento , cercano d'accentrare la loro fortuna in una od in poche persone, nell'intento di assicurare ciò che con linguaggio antico e moderno suole essere chiamato il decoro e la dignità della famiglia . 66. Pervenuto a questo punto, parmi di aver dimostrato in un modo, che avendo convinto me potrà forse anche persuadere gli altri, che le genti patrizie , anche anteriormente alla formazione della città , già conoscevano una proprietà privata , attribuita al capo di famiglia . Ciò perd non toglie, che quest'ultimo fosse ben lontano dall'avere quella libera disposizione delle proprie cose per atto tra vivi e per testamento , che trovasi invece riconosciuta senza alcun confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo spirito dell'organizza zione gentilizia si informava tutto all'intendimento di serbare in tegro il patrimonio alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap prima e in mancanza di essa alla gente. Come dunque potrà essersi operata presso un popolo , di spirito 80 così eminentemente conservatore, una trasformazione cosi radicale nel carattere della proprietà da cambiare la medesima di proprietà gentilizia in quiritaria , allorchè esso passò dal periodo gentilizio alla convivenza civile e politica ? Ecco il gravissimo problema, al quale non credo che siasi data ancora una soddisfacente risposta , a causa del l'idea universalmente accolta sull'autorità delNiebhur e del Mommsen , che lo Stato romano siasi formato mediante la fusione e l'incorpo razione di varie genti e tribù. Secondo questi autori infatti, lo Stato costituendosi avrebbe in certo modo incorporato in sè la proprietà gentilizia , cambiandola cosi in territorio nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore dei singoli capi di famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli au tori, che trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a citare il De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione universalmente seguita . Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione dello Stato esisteva soltanto la proprietà col lettiva o gentilizia, la quale apparteneva alla gens e non alle sin gole famiglie , viene alla conclusione seguente : « Fondatosi quindi « il comune e lo Stato con la unione di più genti, esso sarebbe « divenuto , come la gente stessa nel periodo della sua autonomia, « proprietario del territorio generale di tutte le genti romane, cioè * del territorio nazionale. E come la gens lascia alle sue singole « famiglie la coltivazione e l'uso di alcuni terreni ( fundi), rima « nendo gli altri proprietà comune ; cosi anche lo Stato lascia ai privati una parte del territorio come proprietà (adsignatio ro « mulea) e ritiene per sè un'altra parte destinata a tutta la citta « dinanza (ager publicus) » ( 1). Di fronte ad una teoria così recisa, conforme del resto alla opinione generalmente seguita , mi sia lecito osservare , che anzitutto non è provato , che prima della formazione dello Stato non vi fosse che la proprietà gentilizia , e che la gente non lasciasse alle famiglie, che la coltivazione e l'uso di alcuni ter reni. I vocaboli certamente preesistenti di herus, heres, heredium , che senza alcun dubbio si applicavano al capo di famiglia, provano invece che il concetto di una proprietà privata già preesisteva fra (1) DE- RUGGERO, V° Ager publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica italiana , vol. I, parte 2*, pag. 604. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute nell'opuscolo La gens avanti la formazione del comune romano, Napoli, 1872, e che stanno pure a base del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae leges nella stessa Enciclopedia giuridica italiana . 81 le genti del Lazio ; poichè se così non fosse stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed acconcia per indicare gli assegni fatti ai capi di famiglia , e gli assegni si sarebbero fatti alle genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia , o meglio a ciascun individuo, che seguiva Romolo nella sua intrapresa. Viha di più , ed è che, tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea del mio e del tuo presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata , non può essere probabile che le gentes e le tribù , che potevano essere ed erano in effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono ancora ad esserlo dopo , si siano contentate dimettere tutto in comune, malgrado la loro origine diversa , per starsi paghe ai bina iugera, assegnati da Romolo. Si aggiunge, che se tutta la fortuna del pa triziato primitivo Ramnense si riducesse soltanto ai due iugeri, non si saprebbe veramente comprendere come la medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi clienti. Del resto non consta , che siavi veramente alcun autore antico , che accenni a questa specie di societas omnium bonorum , per cui si sarebbero messi in comune tutti gli agri gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo , in base ad un costumetradizionale fra le genti latine, che doveva già esistere prima e che fu applicato anche più tardi in occasione dell'impianto di colonie, divise il territorio da lui occupato in parte fra i proprii seguaci, mentre un'altra parte ritenne per sè e per ilculto , ed un'altra riservò a titolo di pascolo comune. Intanto perd le varie genti, che parteciparono alla fondazione della città , dovettero continuare a te nere i proprii agri gentilicii, come lo dimostra il fatto , che anche all'epoca di Servio Tullio le varie tribù rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti patrizie , che dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime. Vi ha di più , ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il regno stesso di Romolo , a favore del popolo Romano, coi quali questo avrebbe ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo Marzio ,che avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati (1) . Inoltre se Romolo , come dicesi, avesse imitato (1) I testamenti, a cui qui si accenna , sono quelli ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4 , 6, e che egli attribuisce l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 6 82 il sistema gentilizio, i capi di famiglia avrebbero dovuto soltanto avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro assegnati, mentre la pro prietà avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre noi sap piamo, che non vi fu mai proprietà più assoluta, che la proprietà quiritaria fin dai proprii inizii. Del resto convien dire, che l'opinione, di cui si tratta, è per sè una conseguenza logica ed inesorabile del rite nere col Mommsen, che Roma primitiva sia risultata dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e tribù ; poichè è naturale che con un tale sistema lo Stato avrebbe dovuto incorporare ogni cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi di famiglia . Solo sarebbe a spiegarsi come lo Stato, creando esso la proprietà fami gliare e privata , l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata , senza confini e senza alcuna sua ingerenza , quale appare essere stata la proprietà quiritaria . Tutte queste incoerenze invece scom pariscono quando si ritenga che il comune romano, a somiglianza delle altre città latine, sul cui modello era costituito , non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma intese solo a costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non distribui quindi ai privati altre terre, salvo in parte quelle , che da esso furono conquistate sul nemico. Quanto alla divisione dell'agro fra le tre tribù , a cui ac cenna Varrone, la medesima non potè essere che una divisione pu ramente amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del territorio , che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria , ed anche la famiglia, con cui essa appare stret tamente congiunta , non possono essere che quella proprietà e quella famiglia , che già esistevano nell'anteriore organizzazione gentilizia , salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione stessa , apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo Stato certi campi siti presso Roma, e da lei ereditati dal proprio marito ; e l'altro alla vestale Gaia Taracia , che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il Tevere, che presero poscia il nome di Campus Martius, dove si radunarono più tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii; ma essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini romani non hanno mai creduto che lo Stato fosse il proprietario di tutto il territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager publicus privatus, nell'Enc. giur. it ., pag. 609 e 610. Devo però di chiarare che questa divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandis sima per l'autore, così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano. 83 biente in cui si erano formate . La causa poi, per cui gli assegni di terre furono fatti ai singoli capi di famiglia , o meglio ai singoli seguaci di Romolo proviene da ciò che essi entrarono nella comu nanza non come membri delle genti ma nella loro qualità di capi di famiglia , donde la conseguenza, che di fronte alla nuova forma zione della convivenza civile e politica , mediante una federazione fra le varie tribù , più non si trovarono di fronte che la proprietà del capo di famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente col lettivo (ager publicus). Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto gli agri gentilizii, i quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a misura che si dissolve l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire il populus primitivo non entrano già i membri delle genti, come tali , ma soltanto i capi di famiglia in quanto sono ad un tempo proprietariidi terre ; il qual carattere del populus viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla costituzione Serviana, in base a cui ognuno partecipa ai diritti ed agli obblighi di cittadino (munera), in proporzione del censo . Del resto si dovrà più tardi ritornare su questa questione fonda mentale della storia primitiva di Roma, e allora si avrà la più ampia dimostrazione, che questo e non altro fu il processo seguito nella for mazione della città , e per conseguenza anche nella formazione della famiglia e della proprietà, quali comparvero nel diritto quiritario . § 5. – Sguardo sintetico allo svolgimento delle varie forme di proprietà nel diritto romano. 67. Per ora intanto , prendendo le mosse dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero svolgendo fin qui, cercherò di riassu mere logicamente e sotto forma di ipotesi quello svolgimento del l'istituto della proprietà , che più tardi apparirà comprovato nell'or dine dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed avventurosi, apparte. nenti a genti diverse ma tutte di stirpe latina (nomen latinum ), si raccolgano intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua guida abbandonino la loro residenza gentilizia , per recarsi a fondare uno stabilimento fortificato sul Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il rito religioso seguito nella fondazione, cominciano dall'occupare il suolo necessario per erigervi il loro stabilimento, e cercano anche di fortificarsi in esso , per essere in caso di difendersi dalle popola 84 zioni vicine, le quali, per appartenere forse a stirpi diverse, non pos sono vedere di buon occhio quest'ospite novello e pericoloso . Quanto al suolo conquistato ed occupato , è naturale che si cominci dal ripar tirlo , secondo le regole tradizionali seguite dai maggiori e che con tinueranno ad essere applicate anche più tardi nel fondare nuove colonie (1). Del suolo quindi sono fatte tre parti: una è assegnata al loro capo, al culto , ai publici edifizi ; l'altra è divisa fra i singoli capi di famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali po tranno essere ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case , con un cortile ed un orto ; e l'altra infine è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di famiglia , che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un corrispettivo (scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico . — Fin qui però noi non abbiamo an . cora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento romuleo da essa fondato sul Palatino . 68. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità seguite con altre comu nanze stanziate sui colli vicini, gli uomini atti alle armi e abili per consiglio di queste varie tribù , rappresentati dal proprio capo, con vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza civile e politica. È naturale allora, che il centro e la ( 1) Cfr. De RUGGERO, V ° Ager pub. priv ., op. cit ., pag. 603 e 604 , ove considera appunto questo riparto attribuito a Romolo « come una istituzione fondamentale romana che, conservatasi nei tempi posteriori, poteva naturalmente essere attribuita , nella ricostruzione che si faceva posteriormente della storia e del diritto primitivo di Roma, anche al fondatore e al legislatore di questo » . Ciò lascia credere che l'autore vegga in questo riparto, che pur è attestato da tanti autori e che d'altronde non ha nulla d'improbabile, in quanto che lasciò anche le sue traccie nella centuria in agris e nel centuriatus ager, ricordati da Festo e da VARRONE, una invenzione di tempi poste riori. Non mipare che siavi motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione di Roma primitiva, come veramente è accaduta . Che poi il centuriatus ager e la centuria in agris non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto l'ager romanus conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte di esso , che era conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione datane da VARRONE e da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo stesso DE RUGGERO, vº Ager pub. priv., pag . 604, nota 1 : « Antiqui agrum ex hoste captum victori populo per bina iugera partiti sunt. Centenis hominibus ducentena iugera dederunt» . Cfr. NIEBHUR, Histoire romaine, III, pag. 329. - 85 fortezza dell'urbs si trasportino in un sito , a cui possano avere facile accesso gli abitanti delle varie comunanze, quale sarebbe il sito, che è fra il Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la comune fortezza e servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È perd a notarsi, che per eseguire un simile accordo , siccomei capidi famiglia entrano come tali nella comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù, così non sarà punto il caso , che si mettano in comune gli agri gentilizii e i pascoli delle varie tribù. Quindi se le genti e le tribù erano prima ricche ed agiate e possedevano larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii servi e clienti, continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò che viene ad essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa comprende i pub blici edifizii, i templi consacrati alle divinità , che la proteggono, non che l'arx o fortezza , che serve per assicurare la comune difesa . Intanto , di fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita civile, politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di terre e quindi le sole istituzioni, che abbiano un'im portanza giuridica , politica e militare negli inizii della città, sono la proprietà e la famiglia unificate sotto il proprio capo . Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa mano di uomini forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e che, in virtù di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga soggiogan done le popolazioni e conquistandone il territorio; allora sarà na turale, che questa comune conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi considerata come un ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager privatus, che già prima apparteneva ai singoli capi di famiglia . Questo infatti è il dualismo, che domina tutta la storia economica di Roma. 69.Però, a misura che si accrescono le conquiste, l'ager publicus pud anche crescere permodo da sopravanzare ai pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli, che cooperarono alla sua conquista, ne do mandino la ripartizione almeno parziale. Dapprima tali assegni sul l'agro pubblico (adsignationes viritanae) sono fatti ai più poveri, i quali sono per tal modo posti in condizione di avere quella pro prietà , che è riputata necessaria per partecipare alla comunanza ; ma poscia , di fronte all'incremento sempre maggiore dell'ager pu . blicus, si comincia anche a disporne in guisa diversa. Continua sempre ad esservi una parte dell'ager , che è distribuita fra i più poveri della città e fra quelli, che partono per fondare una 86 colonia, e si ha cosi l'ager adsignatus, che serve per somministrare ai cittadini poveri quella proprietà , quel censo , quell'ager privatus censui censendo, che è ritenuto necessario per far parte della vera cittadinanza. — Un'altra parte invece sarà venduta ai pubblici incanti (ager quaestorius), o sarà data in affitto, mediante il pagamento di un corrispettivo, detto scriptura (ager vectigalis). Il primo di questi continuerà ad accrescere l'ager privatus, ma non più quello della classe povera, ma di quella ricca ed agiata , che possiede già il ca pitale per acquistarlo ; ed il secondo, quello cioè dato in affitto , finirà col tempo per dare origine a quelle lunghe locazioni, che quasi si assomigliano a vere compre- vendite, dalle quali uscirà poi una nuova forma di contratto, che è l'enfiteusi. Infine dell'ager pu blicus pud ancora rimanervene una parte, la quale, o per essere sterile o scoscesa (propter asperitatem ac sterilitatem ), non trovi compratori nè affittavoli, o che il consiglio dei padri non abbia rite nuto opportuno di mettere in vendita (1). Questa parte continua na turalmente ad appartenere all'ager publicus e ancorchè immensa mente ampliata colle conquiste corrisponde in certa guisa ai pascua o compascua , che esistevano nelle antiche tribù. Quindi si comprende come i padri delle genti patrizie, memori ancora del diritto che ave vano di slargare nei pascua i proprii greggi ed armenti (compascere), affermino il loro diritto di occupare questa terra in certo modo abban donata e di spargere in essa le tormedei clienti e dei servi ed anche dei liberi, che siano alla loro mercede. Sorge per tal modo il concetto dell'ager occupatorius, il quale, non essendo stato acquistato, non può certo essere oggetto di proprietà privata , ma costituisce le cosi dette possessiones, le quali, dopo essere durate per qualche tempo, acquistano un carattere pressochè giuridico e dånno occasione di ( 1) Tutto questo processo ci è attestato dagli agrimensori romani, dei quali sap piamo, che avevano grande autorità anche nelle provincie. L'autore, che primo mise in evidenza l'importanza dei loro scritti , fu il NIEBHUR, che loro dedicò una speciale dissertazione, che può vedersi nell' Histoire romaine, IV , pag. 442 a 474. Ora poi sta preparando un lavoro di lena sugli agrimensores i l prof. Biagio Brugi. Quanto alle affermazioni, che sono contenute nel testo , sono esse abbastanza giustificate da quegli estratti degli agrimensores, che sono raccolti dal Bruns, Fontes, pag. 411 e 418 . Qui infatti io non mi proponeva di entrare in particolari discussioni, ma bensì di mettere in evidenza il processo , che i Romani ebbero ad applicare costantemente nella distribuzione di un agro, che veniva crescendo colle loro conquiste. 87 svolgersi alla protezione pretoria , la quale fa cosi entrare nelius honorarium l'istituto giuridico del possesso (1) . 70. Intanto tutta questa parte dell'ager publicus, che è cosi lasciata alla occupazione, viene ad essere come una sottrazione alle ripar tizioni gratuite fra quelle classi inferiori, che non hanno mezzi e capitali per tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non sa rebbero dal Senato autorizzati a farla , e quindi tra il patriziato antico , a cui si aggiunge col tempo la nuova nobiltà plebea , e la plebe minuta viene ad esservi una opposizione di interessi. Da una parte si ha interesse a provocare nuovi riparti per impedire le occu pazioni e per limitare le occupazioni stesse , che col tempo minac ciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una usurpazione di possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo conquistati di recente, appare come una sottrazione a quel diritto di occupazione, che il patriziato attribuisce a sè stesso . Di qui le lotte intorno alle leggi agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore delle medesime, e infine la insufficienza di esse per risolvere la grande questione sociale dell'epoca , allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si strinsero insieme contro una plebe minuta, che già cominciava a cambiarsi in una turba forensis , e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi già si era as suefatta a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del circo e le distribuzioni di frumento . (1) Con cid non intendo però di ammettere l'opinione del Niebhur, del SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere il concetto della possessio coll'ager pubblicus. Io credo anzi, come dimostrerò a suo tempo, che la possessio, come istituzione di fatto più che di diritto, avesse origini ben più antiche, e che la medesima sia stata anzi il modo, con cui i plebei occuparono le prime terre nei dintorni della città patrizia, il che però non toglie che la prima tutela giuridica del possesso abbia anche potuto cominciare colle possessiones nell'agro pubblico : cosicchè accade del possesso, come di un grandissimo numero di altre istituzioni, che prima cominciano ad esistere di fatto e solo più tardi entrano a far parte del diritto civile di Roma. Che anzi, dacchè sono in quest'ordine di idee , aggiungerà ancora che il concetto dell'ager occupaticius già erasi formato anche prima delle occupazioni del patriziato sull'ager publicus. Lo dimostra Festo, vº Occupaticius, ove scrive: < occupaticius ager dicitur qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur ». (Bruns, Fontes, pag. 348, la qual deffinizione dimostra che anche fuori dell'ager publicus poteva formarsi l'ager occupaticius, il quale perciò differisce dall'occupa torius. 88 71. Intanto è sempre da questo ager publicus, che ricavansi eziandio gli assegni, che si sogliono fare alle colonie , alle città benemerite del popolo romano, e infine alle stesse provincie. Trattandosi di colonie , questi esemplari di stabilimenti che Roma crea a somiglianza di sè stessa , traendone la popolazione dal proprio seno, si applica quel medesimo sistema, che si applica per la popo lazione della città , il sistema cioè delle adsignationes viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia, ed hannosi così quegli agri, che gli agrimen sori chiamano divisi et adsignati, i quali sono fuori di Roma una imitazione di quegli assegni di piccoli heredia, che facevansi un tempo ai cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città benemerita , a cui il senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di soddisfazione ed un cor rispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi l'ager mensura comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà collettiva ad una città , non è determinato che nella sua generale misura. Infine se trattasi di delimitare in modo almeno generico i confini del territorio di una popolazione si ricorre alle indicazioni delle valli, dei fiumi, dei torrenti, delle grandi strade, dell'acqua pen dente , a quelle indicazioni insomma, che in un periodo ancora molto remoto serviranno poi ad indicare il territorio , che dalla natura stessa sembra essere segnato ai singoli stati e alle nazioni, e si avrà così quell'ager , che gli agrimensores chiamano arcifinius (1). Infine anche nelle porzioni di agro pubblico , che sono vendute all'incanto o date in affitto (ager quaestorius,ager vectigalis), pos sono esservidelle parti,che, per essere scoscese o sterili, non possono trovare da sole nè compratori, nè affittavoli , e in allora questi siti si aggregano a quelli, che già furono venduti o a quelli dati in af fitto « in modum compascuae » , il che significa che essi , a somiglianza dei primitivi compascua, si ritengono appartenere per la proprietà o per il godimento ai più vicini fra quelli, che hanno comprato od affittato gli altri. Di qui la creazione di una specie di proprietà o dipossessione privata , con pertinenze consistenti in pascoli accessorii, la cui proprietà e il cui godimento possono dare occasione a ques tioni fra i giureconsulti per vedere se , vendendosi od affittandosi il fondo principale senza parlare del pascolo accessorio , anche questo debba ritenersi compreso nella vendita o nell'affittamento , sul che (1) V. Frontinus, De agrorum qualitate et condicionibus , lib. I, 1, 2 , 4 , 5 . BRUNS, Fontes, pag. 411. 89 i giureconsulti risponderanno affermativamente, quando non consti dell'intenzione contraria dei contraenti (1) . 72. Pongasi infine, e anche quest'ultima supposizione è stata una realtà , che la piccola tribù del Palatino,mutatasi poi nella città dei sette colli, divenga conquistatrice dell'universo allora conosciuto, e quindi anche legislatrice del suo suolo; ma essa continuerà pur sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande, entro l'Italia e fuori di essa , nella proprietà e nel possesso , nel territorio italico e nel suolo pro vinciale, quei concetti, che ebbe ad applicare nelle proprie origini, e che noi abbiamo dimostrato essersi già preparati in un periodo anteriore alla formazione stessa della città . Certo questi sono svolgimenti logici, che precorrono la serie dei fatti, ancorchè siano fondati sopra di essi; ma non sono inopportuni per mettere ordine in una materia , che le minute indagini hanno tal volta resa intricatissima, e dånno anche un esempio sensibile del pro cesso semplice, ma sempre logico e coerente , che Roma ebbe ad applicare non solo nell'estendere il concetto della sua proprietà a tutto il territorio da essa conquistato ,ma anche nell'estendere la sua cittadinanza e l'impero della sua legislazione al mondo allora cono sciuto . Sono i grandi popoli che con mezzi semplici e pressochè tipici applicati in proporzioni e in condizioni diverse sanno conse guire i grandi effetti. È questo un esempio di quella dialettica po tente e pressochè celata , che senza apparire negli scritti dei giure consulti, i quali sembrano talvolta smarrirsi nei casi singoli e nelle fattispecie , trovavasi tuttavia nei loro intelletti, ed era certo nella mente del popolo da essi rappresentato . Più tardi non mancheranno le occasioni di scorgere altre applicazioni di questo processo dialet tico , che, mentre non appare allo sguardo, stringe però con una coerenza meravigliosa le parti più disparate della giurisprudenza romana . (1) V. Higinus, 117. « In his igitur agris quaedam loca , propter asperitatem aut sterilitatem , non invenerunt emptores ; itaque in formis locorum talis adscriptio facta est in modum compascuae ; quae pertinerent ad proximos quosque possessores, qui ad ea attingunt finibus suis » . Bruns, pag. 414 . Frontinus poi, De controversiis agrorum , soggiunge: « Nam et per haereditates aut emptiones eius generis (pascuo rum ) controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur ». Bruns, pag. 415. È da vedersi a proposito di tali controversie lo scritto del Brugi, Dei pascoli acces sorii a più fondi alienati . Bologna, 1886 . 90 - CAPITOLO V. I concetti fondamentali direttivi della vita pubblica e privata durante il periodo gentilizio . § 1 . Sguardo generale all'argomento . 73. In una organizzazione come quella che ho cercato di ricostruire, così nelle persone che entravano a costituirla , che nei territorii che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor di luogo il ricercare delle norme direttive della vita pubblica e privata , che potessero meritarsi il nome di leggi nella significazione, che noi sogliamo attribuire a questo vocabolo. Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato il vocabolo di legge e la significazione sua propria alla convivenza civile e politica . Senza negare che un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge direttiva delle cose umane dalla contemplazione dell'ordine, che governa l’universa natura, questo è certo che il vocabolo di legge, nella sua significazione originariamente romana, che poi fu adottata da tutti gli altripopoli, significa ormai« l'espressione di una volontà collettiva, che si imponga alle singole volontà indi. viduali » . Esso quindi suppone la distinzione fra l'ente collettivo ed i singoli, fra lo Stato organo ed interprete della volontà comune eimembri che entrano a costituirlo . È quindi inutile cercare delle leggi, nel senso proprio della parola, in un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo compie ad un tempo le funzioni domestiche e le funzioni politiche, e nel quale pertanto non si può rinvenire la di stinzione fra il tutto in sè e le parti, che entrano a costituirlo e neppure quella fra la vita pubblica e la vita privata . 174. Siccome tuttavia qualsiasi stadio di organizzazione sociale sup pone di necessità delle norme, che lo governino, cosi noi possiamo indurre, che queste norme non dovettero mancare nel periodo gen tilizio . Anzi si può anche aggiungere, che fra le varie forme di or ganizzazione sociale quella , che tende più di qualsiasi altra a strin gere in certe regole precise cosi i rapporti domestici, che quelli della vita esteriore, è certo la comunanza gentilizia , la quale, essendo esclusivamente fondata sulla eredità , finisce per trasmettere , di gene razione in generazione, non solo il sangue degli antenati, non solo 91 il patrimonio e il territorio da essi conquistato, ma anche il nucleo delle tradizioni dei maggiori. Si aggiunge, che al modo stesso che le genti, fisse nell'esempio dei proprii antenati, finiscono per mutarli in oggetto di culto , cosi anche le loro tradizioni tendono, non per impostura di uomini ma per un naturale processo di cose umane, ad assumere un carattere sacro e religioso, per cui qualsiasi atto anche meno importante finisce per acquistare una significazione re ligiosa. È questa tendenza , cheha condotto tutte le comunanze gen tilizie a diventare pressoché immobili e stazionarie, e che avrebbe prodotto forse il medesimo effetto fra le genti italiche, come lo pro dusse fra le genti indiane, che appartengono alla medesima stirpe , quando fra esse non si fosse formato un nuovo focolare di vita, che fu quello che brucid nel tempio di Vesta, cambiatasi in patrona della città (1) . Che anzi non dubiterei di affermare, che quello stesso spirito conservatore , che appare in Roma primitiva, sopratutto per parte del patriziato , non è che una trasformazione di questa ten denza naturale delle comunanze gentilizie a diventare immobili e stazionarie , quando sono pervenute a quel maggiore sviluppo, che può comportare il principio informatore di esse . Dal momento in fatti, che questa tendenza all'immobilità e a fare entrare ogni ele mento in quadri precisi, determinati dal costume e consacrati dalla religione, male può accomodarsi ad una città piena di vita , i cui elementi nuovi più non possono ad un certo punto entrare nei quadri antichi, è ben naturale, che la tendenza stessa riducasi a trapiantare nel nuovo terreno quanto più si possa dell'antico ordine di cose ed a lottare per la conservazione di esso , come chi è pro fondamente convinto di lottare per uno scopo religioso e santo . È questo culto del passato, che contraddistingue le genti italiche (1) È abbastanza noto come in quella guisa che la famiglia aveva per centro il focolare, che le serviva anche di altare, così la città aveva pur essa un pubblico focolare nel tempio di Vesta , la quale per tal modo di dea del focolare domestico venne a cambiarsi in custode e patrona del focolare della città. Questo invece è da essere notato, che le recenti scoperte intorno al locus Vestae hanno dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del Palatino presso il Foro e fuori della Roma quadrata ; il che serve a provare sempre più, che la vera città , di cui doveva essere centro il tempio di Vesta , non era già lo stabilimento romuleo primitivo , ma bensì la città dei Quiriti, che risultò dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa poi attigua altempio di Vesta dimorava, secondo la tradizione, il Re (domus regia Numae), il quale, come custode della città, doveva pur trovarsi nel centro di essa . Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag . 39. 92 dalle elleniche. Mentre queste colla loro intelligenza acuta e pro fondamente critica, appena ebbero analizzate le proprie tradizioni, rivestite anch'esse di carattere religioso , le abbellirono e trasforma rono colla propria fantasia e finirono per ridurle in frantumi, la credula e religiosa Italia invece colla sua intelligenza più tarda, ma colla sua volontà più tenace le conservo a lungo e potè cosi rica varne tutto il succo vitale, che contenevasi in esse (1). 75. Questo intanto è certo , che appena noi possiamo arrestare lo sguardo, non sulle gesta primitive delle genti italiche, che solo più tardi furono argomento di storia , ma sul linguaggio di esse e sulle traccie della loro civiltà , che sopratutto ci serbd il culto per i tra passati, noi riconosciamo immediatamente , che tutte le loro tradizioni, le cui origini sono celate in un remotissimo e misterioso passato , hanno già assunto un carattere sacro e religioso . Una religione, per nulla immaginosa ed estetica come la ellenica, ma eminente mente pratica ed applicata con cura minuta a tutte le emergenze della vita, ha già consacrato le basi della organizzazione gentilizia , per modo che le genti italiche, sempre occupate da divinità , che sovraintendono a ciascun atto della vita, cercano con tutti i mezzi di riconoscere i segni della benevolenza o malevolenza divina. Per gli atti della vita quotidiana questa volontà potrà essere indicata anche dai piccoli incidenti della vita ;mentre per i fatti di importanza mag giore per il gruppo, è la volontà del cielo, che deve essere consul (1) Osserva giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, pag. 72 « che mentre l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace di chiudersi nella stretta veste delle formole legali ; Roma invece possedette una delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di conformare il diritto ad un ideale sempre più elevato » . Del resto il primo, che con occhio veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei Greci e dei Romani, è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et fine uno. Proloquium . D'allora in poi il para gone non è più venuto meno. Lo fanno gli storici, come il Mommsen, il LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli studiosi della giurisprudenza comparata, comeil MAINE, op. cit ., il Freeman, Comparative politics, London , 1873, l'Hearn , Arian Household , London , 1879, il IHERING, L'esprit du droit Romain . Per maggiori particolari in proposito mirimetto al libro : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, . ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche prevalenti presso i due popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a dare alla religione, al diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche. Libro II, cap . I, pag . 85 e seg . - 93 tata . Di qui quella osservazione antichissima del volo degli uccelli, che è d'origine latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli animali da sacrifizio , che è di origine etrusca, e quel concetto per noi pressochè incomprensibile degli auspicia , che appartengono al magistrato e che danno al suo potere una consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo (1) . $ 2 . Del carattere religioso inerente ai concetti primitivi del mos, del fas e del jus. 76. Per attenersi tuttavia a quel complesso di norme, che riflet tono la vita pubblica e privata, intesa questa distinzione in un senso che possa applicarsi al periodo gentilizio , noi troviamo che anche in questa parte le genti italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a racchiudere le loro tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con vocaboli di significazione determinata , la cui semplicità primitiva sembra indicarne l'antichità remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli dimos, di fas e di jus, i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi con una significazione, che tiene del religioso e del sacro. Del mos infatti noi abbiamo una definizione conservataci da Festo : mos est institutum patrium , id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum . Qui è nota bile anzitutto la significazione larghissima, attribuita al vocabolo, per cui tutte le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo, come pure l'esplicazione che viene dopo, la quale , restringendo in appa renza il contenuto del vocabolo , indica in sostanza che la parte ( 1) V. BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la divination dans l'antiquité, IV, p . 180-183; e lo stesso autore, Institutions romaines , pag . 533 a 540. Questo ricorrere agli auspizii in ogni affare pubblico e privato è attestato da Servio, In Aen . I, 346: « Romani nihil nisi captatis faciebant auguriis et praecipue nuptias » , e da CICE RONE, De divin . I, 16 : « Nihil fere quondam maioris rei nisi auspicato ne privato quidem gerebatur , quod etiam nunc nuptiarum auspices declarant » . Per quello poi, che si riferisce agli auspicia , alle varie loro specie , alla procedura so lenne, da cui erano accompagnati, ed alla importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione, che fu anch'essa un effetto della formazione della città, non ho che a riferirmi alla trattazione magistrale del Mommsen, Le droit pubblic romain . Trad. Girard , Paris, 1887 , pag. 86 a 135. 94 prevalente nelle istituzioni dei padri era sopratutto quella, che si riferiva alla religione ed alle cerimonie di essa ( 1). Questo carattere religioso non ha poi bisogno di essere provato quanto al vocabolo di fas; poichè il fas delle genti italiche è para gonato dagli stessi scrittori latini alla Oeuis dei Greci, e col tempo fu questo vocabolo di fas, che, distinguendosi sempre più da ogni altro elemento estraneo , fini per significare quelle norme di carat tere esclusivamente religioso , che si riferiscono agli auspicia , al l'arte augurale ed alle cerimonie del culto ( 2 ). Infine i più recenti investigatori del significato primitivo del jus, quali il Leist, il Bréal, al quale aderisce anche il Muirhead, sareb bero diavviso , che il medesimo nelle proprie origini avesse eziandio una significazione religiosa . Cosi il Bréal ritiene, che il ious antico dei latini, cambiatosi poscia in ius, sia perfettamente conforme al iaus, che occorre nel sanscrito più antico , vocabolo, la cui significazione è alquanto vaga ed incerta, ma che egli ritiene essere quella di « volontà, potenza, protezione divina » (3). Questa primitiva signifi (1) Festo, vo Mos. È poi notabile come lo stesso Festo, confermando il carattere religioso , comune al mos ed al fas, definisca il ritus dicendolo un « mos compro batus in administrandis sacrificiis » . Bruns, Fontes, pag. 343. (2) Festo, v° Themin , scrive: « Themin deam putabant esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque id esse existimabant, quod et fas est ». Bruns, Fontes, pag . 372. Lo stesso concetto ebbe ad esprimere il poeta Ausonio , Edyl. 12 : Prima deum Fas Quae Themis est Graiis ..., Per altri passi è da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , I, pag . 102. È poi degno di nota, che nelle formole antiche occorre sovente la frase « secundum ius fasque » , la quale indica in certo modo il bisogno di dare al diritto anche l'appoggio del fas. (3) II BRÉAL trattò la questione in un suo articolo « Sur l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en latin » , pubblicato nella Nouvelle revue historique de droit Français et étranger, 1883 , pag. 603, la cui conclusione è la seguente : « Pour nous résumer, le droit, qu'on a appelé la création la plus originale du génie « latin , et qui a l'air de sortir tout d'une pièce de la tête des décemvirs, comme la « poésie épique de la tête d'Homère, a ses origines dans le passé le plus lointain ; « il est inséparable des premières idées religieuses de la race » . Questo è pure il concetto del LEIST, Graec. Ital. R. G., pag . 175 a 211. Il MUIRHEAD, Hist. Introd ., pag . 18 , segue l'opinione del Bréal. Parmi però, che questa etimologia non debba fare abbandonare intieramente quella dalla radice sanscrita < iu , che significa stringere, legare, unire, la quale indicherebbe la funzione, che il diritto compie di vinculum societatis humanae. Questo è certo , ad ogni modo, come nota il Bréal, che le parole mos, fas e ius debbono essere considerate come caposti pite, e quindi, più che derivare da altre, sono esse che diedero dei derivati, quali. 95 cazione del vocabolo spiega poi come tanto i Greci quanto i Latini attribuissero un carattere religioso e sacro al vóuoç ed alla lex , sebbene questi due vocaboli siano di più recente formazione, e ri tenessero la legge come un dono degli dei; come pure spiega quel sentimento , le cui traccie occorrono ancora in Roma, per cui si ama meglio di lasciar cadere in dessuetudine il diritto costituito, che non di abrogarlo espressamente . 77. Intanto questo carattere comune a questi diversi vocaboli e ai concetti inchiusi neimedesimi, conduce ad inferire, che dovette forse esservi tempo, in cui furono contenuti in qualche concetto più vasto e comprensivo, del quale essidebbono perciò considerarsi come specifi cazioni ed aspetti diversi. Questo concetto , secondo il Max Müller ed anche secondo il Leist, sarebbe stato dagli antichi Arii significato col vocabolo di rita , il quale esprime ora l'ordine che regge l'uni verso , col suo alternarsi del giorno e della notte , ed ora l'ordine stesso della natura, in quanto governa il generarsi, il crescere e il disparire degli esseri viventi (1). A questo vocabolo di rita corrispon dono perfettamente i concetti del ritus, del ratum e della ratio dei latini, ed anche quello , che essi indicano coll'espressione di rerum natura , per guisa che anche il concetto di « ius naturale » nel senso che ebbe ad essergli attribuito da Ulpiano di un « ius quod natura omnia animalia docuit » potrebbe rannodarsi a questi primitivi con cetti (2 ). Lo stesso Leist poi osserva, che al concetto fondamentale di rita o di ratio la sapienza antichissima degli Arii associa altri con sarebbero quelli di fari, iubere , iustitia, iudes , iurgium , iniuria e simili. Una trat tazione poi di questo elemento etico e religioso dell'antico diritto, sussidiata da una larghissima erudizione, occorre nel Voigt, Die XII Tafeln , I, cap . I, p. 97 a 125. ( 1) Leist, op . cit., pag . 187 . (2 ) Ciò confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut. Justin . II, 1, 12 , « palam est autem vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum natura prodidit: civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et civitates condi, et magistratus creari,et leges scribi caeperunt » . Questo è certo poi, che a questo diritto naturale primitivo anteriore alle leggi accennano soventi i poeti latini. Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic. Vol. I, in princ. Conviene quindi indurne che il concetto di un diritto naturale cominciò in certo modo ad essere sentito dall'universale co scienza , e solo più tardi diventò anch'esso argomento di una elaborazione filosofica , che si operò sopratutto in Grecia . V. in proposito la classica opera del Voigt, Das ius naturale, bonum et aequum et ius gentium der Römer, 4 vol., Leipzig , 1856-76 . - 96 - cetti, che sono espressi coi vocaboli di orata , a cui corrisponde il fas e il ratum dei latini, due vocaboli che sovente procedono uniti : di dhāma, che egli dice analogo alla Oeuis greca e infine quello di svadhā, che corrisponderebbe all'čnog od neos dei Greci e quindi anche al mos dei latini, mentre infine il concetto di dharma già si accosterebbe, quanto alla sua significazione, al vocabolo latino di lex , il quale sarebbe però sopravvenuto più tardi (1). 78. Parmi tuttavia che la parentela ed analogia fra questi varii concetti possa essere facilmente spiegata , quando si consideri che fra i latini il vocabolo di ratum e quello più astratto di ratio , si asso ciano talvolta al fas, al ius ed anche al mos. Si può quindi inferirne con fondamento, che il ratum , da cui derivò poi ratio , significava l'ordine, che governa il corso delle cose divine ed umane, mentre il fas, il mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti circondati da un'aureola religiosa , significherebbero i diversi aspetti, sotto cui si manifesta questa forza o volontà operosa , che muove e regge l'u niverso (2 ). Il fas quindisarebbe la stessa volontà divina, in quanto si estrinseca nei fenomeni della natura, ed è interpretata da coloro che sanno conoscerne il significato riposto. È quindi dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del culto, le quali sono appunto intese a rendere propizia agli uomini la volontà divina, e che presso le genti italiche assumono anche esse il carattere contrattuale del « do ut des » (3 ). Il mos significa la stessa volontà divina, ma non più in ( 1) Leist, Op. cit. e loc. cit. (2) Questo scindersi dal concetto primitivo appare nelle parole di Virgilio « Fas et iura sinunt» , che Servio commenta con dire « id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad religionem fas, ad homines iura pertinent » . In Aen . I, 269 (Bruns, Fontes, pag. 405). La parentela poi fra i vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata dal Leist con una quantità di passi da lui citati a pag. 199 dell'opera : Graec. It. R. G. ( 3) Ciò appare da tutte le formole primitive, che si indirizzavano agli dei di una città nemica , per ottenere che i medesimi abbandonassero la città stessa . V. HUSCHKE, Iurisp . anteiust. quae supersunt, pag. 11. Nota in proposito il Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, pag. 461, che il culto romano era una procedura del tutto analoga a quella delle « legis actiones > che i pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i Romani il sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la preghiera, che necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto è infallibile, se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal costume (rite ). Ciò significa che è per tal modo immedesimata coi Romani l'idea secondo la quale il diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo, che essi in ogni argomento scorgono una specie di contratto. - 97 quanto si rivela con segni, la cui interpretazione è lasciata ai sacer doti; ma bensì in quanto si palesa in quella tacita hominum conventio, che dà appunto origine al costume ed alla consuetudine . Infine il ius è sempre questa stessa volontà divina , ma in quanto viene ad essere interpretata e statuita espressamente dagli uomini, che ap partengono alla comunanza , nell'intento di provvedere alle esigenze della medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate propaggini diverse ; ma siccome esse continuano ancora sempre ad essere in comunicazione fra di loro , così è molto difficile il preci sare la significazione di ciascuna , sopratutto nel periodo geatilizio , allorchè vindice di questi varii aspetti della volontà divina era l'au torità patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. 79. È poi'degno di nota, che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si presentano come patrimonio esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò , che queste chiamano le usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con quello di usus; ed anche da ciò che la cognizione del fas e del ius fu per lungo tempo un privilegio del patriziato ed una causa della sua superiorità sopra la plebe. In ciò può con fondamento scorgersi una prova , che queste nozioni dovet tero elaborarsi in altro suolo ed essere trapiantate da genti migranti dall'Oriente sul suolo italico , ove hanno poiservito per l'educazione di stirpi, che si trovavano in condizioni inferiori di civiltà . Sebbene qui non possa essere il caso di cercare in quale ordine questi varii concetti siansi venuti formando, non è tuttavia inoppor tuno di avvertire, che, nelle origini, il primo a prodursi, almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere il mos, il quale, dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno delle co munanze patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si trasmette di genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e religioso . È poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una distinzione, in virtù della quale una parte di esso riceve una sanzione religiosa, e l'altra una sanzione giuridica , mentre una parte continua sempre ad avere un carattere puramentemorale e costituisce ciò che le genti latine chiamano i boni mores. Intanto egli è certo , che le genti italiche si presentano con questi varii concetti, già com piutamente formati, e che fra essi ha già acquistata una incontesta bile prevalenza quello del fas. Fu il fas, che primo ebbe a ricevere vera elaborazione e a concretarsi in certe massime, riti e pratiche, che tendono a diventare immutabili e ferme, come la vo G.CARLE, Le origini del diritto di Roma. 98 im lontà divina, di cui si ritengono essere l'espressione. È poi sotto la . protezione del fas, che si vennero elaborando i concetti del ius e e dei boni mores, al modo stesso che più tardi sarà sul modello del ius pontificium , che verrà a formarsi il ius civile. Quasi si direbbe che, mancando ancora un'autorità abbastanza salda per porsi alle passioni dell'uomo in un periodo di lotta e di violenza , siasi sentita la necessità di porre sotto la protezione divina anche quelle regole, che appariscono indispensabili per il mantenimento della convivenza sociale . Intanto queste considerazioni intorno ai concetti fondamentali, che costituiscono il substratum della sapienza popolare delle genti ita liche, ci preparano la via a comprendere il processo storico, secondo cui venne svolgendosi ciascuno di essi. $ 3. — Il fas e il mos e la loro importanza nel periodo gentilizio . 80. Il vocabolo di fas esprime per le genti italiche, ciò che i Greci, più fantastici ed immaginosi, giunsero perfino a personificare nei concetti di Themis ,Nemesis , Adrasteia (1). Esso è l'espressione della volontà divina, in quanto impone e regge l'ordine delle cose divine ed umane, e vendica in modo irresistibile le violazioni, che l'uomo rechi al medesimo colle proprie azioni. Nel fas pertanto non è solo compresa una parte , che si riferisce ai riti e alle cerimonie del culto, ma una parte eziandio , che contiene delle norme che ri guardano l'umana condotta. Che anzi, siccome la riverenza per la divinità non è propria di questa o di quella gente, ma è comune alle varie genti, cosi è anche sotto la protezione del fas, che si trovano tutti quei rapporti fra le varie genti, senza di cui sarebbe stato impossibile, che esse potessero entrare in comunicazione le une colle altre. È quindi il fas, che determina i modi in cui debba es sere dichiarata una guerra, e copre della sua protezione coloro, che sono inviati a trattare le alleanze e le paci. È esso parimenti che dà un carattere sacro a quell'istituzione dell'ospitalitá (hospi tium ), che ebbe un così largo sviluppo presso le genti primitive , e che poi ricompare, come hospitium publicum , dopo la formazione ( 1) Per una più larga prova di questa analogia, vedi CARLE, La vita del di ritto, pag . 111 , cogli autori ivi citati. 99 della città, come pure è il fas che consacra le obligazioni, che inter cedono fra il patrono ed il cliente . È esso, che condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze incestuose, il falso giuramento e il venir meno ai voti fatti alla divinità , e alle promesse, che sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno straniero. Esso in somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i membri della famiglia , quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie tribù ; donde la conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti fondamentali fra il patriziato e la plebe, questa per assicu rarne l'adempimento non trovò altro mezzo , che di porre i medesimi sotto la protezione di quel fas, che esercitava tanto impero fra le genti patrizie, come lo dimostra il concetto ispiratore delle cosi dette leges sacratae (1). 81. Chi poimanchi a questo complesso di norme, sopratutto allorchè lo faccia di proposito (dolo sciens), mentre offende gli uomini reca pure offesa alla divinità , e quindi deve espiare il proprio fallo ,me diante certi sacrifizii, le cui traccie occorrono ad ogni istante nel ius pontificium e negli scritti dei più antichi giureconsulti, che si erano formati sullo studio di esso ; i quali sacrificii prendevano il nome di piacula, e dovevansi anche fare, allorchè altri cadeva in fallo per semplice imprudenza (imprudens). Di qui si raccoglie, che già dall'epoca più remota , a cui rimontino le tradizioni, trovasi la distinzione, almeno fra le genti patrizie, fra colui che abbia compiuto un delitto di proposito (dolo malo , dolo sciens, prudens), e quello invece, che l'abbia compiuto solo per imprudenza (imprudens), nel che si avrebbe una prova, che queste genti già erano pervenute a tale da analizzare l'atto umano e scrutare perfino l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il diritto quiritario abbia dovuto fare un passo in dietro , come quello che doveva applicarsi a classi, che non erano tutte giunte allo stesso grado di sviluppo ( 2). Che se il fallo sia tale ( 1) Sul carattere delle leges sacratae è da vedersi la dissertazione del Lange, De sacrosanctae tribuniciae potestatis natura, eiusque origine. Lipsiae, 1883. Sono poi diversissime le guise, mediante cui le promesse, che non avevano ancora san zione giuridica , si mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò serviva il giuramento, la cui larghissima applicazione, nel periodo storico , appare dal dili gente lavoro del Bertolini, Il giuramento nel diritto privato romano. Roma 1886, Cap. II, pag. 43 a 78 . (2 ) Cid è dimostrato dal fatto , che la distinzione fra l'omicidio commesso di pro posito e quello commesso per imprudenza già occorre nelle leges regiae attribuite 100 da non potersi espiare in questa guisa , in allora il reo viene assogget tato ad una specie di espiazione sacrale , la cui forma tipica consiste nella capitis sacratio . Questa doveva essere pena gravissima durante il periodo gentilizio, poichè il colpevole veniva con essa ad essere sot toposto ad una specie di scomunica religiosa e domestica , che lo stac cava dal gruppo gentilizio, di cui faceva parte, e lo poneva in certo modo fuori delle leggi divine ed umane, per guisa che sebbene il sa crifizio della sua vita non potesse essere accetto agli dei, esso poteva perd essere ucciso impunemente da chicchesia . Di qui il carattere di espiazione sacrale , che informa ancora tutto il diritto penale pri mitivo di Roma, durante il periodo esclusivamente patrizio, come pure i vocaboli e i concetti di expiatio, supplicium , di consecratio bonorum , di interdictio aqua et igni, i quali confermano l'osser vazione del Voigt, secondo la quale le primitive genti patrizie avrebbero ravvisato nei delitti più un'offesa alla divinità , che non agli uomini, a differenza delle plebi, che risentivano di preferenza l'offesa e il danno materiale ( 1) . Non potrei quindi ammettere l'opinione di coloro, i quali, suppo nendo le genti italiche in una condizione del tutto primitiva e come nella loro infanzia, mentre sotto un certo aspetto erano già nella loro età matura , vogliono ad ogni costo trovare nel diritto penale pri mitivo di esse le traccie della vendetta privata . Se cið intendasi nel senso che erano i singoli capi di famiglia, che dovevano essere essi i vindici del proprio diritto e proseguire le offese, che loro fos sero recate, in mancanza di un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può essere facilmente ammesso . Che se invece si intenda che nella stessa comunanza gentilizia dovessero spesseggiare le rea zioni violente e le vendette, cio più non può conciliarsi col rat tere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già regolato dalla a Numa. V. Bruns, Fontes, pag. 10. Tale distinzione poi incontrasi frequentemente in ciò , che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei veteres iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio Scevola , i fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero espiarsi colla piacularis hostia , quando fossero com piuti per imprudenza ; mentre non ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal seguente passo tolto da VARRONE, De ling . lat., 6 , 4 , § 30 : « Praetor, qui diebus fastis tria verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari hostia piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse » . Altri esempi occorrono in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup ., pag. 15 . ( 1) Voigt, XII Tafeln . I, pag. 484. 101 religione e dal costume. Non potrebbe certo affermarsi che anche le genti italiche non abbiano attraversato uno stadio, in cui dovette dominare la forza, la vendetta e la privata violenza ; ma l'organiz zazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa erano già un mezzo per uscire da tale condizione di cosa . Quindi, se si deve giu dicare dal diritto primitivo di Roma patrizia , sarebbero così poche le traccie , che rimangono in esso della privata vendetta , nel senso che suole attribuirsi a questo vocabolo, da doverne inferire che nel pe riodo gentilizio la religione, compenetratasi in ogni atto della vita , ne aveva già cacciata la vendetta ed aveva esclusa perfino la com posizione a danaro , almeno nella cerchia delle genti patrizie. Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e la figlia adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante ), o contro il ladro, egli lo fa più come giudice e come investito di un carattere sacerdotale, che non come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e della vendetta . La religione ha già incatenato le passioni dell'uomo, ed è solo più fra la plebe, che ancora si trovano le traccie della privata vendetta e della composizione a danaro , le quali poi ricompariscono in qualche parte nella legislazione decemvirale , come quella che era comune ad entrambe le classi (1). (1) Fra gli autori, che cercano di dare una larga parte alla privata vendetta nel primitivo diritto Romano, havvi il MUIRHEAD , Hist.introd., pag. 52. Egli argomenta da ciò , che colui il quale commetteva un omicidio per imprudenza doveva fare l'of ferta di un ariete agli agnati dell'ucciso ; da ciò che il vendicare la morte di un congiunto ucciso era un dovere per i superstiti per acquetare i mani di lui ; dal diritto del padre e del marito di uccidere la figlia o la moglie sorprese in adulterio unitamente all'adultero; dal taglione, le cui traccie ancora rimangono nella legisla zione decemvirale, e perfino dal diritto del creditore di chiudere nel carcere privato il debitore, chemancasse ai proprii impegni. Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece la preponderanza dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il diritto decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe, presso la quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata vendetta, il taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du droit Romain . Trad. Meulenaere. Paris, 1880, I, pag. 131 a 168, ove discorre della giustizia privata e delle forme, con cui essa era esercitata . Finchè quindi si dice, che sono i singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto, di cui furono vittima, si afferma una verità indiscutibile; ma ciò non deve più confondersi coll'esercizio sregolato di una privata vendetta, che non prende norma che dalla violenza della passione, dal mo mento che la religione e la consuetudine già hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve attenersi per ottenere soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che l'organizzazione gentilizia aveva appunto per iscopo di porre termine alla pri vata violenza fra coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù . 102 82. Accanto però a queste regole dell'umana condotta , che già sono munite di sanzione religiosa , sonvene delle altre che, appoggiate unicamente al costume, costituiscono, per cosi esprimerci, una specie di morale primitiva . Esse vengono indicate col vocabolo di mos patrius, di mores maiorum , di boni mores, e costituiscono un complesso di norme direttive della pubblica e privata condotta , le cui traccio si trovano più tardi ancora nel iudicium demoribus, at tribuito al Pretore , e sopratutto nel regimen morum , affidato alla custodia dei censori. Anche questi mores maiorum si sono venuti formando durante il periodo gentilizio , nella cerchia sopratutto delle familia e delle gens, e sono quelli, a cui deve essere attribuito l'obsequium e la reverentia verso gli ascendenti, la pudicitia delle mogli e il mantenimento della fides , anche per quelle promesse, che non fossero munite di sanzione giuridica e che fossero fatte anche ad uno straniero (1) . Erano questi boni mores, che da una parte contenevano in certi confini il potere delle varie autorità , le quali, giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine ; e che dal l'altra colpivano colla sanzione efficace della disistima generale della comunanza coloro , che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti di sanzione giuridica . Così, ad esempio , furono i bonimores, che ancora molto più tardi condussero l'opinione pubblica dei citta dini Romani a condannare al disprezzo quei prigionieri di Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione del ritorno, credettero di libe rarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di ritornare imme diatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la loro (1) Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro , allorchè scrive : Etiam hosti est aequus, qui habet in consilio fidem . Del resto sono diversissime le guise, con cui i poeti esprimono l'efficacia moralmente obbligatoria delle promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani generis , del foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione privata, il concetto della casta fides, quello della santità inerente alle parole, in quanto che .. immutabile sanctis Pondus inest verbis; concetto che trovò poi la sua espressione giuridica nell' « uti lingua nuncupassit, ita ius esto » . Così pure nell'Andria di Terenzio trovasi elegantemente espresso il concetto, che l'obbligazione è un vincolo che la volontà impone a se stessa colle parole : ..... coactus tua voluntate es; ..... concetto che trovò pur esso forma nell'assioma giuridico : « quae ab initio sunt vo luntatis ; ex post facto fiunt necessitatis » . Per altri esempi può vedersi l'HENRIOT, Meurs juridiques et judiciaires, I, pag. 439 , e III, in princ. • . -- 103 promessa. Del resto è sempre questo concetto del buon costume, che tornerà poi a penetrare, per opera della classica giurisprudenza,nella compagine soverchiamente rigida del diritto civile romano, come lo dimostrano le considerazioni di ordine morale, che talvolta occorrono nei grandi giureconsulti, l'influenza che esercitò mai sempre l'existi matio anche sulla capacità di diritto , e l'introduzione dell'infamia , della ignominia, della levis nota, che danno in certo modo una configurazione giuridica alle varie gradazioni della publica disistima, in cui sia incorsa una determinata persona (1 ). Al qual proposito non sarà inopportuno di osservare, che quella separazione fra l'ele mento esclusivamente giuridico ed il morale, che tardò così lunga mente ad operarsi nella scienza, presentasi invece con una meravi gliosa nettezza nel diritto primitivo di Roma, il quale, dopo essersi separato dal fas e daiboni mores, continuò logicamente la propria via , e assunse così quel carattere di rigidezza e di logica pressochè inumana, che solo più tardi fu temperato nella classica giurispru denza, la quale di nuovo richiamò in esso quell'alito morale , da cui almeno in apparenza erasi dapprima compiutamente disgiunto (2). 83. Intanto , per ciò che si riferisce ai bonimores, non è più la religione, che si incarica di punirne le violazioni, ma sono i capi stessi dei diversi gruppi, che vegliano sovra quel retaggio del buon costume, che loro ebbe ad essere trasmesso dagli antenati. Sono quindi il padre nella famiglia, il consiglio degli anziani nella gente ed il magister pagi nella tribù , che sovraintendono almantenimento di questa morale primitiva ; mentre è poi la disistima generale della comunanza, che condanna al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano esercitato professioni ignominiose , o abbiano mancato alla fede promessa , o abusato del potere loro spettante , o abbiano infine commessa alcuna di quelle azioni, che , senza senza essere colpite (1) Cfr. Muirhead, Hist. Introd., pag . 31-34 . Basta leggere le commedie di Plauto, e fra le altre specialmente il Trinummus, per scorgere la significazione lar ghissima, che davasi al vocabolo di boni mores, e come fosse altamente sentita l'im portanza di essi di fronte alle leggi e l'impotenza di queste, quando quelli comin ciavano a venir meno . (2 ) Ciò verrà ad essere largamente provato , allorchè si parlerà della formazione del ius Quiritium , e si dimostrerà come il medesimo sia dovuto ad un ' astrazione potente, mediante cui si riuscì ad isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini. 104 dalla sanzione religiosa o giuridica, incorrono però nella disappro vazione generale . Se il modo in cui formasi questa generale opi nione e l'influenza , che essa esercita, male possono scorgersi ancora in una grande città, in cui già scomparve ogni traccia della vita patriarcale, possono invece essere anche oggidi facilmente compresi quando si arresti lo sguardo ad una comunanza di villaggio, ove tutti si conoscono e debbono necessariamente essere in rapporto fra di loro, ed ove le colpe dei padri pesano più duramente sulla riputa zione dei figli. § 4. – Le origini del ius nel periodo gentilizio . 84. Se ora si vogliano cercare le origini del ius nel periodo gentilizio , apparisce fino all'evidenza, che fu soltanto , collocandosi in un posto intermedio , fra il fas da una parte ed i boni mores dall'altra , che potè riuscire e farsi strada quel ius, che doveva poi ricevere cosi largo sviluppo durante il periodo della comunanza ci vile e politica . Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di agire, che, per essere costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per acquistare un carattere pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi in una determinata condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos propriamente detto, ma a quella for mazione giuridica, che viene poi ad essere indicata col vocabolo ef ficacissimo di consuetudo, il quale in certo modo contiene in sè la propria deffinizione (1). Colui che manca a queste regole non offende solo la divinità e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad obbligazioni, che sono imposte dalla convivenza, cui appar tiene e si sottrae cosi alle esigenze della vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali viene così formandosi una categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in seconda linea l'offesa alla religione ed alla morale, mentre viene ad essere evidente sopratutto l'offesa (1 ) Servius, In Aen . 7.601: « VARRO valt morem esse communem consensum omnium simul habitantium , qui inveteratus consuetudinem facit » . Del resto questo passaggio del costume, che ha carattere morale , in consuetudine, che ha carattere giuridico, è indicato anche da molti passi dei classici giureconsulti, che possono trovarsi raccolti nell'Heumann, Handlexicon zu den Quellen des römisches Rechts. Jena, 1879, Va Mos e Consuetudo. - 105 alla comunanza , a cui altri appartiene e il danno che vengono a soffrirne gli altri membri della comunanza (1 ) . Di qui la conseguenza, che comincia già ad operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, comeuna specie di selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono sceverando alcuni, che assumono il carattere giuridico propriamente detto . Na turalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre, fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche, religiose e civili ad un tempo; ma intanto già comincia ad avvertirsi il carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli puramente morali e religiosi, per ot tenere l'adempimento dei quali non può più bastare una sanzione meramente religiosa , né la disistima generale , ma vuolsi una specie di sanzione coattiva da parte della intiera comunanza e dell'autorità che la governa. Al modo stesso , che già fra le genti e le tribù si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei conciliabula , quei fora , che sono il primo nucleo , intorno a cui verrà poi a svolgersi l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una con vivenza , i cui precetti hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già cominciano a presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico . Che anzi, per continuare nello stesso pa ragone, al modo stesso che la città, limitata dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi ad essere il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e viene infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private , e a sot trarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche (1) Questo concetto , per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo , ma reca un danno alla intiera comunanza , che ora noi diremmo danno sociale , è un con cetto profondamente sentito dai Romani primitivi, il quale ebbe ad essere variamente espresso dai poeti latini. Basti riportare dall'Henriot, op. cit ., vol. III, pag. 10 e segg. questi versi di Pubblio Siro : Multis minatur, qui uni facit iniuria : Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus ; Omne ius supra omnem iniuriam positum est ; e quello di Orazio : « nam tua res agitur, paries quum proximus ardet » , come pure le frequenti scene di Plauto e di TERENZIO, in cui una persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio e chiede aiuto con formole, che hanno una precisione giuridica : « Obsecro vos, populares, ferte misero atque innocenti auxilium » , ovvero : Obsecro vestram fidem , subvenite cives » . - 106 - questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul fas, viene col tempo accrescendosi sempre più , e richiamando a se una quantità di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non avevano che un carattere religioso e morale . Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a spese degli elementi, da cui si è staccato; quando poi sentesi forte abbastanza per procedere per proprio conto , afferma senz'altro la propria indipendenza, e assume, per opera sopratutto dei Romani, un processo tutto speciale nel proprio svolgimento , che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per qualche tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricavò il suo primitivo nutrimento . Quel carat tere pertanto di rigidezza , che suole condannarsi nel diritto primi tivo dei Quiriti, è la miglior prova della sua potenza ed energia ; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto a tale da potersi svolgere senza più tener conto delle considerazioni reli giose e morali, al modo stesso che la città, teatro del suo svolgi mento, ormai era pervenuta a tale da cercare ancor essa di spo gliarsi di ogni traccia della influenza gentilizia e patriarcale. 85. Questo è poi degno di nota , che anche quando il ius viene ad affermare la propria esistenza separata continua pur sempre a svolgersi sotto due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui esso ebbe a derivarsi. Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo modo di imitare la solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere rivestito della forma di lex ; quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato , dà una forma solenne ed espressa alla propria volontà (iubet atque constituit) , creando cosi il ius legibus introductum . Intanto si mantiene sempre un altro aspetto del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si manifesta nella formazione lenta delle proprie consuetudini, che i Romani conside ravano come il frutto di una tacita civium conventio ( ius moribus constitutum ). Ad ognimodo però il ius, prenda esso il carattere di una regola , che il popolo pone a sè stesso, o di una norma, che for misi tacitamente nel costume, è pur sempre il frutto di un ac cordo espresso e tacito dei cittadini, e deve essere considerato come l'espressione di una volontà comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui. Finchè esso è in via di formazione può essere argomento di discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno solenni del popolo, che chiamansi contiones ; ma allorchè la - -- 107 legge viene ad essere posta e costituita con quei riti solenni, che accompagnano i comizii, la vox populi viene ad essere considerata come vox dei, e debbono ubbidirvi tutti coloro, che cooperarono a formarla , non eccettuati quelli che erano di avviso contrario . Vi ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se ne delinea ben presto un altro , per cui distinguesi una parte del diritto , che si riferisce all'interesse generale della comunanza, e chiamasi ius publicum ; e una parte invece, che si riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e delli individui, che entrano a costituirla , e chiamasi ius privatum . Il primo si forma sulla piazza e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie classi, lascia le sue traccie nella storia politica della città, e si esplica mediante gli accordi e le transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe; mentre l'altro viene elaborandosi pressochè tacitamente nella coscienza generale del popolo, e trova i suoi interpreti nei pontefici dapprima e nei giu reconsulti più tardi. Intanto però l'uno e l'altro sono in certa guisa atteggiamenti diversi di un medesimo diritto, in quanto che il di ritto pubblico è in certo modo il palladio , sotto la cui protezione può nascere e svolgersi il diritto privato (1). 86. Insomma al modo stesso , che l'urbs fu il frutto di una lenta formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle abitazioni pri vate gli edifizii aventi pubblica destinazione, e che il formarsi della civitas e del populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi di tutti gli uomini (viri) che col braccio o col consiglio potevano provve dere alla difesa ed all'interesse comune ; cosi anche la formazione del diritto primitivo deve essere attribuita ad una specie di elabo razione, che venne operandosi nella coscienza generale di un po polo, e all'attrito dei varii elementi, che entravano a costituirlo , (1) È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto pubblico e privato, il Savigny, Sistema del diritto privato romano, vol. 1', $ IX , trad. Scialoia, pag . 48 e segg. Sopratutto importa il notare, che il diritto pubblico e il privato, nel concetto romano, sono due atteggiamenti diversi del medesimo diritto (duae positiones), e non deve essere dimenticato il detto, che Bacone certo ricavò dallo spirito del diritto romano, secondo cui « ius privatum sub tutela iuris publici latet », De augm . scient., lib . VIII, proem . al trattato de iust. univ., afor. 3. Quanto alle altre suddistinzioni, che presentansi nel campo del diritto, è da consultarsi il Voigt, Die XI] Tafeln , I, pag . 115 a 124, come pure lo stesso autore, Das ius naturale, gentium etc. Leipzig , III, A , pag. 347. 108 mediante cui da tutti gli elementi etici e religiosi, che già si erano formati durante il periodo gentilizio , si vennero sceverando tutti quelli , che potevano ritenersi indispensabili per il mantenimento della convivenza civile e politica. La città insomma che, piccola dapprima e limitata a pochi edifizii, si venne però sempre ingran dendo a spese delle comunanze di villaggio, che erano entrate a costituirla , deve essere considerata come il crogiuolo , in cui si get tarono indistintamente tutti gli elementi della vita patriarcale, per sceverarne ed isolarne quella parte, che aveva un carattere essen zialmente giuridico , politico e militare. Fu questa una specie di chimica scomposizione, che un popolo mirabilmente atto a sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in esso si presenti di giuridico, e a concretarlo in forme tipiche e precise, venne in certo modo com piendo a benefizio del genere umano. Espresse quindi una grande verità il poeta coll'esclamare : Fuit sapientia quondam Publica privatis secernere sacra profanis (1); poichè tale veramente fu il compito delle città primitive e quello sopratutto di Roma. 87. Il nucleo di questi precetti, di carattere esclusivamente giuri dico , fu dapprima assai scarso , e si ridusse a quel poco che una città , ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad un'organizzazione come la gentilizia , che ancora aveva tutta la sua vitalità ed energia . Poscia però col crescere della città , coll'estendersi delle sue mura , col fondersi insieme degli elemeuti, che entravano a costituirla , coll'in corporarsi di nuovi elementi nel populus , quel ius, che prima aveva solo una posizione subordinata , si cambiò invece in tutore e custode della vita pubblica e privata , e fu riconosciuto come sovrano nel seno della comunanza civile e politica. Fu allora che, consapevole della propria forza e dell'ufficio , che gli era affidato , si riaccostò di nuovo a quell'elemento religioso e sopratutto etico , da cui aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel periodo della propria formazione non riconosceva più altra guida, che una logica esclusivamente giu ridica (iuris ratio ) . Di qui intanto deriva la conseguenza, che Roma, pur ricevendo ( 1) HoR ., Ars poetica . 109 le proprie istituzioni dal passato , ci fa però assistere alla formaz one lenta e graduata di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze della convivenza civile e politica , e differenziandosi sotto molteplici aspetti. Questo diritto tuttavia può essere logicamente spiegato in tutto il suo processo , ed anche nelle distinzioni che comparvero in esso , in quanto che è stato veramente una costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che venne svolgendosi « rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente » . 88. Che questo sia stato veramente il processo , con cui si esplicó il diritto in Roma, risulterà poi con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non occorre altra dimostra zione. Bensi importa, ed è assai più difficile determinare, quali siano i rapporti, che primi ebbero ad assumere un carattere giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presentó questo primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo nelle mura domestiche e nel seno della fa miglia la religione comune, la riverenza verso il proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere pressochè senza confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o consesso di parenti, da cui egli è circondato , creano un'organizzazione di tale natura, che può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di ri correre al diritto propriamente detto . Che anzi, se il diritto cer casse di penetrare nelle mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe ciò come una violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria autorità , come lo dimostra ancora il padre dell'Orazio , uccisore della sorella, allorchè osserva che se il proprio figlio non avesse a ragione uccisa la sorella (iure caesam ) sa rebbe toccato a lui di provvedere (1). Se quindi la moglie, i figli, gli schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal costume e con sacrati dalla religione, sarà il padre stesso , che sarà vindice dei loro (1 ) Liv., Hist., I, 24. Di qui si può' raccogliere, come non possa ammettersi l'o pinione di coloro , i quali vorrebbero senz'altro attribuire ai re, come primimagistrati di Roma, la giurisdizione per giudicare di qualsiasi misfatto. V. CLARK's, Early roman law , pag. 54 - 108. Deve invece ritenersi a questo riguardo col MuiruEAD , Histor. Introd ., pag. 69 e seg., che la giurisdizione criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi frammezzo alla giurisdizione dei capi di famiglia , e a quella che apparteneva alle singole genti, quanto ai delitti , che erano commessi da membri, che entravano a costituirle. 110 falli , salvo che in certi casi di maggior gravità , come quando trat tisi della moglie adultera , non stata sorpresa in flagrante, egli dovrà circondarsi del tribunale domestico e pronunziare la condanna, dopo averne sentito l'avviso . Allorchè poi l'azione, che recò danno altrui, sia stata compiuta da un altro capo di famiglia, o da persona soggetta al potere del medesimo, sarà fra i due capi di famiglia, che la questione dovrà essere risolta , e se quest'ultimo non intenda di riparare il danno arrecato dal suo dipendente, non avrà nulla di ripugnante al modo di pensare dell'epoca , che egli consegni la per sona, che ha recato il danno, al capo di famiglia, che ebbe a soffrirlo, mediante l'antichissimo istituto delle noxae deditio (1). Cosi pure (1) È noto a questo proposito come nell'antico diritto, distinguasi fra noxia e noxa, per cui mentre il vocabolo noxia in sè avrebbe significato il danno, veniva anche dai poeti adoperato per significare la colpa , mentre il vocabolo noxa si adope rava per significare il peccato, il delitto, ed anche la pena di esso ; donde la espres sione di noxae deditio , la quale trovava poi una larga applicazione, tanto nei rap porti fra i capi di famiglia , quanto eziandio nei rapporti fra le varie genti e tribù, come si vedrà trattando del ius pacis ac belli nel periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes, pag. 346). Intanto dalla estesa comprensività del vo cabolo di noxa o di nocia , nella sua significazione primitiva , parmi di poter infe rire con fondamento, che nelle origini uno stesso vocabolo significò ad un tempo la colpa , che cagionava il danno, e il danno, che derivava da essa , e che non dovette esservi distinzione fra colpa e danno di carattere civile e colpa e danno di carattere penale, come neppure dovette distinguersi fra colpa contrattuale ed extra-contrat tuale od aquiliana. I concetti e i vocaboli sono sinteticamente potenti nel diritto primitivo, sopratutto romano , ed è solo col tempo, che in essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che costituiscono poi altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto fondamentale. Un altro carattere del diritto primitivo si è anche questo, che esso prende di regola le mosse da un vocabolo di significazione mate riale, e poi gli attribuisce una significazione sempre più estesa e perfino traslata . Abbiamo un esempio di ciò nel vocabolo rupere, che nella sua significazione primi tiva dovette certo significare il rompere materialmente un membro, od altra cosa ; ma fu poscia recato ad una significazione traslata , attestataci da Festo , per cuiru pere significa damnum dare, al modo stesso che rupitias e ruptiones finiscono per significare ogni maniera di danno. È uno dei processi più consueti nel diritto primi tivo di Roma, quello per cui una volta formato un concetto od un vocabolo giuridico non si teme di estenderlo a tutte le configurazioni affini. Come si estese il parrici dium ad ogni uccisione di un uomo libero, il che si vedrà più sotto ; così il membrum rupere o la rupitias, essendo stato il danno, che prima ebbe ad essere configurato giuridicamente, passò poi ad indicare qualsiasi danno. Rimando in proposito al dot tissimo lavoro del collega G. P. Cuironi, La colpa nel diritto civile odierno. Torino, 1887, 2 vol. Di quest'opera credo di poter dire, senza offendere la modestia dell'a mico, che servirà a rimettere in onore fra noi quel mirabile magistero, che ha fatto la - 1 - 111 gli è tenendo conto della posizione rispettiva , in cui in questo pe riodo si trovano due capi di famiglia , che si può comprendere il nascere e lo svolgersi di certe procedure, che più tardi appariscono strane e pressochè incomprensibili. Tale è, per dare un esempio, quella del furtum lance lincioque conceptum , in cui abbiamo un capo di famiglia, che ricercando una cosa statagli derubata può ottenere di entrare nella casa del vicino , in cui teme sia stata nascosta; ma cid a condizione di fare anzitutto una libazione propiziatoria ai lari della casa , in cui egli si inoltra, il che è dimostrato dal piatto, che egli tiene fra mano (lance), e intanto deve stringersi la persona con un cingolo (lincio ), che gli impedisca di nascondere qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa perquisizione domiciliare dovesse per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al cubiculum della moglie, con che però il capo di casa giurasse che nulla di deru bato vi era stato nascosto (1). Del resto in questa primitiva condi grandezza della giurisprudenza romana, secondo cui, una volta che si è formata una configurazione giuridica , la medesima non deve più essere perduta di vista nelle in definite trasformazioni e distinzioni, che pud subire nelle vicissitudini delle legisla zioni e della giurisprudenza , ma deve sempre essere richiamata alle proprie origini e seguita nella sua dialettica fondamentale . L'autore tratta dei concetti di rupere, di rupitias, di culpa nel primo volume della 2a parte, cap . I, § 1°, della lex Aquilia , pag. 6 e segg. (1) L'Esmein in un suo recente scritto col titolo: La poursuite du vol et le serment purgatoire, trova le traccie di una procedura analoga a quella, che seguivasi per il furtum lance lincioque conceptum , anche presso il popolo di Israele nel fatto di Rachele, che avendo sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi nascosti sotto le coperte del cammello , sovra cui essa si era seduta; come pure nel fatto narrato da MACROBIO , Saturnalia , I, 1, cap. VI in fine, ove si narra di un Tremellio, a cui sarebbesi imposto il soprannome di Scrofa , perchè avendo rubata una scrofa uccisa, aveva poi fatto sedere sopra di essa la propria moglie, e aveva giurato, in via di purgazione, che colà non eravi altra scrofa, fuori di quella. Ciò dimostra come questa procedura primitiva siasi naturalmente formata presso popoli diversi ; ma non potrei convenire nell'apprezzamento dell'autore, per cui nelle epoche primitive non si guarderebbe che all'adempimento delle forme esteriori della procedura; poichè nel fatto stesso citato da MACROBIO, noi abbiamo l'opinione generale, che segna a dito colui, che ricorse a quell'ignobile stratagemma, imponendogli il soprannome di Scrofa ( V. Esmein , Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886, pag. 233 et suiv.). L'autore poi, il quale avvertì che il piatto , tenuto fra mani da colui, che ricercava la cosa derubata nel furtum lance lincioque conceptum , ricorda in certo modo la liba zione propiziatoria ai lari e ai penati, che dovevasi fare prima di metter piede nella casa altrui, è il Leist, Graec. Ital. R. G., pag. 241. Sul furtum lancie lincioque conceptum è da vedersi la dissertazione del Gulli, Del furtum conceptum se condo la legge delle XII Tavole . Bologna, 1884. - 112 zione di cose, mancando ancora un'autorità , che siasi fatta ella stessa investigatrice e punitrice dei misfatti, si comprendeche sia il derubato che prosegue il ladro , il marito offeso che tenga dietro all'adultero e sorpreso l'uccida, e si richiederà ancora lungo tempo prima che in Roma l'autorità pubblica si incarichi direttamente della punizione di questi e di altri misfatti ( 1). Che se la riparazione non venga ad essere accordata all'offeso , sarà anche naturale , che impegnisi una lotta fra le due famiglie , e che associandosi alle medesime le genti, a cui esse appartengono, il duello privato mutisi talvolta in un conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù, di cui esse entrano a far parte . 89. Cosi è pure dei rapporti interni fra i diversi membri, che entrano a costituire la gente, quali sarebbero i rapporti fra il patrono ed il cliente, ed anche i doveri della ospitalità , poichè essi cadono sotto la protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite me diante la pubblica disistima, e coll'intervento dell'autorità patriar cale e del consiglio degli anziani, custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori. Siccome però nella gente già vengono ad esservi di versi capi di famiglia, che hanno una propria familia , un proprio heredium , un proprio peculium ; cosi comprendesi come nel vicus già possano sorgere delle controversie di carattere giuridico fra i diversi padri: controversie che talvolta possono anche essere rese più accanite dal vincolo stesso di parentela , che intercede fra le famiglie che appartengono alla medesima gente. È tuttavia ancora sempre verosimile, che l'interporsi di qualche anziano , che goda la fiducia comune dei contendenti, possa indurli ad un amichevole com ponimento ; il che spiega come nei vici siavi sempre un luogo per il mercato, in quanto che la distinzione del mio e del tuo già rende possibile il commercium , manon vi si rinvenga sempre il luogo per amministrare giustizia (2). Infatti il carattere esclusivamente patriar cale dei rapporti, che intercedono fra i membri di essa , rendono ( 1) Ciò accade sopratutto, quanto all' adulterio , che cominciò a formare oggetto di un iudicium publicum solo colla legge Iulia , De adulteriis, che fu una di quelle con cui Augusto cercò , ancorchè con poco frutto, di far rivivere il buon costume. V. in proposito l'interessante articolo dell'Esmein , Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia , De adulteriis (Mélanges d'histoire de droit, pag . 71). (2) Quanto al vicus e al difetto , che talora trovasi in esso di un magistrato per amministrarvi giustizia, vedi sopra pag . 67. 113 ripugnante l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e cliente, ma anche fra i padri o capi di famiglia , che discendono dal medesimo antenato e hanno per mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii anziani. 90. Nella tribù invece, già si trovano di fronte capi di famiglia , che appartengono a genti diverse e che più non discendono dal mede simo antenato , nè partecipano allo stesso culto gentilizio : quindi già viene ad imporsi il bisogno di provvedere in qualche modo all'am ministrazione della giustizia, più non essendovi un'autorità di ca rattere esclusivamente patriarcale , che possa imporsi ai capi di famiglia, che sono di discendenza e d'origine diversa . Dovette quindi probabilmente essere questa necessità di provve dere all'amministrazione della giustizia , che suggerì l'idea di una autorità chiamata a dirigere e ad amministrare il pagus (magister pagi), la cui primitiva destinazione è ancora indicata dai nomi di iudex e di praetor, ed anche da quello di tribunal (derivato cer tamente da tribus), che significava dapprima il seggio, più elevato sovra cui collocavasi quegli che era chiamato ad amministrare giu stizia, e indicava così anche esteriormente la posizione cospicua , in cui egli trovavasi di fronte agli altrimembri della comunanza ( 1). Queste controversie intanto non possono naturalmente sorgere che fra i varii capi di famiglia, i quali, memori delle loro tradizioni, sono dapprima troppo altamente compresi del proprio diritto , perchè sia necessario che intervenga una legge a dichiarare quello che loro appartenga; ma hanno piuttosto bisogno di essere contenuti nell'esercizio violento delle proprie ragioni e di conoscere il processo , che debbono seguire per ottenere giustizia, senza dover ricorrere alla privata violenza . È questo il motivo, per cui presso tutti i popoli primitivi la prima forma che giunse ad assumere il diritto fu quella dell'actio , che è il complesso degli atti e dei riti solenni, che si debbono compiere per far valere il proprio diritto davanti al magistrato : atti e riti solenni, che presso genti come le latine, le quali imitano coi gesti e coi riti (1) La posizione elevata del tribunal, sovra cui trovasi assiso il magistrato, perchè « sedendo quiescit animus, et sedendo ac quiescendo fit animus prudens » trovasi soventi accennata dai poeti latini, come indizio della dignità , a cui era assunto colui, che era chiamato ad amministrare giustizia. V. Henriot, Mæurs juridiques et judi ciaires de l'ancienne Rome, III, pag. 14 et suiv.). G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 8 114 giudiziarii, ciò che un tempo dovette seguire nei fatti, finiranno per contenere una storia simbolica dei varii stadii, per cuidovette pas sare l'amministrazione della giustizia, prima di giungere ad essere accettata e riconosciuta dallo spirito fiero ed indipendente dei primi capi di famiglia . 91. Che se si volesse spingere anche più oltre questa ricostru zione del diritto primitivo, che ebbe a svolgersi nel seno della tribù, potrebbe affermarsi con certezza , che le due prime figure di rei, contro cui la giustizia umana abbia dovuto associare i proprii sforzi colla giustizia divina e colla esecrazione della generale opinione , do vettero essere quella del parricidas e del perduellis. Ivi infatti è sopratutto l'uccisione del padre di famiglia , che per il carattere pa triarcale della comunanza viene ad essere considerato come padre rimpetto a tutti i membri di essa, i quali talvolta continuano ancora a chiamarsi col nome di fratelli (1), che è il grande misfatto contro le leggi divine ed umane, il quale pudmettere in lotta le famiglie fra di loro , ed anche rimanere impunito , quando l'autorità comune non si mettesse in movimento contro di esso. Nèripugna al carat tere della comunanza patriarcale, che la punizione del parricida acquistasse in certo modo un carattere tradizionale e fosse accom pagnata da certe pratiche, che possono anche avere un significato simbolico , e che potrebbero anche essere state portate dall'Oriente. Tali sono quelle, che più tardi ancora accompagnano la punizione del parricida ; pratiche tradizionali, che anche oggi in parte sopravvi vono e non possono dirsi compiutamente abbandonate anche presso le nazioni civili (2 ). Così pure dovette essere un processo del tutto natu (1) Questa circostanza , che tutti i membri della comunanza patriarcale si chiamino fratelli, è attestata dal Sumner MAINE quanto al villaggio Indiano: The early hi story of institutions, pag. 238, e qualche cosa di analogo dovette accadere ancora nella tribù italica , ove non vi ha dubbio, che i capi di famiglia erano generalmente indicati col vocabolo di patres ; poichè di questo stato di cose rimasero ancora le traccie in Roma primitiva . (2) È nota la punizione tradizionale contro il parricida, ricordata ancora nella L. 9 , Dig. (48 , 9) Poena parricidii more maiorum haec instituta est, ut parri cida , virgis sanguineis verberatus, deinde culleo insuatur cum cane, gallo gallinaceo et vipera et simia ; deinde in mare profundum culleus iactatur » . Qui il giurecon sulto lascia travedere, che la pena del parricidio era stata conservata nel costume e trasmessa per via tradizionale (more maiorum ). Essa pertanto dopo essersi man tenuta nel costume più che nella legge, contro i parricidi in senso stretto, ebbe poi ad essere sanzionata dalla lex POMPEIA, De parricidiis. 115 rale, che condusse l'opinione generale di una comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui, che gettava la perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi nemici di essa ; co sicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso , che davano al nemico , con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di perduellis. Cið intanto darebbe una spiegazione molto proba bile e naturale del fatto, che fece meravigliare gli stessi Romani, per cui Romolo prima e Numa dopo avrebbero chiamato col nome di par ricidas anche l'uccisore di un uomo libero, non che di quello per cui le prime e sole autorità incaricate di perseguire e punire i mi sfatti in Roma primitiva avrebbero assunto il nome di quaestores par ricidii e di duumviri perduellionis. Anche qui la legislazione della città avrebbe cominciato dal riconoscere come pubblici reati quelli, che già avevano cominciato ad assumere questo carattere nello stesso periodo gentilizio , e a questi sarebbe poi venuta aggiungendo man mano quelli la cui repressione appariva necessaria ; madi ciò si avrà campo a discorrere lungamente in luogo più opportuno (1). 92. Ma vi ha di più , ed è che nella tribù , come noi abbiamo visto a suo tempo, già si incomincia la formazione di due ordini diversi di persone, che sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi più non entrano nei quadri dell'organizzazione gentilizia , ma già cominciano ad es sere indipendenti dal patriziato , sebbene ancora si trovino in con dizione assai inferiore e non abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica origine servile. Di fronte a questa condizione parmi non sia temeraria la conget tura, che mi permetto di avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno del pagus, non dovette soltanto cominciarsi lo svol gimento dell'elemento giuridico, ma questo diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali ; in quanto che altro dovette essere il diritto , che governava i rapporti fra i padri, che appartenevano alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea della loro parità ed uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto , che venne a svolgersi nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi fra l'ordine superiore dei padri e quello inferiore della plebe , il quale non potè a meno di ritenere qualche traccia della superiorità che (1) La questione del parricidium e della perduellio sarà trattata nel lib. II, di scorrendo delle leges regiae. 116 si attribuivano i primi e dell'inferiorità di condizione, in cui sape vano di trovarsi i secondi. È solo col dare la debita parte a queste due forme del diritto primitivo, le quali del resto trovano la loro base nelle condizioni di fatto dei due ordini, che si possono spiegare certe istituzioni pri mitive del diritto romano, quali sarebbero quelle del mancipium , del nexum , della manus iniectio e simili; le quali, a mio avviso, come dimostrerà a suo tempo, sono tutte forme giuridiche, che non trovarono applicazione nei rapporti fra i padri e i loro discendenti patrizii, ma soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i plebei. Se si comprende infatti che un plebeo, il quale non aveva dapprima altra garanzia da dare che quella della propria persona, fosse co stretto a dare a mancipio sè stesso o la propria figliuolanza, o ad obbligarsi con quella severità , che era propria del nexum primitivo , e che il patrizio insoddisfatto potesse mettere la mano sopra di lui e trascinarlo nel suo carcere privato , mediante la procedura della manus iniectio ; questi modi di procedere non si possono invece comprendere fra due capi di famiglia appartenenti alle genti pa trizie. Nè serve il dire, che queste istituzioni passarono poi effet tivamente nel diritto quiritario ; poichè anche questo fu l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, avevano sopratutto per iscopo di gover nare e di reggere le plebi. Di più è un processo del tutto romano quello per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto, non si dubita di trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe a formarsi ( 1 ). Sarà quindi opportuno tentare la ricostruzione dell'una e dell'altra forma di questo primitivo diritto per trovare in esso la spiegazione alcune singolarità del tutto peculiari al diritto quiritario . (1) Lo svolgimento di questa teorica può vedersi in questo stesso libro Capo X , ove si tratta appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. . T 117 - CAPITOLO VI. Il diritto primitivo delle genti patrizie. $ 1. Di alcuni caratteri generali del diritto primitivo delle genti patrizie. 93. I giureconsulti classici col dire che il ius hominum causa constitutum est, enunciarono una verità , che trova una piena con ferma nei fatti , quando seguasi il processo , con cui il diritto primi tivo vennesi formando fra le genti del Lazio . Credo di aver dimostrato , che finchè trattavasi di persone, che appartenevano al medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità pa triarcale, stabiliti in seno delle varie aggregazioni, potevano bastare a qualsiasi emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra di loro ; poichè in allora , mancando la comune discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, conveniva di necessità porre le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune diritto. Di qui provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto primitivo, che possono spargere molta luce sulla formazione del diritto quiritario , e dileguare una quantità di sottigliezze, che furono immaginate per spiegare quel diritto , senza cercarne la causa nelle condizioni sociali, che ne determinarono la formazione. 94. Il primo di tali caratteri sta in questo, che i rapporti giuri dici, nel vero senso della parola , sorsero dapprima fra i capi di gruppo , anzi che fra i singoli individui, che erano assorbiti ed uni ficati nel medesimo. Di qui le solennità, che dovevano necessaria mente accompagnarne gli atti, come quelli che non riguardavano gli interessi particolari di questo o di quell'individuo ; ma si riferi vano all'interesse dell'intiero gruppo da lui rappresentato , e così avevano, per usare il linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu pertanto amore di formalismo, che guido un popolo così eminentemente pratico, come il romano, nella forma zione del proprio diritto ; ma questo , nei suoi esordii apparve ingombro di formalità e d i finzioni, solo perchè , dopo essere stato preparato in un periodo di organizzazione sociale, fu trapiantato 118 in un altro dallo spirito conservatore del popolo romano. Anzichè archittettare formalità artificiose, i romani si valgono invece di quelle, che si erano formate nella realtà dei fatti in un periodo anteriore, e con piccole modificazioni, che sono rese necessarie dalle nuove esigenze, fanno entrare in esse i rapporti, che si vengono svolgendo più tardi nella comunanza civile e politica (1). Nel che se guono un processo, che non abbandonarono neppure più tardi; quello cioè dinon creare giammai una forma novella, finchè quella già prima (1) Il formalismo è certo uno dei caratteri più salienti del diritto primitivo di Roma. Si comprende quindi, che gli autori contemporanei se ne siano largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine, L'ancien droit , Chap. II, in cui si oc cupa delle finzioni legali, e sopratutto poi il JHERING , che ebbe a dedicarvi buona parte del III volume della sua opera : L'esprit du droit Romain , da pag. 109 fino al fine. La conclusione, a cui sarebbero venuti questi autori, sarebbe,che questo forma lismo del diritto primitivo di Roma debba essere attribuito alla predilezione del popolo romano per l'elemento esteriore ; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i popoli primitivi, e proveniente da ciò , che i medesimi riguardano più alla forma che alla sostanza. Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in lungo, mi limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno, che comparisca presso i popoli veramente primitivi;ma che esso compare soltanto, al lorchè istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in un'altra, in cui più non si comprenda la significazione delle medesime. Dei popoli primitivi non si può dire , che essi siano amici della formalità ; perchè essi cercano di esprimere ciò che sentono col gesto, cogli atti e colle parole ad un tempo, e quindi hanno una mimica , la quale, anzichè essere artificiosa ed architettata , tende ad essere l'espressione effettiva e reale delle loro sensazioni ed emozioni. Quindi il formalismo, anzichè essere l'indizio di un popolo primitivo, è invece l'effetto dello spirito conservatore, che trasporta forme create in un periodo ad un altro, in cui esse hanno perduto qualsiasi significazione . Tutte le forme, che si conservano come tali, sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa , che sono trapiantate in un'altra , la quale più non le capisce, e quindi si limita ad osservarle pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale , nel di ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se diventò formalista, fu perchè il patriziato romano volle conservare le vestigia del passato e fare entrare nelle forme preparate nel periodo gentilizio i nuovi rapporti , che erano creati dalla convivenza civile e politica. Non è quindi da ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza di esso ; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare le forme antiche, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova , che si viene alla conseguenza, per cui a forma dat esse rei. » Ciò che accade nel diritto, avverasi eziandio nel linguaggio, il quale nella sua prima formazione adatta la parola al concetto; il che non impedisce perd , che più tardi, trasportandosi la stessa parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate , la cui origine può talvolta essere poi difficilmente compresa . 119 esistente possa ancora bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli inizii di Roma questo diritto fosse veramente disac concio, dal momento che allora soltanto si usciva da una condizione di cose , in cui il padre rappresentava effettivamente quel complesso di persone e di cose , che dipendevano da esso . Quindi era natu rale, che per qualche tempo il diritto primitivo conservasse quel medesimo carattere, che aveva acquistato durante il periodo genti lizio ; solo cominciò a diventare artificioso e disadatto alle nuove condizioni sociali il diritto primitivo di Roma, quando al padre si venne sostituendo il cittadino, e più ancora quando al cittadino si sostitui l'uomo libero. Del resto non è poi difficile il ricostruirsi nel pensiero un'organizzazione, in cui sia veramente il padre, che compia tutto ciò, che si riferisce al gruppo da lui rappresentato , per guisa, che esso sia padre quanto ai figli, padrone quanto ai servi, patrono quanto ai clienti, e rappresenti il gruppo da lui governato , ogni qualvolta trattasi di entrare in rapporto con altri gruppi. Di questo padre antico ci hanno conservato la imponente figura non tanto gliscrittori di cose giuridiche, che lo irrigidiscono di troppo perchè lo riguardano sotto l'aspetto esclusivamente giuridico ; ma gli altri scrittori latini, allorchè ci dipingono, ad esempio, Appio Claudio, capo di una grande famiglia , custode geloso dell'antico costume, il quale continua, ancorchè vecchio e cieco, ad esercitare, venerato e temuto ad un tempo, la propria autorità sui figli, sui servi, e sopra un nu mero grandissimo di clienti ( 1). Del resto anche il diritto lascia di quando in quando travedere quest'aureola patriarcale , che circonda il capo di famiglia , come lo dimostrano le seguenti parole attribuite ad Ascanio : « Moris fuit,unumquemque domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quod appareret quid quisque de reditibus suis, quid de arte, de foenore lucrove sepo suisset, et quo die, et quid idem sumptus damnive fecisset.» (2 ). Tuttavia anche questa descrizione tende già a dare all'autorità del padre un carattere essenzialmente giuridico;mentre invece , riportan doci al periodo gentilizio , questa figura primitiva presentasi anche (1) Cic., Cato maior, II , 37. È poi sopratutto nei poeti latini, e specialmente nei comici, come Plauto, che si può facilmente scorgere la differenza fra la patria po destà, quale era giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel fatto. È da vedersi in proposito l'Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome, tome 1er , pag. 347 a 356 . (2 ) V. Bruns, Fontes juris romani antiqui. Edit. V , Friburgi, 1887 , pag. 397 . 120 più imponente col suo carattere patriarcale e religioso ad un tempo ; e quindi si può comprendere come l'acceptum , l'expensum , lo spon sum , lo stipulatum , l'actum , il iussum del capo di famiglia si cam biassero in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore (1). 95. Un secondo carattere poi sta in questo , che il diritto primitivo presentasi fra questi capi di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse , come il solo mezzo per stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti il suo impero non fosse riconosciuto non avreb besi altro espediente , che quello di ricorrere alla manuum consertio , la quale, allargandosi dalla famiglia alle genti, e da queste alle tribů , manterrebbe le medesime in uno stato di guerra permanente, i cui ran cori si verrebbero poi perpetuando di generazione in generazione (2). (1) Accenno qui ad un concetto, che sarà svolto più largamente altrove. Diregola si suol cercare nel diritto quiritario il complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che potevano essere richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso vigeva. Esso invece non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi stevano nel costume e nella consuetudine ; ma cominciò dal comprendere quelli, che erano resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. Fu in questo modo, che esso comincia dall'essere un ius quiritium , che si aggira su pochissimi concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili evenienze; poi trasformasi nel ius proprium civium romanorum ; quindi assorbisce anche nella propria cerchia le istituzioni del ius gentium ; e da ultimo giunge ad informarsi persino al iusnaturale; concetti questi che, se non avevano ancora una configurazione scientifica, vivevano però già nella coscienza generale del popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia . (2) Ciò mi conferma in una antica convinzione , che ho già avuto occasione di esporre nell'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Lib. I, Cap. I, pag . 38 e seg., la quale consiste in ritenere, che anche nelle epoche pri mitive il diritto non confondesi colla forza ; ma compare invece qual mezzo per reprimere la forza e la violenza . So che questa opinione ebbe ad essere combattuta da egregi giovani, che si occuparono dell'argomento, e fra gli altri dallo Zocco-Rosa, Preistoria del diritto. Milano 1885, pag. 31, e dal Puglia , L'evoluzione storica e scientifica del diritto e della procedura penale, pag. 42, nota ; ma i fatti mi in ducono a persistere nella medesima. Non è già che io neghi, che siavi stato un periodo, in cui abbia predominata la forza e la privata violenza : ma quando pre sentasi il diritto, esso non solo non confondesi colla forza, ma si propone senz'altro di reprimerla, obbligandola a seguire certi processi, che ne impediscono le esagera zioni e gli eccessi. In questo senso aveva ragione il poeta di scrivere : Nam genus humanum . Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua cecidit sub leges arctaque iura . Lucretius, De rerum natura, Lib . V , v . 1144-46. 121 Cid è anche dimostrato dal carattere del tutto particolare, che assu mono le guerre in questo periodo, e che si mantiene ancora per qualche tempo nella storia primitiva diRoma. Tali guerre infatti il più spesso prendono le mosse da qualche controversia, di carattere pressochè famigliare, che viene poi estendendosi mediante le aderenze e le pa rentele, e riduconsi in sostanza a scambievoli scorrerie, che le varie tribù e genti vengono facendo nei rispettivi loro territorii; scorrerie , che si sospendono mediante le induciae nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere riprese nell' anno seguente. Ciò fece quasi credere, che queste genti primitive fossero in uno stato perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso , perchè è contraddetto dalle solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di guerra, come la formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci, il che apparirà meglio a luogo più opportuno. 96. Un ultimo carattere infine, sta in ciò, che la formazione del primitivo diritto non si avvera dapprima nei rapporti interni dei sin goli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le famiglie, fra le genti, fra le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i primi vocaboli di significazione eminentemente giuridica contrappongono sempre l'uomo all'uomo, ed indicano dei rapporti amichevoli od ostili, che vengono a svolgersi fra i diversi capi di gruppo . Di qui la conse guenza in apparenza strana, ma certamente fondata sui fatti, che la formazione di un diritto , che governava i rapporti fra le varie genti, dovette precedere la formazione del diritto privato propria mente detto : il che è dimostrato anche dalla considerazione, che negli antichi scrittori si discorre dei iura gentium , prima ancora che si discorra del ius quiritium e del ius civium romanorum . Infatti: i iura gentiun , i foedera, le sponsiones fra i capi delle varie genti erano già rapporti, che si erano svolti anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il ius quiritium dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla stessa città di Roma; il che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed umane, che ci è descritto dagli antichi poeti latini. Intanto fu sopratutto sui mercati, ove comparivano i varii capi di famiglia , ed ove, oltre gli scambi, si potevano anche trattare le alleanze e le paci, che cominciò la formazione di un vero e proprio diritto ; il quale, esplicandosi fra capi di famiglia, che appartenevano a genti diverse, e che non erano ancora soggetti al medesimo diritto , dovette necessariamente essere dapprima piuttosto un ius gentium , che non un diritto , che - 122 potesse chiamarsi ius civile. Questo anzi non potè formarsi altri menti, che col trasportare fra i cittadinidella medesima città quelle forme, che si erano prima elaborate nei rapporti contrattuali fra i capi delle varie genti e famiglie ( 1). Si può quindi affermare, che anche quel diritto primitivo di Roma, che appare nella storia con caratteri di maggior rozzezza e violenza, non trovi sempre la pro pria origine nella forza, come molti sostengono ; ma che in parte abbia avuto invece un'origine essenzialmente contrattuale, come la città , in cui esso era chiamato a ricevere il suo svolgimento . Il diritto , anziché doversi confondere colla forza, compare invece, allorchè si comincia ad uscire da uno stato di privata violenza , e se la forza continua ancora nei rapporti fra le varie tribù, gli è perchè esse non riuscirono ancora a sottoporsi, mediante accordo, all'impero di un medesimo diritto . Fu solamente più tardi, allorchè la città co minciò ad essere abbastanza forte e potente, per imporsi ai singoli gruppi, che l'autorità civile potè penetrare eziandio nelle mura do (1) Non mi dissimulo l'arditezza di una idea, che conduce in sostanza a dire, che si formò dapprima il ius gentium , che non lo stesso ius civile , e che il ius quiri tium fu un diritto, formatosi dapprima fra le genti e i loro capi, e poscia trapiantato fra i quiriti: ma questo processo è per tal modo confermato dai fatti e ne appari ranno man mano prove così evidenti , che mi sembra impossibile il poterlo negare. Del resto la ragione di esso trovasi in questo, che mentre la famiglia poteva fare a meno del diritto nei suoi rapporti interni; questo invece era indispensabile nei rapporti fra le varie famiglie e fra le varie genti. Che anzi , dacchè sono nel do minio delle induzioni, aggiungerò ancora , che ai iura gentium dovette precedere il senso di quei iura naturalia , quae natura omnia animalia docuit ; per guisa che il diritto nel suo svolgimento di fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze spontanee dell'umana natura ; poi sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le varie genti; e solo più tardi sarebbe comparso nell'interno della città . Esso insomma nei fatti seguì un processo del tutto opposto a quello che seguì la scienza del diritto in Roma; la quale cominciò invece dalle cautele del ius civile; poi venne ad abbracciare anche l'equità del ius gentium ; e più tardi soltanto giunse ad innalzarsi all'umanità del ius natu rale. Vi ha però questa differenza , che i iura naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli istinti dell'umana natura , e i primitivi iura gentium consistono in un complesso di pratiche fra le varie genti, imposte dalle necessità di fatto ; mentre il ius gentium accolto dal pretore e il ius naturale dei giureconsulti sono già nozioni astratte , a cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il ragiona mento, e forse neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio della filosofia greca , più atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi rimetto, quanto allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale, a ciò che ho scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, pag . 179 a 194 , lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi arrecate. 123 mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere esclusi vamente religioso e morale, imponendo un diritto , a cui tutti devono inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. $ 2 . Il connubium e il commercium nel periodo gentilizio . 97. I caratteri del diritto primitivo, che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti, appariscono eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine abbiano avuta una portata ve ramente giuridica, quali sono quelli di connubium , di commercium e di actio, e dalla significazione, che questi vocaboli ebbero ante riormente alla formazione stessa della città . Infatti non può esservi dubbio , che tutti questi concetti già avevano un contenuto preciso , allorchè comparve la comunanza romana; ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che appartenga a questa od a quella per sona, ma piuttosto dei rapporti, di carattere pressochè contrattuale , che esistono fra le famiglie , le genti e le tribù e i capi rispettivi delle medesime. La stessa actio , nel suo significato giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi, ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di essere nel buon diritto . Fu solo più tardi, che questi vocaboli, i quali significavano primitivamente deirapporti, che inter cedevano fra le varie genti e i loro capi, trapiantati fra i cittadini della medesima città vennero a costituire altrettanti capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali, sotto cui ebbe poi a svolgersi il diritto quiritario . È poi degno di nota, come questi vocaboli, che primi acquista rono una significazione giuridica, abbiano questo di particolare , che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando per tal modo come il diritto sia veramente nato colla società umana, e sia chiamato ad essere il vinculum societatis humanae. Nel connubium infatti ab biamo una persona, che esce da una famiglia per entrare in un'altra ; nel commercium abbiamo una persona , che, obligando se stessa od alienando la sua proprietà , addiviene a quelle molteplici relazioni di affari e di negozii giuridici, di cui si intesse la vita sociale sotto l'aspetto economico; nell'actio infine, abbiamo parimente una persona che, ritenendosi lesa in questo o in quel diritto da un'altra persona, 124 - lo afferma e lo fa valere di fronte alla medesima, appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi colle esigenze della vita sociale . Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte all'altro uomo, e si può af fermare con ragione che hominum causa constitutum est. Intanto ciascuno di questi concetti è eminentemente sintetico e compren sivo per modo che ognuno può servire come punto di partenza a tutto un complesso di diritti ; il che apparirà ancora , allorchè Gaio, riassumendo l'elaborazione scientifica di molti secoli, finirà per con chiudere, che : omne ius vel ad personas, vel ad res, vel ad actiones pertinet (1). (1) Non ignoro come questa classificazione sia stata di recente combattuta sopra tutto in Germania , e fra gli altri. dallo stesso SAVIGNY, il grande iniziatore del movimento contemporaneo negli studii storici intorno al diritto, il quale giunse fino a sostenere, che la distinzione di Gaio non aveva nè valore storico, nè valore intrinseco . Traité de droit Romain . Trad . Guexoux, Paris 1840 , I, pag. 387 a 404. Parmi tuttavia, che chi consideri la correlazione perfetta, che vi ha fra la classifi cazione teorica di Garo, e i concetti, da cui il diritto quiritario ebbe a prendere le mosse, e tenga conto di quella dialettica potente, che stringe insieme le varie parti della giurisprudenza romana, malgrado i quattordici secoli, per cui durò l'ela borazione di essa , possa difficilmente ammettere, che qui trattisi, come il SAVIGNY dice a pag. 390, dell'opinione individuale di un giureconsulto, e che come tale sia priva di qualsiasi valore storico ed intrinseco . Essa invece ha valore storico ed in trinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la giurisprudenza romana ; in quanto che sarà facile il dimostrare a suo tempo, che nel diritto civile romano tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e quindi alle persone non fu che uno svolgi mento del concetto primitivo del connubium ; tutta quella relativa alle cose non fa che una deduzione dal concetto di commercium ; e infine quella , che si riferisce alle azioni, non fu che il frutto di un'elaborazione lenta e non mai interrotta del concetto primitivo di actio. Cfr. al riguardo Carle , De exceptionibus in iure Ro mano. Torino, 1873, pag . 13. L'autore , che pose meglio in evidenza la correlazione fra connubium , commercium ed actio , fu il LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 13, in nota . Che anzi i giureconsulti proseguirono lo svolgimento di queste forme essenziali del diritto, senza mai confondere lo svolgimento dialettico dell'una con quello dell'altra; per modo che certe singolarità del diritto romano solo si pos sono spiegare, in quanto che la dialettica giuridica non consentiva di confondere due ordini diversi di idee. Di più se fosse qui lecito di porre innanzi una conside razione, che potrà parere troppo filosofica , non dubito di affermare, che nel con cetto romano la distinzione seguita da Gaio esprime tre atteggiamenti diversi del diritto compreso in tutta la sua larghezza, il quale appartiene alla persona, si spiega sulle cose, e infine violato affermasi mediante l'azione. È da questa concezione sintetica e potente del diritto in Roma, che procede la primitiva indistinzione fra il diritto personale , il diritto reale e l'azione, che serve a difenderli. 125 98. Fra questi concetti presentasi anzitutto quello di connubium , che nella sua significazione primitiva indica la facoltà, che appar tiene ad individui, i quali appartengono a genti diverse, di impa. rentarsi fra di loro, mediante quelle nozze , che dalle genti sono rico nosciute come giuste e legittime (1). Esso ha per effetto di mescolare le stirpi, e quindi si comprende, che nell'alto concetto, che avevano le genti patrizie dei proprii an tenati e del sangue, che correva nelle loro vene, questo dovesse essere un rapporto, in cui tendevano piuttosto a restringersi, che non ad estendersi. Solo le genti, che appartenevano al medesimo nomen, fosse questo il latino, il sabino o l'etrusco, avevano fra di loro comunanza di connubii, il che è anche provato dalla tradi zione, secondo cui, se i Ramnenses vollero avere il connubium coi Titienses, dovettero ricorrere alla violenza ed alla forza ; il che perd non tolse, che il mescolarsi del sangue delle due tribù sia stata la causa del loro successivo affratellarsi per formare una medesima città . Furono infatti le donne di origine sabina che (secondo una tradizione, la quale se non è vera è certo ben trovata ) si interposero fra i mariti ed i fratelli e riuscirono così ad affratellarli nella stessa città , dando perfino il loro nome alle curie, in cui essa è ripar tita (2). Cosi pure si comprende, che anche fra le genti, che ap partenevano allo stesso nomen e facevano anche parte della stessa tribù , il connubium non potesse esistere fra i due elementi, di cui (1) È questa la significazione primitiva , che si attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi di connubium fra le varie genti, o fra il patriziato e la plebe. Fu solo nel diritto quiritario, che il ius connubië passò a significare il diritto di addivenire alle iustae nuptiae , e venne così a dare origine a tutti quei rapporti giuridici, che si riferiscono alla famiglia. È da esso infatti, che deriva la manus, che fonda la fa miglia; la patria potestas, che spiegasi, allorchè nascono dei figli ; e infine la stessa successione legittima, la quale si avvera , allorchè , morendo il capo di famiglia , si discioglie quel gruppo, e si riparte quel patrimonio, che in lui trovavansi unificati. (2 ) Questa tradizione è riferita da Livio e da Dionisio : ma non sembra essere confermata dai fatti, perchè alcuni dei nomi delle curie primitive, che giunsero fino a noi, sembrano essere tolti più dai luoghi che dalle persone . V. LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag . 48. Ad ogni modo questa è una tradizione, che se non è vera , è certo ben trovata, in quanto che dimostra l'importanza, che dovette avere un avvenimento che la rompeva col passato , e rendeva possibile il connubium fra persone, che non appartenevano al medesimo nomen , preso nel senso di stirpe e di schiatta. Fu questa prima mescolanza del sangue latino col sabino, che rese possibile la potente attrazione esercitata da Roma su tutte le stirpi italiche, il che è riconosciuto da CICERONE, De Rep., II, 7. 126 l'uno in origine rappresentava la classe dei vincitori e l'altro quella dei vinti. Non poteva quindi esservi connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè fra i patroni ed i clienti, e neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie gradazioni costituivano pressochè due caste diverse, il cui sangue non doveva confondersi, come lo dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere anche più tardi per ac comunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe ( 1). Intanto pero questo connubium , frammezzo a genti, che costitui vano per così dire altrettante piccole potenze , riducevasi in realtà a staccare una donna da un gruppo, di cui prima faceva parte , per trasportarla in un altro ; il che importava eziandio un cam biamento nel culto gentilizio , perchè essa abbandonava quello dei suoi padri per diventare partecipe di quello del marito. Di qui la necessità per le giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella della confarreatio, a cui assistevano i capi di famiglia della gente e delle tribù , a cui apparteneva lo sposo e la moglie , e che importava la comunione delle cose divine ed umane (2 ). Di qui la conseguenza eziandio , che quanto era dalla moglie recato con sè dovesse diventare ( 1) A chi chiedesse col linguaggio ora adottato, se le genti italiche praticassero l'endogamia o l'excogamia (V. SPENCER , Principes de sociologie, II, Chap. IV , pag. 225 a 250 ), si dovrebbe rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame, perchè ritenevano nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di paren tela, fra quelle persone cioè, fra cui esisteva, secondo l'antico linguaggio , il ius osculi, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano endogame nel senso, che il patrizio per scegliere la propria compagna non poteva uscire dalle genti, che appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che questa consuetndine tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali, misti fin dalla origine, furono anche in seguito i più facili a me scolare il proprio sangue con altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costitu zionale di Roma. Torino, 1881, pag. 46 . (2) Parmi allo stato attuale degli studii incontrastabile l'opinione, che considera la confarreatio , come esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori re centi seguono tale opinione : l'EsMein nella sua dissertazione: La manus , la pater nité et le divorce , pubblicata nei Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886 ; il Glasson, Le mariage civil et le divorce, Paris, 1884, pag. 154 a 180 , e pare anche il nostro Brininel suo bel lavoro sul Matrimonio e divorzio nel diritto romano , Bologna , 1886, pag. 49. Del resto varii indizii di questa origine patrizia della con farreatio si hanno nel carattere religioso della cerimonia, nei dieci testimonii che ricordano le dieci curie delle tribù , e in ciò che le leggi regie da Dionisio attribuite a Romolo ed a Numa, non ricordano che le nozze confarreate . V. Bruns, Fontes, pag. 6 e 9. Per ciò che si riferisce alla famiglia romana è fondamentale l'opera dello SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano. Padova, 1866 . 127 proprietà del marito, o di colui, sotto la cui potestà trovavasi ancora il marito ; e che la medesima, per entrare nei quadri del gruppo, a cui veniva ad aggregarsi, cadesse sotto la manus del capo di famiglia , ed acquistasse la posizione migliore, che poteva esservi nella mede sima, che era quella di figlia ( filiae loco). 99. Viene in seguito il commercium , il quale in questo periodo non significa ancora quel complesso di diritti, che scaturiscono dal dominio , ma ha il suo vero e proprio significato di rapporti com merciali,che possono intervenire fra i capi di famiglia , appartenenti a genti diverse ( 1). Qui il rapporto è assai più superficiale, ed è per sua natura tale , che può essere di reciproco vantaggio per i con traenti. Il commercium pertanto prende un più largo sviluppo ; ed esiste non solo fra il patriziato e la plebe, fra cui era reso in dispensabile dalla coesistenza sul medesimo suolo , ma anche fra coloro, che appartengono a stirpi diverse . Che anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere attitudine maggiore ai commerci, fan nosi in certo modo intermediarie dei medesimi fra le varie genti e tribù; il quale ufficio fra le genti italiche sembra essersi compiuto sopratutto per opera dell'elemento etrusco . Sono questi commerci, che vengono ravvicinando le varie genti, e conducono gradatamente a cambiare certi siti neutrali in luoghi di riunione ad epoche de terminate e fisse (conciliabula , fora) (2 ). È poi un grande vantaggio (1) Anche qui la significazione primitiva del vocabolo commercium appare da ciò, che Roma fin dagli inizii trovasi circondata da popolazioni, con cui pratica il com mercium . È solo per opera del diritto quiritario , che il concetto di commercium , applicato fra i cittadinidi una medesima città, dà origine al ius commercii,il quale poi, sviscerato negli elementi , che entrano a costituirlo, viene a scindersi; nel ius emendi ac vendendi , che in antico operavasi colla mancipatio ; nel nexum , da cui deriverà la teoria delle obbligazioni; e infine nella testamenti factio, che comprende la facoltà di fare e di ricevere per testamento, e quella perfino di essere testimonio nel medesimo. Cfr . Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 13. Per tal modo nello svolgimento dialettico del diritto quiritario la successione legittima e la te stamentaria vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee in quanto che la prima dipende dal connubium (V. sopra pag. 125 , nota 1), e l'altra deriva dal commercium . Questa forse è la vera ragione della massima: « Ius nostrum non patitur eumdem in paganis testato et intestato decessisse , earumque rerum naturaliter inter se pugna est. » Pomp., I, Dig. (50 , 17). È proprio infatti dei giureconsulti, che essi una volta , che hanno separato due ordini di idee, non li confondano più insieme, il che apparirà più chiaramente altrove. (2) Secondo il SUMNER Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una comunanza incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle proprie fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine ; vantaggio , che fu una delle cause , per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio delle popolazioni latine , potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed assimilazione potente ( 1). le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente ; fra le quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che servivano per trattare le paci e per il mercato (Village Communities, pag . 188 e seg.). Secondo l'autore, si avrebbe un indizio della primi tiva associazione del commercio e della neutralità negli attributi di Mercurio, dio comune alle stirpi di origine aria , che da una parte sarebbe il dio dei termini, il primo dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono del commercio , dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto da questa circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito si facevano gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti, derivò questa importantissima conseguenza , che come in quest'epoca non si distingueva il diritto privato dal pubblico, così non distinguevasi il diritto commerciale , da quel diritto, che ora si chiame rebbe internazionale. L'uno e l'altro erano compresi nel ius gentium , il che spiega come questo vocabolo talvolta indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non pud però esservi dubbio , che il ius gentium , allorchè viene a penetrare nel diritto romano, per opera del pretore, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e stranieri , ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto bene dimostrato dal Fusinato nel suo accurato lavoro : Dei Feziali e del diritto feziale, pubblicato negli atti dell'Accademia dei Lincei. Memorie della Classe di scienze mor. stor. filol., 1884 , Vol. XIII, pag. 451 a 590 , specialmente a pag . 465 ; del quale credo di poter dire, senza offendere la modestia di un collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche concetto direttivo in una materia , che certo ne aveva grande bisogno. È poi noto, che la grande autorità sull'argomento è il Voigt, Das ius naturale, bonum et equum , gentium , etc. Leipzig , 1856-76 ; Vol. 4 , dei quali il 2° si occupa pressochè esclusivamente del ius gentium . Fra il modo di vedere di questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza, che essi ri tengono il concetto ed anche la denominazione del ius gentium , come opera riflessa dei giureconsulti ; mentre per me il ius gentium esisteva nel fatto e nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le espressioni di iura gentium , e di iura naturalia , mentre dopo i vocaboli adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano l'unificazione, che vi si è operata . (1) I1 MOMMSEN, Histoire Romaine, I, Chap. 4, diede tale importanza alla posi zione eminentemente commerciale di Roma, da ritenere la popolazione primitiva di essa comededita al commercio e Roma come una città commerciale. Il PADELLETTI ha combattuta tale opinione (Storia del diritto romano, pag . 17) e parmi in verità che il fatto, per cui Roma diventò l'emporio delle genti del Lazio, possa essere spie gato senza dire, che essa fosse una città sopratutto commerciale ; poichè anche per una città agricola e militare ad un tempo, come era Roma nei propri inizii, po teva essere grandemente utile di essere in tal sito, da richiamare il commercio - 129 100. Fu sui mercati, dove convenivano persone appartenenti a co munanze diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più semplici, fondate unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche la compra e vendita , che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era già divenuta una grande città . Solo deve avver tirsi, che questa compra e vendita primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano a comunanze diverse , fra cui non esisteva forse comunione di diritto, non dovette naturalmente ritenersi perfetta , se non era accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, come ebbe a stabilire anche più tardi la legislazione decemvirale. Fu qui parimenti, che dovette na scere e svolgersi quella sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere riconosciuta dal diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e più acconcio per dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni (1). Furono eziandio queste fiere , che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che anche questa posizione eminentemente commerciale l'abbia resa meno esclusiva nell'accogliere nuovi elementi. Del resto anche i Romani sentivano l'eccellenza della posizione della loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. II, 5 . (1) Non può quindi , a parer mio, essere giustificata l'opinione di coloro , i quali ritengono, che solo più tardi si fosse introdotta in Roma l’emptio venditio, e che la sponsio e la stipulatio , che certo già esistevano nei rapporti fra le varie genti, fossero state invece importate di Grecia , per ciò che si riferisce alle convenzioni private. L'opinione erronea proviene dal credere, che il diritto quiritario comprendesse dap prima tutto il diritto in uso presso i romani; mentre invece esso fu una codifica zione e un adattamento progressivo del diritto già esistente nelle consuetudini. Esso quindi comincid dal comprendere solo quella parte di esso, che era confermata da una lex publica , come lo dimostrano le antiche espressioni di agere per aes et libram , di facere testamentum , nexum , mancipium secundum legem publicam . Quindi, ac canto al ius quiritium , visse sempre in Roma un ius gentium , che, senza aver rice vate le forme quiritarie, era però sempre adoperato e forse anche applicato nelle controversie dai recuperatores, anche anteriormente all'istituzione del praetor pere grinus. Ciò è provato dai poeti latini e sopratutto da Plauto, che ne dànno come usuali e frequenti certe forme di negozii e di atti, che non risultano ancor sempre penetrati nel diritto quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o stipulatio, atto romano per eccellenza , dai romani applicato nei trattati pubblici e nelle con venzioni private. Può darsi quindi, che le genti italiche l'avessero comune colle el leniche, e che la espressione spondeo fosse anche comune ai due popoli; ma i romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo dai greci , nè aspettarono ad adoperarlo solo verso la metà del V secolo , come sostengono fra gli altri il MurueAD, Histor. Introd., pag . 227 e 228, e il Leist, Graeco- Italische Rechts geschichte , p.465-470 . Solo può ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente nell'uso e davanti ai recuperatores, la sponsio o stipulatio penetrò anche nello stretto diritto civile e fu adottata come forma propria del medesimo. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 9 130 dero più tardi occasione al giureconsulto Manilio di concretare in poche parole delle formole acconcie per concepire quelle vendite, che sono più frequenti per una popolazione agreste ; delle quali formole alcune pervennero a noi e potrebbero trovare riscontro in formole, ancora oggi usate nelle stesse occasioni, salvo che queste non hanno più la sobrietà e precisione antica (1). È qui infine, che dovette prepararsi la formazione di un ius gentium primitivo, che ha dapprima un carattere commerciale , come il commercium da cui esso deriva, e che, accanto al diritto proprio di ogni singola gente o tribù, era indispensa bile per le transazioni commerciali fra i capi di famiglia , appartenenti a genti ed a tribù diverse. Sia pure, che solo più tardi questo modesto ius gentium , formatosi sulle fiere e suimercati, richiami l'attenzione del pretore, e gli dia animo per scostarsi dalle formalità ormai divenute soverchie del ius proprium civium romanorum (2) : cid però non toglie , che le origini di quelle lente formazioni, che si verificano nella coscienza generale di un popolo, si debbano talvolta anche cercare in un'epoca di gran lunga anteriore, come accade delle piccole sorgenti, che solo appariscono degne di osservazione e di ricerca , quando si scorge il corso maestoso del fiume, che ebbe a derivarsi da esse . $ 3 . L'actio e la sua storia primitiva. 101. Da ultimo non può esservi dubbio che, già nel periodo gen tilizio , dovette essersi formato il concetto dell'actio, ma questa non significava ancora un mezzo accordato dalla legge o dal pretore, per far valere in giudizio un proprio diritto , ma era , per dir cosi, il diritto stesso , che mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di atti, che erano indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento (3) . (1) Il poco, che pervenne a noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'Hu SCHKE, Iurispr . anteiust. quae supersunt, pag. 5, ed è una prova dell'attitudine dei veteres iurisconsulti a sceverare da un fatto tutto ciò, che in esso eravi di giuridico, modellandolo in una formola tipica, che potrà poi servire per tutti i casi dello stesso genere. (2 ) Cfr. sopra , pag . 128 , nota 1. (3 ) Accostasi a questo concetto dell'actio, nella sua significazione primitiva , l'OR TOLAN, Histoire de la legislation romaine, XI Edit., Paris, 1880 , pag. 139, ove scrive, parlando dell'azione nel periodo decemvirale: « Action, sous cette période, est une dénomination générale ; c'est une forme de procéder, une procédure considérée 131 - È a questo punto, che si può trovare la ragione, per cui il diritto primitivo di tutti i popoli e quindi anche il romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura , che non come legge , che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo di fa miglia è esso il sovrano nella propria casa , egli non ha bisogno, che la legge venga a ricordargli quali siano i suoi diritti. Questo diritto egli porta con sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza: quindi, se il medesimo venga ad essere violato, egli non può aspet tare che uno Stato, che quasi ancora non esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ebbe ad essergli arrecato . Come quindi è il capo di famiglia, che vendica l'adulterio , che corre sui passi del ladro , che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa, mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno oserebbe ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che, quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza della intiera comunanza, che è suo quel fondo , quello schiavo, quel figlio . Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del diritto . Prima esso esisteva allo stato latente , ed ora si produce, si afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo . Quest'azione tuttavia, non è an cora la legis actio ; perchè in compierla l'uomo offeso non ispirasi ad una legge, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso in timo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto , sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere anche alla violenza ed alla vendetta . Quindi è , che se per avventura verrà a formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio diritto , dal l'altra contenga il prorompere violento di colui, che ebbe ad essere dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent la constituer. » Qui però l'autore parla già della legis actio ;ma se noi andiamo più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora legis actio,ma semplicemente actio, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un modo di agire, ed è anzi il diritto stesso in azione (Cfr. Carle , La vita del diritto, pag. 40 ). È poi notabile, come per i latini il vocabolo agere indichi un'azione continuata, che può scindersi in parti di verse ; mentre facere si adopera di preferenza invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per così dire, in un unico contesto. 132 offeso nel proprio diritto , l'occasione non dovrà certamente essere trascurata . Sarà quindi prima il mos, che comincia coll'additare la via consuetudinaria , a cui debbe appigliarsi colui, che vuol far valere il proprio diritto ; poi sarà il fas, che interverrà anch'esso e dichiarera empio chi non segua quel determinato rito ; ed infine sarà anche il ius , che verrà notando in certo modo i varii stadii, per cui passò quella procedura , e obbligherà i contendenti a passare, almeno per forma (dicis gratia ), per ciascuno di questi stadii. Sarà in tal modo, che all'actio violenta, rozza, avida, appassionata dell'individuo sottentrerà la legis actio, consacrata dalla legge, compassata e lenta , quasi per attutire le passioni irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorderà ancora gli stadii dell'anteriore violenza , quasi per ricordare che a quella dovrebbe farsi ritorno, quando la legge non fosse rispettata. Non è quindi da approvarsi, a mio avviso , l'opinione di coloro , i quali ritengono che il prevalere delle norme procedurali nel primitivo diritto , e quindi anche nel romano, sia prevenuto da ciò , che sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La ragione di questo fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle origini stesse della convivenza civile e politica . La causa del fatto sta in ciò , che l'opera della legge negli inizii fu sopratutto necessaria non tanto per assicurare il diritto , quanto per reprimere le reazioni violente, a cui abbandonavasi colui, il cui diritto era violato . In questa parte diritto privato e diritto penale seguirono analoghe vicende. Al modo stesso , che le leggi penali non mirarono dapprima tanto a punire i misfatti, quanto piuttosto a porre dei confini alla privata vendetta , e resero cosi obligatoria quella composizione a danaro, che dapprima dipendeva dall'accordo delle parti : cosi anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli primitivi comprendessero più la forma che la sostanza ; ma perchè il primo e più urgente bisogno di una società , in via di formazione, era quello di impedire fra i consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle proprie ra gioni ( 1). (1) Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della pignorazione privata, è da vedersi: Del GIUDICE , La vendetta privata nel diritto Longobardo, Milano, 1876 . Sembra poi attribuire la precedenza delle norme di procedura , presso i popoli pri mitivi, alla prevalenza , che presso di essi ha la forma sulla sostanza, lo stesso Sumner Maine, The early history of institutions , Lect. IX , ove, discorrendo della forma primitiva dei rimedii legali, scrive « che in uno stadio delle cose romane i - 133 102. Intanto non vi ha forse nel vocabolario giuridico parola , che presenti al giureconsulto filosofo e storico una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli di agere e di actio , e che lo faccia rimontare più oltre nelle tenebre e nella oscurità del passato . Nella loro significazione primitiva di « stimolare » e di « spingere » , questi due vocaboli sembrano ancor richiamare gli antichi abitatori del Lazio, che, pastori di greggi, prima di diventare reggitori di popoli, spingevano al largo le proprie mandre e i proprii armenti (1). Me mori e quasi alteri della propria origine, non dubitarono di applicare il medesimo vocabolo a significare l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col popolo (ius agendi cum populo ), ed anchequella di colui, che forte della convinzione nel proprio diritto intraprende quella specie di conflitto e di lotta , che dovette in quei primi tempi essere necessaria per ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia dal carattere fiero ed in dipendente non dovette esser così facile il conseguire, che essi si sottoponessero ad un'autorità per la decisione delle loro controversie, e non è quindi meraviglia se l'avvenimento dovette loro apparire così importante, che ritennero opportuno di conservare la memoria dei diversi stadii, che hanno dovuto attraversare per giungervi. 103. Allorchè sorgeva una controversia fra capi di famiglia , ap partenenti alla medesima tribù , il modo più naturale di risolverla dovette certamente essere quello di rimettersi ad uno o più arbitri ed amichevoli compositori, che dovevano essere concordati fra le parti, come lo dimostra un antico costume, che gli scrittori latini attribuiscono ai proprii maggiori (2 ). Era poi naturale, che queste persone, chiamate a risolvere la controversia , dovessero essere scelte fra i padri ed anziani del villaggio ; del che rimasero le traccie anche in Roma, ove i iudices furono per secoli tratti dall'ordine dei padri diritti ed idoveri sono piuttosto un'aggiunta della procedura , che non la procedura una mera appendice aidiritti ed ai doveri. » (1) V. BRÉAL, Dict. étym . latin ., v° Agere. (2 ) Cic., Pro Cluentio, 43: « Neminem voluerunt maiores nostri, non modo de existimatione cuiusquam , sed ne pecuniaria quidem de re minima esse iudicem , nisi qui inter adversarios convenisset » . Del resto, anche secondo la legislazione decemvi rale, sembra che alla discussione della causa precedesse un tentativo di componi menti, come lo dimostra il fram ., Rem , ubi pacant, orato , tavola II, legge 14, se condo la ricostruzione del Voigt, Die XII Tafeln , p . I, pag. 696. 134 o senatori, e solo dopo una lunga lotta, che si avvero già sul finire della Repubblica fra il partito degli ottimati e quello popolare, po terono anche essere scelti fra gli equites (1). 104. La cosa però veniva a farsi più grave, allorchè i contendenti non si mettevano d'accordo per un amichevole componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che essi, compresi vivamente del proprio diritto , trovandosi sul fondo stesso o davanti allo schiavo , oggetto della controversia, cominciassero dall'affermare altamente il proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi cedeva, lo studio della natura umana ci insegna anche ora , che non è punto improbabile, che essi potessero addivenire a quella vis realis , a cui secondo Gellio fu poi sostituita la vis festucaria , e che si effettuasse cosi fra di essi una vera e propria lotta, che prese il nome dimanuum consertio (2 ). È però consentaneo eziandio al costume patriarcale che, quando due persone sono cosi in lotta fra di loro, possa anche in terporsi fra di esse una persona autorevole, la quale goda la comune fiducia, e che loro imponga di separarsi colle parole, che più tardi sa ranno pronunziate dal pretore nella procedura quiritaria : « mittite ambo hominem » . Tace allora la lotta: i contendenti, fatti umili dal l'autorità stessa di chi intervenne fra di loro e dallo stato stesso di violenza , in cui furono sorpresi (3), chiamano entrambi a testimoni la divinità , che la ragione è dalla parte loro, e per dare energia mag giore alla propria affermazione aggiungono alla medesima una scom messa , la quale, per essere accompagnata dall'affermazione giurata di rimettersi al giudizio della persona intervenuta fra di essi, può prendere il nome di sacramentum . Si ha cosi una successione di fatti, che conducono naturalmente la persona autorevole, che si è in (1) La legge che trasportò dall'ordine dei senatori a quello degli equites la ca pacità ad essere giudici fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del 632 di Roma, proposta da C. Gracco, la quale dovette però dar luogo a gravi lotte ed agitazioni, che sono fatte manifeste dalle leggi giudiziarie degli anni, che vengono dopo. È da vedersi in proposito ORTOLAN, Histoire de la législation Romaine, $ 283, pag. 228 e seg . (2) Aulo Gellio , Noct. attic., XX, 10 , $ 8 10 . (3) Questo sentimento veramente sociale ed umano del pudore, che guadagna colui che si appigliò alla violenza , trovasi maravigliosamente espresso da OVIDIO , Fasto rum III: « Et cum cive pudet conseruisse manus. » È però a notarsi, che il poeta limita quel senso di pudore alle violenze fra i cittadini: con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra cosa . - 135 - terposta , ad essere giudice non tanto della ragione o del torto dei contendenti, quanto piuttosto della scommessa intervenuta fra i me desimi; sebbene però venga ad essere naturale conseguenza del suo giudizio, che debba ritenersi aver ragione chi vincerà la scommessa e torto colui, che perderà la medesima. Fin qui pertanto , non si ha che un processo di cose sociali ed umane, di cui si potrebbero trovare le traccie anche ai nostri giorni, e che dovette certo essere frequente, allorchè le contese erano so stenute dai capi di gruppo, che non conoscevano altra autorità supe riore, salvo quella, che avessero accettata di comune accordo. Pongasi ora, che questo processo di cose si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come le italiche, siano use a modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici della loro vita giuridica , e allora si potrà facilmente comprendere, come siasi venuta formando quel l'actio sacramento , che costitui poi l'azione fondamentale di tutto il diritto quiritario , e fu dai quiriti conservata con cura così gelosa, che, già abolite le altre azioni delle leggi, l'actio sacramento continud ancora a celebrarsi davanti al tribunale quiritario per eccellenza, che è il tribunale dei centumviri. Non è quindi il caso di ridurre questa primitiva azione ad una pantomina incomprensibile , nè di cam biare il popolo maestro al mondo nel diritto in un architetto di for malità e di sottigliezze senza scopo ; ma è il caso piuttosto di leggervi la storia delle vicende, che ebbe a percorrere l'amministrazione della giustizia , riportandola in quell'ambiente patriarcale, nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla nelle sue primitive fattezze (1). 105. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio l'opinione messa innanzi da una grande autorità , quale è il Bekker, e che fu poi anche divisa da molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an (1) È già da qualche tempo, che rivelasi negli scrittori la tendenza a dare una spiegazione naturale della formazione dell'actio sacramento . Se ne possono vedere degli accenni nel Maynz, Cours de droit Romain , Bruxelles , 1876. Introduction, $ 20, Vol. I , pagg. 59 e 60 ; nel SUMNER MAINE , Early history of institutions, Lect. IX ; nel MUIRIEAD, Historical Introduction , pag. 191 e 192 ; nel BUONAMICI, Storia della procedura romana. Pisa , 1866 , vol. I, in princ. Non credo tuttavia che essa sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha dovuto formarsi, nè che siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una sopravvivenza di un'epoca anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade, Canto XVIII, v. 690 a 705 , descrive, sopra uno dei compartimenti dello scudo di Achille, una procedura del tutto analoga a quella dell'actio sacramento. 136 tiche della stessa actio sacramento, quelle altre forme di azioni, che sono indicate col vocabolo di manus iniectio e di pignoris capio , in quanto che le medesime ricorderebbero più direttamente l'uso della forza per far valere il proprio diritto (1) . Lasciando per ora in disparte la pignoris capio , che ha solo una importanza secondaria , per i pochi casi in cui fu ammessa , importa anzitutto notare, che il vocabolo di manus iniectio può essere tolto in due significazioni diverse, anche secondo la legislazione decem virale . Havvi anzitutto la manus iniectio , a cui ricorre colui che, dopo aver invitato inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magi strato , gli pone addosso la propria mano e lo trascina in ius, som ministrandogli però quei mezzi di trasporto, che possano esser neces sari per lo stato dimalattia , in cui egli si trovi (2 ). In questo senso però non havvi ancora una vera legis actio , ma solo un mezzo per otte nere la comparizione del convenuto davanti al magistrato. Invece la vera manus iniectio, in quanto costituisce una legis actio , consiste nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano sopra il nexus, l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo carcere privato, e costringerlo così al pagamento del proprio debito od a lavorare per lui finchè sia soddisfatto (3 ). ( 1) BEKKER, Die Actionen der römisches Privatrechts, Berlin , 1874-75 , 2 vol. V. particolarmente vol. 1, pag. 18-74 . Del resto un tale concetto è stato in parte enunziato anche dal JHERING , L'esprit du droit romain , Trad. Maulenaere, Paris, 1880, salvo che egli dà poi alla manus iniectio, come legis actio, una significazione del tutto speciale. Vedi vol. I, § 14 , e vol. III, § 56. (2) A questa manus iniectio accennasi nella prima legge delle XII Tavole : « Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino : igitur em capito. Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito. , (3 ) Sonvi persino degli autori, i quali dubitano che la manus iniectio possa es sere considerata come una vera legis actio , in quanto che essa non richiederebbe l'intervento del magistrato e avrebbe solo luogo quando trattasi di esecuzione. Fu questo il motivo, che indusse il JHERING , op. e loco cit., a dare una significazione speciale alla manus iniectio. Quanto alla letteratura sull'argomento e alle discus sioni, che di recente sorsero intorno alla questione, se la manus iniectio debbe rite nersi come una vera legis actio , è da vedersi il MUIRHEAD, Histor. Introd ., Sect. 36 , pag. 201 e seg. Parmi tuttavia , che il dubbio non possa esistere, quando si tenga conto della significazione larghissima, che ha il vocabolo di legis actio nell'antico diritto; nel quale esso indicava in sostanza i diversi genera agendi in conformità di una les publica , per modo da comprendere la stessa in iure cessio , allorchè ser viva per effettuare una adozione, una emancipazione, una manomissione, od un trasferimento di proprietà . V. quanto alla manus iniectio il Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 616 . 137 Or bene la manus iniectio , cosi intesa, non può certamente essere considerata , come di formazione anteriore all'actio sacramento. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie peripezie, per cui passò lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi richiama ancora un'epoca , in cui non eravi amministrazione di giustizia ; la manus iniectio invece, quale appare nelle XII Tavole , suppone già stabilita una amministrazione della giustizia , in quanto che essa è un modo di procedere all'esecuzione contro colui, che o siasi ob bligato colla solennità del nexum , o abbia confessato il proprio de bito davanti al magistrato , o sia stato condannato al pagamento . Nè serve il dire, che la manus iniectio primitiva, essendo un mezzo per il privato esercizio delle proprie ragioni, dovette essere applicata anche in altri casi ; mentre la legislazione decemvirale l'avrebbe circoscritta ai casi da essa determinati, nell'intento di im pedirne gli abusi. A ciò infatti si può facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle genti patrizie si può comprendere una procedura solenne, come quella dell' actio sacramento , in cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per accordarsi nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece affatto ripugnante una procedura, come sarebbe quella della manus iniectio. Non è un'eguale che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto egli possa essere profondamente convinto del proprio torto . Fra due eguali, che siano in contesa, può compren dersi la manuum consertio , e in seguito l'accettazione di un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al cenno dell'altro , e si lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo carcere privato. 106. Con ciò tuttavia non voglio dire, che la manus iniectio sia stata direttamente introdotta dalla legislazione decemvirale, e che non esistesse anteriormente alla medesima. Ritengo anzi, che essa doveva già esistere da lungo tempo : ma intanto a questo proposito mi fo lecito di avventurare la congettura , che la manus iniectio dovette essere una speciale forma di procedura , che non si adoperava già nei rapporti fra i capi di genti patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedevano fra il creditore patrizio ed il debitore plebeo . Si comprende infatti, comeun'aristocrazia territoriale, come quella delle genti patrizie, potesse anche adoperare modi simili di procedura verso una classe , che nei primi tempi non aveva ancora dimenticato l'o rigine servile . Quindi è, che la manus iniectio deve essere con 138 siderata comeuna delle istituzioni, che non appartiene al diritto , che dovette formarsi nei rapporti fra i capidelle genti patrizie, ma bensi a quello, che dovette formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe inferiore: il che spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'abbia solo ammessa contro i nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe abbia lottato cosi lungamente per l'abolizione del nexum , il quale forse era ancora un segno dell'antica sua sogge zione servile , come sarà dimostrato a suo tempo. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato delle proprie ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto pri vato corrisponde alla vendetta privata nel campo dei delitti e delle pene. Quindi, come è esistita la vendetta privata anche fra le genti italiche, così dovette anche esservi un tempo, in cui fra queste esi steva l'esercizio privato delle proprie ragioni. Questo tuttavia può affermarsi con certezza , che l'intento supremo dell'organizzazione gentilizia fu quello di impedire fra i membri di esse cosi la pri vata vendetta , che l'esercizio privato e senza confini delle proprie ragioni. Fu a questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i proprii sforzi, e solo a forze riunite riuscirono a cacciare dalla co munanza la privata violenza, che continud a dominare fra le per sone, che non appartenevano alla medesima e quindi non avevano fra di loro comunanza di diritto . Quindi non è più nell'organizza zione gentilizia, che deve cercarsi l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal momento che in essa tutto è regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento supremo fu quello dimettere termine allo stato anteriore di privata violenza . Fin qui si considerarono soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono fra i capi dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte origine a quel diritto , che sarà poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium romanorum più tardi; ora importa cercare invece , quali rapporti corressero fra i varii gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del primitivo ius pacis ac belli. - 139 CAPITOLO VII. La formazione di un ius pacis ac belli durante il periodo gentilizio . $ 1. Sguardo generale ai rapporti fra le genti primitive. 107. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente patriarcale , e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra i varii capi di famiglia . E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra . Esse invece non erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si consideravano come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro comunanza di diritto . Era quindi facile , che fra loro scoppiasse la guerra , ma questa non era però lo stato naturale di esse . Ciò sarebbe come dire, che due per sone che non si conoscano e non abbiano fra di loro alcun rapporto giuridico siano fra di loro in lotta . Potrà darsi che esse siano in reciproca diffidenza , e che stiano in guardia : ma non percid pud dirsi che siano in guerra effettiva fra di loro. Ci vorrà pur sempre qualche causa , od anche semplicemente un pretesto, perchè l'una si arresti minacciosa contro dell'altra (1) . (1) Sarebbe qui inutile citare tutti gli autori, che professano questa opinione; mi basterà ricordare il LAURENT, Histoire du droit des gens, nei tre primi volumi relativi all'Oriente, Grecia , Roma; il JHERING, L'esprit du droit romain , I, il quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi delle genti antiche nella città , a cui esse appartengono ; il che è certamente vero, ma non proviene unicamente dalle guerre esteriori , ma anche da ciò, che, creandosi una nuova forma di connivenza sociale, era naturale, che tutte le forze ed energie vitali si concentrassero in essa. Anche il Fusinato sembra dividere la stessa opinione nel suo lavoro : Dei Feziali e del di ritto feziale , Roma, 1884, « Atti della R.Accademia dei Lincei » , Memorie, Classe scienze mor. stor. filologiche , vol. XIII , Introd ., Cap. I , al quale io mi rimetto quanto alla bibliografia completissima sul tema di questo capitolo. Egli tuttavia già trova, che il popolo Romano sarebbe stato, fra le altre genti, il meno esclusivo su questo punto, a differenza del PADELLETTI , Storia del diritto romano, pag . 67, 140 108. Che questi fosse lo stato dei rapporti fra le genti primitive è provato dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già viene fatta fra hostis e perduellis. Hostis chiamavasi quello straniero , con cui non eravi rapporto di diritto , e contro il quale il popolo romano si riservava piena ed intera la propria autorità giuridica e la propria libertà di azione ; mentre perduellis, nella sua significazione arcaica , come lo indica lo stesso vocabolo , era colui con cui era scoppiato il dissidio , e col quale , per mancanza di un comune diritto , veniva ad essere necessità di appigliarsi alla guerra . Fu solo più tardi, che il vocabolo di hostis assunse una significazione più dura e significò effet tivamente il nemico. In allora le significazioni accettate furono le seguenti: peregrinus chiamasi colui, col quale non havvi nè ami cizia , nè ospitalità , nè alleanza ; hostis quegli, con cuiRoma trovasi in guerra aperta ; perduellis infine colui, che nell'interno dello Stato cerchi di recare perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'in teresse della patria sua. Questa trasformazione si opera però lenta e note relative , il quale attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore degli altri popoli,per trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e guerresco ad un tempo . Per parte mia ritengo, che i Romani in questa parte si governassero colle norme stesse delle altre genti italiche, come lo dimostra il fatto che il primitivo ius foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui sono circondati. Non posso però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi, si ritenessero in stato naturale di guerra cogli altri popoli ; perchè in tal caso tutte le formalità dell'antico ius foe ciale si convertirebbero in una commedia inesplicabile e in contraddizione col prin cipio direttivo dei rapporti fra le varie genti. Quanto agli argomenti, che sono messi in campo, essi consistono in sostanza nella primitiva significazione di hostis e nel passo di Pomponio, Leg. 5 , § 2 , Dig. (49, 15 ). Del vocabolo hostis, si discorrerà più sotto, e quanto al passo di PomPONIO , egli, anzichè affermare che gli stranieri fossero nemici, dice anzi espressamente che « si cum gente aliqua neque amicitiam , neque hospitium , neque foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem non sunt » . Tuttavia siccome con questa gente non vi ha comunione di diritto, così contro di « aeterna auctoritas esto » , donde la conseguenza, che se le cose nostre cadono in loro mano, diventano loro proprie, e così pure se le cose loro vadano in mano dei romani: certo la conseguenza è grave , ma essa non è una conseguenza dello stato di guerra , ma bensì di ciò che fra i due popoli non esiste comunanza di di ritto . Nè vorrei si dicesse, che la questione sia soltanto di parole, poichè se la guerra fosse lo stato naturale, non si saprebbe veramente come CICERONE abbia potuto scri vere: « nullum bellum esse iustum , nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut de nuntiatum ante sit , et indictum » , De off , I , II , e De Rep., III , 23. Del resto anche questa opinione è una conseguenza del ritenere, che le cerimonie del diritto feziale fossero semplici formalità esteriori, il che certamente non dovette essere, allorchè questa procedura fra le genti venne ad essere introdotta. essa - 141 mente, e nella stessa legislazione decemvirale, che, come tutte le leggi, tende a conservare i vocaboli nella loro significazione arcaica , il vo cabolo di « hostis » , continua ancora sempre a significare colui, col quale non esiste comunione di diritto , come lo dimostrano le espres sioni ricordate da Cicerone di « status dies cum hoste » e l'altra « adversus hostem aeterna auctoritas esto » . Del resto , che il vo cabolo hostis negli esordii non suonasse nemico , nella significazione, che noi siamo soliti attribuire a questo vocabolo , viene anche ad essere dimostrato dall'analogia evidente , che corre fra i vocaboli di hostis e di hospes, il quale ultimo sarebbe una sincope di hosti-pes, che significherebbe « o protettore dello straniero o straniero ricevuto in protezione » ; donde anche i vocaboli di hospitium e di hospitari(1). 109. Fermo questo concetto dei rapporti, che intercedevano fra le genti, che non entravano a far parte della medesima tribù e non avevano perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad essere facile il comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse dovesse derivare dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il pri mitivo ius pacis ac belli dovette avere un'origine contrattuale, analoga a quella , che abbiamo riscontrato nei rapporti privati fra i diversi capi di famiglia . Infatti al rapporto di carattere negativo, che intercede fra le varie genti, per cui sono estranee le une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto positivo di pace o di guerra. Tanto l'uno come l'altro in dicano, che le genti sono già uscite da quello stato di indifferenza reciproca, in cui si trovavano fra di loro . Quindi perchè siavi lo stato di pace, già occorre che fra le genti sia intervenuta una conven (1) V. BRÉAL, Dict. étym . lat., Paris. 1886, vº Hospes e Hostis. Del resto questo trasformarsi dalla significazione di hostis viene ad essere indicato con una mirabile chiarezza da CICERONE , allorchè scrive : « Hostis enim apud maiores nostros is di cebatur, quem nunc peregrinum dicimus.....; quamquam id nomen durius iam effecit vetustas; a peregrino enim recessit, et proprie in eo , qui contra arma ferret, re mansit » . De off., I, 12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V , I (Bruns, Fontes, p. 377). Intanto l'analogia , che vi ha fra hostis straniero, ed hospes, che signi fica e lo straniero ricevuto in protezione » , come pure il fatto, che nelle origini per duellis significava il nemico esterno ed interno ad un tempo, costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non distinguevasi la guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle guerre esterne. Fu solo più tardi, nel seno della città e nei rap porti delle città fra di loro, che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i reggitori della città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte interne. 142 zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di pax e quello di pactum ) ; al modo stesso che, accid siano in istato di guerra, occorre, che siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di genti che, senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano perd l'impero del fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il ius pacis ac belli già erasi formato anterior mente alla formazione della comunanza romana , e che la medesima in questa parte non fece che attenersi a pratiche e a riti, i quali, prepa ratisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia di un collegio sacerdotale, furono poi applicati con qualchemodificazione ai rapporti, che vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città . Di qui in tanto, derivd la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale , essendo stato trapiantato da uno in altro periodo di or ganizzazione sociale, acquistò un carattere artificioso , che lo fece talvolta apparire come un ostentazione puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si facessero per una giusta causa , ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della guerra. Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente, in cui ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale ebbe ad essere determinata dalle condizioni, in cui si trova . vano le genti primitive. § 2 . - Il ius pacis , ossia l'amicitia , l'hospitium , la societas nel periodo gentilizio. 110. Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che si ven gono a stabilire pressochè contrattualmente fra le varie genti, si riducono in sostanza a rapporti fra i capi delle medesime; cosi essi finiscono per modellarsi e per ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che possono intercedere fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che indicano le gradazioni diverse, in cui pos sono trovarsi i capi delle varie genti, sono pur quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto , in cui possono essere le varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una convenzione dipace; cosicchè i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in quei primi tempi non esistesse la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii gruppi ed i rapporti privati fra i capi, da cui essi erano rap presentati. I vocaboli, intanto , che indicano questi rapporti pubblici e privati ad un tempo, sono quelli di amicitia , di hospitium societas. 143 111. Prima presentasi l'amicitia , che indica quel rapporto contrat. tuale, che intercede fra due genti diverse o meglio ancora fra i capi di esse, senza che il medesimo imponga obbligo reciproco di difesa e di aiuto in tempo di guerra. La gente amica è quella , a cui si potrà , in caso di bisogno, ricorrere per un favore e con cui si intenda di intrattenere amichevole commercio . L'amicizia quindi conduce già ad un riconoscimento del diritto della gente amica, e quindi se una persona, od una cosa venga a cadere in mano di una gente amica , questa non potrà appropriarsela ; il che sarebbesi potuto fare, allorchè non fosse esistita fra di loro alcuna comunanza di diritto . Possono tuttavia esservi dei casi, in cui i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù diverse, porgano occasione al sorgere di controversie . Quindi fra i patti , che accompagnano i trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che più tardi noi troviamo indicato col vocabolo di actio e specialmente con quello di reciperatio ; il quale è certamente bene appropriato per significare il rapporto , a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in terpretazione a cui esso diede luogo. È nota in proposito la definizione di Elio Gallo : Reciperatio est, cum inter populum , reges, natio nesque et civitates peregrinas lex convenit, quomodo per recipe ratores reddantur res reciperenturque, resque privatas inter se persequantur. La sua interpretazione non può dar luogo a dubbio , quando diasi al vocabolo di lex la sua significazione primitiva di con venzione e di patto ; interpretazione, che del resto è anche imposta dall'espressione di « lex convenit » . È evidente infatti, che qui trat tasi di un patto intervenuto prima fra le tribù e più tardi fra i popoli, le nazioni e le città, nell'intento di permettere ai membri delle genti, delle tribù e delle città di far valere rispettivamente le proprie ragioni presso la gente, tribù o città , con cui trovansi in rapporto di ami cizia ; come pure è evidente la correlazione, che intercede fra questo vocabolo e quello di rerum repetitio , che costituiva, come si vedrà fra poco, uno dei preliminari, che precedevano la vera dichiarazione di guerra. Questo vocabolo è poi meglio spiegato da quello di reci procare, il quale, secondo Festo , significa « ultro citroque poscere » cioè far valere rispettivamente le proprie ragioni: vocabolo , che anche oggidi conserva l'antica sua significazione in quei trattati fra gli stati e le nazioni, che chiamansi di reciprocità e direciprocanza . Ciò infine spiega eziandio , come si chiamassero recuperatores quei giudici od arbitri, che erano chiamati a risolvere le controversie degli stranieri fra di loro e dei cittadini cogli stranieri. Infine si 144 viene anche a darsi ragione, come in una città come Roma, che fu sempre un emporio di tutte le genti, i recuperatores abbiano finito per essere una autorità giudiziaria , pressochè permanente, la quale, mentre decideva le questioni con stranieri, poteva anche essere chiamata a risolvere delle controversie fra i cittadini, in quei casi sopratutto , in cui non si trattasse di applicare il ius quiritium , ma piuttosto quei iura gentium , che fin dai primi tempi dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A proposito dei re cuperatores, si è poi lungamente disputato se i medesimi fossero chiamati soltanto a risolvere controversie di diritto privato, o se potessero essere chiamati eziandio a risolvere controversie di carat tere pubblico fra i popoli e le genti. La definizione di Elio Gallo sembra comprendere le une e le altre , in quanto che essa accenna alla ricupera delle cose tolte da un popolo ad un altro , e alla prose cuzione delle cose private. Se quindi fosse lecito avventurare una congettura, misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca , in cui ancora mal si distingueva la ragion pubblica dalla privata , i recu peratores, che erano persone scelte fra le due genti amiche, potes sero essere arbitri dell'uno ed un altro genere di controversie , perchè queste tenevano del pubblico e del privato ad un tempo . Allorchè invece , al disopra delle genti, venne a formarsi la città , e per tal modo cominciò a distinguersi la cosa pubblica dalla privata , i re cuperatores ebbero circoscritta la propria competenza alle contro versie di carattere privato . Fu in allora che i recuperatores si man tennero per le controversie di indole privata, e che i fetiales furono creati invece per le controversie, che insorgevano fra i varii popoli; fu allora parimenti che la recuperatio fu ilmodo, con cui gli individui res privatas inter se persequuntur, mentre la rerum repetitio di ventò un preliminare della guerra; fu allora infine che i iura gentium si vennero biforcando, e mentre da una parte il vocabolo di ius gen tium rimase ad indicare un complesso di norme, che governava i rap porti diindole privata, quello invece di ius foeciale o di ius belli ac pacis fu adoperato per indicare i rapporti di carattere pubblico fra i popoli e le città . Anche qui insomma non si fece che applicare un processo , le cui traccie sono evidenti in ogni argomento, il quale consiste nel « publica privatis secernere, sacra profanis Di qui derivò quell'incertezza di significazione, che questi vocaboli sem . brano avere nelle proprie origini; incertezza, che non dovette recare imbarazzo a coloro , che avevano operate queste distinzioni; ma che complica invece grandemente l'opera di coloro che tentano - 145 - fondarsi sovra pochissime vestigia di ricostrurre l'opera com - piuta (1). 112. Almodo stesso poi, che nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene l'ospite, il quale già viene accolto nella casa e per qualche tempo entra in certo modo a far parte della famiglia ; cosi nei rap porti fra le varie genti, al disopra dell'amicitia , viene a comparire l'hospitium . L'ospitalità , che diventa un ufficio di cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità presso tutti i popoli pri mitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati gli uni dagli altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità , oltre al fon darsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas , e se la medesima, presso le genti primitive, tenda ad acquistare un ca rattere ereditario . L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa famiglia, come lo dimostra il fatto che gli antichi giurecon sulti disputavano perfino, se gli ufficii verso l'ospite dovessero pre cedere o susseguire quelli verso il cliente : nella quale questione, (1) V. quanto alla definizione della recuperatio, HUSCHKE, Jurisp . ante-iust. quae sup., pag . 97 , n ° 13. Questa congettura , che d'altronde è molto semplice, ha il van taggio di risolvere parecchie controversie, che furono largamente trattate dal Voigt, Das ius naturale, gentium , etc., II, e dal Fusinato , Dei Feziali e del diritto feziale . Essa spiega anzitutto come un solo vocabolo, quello di ius gentium , possa presentarsi con un duplice significato (V. FusInATO, Op. cit., Introd . , Cap. I, § 1, pag. 463 , dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa spiega in secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo applicata alle controversie private, nell'antica sua definizione comprenda invece anche quelle di carattere pub blico. Di qui una divergenza fra il Fusinato da una parte, che vorrebbe negare ai recuperatores « ogni competenza giudiziaria in interessi di pubblica natura » , Op. cit ., Cap. V , § 2º, e il SelL ed il Rein da lui citati , che sostengono invece un'opinione diversa . Credo poi chenon possa essere posta in dubbio l'analogia stret tissima fra recuperatio e rerum repetitio , sebbene i due vocaboli abbiano ciascuno una propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca actio, mentre rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per riavere ciò che gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra . Del resto questa stessa analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le noxae deditio dei cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui discorre lo stesso Fusinato al Capo V , § 3º. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di fronte ad un processo logicamente applicato in tutte le di stinzioni, che si vennero introducendo fra i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza stessa dei risultati, in varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata la congettura di cui si tratta. Come poi i recuperatores fossero in Roma an’autorità giudiziaria , pressochè permanente, appare da ciò , che essi non erano ignoti alla stessa legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto ai soli cittadini. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 10 - 146 mentre vi era chi collocava prima le persone affidate alla tutela del capo di famiglia, poi il cliente, quindi l'ospite ; Masurio Sabino invece preponeva l'ospite al cliente. Tutti però erano concordi nel ritenere, che l'ospite dovesse avere la precedenza sui cognati e sugli affini. Non pud quindi essere temeraria la congettura, che l'ospitalità e la clientela fossero nell'organizzazione gentilizia due istituzioni, che avevano una correlazione fra di loro ; colla differenza, che la ospi talità importava solo una difesa e protezione provvisoria, mentre la clientela importava un rapporto di protezione permanente. Sotto quest'aspetto pertanto , si poteva dire che il cliente veniva prima del l'ospite; maquando invece si consideri che la clientela importa subor dinazione e dipendenza , mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che l'ospitato di un giorno sia l'ospite in un altro , ben si pud com prendere il motivo, per cui Masurio Sabino concedesse sotto questo aspetto la precedenza all'ospite sopra il cliente, in quanto che l'ospite e l'ospitato erano in rapporto di uguaglianza fra di loro , il che non accadeva del patrono e del cliente ( 1). 113. Così il concetto dell'amicitia , che quello dell'hospitium , do vettero nel periodo gentilizio avere un carattere pubblico e privato ad un tempo. Fu solo posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù uscirono le città, che cosi l'amicitia come l'hospitium subirono quella distinzione , che si operò in qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero l'amicitia e l'hospitium pubblico e privato. Che anzi nella transizione fuvvi un periodo, in cui la casa stessa del re dap prima e del magistrato dappoi servì per accogliere gli ospiti del popolo romano ; ma, a misura che si venne distinguendo l'ente collettivo dello Stato dalla persona dei singoli cittadini, si dovet tero anche distinguere l'amicizia e l'ospitalità in pubblica e in privata . Cosi fu un effetto della pubblica amicizia , che il cittadino romano, quando era fatto prigioniero di guerra , godesse senz'altro del diritto di postliminio , appena ponesse il piede nel territorio di un re alleato od anche solo amico , poichè da quel momento comin ciava ad essere « pubblico nomine tutus » (2). Parimenti l'hospitium pubblicum , allorchè fu accordato non solo ad un individuo, ma alla intiera popolazione di una città, venne a cambiarsi in certo modo nella ( 1) V. sopra il passo di Masurio Sabino a pag. 48, nota 2 . ( 2) L. 19 , $ 3 Dig . (49 , 15 ) . 147 concessione della civitas sine suffragio : il che rende non desti tuita di fondamento l'opinione di coloro , i quali, dietro l'autorità del Niebhur, vogliono trovare nel concetto dell'hospitium pubblicum la primitiva significazione, che, secondo Festo, sarebbe stata attri. buita al vocabolo di municipium (1). 114. Infine al disopra dell'amicizia e dell'ospitalità , presentasi la societas. Qui non trattasi più di semplici officii di cortesia , ma di obbligazioni che già assumono un carattere giuridico; poichè la 80 cietas fra le genti, al pari della societas fra i privati, è un acco munare le proprie forze per il conseguimento di un intento comune, e per ripartire i vantaggi, che si possono ricavare dall'opera insieme associata . I patti e le condizioni di questa societas possono essere molto diversi; ma di regola essa importa alleanza difensiva ed offen siva delle genti, fra cui interviene, e una conseguente ripartizione del bottino. Di qui la conseguenza, che mentre l'amicizia e l'ospita lità possono anche trovare origine nel fatto e nella consuetudine ; la societas invece suppone una convenzione espressa fra le genti ed i popoli, fra cui interviene: quindi con essa viene a sorgere il con cetto del foedus, il quale ebbe larghissimo svolgimento e diede luogo ad importantissime conseguenze nel periodo gentilizio . $ 3 . - N foedus e le sue svariate applicazioni nel periodo gentilizio . 115. Per quanto sia dubbià l'origine della parola, questo è certo , che l'essenza del foedus sta nella fides, che stringe quelli che entrano in confederazione fra di loro, e che il medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello stesso ufficio , a cui adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia . Infatti, sebbene di regola sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di societas e di foedus , è pag . 104. (1) NIEBhur, Histoire romaine, III, pag. 79 e seg . Questa opinione fu di recente sostenuta dal TADDEI, Roma e i suoi municipii , Firenze, 1886, 8 31, Senza negare che possa esservi esistito un qualche rapporto fra l'hospitium pubblicum e il municipium , nella prima delle significazioni che è attribuita a quest'ultimo vo cabolo da Festo , vº Municipium , vuolsi però avere presente che l'hospitium è isti tuzione di origine gentilizia, mentre il municipium suppone già esistente e svolta la convivenza civile e politica . 148 però facile l'avvertire, che i medesimi, sopratutto negli inizii, dovet. tero avere significazione diversa . Mentre infatti la societas indica il rapporto, in cui entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di foedus invece significa di preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo rapporto viene ad essere stipulato . Che anzi, siccome fra le genti non si distinguono i rapporti di carattere pubblico da quelli di carattere privato : cosi il vocabolo foedus si presenta dapprima con una larghissima significazione, instesse convenzioni e stipulazioni private e, sopratutto nei poeti, significa persino quelle convenzioni tacite, che sembrano strin gere tutti i popoli, che si trovino in analoghe condizioni di civiltà : convenzioni e rapporti, che sono appunto indicati col vocabolo di foe dera generis humani, poichè il popolo che vi venisse meno sem brerebbe in certo modo uscire dal novero dalle umane genti. Tali erano fra gli antichi l'inviolabilità e l'immunità dei legati, senza la quale sarebbe stata impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che non avevano fra di loro comunione di diritto ; tale era eziandio quel costume veramente umano per cui, terminata la battaglia, ad divenivasi ad una breve tregua, acciò i due eserciti potessero addi venire alla sepoltura dei morti. Di più , anche nei rapporti fra le genti, il foedus non significava soltanto la confederazione o l'al leanza; ma poteva significare qualsiasi accordo , che venisse a seguire fra due popoli, sia per conchiudere la pace, sia per rimettere la decisione della guerra ad un duello fra individui scelti negli eser citi che si trovavano di fronte, ed anche quell'accordo, in base a cui si addiveniva alla deditio di un popolo ad un altro e se ne fissa vano le condizioni. Il foedus insomma indica il momento, in cui l'elemento contrattuale comincia a penetrare nei rapporti fra le varie genti; ed è perciò , che, malgrado tutti i dubbii che possano avere gli etimologi, non so trattenermi dall'esprimere la persuasione profonda, che il vocabolo di ius foeciale, con cui si indicava il complesso delle pratiche e delle trattative, che poterono seguire fra i varii popoli così in pace, come in guerra, non può essere che una corruzione ed una sincope di ius foederale (1) . (1) Gli etimologi non possono accertare che foedus origini da fides, nè che foeciale derivi da foedus : ma questo è certo, che le parole di fides , foedus, foeciale, come sembrano avere una parentela materiale, così hanno una strettissima attinenza , quanto al concetto dalle medesime espresso, ed è questo il motivo, per cui continuo a scri vere ius foeciale a vece di ius fetiale. Quanto alla larghissima significazione pri 149 116. Intanto il foedus è il rapporto fra le genti e le tribù , che suppone un maggiore progresso nell'organizzazione sociale . Qui infatti non è più il caso di un semplice ufficio di amicizia e di ospitalità ; ma trattasi già di un rapporto che assume il carattere giuridico , in quanto che il foedus impone alle genti e alle tribù, che vi addiven gono, delle vere e proprie obbligazioni giuridiche, sebbene queste continuino ancora sempre ad essere sotto la protezione del fas. Gli è perciò, che col foedus già comincia a comparire quell'istituto della stipulazione giuridica , che le genti latine recarono non solo nelle con venzioni private, ma eziandio nelle convenzioni di pubblica natura ; stipulazione che, a mio avviso , dovette probabilmente essere prima adoperata per i rapporti di carattere pubblico, che non per quelli di carattere privato . Quanto alle formalità solenni, che accompagnavano il foedus, ritengo, che se più tardi potè essere attribuita importanza sopratutto all'elemento esteriore, che serviva per dargli il carattere di iustum , come lo dava al testamento, alle nozze e a qualsiasi altro atto ; questo è però certo, che le cerimonie, che accompagnavano la conclu sione del foedus nel periodo, in cui si vennero formando, dovettero avere una reale ed effettiva significazione . Non doveva quindi nel periodo gentilizio esservi un pater patratus, che addivenisse alla formazione dell'alleanza : ma erano i padri o capi effettivi delle genti, che da essi erano rappresentati, quelli che conchiudevano il patto. Così pure dovette anche avere una efficace significazione l'obtestatio deorum , per cui chiedevasi la divinità in testimonio del patto , che interveniva fra di essi, e si poneva il trattato sotto la protezione del fas, chiamando la collera del cielo contro colui, che venisse meno al patto intervenuto , e simboleggiando, col ferire con un coltello di selce la vittima, il modo, con cui la divinità avrebbe col pito il violatore del patto (1). mitiva di foedus, essa appare sopratutto dall'uso che ne fanno i poeti latini, pei quali indica dapprima qualsiasi patto fra gli individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una parola , che si riferì dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo; argomento questo che gli uni non si distinguevano dagli altri. Questo significato primitivo di foedus fu presentito dal nostro Vico, allorchè chiamò le re ligioni, le sepolture ed i matrimonii i foedera generis humani. Il duplice significato pubblico e privato di foedus occorre poi nel seguente passo di Liv., Hist., I, 1: « Aenean apud Latinum fuisse in hospitio : ibi Latinum , apud penates deos, dome sticum pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in matrimonium data ». ( 1) Questo è provato anche da ciò , che nel primo caso narratoci di un patto se 150 117. Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il concetto del foedus, vincolo religioso e giuridico ad un tempo fra le varie genti e le tribù, ebbe certamente a precedere la formazione della comunanza romana, e dovette anche prima ricevere applicazioni molteplici e diverse, durante il periodo .gentilizio . Il foedus può essere anzitutto il mezzo, con cui si pone termine allo stato di guerra fra diverse tribù, e siccome al momento, in cui si addiviene al medesimo, le sorti delle armi possono essere diverse per i contendenti, cosi è probabile, che già , anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione, di cui essa poi fece così larga ap plicazione fra il foedus aequum ed il foedus non aequum . Eranvi infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di convenzione e di trattato , serviva, come ricorda Gellio , per dettare la legge ai vinti; altri in cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui volgessero sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di ossequio e di subordinazione verso quello che stava per vincere, il che costituiva appunto il foedus non aequum e dava origine ad una specie di clientela di un popolo verso un'altro , che nell'epoca romana fu poi indicata coll'espressione « at maiestatem Populi Romani coleret » ; altri infine, in cui, essendo incerte le sorti della guerra , si poneva termine alla medesima con un aequum foedus e si veniva, secondo i patti, alla reciproca restituzione dei prigionieri di guerra e all'abbandono del territorio occupato (1). si poneva 118.Per quanto poi si riferisce a quella distinzione fra foedus e spon sio, stata invocata qualche volta dai Romani, sembra che la mede sima costituisca già un'applicazione, eminentemente giuridica , trovata dallo stesso popolo romano e posteriore alla formazione della città . È noto in proposito, che i Romani ritenevano per foedus il trattato guìto secondo il ius foeciale , che è quello relativo al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, DIONISIO ci narra, che il medesimo fu solennemente stipulato , e che due cittadini eletti a ciò, facendo le veci di padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno d'essi. Dion ., III, 5. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 99. Ritengo poi verosimile l'opinione del senatore Pantaleoni, ricordata dal Fusinato , Le droit in ternational de la République Romaine, Bruxelles, 1885. Extrait de la Revue de droit international, pag. 18 ; secondo cui il coltello di selce rimonterebbe all'età della pietra, poichè questo studio di conservare anche materialmente l'antico è ve ramente nel carattere romano. (1) Quanto alle varie specie di foedera fra le città ed i re è da vedersi Livio , XXXIV, 17. Esempii poi di foedera non aequa possono vedersi in Gellio , Noc .att., VI, 5 , e nello stesso Livio, XXX, 15 e II, 25. 151 - stipulato coll'intervento del pater patratus e colle cerimonie tutte del ius foeciale, mentre sponsio era la pace giurata soltanto dal generale . Mentre il primo obbligava direttamente il popolo Romano, l'altra invece , quando non fosse ratificata dal senato , obbligava solo a fare la consegna del generale, che aveva giurato la pace. Ora è evidente, che questa distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Finchè trattasi di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù, che la guida nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la pace circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere religioso , che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre quindi ancora l'artificio del pater patratus, nè l'intervento dei feziali, perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo . Quando invece trattasi di una città , tanto più se retta a repubblica , il generale non può più dirsi che rap presenti il popolo e il senato , e quindi egli non può addivenire che ad una semplice sponsio, la quale, per essere cambiata in un vero trattato , abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle cerimonie del diritto feziale. Intanto perd, siccome il generale è colpevole per aver giurata una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo oltre i limiti del suo mandato ; cosi il senato , che non ra tifica il suo operato , si appiglia alla noxae deditio del generale stesso. Intanto si comprende, che altri popoli, come i Sanniti, al tempo della pace delle forche caudine, i quali non erano ancora pervenuti ad un eguale sviluppo della loro organizzazione civile e politica, stentassero a comprendere questa sottigliezza giuridica dei Romani: poichè per essi il loro generale era anche il loro capo ef fettivo , e quindi poteva obbligare direttamente il popolo da lui rap presentato (1). (1) Non parmi quindi, che possa essere il caso di introdurre qui la triplice distin zione, a cui accenna il Mommsen, Le droit public romain , pag. 281, fra la semplice sponsio del capitano, il foedus foeciale e il foedus del solo capitano; poichè è di chiarato abbastanza chiaramente da Livio , che tanto il foedus che la sponsio , se siano fatte iniussu populi , non possono obbligare il popolo Romano, Livio, IX , 4 , 5 , 8. Quindi la vera distinzione viene ad essere questa : o la convenzione è opera del solo capitano, iniussu populi ac senatus, che sono quelli che inviano i feziali, e in allora abbiamo una semplice sponsio ; o invece vi ha il iussus populi ac senatus, che inviano i feziali e abbiamo il vero foedus: donde la prova che la distinzione dovette essere un effetto del passaggio dall'organizzazione gentilizia all'organizza zione politica . Cfr. Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale, Cap. IV, § 3º. 152 - 119. Non credo poi si possa ammettere col Mommsen , che sulla forma del foedus abbia esercitata una visibile influenza la teoria del contratto , in quanto che nel foedus sarebbesi adoperata per analogia la forma della stipulazione, come quella che era considerata come il modo generale e di diritto comune per contrarre le obbliga zioni. Ciò è del tutto impossibile : perchè è certo che esistevano già il foedus e la sponsio nei rapporti fra i varii popoli e che l'uno e l'altra già si stipulavano con quella forma determinata, assai prima che i giureconsulti costruissero la teoria della stipulazione e ne fa cessero applicazione alle convenzioni private . Del resto la forma della stipulazione, adoperata dai Romani nei rapporti colla divinità , nella formazione della legge, nella conclusione dei trattati di pace, solo più tardi sembra essere stata accolta nel diritto civile romano ed applicata alle convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che ritengono la stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca . Il vero si è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i rapporti di diritto pubblico e quelli di diritto privato ; la quale deriva da ciò , che nel periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra capi di gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie genti, possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi però molte pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella della sponsio , che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima nei rapporti fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cid è anche attestato da Gaio , che chiama sottigliezza il voler applicare la teoria della stipulazione privata alla sponsio del generale romano ; poichè, se si venga meno al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur ( 1). (1) V. Mommsen, Le droit public romain , pag. 281, il quale , secondo la tradu zione Gérard , di cui mi valgo, scrive : « En ce qui concerne la forme, le principe du droit civil a fait employer ici par analogie les formes de la stipulation , parce qu'elle était considérée comme le mode général et de droit commun de contracter des obligations » . Parmi, con tutta la riverenza al dottissimo autore, che questa proposizione non possa essere accolta , e che sarebbe vera piuttosto la proposizione inversa . Infatti secondo il MUIRHEAD , Hist. Introd., pag . 227, e molti altri , la sponsio o stipulatio nelle convenzioni private non sarebbe penetrata di Grecia in Roma, che verso la metà del V secolo : epoca, in cui la teoria della sponsio e del foedus, nei rapporti fra le città ed i popoli , aveva già ricevuto tutto il suo svi luppo. Quindi è che pur non ainmettendo l'opinione del MTIRHEAD, in quanto che ritengo che la sponsio fosse romana fino dalle origini e vivesse nel costume, anche - 153 120. Un'altra applicazione del foedus era anche quella , per cui tribù e genti, che potevano anche non essere in guerra fra di loro , stringevano fra di loro un'alleanza, i cui patti potevano essere molto diversi, ma che il più spesso costituiva una lega difensiva ed offensiva ad un tempo ; la cui idea tipica pud essere ricavata dal foedus latinum , detto anche foedus Cassianum , il cui tenore ebbe ad esserci conservato da Dionisio . È poi notabile , che queste specie di alleanze fra tribù e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da relazioni ed aderenze fra i capi di gruppo , cosi si venivano for mando e disfacendo con grande facilità, per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva essere il nemico di domani. Il che tuttavia non toglie, che la forza e l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi profondamente sentita, che stipulavasi talvolta che essa dovesse durare eterna ed im mortale, come lo erano i popoli, fra cui interveniva. Ciò è dimostrato dall'energica espressione adoperata nel foedus latinum , secondo la quale la pace e l'alleanza fra romani e latini doveva durare : « dum coelum et terra eandem stationem obtinuerint » (1) . 121. Infine un'altra importantissima applicazione del foedus nelle epoche primitive, è quella , in virtù della quale più tribù , che possono anche essere di origine diversa , societatem ineunt fra di loro, nel l'intento di formare una stessa civitas e di partecipare così ad una vita pubblica comune. È stato questo il foedus, che ha servito per la formazione dell'urbs e della civitas dei latini, e che fu anche il tipo , sovra cui ebbe ad essere foggiata Roma primitiva; il qual ca rattere è importantissimo, in quanto che induce ad affermare che Roma nei suoi inizii ebbe un carattere federale e pressochè con trattuale . Dal momento infatti, che fra le varie tribù mancava il vincolo della comune discendenza , non poteva esservi che quello della fides, e quindi è nel foedus, che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel diritto, conviene pur sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse prima nei rapporti fra le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu stamente quindi Gaio voleva tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che la sponsio nei trattati fra i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni private, non era più il caso di confonderle insieme(Gaius, Comm . III, 94). Da questa nasceva l'actio ex stipulatu , mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum , il ius gentium e il ius belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. ( 1) Dion., VI, 95. 154 della città . Se la tribù può ancora essere una formazione del tutto naturale, perchè è l'effetto del primato , che una gente acquista sopra le altre che la circondano ; la città invece suppone di necessità l'accordo delle varie tribù , che entrano a costituirla , accordo, che riveste appunto la forma di un foedus (1). § 4. — Dei mezzi per l'annessione e per il distacco degli elementi , che partecipano alla stessa comunanza . 122. Intanto egli è evidente, che allorquando le cose sono per venute a tale, che nell'organizzazione gentilizia , in cui prima do minava esclusivamente il vincolo di discendenza, già comincia a pe netrare l'elemento federale e contrattuale , questo non può a meno di attribuire all'organizzazione stessa una elasticità e pieghevolezza , che essa prima non poteva avere. Infatti egli è sopratutto da questo punto , che nel seno della tribù e della città , costituita mediante la federazione di varie tribù, cominciano a comparire dei mezzi, i quali o servono ad aggregare alla comunanza un nuovo elemento , o ser vono invece a staccarne un elemento, che prima ne faceva parte per trasportarlo altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior mente alla formazione della comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli istituti della cooptatio, della concessio civitatis sine suffragio , della secessio e della colonia ; la cui nozione è indispen sabile per comprendere la storia primitiva di Roma. 123. In virtù della cooptatio le genti, che già entrarono a far parte di una medesima comunanza civile e politica, possono accoglierne delle altre a far parte della medesima. Essa fu applicata più volte in Roma primitiva; come lo dimostra la cooptazione delle genti Al bane, dopochè Alba fu , secondo la tradizione, distrutta da Tullo Ostilio , e fu applicata eziandio alla gente sabina, capitanata da Atto Clauso . ( 1) Questa origine federale delle città costituite sul tipo latino pud servire a spiegare il fatto, per cui i Latini nella loro qualità di socii coi Romani abbiano messa innanzi la pretesa , che Roma e il Lazio dovessero dare origine ad una comu nione ed unità di governo ; per cui dei consoli uno dovesse essere nominato dal Lazio e l'altro da Roma, e il senato dovesse comporsi in parti eguali dai due popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr . WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad . Bollati, Torino , 1851, I, S 85 e seg ., pag . 108 ). 155 È poi questa istituzione, che ci dà la ragione per cui, durante il periodo di Roma patrizia , la cittadinanza non era conceduta ad in dividui, ma a genti collettivamente considerate, in quanto che la cooptatio era per sua natura applicabile all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli individui ( 1). Non pud poi esservi dubbio, che questa cooptatio, per essere una istituzione eminentemente patrizia , doveva certainente essere accom pagnata da cerimonie religiose ; perchè la gente , che era ammessa nella tribù o alla città, diventava eziandio partecipe della religione di esse, ne aveva comuni gli auspicia , ed il suo capo poteva anche conseguire un seggio nel senato . Quasi si direbbe, che la cooptatio di una gente nella tribù o città corrispondeva alla adrogatio per la famiglia . Quindi si comprende, come al modo stesso che l'adrogatus, per essere disgiunto dalla gens, di cui faceva parte, doveva prima addivenire alla detestatio sacrorum ; così anche il gentile, per uscire dall'ordine delle genti patrizie e passare, ad esempio , nella plebe, il che chiamavasi transitio ad plebem , doveva pure appigliarsi ad una specie di abdicatio o detestatio sacrorum ; alla quale dovette appunto assoggettarsi Clodio , allorchè abbandono l'ordine patrizio e passò alla plebe per poter essere nominato tri buno (2 ) È poi degno di nota, che questa cooptatio ebbe pure ad essere applicata ai collegi sacerdotali, finchè i medesimi furono esclusiva mente tratti dall'ordine patrizio , e fu solo più tardi, allorchè anche la plebe fu ammessa ai sacerdozii pubblici del popolo romano, che ad alcuni fra essi fu applicata l'elezione popolare, la quale anzi fini per essere affidata ai comizi tributi. 124. Quando poi la città cesso di essere esclusivamente patrizia , in allora noi vediamo svolgersi, qualmodo di accrescere la popola zione, la concessione della civitas sine suffragio , in virtù della quale gli abitanti di una città vicina, che venivano a prendere il ( 1) Dion ., III, 29 ; Liv ., 1, 30. Cfr. Willems, Le droit public romain , pag. 25 ; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag. 34. (2) La necessità di una specie diabdicatio, anche per uscire da una gens, è provata dal seguente passo di Servio, In Aen . 2, 156 : « Consuetudo apud maiores fuit, ut qui in familiam vel gentem transiret , prius se abdicaret ab ea , in qua fuerat, et sic ab alia reciperetur ». Quanto alla transitio ad plebem , è da vedersi Cic., Brut., 16 , e Aulo Gellio, XV, 27 . 156 nome di municipes (a munere capiendo), recandosi a Roma, erano ammessi a partecipare ai diritti e alle obbligazioni del cittadino, esclusa però la partecipazione al godimento dei diritti pubblici, che consistevano nel ius suffragii e nel ius honorum . Fu con questo mezzo, che Roma incominciò a mettere le basi di quel sistema mu nicipale , per mezzo del quale tutti gli abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli delle città italiche, finirono per essere considerati come cittadini di Roma, che era la patria communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una propria amministrazione municipale. Questo carattere dei municipia , i quali in sostanza erano città per sè esistenti, che venivano ad essere associate alle sorti di Roma, fu espresso da Gellio con dire , che imunicipia , a differenza delle colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò però non tolse , che il concetto del municipium abbia subito poi delle trasformazioni profonde, le quali sono indicate dalle significazioni diverse, che Festo attribuisce a questo vocabolo ( ). i 125. A questi duemezzi, con cui veniva accrescendosi il numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas , se ne contrapponevano invece degli altri, che servivano piuttosto a trasportare altrove una parte della popolazione, sia che ciò occorresse per il vantaggio della stessa città , come accadeva nella colonia , sia che una parte di essa si trovasse in condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si ricorreva alla secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema delle colonie, che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima nel costume delle genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti elleniche, sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal fatto, che, secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere dapprima, che una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di famiglie, le quali, collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria , colla approvazione di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex coloniae deducendae, e colla buona volontà di coloro che partono, i quali debbono perciò farsi iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere espresso da Servio con dire, che le (1) I principali passi degli autori, relativi almunicipium e alla colonia , possono trovarsi raccolti nella eruditissima opera del Rivier, Introdution historique au droit romain , Bruxelles, 1881, pag. 135 a 140 ; la quale contieneun numero grandissimodi passi di autori e questi raccolti con molta sagacia. 157 colonie « ex consensu pubblico, non ex secessione conditae sunt » . Di qui la conseguenza, che la colonia porta con sé la religione, la lingua, le tradizioni della tribù o della città , dalla quale si stacca e si organizza a somiglianza di essa, per guisa che, secondo la efficace espressione di Gellio, le colonie sono quasi effigies parvae, simula craque della madre patria, e sono quasi propaggini della città, da cui sonosi staccate , comequelle , che continuano ancor sempre a mantenersi in rapporti con essa (ex civitate quasi propagatae sunt) (1). Punto non ripugna , che le colonie nelle loro origini siansi cosi chiamate a colendo ; in quanto che può darsi benissimo, che esse fossero in certo modo delle spedizioni agricole, che partivano da una tribù , sta bilita sopra un territorio , per trasportarsi sopra un altro suolo , quando quello prima occupato più non potesse bastare ai bisogni della intiera popolazione. Però anche in questa parte, allorchè riuscì a delinearsi l'istituto della colonia , nulla impedi che esso potesse essere rivolto ad intenti di diversissima natura, marittimi, militari, commerciali, e che servisse anche a diminuire il numero soverchio della plebe, quando essa , raccolta nella sola città, già cominciava a cambiarsi in una factio forensis e a diventare pericolosa . 126. La secessio invece sembra contrapporsi alla cooptatio, colla differenza che questo vocabolo, in cui non havvi accenno ad alcun rito religioso , sembra aver trovato origine piuttosto nei rapporti fra patriziato e plebe, che non in seno all'ordine patrizio . Ad ogni modo la secessio , intesa in largo senso , ha luogo allorchè un ele mento già ammesso nella comunanza , trovandosi incompatibile colla medesima, se ne stacca volontariamente e recasi altrove a porre la propria sede . Lasciando anche a parte i tentativi di secessio per parte della plebe, i quali non ebbero mai un esito definitivo , può forse scorgersi un esempio di secessio , ancorchè dissimulato dalle tradizioni, nel fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma coi suoi numerosi clienti per stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere distrutta dai Sanniti, lasciando un solo superstite , che entrò di nuovo a far parte della cittadinanza romana (2 ). (1) Servio, In Aen ., I, 12 ; Gellio , XVI, 13. L'importanza delle colonie nel periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal Vico, Prima scienza nuova, Lib. II, Cap. 42. Intorno alle colonie ed alle varie loro specie, è accurata la trattazione del WALTER, Storia del Dir . Rom ., Trad . Bollati, $ 204-212. (2) Quanto alla tradizione circa la gens Fabia , vedi Bonghi, Storia di Roma, I , pag. 418 . 158 Alla secessio , che è volontaria , si contrappone invece l'expulsio , quale fu quella , che ebbe ad avverarsi per la gens Tarquinia ; espul sione, che per la intimità del vincolo , che stringe insieme i membri di una medesima gente, dovette poi essere estesa a tutti coloro che portavano quel nome, non escluso quel Tarquinio Collatino , marito a Lucrezia , il cui oltraggio , secondo la tradizione, era stata occasione allo scoppio di quella rivoluzione patrizia e plebea ad un tempo , che condusse alla trasformazione del governo regio in repubblicano. Intanto questi varii istituti, unitamente all'amicitia , all'hospitium , alla societas e al foedus, che serviva a dar forma giuridica e so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra le varie genti e tribù, avendo in gran parte avuto origine nel periodo gentilizio , dimostrano abba stanza come la città , la quale era uscita dalla federazione e dall'ac cordo, potesse anche subire dei mutamenti, che si operavano nella stessa guisa . Essa aveva mezzi diversi per accrescere o scemare il numero di coloro, che partecipavano alla stessa comunanza. Finchè infatti la città fu esclusivamente patrizia , potevano bastare la cuoptatio o la expulsio, mediante cui una gente poteva essere ac colta o respinta dall'ordine patrizio , e cosi entrare od uscire dalla partecipazione alla stessa comunanza. Quando poi patriziato e plebe si fusero insieme ed entrarono così a far parte dello stesso esercito e dei medesimicomizii, in allora si svolgono la secessio da una parte e la concessio civitatis dall'altra , e quest'ultima potè essere consen tita cum suffragio o sine suffragio . 127. Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla tribù e poscia dalla città , serve a questa per trapiantare le sue propaggini altrove; mentre il municipium viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui popolazioni,che avevano altrove la propria sede ed avevano anzi una propria amministrazione ed una propria vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare alla vita pubblica della città , senza però essere ammesse agli onori ed al suffragio. Sarà solo più tardi, allorchè il sistema municipale sarà svolto in tutte le sue conseguenze, che le città latine prima e le città italiche dappoi, pur serbando il diritto di partecipare alla amministrazione della loro patria originaria , otter ranno tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di Roma, che comincierà cosi ad essere considerata come la communis patria . Così viene preparandosi l'organismo della città per guisa, che essa possa essere capo e centro di qualsiasi vasto impero, e mentre le - 159 popolazioni, ammesse alla cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del mondo e si eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo (1). Solo più ci resta a vedere , se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius belli, già aves sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute formando. $ 5 . - Il ius belli durante il periodo gentilizio . 128. In proposito già si è dimostrato , come non possa ammettersi il concetto, pressoché universalmente accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato naturale delle genti italiche . Esse invece si considerano come straniere le une alle altre e non hanno fra di loro comunione di diritto . Quindi al modo stesso che occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di pace; cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia uscire da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere considerate come in stato di guerra . Quanto alle cause , che possono far scoppiare una guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui si trovano le tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in cui dovette dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii, i cui confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere frequenti le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di più pud ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o gli uomini singoli ,che appartengono alla medesima (homines Her munduli) abbiano commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza vicina. Così pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie, appartenenti a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le aderenze dell'una e dell'altra , come avvenne appunto in occasione della cacciata da Roma di Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una vera e propria guerra . Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe ( 1) A questo proposito però fu giustamente notato, che una delle cause della de. cadenza di Roma fu l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città italiche di prendere parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva perciò per pre valere la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Repubblica Romana. 160 riodo rappresentate dai proprii capi; cosi punto non ripugna che le sorti della guerra siano anche rimesse ad un combattimento singolare fra individui, col patto che l'esito della guerra dipenda dalle sorti di un privato duello. Così pure, è nel carattere del tempo che, quando si incontrano i due capi, essi vengano fra loro ad un combattimento non dissimile da quello, che la tradizione attribuisce a Giunio Bruto e ad Arunte, il più forte fra i figli di Tarquinio , e che la moltitudine dei combattenti si arresti a contemplare la lotta fra i proprii capi. Niuna maggior gloria potrà ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere le spoglie dell'altro, ed è a questo concetto certamente che rannodasi il culto, che ancora trovasi così radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano quelle appunto che dal capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra , erano appese nel tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali ricordavano le volte in cui rinnovavasi il memorabile fatto (1). 129. Per quanto questimodi di pensare e diagire possano riuscire singolari per noi, che siamo giunti a scorgere nella guerra un rap porto fra due Stati; questo è però certo , che i medesimi trovano una naturale spiegazione nel fatto , che durante il periodo gentilizio i rap porti fra le stesse tribù non riescono ancora a distinguersi da quelli fra i capi, che le rappresentano. Diqui conseguita, che il concetto della guerra fra i popoli ancora si confonde col duello fra i capi che lo rappresentano; il che è dimostrato fino all'evidenza dall'origine co mune dei vocaboli duellum e bellum , come appare dal vocabolo perduellis, che mentre ancora accenna al duellante significa già il pubblico nemico (2 ). Ciò spiega eziandio le traccie, che occor rono anche in Roma di duello giudiziario, poichè in esso noi abbiamo quel mezzo , che serve per risolvere le controversie fra i popoli appli (1) È ovvio osservare l'analogia ,che presentano le primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci descrive nell'Iliade, ove soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle gesta dei proprii capi. Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime parmi così naturale, che mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che da me furono letti. (2) A questo proposito osserva il BRÉAL, Dict. étym . lat., vº Duo, che il cambia mento di duellum in bellum è analogo a quello di duonus in bonus, di Duilius in Bilius, di duis in bis, per guisa che come da duo derivd duellum , così da bis potè derivare bellum . Del resto il vocabolo di duellum per bellum occorre ancora sovente nei poeti latini e fra gli altri Plauto chiama i Romani « duellatores optimi » . - 161 - cato a risolvere una controversia privata fra individui; il che in so stanza costituisce il processo inverso di quello , in cui il duello fra due individui viene ad essere adoperato qual mezzo per risolvere la guerra fra due popoli, e dipende perciò dal medesimo ordine di idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati e viceversa . È nello stesso modo, che possiamo riuscire a darsi ragione di quella analogia costante , che non può a meno di essere notata fra le formalità, che accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle , che accompagnano l'azione che il capo ili famiglia propone in giudizio . 130. È solo infatti questo modo di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti ed ispirato al modo di pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a dare una spiegazione del tutto naturale di quella procedura grandiosa e solenne, che accompagna appunto la dichiarazione di guerra . Per quanto tale procedura, tras portata dallo spirito conservatore dei Romani in un'epoca diversa da quella in cui erasi formata, possa apparire artificiosa e siasi talvolta considerata come un complesso di formalità esteriori, archi tettato per celare l'ingiustizia e la prepotenza di un grande popolo; questo è però certo , che essa , ricondotta col pensiero all'ambiente in cui ebbe a formarsi, viene ad essere l'immagine di modi di pen sare e di agire veri e reali, che intanto poterono essere espressi in modo così vigoroso ed efficace, in quanto furono a quell'epoca profondamente sentiti (1 ). 131. Questo intanto è fuori di ogni dubbio , che i varii stadii del dramma corrispondono mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero svolgersi in un'epoca patriarcale . Una popolazione vicina o uomini appartenenti alla medesima in vasero il territorio della comunanza , saccheggiandone i raccolti ed (1) Le formole grandiose del ius fociale ci furono conservate sopratutto da Livio, nel libro primo delle sue storie , ove descrive il processo per la dichiarazione di guerra al cap. 32; quello per la conclusione di un'alleanza al cap. 24 ; e quello per la deditio al cap . 38. Come è notabile la solennità di esse , così è degna di attenzione la coerenza che esiste fra queste varie procedure, le quali perciò appari scono come lo svolgimento di un medesimo concetto. Quanto alle divergenze circa la loro interpretazione e ai tentativi di ricostruzione di formole, che a parer mio appariscono del tutto complete, mi rimetto all'opera del FusinaTO, I Feziali ed il diritto feziale , Cap. 3 , 4 e 5 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 11 162 esportandone mandre ed armenti. La comunanza ne è profonda mente commossa , e il capo di essa , che è pur sempre il padre co mune di tutti, accompagnato da altri capi di famiglia , recasi in persona sul confine del territorio, che appartiene al popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando in testimonio le divinità patrone della sua comunanza , quella che protegge il confine e il fas, protettore comune ditutte le genti, espone l'ingiuria e il danno sofferto , e questo ripete a chiunque incontri per la via , e da ultimo sulla piazza del villaggio, spergiurandosi di dire il vero. Questa parte preliminare chiamasi clarigatio, da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta mente il torto sofferto, e repetitio rerum , dal chiedere la restituzione delmal tolto. Se le cose, che eglidomanda, sono restituite , egli ritorna con esse, e cogli uomini, che hanno compiuto il saccheggio, che gli sono consegnati, mediante la noxae deditio ; ma se egli non ottiene soddisfazione, ha luogo l'obtestatio deorum , con cui chiede in testi monio le divinità del suo popolo e tutti gli altri Dei, che il popolo , di cui si tratta , è ingiusto e vienemeno al diritto ( populum illum iniustum esse , neque ius persolvere). Viene infine l'ultima parte della dichiarazione di guerra, in cui il capo del popolo offeso , dopo essersi consultato coi suoi, dichiara al popolo offensore la guerra, get tando entro i confini del suo territorio un dardo intriso di sangue accompagnato dalle parole : « bellum indico facioque » , e si ha così in un solo atto l'indictio belli e l'initium pugnae. 132. È fuori di ogni dubbio, che questa procedura, eminentemente patriarcale, dovette assumere alcun che di artificioso per essere adat tata ad un popolo , come il romano: poichè il medesimo aveva una co stituzione politica molto complicata, in base alla quale i feziali, che si erano recati per la rerum repetitio , dovevano poi tornare per avere l'avviso dei padri, e forse anche la deliberazione del popolo intorno alla guerra , che trattavasi di fare; ma questo è certo, che anche così trasformata essa non perde le sue primitive fattezze . Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo una finzione, richiama pur sempre l'im poneute figura del patriarca primitivo ; tolgansi i feziali, che erano sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro collegio sacerdotale del popolo románo, avevano solo per compito di custodire le tradizioni, relative al diritto di guerra e di pace , senza avere alcuna competenza intorno alla giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva alla guerra o all'alleanza ; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la repetitio rerum , accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio 163 deorum , quanto infine l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il colore e il carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali, che dovettero seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non toglie, che le procedure del diritto fe ziale , al pari delle antiche procedure dell'actio sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un organizzazione sociale di altra indole e natura , affidate alla custodia di un collegio sacerdotale , rese complicate dei varii congegni di una costituzione politica , che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun sero di necessità un carattere alquanto artificioso , e apparvero come forme, vuote di contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo , che in sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale , ed era venuto nel proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il diritto feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie genti. Era pero naturale , che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale fosse destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene trarne l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte , appare sempre lo spirito conservatore del popolo romano , che continuò a conservare e a tenere in onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto , di cui essi erano i depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso . 133. Intanto non pud essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura e quella , che abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento . Siccome però queste procedure non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come alcuni le avrebbero ritenute , ma sono forme tipiche di fatti , che un tempo dovettero seguire nella realtà : cosi, per essere il processo effettivo veramente diverso nel venire al duello od alla guerra fra due popoli, e nel sorgere di una controversia fra due privati, ne derivò, che le due procedure non poterono essere perfettamente conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma dovettero di necessità riuscire diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la storia di una controversia fra due capi di famiglia , i quali, stando già per venire alle mani, piuttosto che ab bandonarsi alla forza ed alla violenza, accettano l'interposizione di una persona autorevole , scommettendo di essere dalla parte della ragione e chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due genti 164 invece non può esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo aver reclamato il mal tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del l'ingiustizia, che quel popolo ha commessa , e a nomedella medesima divinità gli si dichiara la guerra « extremum remedium expedien darum litium » . Quello è il processo , che si è seguito per strappare i contendenti alla privata violenza e per indurli ad accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice : questo è il processo , che deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità della guerra (1). 134. Che poi vi fossero buone ragioni, perchè una procedura solenne precedesse una dichiarazione di guerra , appare dalle dure conseguenze, che il consenso delle genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel periodo gentilizio era un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare, finchè uno non avesse portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro . Era guerra di uomini e guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano le for mole che ci furono conservate , con cui quel popolo , che faceva delle stipulazioni e dei contratti « do utdes » anche cogli Dei, cercava di attirare a se il favore delle divinità del popolo , con cui era in guerra (2). Una volta poi, che questa era intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo stato naturale dei due popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o per seppellire imorti o a causa della cattiva stagione, la guerra si continuava finché non si veniva ad un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di uno dei popoli in guerra . La deditio era per un popolo ciò , che per un privato il darsi a (1) È mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e compianto Danz, prof. a Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi ragionamenti sono riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata , Cap. III, § 4. Intanto tutto questo sforzo di acutezza è ancor esso una conseguenza dell'aver ritenuto il diritto primitivo di Roma, e quindi anche il diritto feziale, come una costruzione essenzialmente formale e non basata sulla realtà dei fatti. Se invece si ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette in altri tempi essere up complesso di reali ed effettive procedure, non si potrà certo pretendere che l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com piuto un ufficio diverso , potessero essere pienamente identiche fra di loro. Quanto alle loro analogie esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione fra il diritto pubblico e privato,durante il periodo gentilizio. (2) Queste formole ci furono conservate da MACROBIO, Saturn ., 3, 9 , $ 8 6 a 13 , il quale dice di averle ricavate da un libro antichissimo di un certo Furio (cuius dam Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A. Furio Anziate , scrittore di diritto sacro e di annali in versi. Esse sono riportate dall' HUSCHKE, Iurisp . an teiust. quae sup ., pag. 11. - 165 mancipio , cioè un perdere famiglia, patria, territorio, religione, libertà e non avere altra speranza, che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità , che l'avevano abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la propria sorte, entrando in quella classe dei vinti, che formava un eterno dualismo con quella dei vincitori (1). Che anzi i Romani applicavano anche a se stessi quel medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del diritto di postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il cittadino romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra , e a fare astrazione dal tempo , che egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico . 135. Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra , che spiegano quanto dovesse essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione di matrimonii, nè di reli gione , salvo dopo una lunga convivenza nei quadri dell'organizza zione gentilizia , in cui i vinti formarono la classe dei servi, dei clienti e per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono quella dei padri, dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo, in cui le genti italiche vennero elaborando la religione, il diritto , la famiglia , le istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è sopravvissuto : dei veri grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza sociale non si conosce nè la patria , nè il nome, nè l'epoca precisa , in cui siano vissuti; ma se la memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le isti tuzioni e tutti i concetti fondamentali, che costituirono poi la base della futura grandezza di questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue istituzioni, di cui dovette essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo passato ; ora importa stu diare le condizioni della plebe , la quale se non ha per sè il passato , dovrà perd avere una gran parte nell'avvenire della città . (1) La formola della deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È notabile : che in essa intervengono anche i Feziali ; che si domanda se il popolo che fa la deditio è in sua potestate ( il che prova che un popolo , al pari di una persona, poteva essere sotto la potestà di un altro); e che è serbata affatto la forma contrattuale della stipu lazione: « Deditisne vos populum Conlatinum , urbem , agros, aquam , terminos, de « lubra , utensilia, divinaque humanaque omnia, in meam populique romani ditio « nem ? – Dedimus. At ego recipio » . 166 CAPITOLO VIII. Le origini della plebe e la sua prima organizzazione. 136. Le cose premesse intorno all'organizzazione ed alle istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono finalmente in condizione di prendere in esame la questione della origine della plebe e della sua posizione giuridica di fronte al patriziato negli inizii della comu nanza romana. La genesi di questo elemento, che, poco importante dapprima, fini per esercitare tanta influenza sull'avvenire della città , è certo il più importante problema della storia primitiva di Roma, e quindi si comprende che gli autori tutti siansi travagliati intorno al medesimo ed abbiano anche proposto opinioni compiutamente di verse (1). Sonovi alcuni, fra i quali il Lange, che vorrebbero rannodare l'origine della plebe alla caduta di Alba e alla conquista di altre città latine, la cui popolazione sotto Anco Marzio sarebbe stata tras portata a Roma (2 ). Certo un tale avvenimento non potè a meno di avere grande importanza per accrescere il numero ed assicurare l'avvenire della plebe romana; ma egli è impossibile riconoscere in questo fatto l'origine primitiva della plebe, dappoichè, secondo la tradizione, la medesima sarebbe già esistita all'epoca della prima fondazione di Roma; cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb bero preso dei provvedimenti per l'ordinamento di essa . (1) L'enumerazione delle varie opinioni circa l'origine della plebe colla indicazione degli autori, che le professano, può vedersi nel Willems, Le droit public romain , pag. 31, e nel Bouchè-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, pag. 11, né 3; come pure nell'opera , ancora in corso di pubblicazione , del prof. LANDO LANDUCCI, col titolo : Storia del diritto romano dalle origini fino a Giustiniano. Corso scola stico. Padova , 1886 , pag. 274 ; opera che,mentre nel testo offre riassunti i risultati, a cui son pervenuti gli studii sulla storia del diritto romano, nelle note porge no tizia agli studiosi della ricchissima letteratura sull'argomento. (2) Il Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 56 e segg., tratta largamente la questione e considera la plebe primitiva di Roma, come una moltitudine di pe regrini dediticii , il cui nucleo più importante sarebbe uscito dalle città latine. A suo avviso, essa è dapprima affatto estranea al popolo delle curie, la quale opinione è pure seguita dal KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte, I, § 9, pag. 62 e segg ., -- -- 167 Non può parimenti ammettersi col Vico, che la plebe fosse origina riamente costituita da clienti ammutinati contro l'ordine dei padri ( 1), in quanto che, durante il periodo regio , la plebe non trovasi an cora in condizioni tali da impegnare la lotta col patriziato ; lotta che, sebbene siasi forse iniziata al tempo dei re, cominciò solo ad essere argomento di racconto e di storia col periodo repubblicano. A ciò si aggiunge, che anche durante la lotta i clienti ed i plebei appariscono in opposizione fra di loro , comeappare dai richiamidella plebe contro la clientela , che costituiva la forza maggiore dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto, che condusse taluni a con siderare la plebe e la clientela , come due termini inconciliabili ed opposti fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi state delle famiglie, che originariamente erano in condizione di clienti, e che poi il quale considera anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della cerchia della Roma primitiva, e nota che il Celio , l’Appio e il Cispio , secondo una osservazione stata fatta di recente , hanno un nome identico a quello proprio di genti plebee . Anche il Voigt, Die XII Tafeln , I , pag. 258, viene alla conclusione che i plebei non solo non partecipassero alle curie ; ma che essi costituissero una corporazione distinta , la quale, dopo l'istituzione del tribunato della plebe, si sarebbe organizzata nei comitia tributa . La corporazione esercitava sui suoi membri un potere di coerci zione, ne quid ex publica lege corrumpent. Il suo magistrato era il tribunus plebis ; al modo stesso che i suoi giudici non sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i decemviri , che sarebbero stati tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione, che contrappone più apertamente il populus e la plebes, e ci fa assistere alla lenta fu sione dei due elementi, anche dopo che entrarono a formare parte della stessa comu. nanza. Questo è certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che quella singolare isti tuzione del tribunato della plebe , che non riesce mai ad inquadrarsi perfettamente nella costituzione politica di Roma, dimostra abbastanza, che se colla legislazione decemvirale i due ordini cominciarono ad essere governati da un comune diritto; essi continuarono però ancora per lungo tempo a costituire due classi sociali com piutamente distinte, e recarono un contributo molto diverso sia nello svolgimento della costituzione politica , che in quello del diritto privato di Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 19 , e la nota del prof. Cogliolo, in cui pare che l'annotatore si scosti dall' opinione certamente troppo recisa del Padel LETTI, il quale sostiene che patriziato e plebe siano stati, fin dalle origini, ammessi a far parte della assemblea delle curie. (1) Il luogo, in cui il V100 svolge più chiaramente questo suo concetto, è nella prima Scienza nuova, lib. II , Cap. XXXII, dove scrive : « che le prime repubbliche sorsero dagli ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di coltivare i campi per li signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati, gli si rivoltarono contro ; e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi; onde, per resister loro, furono i nobili dalla natura portati a stringersi in ordini » : Di qui appare, che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe ad epoca anteriore alla formazione della città. 168 recarono un contributo potente alla plebe nella sua lotta col patri ziato ; donde si può argomentare, che anche nella plebe primitiva possono essere entrati degli antichi clienti, che per circostanze di varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della clientela . Cosi stando le cose , ha molto del verosimile l'opinione del Mommsen, che in qualche parte si accosta a quella del Vico , secondo cui il nucleo primitivo della comunanza plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di clienti, che di fatto si trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione della gente, da cui essi dipendevano (1). Se non che si presenta ovvia l'osservazione, che quando questo fosse stato il solo mezzo per costituire la plebe, la medesima diffi cilmente avrebbe potuto, fin dal periodo regio , prendere così grandi proporzioni da imporsi al patriziato e farsi accogliere nella città . Quindi è, che l'opinione del Mommsen trova forse un opportuno compimento nella teoria del Niebhur, il quale , tenuto conto del modo, in cui le comunanze plebee si erano formate in condizioni sto riche analoghe a quelle in cui trovavansi i primitivi stabilimenti delle genti patrizie, venne a considerare come una legge storica costante, quella per cui accanto ad uno stabilimento di casate pa trizie, chiuso e fortificato in sè stesso , formasi naturalmente una specie di comunanza plebea ; la quale, senza partecipare dapprima agli onori, ai suffragi, e ai matrimonii della città patrizia , pud tut tavia giungere ad una certa indipendenza dalla medesima, mediante il possesso e la coltura delle terre, e mediante l'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse (2 ). Tuttavia anche l'opinione del Niebhur ( 1) MOMMSEN , Histoire romaine, I, Chap. V , pag. 103 e segg. Questa opinione fu poiadottata dal WILLEMS, Le Sénat de la République Romaine,Paris, 1878, pag. 15 . (2) Ritengo che anche oggi il Niebhur sia l'autore, che è pervenuto a studiare con vedute più larghe l'origine della plebe. Di regola esso è annoverato fra coloro, i quali ritengono che la plebe sia stata composta delle popolazioni vicine a Roma, state dalle medesima sottomessa . Tale è, ad esempio, l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc. cit. La lettura invece del capitolo intitolato : « La commune et les tribus plébéiennes » della Histoire romaine, tome II, pag. 135 a 174 , mi ha convinto che il NIEBHUR si è fatta una idea più larga della questione. Le conquiste, secondo lui, hanno bensì contribuito ad accrescere e a trasformare la plebe romana, sopratutto coll'incorporazione delle popolazioni latine; ma intanto essa già preesisteva nelle stesse tribù primitive, costituiva una specie di vera comunanza separata e distinta dal patriziato, composta mediante l'ammessione di cives sine suffragio, e di clienti rimasti senza patrono (op. e loc. cit ., pag . 149). Tuttavia misia pur lecito di constatare, che l'autore, il quale ha meglio compreso quel carattere 169 lascia ancor sempre senza spiegazione quello stato di inferiorità e di abbiezione , pressochè servile, in cui una parte almeno della plebe trovasi di fronte al patriziato negli inizii di Roma; cose tutte, che non si comprenderebbero quando si trattasse di possessori e di cul tori di terre, che fossero stati sempre indipendenti dal patriziato . 137. Tutte queste considerazioni mi confermano nell'opinione già altrove manifestata , che il fenomeno della formazione primitiva della plebe debba cercarsi nella sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra altre razze già preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non dovette essere dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le razze germaniche invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di loro dovettero dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in quella dei vinti ; in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente organizzazione genti lizia , e in quella di coloro, che non erano ancora cosi progrediti nella loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono la classe dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre più fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia , e tentarono di fare entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola nella condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e di conflitto , che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione di classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso , che è nell'epoca feudale , che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni di classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente organizzazione dei vincitori ; problemi tutti, per la cui risoluzione ci mancano per ora gli elementi necessarii. particolare della città antica, per cui essa suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il nostro Vico . La città patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione di padri; mentre è la città patrizio-plebea , che ci porge lo spettacolo della lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose , e quelli che abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente. 170 138. Forse tali indagini potrebbero anche condurre al risultato , che fra le varie comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed organizzate per genti e che come tali appartenevano al patriziato e costituivano una specie di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano delle altre, prive di tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi e all'esercizio delle professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere stato ad esempio il vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee . Quest' ultime naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e pressochè di vas sallaggio , rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in certi con fini quei forcti ac sanates, di cui ci parla Festo , che comprende vano le popolazioni superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza rimpetto alla medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del proprio diritto , cioè il ius nexi manci piique ( 1). Tuttavia , se ciò può esser vero delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza , che certamente un buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana di Roma ebbe ad uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore nell'orga nizzazione gentilizia . Cid soltanto può spiegare la superiorità incon trastata del patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte della plebe, che tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha il servo affrancato per il suo antico padrone (2 ). (1) La questione intorno alla condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo , vº Sanates , quale è riportato nel Bruns, Fontes, pag . 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal Mommsen). Io credo tuttavia , che la medesima, dandoci un concetto del tratta mento giuridico , che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma, possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro. (2) Ecco quindi la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione , che ha sede contigua allo stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di esso . Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa intorno alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle varie tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei padri , ed altra è la plebe, che la tradizione dice rac -- - 171 - 139. La formazione poi di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli dell'organizzazione gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde quando alla gente , che era ancora stretta insieme dal vincolo della discendenza, cominciò a sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi, che potevano essere di origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere nei suoi quadri, consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si venivano affollando intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori dell'organizza zione gentilizia , che era l'unica riconosciuta dalle genti patrizie , una moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito dal seno stesso della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti senza patrono ; al modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano in parte costituite da famiglie , che un tempo erano vassalle del feudatario . Siccome però nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare l'elemento novello , mentre il mede simo, una volta formato, può poi accrescersi in varie guise ed acco . gliere tutti coloro, che , per questa o quella considerazione, si trovano spostati nell'anteriore organizzazione: cosi questo primo nucleo , dopo essersi staccato dalla stessa organizzazione gentilizia , venne richia mando e quasi attraendo a sè rifugiati di altre comunanze ; servi fuggitivi; immigranti, che non amavano di porsi sotto la protezione del patriziato , o che, per motivi religiosi o di altra natura, non erano ammessi alla medesima; popolazioni di vinti, che perdevano territorio , religione e famiglia ; abitatori di vici, che si erano dati all'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse ; cultori di terre, che di fatto si erano stabiliti sul territorio situato nelle circostanze dello stabilimento patrizio ; popolazioni stabilite superiormente od inferiormente a Roma, a cui per necessità di commercio si dovette dapprima accordare quel ius nexi mancipiique, di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe anche come queste popolazioni, il cui nome era diventato inesplicabile per gli stessi antiquarii romani, abbiano col tempo perduta la loro an tica denominazione, in quanto che, a misura che estendevasi la do minazione romana, tutte queste popolazioni vennero ad essere com prese nella plebe, e non fu cosi più il caso di attribuire ad esse una colta mediante l'asilo offerto da Romolo. È parlando di questo asilo, che Livio, I, 8 , ebbe a scrivere : « E. (asylo) ex finitimis populis, turba omnis , sine discrimine liber seu servus esset, avida novarum rerum , perfugit ; idque ad caeptam magnitu dinem roboris fuit » . 172 speciale posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo primitivo si venne ingrossando, e quando le genti patrizie volgero lo sguardo at torno a sè videro in esso una plebs, che nel significato primitivo suona moltitudine o folla. Il nome pertanto , che le fu dato , corrisponde alla impressione, che questa folla deve aver fatto sopra una classe di uomini, che non conosceva altra organizzazione fuorchè la gentilizia . Le genti infatti non potevano scorgere in essa dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa , che per esse non aveva quel carattere religioso e sacro , che avevano tutte le loro istituzioni. Non potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè divisa in curie , nè aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato , che la diri gesse , nè era insomma un « coetus hominum iuris consensu et uti. litatis comunione sociatus » , e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra populus et plebes, che trovasi in alcune formule arcaiche ; dualismo, che per essere l'effetto di cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in tutte le comunanze delle genti italiche. Di queste tuttavia , se ne hanno di quelle, in cui quest'elemento è tenuto in umile stato , come sarebbero le città etrusche, ed altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali sarebbero appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per quest'elemento novello , che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria gerarchia , dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più tardi i patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano trasformarsi nei comizii tributi ; ma al lorchè il numero di questa plebe venne facendosi sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di necessità essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere belligero, quale era la romana . 140. Narra infatti la tradizione, per bocca almeno di Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe collocata la plebe nella clientela del patriziato , e incaricato i padri di farle assegnidi terre, a titolo di precario , non dissimili da quelli, che essi facevano ai clienti. In verità per una città eminentemente patrizia , come era Roma primitiva, il miglior modo per organizzare la folla , che aveva seguito l'esercito del fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da essa fondato , era quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione gentilizia. Fin qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale , ma è costretta ancora nei quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna nascente di Roma od 173 anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli esuli dalle altre città (questo vetus urbis condentium consilium , che non è poi cosi improbabile, come ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia mare nei dintorni della città una quantità di individui e di capi di famiglia di provenienza diversa ; anche la clientela venne ad essere insufficiente per comprendere nei proprii ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè forse essere di origine ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze diverse da quelle dai fondatori della città . Era stata la lunga coabitazione come servi e famuli nella famiglia , che nell'anteriore organizzazione gentilizia aveva servito a preparare la clientela delle genti patrizie . Questa preparazione invece mancava nel nuovo elemento , che accorreva nei dintorni di Roma; per tal modo l'antica istituzione religiosa ed ereditaria della clientela venne ad essere inadeguata e disacconcia al bisogno ed inetta a dare un'organizzazione al nuovo elemento . Quasi si direbbe che , collo svolgersi della città , l'antica forma, sovra cui si era modellata l'anteriore organizzazione sociale, che colla tribù già erasi alquanto sgretolata , venne a rompersi affatto . Quindi mentre tutto prima era compreso nella gerarchia gentilizia , colla città in vece comincia a farsi palese e a colpire lo sguardo questo ele mento novello , che guadagna e richiama a sè tutto ciò , che sfugge all'antica organizzazione. Dapprima il fatto dovette colpire l'ordine stesso dei padri, e loro parve strano di dover riconoscere, che l'or ganizzazione gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza. Ma col tempo fu necessità arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non poteva essere trascurato per una comunanza come la Romana di carattere eminentemente belligero , e che abbisognava perciò di un contingente sempre nuovo per riempire le file del proprio esercito . Sopratutto il nuovo elemento doveva apparire im portante per il re, il quale da una parte poteva trovare in esso un sussidio potente per la formazione dell'esercito, e dall'altra, as sumendo la qualità di patrono non dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe , poteva anche trovare in essa un appoggio per bilanciare la soverchia influenza dei padri. Questi infatti, memori, che il re era il loro eletto ed il rappresentante , a cui avevano affidato i proprii auspicia , lo volevano naturalmente ligio ai proprii interessi e mira vano a valersi di esso per trasportare anche nella città l'organiz zazione per genti e per tribù , per quanto la medesima male si accon ciasse alla nuova condizione. 174 - 141. Gli è questo il motivo, per cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai re, che vengono dopo, una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare la plebe. Mentre Romolo , dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto la clientela dei padri, e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere un ele mento nuovo (1), Numa invece già prende quanto alla plebe due importantissimi provvedimenti. Il primo è quello di distribuire direttamente ai più poveri, che sono appunto quei tenuiores, di cui parla Festo, e che appartengono alla plebe, l'ager conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac crescere l'ager publicus ; il quale provvedimento produsse l'effetto , che la plebe da questo momento, almeno in parte, cesso di essere sotto il patronato dei patres. Però siccome i cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al patronato dei patres sembra sottentrare una specie di patronato del re, il quale fa alla plebe quegli assegni di terre, che dapprima erano affidati ai patres (2). Forse può darsi che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re alla plebe sull'ager publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario, come quelli che erano fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius ; ma in tanto è già un passo importante per la plebe quello di non dipen dere più direttamente dai capi delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno sotto la protezione diretta del re, custode e ma gistrato della città . L'altro provvedimento, ricordato da Plutarco , e che egli dice essere stato altamente lodato, fu quello per cui Numa avrebbe di (1) Dion., 2 , 9 : « Romulus postquam potiores ab inferioribus secrevit ;mox legem tulit et quid utrisque faciendum esset disposuit : patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et iudicarent, plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes exercerent » (Bruns, Fontes, pag. 3 ). (2 ) Quanto a questa ripartizione fatta da Numa, vi ha divergenza fra CICERONE, De rep ., II, 14, secondo cui la ripartizione si sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO vuole che siasi fatta ai più poveri , II , 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I, pag. 85. - Per quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe, ritengo col KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi cazione giuridica attribuita al vocabolo (Röm . R. G., I , pag . 63 ). Ciò tuttavia pon toglie , che la plebe, dopo essersi resa indipendente dal patriziato, abbia trovato nel re il suo protettore naturale, e siccome tale protezione non si comprendeva al lora che sotto la figura di clientela, così gli autori considerarono il re come patrono o la plebe come sua cliente . - 175 - stribuito quella parte della plebe, che era dedita alle arti manuali e all'esercizio delle professioni diverse, in corporazioni di arti e mestieri (collegia ), che furono nove: quella cioè dei suonatori di flauto, degli orefici, dei muratori, dei tintori, dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei vasai e l'ultima di tutte le altre professioni, dando alle medesime proprie riunioni e i proprii riti. Vero è, che questo provve dimento ebbe ad essere posto in dubbio dalla critica e fra gli altri dal Mommsen , e che probabilmente i collegi, la cui formazione si attribuisce a Numa, potevano già esistere precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la cui popolazione fu una delle prime ad essere compresa nella plebe romana : ma non è punto improbabile che, come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita alla coltura delle terre , cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla plebe dedita agli esercizi delle arti e professioni diverse , o di consacrare almeno l'organizzazione, che già esisteva precedentemente o che tro vavasi in via di formazione ( 1). Non è quindi il caso di respingere la tradizione, dal momento che non vi ha nulla di meglio da sosti tuirvi ; almodo stesso che è meglio accettare anche le figure alquanto leggendarie dei re , piuttosto che sostituirvi qualche cosa, che non ha neppur più della leggenda, la quale è pur sempre intessuta sopra un fondo di vero. 142. Intanto questo si può affermare con certezza, che fin dagli inizii di Roma cominciò ad apparire un dualismo nella plebe ro mana, che, accennato fin dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, già comincia a delinearsi con Numa, il quale ad una parte della plebe fa assegni di terre e l'altra distribuisce per arti e mestieri, e che più tardi finisce per accentuarsi molto più recisamente. Havvi infatti in Roma, fin dai proprii esordii, una plebe rurale, composta di piccoli possidenti , ed (1) PLUTARCO, Numa, 17 : « De ceteris eius institutis maximam admirationem « habet plebis per artificia distributio ; haec vero fuit: tibicinum , aurificum , fabrorum « tignuariorum , tinctorum , sutorum , coriariorum , fabrorum aerariorum , figulorum ; « reliquas artes in unum cöegit , unumque ex iis omnibus fecit corpus ; consortia et < concilia et sacra cuique generi tribuens convenientia » (V. BRUNS, Fontes, pag. 11 ). L'autore , che sembrava porre in dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo stesso MOMMSEN , De collegiis ac sodaliciis ; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD , Histor. Introd., pag. 11 ; ma pare che nella Storia Romana accetti la ripartizione stessa come una verità di fatto. - 176 - una plebe, composta di artieri, commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse . L'ideale della prima è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una proprietà indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al sostentamento di sè e della propria famiglia ; quello insomma di avere quell'heredium o man cipium , che pur appartiene al capo della famiglia patrizia . A questa plebe, che non abita nelle mura di Roma, ma nelle circostanze di essa , dovette probabilmente dalla città patrizia essere riconosciuto quel diritto , che più tardi da Roma fu pure riconosciuto alle popo lazioni vicine, che sono indicate col nome di forcti ac sanates , cioè il ius nexi mancipiique. Cid pud essere argomentato da cid, che Roma di regola suole seguire gli stessi processi in condizioni anaa loghe e quindi è probabile, che questa plebe, che risiedeva fuori della città, e costituiva in certo modo una popolazione circostante alla medesima, fosse trattata nel modo stesso , in cui da essa furono poi trattate le altre popolazioni vicine. L'altra parte della plebe invece, mancando di altra organizzazione , cerca di rafforzarsi, come farà più tardi anche la popolazione commerciante dei comuni del Medio Evo, mediante le corporazioni di arti e di mestieri. Quelli, che apparten gono alla plebe rurale, convengono in Roma i giorni di mercato per vendervi i loro prodotti, e per conoscere anche i provvedimenti, che siano presi nell'interesse comune ; mentre gli altri, che apparten gono alla classe dei piccoli commercianti ed artieri, formano fin d'allora il primo nucleo di quella plebe urbana, nel seno della quale si formerà più tardi quella forensis factio, che già comincia ad apparire sotto la censura di Appio Claudio, e getta il discredito sulle tribù urbane. 143. Già erasi così delineata la distinzione fra plebe rurale ed urbana, quando sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una grande compattezza all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne accrebbe il numero e la potenza , le diede anche un nuovo indi rizzo e ne assicurò l'avvenire. Questo avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della parte più povera della popolazione di Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo Ostilio, e quella del trasporto od anche, come pare più probabile, della riunione alla plebe di Roma per opera di Anco Marzio, della popolazione di varie città latine da lui conquistate. Questo nuovo contributo venne ad accrescere la forte plebe rurale, vivamente affezionata al fondo da essa coltivato, e disposta a porre la vita per la difesa di esso, e fece entrare nella - 177 plebe un elemento , la cui origine era analoga a quella del patriziato , e che aveva già un'organizzazione domestica, non dissimile da quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso del patriziato primitivo di Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie delle città la tine, che assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando in essa un elemento , che portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e politico una tenacità e perseveranza, non dissimili da quelle, che contraddistinguono il patriziato romano. Di qui la conseguenza, che come era stata latina l'organizzazione del patriziato romano, poichè gli elementi sopraggiunti erano entrati nei quadri della città latina ; così fu sopratutto latina la massa più forte della plebe ro mana, quella massa, di cui una buona parte entro più tardi a costi tuire la nuova nobiltà. Senza questo elemento la plebe primitiva, di origine diversa e che in parte era forse di origine servile, avrebbe molto probabilmente continuato lungamente a mantenersi tale ;mentre questo innesto di famiglie latine, che nel loro paese nativo tenevano già un certo grado, per cui loro dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri dell'ordine patrizio, portò forza , organizzazione , tenacità nella plebe e ne assicurò l'avvenire, fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per uscire dalla plebe stessa, che aveva resa potente , e aggregandosi alla nobiltà abbandonò la plebe minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di frumento . 144. Per comprendere però un avvenimento di questa natura , importa farsi un'idea chiara della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma dall'altra . Erano entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica fra varie comunanze di villaggio , ed erano troppo vicine per poter coesistere. L'una o l'altra doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover scompa rire come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano capo ad essa, dovessero invece fare capo a quella , che riusciva vittoriosa . Il patto quindi che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi dei due popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che, trattandosi di popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre per parte le sorti della guerra (1) . (1) Questo intento della guerra Albana è messo in evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio nella concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo squartamento Metto Fuffezio : « Quod bonum , faustum G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era lotta di pre dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata e riconosciuta , ed era una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse preva lere : senza che occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero dei tre corrisponda alle tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle curie (1). Conseguenza dell'esito del duello fu , che la città soccombente perdette la propria esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie albane furono aggregate al patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i Tullii, i Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti pero, per essere sopraggiunte più tardi, furono poi collocate dallo stesso Tullo Ostilio o da Tar quinio Prisco nel novero delle gentes minores . Tutta la popolazione invece, che, nelle condizioni, in cui allora si trovava, non poteva entrare nel patriziato entro in massa nei ranghi della plebe, e una parte di essa , cioè la più povera, ebbe anche degli assegni di terre. Cid pure accadde, quando Anco Marzio vinse altre comunanze latine , e ne aggregò la popolazione alla plebe romana; il che fu dalla tradi zione espresso con dire, che Anco Marzio aveva trasportata a Roma la popolazione di quattro città latine (2 ). 145. È a questo punto pertanto , che la plebe acquista in Roma una vera importanza, e che viene ad essere indispensabile di trovare un modo per farla entrare, ancorchè a condizioni disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo cominciato con Tarquinio Prisco , e condotto a compimento da Servio Tullio (3). Mentre Tarquinio Prisco non riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque, Albani; populum omnem Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare plebi; primores in patres legere : unam urbem , unam rempublicam facere » . (1) Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag . 35. (2) Questi fatti attestati dalla tradizione e da tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile l'opinione sostenuta con molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia civile e costituzionale di Roma, lib . I, cap. 6 , pag. 97 a 113, Torino, 1881, secondo cui il partiziato romano sarebbe stato Sabellico , mentre la plebe sarebbe stata Latina. Questi fatti invece dimostrano, che la popolazione delle città latine era essa pure divisa in patriziato ed in plebe, cosicchè quel dualismo che presentasi in Roma già preesisteva nel Lazio . Del resto l'ipotesi del dotto au tore sarà poi presa in esame quando si tratterà della legislazione regia , Lib. II, cap . IV, discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi italiche alle istituzioni giuridiche di Roma. (3) L'importanza grandissima per l'avvenire della plebe romana di quest' innesto 179 che a conglobare i rappresentanti di queste varie genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine dei cavalieri , raddoppiandone il numero, e continua a lasciare la plebe nella condizione, in cui prima si trovava ; Servio Tullio invece inizia una organizzazione novella, che può comprendere così nelle file dell'esercito, che nelle riunioni dei comizii quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione economica e sociale, da interessarla alla cosa pubblica . È da questo punto parimenti, che la plebe rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che la plebe urbana, e che principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità della formazione di un diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo ravvicinamento deve anche essere riposto nel fatto , che le istituzioni del patriziato e quelle del nuovo elemento , aggiuntosi alla plebe, non erano a grande distanza fra di loro ; poichè l'uno e l'altro avevano la medesima organizza zione domestica , ed oltre a ciò fra queste famiglie latine ve ne erano di quelle che un patriziato , meno esclusivo e geloso dei suoi privilegi, avrebbe potuto accogliere nel proprio seno (1). Ferma quest'origine della plebe e questa primitiva organizzazione della medesima, veniamo a ricercare quali fossero le istituzioni giu ridiche, che essa poteva possedere all'epoca, in cui entrò a far parte della comunanza romana. di forti popolazioni latine sulla plebe primitiva , in parte di origine servile , è un fatto riconosciuto da tutti gli storici. Cominciò a notarlo il NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange e molti altri. (1) Nota molto accortamente a questo proposito il Gentile , Le elezioni e il bro glio , pag . 142, che « quella nobiltà, che poscia fu chiamata nuova e che in gran parte esce di ceppo latino, non era tanto nuova , quanto sembra alla prima; perchè discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità italiche, venute ad aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli onori in quella cittadinanza , a cui più o meno recentemente erano ascritte ». Di qui la conseguenza , a cui egli allude a pag. 150, che « la costituzione romana , eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità popolare nel nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica , immobile nella mano di pochi » . - 180 CAPITOLO IX . La posizione giuridica della plebe di fronte al patriziato . 146. Se posta questa origine della plebe e questa primitiva or ganizzazione della medesima, si domandasse ora in che consistesse la plebe all'epoca, in cui essa appare nella storia di Roma, sarebbe necessità di rispondere con una deffinizione di carattere negativo . La plebe infatti è negli esordii di Roma tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine diversa, che di fatto trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni della città patrizia ; ma che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione giuridica, perchè non entra a far parte dell'organizzazione gentilizia . Essa è, come dice Gellio, quella parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul suolo romano, ma in cui « gentes patriciae non insunt » (1); o meglio an cora quella parte di tale popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della organizzazione gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini della città patrizia . Al modo stesso , che più tardi si chiamerà peregrinus chiunque non sia cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare anche ad un altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte quelle cose, che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res mancipii, e anche più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar tengono ad una persona senza appartenerle ex iure quiritium ; cosi alla domanda in che consista la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere , che essa è quell'elemento, che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di esso , consacrati dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul territorio della città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione giuridica e politica di essa . Ora e sempre sarà questo il punto di vista , a cui si colloca il popolo romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè, sopra il suo culto , sopra la sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas, sopra il suo diritto , e in base al medesimo classifica e dispone tutto il rimanente dell'universo , secondo la posizione, che esso tiene riguardo a sè e alle proprie istituzioni. Questo modo di (1) GELL., Noct. att., X , 21, 5 . - 181 - procedere del resto non sembra esser proprio soltanto dei Romani, che chiamano tutti gli altri popoli hostes o peregrini; ma anche dei Greci, che hanno una sola qualificazione per tutti gli altri, che è quella di Barbari; anche dei cristiani del Medio Evo, che chia mano tutti gli altri col nome di infedeli; ed in genere sembra es sere proprio di tutte le stirpi Ariane, anche nell'Oriente, le quali cre . dono di avere il diritto di sovrapporsi a tutte le altre. Che anzi questo modo di procedere può anche ritenersi comune a tutto il genere umano, sopratutto nelle epoche primitive, in cui ogni popolo , chiuso in sè stesso, mal conoscendo il rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa , facendo sè il centro dell'universo (1). È sempre applicando questa logica superba, ma ad un tempo ingenua e del tutto conforme alla natura dell'uomo, che il popolo formato dalle genti patrizie, chiamò plebe tutto ciò , che non era compreso nei suoi ordini, cioè nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia il populus romanus quiritium , dopo che già comprende va la plebe , vide una folla e moltitudine di peregrini e di hostes in tutti quelli , che non erano compresi nei quadri della città romana. Di qui con seguita , che la definizione di quell'elemento, che è il solo ad essere tenuto in conto , implica eziandio la deffinizione negativa di quello , che ne costituisce il contrapposto . 147. Se quindi è solo il populus delle gentes, che possiede un diritto , ne verrà comeconseguenza , che la plebe non può negli inizii avere rimpetto ad esso che una posizione di fatto, e continuerà ad esser sempre in questa condizione, finchè il populus non le verrà facendo qualche concessione, o la plebe stessa troverà modo di ac costarsi all'organizzazione del populus, e di penetrare , sotto questo o quell'aspetto , nei suoi ordini e nei suoi quadri, consacrati dalla religione e tutelati dal diritto . La plebe insomma è un elemento, che ha una posizione di fatto , e che si viene avviando alla conquista di una posizione di diritto . Essa è nella stessa posizione, in cui saranno poi i Latini e gli Italici, allorchè formeranno già il grosso dell'e sercito romano, e intanto non saranno ancora ammessi alla cittadi. (1) Fo qui applicazione di un concetto del Vico, il quale certo vide molto addentro alla natura dell'uomo primitivo. Tale concetto costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda scienza nuova, secondo cui: « L'uomo per l'indefinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sè regola dell'universo » . Solo è a notarsi, che i Romani ciò non facevano per ignoranza ,ma perchè veramente attri buivano a se stessi una superiorità sugli altri. 182 nanza romana : mentre questi ricorreranno in tale intento alla guerra sociale, la plebe ricorrerà invece alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto il pareggiamento civile e politico . Qui, comenel resto , il processo della logica romana è sempre il medesimo; incomincia da tanti cerchi, che si vengono formando nell'interno della città , e che poi si vengono sempre più allargando, finchè non giungono a comprendere tutto l'universo conquistato dalla eterna città . 148. Ciò premesso si può comprendere, quale potesse essere lo stato delle istituzioni giuridiche presso la plebe primitiva di Roma. Esse erano istituzioni, che avevano un'esistenza di fatto : ma a cui il patriziato non annetteva effetti e conseguenze giuridiche. Tuttavia , anche considerate sotto questo aspetto , le istituzioni plebee non po tevano certo avere fra di loro un ' analogia , che possa paragonarsi con quella , che esisteva fra le istituzioni delle genti patrizie, la quale erasi fatta più intima, stante la loro partecipazione alla stessa co munanza civile e politica . Anzitutto si cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali, che abbiamo trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi vocaboli di fas, di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal patriziato che il vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima applicazione. Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente le unioni ma trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle cose divine ed umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini plebee potè avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso di essa quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per l'acquisto ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che appartenga ad una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a manifestarsi non tanto la pro prietà , quanto la possessio , che dapprima tiene luogo di essa . In fine sarà eziandio , mediante l'usus, che, allorquando verrà a morire un capo di famiglia plebea , i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi congiunti ed anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da esso lasciati; e avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio pro herede, che il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era coerente al principio dell'agnazione posto a fondamento della successione quiritaria (1). Tutto ciò insomma, (1) GAIO , Comm ., II, 53, 54. 183 in cui predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto , è da ritenersi di origine plebea , e solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario sotto il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega anche il motivo, per cui , allorchè la legislazione decemvirale attribuì carattere giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi tazioni e prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle richieste più tardi dalla giurisprudenza , perchè siavi usu capione, e perchè il possesso possa ottenere protezione giuridica . Ciò del resto era una conseguenza delle condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea; poichè se in un patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e regolato con norme e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere giuridico , avevano almeno un carattere religioso e morale ; in una comunanza invece, composta di individui e di famiglie di origine diversa , priva di tra dizioni e di recente formazione, i rapporti fra i singoli individui non potevano essere governati, che dall'usus (1). (1) Credo non occorra qui di richiamare l'attenzione sulla grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare l'origine dimolte istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione, che appare introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad apparire l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè introdussero contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus, per l'acquisto della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del l'eredità. L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la posizione di fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò spiega eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto titolo, nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione , perchè potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo dell'usucapione, le quali hanno fra di loro strettissima attinenza . Così pure si spiegano le definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui : < Usucapio est dominii adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii » , senza che richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei decemviri per trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali , che non la rendessero pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose rubate, e consentendo alla moglie , che coabitava colmarito, di interrompere l'usucapione della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium . Intendo però di riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può ravvisarsi nel MUIRHEAD , Histor. Introd., pag. 48 e 179, nella sua ingegnosa congettura intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel suo recente articolo sull' « Histoire de l'usucapion » che si trova nei suoi Mélanges d'Histoire de droit, Paris, 1886, pag. 171 a 217. Solo credo di 184 149. Parimenti, è sempre sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in cui trovasi la plebe, che i suoi commercii non possono essere governati da forme solenni, simili a quelle che si erano for mate fra i padri delle famiglie patrizie; ma dovettero svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai bisogni di una comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera propria pro tezione giuridica . Fu quindi certamente nei rapporti della comune plebea , che dovette anche svolgersi l'emptio-venditio , accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il motivo, per cui presso gli antichi, secondo Festo , emere pro accipere ponebatur, in quanto che emere era vera mente prendere la cosa comperata (1). Fu in essa parimenti, che dovette aver origine quel singolare istituto della fiducia , il quale serve qual mezzo per accordare una efficace garanzia al proprio creditore, lasciando a sua mano la cosa , che deve servirgli di malle veria (2 ). Fu parimenti in essa , che dovette svolgersi quel modo aver allargato il concetto riunendo istituzioni, che potevano apparire disparate , e dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in questa parte indirizzata a dare carat tere giuridico ad istituzioni, che avevano solo un'esistenza di fatto presso la comu nanza plebea. (1) Sarebbe infatti pressochè incomprensibile, che un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano, e del quale una parte aveva già attra versato, e non inutilmente, tutto un periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare contratti , come l'emptio venditio, la locatio conductio , e simili. Essi dovevano certamente esistere, quand'anche non fossero per avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 49 ; COGLIOLO , Prefazione, pag. XI, alla traduzione del GOODWIN , Le XII Tavole , eseguita dal Gaddi, Città di Ca stello, 1887. È poi noto, che la disposizione della legge decemvirale, per cui la ven dita non è perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche coinune alla Grecia ; il che dimostra , che dovette essere determinata da comuni necessità , in quanto che la vendita seguiva talora fra persone, che appartenevano a genti e a comunanze diverse, e non sarebbe stato facile riavere la cosa, quando non ne fosse stato pagato il prezzo. (2 ) Anche l'istituto della fiducia è uno dei più antichi e dovette nascere nella comunanza plebea , perchè fuorusciti ed immigranti senza posizione giuridica non potevano ricorrere che a quella . Si spiega pertanto il largo uso , che se ne fece nel diritto primitivo di Roma, in quanto che vi si ricorre nel testamento, per la nomina di un tutore, per la concessione di un pegno e forse in molti altri casi ancora, che dovettero verificarsi pel costume e non penetrarono nel diritto quiritario propria mente detto. Ciò è dimostrato dalla frequenza, con cui nei poeti latini e sopratutto nei comici occorre il caso, in cui una persona, allontanandosi, affida il patrimonio e la figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad una persona di sua confi denza . Questo costume è anzi il perno, intorno a cui si aggira il Trinummus di PLAUTO . 185 - semplicissimo di fare testamento , che ci venne più tardi ancora de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed arcaiche, e che dovea servire più tardi come base al testamento quiritario per aes et li bram , per cui il plebeo , che muore senza figliuolanza , affida ad un amico il suo patrimonio e le sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà poi distribuirli, quando egli sarà morto . Del resto è questo il modo che ancora oggidi torna opportuno all'emigrante , che, trovandosi in pericolo di vita ed essendo lontano dalla patria e dalla famiglia, affida ad un amico , che avrà la fortuna di tornare in patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare , perchè lo riporti a coloro, che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella ricostruzione di quest'ordine di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di fare testamento si rannodi senz'alcun dubbio quella istitu zione del fedecommesso , che, mantenutasi per certo nel costume, senza poter penetrare nella cerchia rigida del diritto civile romano , fini tuttavia per trionfare negli inizii dell'Impero e trionfo , perchè popu lare erat (1) . Quel testamento quindi, che per un capo di famiglia patrizia doveva essere fatto coll'approvazione dell'assemblea della tribù dapprima, e poi davanti ai comizii della città e serviva sopra tutto a perpetuare l'heredium nelle famiglie , e ad impedire che il patrimonio uscisse dalla gente ; per i membri invece della comunanza plebea non poteva essere che un atto di fiducia , un rimettersi, (1) Il testamento primitivo, a cui accennanoGaio, Comm. II, 102 , ed anche Gellio , XV, 27, 3, è una specie di mancipatio cum fiducia, in virtù della quale una persona « si subita morte arguebatur, amico familiam suam , id est patrimonium suum ,mancipio dabat, eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet » . Ciò indica che la prima forma, sotto cui comparve il vero testamento, quello che poi si svolse nel testa mento per aes et libram , fu il fedecommesso,malgrado tutte le difficoltà che il mede simo incontrò poi per passare dal costume nel diritto civile romano. È poi degno di nota, che i Romani più tardiritennero di aver ricevuto dai peregrini questa istituzione del fedecommesso , che certo già esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in fatti, Comm . II, 285, scrive : « ut ecce peregrini poterant fidem commissam facere et ferre : haec fuit origo fideicommissorum » ; il che mi conferma nell'induzione, che il primitivo diritto plebeo , di fronte al diritto già elaborato delle genti patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più tardi il diritto delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario, abbia sempre continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai comici latini. Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di TERENZIO , I, 5 : « Bona nostra tibi permitto et tuae mando fidei » . È da vedersi in proposito l’Henriot, Mours jurid . et judic., I, pag. 411 e segg . 186 che altri faceva ad un amico o ad congiunto , acciò egli distribuisse le sue cose per il tempo, in cui avrebbe cessato di vivere. 150. Lo stesso infine è a dirsi dei modi di procedere contro il debitore in questo primitivo diritto plebeo . Sarebbe inutile cercarvi la forma solenne dell'actio sacramento , che era nata e si era svolta fra capi di famiglia , che sentivano la loro superiorità ed indipen denza ; ma è più facile che trovisi fra la plebe l'uso della manus iniectio , ed anche quello della pignoris capio, istituzioni che sa rebbero incomprensibili fra capi di famiglie patrizie , ove sono già penetrati il fas ed il ius, ed hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi famiglia , l'uso di farsi ragione colla forza e l'esercizio della pignorazione privata (1). Così pure è naturale, perchè conforme alle condizioni della plebe, che in essa ancora si rinvengano le traccie della privata vendetta, del taglione, come pena di colui che ha recato un danno, della composizione a danaro per un furto sofferto, e perfino anche per un adulterio ;perchè queste sono tutte istituzioni, che sono consentanee col modo di agire e di pensare di una comunanza plebea, mentre ri pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di carattere religioso , che era così fermamente stabilita presso il patriziato ( 2). La plebe (1) L'origine plebea dell'actio sacramento è esclusa dal carattere religioso inerente alla medesima ed anche dalla circostanza, che noi la troviamo comune alle genti italiche ed elleniche, come lo dimostra la descrizione, che ne troviamo in OMERO , Iliade, Canto XVIII, ove descrive lo scudo di Achille, il che può indurre a credere, che essa fosse già importata dall'Oriente. Quanto alla manus iniectio , essa poteva esistere fra la plebe, come esercizio privato delle proprie ragioni; ma non poteva avere la significazione giuridica , che vi attribuì il patriziato. In questo senso ritengo, che la manus iniectio fosse una procedura usata dai padri contro i debitori plebei, il che cercherò di provare nel capitolo seguente. ( 2) Questa varia concezione del delitto presso ceti di persone, che erano in con dizioni sociali compiutamente diverse , può essere facilmente compresa . Il patrizio sente di far parte di una corporazione religiosa e civile ad un tempo, e quindi può scorgere nel delitto un'offesa al costume dei maggiori, una violazione del fas, ed un danno alla comunanza: non così il plebeo, che è ancora soltanto un individuo, o un capo di famiglia, pressochè isolato in una comunanza in via di formazione. È quindi naturale, che egli nel delitto senta sopratutto il danno materiale che gliene deriva , che consideri la noxa (colpa ) come una noxia (danno) : che quindi reagisca contro quel danno; ricorra al taglione; venga alla composizione a danaro; e così riverberi in modo più schietto l'impressione, che dovette fare il delitto nelle epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa attraverso al gruppo di cui fa parte, e quindi comincia 187 primitiva nel delitto sente sopratutto il danno e reagisce contro di esso ; mentre il patriziato già vi scorge un peccato contro la divinità e già comincia a ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu nanza . Tutte le istituzioni insomma, che non presuppongono una lunga preparazione anteriore , che non hanno una storia nel passato , ma che trovano direttamente la propria radice nelle tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni immediati di una comunanza, che è soltanto in via di formazione, e in cui entra ad ogni istante un nuovo ele mento , che si viene aggregando, debbono essere ritenute di origine plebea . Non chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle cerimonie solenni, da cui sono circondati, né le procedure, che contengono una storia del passato, nè gli auspicia , che ad ogni atto pubblico e pri vato imprimono un carattere religioso ;ma solo chiedasi ad essa il senso di quel ius naturale, quod natura omnia animalia docuit. Sarà anzi questo connubio di un elemento onusto di tradizioni con un altro vergine di esse , che potrà rendere possibile la formazione di un di ritto , che finirà per dar forma giuridica a tutta l'immensa suppel lettile dei rapporti derivanti dalla civil convivenza. Come quindi esistevano , fin dagli inizii di Roma le traccie del ius gentium ; cosi vi erano anche quelle del ius naturale, non come idea filosofica, pre sente alla mente di un giureconsulto, ma come un complesso di forze e di energie inerenti all'umana natura, che spingevano una comu nanza in via di formazione a provvedere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze , che si venivano presentando. Per talmodo ciò che più tardi verrà ad essere nozione astratta , negli inizii è forza ed energia , che spinge, come direbbe il Vico , l'uomo ad celebrandam suam so cialem naturam . Basta questo per dimostrare, come anche negli usi della plebe potesse esistere un materiale greggio , che potè a poco a poco ricevere forma giuridica nel diritto quiritario. Per tal modo certe istituzioni, che compariscono solo più tardi, poterono già esi stere , come usi, da un'epoca ben più antica . Cid serve intanto a spiegare come nel diritto quiritario non trovisi dapprima una quan tità di atti e di negozii, senza cui sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere nel delitto un'offesa collettiva ; mentre questi non sente ancora che il danno privato, che possa derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel diritto quiritario si presentano dapprima col carattere di offese private, e solo a poco a poco si convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 434. 188 mercio per un popolo , le cui istituzioni giuridiche e politiche già dimostrano assai progredito . Qui intanto , per non spingere questa ricostruzione a particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due istituzioni fondamentali del diritto privato , che sono la famiglia e la proprietà . 151. Se noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della famiglia , quale è giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le iustae nuptiae,madei semplici matrimonia , quasi ad in dicare che i plebei potevano bensi indicare le loro madri, ma non potevano indicare con certezza i loro padri. Al qual proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi di persone, alcune delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere una certa qual rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non sembra tuttavia , che la congettura possa spingersi fino al punto , a cui la spinge il Bachofen, secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a costituire la plebe, avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli di origine etrusca , abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo conosciuta la parentela dal lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati nella condizione del matriarcato (1 ). Senza affermare, nè negare il fatto, perchè mancano gli elementi per decidere, credo pero didovere osservare che, quando questo fosse stato , ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii. Il vocabolo dima trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva la pa rentela dal lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione della famiglia patrizia fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione. Quindi quello solo , che noi possiamo affermare con certezza, si è che nella plebe primitiva quanto che serve talora ad indicare leesisteva una famiglia, costi tuita sulle sue basi naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla affinità . Ed è anche facile trovare la ragione di questo fatto , la quale consiste in questo, che la famiglia plebea, appunto perchè non era ancora entrata a far parte dell'organizzazione gentilizia , cosi non aveva ancora potuto subire quell'artificiale ordinamento , che veniva ad essere necessario per una famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un tempo. Era quindi naturale , che la plebe , non avendo l'organizzazione gentilizia fondata sull'a (1) Cfr. Muirhead, Histor. Introd ., pag. 34 e 35 ; e il Bachofen, Das Mutterrecht Stuttgart, 1861, pag. 92. 189 gnazione, cercasse modo di rafforzarsi mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi, quali sono appunto quelli della co gnazione e dell'affinità . Non è quindi il caso di contrapporre alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale ; ma solo di dire, che la plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione, aveva in vece quella fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver valore per le genti dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e sentita da chicchessia . 152. Qui però si potrebbe opporre che, così essendo , male si com prende come nel diritto quiritario a vece della famiglia , fondata sul vincolo del sangue, che certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto essere preferita , abbia invece avuta prevalenza la famiglia, fon data sull’agnazione, e come solo più tardi la cognazione sia riuscita a correggere almeno in parte la famiglia primitiva romana. Cid tuttavia può essere facilmente compreso, quando si consideri, che la città , in cui trattavasi di entrare, era stata fondata dai patrizii; che questi erano i forti ed i ricchi, mentre i plebei erano, almeno negli esordii, i deboli ed i poveri ; che quelli avevano una posizione di diritto , e che questi erano solo tollerati per la loro posizione di fatto. Era quindi naturale, necessario , che la plebe, sopratutto quando fu for temente compenetrata dall'elemento latino, la cui organizzazione domestica era analoga a quella delle genti patrizie, si sforzasse di imitare anche in questa parte il patriziato, e che anzi col tempo le famiglie plebee, che erano pervenute al ius imaginum , si sforzassero di imi tare perfino l'organizzazione per gentes in un'epoca , in cui essa åveva già certamente perduto della propria importanza. 153. Del resto è incontrastabile, che di questo fondamento cognatizio della famiglia plebea rimasero delle traccie nella legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni domestiche, che dovettero probabilmente essere di origine plebea . Così, ad esempio, è notabile che la legislazione decemvirale, mentre assegna la suc cessione legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia invece al gruppo dei cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente , quello di appellare da una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto : disposizioni, che possono considerarsi come sopravvivenze 190 e quasi accenni di vendetta privata , la quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe (1) . Insomma la conclusione ultima sarebbe questa , che Roma, fin dai suoi esordii, non ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi sotto la umile apparenza di un'istituzione plebea ; che tuttavia questa famiglia naturale, nel periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in certo modo soverchiata dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato ; e solo riusci di nuovo più tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in modo indiretto nella cer chia del diritto romano, sotto la protezione del pretore e del diritto delle genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza , perchè colla famiglia si connette tutto il sistema della successione e della tutela legittima, le quali perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione gentilizia della famiglia nel diritto quiritario . Cid intanto spiega eziandio, come in via di reazione nello stesso diritto quiritario abbia preso così largo svolgimento l'istituzione del testamento , perchè questo era il solo mezzo per sottrarsi alle conseguenze di un sistema di successione legittima, ispirato ancora al concetto di serbare in tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che una piccola minoranza di genti patrizie era riuscita ad imporre ad un numero assai mag giore di famiglie , e che col tempo , col dissolversi della organizza zione gentilizia, fini per divenire grave allo stesso patriziato . 154. Per quello poi, che si riferisce alle condizioni economiche della plebe, è assai probabile che la medesima, prima di giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia cominciato dall'occupare di fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei venivano a stabilirsi nelle vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia . Dapprima queste possessioni figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti o dai padri o dal re come loro patroni, od erano anche terreni incolti , sovra cui si arrestava la famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e dissodarvi attorno un piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere indotto da alcuni passi di Festo, che si riferiscono a questi primitivi possessi ed all'occu pazione di agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero stati ab bandonati. Egli infatti scrive: Possessiones appellantur agri late patentes, publici privatique , quia non mancipatione sed usu ( 1) Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 35 . - ! - 191 tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat (1). Qui infatti è evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro pubblico , ma anche di possessioni di carattere privato , e furono queste , che do vettero appunto essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure confermato dallo stesso Festo, ove scrive : occupaticius ager di citur, qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur ( 2), indicando cosi l'esistenza di una consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai suoi cultori, ne sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni dovessero acquistarsi in questo modo, in seno alle comunanze plebee , lo dimostra l'importanza , che presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale importanza appare dal fatto, che secondo le leggi decemvirali bastava il possesso di un anno per l'acquisto delle cose mobili e quello di due anni per quello delle immobili ; disposizione questa, che dovette uscire dagli usi proprii della plebe. Mentre infatti, presso le genti patrizie, tutto era governato dal mos e dal fas; in una comunanza plebea, che era soltanto nella propria formazione, non poteva esservi altra autorità , che quella dell'usus, e doveva apparire proprietario quegli, che in effetto usucapiva la cosa od il fondo, del quale si trattava. La pro prietà non poteva ancora in questa condizione di cose distinguersi affatto dal possesso , e quindi si comprende che il giureconsulto più tardi ancora dicesse: dominium rerum ex naturali possessione cae pisse , Nerva filius ait ; eiusque rei vestigium remanere de his , quae terra , mari, coeloque capiuntur ; nam haec protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum apprehenderint (3). Si com prende parimenti, comein una comunanza di questa natura, che dap principio era costituita da una massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente il breve termine di un anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni per l'usucapione di quelle immobili ; e cið nell'intento di poter trasformare con celerità lo stato di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà. Se in una comunanza già formata importa di allungare il termine dell'usucapione, acciò essa non serva come mezzo per usurpare il diritto esistente; in una co (1) V. Festo, v° Possessiones ( Bruns, Fontes, pag. 354): la qual definizione è ri portata tal quale anche da Isidoro (BRUNs, pag. 411). (2 ) V. Festo , Occupaticius. Di qui già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager occupatorius non doveva confondersi coll'ager occupaticius (Bruns , Fontes, pag. 348, nota 6). Vedi per l'opinione contraria Karlowa, Röm . R. G., I, pag. 95 . (3 ) Paulus, L. 1, § 1, Dig . (41, 2 ). 192 munanza invece, la quale sia in via di formazione e attragga in sé nuovi elementi, importa di abbreviare il termine di tale usuca pione, acciò lo stato di fatto mutisi al più presto in uno stato di diritto . Con tale sistema una famiglia plebea, quando fermava il piede sopra un suolo incolto od abbandonato ( possessio, da pedum quasi positio) aveva appena tempo a metterlo in coltivazione, che già ne diventava proprietaria ex iure quiritium , e intanto , appena un posto rimaneva vacante, veniva ad esservi quello, che lo occu pava, e dopo breve tempo era considerato ancor esso come legittimo proprietario . Certo non poteva esservi un migliore sistema per po polare immediatamente il territorio circostante a Roma, e per popo larlo di famiglie che, affezionandosi al suolo, finissero per prendere interesse alla grandezza e all'avvenire di quella città patrizia, sotto la cui protezione e tutela la plebe aveva potuto diventare anch'essa proprietaria del suolo (1 ). Ciò però non dovette accadere di un tratto; ma solo a misura che i commerci fra Roma patrizia e la popola zione circostante conducevano alla formazione di un comune diritto . 155. Fu quindi solo col tempo, che queste possessioni, tollerate dai padri, od anche dai medesimi o dal re assegnate ai plebei a titolo di precario, poterono cambiarsi in una specie di proprietà di fatto più che di diritto, sovra cui essi vivevano colla propria famiglia . Intanto questo piccolo podere coi frutti, che se ne potevano ricavare e che portavansi al mercato , porgeva anche alla plebe occasione di entrare in commercio col patriziato. Si comprende quindi, che quando le cose furono a tal punto , che i re sentirono la conve nienza di aggregare la plebe alla cittadinanza romana , anche per afforzare l'esercito della città patrizia , dovesse sorgere naturalmente l'idea , attuata poi da Servio Tullio , di ammetterli alla comunanza, in quanto erano capi di famiglia , e avevano uno spazio di terra, sovra cui potevano vivere colla propria famiglia . Siccome poi la plebe non conosceva altra proprietà , che la privata , o meglio quella , che ap (1) Trovo in Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un passo, che dimostra come i Romani comprendessero l'importanza, che aveva la proprietà per interessare la plebe alle sorti della Repubblica : « Sed quoniam res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque in patriam , fides quaedam in ea, firmamentumque erat » . Fu questo , aggiunge Gellio, il motivo, per cui i prole tarii, e i capite censi, solo tardi e quando non se ne potè fare a meno, furono chia inati a far parte dell'esercito. 193 partiene al capo di famiglia , non aveva agro gentilizio , e non doveva neppure dapprima essere ammessa ad immettere i proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo stesso che più tardi non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la quale occupazione dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio ; cosi ne derivò la conseguenza , che l'unica proprietà , che poteva essere riguardata come posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la sola, che fosse comune ai due or dini, era la proprietà privata . Cid può servire a spiegare il fatto , che da Servio Tullio in poi quasi più non si discorre degli agri gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle genti: ma solo più dell'ager privatus, delmancipium , dei praedia censui censendo, e dell'ager publicus . Questi sono l'unica proprietà della plebe ; mentre l'occupazione dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza del patriziato . Quindi si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si attacca alla propria terra, il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum , piuttosto che alienarla, e la lotta , che essa sostiene per ottenere quelle ripartizioni dell'ager publicus, che le porgevano mezzo di entrare nella vera cittadinanza di Roma. Intanto siccome questa proprietà e il commercio , che derivava da essa , erano gli unici diritti, che la plebe avesse comuni col patri ziato : così viene eziandio a spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo diritto quiritario assumano un carattere essenzialmente mercantile , e siano tutti fatti entrare forzatamente sotto le figure del nexum e del mancipium , come meglio apparirà più tardi. 156. Dalle cose premesse si può raccogliere la conclusione se guente , quanto ai rapporti, che intercedono fra il patriziato e la plebe negli esordii della comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che il primo nucleo della plebe siasi costituito mediante ele menti,che si vennero staccando dalla stessa organizzazione gentilizia, perchè più non potevano essere compresi nei quadri della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati a sè tutti coloro , che si trovarono spostati nell'anteriore organizzazione, crebbe per modo in numero ed importanza da costituire di fronte alla città patrizia una vera e propria comunanza plebea , che doveva di necessità essere presa in considerazione. Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz zazione, che è l'unica riconosciuta dal patriziato ; così essa viene dapprima ad essere lasciata a se stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla , la quale ha bensì una esistenza G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 13 194 di fatto, ma che è priva di qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato . Di qui il dualismo fra i due ordini, che, nato già nella tribù , viene a costituire il gran dramma della comunanza civile e politica . In questa infatti son chiamati a convivere due elementi: di cui uno ha una posizione di diritto , ha la città , ha gli auspicii, le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una posizione di fatto , più tollerata che riconosciuta, e non può fare as segnamento , che su quello spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle proprie famiglie, ed è solo poggiandosisopra di esso , che potrà entrare a fare parte della comunanza. Per quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni religiose, giu ridiche e politiche, non corre una minore differenza fra i due or dini. Mentre il patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei suoi antenati, dei concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e trovasi fra le strette dell'organizzazione gentilizia , che dopo aver fatta la sua forza, comincia ora ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in un'aristocrazia chiusa in se stessa ; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al tempo stesso il vantaggio di en trare nella vita politica , senza la memoria dei maggiori ed il culto di essi, senza essere vincolata dalle proprie tradizioni, e trovasi cosi in condizione di ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi genze, ai bisogni e alle necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò si aggiunge, secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della plebe per la prima volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da ogni vincolo sociale e gen tilizio , deve essere riguardato come persona, ossia come capace di diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior concetto , a cui abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico noscere l'uomo libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto l'influenza dell'elemento plebeo (1). 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte al problema di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero delmedesimo (1) KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag . 64. L'autore, che ebbe giusta mente a notare che il più alto concetto, a cui giunse il diritto privato di Roma, è quello che l'uomo libero , come tale, sia capace di diritto, è il compianto Bruns, Geschichte und Quellen des römisches Recht's, $ 3, in HoltZENDORFF's, Encyclo pädie , I, pag. 105, 4.ed . — È da vedersi in proposito il Brugi, Le cause intrinseche della universalità del dir. rom ., Prol., Palermo, 1886 . 195 diritto due ordini, di cui uno era ricco di tradizioni e stretto nei vincoli del passato , mentre l'altro , per le speciali sue condizioni di fatto , non aveva per sè che il presente e sopratutto l'avvenire. Il problema per la plebe era quello di mutare la sua posizione di fatto in una posizione di diritto , e per il patriziato quello di dare alla plebe un diritto e di farla entrare nei quadri della sua città , senza comunicarle che gradatamente quel fascio di tradizioni reli giose , giuridiche e morali, di cui esso era gelosissimo conservatore. Certo il problema era di difficile risoluzione, ma la logica giuri dica di Roma seppe risolverlo in un modo, che può veramente dirsi meraviglioso . La conseguenza venne ad essere questa, che il di ritto, che venne formandosi in Roma, si presenta antico sotto un aspetto e nuovo sotto un altro. È antico nei concetti, nelle forme, nei vocaboli stessi, che già tutti esistevano precedentemente ed erano stati elaborati dal patriziato nel periodo dell'organizzazione genti lizia ; ma è nuovo in quanto che nelle forme antiche penetra uno spirito nuovo e si fa entrare tutta una nuova vita civile e poli tica , che più non poteva essere contenuta nei quadri dell'organiz zazione gentilizia . Nella formazione di questo diritto tutto ciò che è di forme solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni aventi carat tere religioso e morale, viene ad essere di origine patrizia ; mentre tutto ciò , che trova origine nel semplice usus, nella semplice pos sessio, nel fatto più che nel diritto , e non è avvolto ancora in forme solenni e tradizionali, deve ritenersi piuttosto di origine plebea . La distanza stessa poi, a cui trovavansi i due elementi, che dovevano entrare a far parte della medesima città, obbliga il diritto quiritario a prendere le mosse nella propria formazione dai concetti elemen tari della proprietà e della famiglia , che erano i soli, che fossero comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione lenta e graduata di tutti gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella formazione del diritto pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co piosissimo di tradizioni, di concetti e di vocaboli, già preparati in un periodo anteriore, che viene in certo modo a fondersi nel cro giuolo della comunanza civile e politica , per guisa che, precipitando e cristallizzando lentamente e gradatamente, finisce per dare origine ad un diritto, del quale si può dire con ragione, che si è formato rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente . Solo resta a spiegare , come in questa condizione di cose siasi de. terminata la prima formazione del diritto quiritario nello stretto senso , che suol essere attribuito a questo vocabolo. 196 CAPITOLO X. Le prime origini del Jus Quiritium nei rapporti fra patriziato e plebe. 158. Non può certamente negarsi, anche da uno schietto ammi ratore della logica, che ha governata la formazione e lo svolgimento del diritto privato di Roma, che esso nei proprii esordii presentasi con un carattere di rozzezza e di violenza , che desta un'impressione sfavorevole e pressochè di ripugnanza, e spiega anche l'affermazione di coloro, che ebbero a considerarlo , come l'opera esclusiva della forza . Tale impressione è prodotta specialmente da certi vocaboli e concetti, che occorrono nel primitivo jus quiritium : vocaboli, che portano con sè l'impronta della forza e della violenza. Fra questi vocaboli non deve essere annoverato quello di manus, che nel di ritto quiritario significò il potere spettante al capo di famiglia sulle persone e sulle cose, che da esso dipendono, in quanto che questo vocabolo se da una parte indica la forza e la potenza , che si impone; dall'altra può anche significare la protezione e la difesa, che la manus accorda a tutti coloro , che da essa dipendono. Si aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro , che corrisponda al me desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa significazione dalle altre stirpi di origine ariana (1). Sonvi invece nel primitivo ius quiritium altri vocaboli, come quelli di mancipium , di nexum , di manus iniectio , che non solo si ispirano al concetto della forza , (1) È abbastanza noto in proposito che alla manus del capo di famiglia romano corrisponde anche nella sua significazione materiale il mund ed il mundium del capo di famiglia germanico ; il che però non toglie che i due istituti abbiano rice vuto un diverso svolgimento presso i due popoli, sopratutto per ciò che si riferisce al potere del padre sui figli . V. in proposito : VIOLLET, Histoire du droit français, Paris, 1886, pag . 412, cogli autori citati a pag. 447. Del resto fra il primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno ben altre istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse fare un interessante raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il comitatus e la commendatio presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi anche alle persone, sembrano recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza di una persona da un'altra. È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal mos e dal fas delle genti patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno della plebe, abbiano potuto scaturire concetti di questa natura , a cui manca non solo quell’aureola religiosa , da cui sono circondate le istituzioni gentilizie, ma perfino quel carattere di fiera indipendenza, che con traddistingue le istituzioni primitive dei popoli italici. 159. Ritengo tuttavia , che questa apparente contraddizione fra questi concetti del primitivo ius quiritium e gli elementi, che avreb bero contribuito alla sua formazione, possa essere spiegata, quando si ammetta la congettura, a cui ho accennato più sopra parlando dell'actio sacramento e della manus iniectio , e sulla quale importa qui di insistere più lungamente. La congettura sta in questo, che nelle istituzioni del diritto quiritario vene hanno alcune, che si erano formate nei rapporti fra i capi delle famiglie patrizie, e perciò nel seno stesso delle genti e delle tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre, le quali dovettero invece formarsi ed assumere un contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti fra la classe dei vincitori e quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non governo solo rapporti fra capi di famiglia uguali fra di loro e appartenenti alla stessa tribù ; ma dovette eziandio reggere i rapporti fra le genti organizzate nella tribù e la moltitudine e la folla, per la maggior parte di origine servile, che ancora circondava i primitivi stabilimenti patrizii. Quindi se era naturale, che la prima parte del ius quiritium portasse le traccie della fiera indipendenza di quei capi di famiglia, dei quali nemo servitutem servivit ; la seconda invece doveva portare quelle della soggezione, a cui era ridotta la classe inferiore. Non può cer . tamente presumersi, che questi due ordini di persone potessero en trare in rapporti giuridici fra di loro , sopra un piede di assoluta eguaglianza . Quindi mi sembra naturale, che il primitivo ius qui ritium , a somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a formarsi in una condizione di cose non dissimile da questa , debba in qualche parte portare le traccie della superiorità, che si attribuivano i vincitori, i conquistatori, i primi organizzatori di una convivenza sociale, e dell'abbiezione invece, a cui erano ridotti i vinti, i con quistati e quelli, che, non essendo ancora pervenuti ad una organize zazione sociale, abbisognavano perciò di protezione e di difesa . 198 160. Questo è certo che anche più tardi noi troviamo una disu guaglianza di condizione giuridica fra Roma e le popolazioni, da cui essa è circondata ; come lo dimostra ancora l'accenno, che più tardi è fatto dalla legislazione decemvirale dei forcti ac sanates, ai quali, secondo Festo , sarebbe stato accordato unicamente il ius nesi man cipiique. Da questo peculiare rapporto giuridico , che intercede fra Roma e le popolazioni circostanti, mi sembra di poter dedurre con fondamento, che quel nexum e quel mancipium , che poscia vennero a significare dei rapporti privati fra i cittadini, abbiano potuto un tempo indicare dei rapporti, che correvano fra le genti patrizie e le popolazioni di diritto inferiore e pressochè vassalle , che abitavano nel territorio circostante a Roma. Che anzi qui mi pare opportuno di dare svolgimento ad un concetto , che fino ad ora potè solo essere accennato, ma non svolto . Il medesimo consiste in ritenere , che la condizione primitiva della plebe, di fronte alla città patrizia , dovette essere analoga a quella , in cui ci vengono descritti posteriormente i forcti ac sanates, in base alla legislazione decem virale . È un magistero eminentemente romano quello di seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le stesse condizioni di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva era costituita da popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in condi zioni quasi del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi poscia trovati i forcti ac sanates . È quindi naturale e del tutto pro babile, che Roma abbia fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e che costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai forcti ac sanates ; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto . Ciò era necessità , perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe ; e intanto spiega eziandio , come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario, comune ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium , i quali perciò , al pari di quello del commercium , al quale corrispondono, si svolsero dapprima fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni fra i membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte usato il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come una popolazione circostante alla città , con cui non poteva a meno di essere in commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique, che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 - poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto dell'urbs, quel diritto , che prima governava i rap porti, che intercedevano fra due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei due ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello , che era dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di partenza dello svolgimento del ius quiritium . Certo questa non è che una congettura fondata sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una spiegazione così naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non mi sembra temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al riguardo. Intanto , come ho già altrove avvertito (1), viene eziandio a comprendersi il motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti ac sanates, poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il signifi cato della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte della plebe romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa peculiare condizione giuridica. & neaco (1) V. sopra Cap. VIII, n . 138-39, pag. 170-171. Il solo passo, che a noi pervenne intorno ai forcti ac sanates, è di Festo , ed il medesimo è ancora in tale stato, che fu assaidifficile la ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d . XII Tafeln von den Forcten und Sanaten . Vienna, 1866, ritiene che il passo delle XII Tavole , a cui Festo accenna , vº Sanates (Bruns, Fontes, pag . 664), fosse così concepito : mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto » . Questa lezione stata adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag . 171, fu respinta dal MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare la condizione dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a comparazione coi nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire , quale potesse essere la speciale posizione giuridica . Il Voigt, Die XII Tafeln, I,pag. 273 e 733 , Tab. XI,6 , ricostruirebbe invece la legge in questa guisa : e nexum mancipiumque, idem quod Quiritium , forcti sanatisque supra infra que urbem esto »; ma non pare che sia nell' indole della legge decemvirale di en trare in particolari così minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo della legge, quale sarebbe accettato dal MOMMSEN ; ~ Nexi mancipiique forcti sanatesque idem iuris esto » ; il che significherebbe in sostanza ciò, che pure dice il Voigt, che cioè i forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il proprio mancipium nel modo riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè verrebbe ad essere probabile, che la loro posizione fosse precisamente quella della plebs, allorchè era già ammessa in questi confini al commercium ,ma non aveva ancora il connubium . Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il Mommsen nella nota al Bruns , Fontes , pag. 365 ; ed anche il MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 111, nota 12, ove proporrebbe la se guente ricostruzione: « nexum mancipiumque forcti sanatisque idem esto » ; pure avrebbe la medesima significazione. Non conosco però che altri abbia cercato di . la quale 200 161. Del resto , checchè si possa dire di questa induzione, questo deve certo essere ammesso, che il ius quiritium , il quale, sebbene comparisca con Roma, pud tuttavia avere le sue radici, in epoca di gran lunga anteriore, almeno in parte si formò in un periodo di lotta e di violenza fra gruppi e ceti di persone, che si trovavano in condi zione affatto diversa , in quanto che alcuni di tali gruppi e ceti già erano pervenuti alla formazione di consorzii civili ed umani: mentre gli altri ancora vivevano in uno stato di promiscuità e confusione, che le genti patrizie riputavano nefario. Non può quindi essere mera viglia , se alcuni dei resti, che giunsero fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e dei conflitti, che vi furono fra vincitori e vinti, non che della soggezione e della dipendenza , in cui erano le classi inferiori. Al modo stesso , che i ruderi delle costruzioni primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità delle loro proporzioni, quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per ripararsi contro i cataclismi del suolo : così i resti, che ancora ci rimangono del primitivo ius qui ritium , in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai tempi, in cui si sono formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero richiedere per richiamare da una condizione pressochè nefaria , per usare l’es pressione del Vico , le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem naturam . Gli uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di fronte ai terrori della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli scontri continui con genti di origine stra niera, e quindi non poterono preoccuparsi tanto della loro libertà , quanto sentire il bisogno di ripararsi sotto la protezione di quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e a fortificarsi sotto il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo di « iobi lare » abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta campagna e come i deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed alla protezione dei forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal mancipium e dal nexum , pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò un diritto mite ed umano e pieno di grada zioni delicate e sottili , che poteva nascere in questi inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti fra classi, di cui una era su periore e l'altra inferiore ; ma bensi un diritto rozzo e violento , che risentisse in certo modo della lotta , da cui esso usciva, e che da una inferire da questa disposizione la condizione giuridica primitiva , in cui si trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte avesse l'impronta della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra dell'abbiezione, a cui erano ridotti i vinti ed i deboli (1). 162. Si comprende quindi come in questo periodo , la manus, armata di lancia , pronta da una parte ad atterrare il nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di guerra , e dall'altra disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse presentarsi come l'espressione più , naturale e più energica ad un tempo per significare il potere giu . ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra tutte le persone, che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità della famiglia nei rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali, secondo l'at testazione di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione di tutte le energie proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del corpo, cioè l'orecchia alla memoria, la fronte all'ingegno , la destra alla fede, le ginocchia alla pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le ginocchia coloro che implorano , non avevano che ad applicare il medesimo processo per dedicare la manus ad espri mere il potere unificatore della famiglia (2). Non era forse la manus che atterrava il nemico e lo faceva prigioniero di guerra e che intanto proteggeva moglie , figli, clienti e servi? Non era essa , che riuniva e stringeva la famiglia nella sua compagine interna, e che serviva a renderla forte e compatta contro le aggressioni esterne ? Intanto però è evidente, che la manus, intesa in questo significato , poteva solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano serbata intatta la loro autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto ( 1) Buona parte di questi concetti trovasi accennata qua e là dal Vico ; na è avvolta in una forma fantastica , proveniente dall'idea preconcetta di voler conside rare i Romani come i rappresentanti di quell' epoca eroica , che, secondo le sue teorie, avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e preceduto quelli, che egli chiama umani; idea , che finì per condurlo a considerare come una leggenda tutta la storia primitiva di Roma, fino alla prima guerra Cartaginese. Ciò però non impedisce che le sue divinazioni, anche non essendo vere, se applicate a Roma sto rica, possano contenere del vero, se riportate all'epoca veramente patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la fondazione di Roma. In proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del diritto nel pensiero dei Giureconsulti romani, Firenze, 1856 , pag. 14 e segg., ove parla dell'origine del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius. (2) Servius, In Aen., 3, 607 : « Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus singulas corporis partes : ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei, genda Misericordiae , unde haec tangunt rogantes. Iure pontificali , si quis flamini genua fuisset amplexus, eum verberari non licebat » . 202 posti a servitù, e primi erano pervenuti a fondare una vera organiz zazione sociale. Il concetto quindi di manus, in quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla medesima la compattezza necessaria per re spingere ogni aggressione , dovette prima formarsi nei rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che non nei rapporti interni della famiglia ; perchè la causa , che determino questo irrigidirsi della famiglia , non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna , ossia la necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza . Dal momento per tanto, che il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi pressochè esteriore ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto delle genti il concetto della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe giammai a soccombere sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi delle famiglie patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano circondati gli stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto quiritario primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella , che lotta nella manuum consertio ; che rivendica nella vindicatio ; che trascina il debitore nella manus iniectio ; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo (manu emittit) ; che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium . Essa quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi, che essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap partengono ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia fra la moltitudine e la folla , da cui sono circondati. Però almodo stesso , che la manus in questa significazione è già il frutto di una specie di astrazione, cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite . Senza entrare nell'etimologia della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris lancia, o da curia , come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il vocabolo di quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora ra dunasi nelle curie , ed ora costituisce un esercito . Come tali i qui riti trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che abbiano le iustae nuptiae ; che sappiano consul 203 tare gli Dei cogli auspizii ; e che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della città (1) . 163. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla fondazione della città , e in quello della città esclusivamente patrizia non intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui essa è circondata . Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti essi si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in questa condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di condizione, in cui si trovavano le due classi . Il plebeo , che non ha una posizione giuridica , e che quindi non può offrire garanzia di sorta al patrizio , quando voglia entrare in rapporto con esso , non può avere altro mezzo che quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum , per guisa che, se esso non paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio , assoggettandosi cosi alla manus iniectio. Di qui la conseguenza , che i durissimi concetti del mancipium , del nexum , della manus iniectio, prima di diventare istituti proprii del diritto quiritario , in cui presero poi una significazione speciale, dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono fra patriziato e plebe, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza ; il che spiega appunto quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una persona ad un'altra, che è loro inerente . Che anzi, siccome le origini di certi concetti primitivi debbono talora cercarsi in un periodo anteriore a quello , in cui essi appari scono e cominciano a prendere una forma determinata e precisa , cosi anche questa significazione dei vocaboli di mancipium , di nexum , di manus iniectio non è ancora quella assolutamente pri mitiva ; ma conviene cercarne le origini nelle lotte, che dovettero esistere in epoca più remota fra i vincitori ed i vinti, fra i con quistatori ed i conquistati. In questa indagine non può esservi altra luce fuori di quella, che viene dalla significazione diversa, che as sunsero i vocaboli, di cui si tratta . 164. Nella povertà del linguaggio giuridico primitivo il vocabolo mancipium ebbe ad assumere significazioni molto diverse , che però riduconsi a due essenziali ; a quelle cioè per cui significa : - o ciò (1) LANGE, Hist. inter. de Rome, I, pag. 29. 204 che è soggetto al potere del capo di famiglia – o il modo per trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel primo significato mancipium in dica anzitutto il prigioniero di guerra, stato ridotto in schiavitù ; poi indica eziandio tutto cid , che può essere preso e assogettato colla manus : quidquid manu capi subdique potest,uthomo, equus, ovis ; infine indica eziandio, allorchè il diritto quiritario è già formato, il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dalla manus del capo di famiglia. Questa serie di significazioni, che si vengono sempre più estendendo, contengono in compendio la storia dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che il primo mancipium dovette essere lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio ad esprimerlo , in quanto che questo era stato veramente manu captum e poi ridotto in schia vitù ; poscia l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e persone, che erano assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali erano i cavalli e i buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano dell'uomo; infine, quando la manus prese la significazione traslata , per cui essa designa il potere del capo di famiglia , tanto le persone, che le cose soggette al medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium . Giunge però tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine essere disadatto a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo di famiglia, ed in allora esso scompare in questa significazione, ma continua ancora sempre a mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera ; come lo dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo ( 1 ). (1 ) Quanto al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes , pag. 214. Non potrei ciò stante ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di recente a proporre per i vocaboli di mancipium e di mancipatio , colla quale egli direbbe , che mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza del manceps, e che perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli deriva, che mancipare non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum capere (Histor . Introd ., pag.61). Oltrecchè questa etimologia non servirebbe veramente a spiegar meglio la significazione primitiva del vocabolo ; parmi eziandio che contraddica all'uso, che i giureconsulti fecero di questo vocabolo, attribuendo costantemente al medesimo una significazione passiva , la quale indica piuttosto la soggezione di una persona o di una cosa , che non il potere che appartiene sulla persona o cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che mentre occorrono talvolta le espressioni di habere manum , habere potestatem , habere dominium , i giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium nel senso di significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso - 205 Se non che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò , che è soggetto al capo di famiglia , ma indica eziandio il trasferimento , di cui possono essere oggetto le cose , che entrano a costituirlo . Ciò è dimostrato dall'espressione vigorosa della legislazione decemvirale, nella quale si dice facere mancipium , facere nexum , al modo stesso, che direbbesi facere testamentum . Or bene non vi ha dubbio , che anche il facere mancipium deve avere subito delle trasforma zioni profonde nel proprio significato . Facere mancipium infatti dovette negli inizii indicare il darsi o il prendere a mancipio, la dedizione del vinto o la presa del vincitore, per cui quello viene in tutto ad essere a disposizione di questo. Ciò è dimostrato da questo che i servi, che erano chiamati mancipia ex eo , quod ab hostibus manu capiuntur, sono anche chiamati servi dediticii, in quanto che essi provenivano da una specie di resa o di dedizione del vinto al vin citore (1). Cid però non tolse , che il concetto del facere mancipium si applicasse eziandio a persone libere, che potevano dare se stesse a mancipio , od anche a persone, che dipendevano da esse , come accadeva nella noxae deditio . Che anzi è molto probabile , che nel periodo, in cui i plebei non erano ammessi a far parte della citta dinanza, il solo mezzo, che essi avessero per trovare protezione e difesa, fosse quello di darsi a mancipio . Infine, allorchè il mancipium prese quella significazione, eminentemente giuridica, per cui significa il complesso delle persone e delle cose, soggette al capo di famiglia , anche il facere mancipium ricevette una larghissima applicazione, per modo che la mancipatio verrà ad essere come il perno, sovra cui si modellano tutti gli atti, che modificano in qualche modo il potere del capo di famiglia (2 ). che non adoperano mai il vocabolo di nexus per indicare il creditore, ma sempre per designare il debitore. Convien quindi dire, che mancipium significò sempre la cosa soggetta o la trasmissione della medesima, ed è anche questo il significato , che ha sempre conservato dipoi, allorquando accade ancora di usare il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche aggiungere, che il vocabolo di capio nella sua significazione giuridica suole sempre essere accompagnato dall'ablativo, come accade nell'usucapio , nell'usureceptio e simili. (1) A questo proposito è notabile il seguente passo di Festo, Vº Quot.: Quot servi tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius Capito existimat esse dictum initio quot hostes tot servi» quod tot captivi fere ad servitutem adducebantur » , BRUNS, Fontes, pag. 359. (2) Per la larghissima esplicazione della mancipatio nel diritto quiritario è da vedersi il Longo, La mancipatio, parte 14, Firenze, 1886. 206 165. Passando ora alla manus iniectio , noi riscontriamo nella medesima un processo del tutto analogo. Non può esservi dubbio che essa dovette essere dapprima il modo effettivo , con cui il vinci tore afferrava il vinto , in base al diritto di guerra e lo riduceva in schiavitù . Il suo concetto quindi nacque anch'esso nella lotta e nella violenza ; ma poscia dai rapporti fra vincitori e vinti fu tra sportato anche fra le persone, che appartenevano alla stessa co munanza e significò l'esercizio privato delle proprie ragioni, come lo dimostra la seguente deffinizione di Servio : manus iniectio di citur, quotiens, nulla iudicis auctoritate expectata , rem nobis de bitam vindicamus. Pare però, che quest'esercizio privato delle proprie ragioni, che non si può conciliare coll'esistenza della pubblica autorità , non fosse riconosciuto dal diritto quiritario, che in alcuni casi soltanto . Infatti nel diritto quiritario noi troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è il modo per trascinare avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato ; ma in ciò non havvi ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un mezzo per ottenere la presenza del convenuto avanti al magistrato . La manus iniectio poi, nella legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione contro il proprio debitore ; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi, cioè : contro coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris confessi) ; contro coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro coloro, che si siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie applicazioni del diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento dell'autorità giudiziaria ; mentre quella, che riguarda il nexum , ri monta certamente ad epoca anteriore alla formazione della comu nanza , il che fa credere che la manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta attinenza col nexum (1). Cid miporge quindi occasione di discorrere brevemente di esso e di dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle istituzioni primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il patriziato e la plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166. Il nexum è certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul diritto primitivo di Roma. La sua origine è ignota ; ma (1) V.sopra , Cap. VI, § 3, n . 105-6, pag. 135 e seg . - 207 si può affermare con certezza , che essa rimonta ad epoca anteriore alla formazione della comunanza romana: poichè la tradizione già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti diretti a limitare gli effetti, che derivavano da esso . Lo stesso è a dirsi della legislazione decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a trattenere in certi confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato a ragione dal Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce soltanto nei rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua abolizione si riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come è anche dimostrato da ciò , che Livio consi derd l'abolizione di esso come una vittoria della plebe sopra il pa triziato . Vero è, che questo fatto può anche essere spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli imprestiti alla plebe , e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento di questo « ingens vinculum fidei » ; ma parmiche il carattere vero di questa istituzione possa essere più facilmente spiegato , quando si cer chino le cause , che vi hanno dato origine. Il nexum dovette essere un modo di obbligarsi di colui, che , non avendo altre garanzie da offrire al proprio creditore, obbligava direttamente la propria persona. Ora è questa appunto la condizione, in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio , anteriormente alla formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di qualsiasi diritto , non aveva altro mezzo , per trovare protezione o credito , che o di dare a mancipio se o la fa miglia , o di vincolarsi col nexum . Quello era una specie di dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca, che egli consentiva sulla propria persona . Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e come del resto fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la persona, e non attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso ; cosi in parte si comprende che il diritto del creditore sul debitore , sia stato spinto a quelle estreme esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili ( 1). 167. Quanto al vocabolo poi non può esservi dubbio , che esso ebbe ad assumere significazioni molto diverse. ( 1) Liv. VIII, 28 , in princ.: « Eo anno plebi romanae velut aliud initium liber tatis factum est, quod necti desierunt » ; e più sotto : « victum eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom ., III, pag. 375. Della portata e degli effetti del nexum , come pure del mancipium , si discorrerà più sotto; poichè qui importava solo di cercare l'origine dei vocaboli e dei concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è probabile , che il nexum nella sua primitiva signifi cazione indicasse veramente i vincoli, a cui sottoponevasi lo schiavo fuggitivo ; ma che poscia dalla significazione letterale siasi fatto pas saggio alla significazione giuridica . Tuttavia rimangono ancor sempre le traccie delle due significazioni, in quanto che gli storici chiamano col vocabolo di nexi, ora quelli che si trovano già condotti nel car cere privato del debitore, ed ora invece i debitori, che si sono ob bligati colle forme solenni del nexum . Del resto anche questo vo cabolo, al pari di quello dimancipium , significa non solo il vincolo fisico o giuridico, a cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con cui egli contrae il vincolo stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene ad essere cotesta, che tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel primitivo ius quiritium , dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i vincitori e i vinti, i quali trasformati in varia guisa furono poi estesi anche ai rapporti fra il patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto cið, che pure accadde delle altre istituzioni del diritto quiritario , che esse si svolsero dapprima fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e furono poiapplicate nei rapporti dei quiriti fra di loro . Al modo istesso , che i concetti di connubium , di commercium e dell'actio sacramento si spiegarono dapprima fra le varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si svilupparono nel diritto quiritario ; così i concetti del mancipium , del nexum , e della manus iniectio , dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, ed essersi poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la plebe, si tra sformarono in istituzioni proprie del diritto quiritario . Di qui il carattere di rozzezza, di violenza, inerente ai medesimi, che rese necessaria la loro trasformazione ed anche il cambiamento dei vo caboli, con cui furono indicati, a misura, che vennero sempre più pareggiandosi le due classi, dopo che entrarono a far parte della stessa comunanza civile e politica. 168. Che se, riassumendo, si volesse ora dare uno sguardo sinte tico a quelle istituzioni esistenti fra le genti italiche, anteriormente alla fondazione della città , che si vennero ricostruendo a poco a poco , noi possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano poste le basi fondamentali del diritto pubblico, privato ed internazionale, che ebbe poi a svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi elaborato il concetto del potere monarchico, di cui avevasi il modello nel capo di famiglia ; - 209 quello di un elemento aristocratico , che era rappresentato dal con siglio degli anziani, proprio della gente; e quello infine di un ele mento popolare e democratico, il quale già aveva cominciato a svolgersi nelle tribù e a presentare quel dualismo fra patriziato e plebe, che doveva poi ricevere nella città tutto lo svolgimento , di cui poteva essere capace. Furono questi elementi che, accomodati alle esigenze della vita civile e politica, servirono di base alla co stituzione primitiva di Roma e condussero naturalmente allo svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti al re , al senato ed al popolo. 169. Così pure quanto al diritto privato, già erano in pronto gli elementi diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le basi del diritto civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio delle genti patrizie, che, appoggiandosi da una parte sull'elemento religioso del fas e dall'altra sopra l'elemento morale del mos, già aveva dato origine ai concetti fondamentali del connubium , del commercium e dell'actio sacramento , ed aveva elaborato tutte quelle forme tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a poco a poco i nuovi rapporti giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e lo svolgersi della convi venza civile e politica . Esisteva parimenti, ancorchè solo in via di formazione, un diritto proprio della comunanza plebea , fondato so pratutto sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua forma, più alieno dalle solennità , più libero da ogni influenza del passato poteva meglio adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica . Da ultimo già cominciava ad elaborarsi un diritto , che non poteva dirsi proprio, nè del patriziato, nè della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e primitive i rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto uscito dal concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del capo di famiglia patrizio , ed aveva dato origine ai concetti del mancipium , del nexum e della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno poi convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario . È quest'ultimo elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di rozzezza e di forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando l'elemento giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima trovavasi confuso , viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il quale , assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee , finirà per conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che erano chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 14 210 170. De ultimo, anche per quello che si riferisce a quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare internazionali, già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano elabo rati i concetti dell'amicitia, dell'hospitium ,della societas, e del più importante fra tutti , che era quello del foedus, il quale poi doveva somministrare il mezzo per far partecipare più tribù alla stessa vita politica , militare e giuridica, e per dare cosi origine alla città . Questa parimenti, traendo profitto dagli istituti della cooptatio, della co lonia , della concessio civitatis sine suffragio , del municipium , pos sedeva anche i mezzi per accrescere la sua popolazione e per esten dere il proprio impero . I materiali quindi erano in pronto : solo rimane a vedersi il pro cesso , col quale Roma, gittandoli tutti nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò , che in essi eravi di vigoroso e di vitale , e sia così riuscita a ricavarne lentamente e gradatamente la propria co stituzione politica, e quel diritto privato, il quale svolgendosi sempre sul medesimo modello e sempre arricchendosi di nuovi elementi, finirà per diventare tale da poter essere accettato da tutte le genti. Intanto una delle cause, che condurrà a questo risultato , sarà la distanza stessa , a cui trovansi i due ordini, che debbono insieme con tribuire alla formazione della città . Sarà tale distanza infatti, che forzerá la costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni, di cui possa essere capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a riconoscere la capacità di diritto ad ogni uomo, purchè libero . Per tal guisa tutte le gradazioni del senso giuridico , dalle più semplici e naturali alle più sottili e raffinate, cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e l'universalità del diritto romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che esso è la più completa e pre cisa espressione di un complesso di sentimenti eminentemente sociali ed umani, che nacquero e si svolsero insieme colla convivenza ci vile e politica. - 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel periodo esclusivamente patrizio ("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della città primitiva. 171. Nella storia non vi ha forse avvenimento , il quale abbia eser citata maggiore influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica . Sotto quest'aspetto non sarà mai abbastanza approfondita la storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha certamente altro popolo , che abbia più vivamente sentito, e quindi più profondamente scolpito nelle proprie istituzioni questa importantissima trasformazione, che (* ) Pervenuto a questo punto della trattazione, trovomidi fronte ad una lettera tura così copiosa , che mi sarebbe impossibile di poter indicare la bibliografia , che può riferirsi ad ogni singolo argomento. Siccome quindi l'intento del libro è quello unicamente di tentare una ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma primitiva ; così mi limitero ad indicare in nota gli autori, di cui prendo in esame le opinioni, e i passi di antichi scrittori, sui quali si fonda l'opinione da me sostenuta, e non mi fard anche scrupolo di citare una traduzione, quando non tenga l'originale, sopratutto di autori tedeschi. Quanto alla bibliografia , essa potrà essere facilmente trovata nei recenti trattati di storia del diritto romano, o di introduzione storica allo studio del diritto romano, quali sono in Francia quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del Maynz, del MISPOULET, del Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio quelli del Maynz, del Rivier, del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns, del BARON, del KARLOWA, del Voigt, dell'HERZOG , ecc.; in Inghilterra quelli del MUIR EAD e del Roby; e nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e del LANDUCCI, ecc.; trattati, che ho citato già , o che mi occor rerà di citare in seguito. Mi perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a dovere , mi avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale . A ciò si aggiunge , che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si , che esso , modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le traccie delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la nuova formazione. Di qui la conseguenza , che quando si riesca a penetrare il processo logico , stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città, si potranno determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale di essa, e il modo , con cui furono costrutte le sue mura ; ma eziandio la serie di quei concetti fondamentali, che , preparati in un periodo anteriore, ricevettero poi nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci. Già si è veduto , come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia colla sua distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni e clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo punto dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la formazione della città . Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri, abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia , o fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa , che si introdusse nell'organizzazione sociale ? 172. Le teorie, che furono escogitate in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in numero e diverse nei risultati a cui giunsero ; quindi per noi sarà necessità di arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la maggior parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii esordii un ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo, che un ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia ; essa sarebbe un edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è foggiato sempre sul medesimo modello . A quel modo, che la famiglia ingrandita, dando origine a diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente , e che le genti, riunendosi insieme, avrebbero dato origine alle tribù ; cosi l'aggregazione delle tribù in un numero determinato, che sembra essere diverso secondo i varii popoli, avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il Mommsen, che la famiglia e la gente non solo avrebbero somministrati gli elementi, da cui fu costituita , ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog --- - - 213 giata la comunanza civile e politica . Il re della città sarebbesi mo dellato sul capo di famiglia, e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo spettanti; il senato non sarebbe che un consiglio di anziani, come lo prova il nome di patres, dato per tanto tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella città quella medesima funzione, che il tribunale domestico compieva nella famiglia , e il consiglio degli anziani nella gente e nella tribù ; il populus non sarebbe che la riu nione delle gentes , per guisa che sarebbe cittadino ogni individuo , che appartenga ad una di tali gentes ; e da ultimo il territorio ro mano comprenderebbe i territorii riuniti, che appartenevano alle varie gentes, le quali pertanto sarebbero incorporate nello Stato nella condizione stessa, in cui prima si trovavano , e con tutte le fa miglie , che entravano a costituirle ( 1). Tale a un dipresso sarebbe eziandio la teoria del Sumner Maine, il quale si limita a dire , che come la tribù era stata una riunione di gentes, cosi la città era dovuta all'incorporazione di varie tribù (2). Il Lange invece, mentre si studia in tutti i modi per dimostrare, che lo Stato e il suo ordi namento è fondato sulla famiglia , e che il diritto pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal seno del diritto privato, e sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a riconoscere, che la città primitiva è già fondata sopra una specie di contratto , il quale avrebbe modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e redità avrebbe fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece scorge nella costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente militare. Per lui il re sarebbe un condottiero, un capitano , e il suo potere sarebbe, in sostanza, un militare im perium , destinato sopratutto a mantenere la disciplina nell'esercito , e percid accompagnato dal ius gladii ; la curia da conviria sa rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da quiris, asta , che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante ; il populus romanus quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di lancia ; e infine le gentes stesse , in cui egli ritiene ancora che si dividano le curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza , ma già raffazzonati secondo le esi ( 1) Mommsen, Histoire Romaine. Trad . DeGuerle. Paris, 1882, I, pag. 77 et suiv . (2 ) SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad . Courcelle Seneuil. Paris, 1874, pag . 121. (3) Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad . Berthelot et Didier, Paris, 1885 , pag . 37 . 214 - genze di un esercito ; donde quel numero fisso di trenta curiae , in cui sarebbe ripartito il popolo primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento gentes (1). A queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria , così splendidamente esposta dal Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe fondata la famiglia e la proprietà , la gente e la tribù, sarebbe pur quella , che avrebbe fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe per lui l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù ; mentre l'urbs sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il santuario di questa associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un carattere essen zialmente religioso ( 2 ). 173. Non è a dubitarsi, che queste varie opinioni contengano tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare delle analogie e degli argomenti, che le servano di appoggio ; ma intanto ciascuna di esse , collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud riuscire a spie gare in modo coerente la natura cosi varia e complessa della costi tuzione primitiva di Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una sintesi potente , la quale non può altrimenti essere ricostruita , che riportandoci nell'ambiente stesso , in cui essa ebbe a formarsi . È questo il motivo, per cui è impossibile spiegare quel carattere di unità e di varietà ad un tempo, con cui Roma compare nella storia , senza seguire la lenta e progressiva formazione della città, e tener conto delle necessità reali ed effettive , a cui le genti primitive cer carono di soddisfare, creando la comunanza civile e politica . Or bene io non dubito di affermare che, collocandosi a questo punto di vista , apparisce fino all'evidenza, che la città per le po polazioni latine non può essere considerata come una continuazione del processo formativo dell'organizzazione gentilizia prima esistente ; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue un indirizzo ( 1) V. IHERING , L'esprit du droit romain . Trad. Maulenaere. Paris, 1880, I, $ 20, pag . 246 e segg.; dove mette molto bene in evidenza il carattere militare della primitiva costituzione romana, e l'influenza che esso esercitò anche sullo svolgersi del suo diritto; alla quale opinione in parte anche si accosta lo SchweGLER , Rö mische Geschichte, I, pag . 523. ( 2) FUSTEL DE COULANGES, La cité antique. Paris, 1876. Liv . III, Chap. IV , p . 155. È però a notarsi, che l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono sul carattere confederativo della città primitiva . Cfr. pag. 147. 215 . compiutamente diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra, come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati (arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei momenti di pericolo , e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi proprii armenti in un'epoca , in cui erano quotidiane le scorrerie e le depredazioni nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno pertanto , a cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato quello di provvedere alla co mune difesa . Poscia, siccome la sicurezza è condizione, che favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che, accanto a questi luoghi fortificati, si siano formati dei siti ( fora ), a cui le genti convenivano per scopo di commercio , e dove, occorrendo, si tratta vano anche le alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località apparve anche sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che per la trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie comunanze (conciliabula ) (1). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento della religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di convegno (comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità , non propria di questa o di quella gente, ma comune alle varie genti ; e fu anche in questa guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di sopra di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il concetto della città non sboccið di un tratto , ma ebbe ad essere provato e riprovato in varie guise sotto forma di arces , di oppida , di fora, di conciliabula , di comitia , e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa lenta costruzione ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città dovevano essere fon date e la loro popolazione doveva essere ripartita , assunsero un (1) Questa idea , che è fondamentale nella presente trattazione, ebbe ad essere accennata e dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel lib . I, ai numeri 5, 14 , 66 , 99 . - 216 - carattere sacro e religioso , per modo che ogni fondazione di città ebbe ad essere accompagnata da cerimonie religiose . L'urbs venne così ad essere il frutto di una lunga evoluzione, che già erasi inco minciata in seno alla stessa organizzazione gentilizia . Essa per tanto, fin dai suoi primordii, non si presenta sotto l'aspetto di una aggregazione di gruppi gentilizii, come vorrebbero il Mommsen e gli autori sopra citati; ma piuttosto come il frutto di una specie di selezione, per cui dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia , si viene sceverando ed isolando tutto ciò , che si riferisce alla vita pub blica . Quindi la città primitiva viene ad apparire come un centro e un focolare di vita pubblica , fra varie comunanze di villaggio, la cui vita domestica e patriarcale continua a svolgersi nei vici e nei pagi. Di qui la conseguenza, che se essa sia materialmente consi derata, cioè come urbs, non si presenta, nelle proprie origini, come la riunione delle abitazioni private; mapiuttosto come la riunione in una orbita sacra degli edifizi, aventi pubblica destinazione, come la fortezza, il santuario comune, la dimora del re (custos urbis ) e dei sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo ( forum ) ove si tiene il mercato e si am ministra la giustizia , il sito ove si tengono le riunioni (comitia ) per deliberazioni di pubblico interesse ; donde la curia , il qual vocabolo designa tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle persone che vi si riuniscono . Che se poi la città primitiva sia riguardata negli ele menti, che entrano a costituirla , essa non è più l'organizzazione delle gentes o delle tribù , nelle quali si comprendevano anche le donne, i vecchi ed i fanciulli; ma è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle gentes e dalle tribù , che possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica ; di quegli uomini cioè, che possano difendere la cosa pubblica come soldati (iuniores), o che col proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle deliberazioni, che la riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di una selezione, in virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli edifizi, che hanno pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui fra i membri delle gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo , coloro, che siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed all'interesse comune; la civitas infine, è quel rapporto speciale, che intercede fra le persone, che compongono il populus, in quanto esse appartengono alla medesima cittadinanza , e parteci pano alla stessa vita politica e militare . 175. La città latina pertanto , e quindi anche Roma, che è un 217 esemplare tipico della medesima, anzichè essere un'aggregazione di gentes e di tribus, corrisponde invece a un nuovo aspetto di vita sociale: cioè al nascere ed allo svolgersi di una comune vita poli tica , frammezzo a popolazioni rurali, che continuano ancora a svol gere la loro vita domestica nelle comunanze patriarcali. Allorchè essa compare , quella organizzazione gentilizia, che aveva prima com piuto le funzioni di associazione domestica e politica ad un tempo, si viene biforcando : mentre la vita privata continua a spiegarsi nelle pareti domestiche, ed in gruppi concentrati sotto l'autorità del capo di famiglia , la vita politica invece prende a svolgersi nella piazza e nel foro, e dà cosi origine a quelle discussioni e a quelle lotte, che costituiscono la vita e il movimento della città. Di qui la conseguenza, che la città , dopo aver ricavato gli elementi, che entrano a costituirla , dalle comunanze che la circondano, finisce per preparare la via alla estinzione dell'organizzazione gentilizia , e sopratutto di quelle gradazioni di essa , che prima compievano eziandio una funzione politica , quali sarebbero la gente, la tribù e la clientela . Le istituzioni invece, che colla sua formazione vengono ad affermarsi e a costituire le due basi dell'organizzazione sociale , sono i due elementi estremi, cioè: la famiglia da una parte, la quale finisce per richiamare a sè medesima tutto quello, che si riferisce alla vita domestica ; e la città dall'altra , poichè essa , essendo la meta e l'aspirazione comune, tende ad attirare nella propria cerchia tutte le energie naturali e sociali, che possono conferire a darle forza e con sistenza . Di qui la conseguenza, che le due figure preponderanti, negli inizii della città , vengono ad essere il pater familias, il quale è il solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il populus, il quale richiama a sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che esistono nelle comunanze, che colla propria federazione hanno dato origine alla città. Siccome perd l'opera si viene compiendo gradatamente; cosi sarà necessario un lungo svolgimento , prima che la città si possa affatto spogliare di quelle forme, che essa ricava ancora dall'orga nizzazione gentilizia , e prima che la famiglia possa perdere quel carattere pressochè civile e politico , che essa aveva assunto durante il periodo gentilizio . 176. Si può quindi conchiudere, che il processo formativo della organizzazione gentilizia e quello della città si avverano in guisa com piutamente diversa , e sono avviati in senso pressochè contrario ed opposto. - 218 Mentre il processo formativo dell'organizzazione gentilizia , in tutte le sue gradazioni, consiste in una stratificazione di gruppi natu rali, che si sovrappongono gli uni agli altri, e intanto continuano sempre ad essere foggiati sul medesimo modello , che è quello della famiglia patriarcale; la città invece non deve più la sua esistenza ad un processo di aggregazione , ma ad un processo, che potrebbe chiamarsi diselezione. Essa non comprende più tutta la vita sociale , come la tribù; ma tende invece ad isolare l'elemento giuridico , po litico e militare dagli altri aspetti di vita sociale, che si spiegavano strettamente uniti, e pressochè confusi gli uni cogli altri nell'orga nizzazione patriarcale . Di qui derivano alcune importantissime conseguenze. – Mentre l'organizzazione gentilizia , per quanto abbia già in sè qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la famiglia deve anche compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora considerarsi come una pro duzione naturale , come quella che è composta di gruppi uniformi, che si sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo, vero o supposto, è pur sempre quello della discendenza da un antenato comune; la città invece viene già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto , della federazione insomma di varii elementi, che si associano per costituirsi un centro comune di vita politica, e per provvedere così alla comune utilità ed alla comune difesa. Mentre l'organizzazione gentilizia , comprendendo persone, che si suppongono derivare da un medesimo antenato , tende a mantenere una proprietà comune e collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e dall'accordo, tende ad assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e le terre, che loro appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di interessi, che riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce così un patrimonio co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res publica. Mentre infine il principio informatore dell'organizzazione gentilizia consiste nell'eredità e nella discendenza , per guisa che in essa tutto tende ad acquistare un carattere ereditario; il principio in vece informatore della comunanza civile e politica , appena essa compare , viene ad essere quello della capacità e dell'elezione. 177. Tutto questo svolgimento della città primitiva, che solo erasi iniziato presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il periodo di incubazione della città può 219 . già ritenersi compiuto , e quindi le cerimonie, che ne accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere sacro e religioso . È cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per conoscere a quale dei due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg gimento della città . Tuttavia la Roma Palatina , finchè è contenuta. nei limiti dello stabilimento romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria città ; ma è piuttosto lo stabilimento fortificato di una aggregazione di genti, dedita di preferenza alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è ancora patriarcale nella medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano, e che non è ancora eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli auspizii ; i suoi anziani, i quali non sono che i padri delle genti, che entrano a costituire la tribù ; e infine anche il suo populus, che è composto ancora di persone, che si ritengono unite dal vincolo della comune discendenza , come lo dimostra la loro stessa denominazione di Ramnenses, derivata dal nome del proprio capo. Non è quindi appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo, secondo la tradizione, procede alla costituzione politica della città . Secondo Livio, ciò accade soltanto dopo la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone aspettasi perfino la morte di Tito Tazio, capo dei medesimi(1 ). È da questo momento, che la città assume un carattere federale e pressochè contrattuale. Le singole tribù infatti continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle, e ad avere delle proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium , che mutasi nella fortezza delle varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono raccogliendo nel sito , che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi che è collocato il locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non confondersi colle curiae veteres (2 ), il cui sito era sul Palatino, edifizii tutti, che, secondo il rito , dovevano trovarsi nel cuore stesso della città . Non consta quindi che le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie possessioni e le proprie terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la città ed il governo di essa, come lo dimostra il fatto , che secondo la tradizione vi sarebbe stato un breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio avrebbero ( 2) (1) Livio, I, 13; Cic., de Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri 85, 86 . « Novae curiae (scrive Festo) proxime compitum Fabricium aedificatae sunt, quod parum amplae erant veteres a Romulo factae » . Tuttavia vi restarono an cora sette curie, che continuarono a compiere i loro sacra nel sito antico (Bruns, Fontes, pag . 346 ). 220 regnato contemporaneamente: il che significa , che ciascuno di essi avrebbe conservato la qualità di capo della propria tribù. Non è quindi meraviglia , se la città primitiva presenti ancora per qualche tempo le traccie dell'organizzazione gentilizia, perchè il trapasso dalla semplice tribù ad una vera e propria città si operò solo gra datamente . Intanto però la trasformazione viene ad essere iniziata e proseguita senz'interruzione fin da quel momento, in cui al vin . colo della discendenza si sostituisce quello della federazione e del l'accordo, e alla trasmessione ereditaria sottentra il principio del l'elezione. 178. A ciò si aggiunge, che Roma, fin dai proprii esordii, si trovo in una condizione diversa da quella delle altre città latine , da cui trovavasi circondata . Essa infatti non costitui soltanto un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze rurali; ma diventò ben presto un centro di vita urbana, contrapposta alla vita rustica dei campi. I suoi primi fondatori, pur conservando i proprii agri genti lizii, avevano ottenuto nel recinto stesso della città uno spazio di terra, ove avevano potuto costruirsi una casa , circondata da un orto . Per tal guisa in Roma non eravi soltanto l'elemento, che conveniva nei giorni di festa, o di pubbliche riunioni, o per causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte eziandio , e questa era quella dell'antico patriziato, che, pur conservando la propria dimora gentilizia , aveva posta sede permanente dentro la città , o in prossimità di essa. Fu in questa guisa , che Roma diventò ben presto , secondo l'espressione del Mommsen, l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato , al pari delle altre città latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra diverse comunanze , cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano , la cui vita si contrappose a quella dei campi, e venne cosi accrescendosi costantemente, mediante quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche oggi sulle popolazioni, da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come, durante lo stesso periodo regio , Roma da sola già potesse conchiudere un foedus aequum con tutta la confederazione latina, e come l'intento costante dei re sia stato quello di estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa anche le abitazioni private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta Roma fin dai proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per cuidistinguesi la vita urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che il patriziato romano ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di tempo fra le mura della città , 221 e un altro invece alla campagna (ruri), frammezzo alle proprie pos sessioni gentilizie : consuetudine, che anche oggi può dirsi mantenuta dal patriziato romano. 179. Di qui la conseguenza , che Roma, in una lunga e lenta evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello svolgimento , che solo erasi iniziato presso le altre popolazioni latine . Essa riusci a sceverare la vita pubblica dalla privata , l'elemento sacro dal pro fano, la vita urbana dalla vita rustica , la vita militare dalla vita civile; ed effigid questi atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un linguaggio così efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa parte competere con essa . Di queste varie distin zioni, quella , che cominciò ad effettuarsi fin dal periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione fra la vita pubblica e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento sacro ed il profano cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era partecipe del culto gentilizio , fu anche ammessa a far parte della cittadinanza romana; e da ultimo la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo prese a farsi evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte dominata dalla turba forense . Infine il dualismo fra la vita militare e la vita civile è anche uno di quelli, che appariscono costantemente nella storia di Roma, e che rimontano fino agli inizii di essa . Il suo populus è un'assem blea ed un esercito ad un tempo ; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque; i suoi cittadini hanno un periodo di età , in cui partecipano al servizio attivo, e un altro, in cui entrano a formare l'esercito di riserva ; gli atti stessi più importanti della vita , quale sarebbe, ad esempio , il testamento , possono farsi in guisa diversa , secondo che trattisi di cittadini in tempo di pace , o di soldati in procinto di venire a battaglia ; la quale distinzione poi mantiensi co stante per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud distin guersi in comune ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è uomo di toga e di spada ad un tempo , e si acconcia alle esigenze della pace e a quelle della guerra (rerum dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui importa di mettere in evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città venne ad introdursi fra la vita pubblica e la privata ; in quanto che fu questo il grande intento , a cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano costantemente i 222 poeti latini, i quali non trovano espressione più efficace per indicare la corruzione del costume, e il perdersi delle buone tradizioni, che l'accennare alla confusione della cosa pubblica colla privata ( 1). È questo il dualismo veramente fondamentale , che, una volta in trodotto, finisce per riverberarsi, con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di altri dualismi, che compariscono costan temente nelle stesse circortanze sociali, e che potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni diverse viene ad es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è ovvio il considerare, come in seguito alla forma zione della città, accanto alla gentilitas, che era il rapporto, che stringeva i varii membri dell'organizzazione gentilizia, si svolga la civitas, la quale è il rapporto , che unisce coloro, che appartengono alla stessa comunanza militare e politica. Quindi è, che alla distin zione fra liberi e servi, fra gentiles e gentilicii, viene ad aggiun gersi e ad acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra cives e peregrini. Cosi pure, accanto ai genera hominum , che sono sparsi nei pagi e nei vici, e che comprendono senza distinzione tutti coloro, che si suppongono discendere da un medesimo antenato, si svolge il concetto del populus, che dapprima non comprende ogni ordine di persone, ma solo il complesso degli uomini validi ed ar mati, che col braccio e col consiglio possono partecipare alla difesa ed al governo della cosa pubblica . Procedendo ancora innanzi, accanto al concetto della res fami liaris, che comprende il complesso degli interessi privati di una de terminata persona, si esplica il concetto della res publica , il quale, per essere più astratto, compare più tardi, che non quello del popu lus; ma finisce anch'esso per esprimere con potenza ed efficacia il complesso degli interessi comuni alla intiera città , ed a tutto il popolo (res populi). Intanto così la res familiaris, come la res pu blica debbono avere un'autorità che le governi, e mentre questa per la famiglia sarà indicata col vocabolo di manus, nella sua signi ficazione più larga, per la repubblica invece sarà indicata col vo cabolo di publica potestas. Che anzi i due poteri sono cosi distinti ( 1) Per dimostrare l'importanza , che nel concetto romano ha la distinzione fra il pubblico e il privato , basti citare il Trinummus di Plauto , questa commedia, così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre una censura contro i corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del pubblico col privato . 223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel seno della famiglia non toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti come cit tadino, e partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La distinzione poi, che è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a riflettersi eziandio nel diritto , che è chiamato a gover narli. Di qui la distinzione che, iniziata fin dalla formazione della città , viene col tempo facendosi sempre più netta e precisa fra il diritto pubblico ed il diritto privato; il quale ultimo, secondo il con cetto romano, non deve già essere soffocato ed assorbito dal diritto pubblico , ma trovasi invece collocato sotto la tutela e la protezione di esso . Non può quindi essere ammesso il concetto del Lange, che in parte è anche quello del Mommsen, secondo cui il diritto pubblico verrebbe in certo modo a modellarsi sul diritto privato : poichè il processo che si segui in Roma si avverd invece in senso contrario ed opposto. Non fu il diritto pubblico, che si modello sopra il pri vato; ma fu il diritto privato, che venne svolgendosi in quella guisa e in quei confini, che erano consentiti dalla costituzione politica della città . Quindi è che il diritto privato di Roma non si formo di un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a misura che le esigenze della vita civile fecero sentire il bisogno del suo ricono scimento . Ciò ci è dimostrato dal fatto , che fin dalle origini di Roma noi possiamo trovare poste le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre la vera elaborazione del diritto civile romano, co mune alle due classi del patriziato e della plebe, incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città , e poi si pensò alla formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei motivi, per cui il diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti i popoli. Intanto, in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge , che è l'espressione delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les privata ed in lex publica (1), di cui quella esprime l'accordo di due o più contraenti, mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà collettiva del popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche i sacra vengono a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per cid, che si rife (1) La distinzione fra la lex publica e la lex privata è accennata più volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm . I, 3 ; II , 104 ; III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal MOMMSEN nell'ultima edizione, Friburgi, 1887, da lui curata del Bruns, Fontes iuris romani antiqui, fu quella di intito larne il capo terzo : Leges publicae populi romani post XII Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia (1). Lo stesso infine deve dirsi dei crimina, i quali, a misura che si vengono delineando, sono pure richiamati alla distinzione fondamentale di publica e di privata , secondo che il danno, che ne deriva , e quindi la prosecuzione di essi appar tenga ai singoli individui, oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza ; distinzione, che riflettesi eziandio nei iudicia , i quali fin da Servio Tullio cominciano a dividersi in iudicia publica e pri vata . A queste si potrebbero aggiungere ancora molte altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un medesimo concetto, che una volta accettato percorre l'intiera vita sociale e lascia dapertutto le traccie del suo passaggio . È in questo senso , che le proprietà si distinguono in due categorie, indicate coi vocaboli di ager pri vatus e di ager publicus ; che i rapporti stessi, che possono correre fra cittadini e stranieri, subiscono la stessa distinzione, cosicchè la societas, l'amicitia , l'hospitium , il foedus si distinguono anche essi in pubblici e in privati . Non è quindi meraviglia, se parlisi eziandio di costume pubblico e privato, di virtù pubbliche e private , e se la distinzione si inoltri nei particolari più minuti della vita , co sicchè anche i servi stessi si distinguono in publici e privati, e chiamasi publicus l'equus, che è somministrato dallo Stato agli equites, che vengono così ad essere denominati equo publico . 182. Conviene quindi ammettere, che la distinzione dovesse es sere profondamente sentita , se essa lasciò le proprie traccie in qual siasi argomento . Non occorre poi di notare, che l'esplicazione dia lettica dei due concetti, che qui si compendia in pochi tratti, dovette naturalmente essere il frutto di una lunga evoluzione ; ma se questa potè accadere colla fondazione della città , mentre prima non erasi avverata , la causa di un tal fatto deve trovarsi in ciò , che la città non si propose di agglomerare genti e famiglie, ma intese fin dapprincipio a sceverare la vita pubblica dalla privata . Che se si volesse spingere più oltre lo sguardo sarebbe anche facile il dimostrare, che la formazione della città cooperò eziandio allo svol gersi di sentimenti e di affetti, che prima non riuscivano a sceverarsi (1) Quanto alla distinzione dei sacra publica ac privata , è da vedersi Festo , vu Publica sacra ( Bruns, Fontes pag. 358), stato già citato a pag. 43, nota nº 3 . Quanto alla distinzione poi fra gli auspicia publica e gli auspicia privata , è da vedersi Mommsen, Le droit pubblic romain . Trad . Girard . Paris, 1887, I, pag. 101, cogli autori ivi citati in nota . 225 dagli affetti domestici e patriarcali. Fu infatti la città , che, accanto agli affetti di famiglia ed al culto per gli antenati, suscitò l'affetto per la propria terra , e il culto per coloro, che si sacrificavano per essa , e quell'illimitato amore di patria, che informa tutta la storia e tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al cittadino ro mano: dulce et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che accanto al culto per i mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una legge, espressione della volontà comune, che doveva a tutti essere nota , e costituire in certo modo la base e il fonda mento della comunanza civile . Fu essa ancora , che, accanto alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle famiglie e nelle genti e si trasmettevano di generazione in generazione , diede origine a quella narrazione dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città , da cui doveva poi uscire la storia ; al modo stesso che, accanto al comando del padre ed alla persuasione degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e l'eloquenza, le quali più non si impongono per l'au reola religiosa, da cui sono circondate, ma commuovono e trasci nano la moltitudine e la folla , a cui si indirizzano . Fu essa infine, che, accanto alla narrazione delle gesta degli eroi e dei principi, cantate nelle epopee primitive, rese possibile la storia militare e po litica della città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor tanza politica di quell'elemento, che chiamavasi plebe (1 ). 183. Dopo cið parmi di poter conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro, che considerano Roma primitiva come uno Stato patriarcale. « Lo Stato romano, noi diremo con un re. cente autore, che è il Pelham , appartiene, quanto alla sua struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica . Certo esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine di cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso , le quali tendono sempre più a scomparire » (2). La supre (1) Per una più larga trattazione dei mutamenti, che recò nella vita sociale il surrogarsi della città all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880 , nº. 34, pag. 94 e segg., e alla dissertazione : Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e po litica . Torino, 1878 . (2 ) Pelham , vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia Britannica , ninth edition . Edinburgh, 1886 , vol. XX, pag. 731. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 15 - 226 - mazia dello Stato è ormai stabilita sopra ciascuno dei gruppi, dalla cui confederazione esso è uscito, e ciascuno di questi gruppi più non si mantiene, che come una corporazione di carattere esclusivamente privato . In questa parte pertanto « lo Stato Romano, come ben nota il Gentile , lascia a grande distanza la monarchia delle popolazioni Orientali, ed anche quella delle primitive società greche, la quale è ancora stretta da intimo vincolo colla divinità , da cui ritiensi pro cedere, e che trasmettesi per eredità nei discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta potestà il populus od il demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni sovrane e non mai a deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed il diritto a partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto direttamente esercitato , e il diritto anche di voto nell'elezione dei reggitori dello Stato è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza romana » (1). Il Re, fin dagli esordii della città, è la suprema magistratura dello Stato , e questo è l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei capi di famiglia, che concorsero alla sua formazione, i quali , nella propria elezione, più non badano esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma cominciano a riguardare al valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà collocandosi a questo punto di vista , che non segue questo o quell'elemento esclusivo, ma cerca di riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo sviluppo, che potrà riuscire più facile di com prendere i primitivi elementi dello Stato romano, ed il carattere dei poteri, che lo governano. (1) GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana , Milano, 1879, pag . 2 e 3. 227 CAPITOLO II. Gli elementi costitutivi del primitivo Stato Romano. § 1. – Cause del rapido svolgimento di Roma e della sua primitiva costituzione. 184. Le cose premesse hanno abbastanza dimostrato , come nella formazione primitiva dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non dissimile da quella , che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa apparirono evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente preparando e quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica . Tuttavia questo concetto deve essere completato con osservare, che nella storia delle cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una formazione novella , e questa trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo, gli elementi, di cui si tratta , sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi scambievolmente, riunirsi per guisa , che la nuova formazione sboccia tanto più rigogliosa e potente, quanto è più matura la preparazione di essa. Per tal modo ad una lenta incuba zione può anche succedere una pronta e rapida formazione: il che talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio nella storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città , dopo essere stata lungamente preparata , presentasi nella storia pressochè con sapevole della propria destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva di Roma, al pari di Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo essenziale, a cui Roma intende ; la costituzione politica di Roma invece sembra in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia dell'edifizio , tanta l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera comune. Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo , che con uno sforzo collettivo giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a stento potrebbe riuscire un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni cercasse di isolare da una quantità di materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò , che si riferisce alla vita politica , giuridica e militare. Tutte le energie naturali e sociali sembrano concentrarsi in un'opera sola , e ben può dirsi con Ennio e con Cicerone, che fin dai propri esordii : Moribus antiquis res stat romana virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno per porre le basi di una costituzione , che richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le sue parti (1): nè la tradizione pud essere così facilmente respinta, come vorrebbe la critica moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo comprendere l'entusiasmo potente, da cui poterono essere stimolati re, senato , sacerdozii e popolo, allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande concetto . 185. L'urbs, dopo la federazione delle varie tribù , viene ad essere collocata in un sito , a cui hanno facile accesso le diverse comunanze e trovasi così in tale posizione da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio. Essa per la prima, fra le comunanze italiche, da cui trovasi circondata , l'ha rotta colle tradizioni, e si è formata mediante il connubio di genti, che appartengono a stirpi e a nomi diversi. I padri, che si riunirono per costituirla, hanno parentele ed aderenze nei territori contigui, e probabilmente continuano a tenervi delle possessioni, e possono così esercitare un'attrazione potente sulle popolazioni vicine, a qualunque stirpe esse appartengono. Se a tutto ciò si aggiunge la fortuna della nascente città , la fortezza della sua posizione e delle sue mura, il carattere tenace e perseverante de' suoi cittadini, che tutto aspettano dall'avvenire di essa , potrà lasciarci ammirati, ma non increduli il suo rapido incremento . Anche lasciando in disparte il provvedimento, che viene attribuito a Ro molo , di aver aperto un asilo ai rifugiati delle altre città , era na turale, che essa dovesse cambiarsi in un asilo per tutti coloro, che « Vi. (1) Cic., de Rep ., V, 1. È lo stesso CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di Roma all'epoca romulea , e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque igitur, unius viri consilio non solum ortum novum populum , neque ut in cunabulis vagientem relictum , sed adultum iam pene et puberem ? » (De rep., II, 11). Lo stesso pure appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si trovassero spostati nella propria terra o nella propria organiz zazione gentilizia . Il grande scopo dei fondatori era quello di fon dere insieme questi elementi diversi e di unificare così la città , tanto nelle mura, che la circondano, quanto nei concetti giuridici politici e militari, che servono a stringerne insieme le parti diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua compagine interna sembrano cosi procedere di pari passo . I suoi fondatori già hanno una lunga esperienza di cose civili e non ignorano anche i riti religiosi, da cui deve essere accompagnata la fondazione di una città . Cominciasi pertanto dagli auspizi, per conoscere « quod bonum , felix , faustum , fortunatumque siet populo Romano» , e per tal modo anche la re ligione viene ad essere posta a base della nuova formazione. Quanto alla sua costituzione interna, tutto sembra essere preparato ed ac concio . I concetti politici di Roma primitiva, nella loro sintesi po tente , possono essere paragonati a quei massi rozzamente modellati, che sovrapposti gli uniagli altri formano la cerchia delle sue mura, e che per il proprio peso e la propria quadratura non abbisognano di essere cementati gli uni con gli altri. Essi non escono da una costituzione scritta : ma erompono dalla stessa realtà dei fatti, e sono altrettante costruzioni logiche e coerenti in tutte le loro parti, le quali, una volta accolte nella costituzione, potranno essere svolte con rigore dialettico , fino a che non abbiano ricevuto tutto lo svi luppo , di cui possono essere capaci. Le forme esteriori delle istituzioni politiche di Roma sono bensì ricavate da istituzioni analoghe, esi stenti nell'organizzazione anteriore , ma il contenuto di esse viene ad essere determinato dalle esigenze della nuova città. Quanto all'in tento, che la città si propone, esso è universalmente sentito , e quindi non è meraviglia , se la nuova città proceda verso il proprio scopo con l'ordine, con cui si dispiegherebbe un esercito , e se dei suoi fondatori possa dirsi col poeta : cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec lucidus ordo (1). Per tal modo il concetto della città presentasi determinato in tutte le sue parti, e si esplica con un rigore geometrico , che rende pos sibile di rifare i diversi stadii, che ha dovuto percorrere. (1 ) ORAZIO, Ars poetica. 230 187. La città è un edifizio nuovo, costruito con elementi tolti dall'organizzazione gentilizia preesistente , i quali però, mirando ad un intento novello , ricevono uno svolgimento compiutamente diverso . L'urbs è una selezione dalle comunanze di villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii, che hanno pubblica destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il populus non è tutta la popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri, che col braccio e col consiglio possono cooperare all'interesse comune; la civitas non è più un vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione alla medesima vita pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo ; il munus non è il complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come tale, ma il complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano dall'ubbidire al medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza civile e politica (1); la res publica non è la somma degli interessi de' singoli cittadini,ma il complesso degli interessi, che riguarda l'universalità dei cittadini, considerata come un tutto organico e coerente ; infine la lex publica è il com plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai quali si conviene di partecipare alla stessa vita pubblica , e quindi per la formazione di essa debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della città . 188. Intanto perd nella formazione della città non può aversi altro punto di partenza, che quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il nuovo edificio richiama pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata ; poichè mentre quello si reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece si fonda sulla capacità e sull'ele zione ; mentre quello si fondava sul vincolo del sangue, questo invece pone la sua base salda sopra un determinato territorio, nel quale si fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa veniva ad essere determinata dall'età e dalla posizione naturale, che altri tiene nella famiglia e nella gente, in questo invece le funzioni degli (1) « Munus (scrive Festo, quale è restituito dal Mommsen nell'ultima ediz. del Bruns, Fontes, pag. 344 e 3-15 ) dicitur administratio reipublicae, magistratus alicuius, aut curae, imperiive, quae multitudinis universae consensu , atque legitimis in unum convenientis populi comitiis, alicui mandatur per suffragia , ut capere eum eamque oporteat, et statim , certove ex tempore, certum usque ad tempus administrare » , Qui però il vocabolo munus è preso in una significazione più ristretta , che non quella che lo stesso autore vi attribuisce, quando discorre del municipium . - 231 individui vengono ad essere determinate dalla cooperazione, che possono recare alla città . Giovani debbono esserne i soldati; anziani debbono esserne i consiglieri. — Solo potrebbe trarre in inganno quel l'aureola religiosa , che sembra ancora circondare la formazione della città ; maanche questa religione non deve più confondersi con quella preesistente ; essa non è nè il fondamento , nè l'intento supremo, a cui la città intende, come sembra sostenere il Fustel de Coulanges ( 1); ma è soltanto una consacrazione dello scopo , che viene a proporsi la nuova comunanza, politica e militare ad un tempo, e quindi anche la sua religione, i suoi sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico, e come tali si contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii delle singole genti. $ 2 . Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae, decuriae) . 189. Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima giunta appariscono come un riverbero di quelle , che esistevano nel periodo precedente e quanto alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali ; ma se si riguardano più da vicino, si presentano con un contenuto, che già comincia ad essere diverso e che tende a diventarlo sempre più . Così è certamente vero, che la città viene ad essere divisa in tribu ; ma è evidente , che questa divisione in tribů, trasportata nell'interno di una stessa comunanza , non può più considerarsi come una distinzione del populus, ma tende di necessità a cam biarsi in una ripartizione del suo territorio . Le tre tribù primitive, ancorchè serbino per qualche tempo la denominazione antica , ten dono necessariamente a trasformarsi in altrettante divisioni territo riali ; poichè col mescolarsi degli elementi riuniti in una stessa co munanza, la distinzione delle stirpi primitive finisce per non più corrispondere alla realtà dei fatti. Come si potrà ancora parlare di una tribù di Ramnenses, di Titienses e di Luceres, quando, per la comunanza di connubio e di diritto, le varie genti si vengono me scolando insieme e nulla pud impedire, che le persone di una stirpe possano anche trasportare la propria sede nel territorio dell'altra ? Si (1 ) FUSTEL DE COUlanges, La cité antique, liv. III, chap. 5 , 6 , 7. 232 comprende pertanto, che fin dapprincipio i re tentassero di togliere di mezzo questa distinzione, che solo ebbe a mantenersi ancora per qualche tempo in conseguenza di quello spirito conservatore, che dimostrasi tenace sopratutto fra le genti di stirpe Sabina, alle quali appunto apparteneva l'augure Atto Nevio . La sua opposizione tut tavia non mutasi che in una dilazione, e la soppressione delle an tiche tribù , se non di diritto , verrà ad essere operata di fatto da Servio Tullio, che alla tribù fondata sulla discendenza sostituirà la tribù di carattere territoriale , e sarà cosi conservato il nome antico per indicare una istituzione compiutamente nuova. In questo modo infatti si sostituisce il vincolo territoriale , a quello della discendenza, che prima era il solo ad essere riconosciuto ( 1). 190. La distinzione invece, che è veramente fondamentale per il populus, è quella per cui il medesimo viene ad essere ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato circa il carattere originario delle curiae , e sull'autorità del Niebhur si è soventi sostenuto , che esse non fossero , che aggregazioni di gentes, e che si ripartissero anzi in gentes (2 ). Ora però comincia ad essere universalmente ammesso , che la curia può essere una istituzione, la cui origine è forse an teriore alla comunanza romana, e che poteva già essere conosciuta alle genti latine ed etrusche; ma che essa deve ad ognimodo essere considerata come la base di tutte le divisioni politiche e militari della città, finchè questa si mantenne esclusivamente patrizia . Essa , al pari del populus, di cui è una suddivisione, costituisce una cor porazione religiosa, politica e militare ad un tempo ; ha un proprio capo (curio); un proprio sacerdote (flamen curialis ); un proprio culto , che fa parte dei sacra publica ; un proprio santuario ( sacel um ); e tutte insieme riunite hanno proprie assemblee, che pren dono il nome di comitia curiata . L'esattezza stessa del loro nu mero già dimostra come questa divisione abbia un carattere del tutto artificiale , e miri a uno scopo preordinato , che è quello di dare (1) Del resto anche VARRONE, De ling . lat., IX, 9, parla della divisione primitiva in tribù , come di una divisione piuttosto dell'ager che del populus. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., I, pag. 31, il quale anzi nota che la distinzione in tribus, secondo Livio I, 13, si applicherebbe di preferenza agli equites . (2) Niebhur , Histoire Romaine. Trad . Golbery. Paris, 1830 , II, pag. 19. Vedi in proposito ciò, che si è detto parlando delle gentes nel lib . I, cap . III, al nº. 28 e seg. e nelle note relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la protezione della religione, un ordinamento politico e militare ad un tempo, per modo che essi sotto un aspetto possano costituire un'assemblea di quiriti, e sotto un altro un eser cito di Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei rapporti interni (domi), e questo è quello, con cui sono designati nei rapporti esterni ( foris, militiae). Nulla vieta, che imembri di una medesima curia siano anche stretti da vincoli gentilizi fra di loro , e che essi, come attesta Aulo Gellio , siano anche tratti ex generibus homi num (1) ; ma le curie sono già composte di uomini scelti, di viri, diguerrieri armati di lancia (quiris), di persone comprese in certi limiti di età , e quindi non possono più avere colle gentes altro rapporto , salvo quello che da esse ricavasi il contingente, che entra a costituirle . È quindi incomprensibile , che le curiae possano ripartirsi in gentes, le quali comprendono indistintamente tutti coloro, che derivano dal medesimo antenato, senza riguardo nè all'età , né al sesso . Solo può dirsi, che i membri della curia possono essere considerati sotto un doppio aspetto : o in rapporto colle famiglie , colle genti, colle tribù , da cui ebbero a staccarsi, e sotto quest'aspetto essi continuano ad essere dei gentiles ; o rimpetto al populus ed alla civitas, di cui entrano a far parte , e sotto questo aspetto sono dei viri, dei quirites, degli uomini di arme e di consiglio , che non debbono avere altro pensiero , che quello della res publica . 191. Quanto alla suddivisione in decuriae, che è solo accennata da Dionisio , essa non può certamente essere confusa colla riparti zione in gentes, come avrebbe voluto il Niebhur ; ma può essere facilmente compresa, quando si ritenga, che dalle curie usciva poi quel contingente, scelto e nominato dal re, che doveva poi entrare a costituire le centurie dei cavalieri e le decurie dei senatori. I (1) Aulo Gellio, Noctes Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in succinto tutta una teoria intorno ai comizii, che egli dice di aver ricavata dal libro di Laelius Foelix , ad Quintum Mucium , e sarebbero parole testuali di quest'ultimo le seguenti : « cum ex generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia ; cum ex censu et aetate, centuriata ; cum ex regionibus et locis , tributa » . Fu anche fondandosi su questo passo, che si è sostenuto per lungo tempo, che le curiae si dividessero in gentes ; ma parmi evidente, che, anche ammettendo che genus in questo caso suoni gens, il medesimo non potrà mai condurre ad altro risultato salvo a quello, che il contingente delle curie era ricavato dalle genti e in base alla discendenza , mentre quello delle cen turie era ripartito in base al censo , e quello dei comizii tributi in base alle località o alle tribù , a cui erano ascritti i cittadini. 234 senatori ( patres) ed i cavalieri (celeres , equites) nella città primi tiva appariscono come due corpi scelti nel seno stesso delle curie , e corrispondono in certo modo alla divisione dei iuniores e dei se niores. I primi sono l'elemento giovine, splendido nell'armi, che costituisce il corteggio del re e l'ornamento della città (civitatis or namentum ), sotto il comando di un tribunus celerum , o di un magister equitum ; mentre il senato , nella concezione estetica ed armonica della città primitiva , rappresenta l'elemento più maturo negli anni, più saggio nel consiglio , e costituisce veramente il con siglio, da cui il re è circondato (regium consilium ). Non vi ha poi dubbio, che l'uno o l'altro elemento viene ad essere ricavato dal seno delle curie, e quindi è assai probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della città primitiva, ogni curia potesse anche sommini strare un numero eguale di cavalieri e di senatori, numero che dovette appunto essere quello di dieci per ogni curia ; donde il con cetto , che anche le curiae si dividessero in decuriae. Del resto non avrebbe nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse vera mente nel seno delle curie : mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile, che le curie si potessero suddividere in gentes (1 ). 192. Conchiudendo si può dire: che la ripartizione in tribù , qualunque potesse esserne la significazione primitiva, tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una ripartizione del l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e dalle tribù, dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e militari ad un tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito , cosicchè riunite possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto un altro aspetto un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un carattere sacerdotale , che fu quello (1) Che le decuriae non debbano confondersi colle gentes, ma debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites e senz'alcun dubbio anche fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò , che il senato fin dai primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il che dovette pure essere degli equites, il cui corpo , secondo OVIDIO , Fast., III, 130 dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate « quasi turimae, quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium , Ramnium , Lucerum fiebant » ( V. Festo , vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de curiae fu ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia , dei quali si sa , che erano organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito Belot, His toire des chevaliers romains, I, pag. 151, 152 ; e il Bloy, Les origines du Sénat romain . Paris , 1883, pag . 102-105 . 235 - che serbarono più a lungo, allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e militari ; che da ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere cercata la riparti zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò , che Cicerone disse più tardi della famiglia , che esse cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da esse ricavavasi il contingente, che entrava a costituire le curie . § 3. — Il pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo (regis imperium , patrum auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame del populus e della sua composizione può facilmente condurci a spiegare in qual modo abbia potuto sboc ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico potere , ed in quali forme esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui una guida incerta , poichè il potere in genere viene ad essere indicato , ora col vocabolo di potestas, ed ora con quello di imperium ; ma l'in certezza, che è nei vocaboli, può essere tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il processo logico , che in questa parte seguirono i Romani. Anche a questo riguardo esistevano degli elementi , che già erano preparati nell'organizzazione preesistente. Per unificare la città , presentavasi acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti più difficili , eravi il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare intorno alle cose, che riguardavano il comune interesse, già si conosceva l'assemblea della tribù . Erano così in pronto l'elemento monarchico, l'aristocratico e il democratico ; nė ai fondatori della città patrizia poteva ripugnare, che queste con figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero trasportate nella nuova comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato rive renze alle istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del potere, preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città ; ma intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso . Il re infatti non è più tale per nascita , ma è creato dall'elezione ; il che deve pur dirsi del senato , e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono una moltitudine, ne una folla , in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono un esercito di uomini di arme, ed un'assemblea , debitamente organizzata , di uomini di senno e di consiglio . Il re, il senato ed il popolo, adu 236 nato nei comizii, vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si estrinseca il pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto al vocabolo adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia, poichè occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora quello di imperium . Dei due vocaboli tuttavia quello , che a mio avviso appare più largo e comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale , per la propria ge neralità , può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi gradazione del pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare il potere del magistrato (potestas regia , consularis, censoria ); quello del popolo (populi potestas) e talvolta eziandio quello del senato , al modo stesso che può anche adoperarsi per significare il potere domestico e privato . Potestas insomma, nella sua significa zione più larga, indica il potere, riguardato in tutte le sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie , che, contrapponen dosi talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium , possa anche assumere una significazione più circoscritta (1). L'espressione quindi ( 1) Questa incertezza di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra gli altri, dal KARLOWA, Röm . R. G., I, pag. 84, il quale trova eziandio, che il voca bolo di potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa il MOMMSEN , secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga , e quello di impe rium la più ristretta ; sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio corrente il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano imperium . Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato : « Cum imperio dicebatur apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium ; cum potestate est, dicebatur de eo , qui negotio alicui praeficiebatur » . Le droit public romain , I, pag. 24. Lo stesso autore poi osserva , che quel vocabolo di imperium , che in un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un senso ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op. cit., I, pag. 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella significazione di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che il vocabolo di potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di imperium usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più specialmente ancora per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere privato del capo di famiglia accadde alcun che di analogo . Questo potere infatti in origine era indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas ; ma ciò non tolse, che questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti di questo potere, cioè la manus il potere del marito sulla moglie, e la po testas quello del padre sui figli. Ciò significa , che i vocaboli presentansi dapprima con una significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico di quei concetti primitivi, di cui sono l'espressione ; ma quando poi questi concetti si vengono diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo primitivo suol sempre essere mantenuto per significare in modo più specifico uno di tali aspetti. 237 - più generale del potere viene ad essere quella di publica potestas; ma siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi , così ben presto nella indeterminazione primitiva , compariscono i vocaboli, che esprimono gli atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali sono i vocaboli di imperium , che applicasi di prefe renza al potere del magistrato ; quello di auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e quello infine di potestas, che, applicato al popolo , indica il potere di esso , in quanto iubet atque constituit (1), Tutti questi concetti sono ancora vaghi ed indeterminati: ma intanto sono concepiti in una sintesi potente , che renderà possibile a cia scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito . 195. Ciò può scorgersi anzitutto quanto al concetto di imperium , che indica di preferenza il potere del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non esce dalla nascita , nè dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle volontà, che concentrano ed unificano in esso il potere, che prima era disperso fra i singoli capi di fa miglia , alla cui potestà trovasi talvolta applicato il vocabolo stesso di imperium . Per esprimere un tal concetto non poteva esservi im magine più efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle aste, che sono l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti (2 ). (1) Che il potere del re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più tardi, sia di regola indicato col vocabolo di imperium , è cosa che appare da tutti gli antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste varie distin zioni, allorchè afferma che « potestas in populo, auctoritas in senatu est » . De le gibus III, 12, § 28 ; distinzioni, che egli fa rimontare fino agli inizii di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive : « vidit singulari imperio et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates, esset optimi cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas » , nel qual passo il potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis, mentre quello del senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep ., JI, 8 . (2) Magistratus, scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo investito di una magistratura politica regolare, in quanto essa emana dall'elezione del popolo ( Le droit public romain, I, pag. 8 ) ; e aggiunge poi a pag. 10 , che il magistrato , quanto alle forme esteriori, è appunto colui, che ha diritto di portare i fasci dentro la città . Ora se il magistrato è l'eletto del popolo, e se i fasci, che simboleggiano i poteri riuniti dei quiriti, sono l'emblema del suo potere, non so veramente com prendere, come siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso Mommsen , che il re non riceva il proprio potere dal popolo : tanto più , che gli scrittori antichi parlando del popolo usano le espressioni di imperium dare, magistratum creare, iubere, sibi ad scire e simili. 238 Per tal guisa , dal fascio delle armi usci il fascio dei littori, e si frapposero in esso anche le scuri, che simboleggiano quel ius vitae et necis, il quale apparteneva al capo di famiglia , e non poteva perciò essere negato al capo della città . È tuttavia degno di nota, che questo imperium , formatosi mediante la riunione dei poteri spettanti a ciascuno , appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi, che ebbero a conferirlo, in quanto che le sue stesse insegne esteriori ( fasces) indicano, come al disopra del potere dei singoli siasi formato un potere collettivo, a cui tutti debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti ai fasci dei littori, si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo a quel magistrato, il quale , mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene ad essere imponente e pauroso per ciascuno ; e che se il magistrato ordini al littore « col liga manus » , il cittadino non osa sottrarsi al comando. 196. Intanto in questa prima concezione del potere del magi strato , non si potrebbe certamente aspettare, che siano determinati i confini, in cui il medesimo debba essere contenuto. La necessità di un elemento unificatore è universalmente sentita , trattandosi di una città , che fin dalle proprie origini era il frutto della con federazione di elementi eterogenei e diversi ; né si può aspettare, che un popolo , il quale non pose dapprima alcun limite al potere giuridico del capo di famiglia , possa cercare di mettere dei confini alpubblico potere del magistrato. Il medesimo percid compare senza limitazione di sorta ; è potere religioso, militare, politico e civile ad un tempo ; ed è concepito in una sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen , per ricostruire il potere primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei poteri, che si vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate di Roma, quali sono il console , il pretore, il dittatore ed il censore ( 1). Fu solo l'esperienza, che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa abusare anche un eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare scomposizione del potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura speciale . Tuttavia , anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione netta di qualsiasi potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta essere reso impotente per un atto di minima ( 1) Mommsen, Op. cit., pag . 5 e 6 . 239 importanza, viene ad avere un potere pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato e sorretto dalla pubblica opinione. 197. Lo stesso è a dirsi della patrum auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che come quello di potestas , presentasi con significazione alquanto vaga ed indeterminata , e che trovasi applicato eziandio, cosi in tema di diritto pubblico che di diritto privato . Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di notare, che il vocabolo auctoritas, nella varietà delle significazioni, che sogliono essergli attribuite, significa costantemente l'appoggio, l'approvazione, la ga ranzia , che si arreca o si assume per un determinato atto . Tale è la significazione fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di iuris auctoritas, di usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris auctoritas, o del venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al compratore, auctor fit dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la significazione del vocabolo di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed esercita l'imperium , dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit ; mentre il senato trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia almagi strato, dall'altra auctor fit , cioè accorda la propria approvazione alle deliberazioni del popolo (1). Esso componesi di persone, alle quali, per la loro età e per il loro grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il consulere, e quindi, senza avere propria iniziativa, completa in certo modo l'opera dell'uno e dell'altro ; poichè per mezzo del senato le misure prese dal re vengono ad avere l'autorità e l'appoggio del suo consiglio , e le delibera zioni del popolo ricevono consistenza ed autorità , mediante la sua approvazione . Finchè dura il periodo regio, il concetto si man tiene ancora vago ed indeterminato ; ma durante il periodo repub blicano quest'autorità , essenzialmente consultiva , riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà per penetrare in qualsiasi argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la grandezza di Roma non fu (1 ) L'ufficio consultivo, che il senato compie rispetto al re, è bellamente espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo : « Itaque hoc consilio et quasi senatu fultus » . De rep., II, 8. Quanto poi all'auctoritas, che il senato esercita rimpetto al populus, essa non può certamente pareggiarsi coll' auctoritas tutoris dirimpetto al pupillo , perchè non trattasi qui di integrare una personalità incompleta; ma bensì di recare il sussidio e l'autorità, che viene dall'età e dall'esperienza , ai provvedimenti, che ri guardano il pubblico interesse. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., I, pag . 47 . 240 solo opera della fortezza del suo popolo , nè dell'energia del suo ma gistrato, ma benanco della sapienza del suo senato. Per i Romani ebbe importanza l'agere e il iubere; ma l'uno e l'altro dovettero essere temperati dal consulere. 198. Intanto, dacchè sono in quest'argomento, importa qui di accen nare alla questione tanto controversa , fra gli autori, circa la signifi cazione da attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas : col qual vocabolo alcuni intendono l'approvazione del senato ; altri invece l'approvazione, che, durante i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle curie dovevano dare alle deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri infine ritengono, che con esso intendasi l'ap provazione dei senatori esclusivamente patrizii (1 ). Sembra a me, che la questione possa essere risolta in modo assai più naturale e più verosimile, quando si abbia presente che, in una lunga evoluzione storica , quale è quella della costituzione politica di Roma, una stessa espressione può in varii periodi di tempo anche assumere significazioni compiutamente diverse . Durante il periodo regio , il vocabolo di patrum auctoritas significò senz'alcun dubbio l'approvazione del senato; perchè nella città esclusivamente patrizia erano chiamati col nome di patres i senatori, mentre gli altri capi di famiglia costituivano il populus e l'assemblea delle curie . Più tardi invece, allorchè, accanto ai comizii curiati, si vennero for mando anche i comizii centuriati, ed anche i comizii tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè naturalmente comprendere tutto l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente l'ordine dei patres e dei patricii di fronte al rimanente del popolo , ed aveva ancora una propria assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui (1) Questa è una delle questioni più controverse, che presenti la storia politica di Roma, e credo veramente, che la causa del dissenso provenga dalla supposizione, che un medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba sempre avere una medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli autori possono vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain , 5me éd ., Paris 1883 , pag . 208 e dal Bouché-LECLERCQ , Manuel des institutions romaines, Paris 1886, pag. 16 , nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere trattata con grande chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Roma nelle sue diverse forme (Rivista di filologia , 1884, pag . 297 a 395. Così pure ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op . cit ., pag. 42 a 48; il quale finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la conseguenza , che d'allora in poi, per indicare l'approvazione del senato si usd di preferenza il vocabolo di senatus auctoritas, in quanto , che il senato aveva già cessato di essere composto esclusi vamente di veri patres, e cominciava a raccogliersi fra gli equites e più tardi fra i magistrati uscenti di uffizio (patres et conscripti); mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè servire acconciamente per indicare la ratifica, che i comizii curiati, composti ancora dell'ele mento patrizio , dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni, che fossero state votate nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato da ciò , che si usano promiscuamente le espressioni « patres o patricii auctores fiunt » . Siccome però in questo periodo, il senato è ancora essenzialmente l'organo del patriziato, così si comprende come posteriormente, allorchè la necessità della patrum auctoritas era stata abolita , l'espressione siasi talvolta adoperata per significare l'una o l'altra approvazione ( 1). ( 1) Nella gravissima questione, che è tuttora aperta , gli unici argomenti, vera mente saldi, di cui possiamo valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas patrum , durante il periodo regio esclusivamente patrizio, non potè significare che l'approva zione del senato, come risulta dal racconto di Livio , relativo all'elezione di Numa, ove i patres, qui auctores fiunt, non possono essere che i senatori. Hist. I, 17 , ed anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto, attribuisce l'auctoritas al senatus ; 2° Che colla Repubblica il senato continuò senz'alcun dubbio ad approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche tribute, in quanto che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da Livio, XXXII, 6 ; IV , 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano : nullum plebiscitum nisi ex auctoritate senatus passuros se perferri ; 3º Che oltre a questa approvazione del senato si parla sovente di patres o di patricii auctores sopratutto da Livio , ogni qualvolta trattasi di proposta di un interrex , o di qualche provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40 , 55 , 59; IV , 7, 17, 42 , 43 ecc. Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi al senato, e quindi l'unica conclusione probabile viene ad essere, che, siccome l'assemblea delle curie, composta di patricii, era in certo modo stata esclusa dalla formazione delle leggi, la quale era passata invece ai comizii centuriati, che erano la vera riunione del populus, così essa , accid ritenesse sempre una parte nella formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la patrum o patriciorum auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla senatus au ctoritas. Cid fu una conseguenza della modificazione introdottasi nella costituzione colla introduzione dei comizii centuriati, e del principio ispiratore della costituzione primitiva , secondo cui, per la formazionedella legge, richiedevasi il concorso di tutti gli organi politici dello stato . Ciò che è accaduto dell'auctoritas patrum , si è pure verificato della lex curiata de imperio, ed anche della proposta dell' interrex , che pure appartengono all'assemblea esclusivamente patrizia , quale fu per qualche tempo ancora quella delle curie; mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele mento plebeo, aveva seguito lo svolgersi della costituzione , e aveva così cessato di G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene infine la potestas populi, e a questo riguardo io non dubito di affermare, che essa nel concetto della costituzione pri mitiva di Roma, debbe essere considerata come la sorgente di ogni altro potere . Alcuni autori trovano ripugnante, che Roma sia sen z'altro pervenuta al concetto della sovranità popolare, e quindi cercano di dare, come fondamento all'imperium del magistrato, il concetto degli auspicia , che essi considerano come una specie di investitura divina (1 ). Parmi invece, che la genesi dello Stato romano essere esclusivamente patrizio. Insomma, coll'accoglimento della plebe nel populus quiritium , il vero potere legislativo viene a portarsi nei comizii centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie conserva l'auctoritas patrum , la lex curiata de imperio, e la proposta dell'interrex. Certo è una congettura anche questa , ma mentre essa non contraddice ai passi degli antichi autori, corrisponde allo spirito della costitu zione primitiva , in cui ogni organo politico deve aver parte nella formazione delle leggi e nell'elezione del magistrato, ed al sistema romano, che, pur introducendo un nuovo organo politico, suole ancora mantenere per riverenza e per culto quelli, che esistevano precedentemente. Il vero intanto si è, che queste varie funzioni dell'as semblea delle curie non avevano più una vera ed effettiva influenza, poichè la lex curiata de imperio divenne una semplice formalità, la proposta dell'interrex era una reliquia del principio, che auspicia ad patres redeunt, e la patrum auctoritas soleva solo essere negata, quando trattavasi di opposizione d'interessi fra patriziato e plebe. Dovrò ritornare sull'argomento nel Capitolo III, al § 1° e 2°, discorrendo dello svol gimento storico del concetto di lex , e di quello dell'interregnum . Del resto delle opinioni poste innanzi dagli autori quella, che parmi la meno probabile, è quella adottata dal KARLOWA, op . cit., pag. 42 a 48, che intende per patrum auctoritas l'approvazione dei soli senatori patrizii, perchè essa non si concilia coll'espressione dei patricii auctores fiunt, patricü coeunt, interregem produnt e simili, e perchè crea una divisione nel senato, che è incompatibile col carattere di unità coerente, che ebbe sempre questo corpo. Mentre l'assemblea delle curie diventava una soprav vivenza dell'antica' costituzione, il senato invece si mantenne sempre vigoroso e vi tale, e subì modificazioni analoghe a quelle del populus, senza mai portare le traccie di dissidii che fossero nel suo seno , poichè la nobiltà plebea , che entrava in esso, aveva già le stesse tendenze dell'antico patriziato. Che poi il vocabolo di patres, in questo periodo, fosse venuto a significare in genere l'ordine patrizio, è dimostrato in modo incontrastabile da quella disposizione della legge decemvirale: « connubium patribus cum plebe ne esto » , dove il vocabolo patres non comprende certo soltanto i senatori, ma tutti i patrizü ; come pure dal fatto, che gli storici parlano soventi dei iuniores patrum , la cui intransigenza è condannata dal senato. (1) Parmi, che questa proposizione sia abbastanza provata dalle espressioni ado. perate dagli autori per significare il potere del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di questo potere, dicendo che il populus regem sibi adscivit, creavit, iussit, constituit ; espressioni, che indicano abbastanza, che la potestà suprema, a suo avviso, risiedeva presso il popolo. Lo stesso è da lui confermato , allorchè nel discorso de lege agraria 2 , 7, 17 dice: « omnes potestates, imperia , curationes ab universo populo romano 243 dovesse logicamente condurre al risultato di riporre la sorgente del pubblico potere nella sovranità popolare, circondandola però di quel l'aureola religiosa, che occorre in tutte le primitive istituzioni di Roma. Lo Stato romano esce dalla confederazione e dal contratto , e quindi al modo stesso , che la patria riceve la sua denominazione dai patres; così il potere pubblico si forma mediante la riunione del potere, che appartiene ai singoli quiriti, e che è rappresentato dalla lancia , di cui essi sono armati. Quanto agli auspicia , che appar tengono al magistrato, essi non mirano, che a dare una consacra zione religiosa al potere stesso, e a metterlo in condizione di sapere giudicare, se questo o quel provvedimento , da prendersi nel pubblico interesse, possa essere o non accetto agli dei. Che anzi gli auspicia publica del magistrato debbono considerarsi essi stessi come una trasmessione, che i padri fanno al magistrato di quegli auspicia , che appartengono a ciascuno di essi. Cid è dimostrato dal fatto che, du rante l'interregno , gli auspicia ritornano ai padri (ad patres re deunt auspicia ); il che significa, che in origine dovevano appartenere ai padri stessi, i quali, nell'interesse delle loro genti e famiglie , as sumevano quegli auspicii, che il magistrato romano doveva invece consultare , quando si trattasse di qualche deliberazione importante per il popolo stesso . Tuttavia se ai patres tornano gli auspicia , è però sempre al populus, che spetta di creare il magistrato , che debba succedere nell'imperium , come lo dimostra la tradizione, per venuta fino a noi, della elezione diNuma. Si aggiunge, che è solo dopo il conferimento dell'imperium , fatto mediante la lex curiata de imperio, che il re dapprima e le magistrature, che gli sottentrarono più tardi, possono entrare nell'adempimento del proprio uffizio. Ri tengo pertanto, che a questo proposito non possa essere accolta l'opi nione del Mommsen, la quale riesce pure inammessibile per il Kar proficisci convenit ». Lo stesso è indicato da Festo, allorchè parlando del magi stratus cum imperio, dice, che esso è quello al quale « a populo dabatur imperium » . Malgrado di ciò convien dire, che l'opinione contraria, come si vedrà in seguito, ha la prevalenza presso gli autori anche recenti, che si occuparono dell'argomento. Si accostano però al concetto da me sostenuto il Mainz, Introd . au cours de droit romain . Bruxelles, 1876 , nº. 6 , pag . 33, ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, il quale fino dapprincipio afferma molto chiaramente e giusta mente, a parer mio , che « i pastori della leggenda riconoscono Romolo per capo supremo; ma, pur conferendogli la somma autorità , riguardano ancor sempre se stessi quali depositarii, e quasi natural sorgente della sovranità » . 244 - lowa, secondo la quale la lex curiata de imperio non conferirebbe l'impero , ma soltanto vincolerebbe il popolo verso il re (1). Se cosi fosse infatti, il magistrato dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio , anche prima di aver ricevuto questa specie di giuramento di fedeltà , che servirebbe ad obbligare il popolo , ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il vero invece si è , che anche in questa appare il carattere eminentemente contrattuale della costituzione primitiva di Roma, per cui anche il conferimento del potere supremo si opera colla forma propria della stipulazione, in quanto che havvi il magistrato , che prima di entrare in ufficio rogat imperium , ed havvi il popolo, che con una legge glie lo conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i diritti e le obbligazioni, che una legge di questa natura può loro conferire. Una prova poi di questo riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per parte del patriziato , in quel fatto di Valerio Pubblicola , che in tempo di pace e dentro la città ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere daimedesimi le scuri, come pure nel fatto , che gli imperatori, quando già si erano fatti onnipotenti, sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale concetto , di essere investiti dell'imperium dal popolo. 200. Intanto però il concetto , che il potere supremo risiedesse nel popolo , non poteva in nessun modo affievolire l'imperium : poichè al modo stesso che il popolo doveva ubbidire alle leggi, che si erano (1 ) Che il magistrato non possa entrare in ufficio , e tanto meno esercitare l'im perium , prima della lex curiata de imperio, è provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice : « consuli, si legem curiatam non habet, rem militarem attingere non licet » (De lege agraria, II, 12, 30 ) e più genericamente ancora : « sine lege cu riata nihil agi per decemviros posse » ( Ibidem , II, 11, 28). Dal momento quindi, che il concetto dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello del regis im perium , non si comprende come il Mommsen , Staatsrecht, I, 588 s. possa ridurre la lex curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola i soli sudditi, e meno an cora , che il Karlowa, op. cit., I, pag. 52 e 82 possa sostenere, che la lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione, che colla costituzione Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii centuriati, i quali avrebbero conferita la potestas, mentre i comizii curiati avrebbero poi conferito l'imperium . Ciò è contraddetto ripetutamente da CICERONE, de Rep . II, 10, 17, 18 , 20, che parla appunto della lex curiata de imperio a proposito dei primi re. Non solo deve negarsi , che questa lex entrò in azione solo colla costituzione Serviana ; ma deve dirsi piuttosto, che essa da quel momento perde della propria importanza e riducesi ad una semplice sopravvi venza dell'antico ordine di cose, in cui erano i patres, che investivano il re del. l'imperium , e a cui ritornavano gli auspicia . - 245 da lui votate nei comizi, così esso doveva eziandio inchinarsi al potere, che aveva conferito al magistrato per mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo potere riusciva tanto più efficace ed imponente, in quanto si fondava sopra una volontà collettiva , che ve niva a sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è anche questo il mo tivo , per cui il potere del magistrato romano veniva in certo modo ad essere senza confini, finchè aveva l'appoggio della pubblica opinione . Fermo cosi il concetto della costituzione primitiva di Roma, quale esce dalla logica delle istituzioni (logica , che nel fatto dovette anche essere più rigorosa e coerente di quella, che a noi possa esser riu scito di ricostruire ), riescirà più facile di ricomporre insieme i cenni, che gli autori ci conservarono di questa primitiva costituzione e di comprendere il vero ed intimo significato della medesima. § 4 . Il re ed il regis imperium . 201. Dei concetti politici del periodo regio, quello che presentasi modellato in modo più vigoroso e potente è certamente il potere del rex . Tutti i poteri infatti, che nel periodo anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi vocaboli di magister populi, di magister pagi, di dictator , di praetor , di iudex appariscono fusi e concentrati nella concezione sintetica del regis imperium . Per tal modo il con cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di tutte le manifestazioni del potere , che eransi avverate nel periodo gentilizio , e dall'altra è il punto di partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri, che, durante il periodo repubblicano , saranno poi affidati alle diverse magistrature maggiori. Il rex nel concetto romano è l'unificazione potente del populus; accoglie in sè la somma dei poteri, che possono essere necessarii nell'interesse della cosa pubblica ; nė vi ha costituzione scritta , che gli prescriva alcun limite nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che questi limiti esistano di fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno incessante, che il re ha dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli imbarazzi, che gli possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere troppo oltre la propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della città spiega la vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel cuore stesso della città , accanto al sito , ove deve bru 246 ciare perenne il focolare della vita pubblica , che si conserva nel tempio di Vesta . Che se, per provvedere al pubblico interesse , debba abbandonare la città , dovrà lasciare nella medesima un proprio delegato , che prenderà il nome di praefectus urbis. È quindi anche il re , che provvede al lustro esteriore della città , che progetta e costruisce quelle opere grandiose, che già rimon tano all'epoca regia , e che non furono le meno durature fra quelle costruite nell'eterna città . È nella successione dei re parimenti, che può scorgersi una continuità nel grandioso intento di ampliarne le mura e le fortificazioni; lavori tutti, le cui reliquie dimostrano abbastanza, come trattisi di un concepimento, che già presentatosi ai primi re , ebbe poi ad essere continuato da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato quello , che aspird alla tirannide . 202. Cid quanto alla custodia materiale dell'urbs. Che se si con sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un popolo , che è ripartito in curie, le quali hanno un carattere religioso, militare e politico ad un tempo, riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché dura il periodo regio, il magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe rator) od il magister populi, o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo di guerra, ma è anche il sommo sacerdote del popolo romano. Esso è augure sommo, e tale appare Romolo stesso ; è pontefice massimo, come lo dimostra il fatto, che questa ' magistratura sacer dotale del popolo romano compare soltanto colla repubblica , allorchè sentivasi già il bisogno di limitare in qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone la parte che si riferiva alla religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra il pontifex maximus ed il rex sa crorum ; e fino a un certo punto esso è ancora il pater patratus del popolo romano, come lo dimostra il fatto, che nelle descrizioni dei più antichi trattati sono i capi dei due popoli, che vengono alla stipu lazione del foedus e al compimento solenne delle cerimonie del ius foederale o foeciale, mentre gli eserciti si limitano a salutarsi re ciprocamente, e così approvano tacimente l'opera dei proprii capi (1). Verò è , che già fin dal periodo regio noi troviamo l'istituzione dei collegii sacerdotali, ma questa creazione è opera del re stesso , nè essi hanno, anche nella città patrizia, alcuna partecipazione diretta all'e (1) Ciò appare dal seguente passo di Livio, I, 1, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri : « inde foedus ictum inter duces, inter exercitus salutationem factam » . - - 247 sercizio del pubblico potere; ma sono soltanto, come si dimostrerà a suo tempo, depositarii e custodi delle tradizioni giuridiche, politiche , internazionali delle genti e delle tribù , da cui essi sono tolti, e aiu tano così il re nella opera di unificazione legislativa , che dovette essere urgente cosa e difficile negli inizii di Roma, per trattarsi di città , che risultava dalle confederazioni di genti, che appartenevano a stirpi diverse (1). Vero è parimenti, che durante il periodo regio già appariscono altre cariche, quali sono quelle del tribunus celerum , dei quaestores parricidii, e deiduumviri perduellionis ; ma anche questi non sono che ufficiali dipendenti dal re, e da lui nominati . Di qui la conseguenza, che è solo il re o qualche suo delegato , che può essere preceduto dai fasci dei littori e dalle scuri, simbolo del pubblico potere. È esso parimenti, che solo può convocare il popolo e il senato , salvo che egli deleghi questo potere al tribunus celerum o al praefectus urbis (2) . È quindi vero , che colla creazione del regis imperium si rias sumono in una sintesi potente tutte le manifestazioni del magi stratus nel periodo gentilizio, e si inizia lo svolgimento di tutti i poteri, che possono convenire ad una comunanza civile e politica. Nel rex insomma, per usare una espressione dello Spencer, termina l'integrazione del potere preparatasi nel periodo gentilizio , e da esso incomincia quella differenziazione del potere pubblico , che dovrà poi operarsi nella città . 203. Per quello poi, che si riferisce ai poteri che sono inchiusi nell'imperium regis , indarno si cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che compariranno più tardi. L'imperium regis è una con cezione logica , più che l'opera di una costituzione scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò , che può essere indicato coi vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di imperare. Egli deve pren dere norma più dalla funzione, che è chiamato a compiere nella città , che non da una precisa e particolareggiata determinazione del ( 1) Quanto al compito dei collegi sacerdotali in Roma primitiva , mi rimetto a quanto avrò a dirne in questo stesso libro, capitolo IV , § 2º. (2) Secondo il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 115, sarebbe, valendosi di questo potere, che Giunio Bruto , come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino , quale praefectus urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la cacciata dei Tarquinii: quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto eccezionali non siasi forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio uffizio. Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono distinguere atteggiamenti diversi , che cominciano a diffe renziarsi mediante i vocaboli di auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae . A lui quindi si appartiene di assumere gli au spicii , allorchè trattasi di qualche deliberazione, che si riferisca al pubblico interesse , cosicchè, già fin da questo periodo, gli auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia privata . Nell' as sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri , ma a questi solo si appartiene la custodia dei riti e il compimento delle cerimonie tradizionali; mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare se essi siano favorevoli o non lo siano (1). Così pure ha l'imperium domimilitiaeque, col quale incomincia una distinzione, le cui traccie si perpetuano per tutta la storia politica e militare di Roma. Per verità , se i Romani credettero di porre dei confini al l'imperium nei confini della città , e vollero che i consoli, entrando nella medesima , facessero togliere le scuri dai fasci , e facessero abbassare anche questi , allorchè concionavano il popolo, compresero però la necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e che la provocatio ad populum fosse tolta di mezzo , allorchè si trattava di mantenere la disciplina dell'esercito ; quasi si potrebbe dire, che a Roma il re o il magistrato rogat in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra . In virtù dell'imperium militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo in tempo di guerra (2 ): nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re sarebbe il duce della fanteria , mentre il tribunus celerum sarebbe quello della cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio militare del re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i comizi : ra duna il senato ; amministra giustizia , non nella propria casa, ma all'aperto , in cospetto della cittadinanza ; propone le leggi; e (1) Cfr. Mommsen, Le droit public romain , I pag. 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia , e del compito affidato agli auguri. (2 ) Sulla distinzione fra l'imperium domi e l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit ., I, pag. 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, pag . 135 e 157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già accennata più sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri , i quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali, indicati coi vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi scelti , in base a un numero determinato , dall'assemblea delle curie . I primi scelti fra i giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte militare del re; mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio ; donde la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro ordine, e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi, allorchè l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un indizio di cið l'abbiamo in questo , che negli inizii di Roma sembra esservi una correlazione fra il numero degli equites e quello dei patres , col numero delle curie ; correlazione , che non tardd a scomparire, in quanto che il numero degli equites si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero dei patres si arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di più il senato costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi degli equites , i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a dare il proprio voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso, che anche più tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo per assi stere ai pubblici spettacoli ( 1). 204. Questo è certo ad ognimodo, che nella costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso ed intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto all'opera personale del re. Egli impone tasse , distribuisce terre , costruisce (1) Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre, pag. 672 e segg. È poi Livio , I, 35, che parla dei « loca divisa patribus equitibusque » nel circo; altra prova questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini distinti dal resto del popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea dello stesso Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un militaris ordo, ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare, come essi abbiano poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto questo carattere militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo delle curie, e a tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato ; sebbene siavi chi attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES, Della composizione del senato (Mem . Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii . Può darsi, che la tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a sintetizzare i processi seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti, abbia in questa parte esagerata l'opera personale del re ; ma ad ogni modo, quando si consideri che il primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo di unificazione dei varii ele menti, che concorrevano alla formazione della città , si dovrà sempre riconoscere, che la parte più operosa nel compito comune doveva appartenere a quell'elemento , che era chiamata ad unificarle . Allorchè trattasi della formazione di una città ( e si potrebbe anche dire di uno Stato e di una nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare una parte maggiore al consulere, allorchè si tratterà di provvedere all'amministrazione interna, o a quella delle provincie; sarà infine soltanto , allorchè saranno ferme le basi della grandezza dello Stato , che potranno svolgersi largamente il iubere e il constituere. Cid intanto prova ad evidenza che il potere del re in Roma pri mitiva aveva già assunto un carattere essenzialmente politico e mi litare, come quello , che conteneva in germe tutti quei poteri essen zialmente politici, che furono poscia affidati a magistrature diverse . Nelle forme esteriori può ancora assomigliarsi ad un padre : ma nella sostanza è già un principe, ossia il primo del popolo ( prin ceps), è il duce dell'esercito , e il magistrato della città . § 5. — Il Senato e la patrum auctoritas. 205. On carattere analogo può riscontrarsi eziandio nel senato , quale appare nella costituzione primitiva di Roma. Può darsi benis simo, che il nome stesso di senatus sia una sopravvivenza dell'or ganizzazione gentilizia , come lo è certamente quello di patres , che fu dato ai senatori, e che essi conservarono anche più tardi, allorchè certamente avevano cessato di esser tali. Può darsi eziandio , che il primo concetto del senatus potesse essere suggerito da quel consi glio domestico, che temperava talvolta il potere del primitivo capo di famiglia, od anche dal consiglio degli anziani, che provvedeva all'interesse comune della gente . Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il senato romano assume fin dai proprii inizii un ca rattere eminentemente politico, e che presentasi come l'applicazione di un concetto , che i Romani avevano profondamente radicato, il quale consisteva in ciò , che tanto il regis imperium , quanto il iussus po 251 - puli abbisognassero di un ritegno in quell'autorità , che viene ad essere attribuita dall'esperienza e dall’età (1). Di qui conseguita , che la patrum auctoritas, allorchè comparenella costituzione primitiva di Roma, non è un'autorità , i cui limiti siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una costruzione logica , che potrà col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di cui può essere capace il concetto ispiratore della medesima. Di essa, come dell'imperium regis, non potrebbe dirsi quale sia l'influenza , che verrà ad esercitare sulle sorti di Roma; solo si conosce la funzione che , in base al proprio concetto informatore, è chiamata ad esercitare nella costituzione politica della città . Saranno poi gli eventi, che additeranno al senatus la via che dovrà seguire, i limiti in cui dovrà contenersi, e i casi eziandio , in cui dovrà forzare il proprio ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la logica dell'istituzione dovrebbe contenerlo . 206. Siccome perd la funzione del consulere, per essere una fun zione intermedia , ha per sua natura una indeterminatezza molto maggiore, che non quella dell'agere e del iubere ; così ne viene, che i poteri del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi mento posteriore un carattere vago ed indeterminato , che dipenderà dall'influenza effettiva e reale , che i membri, che lo compongono, saranno in condizione di esercitare sull'andamento della cosa pubblica . Possono esservi dei consigli che, per le persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in comandi, per quanto siano accompagnati dalla formola « si eis videbitur » ; al modo stesso , che possono esservi dei responsi e degli avvisi, che, per l'autorità della persona, da cui partono, possono anche valere come sentenza , contro cui non sia consentito di appellare . Queste esplicazioni sono frequenti nella lo gica romana, e sono esse, che possono spiegare in qual modo il se nato , pressochè lasciato in disparte dallo spirito intraprendente dei re, che dovevano preferire l'appoggio dell'elemento popolare e quello anche della plebe , abbia potuto , senza romperla affatto col concetto ispiratore della propria istituzione, cambiarsi colla Repubblica nel l'organo più potente della costituzione politica di Roma, per guisa da attribuire ai proprii avvisi (consulta ) l'autorità di vere leggi ; (1) Parmi di trovar espresso questo concetto , a proposito di Romolo, in CICERONE, de Rep. II , 8 . 252 mentre invece coll'Impero viene ad essere ridotto a concedere la propria autorità ai decreti di un principe , al cui arbitrio non era più in caso di poter resistere. 207. Del resto questo carattere non è proprio solo del senato, ma di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, nella quale, ad esempio , occorre un magistrato, come quello del censore, che in caricato dapprima di una funzione, che sembrava non adatta alla di gnità di un console, quale si era quella della compilazione del censo , cambiasi poi in censore del pubblico e del privato costume, in elet tore supremo del senato, e per la dignità finisce in certo modo per essere considerato come superiore allo stesso console. Nè altrimenti accade anche delle magistrature plebee, e sopratutto dei tribuni della plebe, i quali negli inizii non hanno che il ius auxilii, e non mirano che a difendere i debitori dai maltrattamenti dei creditori, e i plebei dai maltrattamenti del console ; ma poi da ausiliatori si mutano in organizzatori della plebe, in accusatori del patriziato , e nell'organo certamente più efficace del pareggiamento giuridico e politico della plebe ; finchè da ultimo il potere tribunizio , che continua pur sempre ad essere circondato dal favor popolare , mutasi ancor esso nella base più salda, sovra cui poggi ildispotismo imperiale. È quindi sopratutto in Roma, che qualsiasi aspetto del potere sovrano tanto vale quanta è la tempra della persona, che trovasi investito di esso , e quanto è l'appoggio , che esso trova nella pubblica opinione, con quest'unica limitazione, che esso deve trattenersi nei limiti del concetto, a cui si informa dai proprii inizii. Questo concetto da una significazione materiale potrà passare ad una significazione morale e politica, sic come accadde del censore, che da compilatore del cengo si cambiò in censore del costume, dalla difesa potrà anche passare all'accusa , in uno scopo di difesa , siccome fecero i tribuni della plebe;ma intanto nel proprio sviluppo sarà costantemente percorso da una logica interna, a cui i Romani seppero mantenersi fedeli, non solo nelle istituzioni giuridiche, ma anche in quelle politiche. Questo carattere perd so pratutto si appalesa nell'istituzione del senato . Potere consultivo nelle proprie origini trovò opposizione nel partito popolare, allorchè cerco di cambiare i proprii senatusconsulti in leggi ; ma anche in quei senatusconsulti, che ebbero autorità di vere leggi, esso si propose costantemente di esercitare sulla comunanza un ' autorità di carat tere consultivo e pressochè di protezione e di tutela: come lo pro 253 vano il senatusconsulto intorno ai Baccanali, ed i senatusconsulti Macedoniano e Velleiano. Intanto per tornare all'argomento , questo è certo che tutti gli autori sono concordi nel descrivere il senato come elettivo fin dagli inizii di Roma. Festo anzi ci attesta , che la nomina attribuita al re era più libera di quella , che più tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere lasciati in disparte dal re (praeteriti sena tores) non era riputato ignominia ; il che fu invece di quei ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le condizioni per entrare nel senato , non vi fossero chiamati dal censore, o fossero rimossi dal medesimo, se già ne facevano parte ( 1). 208. L'incertezza invece è grande, quanto alle funzioni, che da esso furono effettivamente esercitate; il che provenne probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere di carattere vago ed indeterminato , gli autori, e fra gli altri Dionisio , non potendo attribuirgli dei poteri determinati da una costituzione scritta , dovettero sforzarsi ad asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla funzione, che esso era chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che le sue funzioni, anche durante il periodo regio , furono essenzialmente con sultive. Esse anzi sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i senatori son chiamati a fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe inferiore , e quando ad essi viene affidata , almeno secondo Dionisio , la punizione dei delitti meno importanti, mentre il re sarebbesi riservata la giurisdizione sui più gravi (2). Non può invece ammettersi, perchè ripugna al carattere dell'istituzione, che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato , fosse obbligato ad attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere degli avvisi dati al re , che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che poscia furono non solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e limitati quanto alla propria durata , per maggior ragione i senatusconsulti avrebbero conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè, durante il periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè onnipotente. Sembra invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil senato, durante il periodo regio , non abbia potuto esercitare tutta quella influenza , che spiego più tardi; cosicchè, quando volle (1 ) Festo , V ° Praeteriti senatores ( Bruns , Fontes, pag. 355). (2 ) Dion. 2 , 12 , 14 , il cui testo è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, pag. 4 e 5 . 254 - contrastare alla intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal medesimo tentate, dovette ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei sacerdoti, come lo dimostra la tradizione relativa all'augure sabino Atto Nevio, all'epoca di Tarquinio Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi inefficace di fronte ad un re a vita , che aveva per sè l'appoggio del popolo non solo,ma anche della plebe , la quale già cominciava ad esercitare un'influenza, se non di diritto , almeno di fatto . Quindi fu solo colla cacciata dei re, che il senato , consesso permanente fra magistrati, che mutavano ogni anno, e che usciti dalla magistratura entravano a farne parte , divenuto così custode della politica tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori, potè dare al concetto ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica , di cui poteva essere capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla logica erano consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze intorno alla composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi vamente patrizio ; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare i pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre il processo logico , che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine; quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento , che sembra appunto essere il numero adottato per le altre città latine , e per gli stessi municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano ( 1). Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a chiudersi in sè stessa ,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire difficoltà , finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui , che appartenessero alla plebe . Questa non era ancora organizzata o almeno lo era in guisa tale , che poteva accogliere , senza difficoltà , qualsiasi nuovo elemento . Di più (1) Liv. I, 8 ; Dion., II, 12 ; Cic ., De Rep ., II, 12. Che il senato o meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si componesse solitamente di cento, appare da ciò , che essi talvolta erano perfino chiamati centumviri. Cfr . Willems, Le droit public romain , pag. 535 . 255 l'Aventino, che sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza la comunanza plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori della cinta Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le nuove famiglie si possano stabilire . Tutto al più oc correrà di far loro concessioni di terre, che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un mezzo sicuro di provvedere al proprio sostentamento . Cosi invece non accade, allorchè trattasi di famiglie , che già abbiano ottenuta posizione elevata nella comunanza, a cui esse appartengono, e tanto più se trattasi di quelle, che,mediante l'orga nizzazione gentilizia e le numerose clientele , siano in condizione tale da offrire un contingente poderoso alla crescente popolazione romana. Allora anche Roma deve venire a patti, in quanto che genti nume rose e potenti difficilmente si disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede gentilizia, quando non fossero accolte nell'ordine patrizio , mediante la cooptatio , e quando non potessero ottenere, che i loro capi entrassero nel senato, e i gentili, che entrano a costituirle , non fossero ammessi a far parte delle curie . Quanto a quest'ul time, non occorre dimutare l'ordinamento primitivo della costituzione romana, nè di aumentarne il numero, poichè, non essendo determinato il numero dei componenti ciascuna curia , le curie costituiscono dei quadri, che possono anche accogliere gli elementi, che si vengono aggiungendo. Cosi non è invece del senato ; la consuetudine latina vorrebbe che il medesimo fosse limitato al numero di cento , e tale esso fu veramente nelle origini, secondo la tradizione, e lo fu anche più tardi nei municipii e nelle colonie : ma, una volta completato questo numero, sarebbe stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al partito di aggiungere un determinato numero disenatori, ogniqual volta si avverasse in una sola volta una considerevole aggregazione di genti patrizie . Tuttavia non è nel costume dei romani di abbandonare senz'altro il numero prefisso , poichè tutto ciò, che viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi, siccome Roma risulta in certo modo dalla confederazione di un triplice elemento : così il senato potè essere portato fino a trecento, il qual numero aveva anche il vantaggio di essere in esatta correlazione con quello delle curie, e di non contrastare cosi colla composizione simmetrica della città . 210. Come e quando siasi fatta quest'aggiunta , non è bene atte stato . Alcuni, ritenendo che Roma avesse successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive, direbbero , che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses, gli altri, che 256 vengono dopo, dai Titienses , e gli altri infine dai Luceres : la cui aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco , al quale ap punto si attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori (1). Questa spiegazione sarebbe abbastanza verosimile , allorchè non fosse contraddetta dalla tradizione , che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione delle tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto , allorchè una nuova tribù veniva aggregata , non si comprenderebbe come potesse parlarsi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin zione appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui aumento sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento nel numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza , che la spiegazione più verosimile del processo , che è stato seguito in questo argomento, sia quella stessa , che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che costituirono Roma primitiva , non potevano essere tali da offrire il numero di trecento senatori, e Livio ci dice appunto , che il numero del senato primitivo fu di cento , per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di sedere nel senato (2). Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città esclusivamente patrizia , contribuirono ad un forte aumento del patriziato romano. 211. Il primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba, in seguito al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già notato altrove, più che una vera e propria scon fitta , deve piuttosto essere considerato comeuna specie diduello giu diziario , a cui si rimisero i due popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano (3). In quella circostanza infatti la (1) Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de la république romaine, Paris, 1878 , I, pag. 21 e segg.; dal Bloch, Les origines du Sénat romain , Paris, 1883, pag. 43 e 55 ; i quali pure accennano alle diverse opinioni professate in proposito. (2) Liv., I, 8. È però a notarsi, che Livio farebbe rimontare la composizione del senato per opera di Romolo, ad un'epoca anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece della formazione delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è però contraddetto da CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la federazione coi Sabini. De Rep., II, 8 . (3 ) V. sopra , lib . I, Cap. VIII, nº 144. 257 tradizione narra , che la parte povera della popolazione latina entrò a far parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle genti patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero venir accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto , che così accadde. Ora l'effetto naturale di questa coo ptatio era , che i capi di queste genti dovessero essere ammessi nel senato , il che non avrebbe potuto essere fatto , senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche le testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero simile il supporlo ; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare espressamente alle proporzioni di tale aumento , attestano però che esso dovette aver luogo . Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di aver duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali cittadini d'Alba ; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia ; e di aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un contributo dal nuovo popolo . Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel patriziato e nel senato all'epoca di Tullo , in occasione della distruzione di Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento (1). Il numero tut tavia si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che Tarquinio Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a trecento , il qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo e precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri cento (2). Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero , che il secondo centinaio si fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense ; ma ciò non può essere ammesso , in quanto che l'ordinamento politico della città , per opera di Romolo , era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù , come lo dimostra la tra dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro nome dalle donne sabine ; inoltre , cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato quell'aumento, che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212. Quanto all'ultimo aumento , la tradizione e concorde nell'attri ( 1) LIV., I, 30 ; Dion., III, 29. ( 2) Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco « centum in patres legit » ; e Dion., III, 62: « Et tunc primum populus tercentos senatores habuit, qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant » . ( 3) PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice III, pag . 645 a 672. G. CARLE, Le origini dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi ha divergenza nel modo, in cui sa rebbesi operato . Cicerone dice, che egli avrebbe duplicato il numero dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che farebbe supporre, che anteriormente fossero soli cento cinquanta , il qual numero non può essere ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente seguiti dai Romani, e dai quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi monianza concorde di Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato di cento senatori. Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle genti Albane : ma è ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti, entrate nella comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio , siano rimaste tutto questo tempo senza rappresentanti nel se nato . Altri invece, come il Pantaleoni, sostengono che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei Luceres, i quali, a suo avviso , deriverebbero il proprio nome da Lucer , che in Etrusco corrisponde rebbe a Lucius (1) ; ma contro quest'opinione vi ha sempre la consi derazione, che se questi entravano per la prima volta nella comunanza romana, non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi tes , ricarate da essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò indica , che dovevano esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima nella comunanza ; il qual fatto potrebbe forse essere spie gato colla tradizione, serbataci da Varrone, secondo cui Romolo in guerra coi Sabini avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni Etruschi, uno dei quali (forse Celes Vibenna, che dette nome al Celio, già compreso nell'antico Septimontium ) avrebbe anche preso parte alla confede razione, che segui allora fra i due popoli, sebbene le sue genti siano state forse collocate in condizione inferiore (2). Bensi è probabile, che le genti, da cui si trassero i nuovi senatori, potessero essere altre genti, pure di origine Etrusca , come i Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al seguito di Tarquinio e della sua gente: il che spiega molto meglio , che non la leggenda di Tanaquilla , comemaiTarquinio , appena giunto a Roma, abbia potuto avere un seguito e un appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare e da ottenere colle ( 1) PANTALEONI, op. cit., pag . 660. (2 ) L'opinione di VARRONE a questo proposito è ricordata da SERvio , in Aen ., V , ove scrive: « nam constat tres fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem contra Titum Tatium , a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde quidam venit cum exercitu ; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est » . Del resto anche Livio , I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres primi, solo mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la dignità regia . Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo essenzialmente romano, che è quello di porre come primi quelli , che veramente sono tali, e quindi dovette collocare i nuovi senatori nel novero dei patres minorum gentium ; quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor dignità delle medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte della comunanza . È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il proprio avviso ; al modo stesso , che anche più tardi nei co mizii centuriati erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu , e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores natu . Cid dimostra, che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in appli care il principio : « prior in tempore, potior in iure » . 213. Le genti insomma, che, a nostro avviso , si vennero ag giungendo , escono da quelle stirpi, a cui appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva dato origine alla città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano potuto esservi attirate dalle aderenze e parentele , che già potevano avere in Roma, e come, offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi accolte. A misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una rappresentanza nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a trecento ; il quale , essendo in correlazione con quello delle curie , non ebbe ad essere più superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero. D'altronde le occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la città patrizia ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a rinchiudersi in sè stessa , e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e le cooptazioni, si propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli altri popoli, e di associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata , all'avvenire della sua città . Bene è vero , che si verifica ancora più tardi la cooptazione della gente Claudia : ma essa avverasi, quando erano troppi i vuoti nel senato , perchè bisognasse aumentarne il numero , e poi trattavasi di una gente soltanto , la quale, per quanto numerosa , non poteva occupare tanti seggi nel senato, da richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi son fatto lecito di proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei senatori, parmi, fra le moltissime che si posero innanzi , che si concilii più facilmente colla tradi 260 zione e col processo eminentemente romano di far procedere di pari passo gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli dell'or dine dei cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten dosi negare, che nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa debbono essere simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro . La medesima intanto ci prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla composizione del senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che parlano talvolta dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero popolo , il quale all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la plebe, così sem brano talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di se natori, che non sarebbero stati tolti dalle genti patrizie ; e cid fra gli altri attribuiscono allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto essere smentito dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono chiamati patres minorum gentium , denomina zione, che poteva solo accomodarsi all'ordine patrizio, il quale consi derava come un suo privilegio la gentilità . A ciò si aggiunge, che in quest'epoca la distanza era ancora troppo grande fra i due ordini, perchè deimembridella plebe potessero essere ammessi nell'ordine più elevato della cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come dimo strerò a suo tempo, non erano ancora ammessi a far parte delle curie . Ritengo quindi in proposito , che l'opinione più probabile e più conforme al processo solitamente seguito nello svolgimento politico di Roma, ove i cambiamenti, più che da arbitrio di uomini, sogliono derivare dal processo naturale delle cose, sia quella , che l'ammessione della plebe al senato dovette essere una naturale conseguenza del l'ammessione di essa a far parte del populus delle classi e delle centurie ; poichè, modificandosi la composizione di uno degli organi essenziali della costituzione, che erano i comizii, anche il senato dovette subire un'analoga trasformazione (1 ). Più tardi poi, allorchè (1 ) Il WILLEMS, nella sua opera : Le Sénat de la République romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public romain , pag . 46, sostiene invece che i plebei non sareb bero stati ammessi nel senato, che a misura che furono ammessi alle magistrature ed agli onori. Tale opinione trovasi in contraddizione col fatto, che gli storici attri buiscono a Giunio Bruto od a P. Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel senato da Tarquinio il Superbo, mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed agiata (ex primoribus equestris gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante, perchè il cambiamento nella composizione del popolo richiedeva una modificazione correlativa - - 261 - i senatori cessarono in realtà di essere nominati esclusivamente fra i patres delle antiche gentes , ma furono scelti fra i magistrati, uscenti di ufficio : ne consegui per una naturale evoluzione di cose, che anche i plebei, che un tempo non avrebbero potuto esservi am messi per nascita , poterono esservi ammessi per la dignità, che avevano coperto . Probabilmente fu poi in questo secondo periodo, e in conse guenza di questa trasformazione, per cui la dignità e gli onori con seguiti cominciano a tener luogo della nascita, che i capi delle grandi famiglie plebee, che erano già pervenute al ius imaginum , e ave vano così imitata l'organizzazione gentilizia, poterono perfino entrare a far parte delle curie ; le quali, se avevano perduta ogni loro im portanza politica, continuavano però sempre ad avere una impor tanza grande sotto l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro, che già eguali in influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano desiderare di apparire loro eguali , anche nella no biltà di origine. § 6. – I comizii curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono l'unica assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente patrizia , appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva di Roma. Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza e siansi ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale , che può quasi considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose ; ciò però non toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi, allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare, che essi si circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro comparire essi hanno un carattere religioso , militare e politico ad anche nel senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della composizione del senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300 , come quello, che corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota , che egli attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un tempo ( 1). Essi, nella costituzione politica della città , corrispondono all'assemblea patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo , per accordarsi con esso intorno alle cose , che possono interes sare la comunanza . In questo però le curie già differiscono da quella , che non comprendono tutta la popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta della medesima, ossia coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare alla cosa pubblica. Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un piede di uguaglianza , alla vita pubblica le varie tribù , la cui confederazione è concorsa a formare le città (2 ). 216. I membri delle curie, come tali, chiamansi quirites, e sono noti i dubbii intorno all'origine di questa denominazione. Sonvi coloro, che fanno discendere il vocabolo da quiris, asta , che sa rebbe stata l'arma del quirite, il simbolo del potere al medesimo spettante ; nè l'etimologia può dirsi inverosimile , quando si consideri, che nei carmi saliari il popolo ramnense è chiamato populus pi lumnus, ossia il popolo del pilo, e viene così ad essere qualificato anch'esso dall'arma, che lo contraddistingue (3). Altri invece, fra i (1) Il carattere non solo politico, ma anche essenzialmente militare dei comitia curiata , è stato posto in evidenza sopratutto dal IHERING , L'esprit du droit romain , $ 20. Esso è poi provato dal seguente passo di Livo, V , 32 : « comitia curiata , qui rem militarem continent » , e da un altro di Cicerone, De lege agraria , II, 12, 30, ove è detto, che il console, finchè non abbia ottenuta la legge curiata , non può as sumere il comando militare (rem militarem attingere non licet). È però notabile, che il carattere militare di quest'assemblea, che dapprima fu il più accentuato, come lo indica il nome stesso di quirites, e l'asta di cui erano armati, fu anche il primo ad essere perduto coll' introduzione dei comizii centuriati, che assunsero di preferenza questo carattere militare : poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il carattere politico, allorchè la lex curiata de imperio fu ridotta ad una semplice formalità e la patrum auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia o dalla lex Moenia . Il carat tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle curie, fu il carattere religioso e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che si mantennero gli auspicia , come lo dimostra la nomina dell'interrex , la quale viene ad essere loro affidata , in quanto i patres o pa tricii delle curie sono i soli depositarii dei primitivi auspicia , e sono le curie, che presiedute dal pontefice, continuano ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari. Ciò spiega, come anche nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con una significazione pressochè sacerdotale. (2) Cfr. il Bouché-LECLERCQ, Manueldes institutions romaines, Paris, 1886 , pag. 6 e 7 , e il BourgeaUD , Le plébiscite en Grèce et en Rome, Paris, 1887, pag . 39. ( 3) Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice II, pag . 617. 263 quali, il Niebhur, vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium , città sabina, e che avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono per confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) (1); la quale opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso , con cui sarebbero indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites, più che l'origine, sembra indicare l'ufficio , il compito , a cui essi sono chia mati di fronte alla città , poichè il nome loro nei rapporti esteriori continua sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno provenire il vocabolo da ciò , che essi facevano parte delle curiae, cosicchè quiriti significherebbe per essi gli uomini delle curie (2). È perd facile il vedere, che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia , esprime pur sempre il medesimo concetto , poichè è la lancia , che è il simbolo del potere di chi appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia , che sono i membri delle curie . I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali , in quanto hanno partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica , mentre nei rapporti esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra corrispondere, sotto un certo aspetto , a quella indicata coi vocaboli domi, militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones. In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro ; intervenire i patres , quali moderatori del populus ; e tenersi anche orazioni (conciones), le quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai personaggi della loro storia , dovettero però essere ispirate alle circostanze , in ( 1) NIEBAUR , Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita dal WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero , che il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il che ci è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites : « Quirites autem , dicti post foedus a Romulo et Tatio percussum , comunionem et societatem populi factam indicant » . ( 2) LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 29. Inering , L'esprit du droit ro main , 1, $ 20, pag . 20. Secondo il Lange, il vocabolo quirites non è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono gli uoniini delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una determinata curia . 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono convocati i comizii, tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo, ordinato a guisa di un esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde il vocabolo di comitium (1 ). Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de liberazioni il popolo romano primitivo osservi un processo analogo a quello da lui seguito nelle sue transazioni private. Finché trattasi di mettersi di accordo, è lecito discutere e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a porre sotto l'aspetto più favorevole la transazione proposta ; ma allorchè il periodo delle trattative è finito , più non occorre che una interrogazione ed una risposta , so lenni, ed allora : « quod lingua nuncupassit, ita ius esto » . È in questo senso soltanto , che deve essere inteso, ciò che attestano gli storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè discutere, nè di videre o modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o respin gere il candidato propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere. Già nelle adunanze anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute nei comizii avrebbero impedito quella solennità e quel silenzio , che ritenevansi indispensabili nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse pubblico, e che avevano per i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro ( 2 ). 218. I comizii pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se la volontà divina si palesasse favorevole , o non alla delibera zione, che si stava per prendere ; si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi templum ; e si tenevano in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle pubbliche deliberazioni, i quali perciò chiamavansi dies comitiales. (1) Quanto alla distinzione fra comitium e contio , vedi il KARLOWA, Röm . R. G. I, pag. 49. È però a notarsi, che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo, ma suppone anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal seguente passo di Paolo Diacono : « Contio significat conventum ; non tamen alium , quam eum , qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur » . Ciò pur conferma Liv., 39, 15 . (2 ) Combatto qui l'opinione universalmente seguìta dagli autori, specialmente ger manici (v . fra i recenti Karlowa, Röm . R.G., pag . 52), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva nella formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera il carattere del populus primitivo ; il quale, composto di capi di famiglia e di persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga mente nel capitolo III, § 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, § 1º, parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse l'impor tanza del proprio uffizio . Da una parte eravi il re o magistrato, che, dopo aver premessa la formola : quod bonum felis , etc., invitava il popolo (rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta fattagli colla formola : velitis, iubeatis, quirites ; e dall'altra vi erano i membri delle curie , che rispondevano affermando (uti rogas), o negando (antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa prevale il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende dal voto complessivo delle curie ; nel che abbiamo un indizio del vincolo potente, che stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in quanto che non era il voto degli individui, che prevaleva , ma quello dei gruppi, a cui appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla stessa organizzazione gentilizia , in cui non si può comprendere l'in dividuo, che aggregandolo ad un gruppo ; ma dall'altra dovette anche condurre alla disciplina del voto . I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di un organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza ; disciplina questa , che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed anche nei tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria , e la tribů . Intanto anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino superstizioso del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre un pronostico, in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un augurio (omen ) ; donde la denominazione di curia principium , che viene ad essere imitata anche negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione stessa delle delibera zioni comiziali . sono 219. Sopratutto poi importa determinare, quali fossero le funzioni affidate ai comizii curiati ; il che riesce assai difficile, in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare presentasi dapprima piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato . Secondo Dio nisio , il quale talora si sforza a precisare i contornidelle istituzioni primitive di Roma, sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me diante una lex de bello indicendo, avrebbe deciso della pace o della 266 guerra ; sarebbe essa , che conferirebbe la cittadinanza non ad indi vidui, ma ad intiere popolazioni o gentes , mediante la cooptatio ; sarebbe essa parimenti, che voterebbe le leggi, e nominerebbe il magistrato supremo (1). Che se invece si tiene conto dei fatti, dei quali ci pervenne notizia , ben poche sarebbero state le occasioni, in cui l'assemblea delle curie avrebbe esercitato queste funzioni. Cid vuol dire, che anche il potere dei comizii curiati non dovette dap prima essere determinato da una costituzione scritta ; ma deve ri guardarsi come un potere in via di formazione, che poi si svolgerà, a seconda delle occasioni e degli avvenimenti, mantenendosi perd sempre fedele al proprio concetto informatore. Esso tuttavia, come si vedrà più sotto (2 ), già contiene in germe tutti quei poteri, che l'assemblea del popolo acquisterà colle altre forme di comizii. È esso infatti, che nomina il Re e si ha così il germe del potere elettorale ; è esso che, secondo la tradizione, sanziona le leges re giae, e si ha così l'inizio del suo potere legislativo ; è esso infine, che già avrebbe avuto l'occasione di esercitare una specie di giu risdizione criminale, come lo dimostra la provocatio ad populum , che si fa rimontare all'epoca dei primi re, e si sarebbe dispiegata , secondo la tradizione, nel fatto dell'Orazio , uccisore della propria sorella . 220. Sopratutto poi è notabile nei comizii coriati uno speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più evidente del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica, e che non parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori. Questo ca rattere consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie ; la quale , sotto un certo aspetto , è ancora sempre una riunione di ca rattere gentilizio, e coll'intervento dei pontefici provvede alla con servazione delle genti e delle famiglie , e del loro culto , e sotto un altro aspetto è una riunione di carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe, che il quirite, al pari di Giano, protettore della città , deve avere lo sguardo rivolto in due opposte direzioni: da una parte egli è ancora un rappresentante della gente e della tribù , ( 1) DION ., 2, 14 , scrive in proposito : « populo vero haec tria concessit,magistratus creare, leges sancire, et de bello decernere, quando rex rogationem ad eum tulisset » . (2) Rimando la prova di ciò al capitolo seguente, ove si considera la costituzione primitiva di Roma nelle sue principali funzioni. 267 da cui discende, e come tale è ancora strettamente vincolato al l'organizzazione gentilizia , e deve curare che il culto di essa non venga ad interrompersi, e che il suo patrimonio non sia disperso ; dall'altra invece è membro del populus, e come tale deve obbe dire ai cenni del magistrato, e deve aver presente sopratutto il pubblico interesse, in quanto che « salus populi suprema lex esto » . Questa doppia qualità del quirite si appalesa nell'indole diversa delle riunioni, di cui esso è chiamato a far parte. Accanto ai veri comizii, convocati dal magistrato, per mezzo dei littori, e in cui si votano le cose attinenti al pubblico interesse , sonvi i comitia ca lata , convocati dal pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores, nei quali si compiono quegli atti, che possono toccare in qualche modo l'organizzazione gentilizia . Nei primi si votano le leggi; si deliberano le guerre e le paci; si nomina il magistrato ; si assolvono o condannano coloro , che appellarono al popolo . Nei secondi invece, che rivestono di preferenza un carattere religioso , i quiriti si ra dunano, in quanto hanno un culto, a cui debbono provvedere. È quindi in essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed anche quella dei flamines ; come pure è in essi, che si compiono quegli atti, che possono alterare in qualche modo l'organizzazione gentilizia , e com promettere l'avvenire del culto. È perciò in questa specie di co mizii, che deve essere approvata l'adrogatio di una persona sui iuris, come quella che ha per effetto di fare entrare un capo di famiglia sotto la podestà di un altro; il che significa sopprimere una famiglia e il suo culto , per continuare invece un'altra famiglia e il culto della medesima. È in essi parimenti, che ha luogo la detestatio sacrorum , che è la rinuncia al proprio culto gentilizio , per causa di adrogatio o di transitio ad plebem ; come pure è ivi, che segue la cooptatio di una gens nell'ordine patrizio : cooptativ, che si opera per l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a costituirla . È in essi infine, che deve seguire quel testamen tum , che vien detto appunto in calatis comitiis ; il quale , secondo il concetto delle genti patrizie, costituiva materia di diritto pubblico, come quello , che alterava le norme relative alla successione genti lizia , e quelle riferentisi alla trasmessione dei sacra . Cid è provato dal fatto , attestatoci da Cicerone, che il ius pontificium , nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per porre i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità ; donde l'espressione popolare , che occorre soventi nei comici latini, di haereditas sine - 268 sacris , per significare un vantaggio conseguito senza i pesi inerenti al medesimo (1). 221. Intanto questo speciale punto di vista , sotto cui debbono , a parer mio, essere considerati i comitia calata , ci spiega quel carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma, il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di disporre delle proprie cose per testamento ; dal l'altra vuole, che i testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi privati, siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo , e li ritiene come relativi ad argomenti di diritto pubblico . Gli autori vollero spiegare la cosa con dire, che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante leges publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e coll'approvazione del po polo . Riterrei invece, che in questa istituzione dei comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e il loro culto , e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la conseguenza , che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione dell'assemblea della gente o della tribù (2 ). Or bene così continuò ancora ad essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia : quindi questi atti continuarono ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi sacerdotali, che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica , ma ancora i sacra privata . Quindi conviene ammettere, che le curie non prestassero soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a darvi la loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che viene ad essere provato dalla formola , conserva taci da Aulo Gellio, relativamente all'adrogatio (3 ). Una volta poi, (1) La teoria dei comitia calata ci fu conservata sopratutto da Aulo Gellio , Noc. Att.. XV, 28 e 3, il quale dice di averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla ripartizione dei sacra , in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è attestata da CICERONE, De legibus, II, 19, SS 47, 49. ( 2) Vedi libro I, cap. IV , $ 4 , nº. 61 a 65. (3 ) Aulo Gellio , Noc. Att., V , 19. Ivi si dice che a adrogatio per rogationem populi fit » , ed è riportata la formola , che è quella della vera e propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis , iubeatis, quirites » e termina coll'espres. sione « Haec ita, uti dixi, ita vos, quirites, rogo » . 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata nella primitiva costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il tempera mento del popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban donerà così presto . Si comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii centuriati, anche questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i proprii comizii calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte all'anno, più non dovette approvare il te stamento , ma solo prestare la propria testimonianza . Ciò è dimostrato dal fatto , che il testamento in calatis comitiis potè poi essere surro gato da quello per aes et libram , in cui i quiriti sono chiamati non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium mihi perhi bitote). Intanto però , anche quando l'adrogatio e il testamentum furono atti di carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia dell'antico stato di cose nel concetto , ricordatoci da Papiniano, secondo cui la testamenti factio pubblici iuris est (1). A questo riguardo poi, è ancora degno di nota , che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni importanza politica e mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta littori, presie duta dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero perfino questa competenza , per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano l'organizzazione gentilizia , e sopratutto , quanto all'adrogatio. Questa fu praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio , i quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie, seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della assemblea delle curie ; ma ( 1) Papin., L. 4 , Dig. (28, 1). La conclusione sarebbe questa , che il carattere di lex del testamento primitivo è una reliquia dell'antica organizzazione gentilizia . Tale carattere poi in parte avrebbe cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati calati, si introdussero anche i comiziï centuriati calati, la cui esistenza ci.è attestata da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente dovettero essere quelli, i quali, secondo Gaio , Comm ., II, 101, si radunavano due volte l'anno,acciò in essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso della loro riunione periodica dimostra , che molti testamenti si potevano presentare ad un tempo, e che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a prestare la propria testimonianza . Fu questo il motivo , per cui il testamento in calatis comitiis potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram , ove i quiriti si riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm ., II, 103. 270 credo opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò di determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del diritto pubblico , che sotto quello del diritto pri vato ; premettendo però fin d'ora , che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle curie (1 ). $ 7 . Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in Roma. 222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del carattere speciale della primitiva assemblea curiata : ma intanto per scoprire certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate , quando non fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli svolgimenti, che verranno dopo, e dimo strarne la continuità , ritengo opportuno, a costo anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo sintetico allo svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in cið alla moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni della costituzione politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad epoche compiutamente di verse , ma che intanto funzionano contemporaneamente. Ciò è vero sopratutto per quello , che si riferisce ai comizii. Roma patrizia , e forse anche Roma, durante tutto il periodo regio , non conosce altra assemblea del popolo , che quella delle curie. Essa è un'assemblea, di carattere religioso e sacerdotale, politico e militare ad un tempo: è la riunione del primo populus romanus quiritium , di quello cioè, che era ristretto al populus, che usciva esclusivamente dalle genti patrizie. In base alla costituzione Serviana, che ammette la plebe a far parte delle classi e centurie, sulla base del censo, intro ducesi un' altra assemblea del populus romanus quiritium , già inteso in senso più largo , che è la centuriata . Anch'essa è mo dellata sulla prima, e secondo Gellio, imita perfino i comizii calati, come pure è anche preceduta dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già un elemento , che non partecipava al culto gentilizio , che era quello della plebe, perde ogni carattere religioso e sacerdotale, e ( 1) La questione qui accennata sarà presa in esame in questo stesso libro , cap. V. 271 assume un carattere essenzialmente militare, e poscia anche poli tico . Da questo momento l'assemblea per curie più non può rap presentare l'intiero populus, perchè una parte di questo, cioè la plebe, non entra a farne parte. L'assemblea curiata quindi diventa , dirimpetto alla centuriata , un' assemblea di patres , perchè com prende coloro , che discendono sempre dalle antiche genti patrizie. La vera rappresentanza dell'intiero populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere l'assemblea per centurie ; perchè essa soltanto comprende tutto il popolo, organizzato sulla base del censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i discendenti delle antiche genti pa trizie , continuano ancora sempre a formare un nucleo separato del populus, cosi essi sono ancora chiamati a dare alle deliberazioni dei comizii centuriati la patrum auctoritas, la quale viene, come sopra si è veduto , a distinguersi dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico populus, composto appunto dai patres, continua ancora sempre a con ferire l'imperium colla lex curiata de imperio , sebbene l'una e l'altra funzione tendano naturalmente a perdere della loro im portanza , e l'assemblea curiata si limiti sempre più a funzioni di carattere puramente gentilizio e sacerdotale (1). 223. Fin qui lo svolgimento della costituzione primitiva procede ancora regolarmente : ma la cosa si fa più malagevole, quando, fra i congegni della costituzione politica di Roma, compare un nuovo elemento , che è quello delle assemblee proprie della plebe (concilia plebis). La plebs forma già parte del populus e partecipa alla civitas; ma la sua civitas è ancora minuto iure, in quanto che essa non ha ancora nè il ius connubii col patriziato, nè il ius honorum . È quindi naturale in essa l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una opposizione di interessi fra il patriziato e la plebe. Quest'ultima, che, uguale sotto un aspetto, aspira a diventarlo anche sotto gli altri, viene naturalmente a costituire sotto un certo riguardo una fazione nello Stato , poichè i suoi interessi si contrappongono a quelli del patriziato, il quale continua ad essere il vero reggitore dello Stato, essendo il solo ammesso alle magistrature e agli onori. La plebe però ha già un proprio magistrato, sotto cui si organizza , che è il tribuno della plebe, il quale, in base alla costituzione, può (1) È da vedersi, quanto all'auctoritas patrum , questo stesso capitolo, § 3º, n° 198 , pag. 240 e seg . colle note relative . 272 convocarla per prendere deliberazioni nel proprio interesse. Sorge cosi spontaneamente l'istituto dei concilia plebis, i quali dapprima hanno più un'esistenza di fatto , che non di diritto : ma che intanto , fatti forti dal numero e dalla intraprendenza dei tribuni, tendono naturalmente a prendere dei provvedimenti, che mirano a prepa rare l'uguaglianza giuridica e politica fra la plebe e il patriziato . Essi perciò mettono in accusa patrizii avversi alla plebe e gli stessi consoli, allorchè escono di ufficio . Proibirli è impossibile, perchè è principio riconosciuto dalle XII Tavole , che ogni sodalizio, che abbia un capo (magister ), possa dettarsi una propria legge, e perchè in ogni caso sarebbe impossibile vietare le riunioni di un elemento, che ha per sè il numero e la forza , e che, ricorrendo ad una secessio , potrebbe mettere a repentaglio l'avvenire della città ( 1). L'unico partito pertanto , che rimanga al patriziato ed al senato, che lo rap presenta , è quello di riconoscere queste riunioni e di farle entrare , per quanto sia possibile , nei quadri legali della costituzione politica di Roma, trasformando a poco a poco i concilia plebis in comitia tributa : in comizii, cioè, che comprendano eziandio tutto il popolo, ma non più in base al censo , come l'assemblea delle centurie, ma in base alle tribù locali, in cui è raccolta tutta la cittadinanza ro mana. È questa la trasformazione, che incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il quale , nel 283 U. C., dopo lunghe lotte , ottiene che la plebe possa nominarsi i suoi tribuni nei proprii comizii ; ma con ciò questi non possono ancora prendere che provvedimenti riguar danti la sola plebe, e che possono soltanto essere obbligatorii per essa . Quindi incomincia da parte di questa uno sforzo inteso a pareggiare i comizi tributi agli altri comizii, e a fare si che i plebisciti obbli ghino anche il patriziato , il che si opera per mezzo delle leggi Va leria -Orazia, Publilia e Ortensia ; le quali, sebbene, per il poco che a noi ne pervenne, mirino tutte allo scopo di rendere obbligatorii i plebisciti per tutto il popolo, segnano però , come si vedrà più sotto, pag. 728, (1) La proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle disposizioni della legge decemvirale, secondo cui « Sodalibus potestas esto , pacionem , quam volent, sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. V. Voigt, die Tafeln , I, che attribuisce tal legge alla Tavola VIII, n . 12. Qualcosa di analogo ci è pure accennato da Livio , 39, 15 : « ubicumque multitudo esset, ibi et legitimum rectorem multitudinis , censebant maiores debere esse » ; ed è questo forse il motivo , per cui i concilia plebis cominciano a diventare potenti, quando la plebs ha trovato un proprio rector o magister nel tribunus plebis. - 273 discorrendo del concetto romano di lex , i varii stadii, per cui passò la risoluzione del gravissimo problema (1) . 224. Giungesi cosi ad un periodo della costituzione politica di Roma, in cui nei quadri di essa trovansi tre specie di comizii. I primi e i più antichi sono i comizii curiati,ma essi vengono ad essere sempre più ridotti a funzioni puramente gentilizie e sacerdotali, e anzichè essere in effetto ancora le riunioni delle curie , si riducono ad essere la riunione dei trenta littori, che le rappresentano, e diven tano così una sopravvivenza dell'antico ordine di cose. Accanto ad essi sonvi i comizii centuriati, che sono sempre la vera assemblea del popolo romano, e continuano a conservare in qualche parte il pri mitivo carattere militare: ma anch'essi si fanno più democratici, come lo dimostrano le riforme, che sappiamo essere state introdotte , senza saperne precisare il come ed il quando, e debbono dividere in parte le proprie funzioni colla nuova assemblea tributa , più fa cile a convocarsi e più intraprendente nella propria iniziativa. Certo si richiedeva il genio pratico dei Romani per far procedere di pari passo assemblee, che rappresentavano un principio diverso , cioè la nascita, il censo, ed il numero. Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè serbare intatto il proprio carattere primitivo ; ma poscia la fusione sempre maggiore dei due ordini condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di grandi famiglie, che furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la dignità sacerdotale di curio maximus ; al modo stesso , che i pochi discendenti delle an tiche genti patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i quali ricevettero cosi anche la consacrazione religiosa , e poterono essere presieduti da magistrati, che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le cose pervennero a questo punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii centuriati, e nei comizii tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e questi in base alle tribù lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti ; quelli serbano ancora un carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio, fuori delle mura Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e (1) Rimetto la discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se guente § 2º, n ° 232 e seg . dove si discorre del concetto romano di lex . Quanto alla proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da vedersi il Bonghi, Storia di Roma, pag. 439 a 451, come pure a pag . 593, ove parla dell'elezione dei tribuni nei comizii tributi. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia , a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso , e i concilia plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo col patriziato , e nei quali continuano a nominarsi le magistrature esclusivamente plebee (1). Intanto è ancora degno di nota , che la trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe , diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente . Questo è il solito processo , seguito dai Romani, nello svolgimento delle proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico , che a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad un tempo , e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella compagine romana non scomparirà , se prima non siasi ricavato da esso in profondità ed estensione tutto ciò , che contenga di vigoroso e di vitale. Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a costituirla , importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali funzioni. (1) È questo, a parer mio, il solo modo per risolvere la questione così contro versa relativa alle analogie ed alle differenze, che possono intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis. È noto in proposito, come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea tributa (Histoire romaine , III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima (concilium plebis), avrebbe più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi così cambiata in comitium tributum . Il Mommsen invece (Römische For schungen , Berlin , 1864, I, 151 a 155) sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due assemblee tribute : l’una patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra esclusivamente plebea (concilium plebis). Ritengo che quest'ultima opinione possa essere accolta , ma limitando le funzioni dei concilia plebis a cose di interesse esclusivamente plebeo , quali erano la nomina dei tribuni e degli edili plebei, mentre il vero potere legisla tivo , elettorale e giudiziario appartiene ai comitia tributa , i quali soli possono con siderarsi come un vero organo della costituzione romana. Cfr. BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris , 1887, pag. 57 a 76 ; Karlowa , Röm . R. G., pag. 118 ; MORLot, Précis des instit. polit. de Rome. Paris, 1886 , pag. 80 e segg. 275 CAPITOLO III. La primitiva costituzione di Roma nelle sue principali funzioni. $ 1. - Carattere generale della medesima . e 225. La costituzione primitiva di Roma, finchè si mantenne esclusivamente patrizia , si presenta con un carattere di unità e di coerenza, che indarno si cercherebbe più tardi nelle istituzioni po litiche di Roma. Vero è che la plebe, entrando a far parte della comunanza politica , recò nella medesima il movimento e la vita , rese possibile per Roma un avvenire, che non avrebbe mai conse guito la città esclusivamente patrizia , la quale da sola tendeva più a chiudersi in se stessa, che ad estendersi; ma è vero eziandio , che colla plebe penetrò il dualismo in ogni aspetto della costituzione primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii disciplinati del popolo rac colto nelle curie , si svolsero i concilii talvolta tumultuosi della plebe; ai magistrati del popolo si contrapposero quelli della plebe; ed alle leggi votate nella solennità e nel silenzio dalle curie si so vrapposero i plebisciti. Fu in tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma venne in certo modo ad essere forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore della medesima, e fini per assumere un ca rattere del tutto peculiare, in quanto che dovette stringere insieme due popoli, che politicamente erano associati, ma che non erano intimamente uniti fra di loro , di cui uno pretendeva di avere per sè la priorità ed il diritto , mentre l'altro aveva per sè il numero e la forza . Nè conseguita che, per comprendere lo spirito della primitiva costituzione di Roma, conviene in certo modo isolarla dagli elementi, che sopravvennero coll' ammessione della plebe alla cittadinanza , e quando ciò si faccia non si può a meno di rima nere ammirati di fronte all'unità ed alla coerenza, che presenta la costituzione esclusivamente patrizia . Essa è un vero organismo, che componesi di varie parti, delle quali ciascunaè chiamata ad adempiere la propria funzione : ma che tutte intanto si suppongono e si completano a vicenda. La potestas in largo senso si ritiene bensi appartenere al popolo , ma questo non potrebbe esercitarla , se 276 non fosse posto in azione dall'imperium del magistrato ; e intanto fra di loro si interpone l'auctoritas del senato, il quale da una parte modera col suo consiglio il regis imperium , e dall'altra da la consistenza e l'appoggio della propria autorità ai iussa populi. 226. Questa coerenza poi appare anche più evidente, allorchè i congegni della costituzione siano considerati nel loro movimento ; poichè mentre ciascun aspetto del pubblico potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio concetto ispiratore, niuno di essi però può compromettere l'interesse comune, senza che vi concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione politica di Roma ha fatto dire a Polibio , che essa appariva mo narchica, aristocratica e democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava rimpetto a questo o a quell'aspetto del pubblico potere ( 1) ; ma se altri poi la consideri in movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi caratteri ad un tempo . L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi potestas sono altrettante concezioni logiche , destinate col tempo a ricevere tutto lo sviluppo , di cui possono essere capaci; ma intanto son disposte per modo, che si contengono e si limitano a vicenda, non già perchè esista fra di essi una ripartizione o circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi elementi puo compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti gli altri. Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere impotente, quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi ; donde l'importanza, che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio , la quale viene atteg giandosi in guise molteplici e diverse , in quanto che tale intercessio , o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la par ma iorve potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima magistratura (2 ). Questo è, a parer mio, il carattere fon (1) Polibio, Histor., lib . VI. (2) È mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal concetto dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione, come appare dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit public romain , pag. 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua affermazione recisa, che l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo essa non ebbe occasione di svolgersi, perchè i tre elementi od organi della costituzione erano potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione primitiva inchiudeva già allo stato latente il germe di tutta la teoria dell'intercessio, in quanto che in essa niun provvedimento, che possa compromettere il pubblico interesse, pud 277 damentale della costituzione primitiva di Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino allo scrupolo , ed ora invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia , secondo che essa abbia o non l'appoggio dell'opinione generale . 227. Intanto quando trattasi della res publica , ossia di cosa, che possa interessare l'intiera comunanza, tutti questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio contributo. È infatti almagistrato (rex , interrex , tribunus celerum , praefectus urbis) che si appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il popolo o il senato ; il ro gare, quando importa di ottenere l'approvazione di qualche proposta ; l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo imperium si spinge fino alla maggiore estensione, di cui possa essere capace . E invece al senato , che si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il proprio avviso al magistrato , o di richiamare l'attenzione di lui su qualche imminente pericolo , « ne res publica detrimenti capiat » ; e l'auctor fieri, se è questione invece di appoggiare le de liberazioni del popolo. È infine al popolo, che spetta il iubere e lo statuere, quando trattasi di una lex , sotto la qual forma si manifesta di regola la volontà collettiva del quando trattasi della elezione dei magistrati. Intanto però, siccome queste gradazioni dell'azione collettiva debbono tutte concorrere in sieme per costituire un atto compiuto , cosi niun elemento pud da solo prendere un provvedimento, che possa compromettere l'interesse comune (1 ). Ciò sopratutto appare nel compimento di quegli atti, che, per propria natura , interessano l'intiera comunanza, quali sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione del magistrato , e l'amministra zione della giustizia ; dai quali poi discendono le tre manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio nel periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò il suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum , alla rogatio , ed al senatus consultum , il quale, se colpito dall'intercessio , non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve essere perscriptum , perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus, col quale vocabolo viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op . cit., (1) Ho già insistito su questo concetto, che può essere considerato comela chiave di volta della primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al corso di Storia del diritto romanu col titolo : L'evoluzione storica del diritto pubblico e privato di Roma, Torino , 1886 , pag. 13 . pag. 317. 278 del potere sovrano nella città antica , che sono il potere legislativo, il potere elettorale, ed il potere giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi atti , che vuolsi cercare in qual modo entri in movimento ed in azione la primitiva costituzione di Roma, dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo allo svolgimento storico , che dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $ 2 . Il concetto romano di lex nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col plebiscitum . 228. Nel considerare il concetto primitivo della lex in Roma si riman magistratum creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione, colla quale si presenta questo vocabolo . Esso significa dapprima qualsiasi ac cordo di più individui in una stessa volontà , e viene così, fin dagli esordii, a distinguersi in lex privata , che significa una convenzione od una norma, che altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex mancipii, lex testamenti), ed in les publica , che significa la volontà collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui. Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di convenzione o di contratto , quello di lex publica continua ancora ad avere una estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi delibera zione solenne del popolo . Parlasi infatti di una lex belli indicendi, foederis ineundi, coloniae deducendae , agri adsignandi e simili ; e fino a un certo punto la nomina stessa del magistrato , o almeno il conferimento dell'imperium , spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge. Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue così da qualsiasi de liberazione , relativa ad una persona o ad un fatto particolare (1). Ciò ( 1) Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato dell'accordo di tutti gli organi dello Stato , viene ad essere una communis reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata ; donde la conseguenza , che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum . È in questa guisa , che 279 vuol dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione : ma intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo di più volontà in un medesimo intento . Tale significazione sembra pure essere indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo , la quale perciò non indica tanto la forma scritta , assunta dalla legge, come vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo intento (1 ). 229. Un altro carattere della lex , secondo il primitivo concetto romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo dimostrano le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni comiziali, e la reverenza e il culto , di cui la legge viene ad essere l'oggetto in Roma primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo . Di qui alcuni autori ebbero a ricavare la conseguenza , che la forza obbligatoria della legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio del popolo, quanto piuttosto da questo carat tere religioso, da cui essa appare circondata. Se con ciò si vuol dire , che la legge solennemente votata dal popolo, dopo aver assunto gli auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una interpreta zione della stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil mente ammesso, essendo il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si è dimostrato a suo tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso , e impotente a sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas. Ma se con ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più tardi si vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro , lasciando perd sempre una traccia nel concetto, che « il contratto costituisce legge per i contraenti » . ( 1) L'etimologia di lex a legendo nel senso di « leggere , suole appoggiarsi al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66 : leges, quae lectae et ad populum latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui Varrone, non sempre felice nelle sue etimologie , non ha punto l'intenzione di proporne una. Se quindi è vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict. étym . latin , vº lego , che il vocabolo di legere ebbe anche la antica significazione di raccogliere, di scegliere, di riunire, parmi sia molto più acconcio di dare questa etimologia al vocabolo di lex . Così si potrà anche compren dere la lex privata , la quale certo non pud essere derivata da ciò , che i contratti fossero scritti; ma da cid , che le volontà si accordavano e si riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict. étym ., vº lex . Un passo , in cui il vocabolo « legere » prende questa an tica e larga significazione, è il seguente di Virgilio : Iura , magistratusque legunt, sanctumque senatum . (Aen ., I, v. 431). - 280 vece , che la sua efficacia obbligatoria provenga direttamente dalla volontà divina, se questo può forse ancora ammettersi per il vóuos de' Greci, più non può ritenersi vero per la lex romana ( 1). Questa non potrà essere votata senza che prima si assumano gli auspicii ; ma intanto, fin dal periodo esclusivamente patrizio, essa è già l'espres sione della volontà collettiva del popolo, come lo dimostra il fatto , che assume la forma di una vera e propria stipulazione fra il ma gistrato che propone (rogat), e il popolo che vota (iubet atque con stituit) ; come pure il concorso nella formazione di essa di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, per cui essa, fin dagli esordii della città , deve essere considerata come una « communis rei publicae sponsio » . Essa sarà ancora riguardata come una volontà divina ; ma il popolo già si attribuisce facoltà d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta trattisi, non di cosa relativa al culto, ma di provvedimenti, che riguardano l'interesse generale della comu nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti classici : « lex est, quod populus, senatorio magistratu rogante , iubet atque con stituit » , può già essere applicata alla legge, durante il periodo regio ; salvo che in questa definizione più non compare l'elemento della patrum auctoritas, che nella città patrizia era ancor ritenuto indispensabile, e che era poi stato tolto di mezzo dalla legge Ortensia . Vero è , che più tardi il patriziato cercò di dare sopratutto prevalenza all'elemento religioso, che accompagnava la legge; ma ciò accade unicamente, allorchè l'assemblea patrizia delle curie perdette ogni importanza politica ; poichè in allora la religione e gli auspicii diven tano pressochè il solo titolo di superiorità del patriziato sopra la plebe, e fu naturale che si cercasse di accrescerne la importanza . 230. Intanto questo carattere, eminentemente contrattuale della legge, che corrisponde all'origine federale della città , ed anche la necessità , secondo il concetto primitivo delle genti patrizie, che, a formare la legge, dovessero concorrere tutti gli organi dello Stato, servono a spiegare naturalmente certe singolarità del diritto primitivo ( 1) V. in senso contrario il FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, liv. III, chap . XI, pag. 221 e segg., e fra i recentiilBourgeaud, Leplébiscite dans l'antiquité, Paris , 1887, pag . 91 e segg . Quest'ultimo nega il carattere contrattuale alla legge, anche per la considerazione, che essa non potrebbe obbligare quelli, che non vi hanno consentito ; ma egli è evidente, che l'accordo in una pubblica votazione non può aversi, che dando prevalenza al maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a verificarsi, allorchè la plebe entrò a far parte della comunanza politica . Allora infatti venne ad essere necessità, che il potere legislativo si portasse ai comizii centuriati, in quanto che questi soltanto erano l'assemblea plenaria del populus romanus (comitiatus maximus). Siccome però, accanto ai comizii centuriati, si manteneva pur sempre l'assemblea curiata dei patres o dei patricii: così, per ubbidire al principio che tutti gli organi politici dello Stato dovevano concorrere alla formazione della legge, fu necessario che vi contribuisse eziandio l'assemblea dei patres ; donde la conseguenza , che la legge centuriata dovette dapprima essere proposta dal magistrato , votata dal popolo , e poscia ancora approvata non solo dal senato , ma anche dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la distinzione della patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas, ancorchè le due approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa , perchè in questo periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del patriziato ; il che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono facendo fra l'una e l'altra auctoritas, in un'epoca , in cui erano già scomparse e l'una e l'altra ( 1). 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio diventò assai più difficile , allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag giungersi eziandio il plebiscitum , che costituiva in certo modo una lex inauspicata . Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo , perchè è l'opera soltanto di una parte di esso ; e quindi, al pari dei concilia plebis, in cui viene ad essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di diritto. Intanto però la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di essi cerca talora di forzare la mano al senato . In questa condizione di cose viene ad essere nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare nell'ordine legale tanto i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa , allorchè trattisi di provvedimenti, che possano interessare tutto il populus, quanto eziandio di riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi scano le condizioni richieste per obbligare tutto il popolo . È in questa occasione, che nella storia politica di Roma compa riscono successivamente tre leggi ad epoca diversa, il cui contenuto , conservatoci dagli scrittori, sembra essere identico (ut plebiscita ( 1) V. sopra capitolo II, § 3 , n ° 198, pag . 240 e segg. e le note relative. 282 omnem populum tenerent) ; ma che intanto sembrano indicare tre successivi stadii di una importantissima trasformazione. La difficoltà di conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che anche oggi suole essere considerata come una delle più gravi questioni, che presenti la storia politica di Roma (1), pud, a parer mio , essere supe rata , quando abbiasi presente il concetto della primitiva costituzione di Roma, secondo cui qualsiasi vera legge suppone il concorso di tutti gli organi politici dello Stato . 232. Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia , dell'anno 304 di Roma; la quale è la prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino tutto il popolo (ut quod tributim plebs iussisset omnem populum te neret) (2 ); ma ancorchè la legge nol dica , questo è certo che, secondo il concetto informatore della costituzione politica di Roma, ciò poteva solo accadere , allorchè i provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe, avessero subite tutte le prove, a cui erano sottoposte le stesse ( 1) Così si esprime il Soltau, die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin , 1888 , pag . 107. La bibliografia sulla questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris, 1887, pag. 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi dere tale opinione, poichè vi fu un tempo , in cui la differenza fra plebiscito e legge si ridusse unicamente alla persona diversa , che ne prendeva l'iniziativa , secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato . Vero è che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i patrizii;ma il motivo , per cui i patrizii non si tenevano legati dai plebisciti non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire ai comizii tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi soste nevano « plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta essent » ,Gaio, Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum auctoritas, i plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i patrizii poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge Ortensia le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro equipollenti, e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse, come nella lex tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, pag. 51). (2) Secondo il Mommsen, è da questa legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati , e quindi egli riterrebbe, che nei termini conservatici da Livio , III, 55, come proprii della legge Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di populus a quello ivi adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim populus iussisset, omnem populum teneret (Römische Forschungen , I, pag . 164-5 ). Non parmi, che questa opinione possa essere accolta , sia perchè tutti i giuristi fanno partire il pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge Ortensia, e non dalla legge Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la denominazione di lex o di plebiscitum non sembra più dipendere dalla composizione dei comizii, ma piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati, il quale come dava il suo nome alla legge, così poteva anche attribuirvi il carattere di lex o di plebiscitum : tanto più che la sua efficacia veniva ad essere uguale . 283 - leggicenturiate. Questa legge pertanto significo solamente, che anche i tribuni della plebe potevano prendere l'iniziativa di un provvedi mento , che potesse obbligare tutto il popolo ; ma che il medesimo, per avere un tale effetto, doveva poi essere approvato dal Senato, ed ottenere anche la patrum auctoritas, come lo dimostrano gli sforzi, che in questo periodo si fanno dai tribuni per ottenere l'ap provazione del senato a plebisciti , come quelli di Canuleio, di Icilio e altri ancora . Quasi si direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a cui ricorre appunto la plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione di un provvedimento da essa desiderato . Suc cede quindi una seconda legge, che è la legge Publilia del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che la patrum auctoritas doveva precedere le leggi centuriate , ripete in un altro l'ingiunzione già fatta che « plebiscita omnes quirites tene rent (1). È però evidente, che la portata di questa legge verrà ad essere diversa , perchè in virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi centuriate, non dovevano più essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum auctoritas, che comprende probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti, per parte dei tribuni della plebe , sogliono esser precedute da trattative ed accordi fra il senato e i tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale talvolta di questi per ottenere , che essi prendano la iniziativa di una determinata proposta (2 ) 233. Da ultimo infine apparve, che anche questa previa approva (1) È lo stesso Livio, che ci conservò i termini di questa legge, VIII, 12. (2 ) Secondo il WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I, l'espressione di patrum auctoritas sarebbe equipollente a quella di senatus auctoritas . Tale opinione è divisa dal Bour GEAUD, op. cit ., pag. 135, ed è combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit der Ple. biscite, pag . 135, come pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua dissertazione : Dell'auctoritas patrum nell'antica Roma (< Rivista di Filologia » , Torino, 1884 , pag. 350 a 395). Di fronte ad una quantità di passi di scrittori antichi, citati da quest'ultimo, in cui si usano le espressioni di patricii auctores, mentre altre volte si parla invece della senatus auctoritas, fra cui è notabile il passo di Livio , III, 63, parmiche l'opinione del WILLEMS non possa essere accolta . Ritengo tuttavia, che gli storici, mossi forse dall'identico interesse, che potevano spingere le curie dei patrizii e il senato a fare opposizione ad un provvedimento di iniziativa della plebe, possano talvolta aver comprese le due cose col vocabolo alquanto incerto di patrum aucto ritas. V. in proposito ciò , che si è detto nel capitolo precedente 83, n ° 198, pag . 240 e note relative. 284 zione dei padri, senza sempre riuscire nell'intento , finiva per essere causa di dissidii e di secessioni. Fu quindi, in seguito ad una di queste secessioni, che sulla proposta del dittatore Ortensio , uscito dalla no biltà di origine plebea, sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della città, che ripete pur sempre la stessa formola ; ma intanto toglie di mezzo la necessità della previa approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio, l'effetto, che « inter plebiscita et legem species con stituendi interessent, potestas autem eadem esset ( 1) » . Fu neces saria una secessione e ci volle un dittatore per vincere questa legge ; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio avviso , non vi ha forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una rivoluzione più ra dicale di questa . Con essa infatti l'antico concetto di lex , quale era stato concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito ; in quanto che potrà esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti gli organi politici dello Stato ; poichè d'allora in poi anche un solo elemento , la plebe, può dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo . Strappo più grave non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia : ma tentasi ancora di rimarginarlo nel senso , che fu da questo tempo probabilmente , che la nobiltà plebea co minciò a penetrare nelle curie , e che il patriziato antico si valse * della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri buti, i quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono anche essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della plebe diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che doveva essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si adunavano in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù . Da questo momento il senato trovossi (1) Che il pareggiamento fra la lex e il plebiscitum parta veramente dalla legge Ortensia, la quale deve aver tolta dimezzo la patrum auctoritas, risulta dai seguenti passi di scrittori e giureconsulti, che erano meglio in caso di apprezzare il valore tecnico delle parole. Pomponio L. 2 , 8, Dig. ( 1, 2 ), oltre l'espressione già riportata nel testo, scrive : « pro legibus placuit et ea plebiscita observari » , e aggiunge al $ 12 : « plebiscitum , quod sine auctoritate patrum est constitutum » , con che accen nerebbe all'abolizione della patrum auctoritas per i plebisciti. Così pure Gaio , Comm ., I, 3 : « lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem populum tene rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin ., Instit., I, 2 : « sed et plebi scita , lege Hortensia lata, non minus valere, quam leges, coeperunt » . Lo stesso confermano Aulo Gellio , Noc. Att., X , 20 e XV, 27 ; come pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15 , 10. — Cfr. ORTOLAN , Histoire de la législation romaine, pag. 161, n . 178 et suiv. e il Madvig , L'État romain , trad. Morel, Paris, 1882, I, pag. 260. 285 costretto ad invitare frequentemente i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure amministrative alla plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e quindi il tribunato viene a for mare l'elemento riformatore , ed attivo nell'organizzazione dello Stato . Che anzi i comizii tributi possono anche essere presieduti da magi strati patrizii, trattandosi di leges praetoriae , o di elezioni dimagi strati minori. Accanto ai medesimi, si mantengono perd ancora i concilia plebis : ma si limitano a provvedimenti, che riguardano la sola plebe, e alla nomina di magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto però eravi sempre l'organo politico più potente in questo periodo, che era il senato, il quale veniva ad essere lasciato in disparte nella formazione della legge, in quanto che non era più richiesta la sua approvazione. È in allora che il senato, non avendo più in questo argomento una parte proporzionata alla effettiva sua influenza, non potendo sempre bastargli di far dichiarare gli au spicia vitiata e di rifiutare l'esecuzione dichiarando « ea lege non videri populum teneri » viene ad essere condotto a forzare la propria funzione consultiva. È quindi da quell'epoca, che cominciano a compa rire dei senatusconsulti con autorità di leggi (1 ). Indarno i seguaci del partito popolare protestano contro questa violazione della logica inerente all'istituzione del senato , poichè questo ha influenza suffi ciente per far valere la propria pretesa . Si capisce quindi come più tardi i giureconsulti finiscano per esclamare « non ambigitur senatum ius facere posse » ; indicando così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente esistito (2 ). Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione non si fanno impunemente : cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei magistrati e sopratutto quelli del pretore ,avendo l'appoggio dalla pubblica opinione, finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum , che viene poi a conver tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A questo punto lo Stato romano è ormai un organismo troppo (1) Cfr. Madvig, L'État romain , I, 260; WILLEMS, Le Sénat, II, chap . III. Però è sopratutto il PUCATA, che hamesso in evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge Ortensia (Cursus der Institutionen, I, $ 75 ). Solo mi pare di dover ag giungere, che la rivoluzione stessa sta nell'aver cambiato il primitivo concetto di lex , e di aver così iniziato l'esercizio di una specie di potere legislativo per parte dei singoli organi politici dello Stato . (2 ) ULP., L. 8, Dig . (1, 3 ). 286 grande , perché possa mantenersi ancora il rigoroso principio del l'antica costituzione patrizia, che a formare le leggi debbono con correre tutti gli elementi costitutivi dello Stato ; conviene di ne cessità lasciare, che ciascuno di questi elementi possa dal suo canto prendere l'iniziativa . È per questo motivo, che i comizii tributi di ventano la sorgente legislativa più copiosa , durante gli ultimi secoli della repubblica, e che i pretori, di magistrati preposti all'ammini strazione della giustizia , si mutano in certo modo in legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che più tardi anche i giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che avranno autorità di leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi fattori con tinuano pur sempre a procedere sulle traccie antiche ; così l'edificio non solo potrà mantenersi saldo, ma per qualche tempo si innal zerà tanto più rapido e grandioso , quanti più sono gli artefici, che cooperano alla costruzione. Sarà invece quando mancherà il senso del pubblico bene, e quando scomparirà la distinzione antica fra l'interesse pubblico e il privato , che, per salvare un edifizio, il quale tende a scompaginarsi, sarà necessario di rimettere ogni cosa nelle mani di un solo , la cui volontà, in base ad una apparente investi tura del popolo , legis habet vigorem (1) . Questo sguardo allo svolgimento storico del concetto di legge, pro lungato oltre i confini, che misarebbero prefissi, deve essermi per donato ; perchè era soltanto sorprendendo il concetto alle origini, che poteva comprendersene l'incerto ed irregolare sviluppo, come lo dimostrano le divergenze di opinioni, che ancora oggi dominano l'ar gomento . (1) Ulp., L. 1, Dig . ( 1, 4 ) « Quod principi placuit, legis habet vigorem ; utpote quum lege regia , quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium ac potestatem conferat ». Per tal modo la lex , che era un tempo il frutto dell'accordo di tutti gli organi politici, diventa ormai l'opera di un solo ; ma intanto si mantiene sempre il concetto, che la sorgente di ogni potere sia il popolo ; altra conferma dell'opinione, fin qui sostenuta, relativamente alla populi potestas. Questo svolgimento storico della legge in Roma sembra essere compendiato da POMPONIO , allorchè, dopo aver discorso delle lotte fra la plebe, il patriziato ed il senato, con chiude dicendo : « Ita in civitate nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentum interpretatione consistit ; aut sunt legis actiones, quae continent formam agendi; aut plebiscitum , quod sine auctoritate patrum est constitutum ; aut est magistratuum edictum , unde ius hono rarium nascitur; aut senatus consultum , quod solum senatu constituente inducitur sine lege; aut est principalis constitutio, id est, ut quod ipse princeps constituit, pro lege servetur » , L. 2 , 12, Dig . (1 , 2). 287 $ 3.- L'elezione del rex , l'interregnum , e la lex curiata de imperio. 235. Per quello che si riferisce al magistrato supremo del popolo romano, il concetto, a cui si informa la primitiva costituzione pa trizia , consiste nel ritenere che, come è immortale il popolo, cosi non debbano mai essere interrotti nè gli auspicia , nè l'imperium , indispensabili entrambi per la prosperità della repubblica. È questo concetto, che spiega, come, morto il re , auspicia ad patres re deant; è questo parimenti, che condurrà più tardi a fissare il co stume per cui i magistrati annui succeduti al re, debbono, prima di uscire di ufficio e finchè ritengono ancora gli auspicia , proporre il proprio successore; è questo infine , che può somministrare il mezzo per comprendere quella singolare istituzione dell'interregnum , non che la procedura solenne per l'elezione del re, che, introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano ancora col medesimo nome e colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di tante e cosi erudite elucubrazioni. 236. Un recente autore , il Bouchè Leclercq , ebbe a scorgere nel l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re , « un capo lavoro di casuistica , in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani » (1). Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova del loro acume teologico e giuridico . Parmi invece assai più semplice e più verosimile il ri tenere, che i romani, in questo , come in altri casi, non si compiac ciano nella creazione di formalità , come tali, ma intendano piuttosto a conservare le tradizioni del passato. Le formalità infatti , che accompagnano l'interregno e la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re, come alcuni vorrebbero : ma provano sol tanto , che i romani avevano altissimo il concetto della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa , che prima avevano avuto quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano parimenti, (1) Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886, pag . 15 . 288 che, secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al l'elezione del magistrato , per trattarsi dell'atto forse più importante per la comunanza , dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato . Ciò stante , anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale, che abbiamo trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e consacrato, deve ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de imperio, e solo dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come capo civile e militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche considerarsi come un indizio , che in un anteriore periodo di orga nizzazione sociale gli auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano ritornare, allorchè il re veniva a mancare . 237. Per conchiudere, questa istituzione dell' interregnum , ar gomento di tante discussioni, deve essere considerata anche essa come un naturale processo , che dovette spontaneamente formarsi in una comunanza primitiva , uscita allora dal seno dell'organizzazione gentilizia : processo , che è perd rivestito di quel carattere religioso e solenne, che i romani attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli, che riguardavano il pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere gentilizio , formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e memore delle tradizioni del passato , era na turale, che, mancando il capo comune, il suo potere religioso , civile e militare dovesse passare al padre più anziano della più antica decuria del senato , e da questa trasmettersi successivamente ai principes delle altre decurie, che venivano dopo , in base all'an zianità , accið non venisse ad essere offeso il senso geloso , che i capi di famiglia avevano della propria uguaglianza , e non potesse neppur nascere il timore, che uno di essi « regni occupandi consilium iniret » . Era naturale parimenti, che la proposta del successore dovesse partire da uno dei padri, ed anzi dal più anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo all'indole di questa comunanza, che la sua proposta potesse essere anche comunicata agli altri padri, e che fosse anche sentito in famigliari concioni l'avviso del popolo, ancora composto esclusivamente di membri delle genti patrizie . Maturata così la proposta , è l'interrè , che deve farla ; le curie, che debbono approvarla ; la presa degli auspicii, che deve inaugurarla ; e infine fra l'eletto e la comunanza deve intervenire quella specie di con venzione e di accordo , che avverasi mediante la lex curiata de imperio; la quale, sotto un aspetto, costituisce l'investitura del ma 289 gistrato per parte del popolo , e dall'altro vincola quest'ultimo alla obbedienza verso di quello. Infine questo processo naturale di cose viene come al solito gittato e fuso in certe forme solenni, che si trasmettono ad epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi, che le fecero adottare; cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata in modo casuistico e sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la naturale conseguenza del modo di pensare e di agire di coloro , che concorrevano alla formazione di essa . 238. Ad ogni modo il caso , di cui ci fu serbata memoria parti colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità questa pro cedura solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi si presenta ancora con un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra gli dei col nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai capi delle decurie del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque giorni le insegne (decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et lictoribus erat). I padri, che non parevano troppo soddisfatti del regis imperium , agitano il partito se non fosse il caso di non più nominare il re : ma di lasciare, che il potere si venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa essere re per tutta la vita . Il partito non prevale fra il popolo , il quale non ama di avere cento capi, a vece di un solo , e quindi a re si sceglie Numa di stirpe sabina . È l'interrè, che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo che è chiamato a crearlo, mentre sono i padri, che approvano l'elezione (quirites, regem create : deinde, si dignum crearitis, patres auctores fient). Segue poscia l'inauguratio , che è descritta in modo particolare da Livio ; e viene ultima la proposta della lex curiata de imperio , la quale, non ri cordata da Livio , è invece ricordata e ripetuta da Cicerone ad ogni elezione di re , quasi ad indicare l'importanza, che la medesima doveva avere. Ci attesta poi Livio , che questta procedura, che egli descrive come introdotta per quel caso determinato, ma che Dionisio farebbe già rimontare allo stesso Romolo , non è stata abbandonata più tardi: « hodieque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta » , cioè esclusa la violenza , a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso, accid i patres procedessero alla proposta del nuovo re ( 1) (1) Livio , I, XVII; Cic . De Rep., II, 13, 17, 18 , 20 ; Dion ., II, 57 ; PLUTARCO , Numa, 2. Di fronte a queste testimonianze concordi, non può esservi dubbio, che du G. Carle , Le origini del diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione del magistrato non po trebbe qui essere più chiaro ; essa deve essere l'opera di tutti gli organi dello Stato , ed assume un carattere pressochè contrattuale fra magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta ; quindi è l'antecessore , che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono aboliti. Tuttavia, anche in questa parte , l'accoglimento della plebe nel populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva costituzione ; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso essere spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il periodo regio , l'interres era uno dei patres del senato , ai quali redibant auspicia . Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi e delle centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad essere non più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei; del che alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di patres et conscripti. Comunque stia la cosa , questo è certo , che il senato, divenuto patrizio -plebeo , non poteva più rappresentare gli antichi patres o patricii, che erano stati i fondatori della città , e ai quali redibant auspicia . Erano le curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo ad essere esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i senatori di origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano ritornare gli auspicia . Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex , come lo dimostrano le espres sioni « patricii coeunt ad interregem prodendum » , « patricii rante il periodo regio l'interrea era tolto , secondo certe regole tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso senato partiva la patrum auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio, ancorchè solo ricordata da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta, manca ogni motivo di ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è accennato, nº 199, pag. 244 , in nota , consentire col Karlowa, Röm . R.G., pag. 52 e 82 e segg., il quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione soltanto colla costituzione di Servio Tullio . 291 interregem produnt» e simili, e ciò perchè l'interrex , facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del rex primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia , durante il periodo della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da patrizii e fra i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af ferma: « cum interrex nullus sit, quod et ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est » (1). Come sia accaduto questo cambiamento , se cioè per legge o per il logico sviluppo delle isti tuzioni, il che è più probabile, non si può affermare con certezza; ma certo dovette essere questo il processo logico , che governo tale modificazione. In questo modo infatti si vengono a rannodare insieme tre istituzioni, che furono argomento di lunghe discussioni, e di cui tutti riconoscono la strettissima attinenza , che sono la patru patriciorum auctoritas per le leggi, la lex curiata de imperio per la elezione dei magistrati, e la proposta dell'interrex , accið l'im perium e gli auspicia non siano interrotti, durante la vacanza del magistrato . Tutte queste istituzioni non sono che conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio, che « auspicia penes patres sunt» ; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un magistrato , nè un interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato , senza l'intervento dell'ordine patrizio , il quale, di fronte al nuovo popolo , corrispondeva ai patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere spiegato quanto ci afferma Cicerone che « curiata comitia , tantum auspiciorum causa , remanserunt » , come pure si com prende, che col tempo i medesimi si siano ridotti ad una imitazione od adombramento dell'antico per mezzo dei trenta littori, che rap presentavano le trenta curie (ad speciem atque ad usurpationem vetustatis per XXX lictores) (2 ). Intanto però , anche coll' introduzione dei comizii centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio continua ancora sempre ad essere l'opera di tutti gli organi politici dello Stato, in quanto che vi ha sempre il magistrato o interrè, che lo propone (rogat) ; il popolo delle classi o centurie, che lo elegge (creat) ; il senato , che continua a dare la propria auctoritas alla elezione (auctor fit) ; e da ultimo l'assemblea delle curie, che lo investe degli auspicia e dell'imperium mediante la lex curiata de imperio, per modo (1 ) CICERO, Pro domo sua, 14 . ( 2) CICERO, De lege agraria , II, 11, 27 e 28 . 292 che il magistrato non può entrare in ufficio, e compiere sopratutto atti di carattere militare, prima di aver ottenuta la legge stessa (1). 240. Se non che anchequi lo svolgimento armonico e coerente della primitiva costituzione romana comincia a dar luogo ad un dualismo, allorehè compariscono i magistrati plebei, e sopratutto il tribunato della plebe, il quale, pur essendo la magistratura urbana più operosa del periodo repubblicano , non riesce però mai ad inquadrarsi per fettamente nella costituzione politica di Roma. Dapprima infatti i tribuni della plebe non sono ancora veri magistrati, ma piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud neppure affermare con certezza dove fossero nominati, in quanto che gli storici parlano di una no mina fatta dalla plebe per curie, di cui non si comprende il signifi (1) Ho cercato qui di riunire e di risolvere, mediante i concetti informatori della primitiva costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in essa si vennero operando, alcune questioni, che furono oggetto di gravi e lunghe discussioni. La patrum au ctoritas, la lex curiata de imperio, la proposta dell'interrex furono spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del Niebhur , seguìta anche dal Becker , Röm . Alterth ., vol. II, pag. 314-332, che pareggia fra di loro la patrum auctoritas e la lex curiata de imperio, e quindiattribuisce l'una e l'altra alle curie fin dal periodo regio ; vi ha quella del WILLEMS, Le droit public romain , pag. 208 a 212, che invece attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas la significazione costante di senatus auctoritas, affi dando al senato anche la proposta dell' interrex ; sonvi il Rubino , e fra i recenti il Karlowa, Röm . R.G., I, p . 44 e seg., i quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di patricii interregem produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad essi così la patrum auctoritas, come la proposta dell'interrex . Vi banno infine quelli, i quali sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire qualche modi ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei magistrati dal popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo ; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia , dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo ; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia , dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è l'opinione sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Romu (Rivista di Filologia , Torino, 1884, pag . 297 a 395). Se guendo un processo diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella soste nuta dal Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico concetto i varii aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che tanto il pareggiamento della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio (BECKER), quanto quello della patrum auctoritas e della senatus auctoritas (WILLEMS), quanto infine il con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo, che darebbe l'auctoritas e proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto sostenute con ingegno e con erudizione, siano in contrasto coi passi degli antichiautori, e collo svolgimento storico della costituzione romana . 293 cato (1 ). Più tardi nel 283 U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la plebe possa nominare i suoi tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono ad essere legalmente riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un magistrato esclusivamente patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii delle curie, che è l'interrex ; così vengono ad esservi deimagistrati, esclusivamente plebei, quali sono appunto i tribuni e gli edili della plebe, che debbono esser sempre nominati nei concilia plebis. Per quello poi, che si rife risce ai magistrati veri del popolo romano, e comuni ai due ordini, si viene ad operare una specie di divisione del potere elettorale fra i comizii centuriati, che continuano sempre a nominare i magi strati maggiori, ei comizii tributi, che finiscono per attirare a sè la nomina dei magistrati minori ; di quei magistrati cioè, che un tempo erano nominati direttamente dal magistrato maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del l'opposizione , che un tempo esisteva fra patriziato e plebe (2 ). Infine è ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i romani seguirono nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano pro-magistrati nelle pro vincie . Per noi la cosa può sembrare singolare : ma pei romani era un processo regolare e costante , in quanto che essi, al modo stesso che avevano prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate nella città , così presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle provincie , prorogandone l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri magistrati dovevano essere quelli di (1) È Dionisio, IX , 41, il quale dice, che i tribuni furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non si riesce a comprendere come i difensori della plebe potes sero essere eletti coll'intervento del patriziato ; salvo che con ciò si voglia dire, che la plebe, per la nomina dei suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso, ove si riunivano le curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima importanza in quanto che è con essa, che incomincia il riconoscimento legale dei concilia plebis. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, pag . 593 e segg . Non parmi tuttavia, che si possa far rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia tributa , poichè i tribuni della plebe, anche più tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. (2) Questa è una prova , che in questo periodo della costituzione politica di Roma i veri comizii del popolo romano erano i comiziï centuriati e i comizii tributi ; mentre i comizii curiati erano solo più conservati auspiciorum causa, ed i concilia plebis per provvedimenti di interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma (1 ). Veniamo ora all'esercizio del potere giudiziario nel periodo regio . § 4. – L'amministrazione della giustizia , la distinzione fra ius e iudicium , e la provocatio ad populum nel periodo regio . 241. Per quello che si attiene all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione fondamentale , intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale, apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il senato ed il popolo . Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e la criminale , sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti, come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio , e delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores parricidii e duumviri perduellionis ) ( 2). Senza pretendere di volere risolvere le gravissime questioni, che si agitano in proposito , mi limito unicamente ad osservare , che anche in questa parte la costituzione primitiva di Roma contiene il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a determinare lo svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste isti tuzioni primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio , sono: la potestà di giudicare, che appartiene al re ; la distin zione fra il ius e il iudicium , per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già compariscono i iudices , gli arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i duumviri, ed i quaestores in materia crimi nale ; e da ultimo l'istituto della provocatio, che col tempo sarà quello , che finirà per trasportare la giurisdizione penale dal magi strato ai comizii. Questi istituti sono in certo modo altrettanti abbozzi, che svolgendosi a poco a poco finiranno per determinare l'evoluzione del potere giudiziario, durante il periodo repubblicano. 242. Che la potestà del ius dicere sia compresa nella concezione (1) Non occorre di notare, che qui si parla dei pro-magistrati, che dopo essere stati consoli o pretori in Roma, diventavano proconsoli o propretori nelle provincie . Cfr. in proposito MOMMSEN, Le droit public romain , I, pag. 11 e segg. (2 ) Cfr. Muirhead, Histor . introd ., Sect. 15 , pag. 59 . 295 - sintetica del regis imperium , sebbene non esista ancora la sepa razione recisa fra la iurisdictio e l'imperium , è cosa a parer mio chenon può essere posta in dubbio . Non può quindi essere accolta l'opinione del Maynz, che quasi vorrebbe fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione criminale al popolo (1 ). Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un concetto , che sembra essere general mente adottato , secondo cui si vorrebbe in certo modo riconoscere nel re il potere di giudicare di qualsiasi controversia e di qualsiasi misfatto . Questo concetto ripugna col processo seguito nella forma zione della città , e dell'imperium regis. Almodo stesso , che la ci vitas non assorbi tutta la vita delle genti e delle famiglie , ma è dovuta ad una specie di selezione, che si viene operando di quelle funzioni civili, politiche e militari, che prima erano esercitate dalle singole comunanze patriarcali ; così anche il potere regio venne for mandosi, mediante lente e graduate sottrazioni, che si vennero ope rando da quei poteri, che prima appartenevano ai capi di famiglia e delle genti. Di qui la conseguenza , che negli esordii dovette per lungo tempo mantenersi vigorosa, accanto al potere del re, la giu risdizione propria dei capi di famiglia e delle genti, e che per lungo tempo ancora i capi di famiglia curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e continuarono ad essere i vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta nelle famiglie ; come lo dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene narrato da Livio . Tut tavia in questa progressiva formazione del potere del magistrato fu la stessa realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e po litica , che somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla . Questo concetto consiste in cid , che il re primitivo non si impone ai membri delle genti e delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi , in quanto sono quiriti , cioè in quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica . Quindi il re dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il vindice delle offese tutte, che possono patire i membri di esse ; ma è il custos urbis , ed è incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges publicae, che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e politica , a cui addivennero le varie comunanze . Nel resto continuano ad essere competenti i singoli padri e capi di famiglia , (1) V. Maynz, Introd. au cours de droit romain , n. 20, pag. 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione criminale la sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti gli altri sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali, secondo il concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del sodalizio , come lo dimostra , fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui sacerdozii, che da esso dipendono (1 ). Sarà quindi solo più tardi, ed a misura che nella cerchia delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni private , che la giu risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e si potrà esten dere anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti domestiche e da persone dipendenti dall'autorità del capo di famiglia , potranno tuttavia produrre una pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere speciale della giurisdizione, spettante al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una prova eloquente in quella distinzione fondamentale per l'antica amministrazione della giustizia , così civile come penale, fra il ius ed il iudicium . Sono note le discussioni, che seguirono in proposito , e non mancarono anche coloro , che attribuirono la divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei romani avrebbe tentato di fare, fin d'allora , fra il diritto ed il fatto : cosicchè il magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto , mentre il giudice avrebbe poi applicato il diritto al fatto . Una simile distinzione non si cercò mai dai Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur ius ;ma furono invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi formando la città , che condussero naturalmente a questa distinzione (2 ). Pongasi infatti un centro di vita pubblica, che stia formandosi fra varie comunanze patriarcali. L'effetto , che dovrà risultare da questo stato di cose, sarà quello di produrre , fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere ai capi delle famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico, che appartenga al capo ed al (1) Cfr. Maynz , op. cit., n. 20, pag . 60, e MOMMSEN, Le droit public romain , I, pag. 187 : « Magistri (scrive Festo, po magisterare), non solum doctores artium , sed etiam pagoram , societatum , vicorum , collegiorum , equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes, pag. 341). È da vedersi a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I, Capo V , n ° 88 , pag. 109 e nota relativa . ( 2 ) Fra gli autori, che in questa distinzione videro in certo modo una separazione fra il diritto ed il fatto havvi il Bonjean, Traité des actions chez les Romains, Paris, 1845 , vol. I, § 29. Cfr. Carle, De exceptionibus in iure romano, 1873, pag. 11. Di tale distinzione tratta il BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa, 1866, I, $ 5 . 297 custode della città . Di qui la conseguenza, che la questione pre liminare, che questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta gli sia sottoposta un'accusa od una controversia , consisterà nel decidere , se il fatto , del quale si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati alla giurisdizione domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di carattere pubblico , che a lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto , del quale si tratta, siavi qualche lex pu blica , che debba essere applicata . Se quindi, ad esempio, l'Ora zio avrà uccisa la sorella , e sarà trascinato innanzi al re in ius, la questione, che questi è chiamato a decidere, sta in vedere, se il fatto in questione debba essere lasciato alla giurisdizione del padre, che afferma che la sua figlia è stata iure caesam , o se trattisi invece di tal fatto, alla cui repressione provveda una lex publica . Ed è questa appunto la questione, che risolve Tullo Ostilio , il quale, secondo Livio : « concilio populi advocato : duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem fació » ( 1). Che se in vece di un misfatto si fosse trattato di una controversia di carattere civile, la questione a risolversi sarà pur sempre quella di vedere , se trattisi di un caso contemplato da una legge pubblica , e se perciò si dovrà accordare diritto di agire secondo la legge . Solo allora il magistrato gli dirà di agire secundum legem publicam : oppure più tardi, allorchè vi sarà una speciale magistratura per l'amministrazione della giustizia , questa pubblicherà nel proprio editto quali siano i casi particolari , in cui actionem dabit. Non è perciò da ammettersi il concetto per tanto tempo ricevuto , che, secondo il diritto civile romano, vi fossero dei diritti, che erano senz'azione ; ma soltanto si deve dire , che il diritto in Roma si venne lentamente e gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato di esaminare e di risolvere la questione , se in quel caso determinato dovesse , o non , essere accordata l'azione. Spettava quindi al magistrato ( in iure) di decidere in ogni caso particolare, se il caso stesso fosse stato tale da richiedere, in base alle leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere : ma, una volta decisa affermativamente una tale questione, il magistrato aveva compiuto (1 ) Liv., I, 26. Dalle espressioni, che Livio attribuisce a Tullo Ostilio , si ricava , che la questione, che egli si propose di risolvere, consisteva nel decidere, se vi era una legge, e quale fosse la legge, che colpiva il delitto del quale si trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma, I, pag. 317. 298 il proprio ufficio , e quindi poteva rimettere il giudizio o ai quae stores parricidii , o ai duumviri perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale , od anche ad un iudex e perfino ai recuperatores , se trattavasi di una controversia civile, intorno a cui le parti non si fossero poste d'accordo innanzi al magistrato . Questo è certo , che già nel periodo regio vi furono queste varie maniere di giudici ; ed è anzi probabile , che già esistessero i iudices selecti, il cui albo do veva probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori ; come lo dimostra la testimonianza di Dionisio , ed anche il fatto, che fu così anche dopo , e che in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio , che i padri fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti, che quando trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da un consilium ; come ap pare dal fatto , che, secondo Livio, a Tarquinio il Superbo fu mossa l'accusa che « cognitiones capitalium rerum sine consiliis per se ipsum exercebat » . Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza patriarcale giustizia (1). Per quello poi, che si riferisce all'intervento dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile , sembra che il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana , alla quale puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale dei centumuiri, come si vedrà a suo tempo . 244. Intanto è sempre dal modo, in cui la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella vita pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura, che dovette essere seguita negli esordiidella città , così nei giudizii civili come nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza , che deve essere amministrata giustizia , come lo dimostra il fatto, che una delle ac cuse, mossa contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto meno al tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della propria casa (2 ). Così pure si comprende come questa (1) Il testo è citato da Livio, I, 49. Abbiamo poi Dionisio, II , 14, che dice parlando del re: « de gravioribus delictis ipse cognosceret ; leviora senatoribus committeret ; donde si può inferire, che anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti ca pitali, ricavarsi dal senato. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., pag. 54 . (2 ) Liv., I, 49. 299 procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di una assoluta parità di condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi tare, cosi nei giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di certame, che un tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un misfatto , sarà il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso le prove, sovra cui si appoggia la propria accusa , e se si tratterà invece diazione civile, sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od anche quella della iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già si era formata nella stessa tribù patriarcale : mentre un tempo essa era il modo di pro cedere del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno della tribù , venne poi ad essere trapiantata nella città, unitamente alle formalità , che ricordano l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad usarsi dal quirite contro ' il quirite (1 ). La seconda poi, ossia la iudicis postulatio, fu l'effetto necessario di quella separazione del ius dal iudicium , che, come si è dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una giurisdizione pubblica , accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e patriarcale, in quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione se in quel caso dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem publicam , conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o un arbiter per la risoluzione della controversia ; donde l'antica de nominazione della iudicis arbitrive postulatio (2 ). Questa conget tura ha la sua base in ciò , che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due maniere di procedura , senza che si possa deter minare, quando le medesime siano state introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra capi di famiglia , pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i cittadini di una medesima città , hanno già cessato di essere semplici actiones, e sono diventate legis actiones , in quanto che sono altrettanti modi riconosciuti dalla legge pubblica per far valere in giudizio le proprie ragioni. 245. Soltanto più ci resta a discorrere di una istituzione, che era ( 1) Quanto all'origine gentilizia e alla naturale formazione dell'actio sacramento vedasi sopra lib . I, n . 104 . (2 ) La iudicis arbitrive postulatio è ricordata da Gaio, come una delle più antiche legis actiones, Comm . IV , § 12 , sebbene poi il manoscritto di Verona sia stato il. leggibile nella parte, che vi si riferisce. V. quanto alla medesima il Murhead, Hist. introd., Sect. 35, pag. 197 , e il BuonamiCI, Storia della procedura civile romana. I, Cap. VII, pag. 43 a 57. 300 poi chiamata a ricevere una larga applicazione, durante il periodo repubblicano, e che è indicata colla denominazione di provocatio ad populum . Si dubita dagli scrittori, se questa istituzione già potesse esistere fin dal periodo regio, ed alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo periodo le funzioni del popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il re credeva di dovergli affidare. Per parte nostra , di fronte alla testimonianza di Cicerone, che, augure egli stesso, ebbe a dire , che della provocatio ad populum parlavano i libri pontificii e gli augurali, il dubbio non dovrebbe più presentarsi (1 ). Quanto alle considerazioni desunte dagli stretti confini della populi potestas, durante il periodo regio , ed anche dalla narrazione di Livio, che nel caso dell'Orazio parla di una provocatio ad populum , accordata da Tullo « clemente legis interprete » , parmi che esse non possano condurre ad escludere un diritto di provocatio ad populum , che in effetto sarebbe stato invocato e fu fatto valere dallo stesso Orazio. Pud darsi, che in quel caso particolare potessero esservi dei motivi per dubitare, se dovesse o non essere ammessa. Ma se l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base ad una consuetudine, le cui origini dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore . Si aggiunge , come appare dalle cose premesse , che la costituzione primitiva di Roma dovette essere più liberale negli inizii, quando vi era un populus, tutto composto di padri uguali fra di loro e consapevoli del proprio diritto , che non posteriormente , allorchè il populus cominciò ad essere composto di due classi disuguali fra di loro, cioè del patriziato, che era il populus primitivo , e della plebe ; di una classe dirigente e di una classe , che trovavasi in posizione inferiore. In base ad una tale costituzione primitiva , secondo cui la populi potestas era la sorgente di tutti i pubblici poteri ed anche del regis imperium , veniva ad essere naturale e logico , che se il ius dicere apparteneva al re , il con dannato dovesse poter ricorrere in appello al potere supremo che era il popolo, mediante la provocatio . Per verità di questo diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex horrendi criminis, i cui termini ci furono conservati da Livio « duumviri perduellionem iudicent : si a duumviris provocarit, provocatione certato » . Era poi naturale, che questa provocatio, al pari dell'azione e del giudizio , venisse a canıbiarsi in quella specie di certame o di combattimento (1) Cic ., De Rep., II, 35 : « Provocationem etiam a regibus fuisse, declarant pon tificii libri, significant nostri etiam augurales » , 301 legale , che viene appunto ad essere descritto da Livio , a proposito del giudizio dell'Orazio , in quanto che ogni procedura patriarcale prende naturalmente questo carattere. I duumviri, che avevano pronunziata la condanna, dovevano essi sostenere l'accusa davanti all'assemblea del populus. Eravi cosi una specie di certamen fra essi e l'accusato, che simboleggiava quel combattimento vivo e reale, che un tempo aveva dovuto effettivamente seguire. Che anzi, già fin d'al lora, il populus, trattandosi di reato di carattere politico , quale era la perduellio , poteva anche passare sopra alla questione puramente giuridica , per giudicare invece ex animi sententia , e assolvere, come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio, «admirationemagis virtutis, quam iure causae » (1). Vero è, che posteriormente nel primo anno della repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de provocatione, che riconobbe solennemente al popolo questo suo diritto , il quale fu anzi conside rato come il palladio della libertà del cittadino romano (unicum praesidium libertatis) ; ma allora le circostanze erano cambiate , perchè il populus non comprendeva solo più i patres e i patricii, ma anche la plebs , e quindi volevasi una legge, che accomunasse e consacrasse una istituzione, forse solo consuetudinaria , a tutto il nuovo populus quiritium , comprendendo in esso anche la plebe (2). 246. Intanto è evidente la influenza, che questa istituzione della provocatio ad populum , solennemente consacrata , doveva esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale , in quanto che essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal pronunziare una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e trasportare cosi in definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al popolo . Tuttavia anche qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere per qualche tempo interrotto , allorchè i tribuni della plebe presero a portare accuse contro i patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di ufficio davanti ai concilia plebis. Fu ( 1) Liv ., I, 26 . (2) Non potrei quindi ammettere l'opinione del KarlowA, Röm . R. G., pag. 53 e segg., il quale, argomentando da ciò, che le leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta la provocatio ad populum , vorrebbe inferirne, che questa sotto i re non esistesse che per la perduellio. CICERONE parla di provocatio in genere, e quindi non vi ha motivo di restringerla, ma vuolsi ammetterla in genere per i reati a quella epoca puniti di pena capitale, cioè tanto per la perduellio, quanto per il parricidium . 302 allora , che la legislazione decemvirale ebbe a stabilire il principio che soltanto i comizii centuriati potessero pronunziare una condanna capitale (1 ). Ciò però non impedisce, che i tribuni della plebe conti nuino ancora ad eserc itare il proprio diritto di accusa , sopratutto per i delitti di carattere politico, e per quelli che sono puniti di sole pene pecuniarie. Di qui deriva la conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione criminale viene a ripartirsi il compito fra i comizii centuriati, che giudicano dei delitti capitali , e dd i comizii tributi, che giudicano dei delitti, che debbono essere puniti con pene pecuniarie, finchè l'incremento della città ed anche dei delitti perseguiti per legge non renderà necessario di ricorrere alla istituzione delle quaestiones perpetuae, ossia di tribunali speciali per giudicare delle diverse categorie di delitti (2 ). Parmi con ciò di aver abbastanza dimostrato non solo l'unità e la coerenza della primitiva costituzione patrizia ; ma di aver provato eziandio , come essa debba essere considerata come il modello e l'esem plare , sovra cui si foggiò tuttoil posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa fu tale dameritarsi il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva , che la costituzione politica di Roma formatasi « non unius ingenio, sed multorum , nec una hominis vita , sed aliquot saeculis et aetatibus » , era tuttavia riuscita superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata dei filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con logica tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità : nam , dice lo stesso Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum exstitisse dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset ; neque cuncta in genia , conlata in unum , tantum posse uno tempore providere , ut omnia complecterentur, sine rerum usu ac vetustate ( 3). Veniamo ora alle leges regiae. ( 1) Cic ., De leg . 3 , 4 : « De capite civis nisi per maximum comitiatum ne fe runto » , disposizione questa , attribuita alla legislazionedecemvirale, la quale mirava con ciò ad impedire, che le cause capitali contro i patrizii e contro i consoli fossero dai tribuni della plebe recate innanzi ai concilia plebis. ( 2 ) Cfr. Esmein , Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia , de adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris , 1886, pag . 71 et suiv. (3 ) Cic., De Rep ., II , 1. -- 303 - CAPITOLO IV . La legislazione regia durante il periodo esclusivamente patrizio . $ 1. - Del contributo delle varie stirpi italiche alla primitiva legislazione di Roma. 247. Dal momento che a costituire la città patrizia concorsero comunanze, le quali erano di origine diversa , era naturale , che, anche esistendo una certa analogia fra le loro istituzioni, non potesse perd esservi una identità perfetta fra le medesime. È quindi evidente , che col partecipare di diverse stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro una assimilazione lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che anzi, a questo proposito , un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione del diritto primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie stirpi, come recarono un diverso contributo alla costituzione politica di Roma, cosi deb bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione del diritto privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei seguenti termini: « La patria potestas spinta fino al ius vitae et necis sulla figliuolanza ; la manus ed il potere del marito sulla moglie ; il concetto per cui  « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi il diritto , sarebbe dovuto all'influenza latina : « Le cerimonie religiose invece, che accom pagnano il matrimonio , il riconoscimento della moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure religiose e domestiche; il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii necessarii per il riposo delle loro anime, sarebbero evidentemente uscite da un diverso ordine di idee, e sarebbero perciò a ritenersi di provenienza sabina. - « Quanto all'influenza etrusca non si sarebbe sentita che ad una data più recente ;ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certam ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamente negarsi , che la ricostruzione dell'in signe giureconsulto appare come una verosimile congettura , quale del resto è annunciata dallo stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire la stretta attinenza, che dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato nello svolgimento delle primitive istitu zioni : e ciò lo condusse a questa ripartizione di parti, che pure si appoggia al carattere e alle opere, che la tradizione attribuisce ai re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia , con tutta la reverenza all'opinione di un insigne , crederei che questa ricostruzione del diritto primitivo di Roma non possa essere accettata , neppure come ipotesi e congettura , perchè è in contraddizione col modo, in cui Roma e il suo diritto si vennero formando, e colle tradizioni, che a noi pervennero . 248. Non credo anzitutto , che la costituzione, anche politica di Roma, possa considerarsi in certo modo come una composizione di elementi diversi recati da questa o da quella stirpe . In proposito ho cercato di dimostrare che l'ossatura della città primitiva fu essen zialmente latina, e che, al pari delle altre città latine, Roma usci da un foedus, ossia dall'accordo di varie tribù per partecipare ad una stessa comunanza civile e politica. Quindi è che gli elementi, che sopravvennero, entrarono tutti nei quadri della città latina , la quale fu anzi concepita sopra un'unità cosi organica e coerente , che non può essere riguardata, come il frutto del contemperamento di ele menti diversi (2 ). Re, senato e popolo esistono fin dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi elementi si aggiungono, il re potrà sce ( 1) MUIRHEAD, Historical introduction to the private law of Rome, Edinburgh. 1886 , pag. 4 . (2 ) In questa parte divido perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro « che han voluto trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella sua politica e nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in uno amalgamarsi confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino pelasgiche » . A suo avviso sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo fondarono e diedero il proprio nome alle città , ma che posero eziandio quelle linee primitive, in cui entra rono poi tutte le istituzioni, che furono assimilate più tardi » Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4 , pag. 54. Questa opinione, fra gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham , Encyclopedia Britannica , XX , vº Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i caratteri di una città latina. 305 gliersi da un'altra stirpe, il numero dei senatori e dei cavalieri potrà essere aumentato, e potranno anche accrescersi i coll egi sacerdotali, ma l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero è che un re sabino, cioè Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del culto e del collegio dei pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già attribuite allo stesso Romolo ; nè tutto ciò , che si riferisce all'organizzazione domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che già una legge, attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem (1). Lo stesso è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle famiglie a perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine sabina, mentre ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in tutti quelli parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione patriarcale (2) . Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di parole so lenni nei contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla in fluenza etrusca, poichè, se stiamo alla tradizione , questo cerimoniale esteriore rimonta alla fondazione stessa della città , e quindi sarebbe anteriore all'epoca , in cui, secondo il Muirhead , si sarebbe comin ciata a sentire l'influenza etrusca. Si aggiunge, che le solennità di parole, di atti e di gesti non sono anch'esse un privilegio di questa o di quella stirpe ; ma sono comuni a tutti i popoli, che attraver sarono l'organizzazione gentilizia, e trovano anzi, come si è dimo strato , una causa naturale in ciò , che in questa condizione di cose , gli atti ed i contratti, seguendo in certo modo, non fra individui, ma fra capi di gruppo, acquistano una solennità , che ora direbbesi internazionale, la quale si conserva poi eziandio negli inizii della co munanza civile e politica . Infine non pud neppure affermarsi, che quella serie di istituzioni, che mette capo al concetto , che il diritto scaturisce dalla forza , debba considerarsi come di provenienza latina, in quanto che questo concetto deriva piuttosto dall'attitudine emi nentemente guerriera, che prende il populus romanus quiritium ( 1) Dion. II, 25 (BRUNS , Fontes , pag. 6 ). (2) Che questo sia un carattere comune a tutti i popoli , che trovansi nell'orga nizzazione patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato dimostrato dal SUMNER MAINe , nelle varie opere sue , e di recente dal Leist , Graeco-italische Rechtsge schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data la prova nell'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale , lib. I e II , seguendo le migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come esse abbiano trapiantato nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano preparato nell'Oriente. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 20 306 nelle sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono ; come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es., la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali appariscono non meno amiche della forza , e fino anche della prepotenza, di quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le genti, che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla plebe, e più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame delle singole affermazioni del Muirhead , che io qui intendo di fare ; ma piuttosto dalle cose pre messe intendo inferire , che, trattandosi di genti, che probabilmente erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel medesimo stadio di organizzazione sociale , le istituzioni fondamentali del di ritto privato , salvo le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere essenzialmente comuni alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui prevaleva il carattere religioso ; tutte compievano i loro atti con solennità e cerimonie esteriori, che richiamavano un precedente periodo di organizzazione sociale ; e tutte possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia , e gli istituti della gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può affermare con certezza , dal momento, che questi caratteri sono comuni al diritto primitivo, quale ebbe a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo, chepotrebbe chiamarsi della comunanza del villaggio . La stirpe tuttavia , che diede il primo modello, in cui furono poi fuse le istituzioni analoghe, che erano già possedute dalle varie genti , fu anche, quanto al diritto privato , la stirpe latina, la quale appare come fondatrice della città ; il che punto non tolse , che, stante il comporsi dei varii elementi, si allargasse poi il concetto della divinità , patrona comune della città , e si ammettessero man mano anche istituzioniproprie di altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma fece anche più tardi, sul l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover affermare , che quella potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma, appena compare, deve sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui Roma ebbe la sua prima origine. Per verità , anche prima della fondazione di Roma, le popolazioni latine erano quelle , che avevano già mag giormente svolto il concetto di federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive , e perfino anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri elementi nel proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle istituzioni degli altri popoli . Ciò è tanto vero , che nella storia primitiva di Roma l'ele mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato , e più tardi, quando diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed espulso ; l'elemento sabino fu quello , che , essendo ancora più tena cemente vincolato nell'organizzazione gentilizia , si dimostrò il più esclusivo e il meno favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo essere stato il primo a modellare la città , entrò anche dopo in copia maggiore a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe operosa e battagliera , che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co munanze italiche , combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro civiltà ; mentre quanto ad Alba , la considerò come sua madre patria , e anzichè estinguerla e soffocarla , dopo averla vinta , pre feri di accoglierne il patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima , continuando quel processo nell'organizzazione sociale , che da essa erasi iniziato . Fra Roma da una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra , vi fu pressochè una guerra di sterminio , sopratutto fra le due prime , mentre fra Roma e il Lazio vi fu soltanto una lotta di precedenza ; perchè due città foggiate sullo stesso modello , come Roma ed Alba , non potevano coesistere l'una in prossimità dell'altra ( 1). (1 ) La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione, da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ . e costituz. di Roma, I, nei primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume, avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già eravi la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la dottrina certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi, nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca . Anche questi nuovi studii mi confermano nella conclusione : che l'organizzazione gentilizia sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca della formazione di Roma , la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere la sua teoria , devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso , egli sia fra gli autori re centi uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato alla formazione del diritto Romano , dal patriziato e dalla plebe), la città di Roma continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti alle stirpi latina, sabina ed etrusca , ed è ancora questo il concetto , che egli pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma. Era naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna dovesse recare il proprio contributo , anche alla formazione di un comune diritto , e che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte , che a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero , che alcune volte egli si trova imbarazzato del fatto , che il diritto quiritario primitivo si presenta del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza anche primitiva , e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano già certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere (1). Che se invece si ammetta , come ho cercato di dimostrare , che Roma è una città formata sul modello della città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo , costituisce dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di villaggio, in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione, ma le avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo dimostrano le genti Claudia e Fabia : che la stirpe Latina fosse invece già p ervenuta al concetto della città federale ; e che da ultimo l'Etrusca fosse già pervenuta alla città , che potrebbe chiamarsi corpora tiva . Roma partì dal tipo latino e quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di federazione : poi sotto l'influenza etrusca diventò anche una città unificata ; ma serbò tuttavia anche in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi in certo modo in un centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. (1) Tale difficoltà occorre al MUIRHEAD , per esempio, allorchè a pag . 50 parla del. l'opinione di coloro , che sostengono che Roma non conoscesse dapprima che la pro prietà degli immobili, ed anche a pag. 54, ove, parlando dei delitti e delle pene, trova non parlarsi di delitti, che non potevanomancare anche in una città primitiva. Questi fatti invece sono facilmente spiegati, se si ammette la formazione progressiva e gra duata, così della città , come del suo diritto civile e criminale, non che della giuri sdizione spettante ai suoi magistrati. 309 sarà facile il comprendere come, nella formazione del suo diritto pub blico e privato, Roma, dopo aver preso lemosse da quelle istituzioni di origine latina, che potevano già confarsi colla comunanza civile e politica , sia poi venuta lentamente assimilando tutte le istituzioni, che già si erano formate nel periodo gentilizio, anche presso le altre stirpi, quando le medesime potessero conciliarsi coll'impronta primi. tiva , che essa aveva data al suo diritto . Questo è stato certo il me todo, che Roma seguì anche più tardi nella trasformazione del suo diritto privato ; nè, conoscendo ormai per prova la sua costanza nei processi seguiti, possiamo averemotivo di dubitare, che essa abbia dovuto esordire nella stessa guisa . § 2 . Della esistenza di vere e proprie leggi (leges rogatae) durante il periodo regio. 251. Intanto questo modo di considerare la formazione di Roma e del suo diritto mi conduce ad apprezzare la legislazione primitiva di Roma in guisa diversa da quella, che suole essere generalmente adot tata dalla critica, e ad accostarsi invece a quella , che, ci verrebbe ad essere indicata dalla tradizione. Mentre la critica infatti , dopo aver resi leggendari i re, nega pressochè ogni fede alla legislazione, che suol essere indicata col nome di regia , e la riduce esclusiva mente ad essere opera dei collegi sacerdotali, o a semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni anteriori, la tradizione invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a Servio Tullio, come un periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio avviso, si deve andare a rilento nel respingere in questa parte il racconto della tradizione. Se la città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu dapprima un organo di vita pubblica fra comunanze , in cui continuavasi la vita domestica e patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il frutto di una specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che governo i primi rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita civile e politica sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale : quindi se questa poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche giuridici, già prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati tali e quali, ma dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento , ed è questo appunto , che dovette compiersi durante il periodo regio . Ne ripugna il credere, che ciò siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza dimostrato , come le genti, che fondavano la città , erano lungi dall'essere del tutto primitive, ma avevano una suppellettile copiosa di concetti e di tradizioni, che già si erano prima formati. Esse non erano più nello stadio della primitiva formazione del di ritto : ma erano già in quello della elaborazione e dell'adattamento di un diritto già formato alle esigenze della vita cittadina. Ammet tasi, che in parte siano leggendarie le figure dei primi re; ma questo è certo che, leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla neces sità di quella convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera vigorosa a quella selezione ed unificazione legislativa , che era il più urgente bisogno per una città , che risultava di elementi diversi. Conviene aver presente, che la città in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti italiche fu forse la prima ad iniziare il processo di accogliere persone di discendenza diversa a partecipare alla stessa vita pubblica ), si presentava come una istituzione novella, destinata ad un grande avvenire. Era mediante la città , che l'uomo o meglio il capo di famiglia cominciava ad essere qualche cosa, anche fuori della propria famiglia o gente , e quindi non è punto a maravigliare, se un senso pubblico energico e potente abbia potuto penetrare re , senato , sacerdoti e popolo. Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui diedero prova più tardi le grandi famiglie plebee , allorchè giunsero finalmente ad essere ammesse come eguali nella città , do vette dapprima essere provato dagli uomini, usciti dalle genti patrizie, allorchè sentirono di costituire un populus , malgrado la loro ori gine diversa : e quindi non è punto probabile , che essi abbiano dovuto mantenersi del tutto estranei alla elaborazione di quel diritto , che doveva governarli, e che tutto lasciassero ai collegi sacerdotali ed al re loro capo. Se essi eleggevano il re e per tale elezione si ra dunavano nei comizii, non si comprende veramente come essi abbiano potuto essere affatto esclusi dall'opera legislativa , che era una con seguenza inevitabile della formazione della città (1). (1) L'opinione, qui combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN , Die Quellen des röm misches Rechts, Leipzig, 1823, pag. 234 e segg ., in un'epoca , in cui tutta la storia primitiva di Roma erasi convertita in una specie di leggenda, trova ancora oggidi molti seguaci. Basti annoverare, tra i recenti, il PANTALEONI, op . cit ., pag. 309 ; il KARLOWA, Röm . R. G., pag. 52,ed anche il Murrhead, Hist. Introd., pag . 20. L'ar gomento da questi due ultimi invocato consiste sopratutto nella nota espressione di Livio : « vocata ad concilium multitudine, quae coalescere in populi unius corpus, nulla re , praeterquam legibus, poterat , iura dedit » . Essi argomentano dal iura 311 252. A ciò si aggiunge che in una piccola comunanza , formata da persone, che poco prima ancora vivevano patriarcalmente, do vette essere frequente e quotidiano il contatto fra elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per l'età remota e per il grande avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai probabile, che i rapporti fra re, padri , pontefici , auguri e popolo fossero continui , e che perciò potesse anche formarsi una specie di pubblica opinione in torno a ciò , che potesse esservi di comune interesse per una città, che era uscita dalla volontà comune, e che era la creazione di tutti. Senza voler sostenere che le concioni, da Livio e Dionisio attribuite ai personaggi della loro storia , siano state veramente quelle, non è però inverosimile, che concioni siansi veramente fatte , e che in tutti i casi, in cui trattavasi di qualche pubblico interesse, potesse vera mente accadere, che i padri intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe, e interponessero nei rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non dissimile da quella, che entrò a far parte sostan ziale della costituzione primitiva di Roma, sotto il nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto, che quegli uomini avevano per l'età , e la loro disciplina domestica spiegano la solennità , con cui essi votavano nei comizii , e il loro limitarsi a rispondere, appro vando o negando ; non possono però escludere, che quelle discussioni, che erano inopportune al momento della votazione, potessero anche essere indispensabili e frequenti in seno ad un popolo , che senti con tanta energia la vita pubblica , e l'influenza della medesima. Il popolo romano, fin dalle proprie origini, non fu un popolo nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero una regola conventuale : ma fu un popolo, i cui membri appresero ben presto a dire la verità nella vita pub blica , quantunque i suoi membri continuassero ad essere ligii ed ossequenti all'autorità del padre nella vita domestica. dedit, adoperato invece di iura tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di iura dare et accipere sono talvolta sinonime di quelle di iura ferre , come lo dimostra fra gli altri Aulo GELLIO , XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita « quae , tribunis plebis ferentibus, accepta sunt» . Si aggiunge che Livio in quello stesso passo insiste sulla necessità di vere leggi per incorporare elementi eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo di legge, che pei Romani significò sempre un provvedimento proposto dal magistrato e accettato dal popolo. Ad ogni modo questa proposizione si riferisce an cora all'epoca anteriore alla confederazione coi Sabini, e quindi, trattandosi ancora del capo patriarcale di una tribu militare , si comprende che egli potesse iura dare ; mentre si dovettero richiedere vere leges rogatae, allorchè le varie tribù entrarono a partecipare alla medesima città. 312 253. La loro caratteristica prevalente non è nè la religiosità, né l'indole guerriera , ma piuttosto quell'equilibrio e contemperamento di facoltà umane, in cui consiste il senso giuridico e politico . La qualità , che prepondera in essi fra le facoltà affettive, è la volontà pertinace , costante , e fra le facoltà intellettuali è una logica, che analizza con un acume senza pari i varii elementi dell'atto umano, e che quando ha afferrato un concetto non lo abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che da esso può ricavarsi ; due qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica , che si corrispondono perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia giuridica e politica di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo processo, che inizia tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa formazione del diritto pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza , che tanto nella politica , quanto nel diritto ,Romanon procedette maiper semplice agglomerazione ed incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte le genti, ma accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del proprio edificio . Roma nella storia dell'umanità rap presenta , per cosi esprimersi , un crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori del periodo gentilizio , e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli altri popoli conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della vita sociale l'elemento giuridico e politico , e questa selezione e questo isolamento essa cominciò ad operare fin dai proprii esordii. 254. Credo quindi che per comprendere Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella, che suole essere chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che possa negarsi ai Romani un sentimento profondamente religioso ; ma essi non si trovano punto sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità , che soffoca l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale invocata e resa benevola con determinati riti , doveva condurre il popolo romano ad insperata grandezza . Si aggiunge, che questa carattere religioso , finchè Roma fu esclusivamente patrizia , era co mune a tutti i membri del populus, i quali tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da conservare. Non era quindi possibile fra essi la formazione di una classe esclusivamente sacerdotale, che con ducesse al risultato , a cui si giunse in Oriente , di fare preponderare per modo l'elemento religioso da soffocare affatto l'elemento politico e il giuridico (1 ). (1) Quanto alla differenza, sotto il punto di vista religioso, fra le razze Arie del 313 A questo proposito pertanto è opportuno di tener distinti eziandio due periodi in Roma primitiva: quello cioè di Roma esclusivamente patrizia , in cui ci troviamo di fronte ad un popolo, i cui membri, uscendo dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli auspizii e le cerimonie religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e quello invece, in cui fu ammessa anche la plebe alla cittadinanza . In questo secondo periodo infatti il populus viene a comprendere due classi : l'una, poco numerosa, ricca di tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle civili e politiche ; e l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza , ma che è nuova alla vita civile, priva di tradizioni, e si trova nella necessità di ricevere modellato e formato il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in questo secondo periodo, che la conoscenza degli auspicia e delius viene a cambiarsi in un ti tolo e in un mezzo di superiorità per il patriziato , il quale se ne vale per tenere in rispetto e in riverenza le masse . È solo allora che il diritto, le cui origini erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le cui formalità erano già divenute inesplicabili per la generalità dei cittadini, viene ad essere chiuso negli archivii dei pontefici, che sono in certo modo incaricati della custodia e della elaborazione di esso ; mentre quest'arcano e questa segretezza non poterono certo esi stere negli esordii della città , allorchè la conoscenza del diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i capi di famiglia (1). Cid mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al populus, nella formazione del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella , che suole generalmente essergli assegnata ; ma per riuscire in qualche modo a determinarla , importa ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i collegii sacerdotali in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto . l'India e quelle trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti nell'opera : « La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale » , pag. 92 , n ° 33, e agli autori, che ivi sono citati. (1) Vedasi a questo proposito il MACHIAVELLI, Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI, XII, XIII e XIV, e il MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des Romains dans la religion . 314 $ 3. – I collegii sacerdotali in Roma e la loro influenza sulla formazione del diritto primitivo . 255. La caratteristica di Roma è una mirabile coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi aspetti della propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città fu il frutto di una selezione della cosa pubblica dalla privata , cosi anche la re ligione pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei culti e delle credenze proprie delle varie genti ; ma fu an ch'essa il risultato di una selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù continuarono nel proprio culto gentilizio, vennesi formando nella città un culto pubblico , il quale alla sua volta assunse poi una doppia forma, quella cioè di culto pubblico ed ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare (sacra popularia ). Ciò è dimostrato dal fatto , che fra la quantità degli Dei riconosciuti dai Romani, quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono Marte, Quirino e Giove, di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del fondatore, l'altro il fondatore stesso della città , e l'ultimo infine sembra talvolta con fondersi coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla Greca (1). 256. Intanto una pubblica religione richiedeva pure un pubblico sacerdozio . Questo concentrasi dapprima nello stesso re , il quale è augure sommo e pontefice massimo ; ma poscia il re stesso , pur conservando gli auspicia del magistrato supremo, costituisce intorno a sè dei collegii sacerdotali , i quali hanno un carattere del tutto peculiare, in quanto che essi non hanno un compito esclusivamente religioso ,ma anche una vera importanza civile e politica . Cotali sono sopratutto gli auguri, i feziali e i pontefici, i quali,mentre hanno un carattere sacerdotale, che dà un'aureola religiosa al loro ufficio , compiono ad un tempo una funzione importantissima per le genti patrizie, che è quella di essere i custodi e gli interpreti delle tra ( 1) La triade di Giove, Marte e Quirino si fa dalla tradizione rimontare a Numa, il quale avrebbe già istituiti i tre flamini maggiori, dando però la prevalenza al fila mine di Giove (Liv., I, 20). Fu più tardi però, che la religione si rivestà alla Greca e ciò sopratutto sotto l'influenza etrusca , ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto che fu allora che venne costituendosi la triade Capitolina di Giove, Minerva e Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel des instit. romaines, pag. 456 a 562. 315 dizioni,non solo religiose, ma anche giuridiche e politiche, e sopra tutto di quella parte di esse, che era indicata col vocabolo di fas, ed era considerata come l'espressione della volontà divina. Quelle tradizioni , che in Grecia furono lasciate ai poeti , i quali in antico avevano ancor essi un carattere sacerdotale , in Roma invece sono affidate a collegi sacerdotali , i cui membri sono scelti nel novero stesso dei padri, memori dei riti e degli auspicii religiosi, i quali, malgrado il loro carattere sacerdotale, continuano pur sempre a prendere parte alla vita civile e politica , e sono i custodi fedeli del patrimonio tradizionale delle genti patrizie. Cid spiega come le varie tribù primitive , a quella guisa che erano concorse in parti eguali sotto l'aspetto politico e militare , così sembrano pure avere na propria rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo dimostrano il numero di tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e pontefici, ed anche il numero di venti, che sembra essere stato quello dei feziali. Intanto se un posto facevasi vacante , il vuoto veniva a riempirsi con quella stessa cooptatio , mediante cui una nuova gente doveva essere accolta nell'ordine patrizio . Cosi es sendo composti i collegii sacerdotali , essi erano in condizione di contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle varie tribù, che erano concorse alla formazione della città ; e potevano col re , che era il loro capo , contribuire potentemente all'unificazione e al coordinamento legislativo . Quindi è che il culto, di cui essi sono i sacerdoti, non è un culto speciale di questa o di quella tribù , ma un culto ufficiale del popolo romano, come lo dimostrano le appel lazioni di augures publici populi romani quiritium , di fetiales populi romani, non che la qualificazione data ai pontifices di sacerdotes publici populi romani. Per quello poi, che si riferisce alle tradizioni, della cui custodia essi sono incaricati, senza voler pretendere, che in cið potesse esservi uno scopo preordinato, questo è però certo, che si effettud fra essi una ripartizione, la quale corri sponde ai varii aspetti, sotto cui il diritto può essere considerato (1) . (1) Non ho creduto qui di dovermi occapare specialmente dei quindecim viri sa cris faciundis, poichè questo collegio, iniziato da Tarquinio Prisco colla nomina di due sacerdoti per la custodia dei libri sibillini, si cambid col tempo nel custode dei culti, che erano di provenienza straniera . Esso quindi non esercitò alcuna diretta influenza sul diritto specialmente privato ; sebbene sia una prova evidente del con tinuo studio dei Romani per assimilarsi le istituzioni anche religiose degli altri po poli. È a vedersi, quanto al medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op. cit .,pag . 555 a 560, e il Villems, Le droit public romain, pag. 323-24 . 316 257. Vengono primi gli auguri, i quali, secondo la tradizione, sem brano costituire il più antico di questi collegii, in quanto che Roma stessa sarebbe stata fondata coll'osservanza delle cerimonie prescritte dall'arte augurale. Essi sono i custodi dei riti, che debbono prece dere e accompagnare tutte le deliberazioni, che possono riferirsi al pubblico interesse, e costituiscono cosi nella religione pubblica della città una imitazione degli stessi augurii privati : come lo dimostra l'at testazione di Cicerone, che l'abitudine di consultare la volontà divina era universale, e che i capi delle famiglie e delle genti non tenevano meno dello Stato ai loro auspizii privati (1). È indubitabile, che essi ebbero dei libri augurales , in cui serbavano le proprie tradizioni e la propria giurisprudenza , e senza voler penetrare nei concetti, a cui poteva ispirarsi l'arte loro , egli è certo, che essa fu una crea zione originale, propria sopratutto alle stirpi latina e sabellica , che dimostra lo spirito religioso e giuridico ad un tempo del primitivo popolo romano. È al collegio degli auguri, che devesi la teoria sot. tile e complicata degli auspicii, che dovevano essere osservati, la distinzione fra quelli, che potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la precedenza che certi segni dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che devesi l'orientamento del templum , ossia la delimi tazione di un sito senza ostacoli e in cui potesse spaziare la vista , per modo che gli auspizii potessero essere osservati; delimitazione, che do vette probabilmente anche esercitare influenza sulla scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le città dovevano essere edificate (2 ). 258. È però notabile, che se gli auguri sono incaricati dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e decisioni augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica auspicia , il quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può così eser citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al pubblico interesse ( 3).Era poinaturale , che gliauguri, i quali, nella città esclu (1 ) Ciò è attestato da Cicer ., De div., I, 16 , 28. — Cfr. MOMMSEN , Le droit public romain , I, pag. 100 e 101. (2 ) Il vocabolo di arte augurale prendesi talvolta in senso così largo, da com . prendere non solo l'avium inspectio (donde l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde l'aruspicium . Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito il PANTALEONI, Storia civ . e cost., appendice III , relativa ai Luceres. (3 ) Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, pag . 119 . 317 sivamente patrizia, erano i custodi di riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente , allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie . La loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale scrive: « maximum autem et praestantissimum in re publica ius est au gurum cum auctoritate coniunctum » , e lo prova dicendo, che essi potevano disciogliere i comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli viziati, anche dopo che eransi tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di pubblico carattere poteva essere presa senza il loro inter vento (1). Però questa loro apparente onnipotenza, di fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che il giudizio relativo agli auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e che gli auguri emettono il loro avviso sulla osservanza del rito , con cui siansi tenuti i co mizi, solamente quando siano interrogati dal senato o richiesti dal magistrato stesso . 259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il custode e il deposi tario del ius foeciale ; ma non è certo il creatore del medesimo, come lo dimostra il fatto , che questo erasi già formato durante il periodo gentilizio , ed era comune ad altri popoli, pure di origine la tina e sabellica (2 ). L'istituzione del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo Ostilio , ed ora ad Anco Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad epoca anteriore, poiché Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il collegio fosse da lui istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di rimettere le sorti della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento fu solennemente sti pulato coi riti proprii del ius foeciale. « I due cittadini eletti a cid, cosi riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando Giove, che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato . Quello dei due popoli, che primo vi fosse ve (1) Cic., De legibus, II, 12. (2 ) Il processo di naturale formazione , durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis , che costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII, pag. 139 a 166 . 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano il porco , che sacrificavano ; anzi con tanta più forza , quanto era la forza di lui » ( 1) . Ciò significa che il collegio dei feziali non è stato mai il giudice della giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace ; l'una e l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo ; mentre i feziali sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni relative al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi del potere civile e politico , e potranno talora essere chiamati a decidere delle questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca , nè almerito delle cause di guerra , ma sono di preferenzaquestioni di rito e di procedura (2). I feziali sono in numero di venti ; riempiono i posti vacanti, mediante la cooptatio ; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un pater patratus nel proprio seno ; il che è un altro indizio come veramente il pater patratus fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che ricordasse così l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale pertanto è in ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio ; indica lo stadio più pro gredito , a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le genti e le tribù ; dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di amichevole componimento , prima di addivenire alla guerra ; ed è una prova di più, che i fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto senso della parola , ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche tradizioni, le quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono mantenute fino a che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili colla convivenza civile e politica (3 ). 260. È poi probabile , e l'ho dimostrato a suo tempo, che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città , il (1) Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 79 . (2) Tale è pure l'opinione sostenuta dal FusiNATO , Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il numero dei venti feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei pontefici, può forse essere un indizio, che il diritto feziale , comune ancora ai Latini e ai Sabini, che erano più vicini ancora all'organizzazione gentilizia, non apparteneva invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita cittadina , già si erano maggior mente discostati da pratiche di carattere eminentemente patriarcale. - - 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile per popoli, che non erano ancora pervenuti a questo punto di svolgimento (1). Così pure è un effetto di tale passaggio la distinzione netta, che viene operandosi fra l'amicitia , l'hospitium ,i quali si dividono in pubblici e in privati; ancorchè sia facile di scorgere, che nel primo periodo le amicizie sono ancora curate specialmente dallo stesso re; il qual sistema fu seguito sopratutto dalla politica dei Tarquinii , che intrattenevano relazioni coi capi delle comunanze vicine, e macchinavano proba bilmente un cambiamento nella forma di governo, che doveva es sere generale (2 ). Era poi una conseguenza logica della politica seguita da Roma nella propria formazione, che essa in questo primo periodo non si chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in certo modo at traendo a sè le popolazioni vicine. Roma continua in questa parte la politica dell'asilo, dalla tradizione attribuita a Romolo , e in ciò presenta un carattere del tutto opposto alla formazione delle città greche, e a quella della stessa Atene. Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium publicum , la concessione della civitas sine suf fragio, l'istituzione del municipium , singolare istituzione, per cui altri, pur restando nella propria terra , e partecipando alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere parte viva alla gran dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio voto, allorchè trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare direttamente anche gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che Roma seppe ricavare dall'istituzione , graduando e differenziando le con cessionida essa fatte ai municipii, e svolgendone il concetto in guisa da cominciare colla concessione di una civitas sine suffragio per giungere sino alla concessione di una cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi dell'istituto della colonia (3 ). Intanto però anche qui è ( 1) V., quanto al foedus e alla sponsio, il Lib . I, Cap. VII, nº 118 . ( 2) Cid è attestato da Livio, I, 49, allorchè scrive di Tarquinio il Superbo : « La tinorum maxime sibi gentem conciliabat , ui peregrinis quoque opibus tutior inter cives esset ; neque hospitia modo cum primoribus eorum , sed adfinitates quoque iungebat » . (3) Inteso in questa guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica zione del sistema stesso , che essa aveva seguito nella propria formazione, quello cioè di interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che da essa dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le erano più vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra , Lib . I, Cap. VII, nº 127. 320 appare, che la politica estera di Roma non appartiene punto ad un collegio di sacerdoti,ma che nel periodo regio appartenne al re, e nel repubblicano al senato, il quale , essendo un consesso permanente ed accogliendo nel proprio se noi magistrati uscenti di ufficio , poteva mantenere quella continuità tradizionale non interrotta, di cui porge un mirabile esempio la storia politica di Roma. Infine si comprende eziandio , come il collegio dei feziali, custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti colle altre genti, non abbia avuta l'influenza effettiva , che appartenne agli auguri e ai pontefici, perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non poteva trovare applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini erano ancora distinti, vi furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto feziale, e accompagnati, a richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di colui, che li avesse violati (leges sacratae) (1) . 261.Non vi ha poi dubbio, che il collegio sacerdotale più importante nell'organizzazionedella città patrizia è, senza alcun contrasto , quello dei pontefici. È questo collegio che riverbera nel proprio seno le istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a differenza degli altri collegi, ha una costituzione monarchica, ed ancorchè composto di più membri, è presieduto nel periodo regio dal re , e poscia dal pontifex maximus, il quale raffigura il capo religioso del popolo romano, in quanto costituisce una famiglia religiosa . Cid appare da questo , che il pontefice massimo, durante la repubblica , e quindi anche il re ,nel periodo anteriore, ha una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da esso dipendono, le quali ultime sono da lui captae in quella stessa guisa, in cui lo sarebbe una figlia dal proprio padre o marito ( 2). Il collegio dei pontefici poi, al pari del popolo dei quiriti, di cui esso ha la direzione religiosa , ha un potere, che spiegasi in doppia direzione. Da una parte esso costituisce il vero sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il re e poscia il pontifex maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum , compiono i sacrifizii proprii della religione pubblica ed ufficiale del popolo romano. Da un altro ( 1) Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 134, e la sua dissertazione : De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura. Lipsiae, 1883. (2) Cfr. Bouché-LECLERCQ , Les Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871 ; Ma nuel des Instit. romaines, pag . 510 a 533 . 321 - canto invece il collegio dei ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e delle famiglie non siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto raduna le curie in quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia calata , per mezzo dei proprii cala tores . Quindi è pure col suo intervento , che compiesi la cerimonia solenne della confarreatio, la quale dà origine alle iustae nuptiae delle genti patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che si compie avanti ai pontefici coll'intervento di dieci testimonii , che rappresentano le dieci curie delle tribù, a cui appartiene quegli, che addiviene alle medesime. È esso parimenti, che presiede a quei co mitia calata delle curie, in cui i membri del popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e al testamentum , i quali , durante il periodo della città patrizia , dovettero ottenere un ' approvazione analoga a quella , a cui erano sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola conservataci da Aulo Gellio , relativa all'adrogatio , la quale senza dubbio doveva essere analoga a quella del testamentum . Per verità ho già cercato di dimostrare a suo tempo come per le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto dovevano subire la pubblica approvazione, in quanto che i medesimi potevano alterare quell'organizzazione gentilizia, che aveva costituita la forza e la superiorità del patriziato , e che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni costo . Intanto ne veniva, che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche eser citare un'influenza sulla successione per quella parte, che si rife risce alla trasmissione dell'obbligazione relativa ai sacra . 262. Tuttavia l'importanza maggiore del collegio dei pontefici provenne sopratutto da che questo collegio ebbe l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al mos, al fas ed al ius, e proba bilmente dovette anche compiere quella prima elaborazione, me diante cui il diritto , che, erasi formato fra le genti e i loro capi, potè poi essere applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par tecipavano alla medesima comunanza civile e politica (1). Essi dovet ( 1) Questa funzione, essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni, che sarebbe stata affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di Livio , I, 20 : « Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit: ne quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque adsciscendo, turbaretur » . Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al testamentum , è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I, Cap. IV, n ° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II, nº. 220. G. Caeli, Le origini del diritto di Roma . 21 322 tero essere in questo periodo i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium , e furono in condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati dalle varie tribù , ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse . Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei pontefici, presieduto appunto dal re , dovette essere un cooperatore potente di quell'unificazione legislativa , di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale, trattandosi della legislazione di un popolo , i cui componenti prima quasi non conoscevano altra autorità , che quella del fas, che anche questo primitivo diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio . Intanto però in questo periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero potuto attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che potè as sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i custodi, vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il populus primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche ad un tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati esclusivamente dalle genti di origine patrizia , le funzioni del collegio dei pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i sacerdoti del popolo Romano : ma intanto non escono che da una parte di questo populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli auspicia e ad essere la reggi trice della città . Si aggiunge, che il potere religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re , viene poscia attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar sempre più al diritto un'aureola religiosa ; sebbene sia vero che questa se parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione del ius sacrum dal ius civile . Intanto però , cosi l'uno come l'altro sono conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum ), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la legislazione decemvirale , durante il quale sono i - 323 - pontefici, che compiono quell'elaborazione giuridica , che sarebbe stata impossibile permagistrati annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse . Sipud quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici ; cosa del resto, che è concordemente attestata da Pomponio , da Valerio Massimo, da Cicerone e da altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro (1). Di qui la conseguenza , che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi ; ma intanto la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium ; nè è a credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro ; poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto , essendo una magistratura sacerdotale , erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di questa scienza del diritto , conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio dei pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti, molti dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi stessi pontefici massimi(2 ). Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del diritto pontificale , sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di diritto sacro ; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò nei giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza , mentre quella , che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur ( 1) Questa influenza dei Pontefici sul diritto, sopratutto nei primi periodi della Repubblica , è attestata da VALERIO Massimo, II, 5 ; Livio, IX , 46; Cic ., pro Mu rena, 11 ; De legibus, II , 8 , 9 ; De oratore, III, 33. I passi relativi sono raccolti dal Rivier , Introd . histor., pag. 121 e segg. (2 ) Basta perciò il considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto il nome, come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui segretario Gneo Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio Coruncanio, che appare come il primo giureconsulto di origine plebea , furono pontefici massimi, o quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli poi, che più non erano tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium , come appare ad evidenza dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp . anteiustin . quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 - riporsi in questo , che a misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi nelle mani dei giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne naturalmente restringendosi al ius sacrum , e fu in questa guisa che alla separazione , che già erasi operata nella città patrizia fra il pubblico ed il privato , venne poscia aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il diritto civile strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che questo ritirarsi del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo periodo della repubblica , venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus di un nuovo ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che sotto questo aspetto doveva dipendere da un'altra classe : il qual concetto ci conduce a combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta , circa quella legislazione , che suol essere compresa col vocabolo di « leges regiae » . § 4 . Delle leges regiae e della fede da attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza noto come qualsiasi demolizione ne provochi un'altra ; tanto più se trattisi di un edifizio armonico e coerente. Ciò videsi sopratutto della storia primitiva di Roma. Dopo aver resi leg gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la storia, senza pur nominarli ; anche la legislazione, che era aimedesimi attribuita dalla tradizione, dovette essere considerata come una invenzione di tempi posteriori. Parve che un popolo , il quale era solo chiamato ad ap provare o a respingere le proposte fattegli, non potesse avere una parte effettiva nella formazione di leggi, di cui alcune avevano un carattere essenzialmente religioso, e che la collezione di leggi regie, accennate dagli scrittori, e attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e poca regia, dovesse ritenersi come opera di tempi posteriori (1). (1) Questa opinione, che prevalse col DIRKSEN : Die Quellen des römisches Rechts , Leipzig, 1823, trovò uno strenuo oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera è divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il contenuto delle leges regiae , mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano. Milano, 1885, pag. 3, nota 2 , l'opinione del Voigt, se in qualche parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR , dall'altra per ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a molti. Cid si capisce, trattan . dosi di persone educate a tutt'altra scuola ; ma intanto abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della storia primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi spinta troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria formazione ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non fosse ram mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una necessità dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone appartenenti a genti patrizie , memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non è punto ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e conferiva l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato a dare approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in base a cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza civile e politica. Ciò non potè accadere , come narra Pomponio, finchè Romolo fu solo capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina ; ma dovette divenire indispensabile, allorchè la città , la no mina del suo re , la sua religione, il suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione e degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi, che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che riguar. davano il comune interesse , di adottare la forma della legge, la quale, elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re, appoggiata dai padri del senato , approvata dalle curie , poteva veramente ritenersi come l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le ragioni Livio , allorchè ci dice , che il popolo romano era cosi composto , che « nulla re , nisi legibus, in unius populi corpus coalescere potuisset » . Era solo a questa condizione, che capi di tribù e di genti, fino allora indipendenti e sovrani, potevano sottoporsi all'impero di uno stesso magistrato e di un medesimo diritto. Lo stesso carattere religioso della le gislazione regia non può costituire un argomento in contrario ; perchè il primitivo populus diRoma era composto di persone esperte anche nei riti e nelle cerimonie religiose , che ciascun capo di fa miglia compieva nel seno della propria famiglia . Del resto a voler anche ammettere, che quella parte della legislazione regia , la quale ha un carattere esclusivamente sacro, potesse , fin da quella prima epoca, essere lasciata intieramente alla elaborazione del collegio dei pontefici ; egli è però certo, che l'altra parte invece, la quale ha un carattere civile, giuridico e politico ad un tempo, dovette essere il frutto del concorso dei varii organi della costituzione primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la forma di vere e proprie leges rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui questa procedura regolare 326 non sarà stata effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al modo stesso , che , secondo gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua parte la procedura relativa alla nomina dei re : ma in man canza di prove in contrario, di fronte all'attestazione concorde degli autori, che non avevano alcun motivo di alterare le cose , e cono scendo il carattere del popolo, osservatore costante della legalità e facile a commuoversi, quando questa non fosse osservata, non si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e proprie leggi, anche in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a cose di pubblico e di privato interesse (1). 265. Pur ammettendo che in questa primitiva condizione di cose , la maggior parte dei rapporti giuridici abbia continuato ad essere lasciata all'impero della consuetudine e del costume, dovevano perd anche esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra le varie comunanze, presupponevano una unificazione ed un coordina mento , che doveva di necessità operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si chiamavano publicae, perchè erano la base della comune convivenza civile e politica . Che anzi dovettero esser queste leges, che costituirono il nueleo primitivo di quel ius quiritium , che cominciava a sceverarsi dal fas e dai bonimores. Siccome perd questo ius venne formandosi « rebus ipsis dictan tibus et necessitate exigente » ; cosi esso non potè formarsi di un tratto , nè essere fin dapprincipio un organismo coerente, che provvedesse a tutti i rapporti; ma dovette lasciare la maggior parte di questi rap porti alla consuetudine, limitando l'opera sua a concretare quei prov vedimenti, la cui necessità facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza civile venivasi svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e sopratutto le forme di questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal periodo anteriore : ma il fatto stesso , per cui essi erano trapiantati in terreno diverso , dovette far sì, che essi mutassero  carattere . 266. Se intanto potesse essere lecito anche solo tentare di rico struire il processo , con cui dovette formarsi il primo nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base alla formazione progres siva della città , crederei di poter rich iamarlo alle seguenti leggi fondamentali : ( 1) Liv., I, 8 . - 327 l• Un primo effetto di questa grande trasformazione, per cui i capi e membri delle varie genti venivano ad essere cittadini della medesima città , dovette esser quello di far trasportare nella città e nei rapporti fra i quiriti quelle istituzioni e quei concetti giuridici, che si erano formati nei rapporti fra le varie genti e specialmente fra i capi delle medesime. Tutti i concetti pertanto, che apparte nevano ai iura gentium , diventarono proprii del ius quiritium ; cosicchè il commercium , il connubium , l'actio, da rapporti fra le varie genti e i loro capi, diventarono rapporti fra i quiriti ; donde la spiegazione di quelle solennità di carattere gentilizio, che ancora si mantengono nel diritto primitivo diRoma. Processo più naturale di questo non sarebbesi potuto seguire , poichè colla formazione della città i capi di famiglia e delle genti, che prima erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in quiriti, e quindi il loro diritto di internazionale ed esterno, quale era prima, doveva cambiarsi in di ritto quiritario ed interno. 2º Una seconda conseguenza poi dovette essere eziandio che questi concetti, così trapiantati dai rapporti fra le genti, nei rapporti fra i quiriti o membri della stessa civitas, i quali prima avevano solo avuto uno svolgimento estensivo, poterono ricevere uno svolgimento inten sido , e cambiarsi in altrettante propaggini, da cui scaturirono le varie forme del ius quiritium . Dal connubium potè uscire il ius connubii con tutte le conseguenze delle iustae nuptiae, che consistono nella manus, nella potestas, nel mancipium , nella successione e nella tutela legittima: le quali naturalmente non poterono in questo periodo ispi rarsi, che ai concetti dell'organizzazione gentilizia. Il commercium parimenti si esplico nel ius commercii, con tutte le sue varie gra dazioni del comprare e del vendere (mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e del poter ricevere o disporre per testamento (testamenti factio). Così pure l'actio sacramento , che era una procedura fra i capi di famiglia indipendenti, nel seno delle tribù , potè conver tirsi in una procedura fra quiriti , e siccome eravi un magistrato , a cui si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si manteneva distinto dall'iudicium , così fu naturale, che accanto all'actio sacra mento si svolgesse eziandio la iudicis postulatio (1). 3º Infine una terza conseguenza di questa trasformazione dovette (1) È da vedersi in proposito quanto si disse nel capitolo precedente nº. 244, pag. 298 e segg. 328 consistere in ciò , che le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo staccate dall'ambiente , in cui si erano formate, si trovarono libere dai vincoli , in cui prima erano trattenute , e poterono cosi ricevere tutto lo svolgimento , a cui le portava il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse si ridusse in certo modo ad essere una concezione astratta ; e potè così essere sottoposta a quegli speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii della logica giuridica (iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere un'astrazione il quirite, perchè esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo considerato sotto l'aspetto speciale dei diritti e delle obbligazioni, che gli incombono come cit tadino ; fu un ' astrazione il potere giuridico (manus) attribuito al medesimo, in quanto che esso è concepito senza le limitazioni esi stenti nel costume. Di qui la conseguenza, che egli come capo di famiglia ( pater familias) giuridicamente la riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis sulla moglie , sui figli, sugli schiavi; come proprietario può disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose ; come creditore può appropriarsi e perfino dividere il corpo del debitore . Per tal guisa tutto il diritto primitivo di Roma è già il frutto di un'astrazione, cioè di una specie di isolamento dell'elemento giuridico dagli altri elementi della vita sociale, per cui ogni istituzione può ricevere quello svolgimento logico e dialettico, che costituisce la ca ratteristica del diritto romano, e ne costituisce la superiorità sopra tutte le altre legislazioni. Il diritto romano infatti, fin dai proprii esordii, è uscito bensi dalla realtà dei fatti, ma fece ben presto astrazione da essi e diede uno svolgimento logico alle proprie istitu zioni, le quali perciò diventarono istituzioni tipiche , e poterono essere portate dapertutto , perchè la logica è di tutti i popoli e di tutti i tempi. Fu mediante questo processo ; che i Romani poterono essere per il diritto ciò , che i Greci furono per l'arte, e questo segreto essi già lo possedevano fin dalla prima formazione della propria città , e continuarono sempre ad applicarlo, senza curarsi di darne nelle opere loro una spiegazione, che sarebbe stata inutile, perchè trattasi di un genio originario e nativo, che può essere intuito , ma non insegnato . Tutte queste conseguenze del nuovo stato di cose poterono rica - varsi senza bisogno di apposita legislazione , per opera di una logica istintiva e naturale , sentita universalmente da un popolo, che mi rava diritto al proprio scopo , e che, poste le premesse, sapeva deri varne le conseguenze . 329 267. Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a cui potevano esistervi divergenze nelle istituzioni particolari delle varie tribù, ed in questi argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap parire le traccie di una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci pervenuta nelle sue fattezze genuine : ma che intanto non merita punto di essere senz'altro respinta, come una creazione di tempi posteriori ( 1). Essa porta in sè un'impronta efficace di verità , in quanto che si presenta con un carattere del tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione gentilizia , e le cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola religiosa ; del che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo insieme i rottami, che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che si riferisce al diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. § 5 . – La famiglia e la proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto privato l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle reliquie delle leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia . È evidente, che essa riducesi in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione gentilizia , che viene ad essere portato nel seno della città . Ma intanto separata dall'orga nizzazione gentilizia , in cui erasi formata , e dalla quale era tempe rata in qualche parte, presentasi con linee così rigide e precise , da riuscire a noi pressochè incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in cui dovette formarsi . Dei varii modi, in cui questa famiglia potrà essere fondata, le leggi regie non ne ricordano che un solo , e questo è la cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale già conosciuta probabilmente alle genti delle varie tribù può benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e riconosciuta per il matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice , che Romolo avrebbe condotto all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe stabilito : « uxorem , quae nuptiis (1) La vera causa di questa critica , che tutto nega, relativamente alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto, che il popolo fondatore della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho cercato di dimostrare il contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile, che un popolo, che si presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già elaborati, fosse in condizione tale da prendere una parte effettiva , anche nella formazione delle leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti convenisset, commu nionem cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum » . Noi ab biamo qui il matrimonio primitivo , esclusivamente patrizio , accom pagnato da una cerimonia religiosa ; esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla testimonianza di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è ripartita ciascuna tribù primitiva ; produce la comunione delle cose divine ed umane; e intanto riduce in certo modo la moglie in posizione di figlia, rimpetto al marito ; il che però non toglie, che essa gli sia compagna nel culto domestico . È al marito , che appartiene la giurisdizione sulla moglie pei delitti, che essa compie ; anzi due fra essi, l'adulterio ed il bere vino (per causa che proba bilmente può riferirsi a qualche rito religioso ) possono essere puniti di morte : ma egli deve perciò essere circondato dal tribunale dome stico , il quale è ancora una istituzione eminentemente gentilizia (1). Il vincolo matrimoniale , stretto coll'intervento della religione, è per per sua natura indissolubile , in quanto che non potrebbe compren dersi, che una moglie, che è figlia al marito, possa far divorzio da esso . Di qui una legge, che Dionisio chiama dura , la quale nega alla moglie difar divorzio dal marito ;ma intanto questi può ripudiarla ,ma solo per cause determinate, quali sarebbero il venefizio commesso a danno della prole , la sottrazione delle chiavi e l'adulterio . Che se il marito abbandoni la moglie per altre cause, dei suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà alla moglie, l'altra sarà sacra a Cerere : che se egli la venda, dovrà essere immolato agli dei infernali (2 ). Qui pertanto il potere del marito sulla moglie ha ancora tutti i caratteri del periodo gentilizio ; ma le cerimonie religiose, che forse potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono ad essere unificate e son tutte ridotte alla confarreatio ; son fissati i casi per il ripudio ; e sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla (1) Le disposizioni attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci furono conservate da Dionisio , II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns, Fontes, pag . 6 . (2) Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium , è ricordata da PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente l'argomento, già co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico matrimonio per confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium , nel senso vero della parola ; il quale dovette avere origine dal divertere della moglie dalla casa del marito nel matri monio sine manu , e poi si concretò in una istituzione giuridica , che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr. Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit, pag . 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume un carattere più sacro , la quale è cosi concepita : « paelex aram Iunonis ne tangito ; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito » : la qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da Festo , secondo cui suonerebbe la donna « quae uxorem habenti nubebat » ), significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna non poteva entrare nella casa , ed accostarsi all'altare di Giunone, protettrice appunto delle giuste nozze ; in caso contrario doveva sacrificarsi una piacularis hostia (agnum foeminam caedito) (1). 269. Lo stesso è a dirsi della patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva tutta la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio , e la facoltà di venderlo fino a tre volte per trarne profitto ; alla qual legge se ne aggiunge un'altra di Numa, secondo cui il padre , che abbia consentito alle nozze confar reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose divine ed umane, più non è in facoltà di venderlo . Devono poi i padri educare tutta la prole maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte niun feto minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato , nel qual caso deve prima essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo operato ; disposizione questa , che richiama ancora le consuetudini proprie della vita patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in giudici ed in consi glieri (2). Alle leggi relative a quest'ordine di idee può eziandio ri chiamarsi quella , attribuita a Numa, secondo cui se una donna fosse morta in istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non se fosse estratto il feto : alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con molta verisomiglianza , quel passo di lex regia , conserva toci da Paolo Diacono, secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto (3). (1) Festo, v ° Paelices ( Bruns, Fontes, pag. 350). Tutti i passi relativi possono vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig , 1876 , § 2º, pag . 8. (2 ) Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà , sono ricordate da Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15 ; II , 27. Quella attribuita a Numa è pur ricordata da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel Bruns, Fontes, pag. 7 e 9. (3) A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO , L. 2, Dig. (11, 8) : mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº aliuta . Il Voigt ritiene doversi combinare i due frammenti in una sola legge, Über die leges regiae, 8 13, pag. 75 . 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento religioso e politico della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la protezione del fas , in quanto che i figli, i quali maltrattino i genitori, e la nuora , che venga a cattivi trattamenti verso la suocera , mettendo cosi in non cale il rispetto dovuto all'età , incorrono nella capitis sacratio ; la quale è pure la pena, in cui incorre il patrono , che faccia frode al proprio cliente, e ogni altro, che venga meno alle disposizioni re lative all'ordinamento della famiglia (1) . 270. Per quello poi, che si riferisce alla proprietà , nulla ci fu con servato circa il carattere intimo della medesima ; ma dalle disposi zioni, che Dionisio attribuisce a Romolo relativamente alla clientela , e dall'incarico, che secondo Festo sarebbesi da Romolo affidato ai patres o senatori, di fare assegni di terre agli uomini di bassa condizione (tenuioribus), è lecito di inferire, che la proprietà con tinua in parte ad avere un carattere gentilizio , e che in questo periodo ancora si mantengono quelle proprietà o possessioni collet tive, sulle quali si possono fare degli assegni ai clienti (2). Tuttavia nell'interno della città vediamo già comparire netta e decisa l' isti tuzione della proprietà privata . In virtù di una legge attribuita a Numa, quel dio Termine, che un tempo separava i confini fra i ter ritori delle varie genti e delle varie tribù , viene a ripartire e a consacrare la proprietà fra i quiriti, i quali hanno già una proprietà individuale e privata, rappresentata dal proprio heredium . Per tal modo la terminazione, che prima esisteva fra i territorii gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si fa nel ius foeciale alle divinità patrone dei confin ., viene a cambiarsi anch'essa in una istituzione quiritaria , e si introduce così la terminazione fra le proprietà private . Tutti quindi son tenuti a porre dei termini al proprio campo, e questi sono consacrati a Giove Termine ; colui, pertanto che li ri. muova o li trasporti da un sito all'altro , sarà soggetto alla capitis sacratio (3 ) . ( 1) Così,ad esempio, secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, pag. 7 , nota 6 , una legge, attribuita a Tullo Ostilio, sarebbe così concepita < si parentem puer verberit, ast olle (ille) plorasset, puer divis parentum , sacer estod ; si nurus, sacra divis pa rentum estod . » Per i divi parentum si intendono poi i diï manes, Cfr. Voigt, Op. cit., § 7 , pag. 41. (2) Dion., II , 9 ; Cic., De rep., II, 9; Festo, vº Patres (Bruns, pag. 372). (3) Dion., II, 74 ; Festo, pº Termino. Cfr. Voiat, Op. cit., $ 9, pag . 48. 333 Certo queste son tutte disposizioni di legge, che consacrano isti tuzioni, che vivevano nella consuetudine e nelle tradizioni; ma punto non ripugna , che, trattandosi di genti, le cui istituzioni nei partico lari potevano essere diverse , le medesime abbiano anche potuto fare argomento di disposizioni legislative , elaborate dai pontefici , pro poste dal re, appoggiate dal senato , ed approvate dalle curie . Quanto alla sanzione religiosa, che accompagna ciascuna legge, essa si spiega facilmente , se si tiene conto del carattere religioso del popolo delle curiae , il quale esce allora allora dall'organizzazione gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano rivestite di un ' aureola religiosa e sacra . Solo ci resta a vedere quali siano le traccie , che ci pervennero della legislazione penale primitiva di Roma patrizia , alla quale occorre una trattazione speciale per il peculiare svolgimento, che ebbe a ri cevere, e per le molte discussioni, a cui diede occasione. § 6. – Le origini della legislazione criminale in Roma e specialmente del parricidium e della perduellio. 271. Per quanto la legislazione criminale primitiva di Roma sia quella parte del suo diritto , dicui giunsero a noi più scarse reliquie, tuttavia anche queste poche sono tali, che ricomposte possono ad ditarci, come anche in essa siasi effettuato un lento e graduato pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla convivenza civile e politica . Anche il delitto nel periodo regio ritiene ancora quel carattere, che aveva assunto presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro gli uomini e contro l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è poi sopratutto un'offesa contro la divinità . Chi l'abbia com messo di proposito (dolo sciens), di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla consecratio bonorum ; mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza (imprudens) egli e la famiglia di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia alla famiglia dell'of feso (1). Ciò vuol dire , che il concetto gentilizio del delitto e della ( 1) La più notabile distinzione fra il reato doloso e colposo, che occorra nella legislazione regia , è quella che si desume dalle due leggi attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti termini: « In Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di peso nel seno della città . Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a cui accennano le leges regiae ; in quanto che non parlasi nè del furto ,nè dell'ingiuria, nè di quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente preveduti dalle XII Tavole. Ciò non significa certamente , che questi misfatti fossero ignoti, nè che i medesimi fossero impuniti : ma soltanto, che le leges publicae (quelle almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato alla pubblica giurisdizione la repressione di essi ; ma avevano continuato a lasciarli alla prosecuzione dell'offeso , che doveva perciò seguire le pratiche tradizionali, formatesi nelle tribù , le quali già avevano ricevuta una consacrazione religiosa ( 1). 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati nelle leges regiae , già può introdursi una distinzione ; sonovi dei delitti, che possono essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie , comprendendo anche fra questi quello contro la proprietà , consistente nella rimozione dei termini; altri , che sono contro la religione , quale sarebbe l'incesto della Vestale e l'abbandono dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il nomedi crimina publica , in quanto che, fin dagli inizii della città , sonovi autorità incaricate dalla pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi mantiensi ancora nella propria integrità l'auto rità e la giurisdizione del capo di famiglia, il quale in certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale domestico ; come pure sono san cite contro di essi pene di carattere sacro e religioso , comela capitis sacratio e la consecratio bonorum . Quanto ai reati contro la religione, appare invece la giurisdizione dei pontefici ; giurisdizione, che alcuni autori, fondandosi sul carattere sa crale del delitto e della pena in questo periodo , avrebbero creduto, che dovesse essere prima estesa in più larghi confini. Il carattere, che ab biamo trovato nella istituzione del collegio dei pontefici, per cui esso appare come depositario e custode delle tradizioni gentilizie, ci impe disce di seguire una tale opinione, in quanto che il carattere sacrale del delitto e della pena in questo periodo non è creazione dei pon ut si quis imprudens occidisset hominem , pro capite occisi, agnatis eius in contione offerret arietem » . Bruns, Fontes, pag. 10. Cfr., per ciò che si riferisce all'omicidio involontario, il Voigt, Op. cit., § 11, pag. 64 a 72. (1) Cfr. MUIRIEAD , Histor. Introd., pag . 54 a 55 . 335 - tefici, ma è un carattere proprio di tutte le istituzioni gentilizie, che si mantiene ancora nel la città esclusivamente patrizia. Del resto la sola giurisdizione criminale, che gli antichi scrittori attribuiscono ai pontefici, è quella relativa alle Vestali, la quale per giunta sembra essere una conseguenza della patria potestà , di cui essi sono rive stiti riguardo alle medesime. Sono quindi i pontefici, che secondo una legge, che la tradizione attribuisce a Tullo Ostilio, giudicano dell'in costo delle Vestali, il quale è considerato come un delitto , che da una parte contamina i sacra publica, e dall'altra provoca la ven detta di Vesta sopra il popolo. Quindi da una parte sacrificavansi alla dea la Vestale , nei tempi più antichi col gettarla nel fiume e più tardi seppellendola viva, e l'amante, flagellandolo fino alla morte , e dall'altra si facevano sacrifizii di purificazione per la città . Da questo caso in fuori non trovasi traccia di giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai pontefici ; nè vi ha motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal momento che presso i romani pareva già enorme questo potere accordato a una magistratura sacerdotale ( 1). 273. A noi però importa sopratutto di cercare come siasi venuto svolgendo il concetto del pubblico delitto ; perchè è con esso , che incomincia l'esercizio del magistero punitivo, per parte dell'autorità sociale . Già ho accennato altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma quanto ai misfatti non presentasi svolta fin dai propri inizii ; ma viene invece estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte alla giurisdizione domestica del capo di famiglia . Qualche cosa di analogo accade eziandio nello svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità , compariscono coi nomi di parricidium e di perduellio ; e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero istituiti due speciali magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum viri perduellionis ; fra i quali intercede perd questa differenza, che mentre i primiappariscono quali magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere nominati, caso per caso (2 ). (1) Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain , I, pag. 187 . (2 ) Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26 , relativo al fatto dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per quel caso dal re , mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti, create « ut de delictis capitalibus quaererent » . 336 Son pochi i passi, che si riferiscono all'uno e all'altro misfatto , donde la conseguenza, che non solo gli autori moderni, ma anche gli storici antichi attribuiscono significazione diversa ai due vocaboli. È noto infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole di parricidium l'Orazio, uccisore della propria sorella , Tito Livio parla invece di perduellio (1). In questa condizione di cose occorre ripren dere in esami e passi di antichi autori, che sono a noi pervenuti ; esa minare le opinioni principali emesse dagli autori in una questione, che ha una copiosissima letteratura ; e poi cercare di ricomporre i testi che si riferiscono all'argomento per ricavarne il processo logico e storico , che dovette essere seguito nella configurazione di questi primitivi misfatti. 274. Quanto al parricidium , i pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una certa quale meraviglia, per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva lasciato senza pena e neppur rite nuto possibile il parricidium , nello stretto senso della parola, avesse poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di parricidium , il che sa rebbesi pur fatto da Numa, al quale si attribuisce una legge, secondo cui: « si quis hominem liberum ,dolo sciens,morti duit , parricidas esto » . Quanto poi alla perduellio si sa con certezza, che questo vocabolo deriva certamente da perduellis, che in antico significava il nemico, con cui erasi in guerra, e che il medesimo comprendeva, tanto il tradimento verso la patria, mediante pratiche tenute col ne mico esterno di essa , tradimento, che suole essere indicato special mente col vocabolo di proditio ; quanto eziandio le perturbazioni ed i sovvertimenti contro la cosa pubblica , tentati all'interno, per i quali era specialmente adoperato il vocabolo di perduellio. Circa quest'ultima però abbiamo una descrizione abbastanza completa di un primitivo processo per causa di perduellio in Tito Livio , il quale in questa parte, come ben nota il Bonghi, « sembra dare al proprio racconto un colorito particolare e diverso dal rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi espositore preciso delle forme antiche e solenni, con cui sarebbe seguito questo primitivo giu dizio » ( 2 ). Furono questa scarsità di passi e questa incertezza negli antichi au tori, che provocarono molte indagini per spiegare il fatto, per cui negli (1) Dion ., III, 22; Festo, vº Sororium tigillum ; Livio , I, 26. ( 2) Liv., 1, 26 ; Bongai, Storia di Roma, I, pag. 102 e pag. 129 e segg . 337 inizii col vocabolo ili parricidium sarebbesi indicato ogni omicidio , ed anche le cause, per cui gli antichi autori in un medesimo fatto poterono ora ravvisare il carattere di parricidium , ed ora quello di perduellio (1). Fra le molte congetture fattesi in proposito sono degne di nota sopratutto le seguenti : quella messa prima innanzi del Gebauer, ed ora anche seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori tedeschi, secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere paricidium , cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari o di un eguale (2 ) ; quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui il vocabolo parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un congiunto, ossia un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina dal Brüner e poi seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe dapprima da molti altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi uomo libero (4 ) ; e da ultimo quella sostenuta , fra gli altri ,dalWalter e dal Maynz, secondo cui idue termini di parricidium (1) La questione non è recente, ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri dal Sigoxio, De iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono vedersi citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale , Parte speciale, vol. I, pag. 137 , $ 1138 . (2 ) Il primo, che sostenne « paricidam esse, qui parem occidit fu il GEBAUER, Dissertationes academicae , vol. I, pag. 64, § XI, il quale si fondava sul detto di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi, « omnes homines esse aequales. » L'opinione era nuova , e fu accolta come osserva il CARRARA, op. e loc. cit., pressochè universalmente in Germania . Di recente poi il Voigt aggiunse a questa opinione anche il peso della sua autorità : Über die leges regiae, pag. 11 a 64, e sopratutto a pag .57, nota 130. L'opinione stessa fu seguita fra noi anche dall'ARABIA , Princ. di diritto penale , III , pag. 258. Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso l'espressione « paricidas esto » significasse « capital esto » , cioè condannabile a morte ; ma tale opinione non trovò seguito (Op. cit., § 1139). (3) Tale fu l'opinione messa innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte. Casellae, 1839, pag. 433-466 ; e dal Rein, Das Crimi nalrecht der Römer. Lipsiae, 1844, pag. 401 e segg. (4 ) L'autore, che a mio avviso sostenne con grande erudizione, e con un senso vero di romanità, quest'opinione è il BRÜNER in una dissertazione col titolo « De parricidii crimine et quaestoribux parricidii » , letta il 2 marzo 1857 e riportata negli Acta societatis scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, pag. 519 a 569. Quest'o pinione è anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea : « De parricidii notione apud antiquissimos romanos », Bonnae, 1869, notevole per la rassegna, che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma . 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro pareggiati, e significherebbero qualsiasi delitto , che per sua natura sia tale da chiamare la pub blica vendetta , e da eccitare una ripulsione universale ( 1). 275. Or bene con tutta la riverenza , che deve certo aversi per un autore cosi benemerito degli studii sul diritto primitivo , quale è il Voigt, non ritengo, che possa adottarsi l'opinione da lui seguita , secondo cui parricidium significherebbe il paris excidium . Anzi. tutto è malagevole di trovare negli esordii di Roma l'idea di questa parità e di questa uguaglianza giuridica , in quanto che, se si tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre persone, che abbiano un'assoluta parità di diritto. Vi ha di più , ed è che, mettendo il concetto della parità a fondamento della figura criminosa del pa ricidium , ne verrebbe come conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe paricidium , quando un pari uccidesse un altro pari, cioè quando cosi l'uccisore che l'ucciso fossero in condizioni uguali fra di loro ; il che certo non può richiedersi. Infine male si comprende, come questa figura primitiva di reato si venga foggiando sopra un con cetto puramente astratto, come è quello della uguaglianza , mentre vediamo, che tutte le altre distinzioni di reati, ed anche le confi gurazioni giuridiche di altra natura, che compariscono nell'antico diritto , vengono piuttosto ad essere determinate da circostanze este riori di fatto , come accade dal furtum manifestum , nec manife stum , conceptum , ed oblatum , ed anche della distinzione della res mancipii e nec mancipii, come pure delle mancipationes, vindi cationes, e simili. Cið anche per il motivo, che nel linguaggio pri mitivo si passa di preferenza da una significazione fisica ad una mo rale , o da una concreta ad un astratta , di quello che non accada il contrario . Quanto al fatto , che il vocabolo parricidium e parricidas in certi antichi codici trovisi scritto paricidium e paricidas, non può avere importanza, quando si consideri, che nelle leggi arcaiche trovansi soventi le lettere semplici, a vece delle doppie, come lo di mostra l'antico Senatusconsulto de bacchanalibus » in cui occor rono le parole esent, velent, bacanal per essent, vellent, baccanal ; quest'argomento del resto è anche distrutto da ciò , che son vi pure (1) Questa opinione enunziata prima dal WALTER , Storia del diritto romano . Trad . BOLLATI, 8 766 , vol. II, pag. 450, fu di recente anche sostenuta dal Maynz , Introd ., $ 18, 1, pag. 55. Essa però fu vigorosamente confutata dal Koestlin : Die perduellio unter der römischen Königen . Tubing, 1841, pag. 10-14 . 339 dei codici, in cui occorrono le parole patricidium e patricidas, le quali attestano cosi anche la materiale derivazione dei due vocaboli da patris excidium . Vero è, che anche, fra gli antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano accennare a questa origine del vocabolo ; ma non è punto improbabile, che, allorquando la figura del parricidium aveva già presa altra significazione nella lex Pom peia de parricidiis , siasi anche allora cercato di spiegare nello stesso modo, cioè col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo primitivo, con cui erasi indicato l'homicidium (1). 276. Non può del pari ammettersi, che il vocabolo parricidium abbia significato dapprima un parentis excidium , ossia l'uccisione di un congiunto in certi limiti di parentela , e che poscia siasi esteso a significare l'uccisione di qualsiasi concittadino , anche per quella specie di parentela , che viene ad esservi fra i cittadini di una me desima città. Per verità , quando così fosse, il vocabolo di parrici dium avrebbe avuto fin dapprincipio una significazione, che non cor risponde alla parola , in quanto che , come nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva del linguaggio, per indicare l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata piuttosto l'espressione di parentici dium , che non quella di parricidium , in cui compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre ( 2 ). Lo stesso è a dirsi dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini della città, significato l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo più tardi sarebbesi estesa all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione, sostenuta con logica ed erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più probabile, e quella che meglio spiega i passi a noi pervenuti, quando non contrastasse colla testi monianza di Plutarco : singulare est, quod Romulus, cum nullam in parricidas statuerit poenam , omne homicidium appellavit parricidium . Qui infatti si direbbe, che Romolo fin dagli inizii (1) Lo scrittore latino, che sembra far derivare l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed ucciso, sarebbe ISIDORO, De orig ., X , 225, il quale scrisse : « parri cidium et homicidium , quocumque modo intelligi possunt, cum sint homines homi. nibus pares » ; ma qui è evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine del vocabolo, ma solo di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile all'epoca sua . Del resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN, Das altrömische parricidium . Kiel, 1841, pag. 59. (2) Cfr. Voigt. Op. cit ., § 10, pag. 57, nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium ogni omicidio , e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo la for mazione della città , la parola fosse stata ristretta a significare l'uccisione di un padre delle genti patrizie (1). 277. Resta ancora l'opinione sostenuta fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e perduellio sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più gravi misfatti, che si potessero commettere nella comunanza. Vero è , che soventi nel lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli sintetici, e comprensivi, che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in guisa da espri mere solo più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto primitivo ; ma qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due concetti si svolgono in certo modo paralleli l'uno all'altro , ei due crimini sono perseguiti da ufficiali diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due vocaboli, anche questa viene ad essere completamente diversa ; poichè, per formare la figura del parricidium , si riguarda alla persona dell'offeso , mentre, per formare invece quella della per duellio , si parte invece da quella dell'offensore, ossia dal vocabolo di perduellis, che nelle origini significava nemico . Nel parricidium si ha un'offesa contro un privato, che è sottratta alla privata per secuzione, ed attribuita alla pubblica autorità ; mentre nella per duellio compare già personificata la stessa comunanza collettiva , la quale, trovando nel proprio seno chi cerca di comprometterne la sicu . rezza, scorge in esso una somiglianza coi nemici esterni della città , e perciò lo qualifica col nome stesso, che darebbe al nemico , con cui trovisi in aperta ostilità . 278. Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che compariscono in Roma primitiva , possano essere spiegate in modo assai più verosimile, quando si tenga conto , che la città risulto dalla confederazione delle tribù , e che percid, colla sua formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù , vennero a trapiantarsi nella città , colla differenza, che quei concetti, che prima erano intergen tilizii , per cosi esprimersi , diventarono invece concetti interqui ritarii, e ricevettero cosi una significazione diversa , per il diverso punto di vista, sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è provato ( 1) PLUTARCO, Romulus, 22. - - - 341 - da questo che, appena Roma è fondata, già presentansi formati così il concetto del parricidium , che quello della perduellio ; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa , che queste due figure di reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia , e che il parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia o di una gente : la quale uccisione costituiva l'unico misfatto , che non dipendesse dalla giurisdizione domestica , e che dovette per il primo essere punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di guerra fra le genti ; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità fra gente e gente (1). Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque partecipasso alla comunanza , tanto più che i partecipi di essa dapprima erano veri padri, e che la perduellio , mentre prima significava le ostilità fra le genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città, poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini. Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia , ma anche altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene cosi ad essere natural mente spiegato ciò , che ci attesta Plutarco: che Romolo , senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia mato ogni omicidio parricidium : in quanto che quello, che era parri cidio nei rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città ; al modo stesso , che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico dell'intiera comunanza, nel seno della città . Solo potrebbe notarsi, che non si deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione ad un'altra : ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu pressochè in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che simili trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual volta hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un caso ad un altro ; come lo dimostra il ius Latii, che (1) V. Festo, vº Hostis (Bruns, Fontes, pag. 340). 342 trovato pei latini fu poi dai Romani applicato a popoli ed a genti, che non avevano più nulla a fare con essi. Era poi naturale, che quell'estendersi, che aveva luogo nella significazione del parricidium , a misura che la figura del cittadino e quella dell'uomo libero si ve nivano sostituendo a quella del padre, dovesse pure avverarsi quanto ai quaestores parricidii, il cui compito si viene così allargando, finchè più tardi il vocabolo apparisce disadatto , ed in allora sembra siansi sostituiti ai medesimi i tres viri capitales (1). 279. Intanto però nulla potè impedire, che, accanto alparricidium pubblicamente perseguito e che mutasi a poco a poco in homicidium , potesse ancora sussistere la configurazione tradizionale del massimo dei misfatti, che consiste nell'uccisione di un genitore, operata per mano di un figlio o di una figlia . La sua stessa enormità ed infre quenza spiega come negli esordii Romolo, al pari di Solone, non l'abbia contemplato : ma intanto , se per avventura accadeva, veniva ad essere punito con pene tradizionali, che cogli accessorii stessi, da cui erano accompagnate, cercavano di simboleggiare l'enormezza del delitto . Fu soltanto allorchè questo triste misfatto diventò ab bastanza frequente per la corruzione dei costumi, che la punizione di esso, prima conservata nella tradizione e nel costume, penetro anche nella legge, che dovette anche punire il parricidium in senso stretto , dandogli tuttavia una significazione più larga, comprenden dovi cioè qualsiasi uccisione di un parente o di un congiunto in certi confini di parentela , e a tal uopo far rivivere l'antica pena tradizionale . Fu allora , che il vocabolo di parricidium abban donò il semplice omicidio per venire ad indicare l'uccisione di un parente e di un congiunto , il che appunto si fece colla legge Pom (1) Questa trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8 7. Parmi tuttavia , che essa fosse una naturale conseguenza dell'estendersi della competenza dei quaestores parricidië , e del processo seguito dai Romani nello svolgimento delle proprie istituzioni. Essa poi sembrami anche una conseguenza della diffinizione da taci da Festo: « quaestores parricidii, appellantur, qui solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum » . Non sarebbe poi qui il caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii del periodo regio, ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la medesima origine : ma ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla di improbabile, allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle funzioni, che erano talora affidate allo stesso magistrato. Cfr . al riguardo il Villems, Le droit public romain , pag. 303, nota 3. - 343 peia de parricidiis. Tuttavia , per il vocabolo di parricidium , alla significazione più ristretta , che esso viene ad assumere, sopravvive ancora un'altra significazione, non compiutamente giuridica , ma piut tosto oratoria , per cui parricidas viene ad essere chiamato il tradi tore della patria , l'oltraggiatore dei templi, quegli insomma, che col proprio delitto abbia violato uno di quei doveri, che hanno un ca rattere sacro per l'umanità ( 1). 280. Solo più resta a spiegare il fatto , per cui un medesimo de litto, quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria sorella , abbia po tuto essere qualificato come perduellio da Livio, e invece sia riguar dato qual parricidium da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo , che il fatto dell'Orazio, quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un carattere molto dubbioso . Da una parte eravi per certo l'uccisione di una persona libera , e quindi occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa ; ma dall'altra l'uccisione era stata commessa , allorchè il popolo seguiva in massa l'Orazio vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe stata da lui inflitta , come pena contro coloro , che piangevano la morte di un nemico della patria . L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria, aveva usurpato un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel momento aveva operato, come un perduellis , come una persona , che si era posta al disopra delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che plaude il vincitore, trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi, che, in base a quella distin zione fondamentale della primitiva procedura nel ius e nel iudicium , viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si tratti. In darno il padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione per trattarsi di un misfatto , che erasi compiuto da un suo figlio contro una sua figlia ; qui il re ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e quindi ritiene trattarsi di perduellio e conchiude : « duum viros, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem facio » . Dura era la legge relativa al perduelle , in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva avere avvolto il capo , essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a colpi di verghe, (1) Cfr. BRÜNER , Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che parla di parricidium patriae, civium , e scrive : « sacrum , sacrove commendatum , qui clepserit rapsitve parricida esto » . Cfr. CARRARA,Op. cit ., § 1139. 344 « intra pomoerium vel extra pomoerium » . Il tenore della legge era quindi tale, che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava al littore « colliga manus» quando l'Orazio propone appello al popolo , il quale l'assolve in memoria del fatto compiuto , e sotto l'e sortazione del padre stesso, che viene esclamando fra la folla , che la propria figlia era stata iure caesam . Tuttavia l'Orazio , anche assolto , fu costretto a passare sotto il giogo , donde l'erezione del tigillum sororium , e la sua gente, secondo Dionisio, dovette anche offrire una piacularis hostia in base alla legge di Numa, che prevedeva il caso di un omicidio commesso per imprudenza . Anche in ciò abbiamo un indizio del dubbio , che si era presentato intorno al carattere del misfatto, poichè il passare sotto il giogo era certo la pena, a cui era sottoposto il nemico vinto , e il sacrifizio dell'ariete era imposto alla gente per causa dell'omicidio involontario ( 1). 281. Tuttavia , a mio avviso , la ragione che rende più verosimile la spiegazione premessa intorno alle origini del diritto criminale in Roma, sta sopratutto in ciò, che in questa parte sarebbesi seguito quel medesimo processo , che abbiamo potuto constatare in tutto il rimanente. I concetti già elaborati nella tribù sono trapiantati dalla città, al modo stesso che più tardi dalla città saranno portati ed estesi a tutto il mondo conquistato , e per tal modo di concetti intergentilizii, diventano concetti quiritarii, al modo stesso che più tardi i concetti quiritarii, ricevendo un nuovo contenuto , di venteranno poi di nuovo universali e comuni a tutte le genti. (1) A questo proposito tolgo dal Bongai, Storia di Roma. I, pag. 132, nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra confermare l'opinione qui sostenuta : « Horatium , quum supplicium de sorore indemnata sumpsisset , eaque caede et ius regis ac populi imminuisset, visum esse adversus ipsam rempublicam adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo parricidii, teneretur » . Osserverò poi per mio conto la singolarità del fatto, per cui il perduelle, considerato come nemico interno, viene ad essere assoggettato alla pena stessa del nemico esterno, cioè fatto passare sotto il giogo, quasi in segno di sottomissione forzata alle leggidella patria ; altra prova , che non solo si tolse dall'ostilità esterna la figura della perduellio , ma in parte anche la pena, con cui essa era punita . Insomma perduellis significava il nemico nei rap porti fra le varie genti; ma quando i membri delle genti diventarono cittadini della stessa comunanza , diventò il nemico interno della medesima, e il nemico esterno si chiamò hostis . 345 Intanto anche in questa parte il parricidium e la perduellio sono due nozioni, il cui contenuto non è ancora ben determinato , ma al pari di tutti i primitivi concetti quiritarii appariscono come due co struzioni logiche, che si verranno svolgendo col tempo. Di qui con seguita , che il parricidium finirà per allargarsi per modo da com prendere tutte le offese contro il libero cittadino, che giungono a produrre la morte di lui: mentre la perduellio finirà per compren dere tutti i reati contro lo Stato , e quando questo si concentrerà nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen lesae maie statis. È quindi fino da quest'epoca , che comincia ad apparire la di stinzione fra il reato comune e il reato politico ; ed è fin d'allora , che si sente l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati politici propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la sintesi dei reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi i delitti privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio , diventerà poi fondamentale nella legislazione decemvirale . Intanto le cose premesse bastano per dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una giurisdizione e di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione criminale fu il risul tato di una sottrazione lenta e graduata , che l'autorità pubblica venne facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi pubblici delitti furono due figure di misfatti, che già preesistevano nell'organizzazione gentilizia , le quali, sebbene continuino ad essere indicate cogli stessi vocaboli, assumono però una significazione di versa . Di più anche nella primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza sintetica, che già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della costituzione politica, e che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi del diritto quiritario. Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che il diritto penale, allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una potente selezione ed elaborazione, fatta sui materiali somministrati dall'anteriore orga uizzazione gentilizia . I concetti del diritto primitivo di Roma sono altrettante sintesi potenti, in cui i fondatori della città cercano di scegliere e di con densare ciò , che hanno appreso nel periodo precedente. Ora più non ci resta che ad esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di diritto pubblico , che di diritto privato . - 346 CAPITOLO V. La condizione dei clienti e della plebe in Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose premesse dimostrano ad evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica di Roma, e quella legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque re, debbono ritenersi di origine esclusivamente patrizia , in quanto che si riducono in so stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali, trapian tati nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento , ed a prendere una nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a determinarsi quale potesse essere in questo periodo la condizione giuridica delle classi inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente distinti i clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si riferisce ai clienti , la loro posizione giu ridica , in questo primitivo stadio della città , non viene ancora ad essere modificata , in quanto che essi continuano sempre ad apparte nere più alla gente , che alla città : perciò essi, per quanto si può ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli obblighi fra patrono e cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio , continuano ad avere gli stessi diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il periodo gentilizio (1). Essi quindi non hanno ancora una vera proprietà , ma continuano a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di precario sugli agri gentilizii ; ne pos sono parimenti far valere direttamente le proprie ragioni davanti al magistrato della città , ma perciò debbono valersi della protezione e degli uffici del patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo primo stadio essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene un gran numero di autori (2 ). Le curie sono ( 1) Dion., II, 10. Cfr. quanto si espose intorno alla clientela, nel Lib . I, Cap. III , § 3º, pag . 46 a 52. (2) Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain , pag. 46 e seg . e del PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 48 e seg ., nota 2. Il prof. COGLIOLO nella sua nota nº d, pag. 50, non approva intieramente l'opinione del Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri, il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere state aperte a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in condizione subordinata , anche per il semplice motivo , che, quando così fosse stato , il numero dei clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto , avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in occasione di guerra anche i gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi dipendono ancora più dal cenno di esso , di quello che dipendano direttamente dallo Stato . Sarebbe in fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non possono ancora stare in giudizio, potessero concorrere direttamente alla elezione del re ed alla votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che abbiano interposto appello al popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana, che, ponendo il censo a base della partecipazione ai ca richi civili e militari, obbligherà i padri delle genti a fare conces sioni di terre in proprietà ai propri clienti, per avere cosi un ap poggio nelle votazioni dei comizii centuriati, ed è da quest'epoca che cominciano a sentirsi le lagnanze dei plebei, perchè i padri appoggiati dai loro clienti riescono a dominare le votazioni nei co mizii centuriati (1). In questo senso la costituzione Serviana fu quella , che diede il gran colpo alla clientela, e con essa alla organizzazione gentilizia, perchè da quel momento anche i padri furono tenuti a fare concessioni di terre in proprietà ai proprii clienti, i quali acqui starono così una indipendenza economica dai patroni, che fu anche il principio della loro indipendenza politica ; donde la conseguenza chemolti fra essi sono poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad appoggiare le pretensioni di essa . 284. Intanto peró la questione, la cui risoluzione è assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e giuridica di Roma primitiva , è quella relativa alla condizione giuridica della plebe sotto i primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico , che sotto quello del diritto privato . Il grande avvenire della plebe romana rese per gli storici di Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai tempi ( 1) Che le lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza, che essi re cavano al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati , appare dal seguente passo di Livo, II, 64: « irata plebs inesse consularibus comitiis noluit ; per patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et P. Servilius » . 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del foro, po tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è che essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa . Essi quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito , cioè inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia , malgrado quest'attestazione concorde, dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo della città patrizia . La loro opinione trovò favorevole accoglimento ; ma in questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato , che vi fu un tempo, in cui dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il dubbio , che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie . Che anzi, siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione, vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città . Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono sulle fonti le origini della città , come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una città esclusivamente patrizia , ed alla esclusione della plebe primitiva dal far parte dell'assemblea delle curie ( 1). 285. Non è qui il caso di entrare in discussioni erudite sull'argo ( 1) L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche seguita dal WILLEMS, Op. cit., pag. 47 e segg .; dal LANDUCCI, Storia del diritto romano, pag. 357 , nota nº 2 ; dal Peluam, Encyclop. Britann ., vol. XX, pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli argomenti in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare , che se la sua autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto quanto al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii dell'opera , col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e che lo studio delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo ed allo storico, ma è molto sterile per il giurisprudente » (pag. 4 ). Ciò spiega come l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto dello studio delle origini , sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò quell'argomento , come può scorgersi quanto alle origini della famiglia , della proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia , donde pro ceda . Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo , che intese a supplirvi colle proprie note. 349 mento ; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo , che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile , che la plebs abbia potuto essere ammessa , fin dagli inizii , alla civitas e quindi anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive , perchè un elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un piede di uguaglianza , in guisa da entrare a far parte della civitas e della curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche , erano anche corporazioni strette dal vincolo di una religione , chenon era ancora accomunata alla plebe . È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che è sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra essi fosse mai stato servo nè cliente , potesse diun tratto accettare un voto del tutto eguale con un plebeo , che poteva forse essere stato prima suo cliente o suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e non poteva indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle genti primitive, che non conoscendo altro vincolo , che quello del sangue, dånno sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano, che quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento completo del loro ordine colla moltitudine o folla , da cui si trovavano circondati. Questa pa rità , secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva essere am messa dal patriziato , nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale trovavasi ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a credersi, che il patriziato primitivo , fondatore della città , volesse per generosità accordare spontaneamente cid , che era ancora in condizione di negare, e che non concesse, che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto più improbabile , in quanto che la curia , come abbiamo dimostrato a suo tempo, era chiamata eziandio a deliberare sopra una quantità di affari, che si riferivano direttamente all'organizzazione domestica e gentilizia loro esclusivamente propria ; poichè il quirite in questo periodo da una parte guarda ancora alla gente , da cui esce, e dall'altra alla città , di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie , esso può essere facilmente spie gato . La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi ; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato ; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica , eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie . Quindi al modo stesso , che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi ; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potcui esce, e dall'altra alla città , di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie , esso può essere facilmente spie gato . La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi ; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato ; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica , eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie . Quindi al modo stesso , che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi ; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potuto essere am messa anche alle curie, la cui importanza non era più che religiosa. Un tal fatto venne certo ad essere possibile più tardi ; ma l'ammet terlo fin dagli inizii , è uno sconvolgere ed invertire ilmodo di pensare dell'epoca e l'ordine degli avvenimenti. Sarebbe infatti un fare co minciare l'unione del patriziato e della plebe dal partecipare ad una stessa corporazione religiosa ; mentre i fatti dimostrano, che questa fu l'ultima parte delle loro tradizioni, che si decisero ad accomunare alla plebe. Se quindi la plebe riuscì a penetrare nella civitas ciò non dovette essere mediante le curiae, che avevano ancora un ca rattere religioso , ed erano formate ex hominum generibus; ma bensi per mezzo delle classi e delle centurie , che avevano piuttosto un carattere militare, e si fondavano sulla proprietà e sul censo . Le cause , che cooperarono più tardi a ravvicinare i due ordini, furono sopratutto i comuni pericoli, che obbligarono la città patrizia ad arruolare nell'esercito i plebei, al modo stesso che dovette arruolare più tardi anche i liberti ; come pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure acquistata dalla plebe ed i conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e il patriziato ; ed è forse questo il motivo, per cui la costituzione Serviana assunse dapprima un carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al fatto allegato dai sostenitori del l'opinione contraria , che il vocabolo populus romanus quiritium abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può essere facilmente spiegato , in quanto non è questo il solo caso, in cui i Romani, man tenendo la parola, ne mutassero il significato . Del resto il vocabolo populus per Roma era una concezione e forma logica, al pari di tutte le altre concezioni giuridiche e politiche ; esso comprendeva l'uni versalità dei cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la plebe , finchè questa non faceva parte della città , cosi doveva comprenderla , allorchè essa , in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle centurie Serviane. 351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della storia primitiva di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in questo periodo essere la posizione della plebe in tema di diritto privato ; il qual compito ci è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto, come il ius quiritium , allorchè giunse al suo completo sviluppo , mentre in tema di diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum , che entrambi, a nostro avviso , furono dapprima negati alla plebe, in tema invece di diritto privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii . Quanto al primo di questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare con certezza , che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col patriziato ; il che però non significa , che essi non potessero contrarre fra loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di fronte al patriziato , produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta , è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii ( 1). Così avrei ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato , produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta , è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii ( 1). Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e può darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte ; ma ora il processo logico , che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di ogni informazione diretta , mi conduce ad affermare, che non dovette essere il ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra , è quello stesso diritto , che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium , nella larga significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium , suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede. Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere compiutamente ai loro bisogni : così non poteva dap prima essere il caso , che riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium , ossia quello di avere una proprietà , che poteva essere alienata, e il ius nexi, ossia il di (1) Tale è, ad esempio, l'opinione del LANGE , Histoir. intér. de Rome, I, pag . 61. 352 ritto di potersi obbligare, mediante il nexum . Le conseguenze pra: tiche nella sostanza potevano essere le stesse ; ma intanto la supe riorità delle genti e il vassallaggio della plebe venivano ad essere riconosciute . Ed è questo il motivo, che allorquando la plebe fu ammessa nella città , il nexum ed il mancipium , come accadde anche in tutto il resto , cessarono di significare dei rapporti fra le genti patrizie e la plebe, che le circondava , per diventare rapporti interni, e costituirono cosi i primi concetti quiritarii, comuni alle due classi. Più tardi però, anche questi vocaboli, che ricordavano una disugua glianza di condizione fra le due classi, apparvero disadatti, e nella successiva elaborazione del diritto quiritario furono sostituiti da altri (1) . Non può dirsi pertanto , che in questo periodo siasi già cominciata l'elaborazione di un vero ius civile , ispirato ad un concetto di ugua glianza fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere un diritto proprio delle genti patrizie , che parteciparono alla formazione della città, e che costituisce il primitivo ius quiritium ; ed un di ritto che governa i rapporti fra la città patrizia e la plebe, che la circonda , il quale si risente ancora delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo il motivo, per cui la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la sua esistenza giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo del diritto pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare , che influi potente mente su tutto lo svolgimento , che ebbe ad avverarsi più tardi, e merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato . ( 1) Non mi trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen narvi nel Lib . I, Cap. X , nº 160 , pag. 193 e seg., e perchè la prova delle cose qui enunziate apparirà anche più evidente , quando si tratterà della costituzione Ser viana e della sua influenza sul diritto privato di Roma. LIBRO III. Il diritto pubblico e privato di Roma dalla riforma Serviana alle XII Tavole. CAPITOLO I. La costituzione di Servio Tullio . § 1. – Cenno degli avvenimenti che la prepararono. 288. Colla venuta dei Tarquinii a Roma, si inizia nella medesima una trasformazione profonda, la quale potè in parte essere travisata dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata dall'amor patrio degli storici latini, ma i cui principali tratti si possono di scernere nelle serie degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata memoria . Fino a quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co stituire la città , avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le latine e le sabine, fra le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo ; mentre i Luceres non avevano somministrato alcun re , nè forse avevano avuto nella formazione dei primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di origine latina, la gente Tarquinia , di origine etrusca, ricca di capitali e numerosa per clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi quello stato, che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa è uomo abile ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio , ne guadagna per modo la fiducia , da diventare dopo la sua morte tutore dei figli di lui, o ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della propria vita tale un seguito, da essere assunto al trono , mediante il suffragio del G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e coll'autorità dei padri : « eum , scrive Livio , ingenti con sensu populus romanus regnare iussit » (1). Nè sembra essere il caso di supporre col dottissimo OldofredoMüller, che questa immigrazione di genti etrusche corrisponda alla supre mazia , che la città di Tarquinia avrebbe conquistata su Roma, su premazia, che gli storici latini avrebbero cercato di dissimulare (2 ): poichè le nuove genti appariscono in concordia con tutti gli ordini della città , e il capo di esse , chiamato con tutte le formalità al trono, raccoglie in effetto tutte le sue cure sulla patria novella, e l'arricchisce di pubblici edifizii, che allo splendore delle costruzioni greche ed etrusche sembrano associare quel carattere di grandiosità e di forza , che è proprio delle costruzioni latine. Sembra quindi più verosimile, che alcune fra le città etrusche in quell'epoca fossero pervenute a quel periodo di crisi, che occorre eziandio nelle città greche , durante il quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo minio fra i capi delle grandi famiglie , vengono ad esservene di quelle, che sono forzate a cercare altrove miglior sorte e fortuna. Per un tale intento offerivasi opportuna la città di Roma, la quale in quel periodo di tempo era ancora disposta ad accogliere nuove genti nei proprii quadri, e mentre da una parte , per la fortezza già sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare ad un grande avvenire, dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto allo splendore dei pubblici edifizii , sia quanto all'ordinamento mi litare e civile. Di più essa già conteneva nel proprio seno delle genti di origine etrusca , cosicchè la nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze, che spiegano l'appoggio e il seguito , che vi trovarono in breve la gente Tarquinia e il proprio capo (3). 289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma si manifestano ben tosto i segni di una trasformazione potente. - Infatti, secondo la tradizione, la sua popolazione viene ad essere come raddoppiata , ed il nuovo elemento sembra dare alla città un indirizzo mercantile , come lo dimostra il fatto, che dopo la dominazione dei Tarquinii ( 1) Liv., 1, 34 ; Dion., IV , 2 . (2 ) Müller O., Die Etrusker. Cfr . PANTALEONI, Storia civile e costituz .di Roma, pag . 134, ove si impugna appunto l'opinione del Müller. (3) L'opinione qui accettata è conforme a quella, che ho cercato didimostrare più sopra , relativamente agli aumenti nel numero dei senatori. Lib . II, cap. II, § 5 , nn. 212 e 213, pag. 258 e segg . 355 Roma è già in condizione di conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio , un trattato di navigazione con Cartagine (1). Mentre poi fino a quell'epoca Roma aveva ancor sempre conser vato il suo carattere primitivo di federazione fra diverse comunanze, con Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che potrebbe chia marsi di incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio avrebbe distribuito spazi intorno al foro , accið i privati vi potessero costruire le proprie abitazioni, e che in lui era già sorto il pensiero di cin gere la città di mura, adottando così il tipo delle città etrusche, le quali, essendo dedite ai commerci, solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie mura ( 2 ). A compir l'opera sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri mitiva fossero modificati, e che alle divisioni di carattere gentilizio se ne sostituissero altre di carattere territoriale e locale . Cid secondo la tradizione avrebbe pur tentato Tarquinio, quando non si fosse op posto il patriziato per mezzo dell'augure sabino Atto Nevio , osser vando che la primitiva città erasi fondata mediante gli auspicii, e che perciò i quadri di essa consacrati dalla religione dovevano essere mantenuti (3). Non vi fu quindi altro mezzo che di fare entrare il nuovo elemento nei quadri antichi, il che Tarquinio avrebbe cercato di conseguire : lº aggiungendo alle centurie dei cavalieri, altre centurie, che serbarono il nome antico, ma presero la deno minazione di Ramnenses, Titienses , e Luceres secundi; 2º ac crescendo il senato di cento nuovi senatori, che si chiamarono patres minorum gentium ; 3º raddoppiando il numero dei pontefici e degli auguri, e destinando anche alla custodia ed alla interpretazione dei libri sibillini i duoviri sacris faciundis , i quali, portati poscia a dieci e più tardi a quindici, finirono per cambiarsi in un collegio sacerdotale , che sovraintendeva și culti di provenienza straniera (4 ). (1) La memoria di questo trattato di navigazione, conchiuso nel primo anno della Repubblica , ci fu serbata da POLIBIO, III, 22, 24 , il quale l'avrebbe tradotto da un latino arcaico, che ai suoi tempi era già diventato difficile a comprendersi. (2) Liv ., I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a Tarquinio di aver già intrapresa la cinta , che prese poi il nome di Serviana. (3 ) Liv ., I, 36 ; Dion., III, 70, 72. (4 ) Dron ., III, 67; IV , 62. L'istituzione dei duoviri sacris faciundis ora è attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo svolgimento storico di questo collegio sacerdotale è da vedersi il Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination , Paris, 1882, IV , pagg. 286-317, come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris, 1886 , pag. 545 e segg . 356 Intanto anche la religione subì l'influenza del nuovo elemento , ma in proposito fu giustamente osservato , che la religione, importata da questa immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed arcano, che vuole essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece dell'influenza greca, come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e Giunone (1) ; il che sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una città etrusca , potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo la tradizione sarebbe stata Corinto ( 2 ). Della plebe quasi non si occupa la tradizione; ma si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine avevano ac cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così quella etrusca dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di commercianti, di uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad accrescere la plebe urbana (3). Intanto si accrebbero i mo tivi di ravvicinamento fra patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era divenuta un elemento indispensabile per rafforzare l'esercito , e la cooperazione della plebe urbana era anch'essa necessaria per compiere quelle opere pubbliche grandiose, che sono la caratteri stica di questo periodo della storia di Roma, e che erano natural mente richieste dall'ingrandirsi della città e dal nuovo indirizzo preso dalla medesima. 290. Le cose quindi erano venute a tale, che coll'ampliarsi della città , anche i quadri del populus dovevano essere allargati in guisa da potervi comprendere quella parte della plebe, che ormai per venuta a qualche agiatezza, ed affezionata al suolo da esso col tivato , poteva avere interesse all'incremento e alla difesa della città . Fu questa l'opera, che la tradizione ha attribuito a Servio Tullio ; altro re , che appare come trasfigurato dalla leggenda, la quale probabilmente ha finito anche qui per attribuire all'opera di un solo ciò che ha dovuto essere l'effetto del concorso di varii elementi, e delle nuove energie e forze operose, che vennero a ( 1) Questa osservazione è del PANTALEONI, op. cit., p . 149 . (2) È noto che, secondo Livio I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo diretta mente da Tarquinia , sarebbe tuttavia figlio di un Demarato Corinzio . (3 ) Quanto all'incremento della plebe sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve dersi Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung . Leipzig, 1884, I, pag. 32 e segg . 357 scaturire dal nuovo stato di cose e dal nuovo indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È dubbia la origine di Servio Tullio : mentre la tradizione latina , unitamente al carattere della sua riforma, che appare più una evoluzione che una rivoluzione, lo la scierebbero credere di origine latina , una tradizione invece, che vigeva presso gli Etruschi, e che ci fu conservata dall'imperatore Claudio nel preambolo ad un senatusconsulto, lo direbbe di origine etrusca , e gli attribuirebbe il nome di Mastarna (1). Tutta l'antichità ad ognimodo è concorde nel riconoscere l'impor tanza della sua costituzione, poichè è certo che, debbasi ciò attribuire alla sapienza del principe autore di essa , o alla tenacità del popolo che ebbe a svolgerla , essa corrisponde a un graduato sviluppo e segna comeun nuovo stadio nella formazione della città . Essa chiude il pe riodo esclusivamente patrizio , in cui domina ancora la discendenza e la nascita, ed inizia quello patrizio -plebeo , in cui i due ordini, dopo essere entrati a far parte del medesimo popolo, sulla base del censo , finiscono per avviarsi fra le lotte ed i dissidii al pareggia mento giuridico e politico . Può darsi, che anche altre città abbiano avuta una costituzione analoga , come, ad esempio, Atene per opera di Solone (2 ); ma non ve ne ha certamente un'altra , che per la tenacità e la perseveranza degli ordini, che si trovarono di fronte, abbia saputo ricavarne un più sicuro e graduato sviluppo . Ben è vero, che anche per Roma vi fu un periodo, in cui l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo di tirannide ; ma nel resi stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio fu estremo, quello cioè di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste a repen (1) L'oratio, che precede il senatusconsulto Claudiano dell'anno 48 dell'êra vol gare de iure honorum Gallis dando può vedersi nel Bkuns, Fontes, ed . V , p. 177. Ivi l'erudito imperatore, volendo accogliere nel senato anche dei Galli, fa la storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito nei suoi varii stadii, e trova così occa sione di accennare alle due tradizioni relative a Servio Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di nome Ocresia, mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca . Le diverse opinioni degli eruditi sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma indiretta, che esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche, sono riportate dal Bonghs, Storia di Roma, I, pag . 201, nota 14. (2) Quanto alle analogie fra la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le condizioni storiche, che poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a consultarsi il GROTE , Histoire de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome IV , chap. 4me, pag. 137 a 216 , come pure l'appendice allo stesso capitolo, in cui discorre della con dizione dei nexi e degli addicti in Roma antica . - 358 al taglio le libere istituzioni, malgrado le difficoltà gravissime, in cui venne allora a trovarsi la città . L'interruzione però non impedì che, superata la crisi, lo svolgimento storico fosse ripreso punto stesso , a cui erasi arrestato, cosicchè lo spirito della costituzione serviana pervade non solo l'elaborazione del diritto pubblico , ma ancora quella del privato . Fu il non averne tenuto conto sufficiente che, a mio avviso , ha impedito di dare una spiegazione plausibile dei più singolari caratteri del diritto primitivo di Roma. § 2. – Il concetto ispiratore della riforma Serviana eimezzi che servirono ad attuarla . 291. Fu abbastanza dimostrato , che la formazione della città pri mitiva non è un'opera di semplice agglomerazione, che piglia i ma teriali quali si presentano e li amalgama confusamente insieme; ma un'opera di selezione, che solo li accetta in quanto entrano nel suo ordinamento simmetrico e coerente ; donde la conseguenza, che se un mutamento si introduce in una parte essenziale di essa, questo deve pur riflettersi e riverberarsi nelle altre parti. Ciò apparve nella città patrizia , e appare ugualmente nella costituzione serviana. Il problema era quello di unire due popolazioni, che si trovavano, come si è veduto , in condizioni sociali compiutamente diverse, e di farle entrare a far parte della stessa comunanza civile , politica e militare. Il fonderle insieme era per il momento impossibile, perchè la distanza fra di loro . era ancora troppo grande, e certi istituti, come la religione e i connubii, erano ancora troppo gelosamente custoditi per poter essere accomunati. Le sole istituzioni, comuni ai due ordini, erano la proprietà e la famiglia , e il solo inte resse , che li aveva condotti ad avvicinarsi, era quello di prov vedere insieme alla difesa di sè e delle proprie terre. Queste sol tanto potevano essere le basi della loro partecipazione alla medesima città : quindi è che la costituzione serviana, sebbene allarghi le file del populus, comprendendovi un elemento , che era escluso dalla città patrizia , finisce però per dare una base più ristretta alla par tecipazione dei due ordini alla stessa comunanza civile e politica . Mentre il popolo delle curie aveva comune l'elemento religioso , l'organizzazione gentilizia , e il culto per le antiche tradizioni; il popolo invece, che esce dalla costituzione di Servio , viene ad essere composto di capi di famiglia e di proprietari di terre, che entrano 359 a far parte del medesimo esercito , e più tardi anche della medesima assemblea , in base alla sola considerazione del censo , e nell'intento esclusivo di provvedere alla difesa di quegli interessi, che loro potevano essere comuni. La nuova comunanza pud in certo modo essere paragonata ad una società , in cui ciascuno viene ad aver diritti ed obbligazioni proporzionate al proprio censo , il quale viene così ad essere considerato come una garanzia dell'interesse , che altri può avere all'avvenire e alla grandezza della città (1). Il nuovo popolo pertanto non ha nulla a fare colle curie dei patrizii , ai quali continuano ad essere riservati gli auspizii, i sacerdozii, le magistrature e gli onori; ma viene ad assumere negli inizii una organizzazione di carattere essenzialmente militare, in cui la parte cipazione ai diritti e alle obbligazioni della cittadinanza sotto l'aspetto militare, politico e tributario viene ad essere determinata esclusiva mente dal censo . In apparenza quindi l'organizzazione per curie delle genti patrizie è lasciata integra ed intatta ; ma intanto a lato della medesima sorge un nucleo novello , che per essere più numeroso e più forte finirà per richiamare in sè ogni energia civile, politica e militare, lasciando col tempo alle curie la sola custodia delle tradi zioni e dei culti gentilizii. 292. È questo il motivo , per cui la costituzione serviana potè essere apprezzata in guisa compiutamente diversa , anche dagli an tichi scrittori, i quali la descrivono, ora come favorevole al patri ziato o almeno alle classi più elevate, ed ora invece come favorevole alla plebe ( 2). Essa era tale, che da una parte doveva essere accetta al patriziato, il quale , mentre riteneva ciò , che era esclusivamente suo proprio , trovava poi più forte il proprio esercito, più ricco il proprio erario, più ampia la città , di cui continuava ad avere le magistrature e gli onori; dall'altra doveva anche essere gradita alla plebe, perchè essa , ancorchè sulla base esclusiva del censo , veniva (1) Che questo fosse il concetto informatore della costituzione serviana appare da Aulo Gellio , XVI, cap . 10, n ° 11, il quale dice espressamente che « res pecuniaque « familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque « in patriam fides quaedam in ea , firmamentumque erat » . Il paragone poi della comunanza quiritaria , in base alla costituzione serviana, ad una società di azionisti già occorre nel NIEBHUR, Histoire romaine, II, p . 193. (2 ) Il diverso apprezzamento ,che gli antichi fecero della riforma serviana, apparisce da Cic., De rep ., II, 22 ; Liv., 1, 42, 43; Dion ., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi, op. cit., I, pag. 548 e segg. 360 ad acquistare una posizione giuridica, che prima non aveva, ed è abbastanza noto , che quando trattasi di un'aggregazione sociale , il passo più difficile è quello di potervi penetrare, poichè dopo la forza stessa delle cose condurrà ad avervi una posizione adeguata al pro prio valore. Questo è certo , per quanto appare dalla tradizione, che i due ordini sembrano essere concordi nell'accettare la costituzione di Servio Tullio, per guisa che ad opera compiuta gli riconoscono re golarmente quel potere, che prima aveva esercitato più di fatto , che non di diritto ; tantoque consensu , quanto haud quisquam alius ante, rex est declaratus (1). Intanto la nuova costituzione appare informata anche essa ad un unico concetto, che è quello di dare a ciascuno nella città una parte proporzionata all'interesse, che egli può avere per l'incremento della medesima : interesse, che si ritiene dover essere misurato dal censo . Quest' unico concetto poi viene incarnandosi nel fatto con mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono sopratutto importanti e degni di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione del territorio in tribù o regioni locali, l'istituzione del censo e l'organizzazione del nuovo popolo in classi ed in centurie ; istituti questi, che abbozzati negli inizii da mano maestra , dovranno poi ricevere dalla logica tenace del popolo romano tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 293. Coll’ampliamento delle mura la città, che prima riducevasi ad un complesso di edifizii , aventi pubblica destinazione e riuniti in un piccolo spazio , a cui mettevano capo le varie comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia buona parte di tali comunanze , le loro rispettive fortezze, ed una quantità grande di abitazioni pri vate . Cresce così il nucleo della popolazione urbana di fronte a quella del contado ; il contatto fra il patriziato e la plebe diviene più intimo e frequente , e la vita della città concorre così a dissol vere quell'ordinamento per genti e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto stazionario o almeno più duraturo in seno alle comunanze di villaggio . La città intanto , chiusa e fortificata nelle proprie mura , difesa da un esercito, il cui contingente viene ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo pressochè militarmente organizzato , assume anch'essa un carattere più decisamente militare e apparisce ( 1) Liv ., I, 46 . 361 paurosa ed imponente alle popolazioni vicine (1). Così pure è da questo momento , che la vita fra le stesse mura conduce a mescolare e a confondere il sangue delle varie stirpi, fino a che per mezzo di re ciproci adattamenti finiranno tutte per concorrere a formare un or ganismo unico e coerente (2). Quasi poi si direbbe, che i fondatori della nuova città abbiano una certa consapevolezza dell'avvenire di essa ; poichè il nuovo circuito comprende non solo il Palatino, il Capitolino, il Quirinale, il Celio , il Gianicolo , ma anche l'Esquilino e il Viminale , alcuni fra i quali sono ancora spopolati (3 ); cosicchè il pomoerium della città non dovette più essere ampliato, durante il periodo repubblicano, malgrado gli incrementi, che si verificarono nella popolazione. A questo riguardo vuolsi però osservare , che sebbene la città dal tipo latino sembri far passaggio al tipo etrusco, tuttavia essa au menta bensi il suo nucleo centrale , ma serba ancor sempre i ca ratteri primitivi della città latina. Infatti non tutta la sua popola zione viene ad essere accolta nelle sue mura, ma buona parte di essa continua ad essere dispersa per le campagne e fuori delle mura ; cosicchè la città continua sempre ad essere un centro di vita pub blica per popolazioni, che possono avere altrove la propria resi denza. Cosi pure in tutta questa trasformazione punto non parlasi di nuove ripartizioni di terre, se si eccettuano i soliti assegni, che per consuetudine invalsa i re sogliono fare alla plebe ; il che si gnifica che le famiglie, le genti e le tribù dovettero continuare a ritenere le proprie terre ( 4 ). 294. Intanto è evidente, che in una città cosi concepita diveniva necessario , che all'antica distinzione fondata sull'origine e sulla discen (1 ) L'intento eminentemente militare della cinta serviana è dimostrato anche dal fatto, che gli intelligenti delle cose militari ritengono che dall'orientamento di essa si possa perfino argomentare alla situazione delle porte in essa esistenti. V. BARAT TIERI, Sulle fortificazioni di Roma antica, « Nuova Antologia » , 1887, fascic. 10. (2 ) Questo concetto trovasi efficacemente espresso da Floro nel passo citato al lib . I, cap. I, nº 10 , pag. 10, nota 1. (3) MIDDLETON, Ancient Rome, pag. 59 e segg . « L'ampliamento delle mura, scrive NIEBIUR, fu il pensiero di un genio, che confidava nella eternità e negli alti destini della città , e che aperse la via ai suoi futuri progressi o . Op. cit., II, 123. (4 ) Questi assegni fatti da Servio Tullio alla plebe sono attestati da Livio, I, 46, più chiaramente ancora da Dionisio , IV , 9, allorchè scrive: « agrum publicum di « visit civibus romanis , qui ob rei domesticae difficultates aliis, mercedis causa , ser viebant » . e 362 denza si aggiungesse una nuova ripartizione di carattere locale e ter ritoriale, la quale potesse anche essere di base per constatare la po polazione, che vi avesse la propria residenza , e per fissare il tributo , a cui dovesse essere soggetta (tributum ex censu ). Cid si ottenne col ri partire il territorio in tribù o regioni locali, le quali si suddivisero poi in rustiche ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono senz'altro il nome dalle località, e chiamansi così Suburana, Esquilina , Collina e Palatina : mentre le rustiche continuano per la maggior parte a prendere il nome dalle genti patrizie , quali sarebbero l'Emilia , la Cornelia , la Fabia, la Galeria , l'Orazia , la Menenia , Papiria, Pollia , Sergia, Romilia , Voturia , Voltinia , ed altre ; solo eccettuata la tribù Crustumina, che sarebbe stata la prima ad essere denominata dalla località . Cid indica che nel contado continud la prevalenza delle genti, che vi tenevano le loro possessioni. Il numero origi nario delle tribù rustiche non è ben noto , ed anzi, secondo alcuni storici, fra i quali Livio , le tribù rustiche comparirebbero solo più tardi. Questo è certo pero , che la ripartizione, anche del ter ritorio rustico, era una conseguenza del concetto informatore della costituzione serviana, e che il numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede occasione la cacciata dei Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio , che ne fu la conseguenza, appare ri dotto a quello di venti. La cooptazione della gente Claudia porto le tribù a vent'una, e da quel punto la storia ricorda tutte le date, in cui la conquista di un nuovo territorio conduce alla for mazione di nuove tribù , fino al numero di trentacinque, che poi si mantenne immutabile (1). Non è già con ciò , che Roma non abbia fatte nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi cittadini si fecero rientrare nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto una base locale , si mutarono cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere ( 1) Mentre Livio, I, 43 attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della città nelle quattro tribù urbane, Dionisio , IV, 15 , invocando la testimonianza di Fabio , gli attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè il numero complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di spiegare comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al numero di 20 soltanto . Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere quella data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la diminuzione di varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi guidati da Porsena . Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca , in cui si vennero aggiungendo le altre tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a vedersi il Willems, Le droit public romain , pag. 34 e segg. e il Morlot, Institutions politiques de Rome, Paris, 1886 , p . 71 e segg . 363 ascritti tutti i cittadini romani, senza tener conto della effettiva residenza dei medesimi ( 1). 295. Sopratutto poi il concetto informatore di tutta la costitu zione serviana fu l'istituzione del censo ; poichè è in proporzione del censo , che vengono ad essere determinati i diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver presente , che nel censo di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui, ma solo i capi di fa miglia , quelli cioè , che per non essere soggetti a potestà altrui possono giuridicamente essere considerati come padri di famiglia , ancorchè in realtà non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia deve essere duplice , cioè comprendere tanto le persone quanto le cose , che da lui dipendono ; donde provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone e le cose, dipendenti dalla stessa potestà , si presentarono come un tutto indistinto , che suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium . Il padre di famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog getto a potestà altrui, ha diritto di contare per uno nel censo , deve dichiarare anzitutto , ex animi sententia , il suo stato civile, cioè il suo nome, il prenome, il nome del padre o del patrono , la tribù a cui trovasi ascritto , l'età , il nome della moglie , il nome e l'età dei figli. Esso deve dichiarare eziandio il patrimonio , che a lui ap partiene in proprio ; non quello cioè, che appartenga alla sua gente , ma quello che è collocato in suo capo , che gli appartiene ex iure quiritium , che fa parte del suo mancipium , il quale in significa zione più ristretta comprende appunto il complesso dei beni, che deb (1) È solo in questo modo, che a parer mio si può risolvere la questione tanto agitata fra gli autori se le tribù di Servio fossero divisioni di territorio , oppure di visioni di persone. Non parmi poi che possa ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo cui le tribù dapprima non avrebbero compreso che i plebei, e solo dopo il decemvirato avrebbero compreso anche i patrizii (Op. cit., IV , 16 ); poichè il loro stesso nome derivato da quello di genti patrizie ed anche lo scopo della ripartizione del territorio in tribù o sezioni dimostrano ad evidenza il contrario. Che anzi, in base alla narrazione di Dionisio , IV , 15 , il re Servio non solo avrebbe diviso il ter ritorio in tribù , ma nei siti montani avrebbe costrutto dei pagi, che dovevano ser vire come luogo di rifugio, e avrebbe obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes romanos) a consegnarsi nel censo « addito et urbis tribu et agri pago, ubi singuli habitarent » ; il che fa credere, che le tribù rustiche serviane fossero un rimaneggia mento dei pagi, che già prima esistevano nel territorio circostante a Roma. Cfr . il Morlot, op. cit., pag . 57 e seg ., ove espone le varie opinioni degli autori intorno al carattere locale o personale delle tribù. 364 bono essere valutati nel censo . Sarà poi in base a questo censo , che sarà designata la classe del popolo, a cui deve appartenere, tanto per sè che per i figli, che abbiano raggiunta l'età di diciasette anni, e verranno cosi ad essere determinati i suoi diritti e le sue obbliga zioni sotto l'aspetto politico , militare e tributario ad un tempo (1 ). 296. Basta questa semplice indicazione per comprendere l'im mensa importanza, che dovette, sopratutto negli esordii, esercitare una istituzione di questa natura sopra il popolo forse più tenace che presenti la storia in quella che il Jhering chiamerebbe la lotta per il diritto . Per la città serviana la formazione del censo ha quella stessa importanza, che ha per una società di carattere mercantile la determinazione del contributo , che altri deve arrecare alla for mazione del capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di base per la ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare ogni individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli e l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza . In essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato , e viene ad essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel censo serviano , non è la proprietà gentilizia , che apparteneva al solo pa triziato , ma è la proprietà famigliare e privata , che era la sola , che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza , che tutte le altre forme di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte, cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg (1) Quanto alle operazioni relative al censo cfr. WILLEMS, op. cit., pag. Per me è sopratutto notabile la circostanza , che il capo di famiglia doveva denun ziare persone e cose , che da lui dipendevano, poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di familia e di mancipium potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as sumessero una significazione così larga da comprendere le persone le cose ad un tempo . Cid non accadeva già , perchè si confondessero persone e cose, ma perchè le une e le altre apparivano nel censo come dipendenti dalla stessa persona . Tale doppia consegna è attestata espressamente da Dion.,. IV , 15 , verso il fine. Parmi che in questo modo si possano conciliare le due opinioni contrarie del MARQUARDT, Das privat leben der Römer, pag . 2 e quella del Voigt, Die XII Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto alla significazione primitiva dei vocaboli manus, di mancipium e di familia. Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 5, nota 8 , ed il BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 100 , nota 1. 365 avere nelle classi l'appoggio dei proprii clienti, dovranno dividere fra essi i proprii agri gentilizii, e fare a ciascuno un'assegno di terra in proprietà quiritaria , che valga a farli ammettere in una delle classi. Da questo momento viene solo più ad essere questione di mancipium o di nec mancipium , perchè è solo il primo, che conta nel censo di Servio Tullio , e se il medesimo non giunga ad una certa misura , altri non potrà essere censito , che per il proprio capo (capite census ), o verrà ad essere confinato nei proletarii, senza poter far parte delle classi e delle centurie, in cui si raccoglie l'eletta del popolo romano, ossia coloro (adsidui, locupletes) i quali avendo una terra di loro proprietà esclusiva, si possono ritenere aver interesse alla difesa della patria comune. Si comprende quindi l'affezione tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa condizione nella città , si attacca al proprio tugurio e al campicello, che lo circonda, perchè è questo , che gli assicura una posizione giuridica , militare, economica per sè e per i proprii figli , quando siano perve nuti ai diciasette anni; il che spiega eziandio come il plebeo ami meglio di vincolare se stesso e la propria figliuolanza col nexum , che di privarsi della sua piccola terra. 297. Noi stentiamo naturalmente a ricostruire col pensiero tutte le conseguenze, che una istituzione di questa natura può avere pro dotto sovra un popolo, come il romano, in un momento storico , in cui la grande opera, a cui si intendeva, era la formazione della ' città . Quando si pensi tuttavia , che trattavasi di un popolo, il quale una volta ammesso un principio sapeva trarne tutte le conseguenze di cui poteva essere capace, che possedeva una mirabile potenza, che chiamerei di astrazione giuridica, la quale consiste nell'isolare l'ele mento giuridico da tutti gli altri con cui trovasi intrecciato , e che questo popolo fu costretto per secoli a misurare la propria posizione politica, militare e tributaria attraverso il crogiuolo del censo , si pud in qualche modo giungere a comprendere il punto di vista rigido ed esclusivo , a cui esso fu costretto di collocarsi e le con seguenze , che possono esserne derivate nella elaborazione del suo diritto . Ciò spiega intanto l'importanza immensa , che si diede per tutto il periodo dalla repubblica alla istituzione del censo ; le cerimonie religiose, da cui esso era preceduto ed accompagnato ; le cure, che pose nel medesimo lo stesso Servio , il quale, secondo la tradizione , ebbe a farlo per ben quattro volte; le pene gravissime, cioè la vendita al di là del Tevere, da lui stabilite contro coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere nel censo (incensi) ; l'opportunità , che si senti più tardi di creare talvolta un dittatore per la sola for mazione del censo , e di affidare poscia la formazione del censo ad una speciale magistratura (censura), a cui potevano esservene delle altre superiori in imperio , manessuna che fosse superiore in dignità . Ciò spiega infine la singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma il concetto del censo, il quale negli inizii comincia dall'essere una valutazione, che potrebbe chiamarsi puramente economica dei singoli capi di famiglia , e poi finisce per cambiarsi in una specie di valutazione politica e morale di tutti i cittadini. Cid infatti è comprovato dalla trasformazione, che accade nel censore, che isti tuito dapprima per la materiale formazione del censo , reputata in degna delle cure dei consoli, finisce per acquistare tale un potere, da eleggere senatori, fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere note di ignominia su chi venga meno al pubblico o al privato co stume, prendere le persone da una classe per confinarle in un altra, e trasportare a suo beneplacito tutta una classe di popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o viceversa , e ad essere cosi l'arbitro sovrano della cooperazione effettiva , che i varii individui e le varie classi recano al benessere delle città . 298. Infine è anche il censo , che serve di base alla classificazione del populus nelle classi e nelle centurie. Non è già , come alcuni credettero , che coloro, i quali non avevano un certo censo, non fossero contati ed iscritti a questa o a quella tribù ; ina essi vi erano iscritti solo nel capo (capite censi), oppure nella classe dei proletarii, la quale secondo Aulo Gellio , « honestior aliquanto et re et nomine quam capite censorum fuit » . Gli uni e gli altri non facevano di regola parte dell'esercito , perché né la repubblica avrebbe avuto garanzia dell'interesse , che essi avevano a combattere per essa , nè essi avrebbero avuti i mezzi per far fronte alle spese per il proprio equipaggio . Quelli invece, che giungevano ad un certo censo appartenevano agli adsidui, per l'assiduità appunto a compiere il loro ufficio civile e politico (munus), sia pagando le imposte (ab asse dando), sia ubbidendo alla leva , sia per la sede fissa , ove po tevano essere cercati e dove avevano i loro possessi (locupletes) ( 1). (1) Il criterio , che servì a distinguere i varii ordini di persone indicati coi voca boli di capite censi, proletarii, adsilui e locupletes, si può ricavare sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È pure lo stesso Gellio, il quale ci attesta che la proprietà 367 I vocaboli di classi e di centurie , ed anche il luogo, ove si riu nirono i comizii centuriati (Campo Marzio ), il modo di convocazione di essi (per cornicinem ), e il vessillo rosso inalberato sul Gianicolo o in arce durante le riunioni di questi comizii, rendono verosimile il concetto stato svolto sopratutto dal Mommsen , che questa riparti zione siasi presentata dapprima con un carattere principalmente militare. Cið poteva anche essere opportuno per ovviare a quella opposizione del patriziato e degli auguri, che aveva incontrato l'an tecessore di Servio ; e sembra anche corrispondere all'intento , che si propone la comunanza serviana , che è quella di provvedere so pratutto alla comune difesa . Egli è però certo, che se la costituzione per classi e per centurie è negli inizii organizzata per guisa da presentare l'aspetto di un esercito, essa è però in condizioni tali da cambiarsi facilmente nell'assemblea di un popolo; perchè i suoi quadri possono essere allargati in guisa da non comprendere solo un esercito , ma tutta la popolazione di una città ( 1). 299. Ad ogni modo nel loro primo presentarsi le classi e le centurie di Servio costituiscono un vero esercito , di cui venne ad allargarsi la base , in quanto che nella sua composizione più non si ha riguardo all'origine ed alla discendenza , ma unicamente al censo . Nelle sue file possono essere compresi tutti i liberi abitanti del ter ritorio di Roma, distribuito per quartieri o regioni, senza riguar tenuta in conto nel censo era quella famigliare e privata, poichè egli parla di res, pecuniaque familiaris, e dice che i proletarii si arrolavano nell'esercito solo in caso di necessità , e che i capite censi vi furono solo arrolati da Mario nella guerra contro i Cimbri o in quella contro 'Giugurta. Tutte queste distinzioni poi fondate sul censo spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che dice il censo « rem saluberrimam tanto futuro imperio , e chiama Servio a conditorem omnis in civitatem discriminis ordinumque, quibus inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid interlacet » . (1) Pur ammettendo col Mommsen, Hist. rom ., I, cap. VI, e col Peluam , v° Rome, « Encych . Britann.., XX , pag. 731 che lo ha seguito, che l'ordinamento per classi e centurie, tanto più se posto a raffronto con quello delle curie, avesse un carattere eminentemente militare, non parmituttavia, che anche nei suoi inizii si possa escludere affatto la sua attitudine alle funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle istitu zioni primitive, le quali di regola hanno del civile e del militare ad un tempo, ed alla circostanza, che mal si saprebbe comprendere comemaiuna base, come quella del censo, non dovesse servire ad altro, che ad indicare il modo con cui le varie classi aves sero ad equipaggiarsi. Del resto questo carattere esclusivamente militare mal potrebbe conciliarsi con ciò che scrive Livio, I, 42: «tum classes centuriasque, et hunc ordinem ex censu descripsit, vel paci decorum , vel bello » . 368 dare se essi entrino o non nelle antiche divisioni, e senza più tenere conto delle formalità e delle cerimonie religiose proprie delle riunioni esclusivamente patrizie. La sua unità è la centuria , che nominalmente dovrebbe comprendere cento uomini; le centurie poi vengono ad essere aggruppate in classi, che sono in numero di cinque, e che alcuni vorrebbero collocate nell'ordine stesso della falange. Le centurie, che vengono prime, sono composte dei più ricchi cittadini, che possono procacciarsi un completo equipaggio indispen sabile per coloro, che primi debbono sostenere l'urto del nemico . Esse in numero di 80 costituiscono la prima classe . Dopo vengono le centurie della seconda e terza classe , in numero di 20 per ogni classe , le quali sono già meno completamente armate, ma costituiscono con quelle della prima classe la fanteria pesante. Ultime vengono le centurie della quarta e della quinta classe, di cui quella composta di 30 e questa di 20 centurie , reclutate fra i cittadini meno ab bienti, e che serviranno come fanteria leggiera. L'intiero corpo degli uomini liberi è poi diviso in due parti eguali, cioè in un numero eguale di centurie di seniores (da 47 ai 60 anni), che costituivano l'esercito di riserva, ed un uguale numero di centurie di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio attivo . Ciascuno di questi corpi viene cosi ad essere composto di 85 centurie (8500 uomini) ossia di due legioni di circa 4200 per ciascuna, che costituiva appunto la forza normale della legione consolare durante la repubblica. In sieme colle legioni, ma non inchiuse con esse, vi erano 2 centurie di fabbri e di legnaiuoli ( fabri, tignuarii) e 2 di suonatori di tromba e di corno (tibicines et cornicines ), circa le quali non vi è accordo quanto alle classi a cui erano assegnate . Per quello poi che si riferisce al censo richiesto per ciascuna classe , il medesimo ci pervenne calcolato in assi, ma è probabile che nelle origini dovesse essere valutato in iugeri (1) . (1) È abbastanza noto, che il censo per la prima classe era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per la terza di 50 mila, e per la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500 secondo Dionisio ; ma il difficile sta in determinare, se negli inizii la fortuna dei cittadini non fosse piuttosto valutata in iugera , e in de terminare qual fosse il valore dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio , che l'iscrizione alle varie classi era dapprima determinata dal possesso delle terre , argomentando anche dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist. rom ., chap. VI. Di recente poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e ha rite nuto che il iugerum debba ritenersi rispondere a cinque mila assi, cosicchè il patri monio della prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello della seconda a 15 , 369 Intanto però in questa organizzazione militare del populus con tinuano a tenere un posto distinto le centurie degli equites . Di queste 6 ritengono ancora i vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi, e sono ancora composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi stanno a parte, son determinate dalla na scita , e costituiscono i sex suffragia ; poichè è da esse che si trae a sorte la centuria principium , quella cioè, che sarà chiamata a votare per la prima nei comizii centuriati. Ad esse poi furono ag giunte da Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate dai più ricchi ordini di cittadini, sia patrizii che plebei (1 ). Da questi brevi cenni appare che , pur ammettendo il carattere essenzialmente militare di questa organizzazione, basterà però sop primere nella centuria il limite di 100, per togliere alla medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare entrare nei suoi quadri tutta la popolazione della città ; trapasso , che non offrirà gravi diffi coltà quando si consideri la facilità, che è propria delle organizzazioni primitive di passare dalle funzioni militari alle civili, e il nessun scrupolo , che si fecero i Romani di mantenere costantemente il vo cabolo antico, facendo anche entrare in esso un contenuto diverso da quello , che sarebbe indicato dal medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di Servio ; ora importa di vedere lo svolgimento storico , che esse ebbero a ricevere e la con seguente influenza che esercitarono sul diritto pubblico e privato di Roma. quello della terza a 10, della quarta a 5 iugeri , e quello della quinta a 2 iugeri incirca , ritenendo con Livio, che il censo della medesima ammontasse a soli 11,000 assi. Röm . R.G., I, pag . 69-70 . Sono a vedersi, quanto al valore dell'asse, il WILLEMS, op . cit., pag . 58 e segg., dove son riassunte le diverse opinioni al riguardo , e il Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 16 a 23. (1) Quanto agli equites e ai loro rapporti coi primitivi celeres, richiamo volentieri i due recenti lavori del BERTOLINI, I celeres e i7 tribunus celerum , Roma, 1888, e del TAMAssia, I Celeres, Bologna , 1888. - Par ammettendo col primo che gli equites non siano che uno svolgimento dei primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i celeres possano anche essere un ricordo di qualche istituzione, che occorre presso tutti i popoli di origine Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che nell'ordinamento simmetrico della primitiva città patrizia vi fosse una rispondenza fra i celeres, che costituivano la corte militare del Re primitivo e il senato, che ne costituiva il consiglio, donde quella correlazione, che per qualche tempo si mantenne fra gli aumenti nel senato e quello degli equites , e la distinzione così del senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº 191, pag . 233 e 234 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 - CAPITOLO II. Influenza della costituzione Serviana sul diritto pubblico di Roma. 300. L'influenza della costituzione Serviana sullo svolgimento, che ebbero le istituzioni politiche di Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può essere posta in dubbio , e non mancano i lavori ché la posero in evidenza (1). Ne ebbero consapevolezza anche i Romani, come lo provano le tradizioni, che attribuirono a Servio Tullio di aver voluto abdicare per istituire due consoli annui, e che fanno ricorrere i due primi consoli della repubblica ai commentarii di Servio Tullio, per ricavarne le norme secondo cui dovevano adu narsi i comizii per centurie (2). Le due tradizioni possono anche essere non vere : ma dimostrano ad ogni modo in coloro, che le trovarono e le custodirono, la persuasione, che la costituzione repubblicana metteva capo alle istituzioni serviane , e che, appena superato il peri colo della tirannide, si dovette riprenderne lo svolgimento al punto stesso , a cui era stato interrotto . Ad ogni modo se si tenga dietro alla evoluzione storica , quale si rivela negli avvenimenti , si può affermare con certezza , che le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non mai interrotto dei concetti informatori della costituzione patrizia , combinati perd e modificati dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana . 301. Fra queste modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre trasformazioni, che derivarono dalla costituzione serviana, quella , in virtù della quale venne a mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus romanus quiritium . Questa espressione (1) NIEBHUR , Histoire romaine, II, pag . 91 a 255; Huscke, Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838; Maury, Des événements qui portèrent Servius Tullius au trône. « Mém . de l'Acad. des Inscript. et belles lettres » , année 1866, vol. 25, pag . 107 a 223: Herzog , Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig , 1884 , I, § 5 , pag. 37 a 48 ; KarlowA, Röm . Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12 , 13, pag. 64 a 85. (2 ) Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste tradizioni non sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag . 242. - 371 infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo delle curie , venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo delle classi e delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites , che d'allora in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle centurie, non che ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere quiritario (classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di convocazione dei comizii centuriati, stateci conservate da Varrone (1). Quanto ai membri delle curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle centurie, sono anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto hanno delle proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli onori, gli auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo separato del populus romanus quiritium , prendono il nome di patres o di patricii, come già si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata de imperio e dell'interrex (2 ). Mentre quindi prima i termini non erano che due, quelli cioè di populus e di plebes ; dopo Servio i termini vengono ad essere tre, cioè quello di patres o patricii, che indicano i primitivi fondatori della città , i ritentori degli auspicia e dell'imperium ; quello di plebes, che designa l'elemento , stato di recente ammesso nella medesima ; e quello infine di populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in quanto entra a far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso vuolsi ammettere col Mommsen , che uno dei significati di populus sia stato quello di leva plebeo-patrizia ; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la significazione primi tiva del vocabolo ; poichè nulla vi è di ripugnante al processo ro mano , che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli (1) Le formole di convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling . lat., VI, 86 a 95 , sono riportate dal Bruns, Fontes, pag. 383 e segg. I classici testes sono poi ricordati da Festo, pº classici, come testimoni adoperati nei testa menti; ma è probabile che questo nome si estendesse a tutti i testimonii dell'atto per aes et libram , di cui il testamento non era che un'applicazione, come si vedrà a suo tempo al cap. IV , § 4 di questo libro. (2) V. sopra, lib . II, nº 198 , pag. 240 e seg. e le note relative . (3) È questo appunto il concetto di populus, quale appare più tardi anche nei grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio infatti, Noct. Att., X , 20, attribuisce al giureconsulto Ateio Capitone di aver distinto il popolo dalla plebe, « quoniam « in populo omnis pars civitatis , omnesque eius ordines contineantur: plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes civium patriciae non insunt » , il qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm ., I, 3 e ancora nelle stesse Institut. di GIUSTINIANO, I, 2 . 372 uomini validi ed armati della tribù gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia , e da ultimo il popolo patrizio - plebeo della città serviana ( 1) . Questo populus intanto perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del popolo delle curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che entrano a costituirlo ; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di proprietarii di terre , che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono de diti alla coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da tutti quei rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti dell'epoca serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità indipendenti e sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto ; ritengono come proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed il loro potere appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose , che da essi dipendono ; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium , che viene formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo (2). 302. Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale della costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale , che anche questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione col medesimo. E così accade appunto del senato , il quale accompagnando lo svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre , i quali per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres , donde la formola patres et conscripti , finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento , che siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece non accadde del magistrato , poichè questo continud (1 ) MOMMSEN, Rötnische Forschungen , I, pag . 168. (2 ) V. il cap. seg. in cui si discorre dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8 , colle note re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato esclusivamente dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è sopratutto contro l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della plebe, le quali più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta , anche nelle magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva conseguita negli altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale, perchè non vi sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il senato già potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo ; mentre il magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva ad apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come un rappresentante imparziale del popolo . Di qui la conseguenza , che anche le lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato a suo tempo (1 ). 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi essen ziali della costituzione politica , e quindi si trasformano a poco a poco le loro principali funzioni, che, come si è veduto , consistono nella formazione delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione della giustizia , tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano soltanto abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento , di cui potevano essere capaci. Cid appare quanto al censo, il quale , come già si è accennato, incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit tadini, e poi cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei medesimi. Il punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun cittadino una parte di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo censo , mentre lo svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e ai varii elementi del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla cooperazione, che essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati uscenti di ufficio, che somministrano il contingente per la formazione del senato e poscia dell'ordo senatorius ; abbiamo gli equites , che perdono il carat tere essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e finiscono per formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo equestris , e costituiscono una specie di aristocrazia del censo , ( 1) V. il cap . IV del presente libro, in cui si tratta appunto delle lotte fra il patriziato e la plebe. 374 da cui esce poi la nuova nobiltà , la quale, dopo aver lottato coll'an tica , finisce per confondersi con essa (1). Di qui la conseguenza, che col tempo quel populus, che erasi formato, mediante la riunione del patriziato e della plebe, finirà un'altra volta per subire un nuovo dualismo, che è quello del partito popolare e del partito degli otti mati. Queste però sono conseguenze remote dell'ordinamento ser viaño, fondato sul censo, mentre è assai più facile tener dietro alle trasformazioni, che subirono le centurie e le tribù introdotte col medesimo. 304. Le centurie infatti, allorchè perdettero il loro carattere es senzialmente militare, finirono per cambiarsi in altrettanti quadri, in cui potè essere compreso tutto il popolo romano, che avesse rag . giunto certi limiti nel censo , il quale, fissato dapprima in iugeri di terra, sembra essersi più tardi calcolato in una somma di denaro. Si formarono così quei comisii centuriati, che ebbero tanta impor tanza sopratutto nei primi secoli della repubblica, e che furono per certo una delle assemblee meglio organizzate , che offra la storia politica dei popoli civili. È tuttavia notabile, che anche in questa parte si conserva sempre mai l'antico modello, per guisa che i con cetti informatori dell'assemblea delle centurie sembrano essere tolti e trasportati da quella più antica delle curie . Anch'essi quindideb bono essere preceduti da cerimonie religiose, ed il magistrato , che li convoca in giorni prestabiliti (dies comitiales), essendo investito degli auspicia , debbe prima investigare se gli dei si dimostrino fa vorevoli alle deliberazioni, che debbono essere prese dai comizii. Anche la precedenza nella votazione deve seguire l'antico costume, e quindi precedono le sei centurie di cavalieri, le uniche cioè che rappresentino ancora il patriziato primitivo, fondatore della città ; quindi è fra esse, che chiamansi i sex suffragia , che viene tratta a sorte quella che dovrà essere la centuria principium , il cui voto continua ad essere considerato come un augurio (omen). Dopo aver così attribuita la debita parte alla nascita e ai primi fondatori della città , viene il riguardo all'età , in quanto che i seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno in ogni classe un numero di centurie eguale a quello dei iuniores (dai 17 ai 46 ), malgrado il numero certo maggiore di questi ultimi, e le loro centurie negli inizii erano probabilmente le (1) Queste trasformazioni sono accuratamente seguìte dal Madvig, L'État romain , trad. Morel, Paris 1882 , tome 1er, pag . 135 e segg. 375 prime chiamate a dare il proprio voto . Viene poscia la considera zione del censo , in quanto che le centurie, che votano per le prime sono, dopo le diciotto centurie degli equites, quelle della prima classe e queste sono in numero tale, che se siano concordi, possono da sole avere la maggioranza , senza che più occorra di passare alla chia mata delle altre classi (1). Intanto perd nel seno di ogni centuria ogni individuo ha il proprio voto, e tutti contano egualmente ; ma, come già accadeva nelle assemblee curiate , l'esito definitivo dipende dalla maggioranza delle centurie . Qui parimenti si presentano le distinzioni fra comitia e contiones ; come pure dovette introdursi eziandio la distinzione fra comizii propriamente detti e i comizii calati, in cui si compievano pei quiriti i testamenti e le arroga sioni, ma questi non sembrano essere durati lungamente , perchè erano una semplice imitazione dell'antico , senza che avessero lo scopo dei comizii calati delle curie, che era quello di mantenere salda ed integra anche nella città la primitiva organizzazione delle genti patrizie (2). Così pure sopra i nuovi comizii, i padri, antichi fondatori della città , continuano ad esercitare una specie di prote zione e di tutela, sotto il nome di patrum auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono ad emanciparsi soltanto molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa imitazione dell'antico non impe disce che tutte le principali funzioni vengano a concentrarsi nei co mizii centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi fondamentali dello stato , come le leggi Valerie-Orazie , la legislazione decemvirale, le leggi Licinie Sestie, e da ultimo la legge Ortensia ; sono essi parimenti, che nominano i magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i censori, quei magistrati insomma, il cui potere può essere considerato come una suddivisione di quell'imperium , che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da ultimo fu davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella provocatio ad populum , che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie ; il che spiega comeun ma (1) Sono queste gradazioni e distinzioni che fecero dire a CICERONE , De leg., III, 19 , 44 : < descriptus enim populus censu , ordinibus, aetatibus plus adhibet ad suf « fragium consilii, quam populus fuse in tribus convocatus » ; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II, 22 . (2) L'esistenza di comizii calati, proprii delle centurie , è attestata espressamente da Aulo Gellio, XV, 27, 1. ( 3) V. quanto alla patrum auctoritas ciò che si è detto al nº 198, pag. 240 e segg. 376 gistrato annuo, come il console, abbia finito per rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da cui poteva esservi appellazione al popolo , il quale venne cosi ad essere direttamente investito della giurisdizione criminale ( 1) . Intanto si comprende eziandio come la lotta fra i due ordini, finchè non furono ancora del tutto pareggiati, abbia dovuto concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e come quindi il patriziato per assi curarsi una prevalenza nel seno delle centurie, abbia dovuto dividere i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò i medesimi potessero essere collocati nelle classi e possibilmente nella prima di esse, la quale aveva una prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la disorganizzazione delle genti, che erasi già iniziata colla costituzione di Servio , con tinud necessariamente collo svolgersi delle istituzioni da lui intro dotte ; poichè quei clienti , che sotto l'impressione immediata del benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini dell'antico patrono, se ne emanciparono ben presto , allorchè il censo loro assicurò una indipendenza , mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla stessa plebe. Conviene tuttavia riconoscere, che la plebe negli inizii del l'organizzazione per centurie male poteva riuscire nella lotta contro un patriziato reso forte e numeroso mediante l'appoggio dei proprii clienti. Di qui la conseguenza, che la plebe resa impotente alla lotta nei comizii per centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non avessero più la loro base nel censo , ma bensì nel luogo di residenza e nel numero. A tal uopo la plebe, guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe trarre profitto di un'altra istituzione ser viana , che è quella della tribù locale, ricavando da essa uno svolgi mento , che probabilmente non doveva essere nella intenzione di quegli, che l'aveva istituita . 306. La tribù nella costituzione serviana non era che una ripar tizione locale , fatta in uno scopo essenzialmente amministrativo, cioè per fare il censo , per fare la leva militare e per ripartire i tributi. Essa però aveva il vantaggio su tutte le altre ripartizioni, che mentre le curie non comprendevano dapprima che i patrizii, e le centurie e le classi non accoglievano che i locupletes od adsidui, le tribù invece comprendevano anche i proletari, i capite censi, gli aerarii ; quindi in essa esisteva un germeessenzialmente democratico, (1) Cfr. ciò che si è detto più sopra intorno alla provocatio ad populum nel pe riodo regio, n ° 245 e 246 , pag. 299 e segg. 377 che non poteva mancare di svolgersi col tempo. Era infatti naturale, che i tribuni della plebe, per radunare la medesima, non potessero indirizzarle il proprio appello, che per tribù (tributim ), e che quindi si facessero già in questa guisa quelle prime riunioni, che appellavansi concilia plebis. Intanto le tribù, che avevano dapprima un carattere essenzialmente locale e comprendevano realmente le persone, che dimoravano in quel determinato quartiere, si cambiarono in effetto in altrettanti quadri, in cui poterono essere compresi tutti i cittadini romani, senza tener conto del sito effettivo , in cuiavessero la propria residenza. Si avverò anche in questo , ciò che è accaduto in molte altre istituzioni di Roma, che cominciano dall'avere una base reale nei fatti, ma col tempo si cambiano in concezioni teoriche ed astratte, e in forme tipiche, in cui può farsi entrare un contenuto, che nella realtà loro non potrebbe appartenere . Per tal guisa la ripartizione delle tribù diventò la più comprensiva di tutte; cesso quasi di essere locale per diventare personale ; la indicazione della tribù entrò a far parte della denominazione stessa del cittadino romano, e fu in tal modo, che essa potè riuscire di base alla più democratica delle riunioni, che siasi conosciuta in Roma, che fu quella appunto dei comizii tributi. Questi non hanno più il carattere militare dei co mizii centuriati, ma hanno un'impronta essenzialmente cittadinesca ; si tengono perciò nel foro e nei primitempi si riuniscono nei giorni di mercato, in cui la plebe del contado ha occasione di convenire nella città (1 ). 307. Tuttavia anche i comizii per tribù, allorchè entrarono nei quadri regolari della costituzione politica , finirono per modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti , quando sono giunti al pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii, quando siano convocati da un magistrato , a cui questi appartengano, e sono convocati solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non saranno più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies fasti. È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si dà per tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende anche il (1) È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO, Saturnales , I, 16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto P. Rutilio Rufo , parla dei giorni dimercato, in cui « rustici, intermisso rure, ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent » . Husche, Jurisp . antijustin ., pag. 11. 378 nome di tribus principium . Nel seno poi di ogni tribù il voto è dato viritim , e l'esito definitivo viene ad essere determinato dalla maggioranza delle tribù . Questi comizii hanno però il vantaggio della più facile convocazione , in quanto che possono essere convocati da magistrati patrizii e da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i provvedimenti, che essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici plebisciti , secondo l'autorità che li propone (1) ; il che spiega come i comizii tributi si siano gradatamente cambiati nell'organo legislativo più operoso nell'ultimo periodo della repub blica . Mentre essi infatti richiamano a sè la sola elezione dei magi strati minori, e la giurisdizione per i reati punibili con sole pene (1) Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii centuriati e dei comizii tri buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al n ° 224 , pag. 273 e segg. e per il pareggiamento che venne facendosi fra le leggi ed i plebisciti ai numeri 231, 232 e 233, pag. 281 e seg . Solo mi limito ad aggiungere che negli ultimi tempi dagli stessi comizii tributi potevano emanare vere leggi, allorchè erano convocati da veri magistrati, come consoli e pretori, oppure plebisciti , allorchè erano convocati da tri buni della plebe. Trovo una prova di ciò paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal Bruns. L'una è la lex agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui intestazione è così concepita : « tribuni plebei plebem ioure rogarunt, plebesque ioure scivit » , sebbene in tale occasione abbiano preso parte alla votazione anche i patrizii come lo dimostra il fatto, che ivi si aggiunge : « Tribus principium fuit , pro tribu Q. Fabius, Q. filius, primus scivit » , il quale Fabio dovette probabilmente essere un patrizio della gens Fabia (Bruns, Fontes, pag., 72). L'altra legge invece è la les Quinctia, de aqueductibus, dell'anno 745 di Roma, che è così intestata : « T. Quinctius Crispinus populum iure rogavit, populusque iure scivit, in foro pro rostris Aedis divi Iulii pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit ; pro tribut Sex ... L. F. Virro primus scivit » . Bruns, Fontes, pag. 112. — Diqui infatti appare ad evidenza, che quando la convocazione parte dal tribuno della plebe parlasi di plebes e di plebiscitum , ancorchè la riunione comprenda anche i patrizii : mentre quando trat tasi di convocazione fatta dal console esso chiama ai comizii tributi il populus e il provvedimento emanato viene così ad essere un populiscitum , ossia una lex nel senso primitivo dato a questo vocabolo. La cosa è pur confermata da quella parte, che ci pervenne della intestazione alla lex Antonia, de Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la riunione dei comizii tributi, essendo provocata dai tribuni della plebe, ancorchè in base ad un parere dato dal senato (de senatus sententia) parlasi perciò di convocazione della plebes e quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p. 91). In questo periodo quindi tanto le leges quanto i plebiscita emanano da comizii tributi e la loro differenza deriva dall'essere l'iniziativa presa da un vero magistrato (console, pretore) che convoca il popolo, o da un tribuno della plebe, che convoca invece la plebe, sebbene anche in queste ultime riunioni intervengano anche i patrizii. Viene così ad essere vero ciò che dice Pomponio , che « inter plebiscita et leges species constituendi interesset, potestas autem eadem esset » . L. 2, 8 , Dig . 1, 21. - - - 379 pecuniarie, finiscono invece per assorbire tutto il potere legislativo . È a notarsi tuttavia , che mentre la legislazione dei comizii centu riati aveva avuto un carattere specialmente politico e costituzionale, perchè è con essa che si vennero pareggiando gli ordini, quella in vece , che usci dai comizii tributi, ha un carattere eminentemente sociale, e in parte già si riferisce ad argomenti di diritto privato (1). 308. Si può quindi conchiudere, che la costituzione serviana per vade le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano. I concetti della medesima cominciano dall'avere una base nella realtà , ma finiscono per cambiarsi in altrettante costruzioni logiche, a cui si dà tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. In questa guisa il censo di economico divien morale , le centurie di militari si con vertono in politiche, le tribù di ripartizioni locali mutansi in quadri, in cui tutta la cittadinanza può essere compresa , per quanto la me desima dimori eziandio fuori della città . Per tal modo la costitu zione di Servio Tullio , al pari delle mura che ne portano il nome, poté bastare a tutti gli incrementi e a tutte le trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi secoli, e per tutto quel tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche virtù ed istituzioni. Vero è , che le forme esteriori sembrano sempre essere foggiate su quelle, che erano prima adoperate ; ma conviene dire che « spiritus intus alit » , e che questo nuovo alito spira per modo entro le forme an tiche, da far loro capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da spezzarle anche, quando siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne foggiano delle nuove, ma sempre sul modello delle an tiche. Questo è il magistero, che Roma seguì costantemente nello svol gimento delle proprie istituzioni politiche. Un analogo processo ap pare anche più evidente nella elaborazione più lenta e graduata , che ebbe a ricevere il diritto privato di Roma , sovra il quale la costituzione serviana ha certamente esercitata una influenza di gran lunga maggiore di quella che soglia essergli attribuita, come spero di poter dimostrare nel seguente capitolo. ( 1) Quanto alla legislazione comiziale e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano, Milano, 1885, pag. 9-16 . 380 CAPITOLO III. La costituzione serviana e la sua influenza sull'elaborazione del ius Quiritium . 309. Se fu agevole il mettere in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul diritto pubblico di Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita , ma non meno importante , che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato . A questo proposito poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che naturalmente si arrestarono alle mutazioni più appariscenti, che si erano avverate nelle istituzioni politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio , che egli pubblico ben cinquanta leggi sui delitti e sui contratti ; che egli distinse i giudizii pubblici dai privati ; e che prese anche dei provvedimenti a favore dei debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi (1). La probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca serviana non può certo essere negata, non potendo essersi avverata una trasformazione cosi profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che si riflettesse eziandio nel diritto privato . Tut tavia è certo , che le mutazioni nel diritto privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi, quanto piuttosto mediante quella tacita elaborazione di un diritto comune alle due classi, che era la naturale conseguenza dei nuovi rapporti , in cui esse venivano a trovarsi. È quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono cer care le reliquie delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a cercarsi quelle distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che sopravvissero ancora in epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato , e che possono in qualche modo rannodarsi al concetto informatore della costituzione serviana. Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici, gli atti per aes et libram , i concetti primi tivi del caput, della manus, del mancipium , la distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti quei concetti insomma, (1) Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV , 9 , 11, attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e di aver voluto che i beni e non la persona del debitore fossero vincolati al creditore; ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza , che fa riportare a Servio tutti i provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla classe servile ed alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono sopravvivenze di un'e poca anteriore, che possono servire come materiali per la ricostru zione del primitivo diritto . Gli è soltanto col ricomporre insieme tutti questi rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce , quando siansi collocati nel sito , ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il carattere del popolo , le sue istituzioni politiche , il suo metodo di serbare i vocaboli , cambiandone anche il contenuto , ed il criterio informatore della riforma serviana, che si pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che dovette iniziarsi in questo periodo, se non nei particolari minuti, almeno nelle sue linee generali e nella logica fondamentale, da cui dovette essere percorso . 310. Fu questo paziente lavoro di ricomposizione, che mi mette in condizione di porre innanzi a questo proposito una congettura , la quale a prima giunta potrà apparire ardita, ma che risulterà sempre meglio comprovata, a misura che , procedendo innanzi, tutte le reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto , finiranno per prendere senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci porgeranno cosi una spiegazione naturale, logica e verosimile dei caratteri primitivi del medesimo. La congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che con Servio Tullio si posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus romanus quiritium , che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta, così fu eziandio da quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria elaborazione di quel ius quiritium , che fu ilnucleo primitivo di tutto il diritto privato di Roma, e che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo svolgimento , non perdette più mai quella speciale impronta, che ebbe ad assumere sotto l'influenza della costi tuzione serviana . Non si vuole già dire con ciò, che prima non vi fossero i quirites ed un ius quiritium ; ma quelli non comprendevano che i membri delle curie, e questo indicava il complesso delle istituzioni di carattere gen tilizio , che erano proprie del popolo delle curie , e che perciò avevano ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale (1). Con Servio (1) Cid parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta della legislazione attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente patrizia, dalla quale risulta che la famiglia , la proprietà , il delitto e le pede continuavano ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel periodo gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, pag . 329 e segg. 382 Tullio invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e siccome i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie , prendono il nome di quirites , così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium , in cui i vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le genti patrizie e la popo lazione di condizione inferiore , da cui esse erano circondate , ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere applicati ai rapporti , che erano l'effetto della nuova condizione di cose . Si conservano pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso i poteri, che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come proprietario di terre ; quello di nexum per indicare l'obbligazione di carattere quiritario ; quello di mancipium per in dicare il complesso delle cose e delle persone, che dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli , che dapprima designavano il diritto proprio della classe superiore di fronte alle popolazioni vas salle, da cui era circondata , vengono a significare i concetti pri mordiali del vero ius quiritium , comune alle due classi, e si mutano in altrettante concezioni logiche ed astratte, in cui può farsi entrare un nuovo contenuto. A quel modo insomma che colla formazione della città patrizia quei concetti di connubium , di commercium e di actio , che prima si erano spiegati nei rapporti fra le varie genti, vennero invece a governare dei rapporti fra quiriti, e cambiandosi così in concetti quiritarii furono il punto di partenza di altret tante istituzioni proprie dei quiriti (ex iure quiritium ) (1) ; così quel ius nexi mancipiique, che prima governava i rapporti fra i padri della gente patrizia e la plebe circostante, per l'accoglimento di quest'ultima nel populus romanus quiritium , venne a cam biarsi eziandio in una istituzione di carattere quiritario . Fu in questa guisa, che accanto a quella parte del diritto quiritario, che si ispira ad un'assoluta uguaglianza fra i capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne presenta un'altra , che tradisce l'inferiorità di con dizione di una delle classi, che entró a costituire il populus, alla qual parte appartengono appunto i concetti del nexum , del manci pium , della manus iniectio (2). 311. Si aggiunge che il contenuto di questi concetti viene anche (1) Questo è ciò che ho cercato di dimostrare più sopra al nº 266, p. 326 e segg . (2 ) Cfr. a questo proposito ciò , che si è detto intorno alla condizione giuridica della plebe, anteriormente alla sua ammessione nella città, al n ° 287, pag. 351 e seg. 383 a risentirsi delle circostanze sociali , in cui essi vennero a consolidarsi. Siccome quindi il concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva nel censo, quale misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti, cosi il censo venne in certo modo ad essere un crogiuolo , che servi ad isolare l'elemento giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di carattere diverso con cui trovasi confuso . Il diritto perdette cosi alquanto del suo carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o sintetico sul concetto del mio e del tuo ; esso inoltre assunse un'im pronta di rigidezza pressochè militare , quale poteva convenire ad un popolo , che presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano l'asta come simbolo del proprio diritto , e « ma xime sua esse credebant, quae ab hostibus caepissent » . Il censo viene in certo modo a misurare il contributo , che ciascuno reca in questa specie di società , e quindi, mentre esso è la stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima, serve anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co mune difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel lavoro, che dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le persone sotto il punto di vista esclusivamente giuridico , facendo astrazione da tutti gli altri aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate . Per tal modo il quirite , come tale, non è più nè patrizio nè plebeo , ma viene ad essere isolato da tutti i suoi rapporti gentilizii ; si considera come un caput ; conta come uno nel censo , e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le per sone e le cose, che da esso dipendono . Di qui l'immedesimarsi dei diritti di famiglia e di proprietà , che è il carattere più saliente del primitivo ius quiritium , e la significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso adoperati, che lo indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale proprietario di terre, ed hanno in certo modo l'apparenza di altrettante rubriche , che esprimono disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il quirite può essere considerato (1). ( 1) Ritengo che questo sia il solo modo per spiegare in modo plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo di Roma, per cui persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed immedesimarsi insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca confondessero il diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con quello del proprietario sopra una cosa ; ma siccome persone e cose figuravano nel censo, come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista giuridico comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo mancipium o della stessa familia . 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile trovare un autore, che accenni a questa tacita elaborazione , ma la medesima risulta da diverse circostanze , le quali insieme riunite provano che tale ha dovuto essere il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium all'epoca serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen , che una delle significazioni più certe dell'espressione « populus romanus quiritium » è stata quella di indicare la « leva patrizio plebea » , leva che ha cominciato appunto ad effettuarsi in quest'e poca (1). Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium , di iura gentilitatis, di ius gentilicium , che dovevano essere ancora frequenti durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di ius quiritium , e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium . Cosi pure non vi ha dubbio , che le altre forme di proprietà non vengono più tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium , che vedremo a suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium , quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione del cittadino (2). Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune : come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere quiritario (classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad essere l'emblema del diritto quiritario , che il populus assunse un carattere essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium , tribunale essenzialmente quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta , che si infiggeva davanti al medesimo ( 3). Infine fu certamente una conseguenza di questo (1) MOMMSEN, Röm . Forschungen , I, pag. 168. (2) Quanto allo svolgimento del concetto di mancipium , e alla conseguente distin zione delle res mancipii e nec mancipii mi rimetto al seguente lib. IV , cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. (3) L'origine del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella storia del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla . Per ora mi limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo : « festuca « autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii , quod maxime sua « esse credebant, quae ab hostibus caepissent ; unde in centumviralibus iudiciüs hasta « praeponitur » . Parmi infatti di scorgervi un nesso, se non storico , almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare come un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò , che conquisterà sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale punto di vista , sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i diversi negozii giuridici, che potevano essere in uso , venne facendosi la scelta di quelli, che si riferissero direttamente al diritto quiritario . Di qui le espressioni di legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio continentia , di negozii , che si com pievano secundum legem publicam , espressioni tutte , che noi tro viamo anche più tardi, ma la cui origine dovette rimontare a quel momento storico , in cui il diritto quiritario cominciò a consolidarsi, come diritto comune al patriziato ed alla plebe. Che anzi fu anche in quest'occasione, che dovette modellarsi quell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram , il quale serve in certo modo per attribuire autenticità a tutti gli atti, che possono modifi care in qualche modo la posizione giuridica del cittadino nella comunanza quiritaria . 313. Per verità basta porre l'istituzione del censo, come base di partecipazione alla vita giuridica, e politica e militare di una comu nanza, per comprendere come per l'attuazione di un tale concetto fosse indispensabile : lº di determinare quali fossero le persone, che dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare la parte del pa trimonio , che è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da tutte le altre (nec mancipium ) ; 3º di determinare le forme pubbliche cium . Ora se vi ha epoca in cui il quirite assuma decisamente questo carattere di uomo di guerra , questa è certamente l'epoca serviana ; e quindi è a quest'epoca che deve rimontare il concetto informatore dell'hasta , della festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si adopera, e del centumvirale iudicium , che deve essere appunto preceduto dall'actio sacramento, e avanti cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto dominio. La grave questione fu di recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor . Introd ., pag. 74, il quale sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, pag. 168, seguita poi dal KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana l'istituzione dei centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente combattuta dal WLASSAK , Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, pag . 131 a 139, il quale verrebbe alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non abbia preceduto di molto la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere assegnata al principio del sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di sostenere, che non abbiamo una prova diretta , che l'esistenza dei centumviri rimonti ad epoca anteriore, egli è certamente nel vero ; ma ciò non basta per escludere, che l'istituzione potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia pervenuta notizia . È poi incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di antichità remota , e che i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è proceduta, ci riportano a quella concezione essenzialmente militare del popolo romano, che rimonta appunto all'epoca serviana . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 25 386 - e solenni, mediante cui questa proprietà potesse essere trasmessa, e che servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse soprav venire nella condizione giuridica del caput (atto per aes et libram ); 4º di richiedere, che questi atti, i quali influissero sulla posizione del quirite, fossero compiuti coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens) e colla testimonianza di persone, che appartengano alla stessa comunanza (classici testes); 5 ° E infine di introdurre eziandio una procedura , che debba essere di preferenza seguita nelle controversie di diritto quiritario (actio sacramento ), ed anche un tribunale per manente, composto esso pure di persone tolte dalle classi e dalle centurie, per risolvere le questioni relative al diritto stesso (cen tumvirale iudicium ) . Non può certamente sostenersi, che tutte queste istituzioni, che poi si incontrano effettivamente nell'antico diritto romano, possano tutte rimontare alla stessa costituzione serviana ; ma si può almeno affermare con certezza, che esse erano una conseguenza logica del concetto informatore della medesima. Spiegasi in questo modo come mainel diritto di Roma trovinsi sen z'altro costituita e formata una quantità di istituzioni, in cui si ac centua il carattere quiritario , e come queste acquistino un carattere prevalente e preponderante, mentre le istituzioni di carattere genti lizio sembrano per il momento essere lasciate in disparte. Spiegasi parimenti come il mancipium siasi distinto dal nec mancipium ; come l'espressione pressochè militare di mancipium sia sottentrata a quella gentilizia di heredium ; come diversi siano i modi per la trasmissione delle res mancipii, e di quelle che non sono tali ; come i diritti del quirite compariscano in certo modo come illimitati e senza confine, poichè egli, essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad essere riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si comprende eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto quiritario , e come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche fra i cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico , che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma consuetudinaria, che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a diventare comune al patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del populus romanus quiritium . Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due classi , che prima erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in questo periodo della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere le mosse da certi concetti, come quelli del nexum , del mancipium , della manus iniectio , che eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con quella inferiore. 314. Le cause intanto, che a parer mio possono aver determinata questa singolare formazione del ius quiritium , che doveva poi eser citare tanta influenza sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono essere cercate nel carattere peculiare della costituzione serviana, e nello svolgimento che seppe dare alla medesima il genio eminentemente giuridico del popolo romano. Prima fra esse è la costituzione serviana , in virtù della quale all'organizzazione essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra un'organizzazione novella , in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella doppia qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre . Siccome infatti la famiglia e la proprietà privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni alle due classi, così esse solo potevano essere di base alla partecipazione nella stessa comunanza . Quindi un primo effetto logico ed inevitabile di questa speciale condi zione, in cui si trovò collocato il popolo dei quiriti, venne ad es sere questo , che al punto di vista giuridico si fece astrazione da quelle istituzioni intermedie , che si frapponevano fra la famiglia ed il popolo , quali erano le genti e le tribù primitive. Sia pure che queste istituzioni continuino ad esistere nel patriziato ; ma in tanto l'elemento gentilizio viene ad essere escluso dal ius quiritium nello stretto senso della parola , in quanto che di fronte al censo più non vi sono che capi di famiglia, riguardati come liberi disposi tori delle proprie cose . Quasi si direbbe, che la vita giuridica si ri tira dalle istituzioni intermedie, e viene invece a riunirsi più potente e concentrata nelle due istituzioni estreme, le quali vengono cosi ad irrigidirsi, come il diritto da esse rappresentato, per guisa che la famiglia e il suo patrimonio si cambia nel mancipium del proprio capo, ed il populus assume un carattere essenzialmente militare . Quella distinzione pertanto fra res publica e res familiaris, che già aveva cominciato a delinearsi fin dapprincipio , ora viene ad accentuarsi in modo più vigoroso e potente; poichè tutti i gruppi intermedii vengono in certa guisa ad essere soppressi al punto di vista della costituzione serviana. Parimenti siccome l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui intercedevano così gravi differenze , era quello della comune difesa , e forse anche quello dell'offesa e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il nuovo popolo non poteva a meno di assumere un carattere essenzialmente militare, che doveva riflettersi eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto ciò che riferivasi al connu bium , al culto gentilizio , agli auspizii, continuava anche dopo la costituzione serviana ad essere esclusivamente proprio del patriziato : quindi i soli atti, che potessero essere comuni ai due ordini, dove vano essere atti di carattere mercantile , quale era appunto l'atto per aes et libram , il quale viene così a ricevere molteplici e sva riate applicazioni, e ad essere la forma fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di carattere quiritario . A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio emi nentemente giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del proprio diritto seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale punto di vista , a cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo , che per l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo considerare i capi di famiglia come altrettanti capita , ed il complesso dei loro diritti come un manci pium , ossia come una questione di mio e di tuo. Era soltanto in questa guisa , che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza poteva essere applicata quella iuris ratio , elaborazione propria del genio romano, mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli elementi affini. Fu questo il processo , mediante cui il diritto potè essere sottoposto a quella logica astratta , per cui le per sone perdono in certa guisa ogni personalità concreta e diventano dei capita ; le fattispecie si riducono ad una selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei fatti umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante costruzioni geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere cosi un proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si presenta più rigida , più esclusiva , fu certamente l'epoca serviana , perchè in essa i membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto del mio e del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero, pondere acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti del diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di astrazione giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo , quale sa rebbe il Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva chiamarsi del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un lungo periodo di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle tradizioni del medesimo. Ma vi ha di più , ed è che senza un'astrazione di questo genere era impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei quiriti. Questi sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella comunanza sono riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di terre. Il quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì, che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa , che nel suo genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti del vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà , ma hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti , le cui linee son dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente , che ci rende così difficile il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo proposito sono altamente persuaso , che questa dialettica non può essere sorpresa che alle origini del diritto quiritario . Posteriormente infatti il numero infinito dei particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im possibile di comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio , mentre la sintesi primitiva del diritto quiritario , le cause che ne determina rono la formazione, e la logica, che ebbe a governarla , possono facil mente somministrarci la chiave per comprenderne il successivo svi luppo . Lo studio di questa struttura primitiva del diritto quiritario, sarà argomento del seguente libro, e conclusione del presente lavoro . Per ora intanto , onde non essere costretto ad interrompere la esposizione della struttura organica del jus quiritium col racconto degli avvenimenti storici, che contribuirono alla formazione di esso , credo opportuno di porre termine al presente libro con un capitolo, in cui cercherò di riassumere quella lotta per il diritto fra il pa triziato e la plebe, che segui nel periodo, che intercede fra la co stituzione serviana e la legislazione decemvirale . 390 CAPITOLO IV . Il patriziato e la plebe nel periodo dalla costituzione serviana alle XII Tavole . 316. Le divergenze fra gli autori nell'apprezzare gli effetti della costituzione serviana, non impediscono , che tutti siano concordi nel riconoscere, che essa costitui il primo passo al pareggiamento dei due ordini. Con essa infatti la plebe venne ad avere un terreno giuridico e legale , sovra cui potè misurarsi col patriziato , ed una assemblea , in cui potè impegnare la lotta . Da quel momento perciò potè manifestarsi quella legge, che secondo Aristotele determina tutte le rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli eguali sotto un aspetto , tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri aspetti. Come potevano gli eguali nell'esercito , nei comizii centuriati, nei tributi, continuare ad essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei sacerdozii, e nel diritto (1 ) ? Finchè durd il regno di Servio Tullo , la lotta non ebbe occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso Servio si appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era nello spi rito della costituzione da lui introdotta . Egli quindi rinnovo a più riprese il censo ; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti; concesse la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo ; distinse i giudizii pubblici e privati ; institui giudici privati per la decisione delle controversie di minore impor tanza , e probabilmente eziandio la Corte dei centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso della parola , e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori ( 2). Fu in tal le que (1) ARISTOTELES, Politica , ed . Bekker. Lib . V , pagg. 1301 e 1302. Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE , De rep ., I, 49, allorchè scrive: « quo iure societas civium teneri potest, cum par non sit conditio civium ? Iura « paria esse debent eorum inter se, qui sunt cives in eadem republica » . Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata la dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno stabile assetto ; « itaque cum patres rerum poti rentur, nunquam constitisse civitatis statum putant » . (2 ) Questi sono i provvedimenti attribuiti a Servio Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad essere accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione della storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla punto dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion ., IV, 22, 4 , 10 , 13. 391 modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle plebi, che continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come l'iniziatore di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una sorda opposizione nel patriziato, come lo dimostra il fatto , che egli avrebbe dovuto confinarlo ad abitare nel vicus patricius ( 1). Dopo Servio così il patriziato che la plebe si trovarono di fronte ad un pericolo comune , che fu il tentativo di tirannide di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di mezzo le leggi ser viane, e mentre da una parte cercò di occupare la plebe con la vori edilizii, si studið dall'altra di comprimere il patriziato , non curandosi di convocare il senato , nè di riempirne i seggi, che re stavano vacanti ( 2). – Ne consegui una sosta nello svolgimento dei concetti ispiratori della costituzione serviana : sosta forse più appa rente, che reale, poichè se il governo di un tiranno comprime la libertà di tutti, può sotto un certo aspetto esser favorevole allo svolgersi dell'uguaglianza fra le varie classi, rendendo tutti eguali di fronte al dispotismo di un solo . Il tentativo ad ogni modo non potè riuscire, e quando i due or dini dimenticarono le loro gare di fronte al nemico comune, venne ad essere naturale , che l'evoluzione si ripigliasse , ritornando a quelle istituzioni serviane, che per il momento erano ancora le sole, che potessero essere di base ad un accordo del patriziato e della plebe. 317. Narra infatti Livio, che i primi consoli furono nominati in base ai commentarii di Servio Tullo , e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero richiamate in vigore le leggi di Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed accette alla plebe, riattivata l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii per l'elezione dei magistrati e per le deliberazioni popolari (3). Tutti gli autori poi, che ricordano il passaggio dal governo regio al repubblicano, sono concordi in rico noscere, che il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire al re, magistrato unico ed a vita , il consolato, magistrato duplice ed (1) « Patricius vicus, scrive Festo , dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a bente Servio Tullio, ut, si quid molirentur adversus ipsum , ex locis superioribus opprimerentur » . Bruns, Fontes, ed. V , pag. 351. (2) Dion., IV, 25 ; Liv ., I, 49. Cfr . Bonghi, Storia di Roma, I, pag . 209, ove riassume le tradizioni diverse a noi pervenute intorno a Tarquinio il Superbo. (3 ) Liv., I, 60 ; Dion., V , 2. 392 annuo (1). Il potere pertanto dei consoli fu una continuazione del potere regio , colla sola differenza che il potere religioso si venne già in parte separando dal civile , in quanto che i poteri, che appar tenevano al re qual sommo sacerdote del popolo romano, furono per imitazione dell'antico affidati a un rex sacrorum , o rex sa crificulus, ma in realtà si vennero concentrando nel pontifex maximus, chiamato a presiedere il collegio dei fpontefici (2 ). Da cid in fuori il potere sovrano non è dapprima ripartito fra i due consoli, ma persiste intero in ciascuno di essi, salvo la reciproca intercessione, che l'uno può opporre agli atti compiuti dall'altro . Che anzi, ad impedire che la continuità dell'imperium possa essere interrotta col passare da un console ad un altro , tocca al magi strato che esce di proporre ai comizii il proprio successore , e nel caso in cui egli non lo faccia, si continua sempre a provvedere coll'istituzione dell'interregnum , conservando il concetto ed il vo cabolo , che erano già in vigore durante il periodo regio (3 ). È poi solo in seguito alle lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche dell'accrescersi della dominazione romana, che quell'unico potere (imperium ) che accentravasi dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e gradatamente suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo repubblicano ; per guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori, censori) si dividono in certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese nell'imperium regis, (1) Questo concetto, che nel passaggio alla repubblica non siasi sostanzialmente mutato il carattere del potere spettante al magistrato, occorre in Dion ., IV, 72-75; in CiceR., De rep ., II, 30 e in Livio, II, 1, 17. V. il raffronto che ne fa il Bongai, op. cit., pagg. 562-69. (2 ) Che la dignità del pontifex maximus dati soltanto dalla repubblica , mentre prima era il re stesso, che era il sommo sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti ammessa. V. fra gli altri, Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p . 8 e 9 ; e il Willems, Le droit public romain , pag. 51 e pag. 318. A parer mio la causa storica del fatto sta in questo, che colla costituzione serviana il populus ro manus quiritium , comprendendo anche la plebe, perdette in parte quel carattere re ligioso , che aveva finchè era ristretto alle genti patrizie, e quindi il magistrato del popolo romano assume un carattere essenzialmente civile e militare, mentre i pon tefici, pur rappresentando il popolo come famiglia religiosa , continuarono ad essere i custodi delle tradizioni religiose e giuridiche di quel patriziato, da cui erano tolti. (3 ) V. quanto all' interrex e alla nomina di esso per parte dei patres o patricii ciò che si è detto ai numeri 237-39, pag. 288 e segg., ove ho cercato di dimostrare che la nomina dell'interrex , la patrum auctoritas e la lex curiata debbono riguar darsi come sopravvivenze della costituzione esclusivamente patrizia . 393 mentre le magistrature minori (questori, edili) sono uno svolgimento di quegli ufficiali subalterni, che dapprima erano nominati dal re e dal console, e che finiscono col tempo per essere anche essi nomi nati direttamente dal popolo ( 1). È in questo modo che si spiega come mai siasi potuto avverare una trasformazione cosi grande nella forma di governo, senza che si alterassero le basi fondamentali della costi tuzione primitiva di Roma. 318. Intanto finchè durarono i pericoli esterni delle guerre susci tate dagli esuli Tarquinii, si mantenne fra i due ordini un' appa rente concordia (2), come lo dimostra il fatto, che i consoli sogliono essere tolti da famiglie ritenute di tendenze favorevoli alla plebe, e che sono i consoli stessi, che propongono di togliere le scuri dai fasci, allorchè rientrano nelle città , e consacrano con leggi spe ciali il ius provocationis ad populum (3). Ma appena colla morte di Tarquinio si attutiscono i pericoli esterni, si accentuano invece i dissidii interni, ed è allora che si inizia una lotta , che direbbesi un modello nel suo genere, tanta è la tenacità del patriziato nel conservare i suoi privilegii e la perseveranza della plebe nell'ap profittarsi di tutte le opportunità per ottenere concessioni novelle . Egli è durante questa lotta, che già si pud scorgere come nella massa plebea venga distinguendosi la plebe ricca ed agiata , la quale essendo pari in ricchezze aspira alla comunanza dei connubii e degli (1) La specializzazione dell'imperium del magistrato è uno dei processi più degni di nota, che presenti lo svolgimento delle istituzioni repubblicane, poichè l'imperium regis, al pari del potere giuridico del capo di famiglia , parte da un'unità e sintesi potente , a cui succede durante la repubblica una differenzazione, la quale ,mentre è determinata dall'incremento della città e dalle lotte fra patriziato e plebe, obbe. disce però sempre alla logica fondamentale del concetto primitivo di imperium . Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 5 ; Herzog , Op. cit., I, § 32, pag. 580 e segg ., e ciò che si disse in proposito al nn . 201-204 , pag. 245 e segg. (2) La diversità di trattamento, usata dal patriziato alla plebe, nell'epoca che seguì immediatamente la cacciata dei re e in quella posteriore alla morte di Tarquinio il Superbo è accennata da Liv ., II , 21, 6 e da Sallustio , Hist. fragm ., I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che i dissidii esistevano già prima, e che quindi venne soltanto meno l'indulgenza , che prima era adoperata. Op. cit., pag. 302. (3) La provocatio ad populum , che Livio chiama « unicum libertatis praesidium ebbe ad essere consacrata negli inizii della repubblica colla lex Valeria , proposta dal console Valerio Pubblicola. La provocatio doveva già preesistere nel periodo regio, ma fu necessaria una espressa consacrazione di essa per il nuovo elemento, che era entrato a far parte del populus. Cfr. ciò che si disse al n ° 245 , pag . 300 e 301 . >> 394 onori, e la plebe povera e minuta , che sopratutto teme il carcere privato dei creditori patrizii , e aspira a quella ripartizione dell'ager pubblicus, mediante cui può entrare a fare parte della vera ed ef fettiva cittadinanza , accolta nelle classi e nelle centurie (1). Di qui i caratteri peculiari di questa lotta , che ha del pubblico e del pri vato ad un tempo , cosicchè una sommossa provocata dalla legge inumana sulla condizione dei debitori, può condurre alla istituzione del tribunato della plebe, al modo stesso che una mozione per restringere l'arbitrio del magistrato , finisce per riuscire ad una proposta di generale codificazione. Cosi pure è un carattere di questo conflitto , che le proposte dei tribuni sogliono comprendere più provvedimenti ad un tempo , anche di natura diversa , e cid perchè essi mirano a tenere unite la plebe ricca ed agiata e quella povera e minuta (2 ). Di più anche in questa lotta si mantiene quel carattere pressochè contrattuale , che ha governato la formazione della città ; poichè i due ceti vengono fra di loro a transazioni e ad accordi, stipulano dei foedera , e cercano persino di dare aime desimi quella consacrazione religiosa , che è propria dei trattati fra i popolidiversi (leges sacratae) (3). Così pure la plebe, quando trova incomportabile la propria coesistenza nella città , minaccia di abban donare la comunanza e di fermare altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla leva, che è il primo obbligo e diritto del citta dino. Dappertutto infine si palesa il carattere essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il conflitto non appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra essere determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella realtà dei fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad essere una sola , cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due ordini ; ma essa prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori, ora dall'arbitrio del magistrato , ora (1) Questa distinzione della plebe in due parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Rep. Rom ., pag . 24 . (2) Di qui l'espressione di lex satura o per saturam , la quale secondo Festo si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta » . Siccome però essa cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti, che altrimenti non sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano popolari, così si cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma. Cic., De domo, 20, 53. Festo , vº Satura . Cfr. WILLEMS, op. cit., pag . 184. (3 ) V. quanto alle leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta tri buniciæ potestatis natura eiusque origine. Leipzig , 1883 . 395 dalla ripartizione dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto , ed ora infine dal divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall' esclusione di quest'ultima dalle magistrature e dai sacer dozii (1). Per tal modo quella plebe , che memore dapprima della condizione pressochè servile da cui era uscita , si contenta di chie . dere l'istituzione di un magistrato, il quale non abbia altra potestá che quella di venirle di aiuto, finisce col tempo, guidata ed orga nizzata da questo istesso magistrato, per ottenere non solo il pareg giamento giuridico e politico , ma per far entrare nei quadri della costituzione politica di Roma i suoi magistrati (tribuni della plebe), i suoi plebisciti, ed i suoi comizii tributi (2 ). 319. Qui però non può essere il caso di tener dietro alle vicis. situdini diverse dei varii aspetti della questione politica e sociale, che si agito fra il patriziato e la plebe , ma piuttosto di cercare quali fossero le condizioni rispettive dei due ordini per ciò che si riferisce al diritto privato . È questo certamente il maggior problema che presenti questo pe riodo di transizione, poichè se la storia ha serbato qualche traccia delle lotte politiche fra il patriziato e la plebe, noi sappiamo quasi nulla di quello che accadde fra di loro nell'attrito dei quotidiani in teressi. Si aggiunge che le testimonianze, che ci pervennero in proposito , sono del tutto contradditorie . Mentre infatti Dionisio attesta che si rimisero in vigore le leggi intorno ai contratti attri buite a Servio Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che tutte le leggi promulgate dai re furono abolite con una legge tribunizia , e che tutto fu lasciato alla consuetudine come era prima ( 3). Non vi è quindi altro modo di uscire dalla difficoltà , che di argomentare lo stato del diritto privato dalle condizioni rispettive, in cui si tro vavano le due classi . (1) Un riassunto chiaro ed ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui ebbe a svol gersi la lotta , fra patriziato e plebe, nelle parti attinenti al diritto, occorre nel Mui RHEAD, Histor. Introd ., part. II, sect. 17, pag . 83-88. Per un racconto più partico lareggiato cfr. il Lange, Histoire intérieure de Rome, livre II, pag. 111 a 217. (2 ) Già ebbi occasione di riassumere questo singolare svolgimento della costitu zione politica di Roma a proposito dei comizië tributi ai numeri 233-34, p . 271 e segg .; dei plebisciti ai numeri 231-32-33, pag. 281 e seg .; e dei tribuni della plebe n ° 249, pag . 292 e seg. (3 ) Dion., V, 2 ; Pomp., Leg. 2, § 3 ( Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo l'incertezza del diritto sarebbe durata circa vent'anni; ma è facile il notare, che se essa perdurò fino alle XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa sessant'anni. 396 Ora è certo anzitutto , che in questo periodo quell'attrito delle classi, che appare nel campo politico , dovette avverarsi eziandio nel dominio strettamente giuridico. Anche qui dovettero trovarsi di fronte le tradizioni patrizie e le consuetudini plebee, coll' avver tenza perd che la magistratura esclusivamente patrizia fini per dare una prevalenza alle prime sulle seconde; cosicchè è probabile, che sopratutto la plebe ricca ed agiata, malgrado il divieto dei connubii, cercasse già in qualche modo di imitare l'organizzazione della fa miglia patrizia . Di più siccome eravi fra il patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non ancora quella di connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un jus quiritium , comune alle due classi, che già erasi iniziata colla costituzione serviana, ed il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto quelle forme di carattere mercantile , che allora si erano introdotte, ricorrendo sopratutto all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, ossia dell'atto per aes et libram . Che anzi, quando si voglia ammettere con alcuni autori, che il tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti tolti dalle varie classi e poscia dalle varie tribù , rimonti all'epoca di Servio Tullio, converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca probabilmente presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla formazione del jus qui ritium , come quello che anche più tardi appare chiamato a ri solvere questioni di diritto strettamente quiritario (1). Nella sua opera tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le questioni di stato (2 ). Infine è ( 1) Quanto all'istituzione dei centumviri e alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo precedente , nº 312, pag . 384, nota 3 . (2) È del tutto incerta anche l'origine dei decemviri stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai medesimi sarebbe quello, che occorre in Livio , III, 55, il quale parla di iudices decemviri, stati dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli edili della plebe colla legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi il WLASSAK , Römische Processgesetze, Leipzig, 1888 , pag. 139 a 151, sostiene che i decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices decemviri di Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di essi, che giudicavano delle questioni di libertà e distato . Cic ., pro Caec., 33. V. per l'opinione comunemente ricevuta Keller , Il processo civile romano ( Traduz. Filomusi, Napoli 1872, pag. 17), il quale anzi li farebbe rimontare sino a Servio Tullio , come giudici per le cause 397 pur probabile , che gli edili della plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora chiamati a risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e sulle fiere , e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia , lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato alla custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il proprio ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una indipendenza maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un pontifex maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si comprende pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci descrivono il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della Repubblica , come riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi ultimi come dei primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium , come di una scuola a cui venne poi formandosi il ius civile ( 1). Intanto è naturale, che i pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto per iscopo di applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano sor gendo collo svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso venissero continuando quella elaborazione di un ius quiritium , che erasi iniziata dal tempo, in cui la plebe era entrata a far parte della cittadinanza romana. 320. Insomma la conclusione ultima viene ad essere questa , che in questo periodo dovette avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni patrizie e le costumanze plebee, e che perciò dovette essere grandissima l'incertezza intorno a quel diritto , che doveva essere applicato nei rapporti fra il patriziato e la plebe. Ne conseguiva che private, il che non sembra da ammettersi, perchè il giudice di queste cause dovette essere piuttosto il iudex unus tratto dai iudices selecti. (1) Per l'influenza dei pontefici sul diritto civile vedi sopra i numeri 262 e 263, pag. 321 e seg . colle note relative. Si occupò molto largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm . R. G., 1, $ 43, pag. 219 e seg. Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e commentarii dei pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm . Literatur , Leipzig , 1882, SS 70-76, pag. 114 a 119 . 398 il console , chiamato ad amministrare la giustizia, finiva per non avere alcun confine al proprio arbitrio , il che doveva essere grave alla plebe, anche per trattarsi di magistrato, il quale per essere tratto esclusivamente dall'ordine patrizio , poteva ritenersi favorevole a quest'ultimo. Si comprende cid stante come Terentillo Arsa, nel 292, cominciasse dal chiedere che fosse eletta una commissione, che determinasse per iscritto quale fosse la giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine all' arbitraria ed oppressiva ammini strazione di ciò , che essi chiamavano col nome di diritto e di legge ( 1). Fu solo nell'anno dopo , che d'accordo coi colleghi, per togliere alla sua proposta il carattere di odiosità contro il potere dei consoli, egli chiese che la legge , così pubblica come privata, dovesse essere codificata , e che cosi ogni incertezza venisse per quanto si poteva ad essere rimossa . L'importanza della questione viene ad essere provata dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad essere sostenuta in torno alla medesima; poichè solo nel 303 di Roma si ebbe completa la legislazione decemvirale . Qui non può essere il caso di entrare nell'esame minuto della medesima, nè di parlare dei tentativi di rico struzione, che se ne vennero facendo anche in questi ultimi tempi ( 2) : mi basterà invece dir qualche cosa intorno al carattere generale di questo codice, da cui doveva prendere le mosse tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile di Roma. A mio avviso la legge decemvirale e la legge Canuleia , che la segui a poca distanza (309 di Roma) ed aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato e la plebe, debbono essere considerate, quanto al diritto privato di Roma, come l'avvenimento che chiude il periodo delle origini ed apre quello dello svolgimento storico della giuris prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole si chiude in certo modo il periodo del ius non scriptum , di quel diritto cioè, che viveva più nelle consuetudini che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo del ius scriptum , poichè da quel momento anche l'interpre tazione cominciò ad avere la sua base nella codificazione (3 ). Con (1) Liv., III, 9. Cfr. MuirŅEAD, op. cit., pag. 87 e 88. (2 ) V. Ferrini, Storia delle fonti del diritto romano, pag. 5 a 9. È poi noto, che i grandi tentativi di ricostruzione delle XII Tavole si riducono a quelli di Jacopo Gottofredo , del Dirksen e a quello recentissimo del Voigt, già più volte citato. (3) Non voglio dire con ciò, che prima non esistessero delle leggi scritte : ho anzi dimostrato che dovettero esservene fin dal periodo regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole, che si introdusse tutto un sistema di legislazione scritta, il quale potè servire 399 esso parimenti termina il periodo del ius non aequum , ossia di un diritto disuguale fra patriziato e plebe, e comincia il periodo del ius aequum , ossia la formazione di un diritto eguale per l'uno e per l'altro ceto , il che gli autori esprimono con dire, che le leggi delle XII Tavole erano intese ad aequandum ius e ad aequandam libertatem (1). Con esso infine termina il periodo della indistinzione del fas e del ius, al modo stesso che già si possono scorgere i principii del diverso indirizzo , in cui si pongono il diritto pubblico e il diritto privato ; dei quali il primo continua a svolgersi nelle lotte della piazza e del foro, mentre il secondo comincia ad apparire come il frutto della tacita elaborazione prima dei pontefici e poscia dei giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche la legislazione decemvirale deve essere considerata come un compromesso fra i due ordini e in certo modo come una specie di patto fondamentale della loro coe sistenza nella medesima città (2 ) . Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè comprendono un sistema compiuto di legislazione pubblica e privata , nè rinnovano tutte le disposizioni che già erano contenute nelle leggi regie: ma sembrano il più spesso limitarsi ad introdurre sotto forma imperativa quei provvedimenti, che potevano essere stati oggetto di discussione e di lotta , il che è sopratutto evidente quanto alle disposizioni, che si riferiscono al diritto pub come punto di partenza alla iuris interpretatio ed alla disputatio fori, di cui parla Pomponio , L. 2, § 5 , dig . 1-2. Quanto ai caratteri particolari di questa interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING , Esprit du droit romain , III, pag. 142 e segg . (1) LIVIO (III, 24 ) fa dire ai decemviri « se quantum decem hominum ingeniis provideri potuerit, omnibus, summis infimisque iura aequasse » . Di quianche l'espres sione, che occorre in Livio ed in Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero il fons omnis aequi iuris , ed anche il finis aequi iuris, perchè esse, a differenza di altre leggi, non furono il frutto di una sorpresa , ma di una vera transazione ed accordo fra i due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER , Introd . Histor., Bruxelles, 1881, pag. 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 7 e note relative. (2) Questa specie di compromesso appare dalle parole che Livio , III, 31 attribuisce ai tribuni della plebe : « finem tamen certaminum facerent. Si plebeiae leges displi « cerent, at illi communiter legum latores et ex plebe et ex patriciis, qui utrisque « utilia forent, quaeque aequandae libertatis essent, sinerent creari » . Di qui rica vasi anche un argomento per inferire, che la legislazione decemvirale suppone già una specie di fusione del diritto delle genti patrizie con quello della plebe, il che sarà meglio dimostrato più oltre. 400 blico , e per quelle che riguardano l'usura e il trattamento che il creditore può usare contro il debitore ( 1). Cid spiega anche in parte la sobrietà e la concisione della legislazione decemvirale , la quale , senz'entrare nella descrizione degli istituti ed in disposizioniminute, si limita a porre dei concetti sintetici e comprensivi, pressochè enunziati in forma assiomatica , lasciando poi alla interpretazione di ricavare da essi tutte le conseguenze , di cui potevano essere ca paci (2). Di qui derivano eziandio la venerazione e la riverenza , in cui fu tenuto sempre questo codice primitivo del popolo romano ; la differenza che i Romani ravvisarono sempre fra queste leggi fonda mentali, e quelle che si vennero gradatamente aggiungendo alle medesime; ed il fatto incontrastabile, che la legislazione decemvirale, malgrado la pochezza dei proprii dettati , ha finito per essere il punto di partenza di un sistema intiero di legislazione. Tuttavia il carattere più saliente e più importante per la storia del diritto primitivo di Roma, che a mio giudizio vuolsi ravvisare nella legislazione decemvirale , consiste in questo , che siccome le XII Tavole furono il primo codice comune ai due ordini, cosi fra tutti i documenti dell'antico diritto , esse portano le traccie più evi denti dell'origine diversa delle istituzioni, che entrarono a costituire il sistema del primitivo diritto romano . In esse infatti noi troviamo da una parte trasportate di peso certe istituzionidelle genti patrizie , il che si avverò sopratutto quanto all'organizzazione della famiglia e alla successione e tutela legittima degli eredi suoi, degli agnati e dei gentili, istituzioni che i giureconsulti ci dicono appunto essere state introdotte dalla legislazione decemvirale (3 ). In esse parimente ( 1) Così, ad esempio, la legge secondo cui a de capite civis nisi maximo comi tiatu ne ferunto » mira certamente ad impedire, che le accuse capitali potessero re carsi innanzi ai concilia plebis, come i tribuni della plebe avevano più volte tentato di fare, come lo dimostra , fra gli altri, il processo contro C. Marcio Coriolano. Uno scopo analogo dovette pure avere la legge: privilegia ne inroganto. Cic ., de leg ., 19, 44 . (2) Nota a ragione il Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu ridico di Roma, sia perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia anche per il carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano eziandio, che l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in quanto che già si dànno come formati i concetti del nexum , del mancipium , del testamentum , senza che occorra di indicarne il contenuto . (3) Se prestiamo fede ai giureconsulti sarebbero state introdotte direttamente dalla legislazione decemvirale le successioni e le tutele legittime e le legis actiones, le quali sarebbero state composte dai pontefici sui termini stessi delle XII Tavole. 401 è evidente lo sforzo dei decemviri di porgere alla plebe un mezzo per uscire dalla posizione di fatto in cui si trovava , e procurarsi invece una posizione di diritto ; come lo dimostra fra le altre cose la parte assai larga fatta all'usus auctoritas, che compare qual mezzo per contrarre le giuste nozze, per acquistare le cose mobili ed immobili, e qual modo di acquisto della stessa eredità (1). Infine nella legislazione decemvirale si rinviene eziandio una parte dovuta all'elaborazione di quel rigido ius quiritium , che ebbe a formarsi sotto l'influenza del censo e delle altre istituzioni serviane, i cui concetti fondamentali sono quelli del nexum , del mancipium , del testamentum , dell'atto per aes et libram , nei quali tutti il quirite appare con un potere senza confini, cosicchè la sua parola viene in certo modo a convertirsi in legge : « uti lingua nuncupassit ita ius esto » ( 2 ) . 322. Questi varii elementi di origine diversa , che insieme ad alcune disposizioni particolari imitate dalle legislazioni greche (3) (1) Lo stesso è pure a dirsi del riconoscimento della fiducia, la quale non avendo forma giuridica dovette probabilmente nascere nelle consuetudini della plebe. Vedi in proposito ciò che si disse quanto al contributo della plebe nella formazione del di ritto romano ai numeri 148 a 157, pag. 182 e segg ., e sopratutto a pag. 184. Si ritornerà poi sull'argomento nel libro seg ., cap . IV , § 3, trattando della mancipatio cum fiducia . ( 2) V. cap. precedente, relativo all'influenza della costituzione serviana sulla for mazione del ius quiritium . ( 3) V. Lattes, L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole . Milano, 1884. Non può qui essere il caso di trattare a fondo la questione della ambasciata in viata in Grecia e ne quella dell'influenza greca sulle XII Tavole, questione che pud aver bisogno di un nuovo stadio dopo la scoperta delle leggi di Gortyna: ma credo che il seguente libro proverà fino all'evidenza , che le basi fondamentali del primitivo ius quiritium sono desunte dalle istituzioni già esistenti fra le genti italiche, e che furono eminentemente ed esclusivamente romani così il modo in cui furono foggiati gli istituti giuridici, come il processo logico e storico ad un tempo, con cui furono svolti. L'analogia pertanto di certi istituti può anche essere prove nuta o dalla comune origine ariana , o dalle condizioni analoghe, in cui si trova rono le genti italiche e le elleniche nel passaggio dall'organizzazione per genti alla vita cittadina ; mentre l'imitazione diretta si limita a disposizioni di poca impor tanza, la cui origine ellenica è sempre di buon animo accennata dagli autori la tini, che non disconobbero mai la sapienza dei Greci, pur affermando la propria superiorità in tema di diritto. Cfr . Voigt, XII Tafeln , I, pag. 10 a 16, dove pare si trovano raccolti i passi degli antichi autori, che si riferiscono all'argomento . Quanto all'influenza greca sulla giurisprudenza romana in genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella Vita del diritto , pag. 179 a 194 . 1. CARLE , Le origini del diritto di Roma , 26 402 formarono il substratum della legislazione decemvirale, finiscono dopo di essa per svolgersi contemporaneamente e quindi con essa può dirsi aver termine il ius quiritium propriamente detto, e cominciare. invece l'elaborazione di un ius proprium civium romanorum , in cui continuarono però a perdurare le primitive istituzioni del ius quiritium . Ciò ci è dimostrato dall'attestazione di Pomponio , se condo cui tutto quel diritto , che venne a formarsi sulla legislazione decemvirale , mediante la iuris interpretatio , la disputatio fori, e la formazione delle legis actiones, venne appunto ad essere indi cato col vocabolo di ius civile (1). Anche qui pertanto si fa ma nifesto quel singolare magistero, che si rivela poi in tutta la forma zione della giurisprudenza romana, per cui, accanto al diritto già formato e consolidato , havvene una parte , che continua sempre ad essere in via di formazione. Per talmodo accanto al ius quiritium , iniziatosi sopratutto colla costituzione serviana, venne formandosi il ius civile, i cui esordii partono dalla legislazione decemvirale ; poi accanto a questo si esplicò il ius honorarium , elaboratosi sopratutto sull'editto del Pretore; infine molto più tardi ancora, secondo qualche autore, accanto al ius ordinarium viene formandosi il cosi detto ius extraordinarium (2 ) . Parmi quindi giusto il ritenere, che colla legislazione decemvirale si chiude il periodo delle origini propriamente dette, in cui le varie istituzioni trovansi ancora allo stato embrionale , e comincia il vero svolgimento storico del diritto romano, in cui le varie parti del di ritto pubblico e privato , già procedendo separate le une dalle altre, debbono anche essere studiate separatamente nel proprio sviluppo . È a questo punto pertanto , che può essere opportuno un tentativo di ricostruzione di quel primitivo ius quiritium , che a mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva di tutta la giurisprudenza romana, e può darci il segreto di quella dialettica potente, che strinse insieme le varie parti della medesima. Spero che la bellezza e l'im portanza grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per la spiegazione del diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie origini, non ha cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi perdonare l'audacia del tentativo . ( 1) KUNTZE, Ius extraordinarium der römischen Kaiserzeit. Leipzig , 1886 . (2 ) POMP., Leg . 2 , SS 5 e 6 , Dig. ( 1-2). LIBRO IV . Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La struttura organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E opinione pressochè universalmente adottata , che il primitivo diritto di Roma porti in sè le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato in ogni sua parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata , determinata esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui trovossi il primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della formazione del ius quiritium , nel momento in cui per opera della costituzione serviana comincio ad essere comune alle due classi , mi conduce a conclusioni alquanto diverse. Questo ius quiritium , se nei vocaboli può ancora portare le traccie di un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il risultato di una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a trascegliere dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento di questo libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto privato di Roma, che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium , e a costituire così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che doveva poi durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di seguire talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici, anche oltre gli stretti confini del ius quiritium . Il motivo è questo, che anche nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a parer mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle origini. Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto romano consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua lunga durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era stata iniziata ; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi occorrano certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una conseguenza logica di fatti , che si avverarono nel principio della formazione, e dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata . 404 - che potevano accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento giuridico da tutti gli altri punti di vista , sotto cui i fatti sociali ed umani possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace ; i suoi concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche , in cui esso si manifesta ; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si trasportano da uno ad un altro negozio giuridico ; la coerenza organica delle sue varie parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica , di cui appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui esso riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni so ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a vocaboli tolti dalle scienze fisiche , chimiche e naturali, perché è soltanto nelle naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle analisi, ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In esso dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e coerente, che anche un giureconsulto , preparato da una lunga edu cazione giuridica , stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata con dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il quale , guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro di arte giuridica , che può essere considerato come un pegno della perfezione, a cui esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto quiritario infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi , di cui esso si vale ; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni elemento affine, che i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari dei suoi concetti politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche, e costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica astratta , che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la logica giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo più vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i varii atteggiamenti , sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite , in quanto si considera come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche , deve per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero della parola . Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è l'uomo isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale soltanto , che egli conta nel censo serviano , ed è come tale eziandio, che esso si presenta nel primitivo ius quiritium . Esso inoltre è anche un'astrazione sotto un altro aspetto , in quanto che la logica giuridica lo isola da tutti i vincoli religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere sottoposto , e lo concepisce come fornito di un potere illimitato e senza confini. Essa lo considera come un pater familias, ancorchè in effetto non abbia figliuolanza , e in quanto è tale , gli attribuisce i poteri più illimitati. Egli infatti quale capofa miglia ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sui servi; come proprietario pud usare ed abusare delle proprie cose ; come credi tore può anche appropriarsi il proprio debitore, venderlo al di là del Tevere e dividerne il corpo , se concorra con altri creditori ; come testatore pud disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose per il tempo per cui avrà cessato di vivere. Col tempo questa potestà giuridica illimitata potrà apparire eccessiva, in quanto che si verrà a riconoscere che il quirite potrà anche abusare di essa , come il magistrato del proprio imperium , ed in allora si cercherà di porre dei limiti al suo potere come padre, come proprietario, come credi tore, come testatore , come padrone ; ma nel suo erompere primitivo l'uomo, a cui appartiene l'optimum ius quiritium , è una indivi dualità completa, che sotto l'aspetto giuridico non subisce limitazione di sorta . 325. Il quirite poi, in base al censo serviano, riunisce due carat teri: quello cioè di capo di famiglia e di proprietario di terre, e i medesimi si compenetrano per modo, che i due concetti si vengono immedesimando l'uno nell'altro , cosicchè, quale padre di famiglia , esso apparisce come un proprietario , e per essere proprietario deve essere un capo famiglia ; donde consegue, che anche i due vocaboli di familia e di mancipium possono sostituirsi l'uno all'altro (1). ( 1) V. in proposito il Voigt, Die XII Tafeln , II, pag. 10 e 11, note 5 e 6 , ove son citati varii passi da cui risulta , che la familia in personas et in res deducitur. Leg. 195, Dig. (50, 15 ). Cid pure accade del mancipium , il quale talvolta è preso in significazione così larga da comprendere non solo le cose, ma anche le persone 406 Nel censo infatti non comparisce che il caput, in quanto unifica in sè medesimo persone e cose, e in quanto egli è libero , cittadino, in dipendente nel seno della famiglia . Esso conta per uno, ma intanto rappresenta molte persone ad un tempo : cosicchè anche la proprietà , che trovasi posta in suo capo, mentre nel costume appartiene alla famiglia , sotto il punto di vista giuridico viene invece ad essere considerata come una proprietà esclusivamente propria del capo di famiglia. Quasi si direbbe che l'imperium del quirite nella propria casa viene ad essere foggiato sulmodello stesso del regis imperium per quello che si riferisce alla città . Esso ha impero sulle cose e sulle persone, al modo stesso che il magistrato ha l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed anche l'altra podestà , sotto il punto di vista giuridico e politico , non hanno confine, sebbene nella realtà siano contenute in stretti vincoli dal costume pubblico o privato . Di qui la conseguenza, che mentre questo è il momento storico , in cui ap parisce più senza confini il potere del padrone sugli schiavi , quello del marito sulla moglie , quello del padre sui figli, noi intanto ab biamo tutti gli argomenti per credere, che fu appunto questo il tempo, in cui fu migliore la condizione degli schiavi, volontariamente accettata la subordinazione dei figli e della moglie, e quello in cuiil potere del padre, cosi esorbitante nella sua configurazione giuridica, nella realtà non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu sopratutto in questo primo periodo, che i figli dei servi erano allevati con quelli del padrone; che le mogli, mentre giuridicamente potevano essere ripudiate , nel fatto non conoscevano il divorzio ; che i figli prova vano la severità del padre, non tanto nelle pareti domestiche, quanto piuttosto, allorchè egli investito del pubblico potere giungeva a soffo care gli affetti del sangue per far rispettare l'imperium , di cuitro vavasi insignito (1). dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra l'espressione conservataci da Gellio , secondo cui la mater familias è in manu mancipioque mariti. XVIII, 6, 9. Ciò però non toglie , che il vocabolo familia significasse di preferenza il complesso delle per sone, e quello di mancipium il complesso delle cose, che erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid apparirà meglio in questo stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto del mancipium , e delle sue varie significazioni. ( 1) La causa di questo contrasto tra l'ordinamento giuridico della famiglia e le condizioni reali della medesima sarà meglio posta in evidenza al cap . 1, § 1°, ove si discorre del ius connubii. Quanto alla figura del padre di famiglia patriarcale durante il periodo gentilizio, vedi sopra il nº 94 , pag. 119 . 407 326. Se non che è ovvio il chiedersi, in qual modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso ed efficace la figura del quirite . Io non dubito di rispondere che questa concezione dell'uomo sotto l'aspetto esclusivamente giuridico , se per una parte fu determinata dalle condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche l'effetto di una potente astrazione giuridica , compiuta da un popolo con un pro cesso mentale non diverso da quello , che seguirebbe un giureconsulto moderno. Gli elementi preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella figura del capo di famiglia, e nel concetto della proprietà , che a lui apparteneva. Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al giureconsulto, i due concetti di capofamiglia e di proprietario furono staccati dall'ambiente, in cui si erano for mati, furono isolati da tutti gli altri rapporti di carattere gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo , in cui persone e cose dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa figura tipica del quirite , che è soldato ed agricoltore , capo di famiglia e proprietario , individuo e capo gruppo , il quale sotto un aspetto è una realtà e sotto un altro è già una astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi delle due istituzioni fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali vengono a presentarsi nel ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla costituzione serviana, An ch'esse sono tratte dalla realtà , e sono due ruderi dell'organizzazione gentilizia , nel senso vero e proprio della parola , salvo che, traspor tate nel seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le circon dava, fanno su chi le considera un effetto analogo a quello di quei ruderi delle mura serviane, che circondate da un' aiuola si incon trano nella Via Nazionale di Roma moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e la famiglia debbono essere considerate come due costruzioni giuridiche, in quanto che esse non sono la pro prietà e la famiglia , quali effettivamente esistevano, ma sono il frutto di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e l'altra sono iso late da quegli elementi, sopratutto religiosi e morali, che nella realtà ne moderavano la rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale, non è più nè il gentile, nè il cliente, né il patrizio, nè il plebeo , ma è un capo famiglia , considerato come padrone assoluto delle cose e delle persone, che da lui dipendono ; cosi l'aureola del buon co stume , del consiglio domestico , del consiglio degli anziani, delle tradizioni del villaggio , della religione, di cui il padre antico era il sacerdote , viene a scomparire pressochè intieramente nel diritto 408 quiritario. In questo più non scorgesi, giuridicamente parlando, che un caput, che è proprietario e padre ad un tempo, e il cui potere (manus) sulle persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium o familia ), apparisce senza confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di una logica, il cui processo sarebbe stato ad ogni istante interrotto , se si fosse dovuto tener conto degli altri vincoli e rapporti, in cui il quirite effettivamente si trovava. 327. Lo stesso deve pur dirsi di quel carattere, cosi saliente nel di ritto primitivo di Roma, per cui i poteri sulle persone e sulle cose vengono ad immedesimarsi l'uno nell'altro, e possono quindi essere in dicati coimedesimivocaboli, rivendicati nella stessa guisa , e trasmessi col medesimo atto . Anche ciò non deve ritenersi come indizio , che per i Romani la potestà del padre si confondesse colla proprietà : ma è unicamente il frutto di una elaborazione giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare per il crogiuolo del censo , venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto del mio e del tuo . Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu una grande ventura per il diritto romano , che il medesimo fosse cosi costretto a modellare ogni diritto sopra quello di proprietà , in quanto che non eravi certamente altro concetto , che potesse meglio acco modarsi a tutte le applicazioni della logica giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi alle persone, si sarebbe ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità , mentre spiegandosi in certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte le deduzioni, di cui poteva essere capace , e per tal modo il diritto potè appa rire in certi casi inumano e crudele , ma la costruzione giuridica venne ad essere più logica e più coerente . Cosi deve pure attribuirsi ad una elaborazione giuridica, resa ne cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato e plebe entravano a far parte della comunanza, quel concetto , per cui quella proprietà, che nel costume ritenevasi appartenere alla famiglia , giuridicamente in vece venne ad essere considerata come spettante ad un individuo , che poteva disporne in qualsiasi guisa. Questo infatti era il solo modo di combinare il concetto della proprietà famigliare , che era proprio del patriziato, con quello della proprietà privata ed individuale, che era la sola, che fosse conosciuta dalla plebe. Fondendosi insieme, le due formedi proprietà diedero origine a quella singolare istituzione della proprietà quiritaria , che nel costume si ritiene della famiglia , e in diritto si considera come esclusivamente propria del padre, per 409 cui tutto ciò , che acquistano gli altri membri della famiglia , a lui solo appartiene ( 1). 328. Fermo cosi nelle sue linee generali il concetto fondamentale del quirite , quale ebbe ad uscire dal crogiuolo del censo istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il comprendere come i varii atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato , abbiano potuto essere scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad al trettante concezioni giuridiche foggiate sullo stesso modello . Il quirite infatti costituisce in certo modo la configurazione giu ridica dell'umana persona, quale allora poteva essere concepita , e come tale può essere considerato : – o in quanto sta , ossia nella posizione giuridica (status), che egli tiene nella comunanza quiri tiana: - o in quanto egli si muove ed agisce, ossia in quanto egli entra in rapporti con altri quiriti. In quanto sta , ossia in quanto egli tiene uno status, questo può essere scomposto nei suoi varii elementi, e quindi il quirite viene ad avere un caput, che comprende tutta la sua capacità giuridica come quirite ; una manus, che inchiude il complesso dei poteri, che gli appartengono ex iure quiritium ; un mancipium , il quale implica parimenti nella sua significazione primitiva così le persone, che le cose, che da lui dipendono per diritto quiritario . È poi degno di nota , che tutti questi vocaboli, in cui viene ad essere racchiusa l'individualità giuridica del quirite, hanno una significazione mate riale e giuridica , concreta ed astratta ad un tempo . Cosi, ad esempio , il vocabolo caput, mentre da una parte indica la parte più nobile ed importante del corpo, dall'altra designa la capacità giuridica poten ziale del quirite che è come la sorgente di tutti i diritti spettanti al medesimo; quello dimanus,mentre esprime l'organo mediante cui si esplica la forza e l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il sim bolo efficacissimo dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in certi determinati poteri ; e quello infine di mancipium da ma nucaptum , mentre da una parte significa una cosa, che per essere materialmente afferrata dalla manus, non può sfuggire alla mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di sottomissione giuridica , in cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da essa dipendono. (1) Questo carattere speciale della proprietà quiritaria e il modo in cui essa potè formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg ., $ 6 , ove si discorre dell'origine del dominium ex iure quiritium . 410 Questi varii elementi poi, intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e coerente ; poichè, tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico , la manus viene in certo modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la dirige e il mancipium che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed agisce, il quirite viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue estrinsecazioni giuridiche possono essere richiamate: al connubium , da cuideriva , si può dire, tutto il diritto , che si riferisce alle persone; al commercium , in cui si com pendiano tutte le manifestazioni giuridiche, che si riferiscono alle cose ; all'actio, da cui scaturisce tutto quel complesso di proce dure, con cui egli pud far valere qualsiasi suo diritto : vocaboli anche questi, che hanno pure una significazione materiale e giuridica ad un tempo. Tutti questi elementi poi, mentre concorrono a costituire l'organismo del tutto, sono percorsi da un proprio concetto informa tore, che si viene logicamente svolgendo, e che dà cosi origine a quella dialettica latente della giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si possono spiegare certe peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi, che tutto questo bagaglio del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal periodo gentilizio , perchè già in esso eransi formati i concetti del caput per indicare il capo del gruppo famigliare o gentilizio , della manus per indicare il complesso dei suoi poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone che gli erano soggette ; come pure in esso , già si erano preparati i concetti di connubium , di commercium e di actio . Vi ha però questa differenza, che mentre questi un tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle varie genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende nella co munanza quiritaria , ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti (1). Quindi è, che mentre questi concetti un tempo avevano una significazione , che era determinata dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo staccati dall'ambiente stesso , si cambiano in altrettante forme e concezioni logiche, e come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico compiutamente diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli seguenti. (1) Il naturale processo , in base a cui venne formandosi un diritto fra le varie genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg ., pag. 117, e quello per cui i concetti intergentilizii così formati si cambiarono in concetti quiritarii trovasi descritto al n ° 266 , pag. 326 e seg. - 411 CAPITOLO II. Il quirite nel suo status. § 1. – Il censo serviano e la genesi dei concetti di caput, manus , mancipium . 329. Anche oggidi il più arduo problema, che presentino le ori gini del ius quiritium , consiste nello spiegare come mai il mede simo si trovasse di un tratto isolato da quell'ambiente religioso e gentilizio , in cui erasi formato , e come esso abbia potuto prendere le mosse da concetti così sintetici e comprensivi, quali sono quelli di caput, manus , mancipium . Come mai potè accadere, che quel ius, che presso le genti patrizie era ancora soverchiato dal fas ed ed avviluppato nel mos ( 1), sia pervenuto pressochè di un tratto ad affermare la propria esistenza e a ricevere uno svolgimento lo gico e storico del tutto distinto da quello della religione e della mo rale ? In qual modo parimenti potè accadere, che un diritto, il quale, secondo l'attestazione dei giureconsulti, ebbe a formarsi « necessi tate exigente et rebus ipsis dictantibus » , siasi iniziato con sintesi potenti, che inchiudono in germe tutti i suoi ulteriori svolgimenti ? Son note in proposito le divergenze degli autori e le congetture innumerabili, che furono poste innanzi, ed è certo assai difficile di giungere ad una risoluzione, che possa rispondere a tutte le ob biezioni. Persuaso tuttavia, che per comprendere le istituzioni di un popolo , sia sopratutto indispensabile di spogliarsi delle idee del tempo , per trasportarsi nell'ambiente e nel pensiero del popolo , fra cui quelle istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo che il solo modo per giungere a comprendere questa singolare formazione del ius quiritium e la significazione dei concetti da cui esso parte, sia quello di ricostrurre in base alle condizioni economiche e sociali , in cui si trovavano il patriziato e la plebe, quella comunanza quiritaria , (1) Il carattere eminentemente religioso del diritto primitivo delle genti patrizie fu dimostrato più sopra, lib . I, cap. V , pag. 90 a 104, discorrendo dei rapporti fra il mos, il fas e il ius. Il medesimo poi si mantenne ancora durante il periodo della città esclusivamente patrizia, come lo dimostra l'analisi delle leges regiae fatta ai nn. 268 a 270 , pag. 329 e segg. 412 la cui formazione ebbe ad essere determinata dalla costituzione e dal censo di Servio Tullio . 330. Credo di avere dimostrato a suo tempo come il patriziato e la plebe, anteriormente all'epoca serviana, non avessero comuni nè la religione, né i costumi, nè l'organizzazione gentilizia , nè i connubii, che sono il fondamento dell'organizzazione domestica. I soli diritti, che la città patrizia avesse accordati alle plebi circo stanti, non devono neppure essere indicati col nome di ius com mercii , ma bensi con quello di ius nesi mancipiique ; il quale consisteva nel diritto dei plebei di potersi obbligare vincolando la propria persona, e di poter disporre di quelle possessioni, che essi tenevano nel territorio romano (1). È quindi evidente che, se era possibile una comunanza fra i due ordini, questa nelle origini non poteva avere nè un carattere religioso e neppure un carattere mo rale, ma poteva solo avere un carattere esclusivamente economico , giuridico e militare. Ne consegui pertanto, che per formare questa comunanza venne ad essere necessario di sceverare affatto il ius, nel senso stretto e rigido della parola , dal fas e dal mos, con cui prima trovavasi implicato nelle istituzioni delle genti patrizie . Questa selezione erasi già in parte iniziata col formarsi della città esclusivamente patrizia, poichè già fin d'allora erasi venuta distin guendo la vita pubblica dalla privata ed erasi già in parte affie volita l'organizzazione gentilizia (2) ; ma la medesima dovette spin gersi ben più oltre coll'accoglimento nel populus di un elemento , a cui non erasi riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui la rigidezza singolare, che ebbe ad assumere il ius quiritium , allorchè cominciò ad essere comune al patriziato ed alla plebe ; poichè da quel momento esso venne ad essere sottratto a quell'au reola religiosa e patriarcale , che dominava il periodo gentilizio , e fu sottoposto all'impero di una logica del tutto sua propria . Se non che , anche in tema di diritto, nel senso stretto della pa rola , non tutte le istituzioni potevano servire di base alla comu (1 ) V., quanto alla condizione della plebe, il lib . I, cap. IX , pag. 180 a 196, e quanto al ius nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160 , pag. 198 e 199 , come pure il nº 287, pag. 351 e 352. (2) Che anche il diritto della città patrizia supponesse una specie di selezione fra le istituzioni delle varie genti, operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di legislazione regia , fu dimostrato nel libro II, cap. IV , SS 1º , 2º e 3º, pag. 303 a 333. - 413 nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano comuni ai due ordini, o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento fra di loro . Quindi anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da tutti quei rapporti, che per il momento non potevano essere comuni, per fissare lo sguardo su quei rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano partecipare alla stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il patriziato e la plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto l'interesse della comune difesa , così la comunanza quiritaria assunse in que st'epoca un carattere più esclusivamente militare , che prima non avesse . Siccome parimenti gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un ravvicinamento fra di loro, erano quelli relativi alla fa miglia unificata sotto il proprio capo, e alla proprietà spettante alla famiglia stessa, così il ius quiritium comune ai due ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa alle due istituzioni fondamentali della proprietà e della famiglia . 331. Di cid è facile persuadersi quando si considerino le condi zioni rispettive dei due ordini, che dovevano partecipare alla stessa comunanza . Da una parte eran vi i membri delle gentes patriciae , i quali ancorchè fossero i fondatori della città , continuavano però sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli uni agli altri (famiglie , genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il fatto, che il popolo primitivo era diviso per curiae , le quali erano appunto for mate ex hominum generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo il concetto della individualità nello stretto senso della parola, ma solo il concetto dei diversi gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di questi gruppi poi ilmeno esteso e il più strettamente unificato era quello della famiglia , fondata sulla agna zione, e riunita sotto la potestà del padre . - Dall'altra parte in vece eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine di individui rimasti liberi dalla clientela , o immigrati da altre città , o traspor tati da popolazioni conquistate, componevasi invece di individui anche isolati o tutto al più di famiglie , le quali non erano più strette insieme dal vincolo di agnazione, ma piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della cognazione (1 ). (1) V.,quanto all'organizzazione gentilizia del patriziato, il lib . I, cap. IV , e quanto alle condizioni della plebe, il lib . I, cap. IX. 414 Queste differenze poi, che esistevano fra di loro quanto alla loro organizzazione, si riflettevano eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da una parte infatti continuava a prevalere presso le gentes patriciae la proprietà collettiva dell'ager gentilicius o dell'ager compascuus, il che però non impediva che esse già conoscessero una specie di proprietà famigliare e privata , la quale era designata col vocabolo di heredium . Questo consisteva nell'assegno, che le varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni gentile, che passando a matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia , ed era a somi glianza di esso, che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a ciascuno dei suoi seguaci un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium . Il medesimo quindi costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come tale non poteva essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia , ma doveva invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si poteva indiviso (ercto non cito ); ma intanto , essendo già intestato al capo di famiglia , cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata . Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia , non poteva neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia , o che loro erano stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente, che questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii alla medesima accordato , più non potevano essere chia mati col vocabolo di heredia, poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da trasmettersi agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col vocabolo dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè fino a quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere proprietà al punto di vista gentilizio (1). 332. In questa diversità di condizioni egli è evidente, che il (1) Quanto al concetto dell'heredium , come forma della proprietà famigliare nel periodo gentilizio , vedi il nº 56 , pag. 70 ; ma devo aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva ancora ravvisata la differenza esistente fra l'heredium ed il man cipium , nè aveva cercato di spiegare come perchè all'heredium del periodo genti lizio fosse sottentrato nel ius quiritium il concetto di mancipium . - 415 censo , dovendo comprendere i due ordini, non poteva tener conto che degli elementi, che erano loro comuni. Se il censo quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii, si sarebbe dovuto indicare la famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap partenevano, e avrebbesi così avuto un censo fondato sulla discen denza, come quello sovra cui dovevano probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso invece avesse dovuto comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per capita ; poichè fra essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro caput, e che non avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome invece il censo, come base della nuova comunanza quiritaria, do veva comprendere gli uni e gli altri ; cosi la soluzione fu la più naturale di tutte , quella cioè di dare al censo non più una base genealogica (ex hominum generibus), che avrebbe potuto compren dere solo i patrizii ed alcune famiglie plebee, ma bensì una base territoriale e locale (ex regionibus et locis) (1), che poteva com prendere gli uni e gli altri, e di censire gli abitanti, non per genti e neppure per famiglie, ma per capita , attribuendo perd al voca bolo di caput la doppia significazione di individuo e di capo di quel gruppo famigliare , che era appunto il solo, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così pure se si fosse trattato di censire le proprietà patrizie , si sarebbe dovuto prendere come base la proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella quale sarebbero anche rientrati gli heredia delle singole famiglie ; ma volendosi anche censire i possessi e gli stanziamenti della plebe , convenne di necessità prendere a base del censimento quella sola forma di proprietà e di possesso, che apparteneva ai patrizii sotto il nome di heredium , e ai plebei sotto quello di mancipium . Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare ad un tempo, che era comune ad entrambi gli ordini, non potè più essere indicata acconciamente col vocabolo di here dium , il quale era pur sempre una istituzione di origine gentilizia, ma potè esserlo più acconciamente con quello di mancipium , il quale , oltre al rispondere perfettamente ai concetti di caput e di inanus, aveva anche il vantaggio di significare al tempo stesso la proprietà e il possesso , e di esprimere con potente efficacia quel carattere di proprietà esclusiva ed individuale , che veniva ad assu ( 1) Gellio , XV, 28, 4 . 416 mere quel patrimonio , che nel censo era intestato ad una deter minata persona. La conseguenza intanto fu questa , che nella comunanza quiritaria , formatasi in base alla costituzione ed al censo serviano, mentre il patrizio fu isolato in certo modo dall'ambiente gentilizio , in cui esso prima si trovava, il plebeo ottenne invece il riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui esso era stabilito. L'uno e l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia come capi di famiglia e come proprietarii di terra ; ebbero un complesso di diritti comuni, che prese appunto il nome di ius quiritium . Così pure la comunanza quiritaria , avendo una base economica , venne a considerare ogni cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e assunse eziandio una impronta emi nentemente militare, che spiega quel carattere di forza e di vio lenza che è inerente al ius quiritium e si rivela nei vocaboli e nei simboli da esso adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di comprendere in certe rubriche , che si adattino per la formazione del censo , l'individualità giuridica di questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse difficile di sovrap porre a queste varie rubriche vocaboli più sintetici e compren sivi e al tempo stesso più esatti e precisi di quelli di caput, manus, mancipium . Nella categoria del caput verrà il nome del cittadino, libero e sui iuris, come individuo e come capo di famiglia , e vi saranno le indicazioni del suo nome, della sua età , della tribù locale a cui appartiene , la cui indicazione finirà anzi per formar parte delle denominazioni ufficiali del cittadino romano (1). Nella seconda rubrica invece saranno indicati i poteri, che a lui ap partengono sulle persone, che entrano a costituire il gruppo , di cui egli è capo , sulle persone cioè , che siano in manu , in potestate, in mancipio, e siccome questa enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla moglie, che trovasi sotto la manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri vengano sotto la intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine comparirà il mancipium , ossia il complesso delle persone e delle cose , che costituivano il vero patri monio del quirite , in quanto egli era un capo di famiglia indipen dente e sovrano. (1) Che il nome della tribù, a cui il cittadino apparteneva, entrasse nelle deno minazioni ufficiali del medesimo, appare da una quantità grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto non potrà più comprendere nè l'ager gentilicius, come quello che non appartiene al capo di famiglia, ma alla gente ; né le mandrie e gli armenti, che pascolano in questo ager gentilicius; né eziandio le possessiones , che si possano avere nell'ager publicus; nè la pecunia circolante , il cui ammontare pud essere variabile e non si presta ad una constatazione esatta e pre cisa, quale è quella richiesta per un censo ; ma dovrà invece com prendere soltanto quella proprietà , che costituisse in certo modo il patrimonio normale, costante, e pressochè tipico di un capo di fa miglia agricola , nelle condizioni economiche e sociali in cui trova vasi allora il popolo romano. Egli è probabile infatti, per chi tenga conto della tendenza delle genti italiche a modellare i loro istituti sul medesimo tipo , che quel mancipium , che doveva figurare nel censo , quale patrimonio asso luto ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità dei casi ad essere configurato nella istessa guisa . Per verità se trattavasi dell'heredium ossia dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia , il medesimo probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager gentilicius, che potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e della sua famiglia ; ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che, salve le proporzioni , dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti facevano ai clienti, e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui consegui na turalmente che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi nore di iugera , o dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del tugurium nel contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere del quirite. Che anzi non è punto impro babile , che nella formazione del censo , dovendosi ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a costituire questo man cipium , anche queste fossero raccolte sotto certe denominazioni ti piche, quali sarebbero quelle di praedia , di praediorum instru menta (servi, quadrupedes quae dorso collove domantur), di praediorum servitutes (iter, via, actus, aquaeductus); le quali po terono assai naturalmente essere indicate col vocabolo complessivo di res mancipii, come quelle che effettivamente entravano a costi tuire il mancipium (1). (1) Mi limito qui ad accennare in genere come possa esser nato e siasi svolto l'importantissimo concetto del mancipium , perchè le molteplici questioni al riguardo saranno prese più opportunamente in esame in questo stesso capitolo , § 4º, ove si G. Carle, Le origini del diritto di Roma . 27 - 418 334. Intanto una conseguenza necessaria di questa specie di se lezione del patrimonio , che apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia , veniva ad essere questa , che le res mancipii , come quelle che servivano a determinare la posizione di esso nella comunanza quiritaria , costituissero come una specie di proprietà privilegiata , che doveva ritenersi appartenere in modo assoluto ed esclusivo al quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono così a comprendere le espressioni più antiche di mancipium facere , mancipio dare, mancipio accipere, le quali dapprima dovettero significare la costi tuzione di una cosa nel mancipium , e poi anche l'acquistare e il trasmettere una cosa , che fa parte del mancipium ; finchè la fre quenza di questi atti non condusse a creare un vocabolo apposito, che è quello di mancipare , da cui derivò appunto quello della mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo proprio ed esclu sivo per l'alienazione delle res mancipii (1 ). Non conseguiva tuttavia da cid , che non esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse l'effettivo godimento : ma questi non con tavano nel determinare la sua posizione di quirite , non entravano a costituire il suo contributo alla comunanza quiritaria , e come tali non erano dapprima oggetto di proprietà assoluta ed esclusiva, nelvero senso della parola : essi formavano piuttosto oggetto di uso e di godimento, ed erano compresi genericamente in una categoria ne gativa, che più tardi fu denominata delle res nec mancipii, le quali perciò potevano essere alienate collasemplice traditio . Può dirsi pertanto , che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano , fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al p semplice traditio . Può dirsi pertanto , che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano , fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al punto di vista quiritario . È poi questa se parazione, che a causa del censo si venne operando fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di una cosa, e l'effettivo godimento di essa, che ci spiega come negli antichi autori si contrappongano tratterà ex professo del mancipium e della distinzione delle res mancipii e nec mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië e nec mancipii dovesse avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad essere enunciata dal PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche seguìta presso di noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, § 21. Vedi lo Squitti, Resmancipi e nec mancipi, Napoli, 1885, pag. 51, gli autori ivi citati, e gli argomenti che egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad essere fino ad ora formulata . ( 1) Cfr. BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 90 . 9 419 talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus fructus (1), e come più tardi abbia potuto accadere, che una persona avesse sopra una cosa il nudum ius quiritium , mentre un'altra invece ne aveva l'ef fettivo godimento (in bonis ). È poi facile a comprendere come questa posizione privilegiata, in cui venne ad essere collocato il mancipium , abbia anche cooperato efficacemente a dissolvere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius , e con essa a dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia , la quale venne in certo modo ad essere senza base , allorchè manco del suo fondamento economico. Ogni gens patricia infatti, se volle avere una quantità di suffragii anche nelle centurie, ove fini per concentrarsi la somma del pubblico potere, dovette affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri non solo , ma anche ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii vennero spartendosi, ed all '« ercto non cito » , che indicava l'indivisione del patrimonio famigliare nel periodo gentilizio , sottentrò il principio già riconosciuto dalle XII Tavole , secondo cui altri non può essere costretto a rimanere in comunione suo malgrado: « si erctum ciet , arbitros tres dato » (2 ). 335. Così spiegato il censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi conoscere la vera posizione del quirite , non come uomo, ma come membro della comunanza quiritaria , sarà nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono, che dovrà essere cercato il suo vero status. Quindi se trattisi di un cittadino, libero e sui iuris, ma senza potestà famigliare e senza patrimonio, egli sarà bensi un caput, ma, non avendo che quello , sarà un capite census, e sarà (1) Questo contrapposto occorre più volte nelle epistole di CICERONE, e fra le altre volte in una lettera ad Curium , VII, 30, 2 ove scrive : « Cuius (Attici) quando « proprium te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et fructu , contentus « isto sum . Id enim est cuiusque proprium , quo quisque fruitur atque utitur » ; il che significava in sostanza, che egli preferiva al dominio ufficiale su Curio (man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il godimento effettivo (usus et fructus ) della sua conversazione. Altre volte però questo contrapposto ha una significazione diversa , come nel bel verso di LUCR., III, 969 : « vita mancipio nulli datur, omnibus usu » , ove mancipium si contrappone ad usus, in quanto significa una cosa , che ci appartiene a discrezione, in guisa da poterne usare ed abusare, ed indica così il potere illimitato ed esclusivo, che competeva sulmancipium . Cfr. BONFANTE , op. cit., pag. 92, nota 2, e pag . 96, nº 2 , e gli altri passi ivi citati. (2 ) Secondo la ricostruzione del Voigt, op. cit., I, pag. 712, tale sarebbe stato il tenore della legge 16 , della tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si contenterà di accettarlo nella formazione del proprio esercito . Che se egli, pur non avendo il patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie , abbia tut tavia qualche sostanza ( 1500 assi) ed una prole , che può crescere a benefizio della repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel censo colla prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e sarà cosi nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile, poichè in condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito , almeno di una specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che sarà armata a spese della repub blica (1). Infine se anche per ciò, che si riferisce al mancipium , egli giunga a quella misura, che è necessaria per essere ammesso nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o locuples, e secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere collocato in una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus quiritium . Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di loro, che ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un debito , dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà rispondere chicchessia: « adsiduo vindex adsiduus esto ; proletario, iam civi, quis volet vindex esto » ; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di Gellio , « proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum antiquitas consopita est » ( 2). Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse tavole censuarie si po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come individuo , che come capo di famiglia e proprietario . Siccome tuttavia, accanto alle qualificazioni generali del capo gruppo , trovavansi pure nel censo le qualificazioni speciali di pater familias, mater familias, di liberi, di servi, di sui iuris , di alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato giuridico, senza essere create dal censo , furono tuttavia nel medesimo delineate , e per tal modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare, accanto al concetto generale del quirite come tale, anche il concetto degli stati speciali, che una persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. ( 1) Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio mili tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10 , $$ 10 a 15. Egli poi, citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non furono arruolati, che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro Giugurta . ( 2 ) Gellio , XI, 6 , 10, 8 . - 421 336. Che se alle cose premesse si aggiunga, che il censo all'epoca serviana fu il documento ufficiale dello stato del cittadino, il quale serviva a determinare la sua posizione come contribuente, come cit tadino e come soldato ad un tempo, per guisa che la sola iscrizione nel censo poteva valere per la manomissione di un servo, sarà fa cile il comprendere come esso abbia potuto in parte conferire a determinare il linguaggio sintetico ed astratto, da cui prese le mosse il ius quiritium , ed il processo con cui esso vennesi elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più potenti, mediante cui l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da tutti gli elementi estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente gentilizio in cui prima si trovava , ed obbligato a fermare il suo sguardo sovra quei rapporti che comparivano nel censo . Esso parimenti fu una delle cause per cui il ius. quiritium , che venne elaborandosi su questa trama pri mitiva, perdette di un tratto quell'aureola religiosa , che circondava le istituzioni delle genti patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con una logica astratta , che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si conoscesse la causa , da cui poterono essere de terminate. Con ciò non intendo già affermare , che i concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium , siano stati creati dal censo , poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano ; ma solo di provare , che il censo servi a dare loro una configurazione esatta e precisa ; a separarli nettamente gli uni dagli altri ; a fare in guisa che ciascuno avesse un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti concorressero a costituire una sola individualità giuridica . Fu in questo modo , che al punto di vista quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato sotto il proprio capo ; che tanto il diritto sulle persone che quello sulle cose nel l'elaborazione giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo; che ciascun gruppo, essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria determinata , ebbe un'esistenza cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i membri dell'uno non potevano promettere nè stipu lare per quelli dell'altro ; che infine anche le varie membra del quirite si vennero come dislogando le une dalle altre , e poterono ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così occasione a quel l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei caratteri più salienti del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai caratteri peculiari della co munanza quiritaria , quale si formò nell'epoca serviana , e al censo che servi di base alla medesima, ci preparerà la via per ricostruire 422 la storia primitiva dei concetti fondamentali di questa, che può a ragione chiamarsi la parte statica del ius quiritium , in quanto fu in parte determinata da una delle prime applicazioni della sta tistica per la constatazione del numero, della forza e della ricchezza di un popolo (1). § 2. – Il concetto del caput e la teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse cercare le prime origini del concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col pensiero a quell'epoca, in cui i fonda tori della città contavano dai capi i proprii greggi ed armenti ; nè sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che essi non dubitavano di chiamare ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le centurie e le classi per dare il proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più verosimile, che il vocabolo di caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore alla formazione della città , avere quella significazione, che tuttora conserva presso le popolazioni, che si trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui esso indica un capo di gruppo, quella per sona cioè, che avendo preminenza su tutti quelli, che da essa di pendono e che la circondano, pud essere considerata come il rap presentante, in cui si unifica il gruppo stesso . Questo vocabolo poi, trapiantato nel censo serviano, viene ad indicare colui, che conta per uno nel censo , e conserva cosi un'analogia colla significazione anteriore, in quanto che il medesimo, pur essendo un individuo, unifica però in sè stesso le persone e le cose che ne dipendono . Se per tanto altri non abbia che il proprio caput e manchidi una sostanza valutabile nel censo stesso , verrà ad essere un capite census ; se invece abbia solo una sostanza, che giunga ai 1500 assi e conti so . pratutto per la prole, che potrà produrre per la repubblica, sarà un proletarius ; se infine abbia una sede fissa , e sostanze sufficienti per (1) A scanso di ogni malinteso, devo qui dichiarare che il concetto, che qui ap pare come direttivo nella ricostruzione della parte statica del ius quiritium , non fu un presupposto, dal quale io sia partito, ma fu il risultato ultimo, a cui mi con dussero pazienti e minute elucubrazioni intorno ai singolari caratteri con cui esso si presenta. Questo paragrafo pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma ho creduto di premetterlo; perchè esso, a mio avviso, agevola al lettore la comprensione di ciò che verrà dopo. Ciò valga anche a farmi perdonare, se per avventura occorra qualche ine vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi e per assicurare la città della assiduità di lui a compiere le proprie obbligazioni di cittadino e di soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato adsiduus o locuples ( 1). In ogni caso, per avere integro il proprio caput e per poter contare per uno nel censo , conviene essere libero, cittadino, e sui iuris nel seno della famiglia ; come lo dimostra il fatto , che se altri abbia un figlio , che per aver raggiunta l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi e nelle centurie, non sarà esso che conterà per uno, ma sarà invece il padre, che verrà ad essere un duicensus, in quanto che egli viene ad essere censito con un'altra persona , cioè col proprio figlio : « duicensus dicebatur cum altero id est cum filio, census » (2 ). 338. È quindi facile il comprendere comefosse facile il passaggio dalla significazione materiale del caput alla significazione giuridica di esso, chiamando col vocabolo di caput il complesso delle condi zioni richieste per figurare nel censo , ossia lo stato generale della persona. In tal modo il vocabolo di caput cessa di indicare questo o quell'individuo in particolare, per trasformarsi in una concezione logica ed astratta (persona ), la quale , ancorchè ricavata dalla realtà , può servire ad indicare il complesso delle condizioni richieste, accid altri possa avere la capacità giuridica quiritaria . Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere cambiato in una concezione astratta , il medesimo potè essere assoggettato ad una specie di analisi o di scomposizione dei varii elementi, che entravano a costituirlo . Tali elementi erano la libertas, la civitas e la qualità di sui iuris nel seno della famiglia (3). Di qui la teoria della capitis diminutio , che non si ricavò esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione logica del caput; come lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche l'arrogato , sebbene in sostanza vengano talvolta a migliorare (1) Quanto all'etimologia di questi vocaboli vedi il $ prec., nº 335. (2 ) V. Festo , vº duicensus ; Bruns, Fontes, pag. 337. (3) V. quanto al concetto di caput, Herzog , Gesch . und Syst., I, pag. 997; il KRÜGER, Geschichte der capitis diminutio, Breslau, 1887, $ 5 “, pag. 49 a 67, ove prende in esame il concetto di caput nei diversi autori moderni, sopratutto germa nici. Egli poi sembra ritenere, che il concetto di caput siasi venuto formando gra datamente. Ritengo invece, che il diritto romano anche in questo prorompa da una sintesi potente, a cui solo più tardi sottentrò quell'analisi, che diede poi origine alla teoria della capitis diminutio. Il caput quindi dapprima appartenne solo all'uomo libero, cittadino, e sui iuris; e fu solo più tardi, che anche il figlio di famiglia si considerò avere un caput. 424 la propria posizione, finiscono tuttavia per subire una capitis dimi nutio (1 ). Che anzi questa logica giuridica dovrà anche applicarsi al cittadino , che sia fatto prigioniero di guerra, e piuttosto che venir meno alla medesima si cercherà di supplirvi colla finzione di postliminio (2 ) Intanto sono tre gli elementi del caput, e questi vengono l'uno dopo l'altro in base alla loro importanza. Quindi la perdita della libertas costituisce la maxima capitis diminutio , la perdita della civitas la media, e la mutazione di stato nel seno della famiglia la minima. Ciascuno poi di questi elementi dà origine ad una di stinzione che vi corrisponde ; donde le distinzioni fra liberi e servi, fra cives e peregrini, fra persone sui iuris e le persone alieni ( 1) Gaio , Comm., I, 160-64. Secondo il Krüger , op. cit., pag . 5 a 21, ed altri autori germanici da lui citati, la teoria della capitis diminutio avrebbe avuto uno svolgimento storico, nel senso che la prima a delinearsi sarebbe stata la mi nima capitis diminutio, sul cui modello si sarebbe poi foggiata la magna capitis diminutio , che fu poi divisa in maxima e media capitis diminutio. Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere uno svolgimento storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto primitivo di caput, così la primitiva capitis diminutio dovette comprendere qualsiasi avvenimento, per cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la perdita della libertà, quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri cessava di essere sui iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che venne poi distinguendosi nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il determinare come mai l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e si comprende come il Savigny , Traité de droit romain , trad . Guenoux, II, pag. 66, quasi voglia esclu derla dalla vera capitis diminutio ; ma questa singolarità potrà essere capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni famiglia sotto il suo capo costituiva un gruppo, e quindi anche l'emancipazione, facendo uscire quell' individuo dal gruppo, costituiva, come dice Gajo, una « prioris status permutatio » , la quale era anche compresa nella significazione larga di capitis diminutio . Del resto l'emancipatio sotto un certo aspetto produceva anche un deterioramento nello status dell' emancipato, poichè nel diritto primitivo questi perdeva ogni diritto di successione di fronte al gruppo, da cui esso era uscito. Intanto ciò serve eziandio a spiegare quella singolarità del diritto romano, in virtù di cui la capitis diminutio fa perdere soltanto i diritti fondati sull'agnazione, e non quelli provenienti dalla cognazione, poichè quella teoria fu una creazione del ius quiritium e del ius civile, e come tale non poteva produrre effetti, che al punto di vista del diritto civile , per la ragione appunto detta da Gajo , Comm ., I, 158 : « civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest » ; distinzione questa , che nell'epoche primitive non poteva esservi, ma cominciò a formarsi quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius gentium , a cui sottentrò più tardi il ius naturale. (2) È nota in proposito la finzione della legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII Tafeln , I, pag . 299 e 300. 425 - iuris , le quali vengono ad essere fondamentali e servono di punto di partenza anche ai giureconsulti classici, come lo dimostrano le Isti tuzioni di Gaio . Che anzi, una volta adottato questo metodo , si po terono anche attuare delle posizioni giuridiche intermedie, come quella che è rappresentata dal ius latii , e queste si poterono applicare tanto ai popoli, ai quali non si voleva accordare il completo ius quiritium , quanto eziandio ai servi affrancati, i quali, invece di es sere posti senz'altro nella condizione degli altri cives , erano invece collocati nella condizione di latini iuniani ( 1) . Certo tutta questa teoria non potè svilupparsi di un tratto ; ma intanto è con Servio , che si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della medesima, e si iniziò così quel processo logico , che de terminò poi l'elaborazione progressiva. Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra lo stato generale della persona e le condizioni speciali, in cui essa può trovarsi; donde ne provennero le determina zioni giuridiche speciali del pater familias , del filius familias , della mater familias, che distinguesi dall'uxor. Che anzi ciascuno di questi stati speciali venne eziandio a convertirsi in una conce zione astratta, per modo che una persona poteva essere padre senza aver figli , essere tenuto come figlio , ancorchè effettivamente fosse padre, essere riguardata come figlia, ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto dipendeva dal punto di vista giuridico , sotto cui la per sona veniva ad essere considerata (2 ). ( 1) Per tal modo mentre prima non eravi che una specie di libertas se ne ven nero creando varie gradazioni, cioè quella dei libertini, che erano cives romani, quella dei latini, e quella infine dei dediticii; altra prova questa , che il concetto pri mitivo è sempre sintetico , mentre le suddistinzioni compariscono più tardi. V. GAJO , Comm ., I, 10 . ( 2 ) Ciò è detto espressamente da ULPIANO, Leg., 195 , § 2 , dig . (50 , 16) ove dice del pater familias: « recteque hoc nomine appellatur , quamvis filium non habeat; non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus » ; il che vuol dire, che nel qualificarlo come tale, il giureconsulto si poneva al punto di vista giuridico. Era poi nello stesso modo, che la moglie in manu si riteneva figlia del marito, e simili. Ciò mi indurrebbe alquanto a modificare la teoria accettata intorno alla fictiones nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag . 25 e dal Juering , Ésprit de droit romain , IV, p. 295, sono in certo modo ritenute come alterazioni della realtà dei fatti, a cui si ricorre per modificare il diritto già esi stente. Se ciò è vero delle finzioni, che poifurono introdotte dal diritto pretorio, non può dirsi delle fictiones del primitivo ius quiritium . Queste, come lo dice la stessa etimologia da fingere nel senso di foggiare, modellare, fanno parte dell' ars iura condendi, e sono un mezzo per completare una costruzione giuridica. 426 339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la concezione giu ridica del caput, era naturale che la medesima potesse essere con siderata indipendentemente da colui, al quale essa si riferiva , e che fosse così riguardata come una specie di persona e quasi ma schera giuridica , che poteva essere anche sovrapposta non solo ad uomini realmente esistenti, ma eziandio a quegli enti giuridici, i quali « etiam sine ullo corpore iuris intellectum habent » : donde la co struzione delle persone giuridiche ( 1). Che anzi si va anche più oltre e per quell'immedesimarsi che è proprio di quest'epoca fra i diritti delle persone e quelli sulle cose, anche la proprietà quiritaria può essere considerata , o in quanto è perfetta e senza limitazione (er optimo iure quiritium ), o in quanto può subire delle diminuzioni, le quali verranno ad essere designate col vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al pari della servitù riguardo alle persone, scemano e di minuiscono quella perfetta posizione giuridica , in cui trovasi la proprietà del fondo, allorchè non abbia subito limitazione di sorta (2 ). Si comprende infine come spinta fino a questo punto l'elabora zione del concetto del caput, la medesima sia una costruzione giu ridica , che può anche stare da sè e svolgersi per conto proprio , secondo che esige la logica informatrice dei varii elementi, che en trano a costituirla. Che anzi questo caput e lo stato giuridico , che ne dipende , potrà anche essere trasportato da una ad un'altra per sona. Quindi è facile a spiegarsi come il caput dapprima non ap partenesse che al capo di famiglia , e poi fosse attribuito ad ogni cittadino, e per ultimo all'uomo libero ; nel qual trapasso la logica giuridica non fa che rinunziare successivamente ad uno dei tre ele menti, che costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa comincia quindi a rinunziare alla qualità di sui iuris , e viene (1) Tale essendo il processo seguito dalla giurisprudenza romana nella formazione del concetto di persona , la famosa questione intorno all'esistenza della persona giu ridica in diritto romano può essere risolta nel senso che essa deve ritenersi come una fictio iuris , attribuendo però a questo vocabolo la significazione sopra accennata di una costruzione giuridica modellata su quella della persona fisica , ma limitata solo a quella categoria dei diritti della persona fisica , che poteva avere una base nella realtà ; donde la conseguenza, che queste persone hanno il diritto ai beni, ma non possono avere i diritti di famiglia. Cfr. Savigny, Traité de droit romain , II, pag. 234 e segg. (2) Questo svolgimento pressochè parallelo del concetto della persona e della pro prietà libera da qualsiasi vincolo sarà posto in maggior luce in questo stesso capi tolo , § 5 , discorrendo del dominium ec iure quiritium . 427 ad essere capace di diritto ogni cittadino, ancorchè non sia capo di famiglia ; poi rinunzia indirettamente a quella di civis, in quanto che la civitas finisce per essere estesa a tutti i sudditi dell'impero, e viene ad essere persona ogni uomo libero ; ma la logica romana non potè ancora fare a meno della libertas per accordare il caput, e quindi solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato come capace di diritti e di obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa, perchè la logica romana si basava sui fatti, e la schiavitù , finchè durò il Romano Impero , fu una istituzione comune a tutte le genti ( 1). Cid perd non tolse, che il concetto del caput o della persona, quale era stato elaborato dai Romani, potesse più tardi essere trasportato anche all'uomo come tale, perchè esso era una costruzione logica , la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei fatti, erasi poi staccata da essi, e poteva così ricevere delle nuove applicazioni. S 3 . Il concetto di manus e le sue principali distinzioni. 340. Può darsi benissimo, che l'antichissimo vocabolo dimanus significasse un tempo la forza effettiva dell'uomo, in quanto sottopone a sè stesso uomini e cose , ossia la forza del vincitore, che si impone al vinto , o il potere dell'uomo, che doma e addomestica gli animali. È tuttavia più probabile, che questo vocabolo nel periodo gentilizio significasse già il potere effettivo, di cui ciascun capo poteva disporre , nei conflitti e nelle lotte coi capi delle altre famiglie e genti, della qual primitiva significazione potrebbero ancora trovarsi le traccie nel nostro vocabolo di masnada. La manus invece nelius qui ritium viene già a cambiarsi anch'essa in una concezione giuridica ed astratta , che comprende il complesso dei poteri, che appartengono ad una persona nella sua qualità di quirite. Come il vocabolo di caput indica per cosi esprimersi la capacità potenziale del quirite : cosi l'estrinsecazione effettiva di questa potenza sulle persone e cose ( 1) Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm . Rechts ( in HOLTZEND., Encyclop ., I, pag . 105 ), ebbe a dire con ragione, che il più alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto in ogni uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero ; ma vuolsi aggiungere, che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa piena capacità prima al capo famiglia , poi al civis, e da ultimo all'uomo libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche della universalità del diritto ro mano, Prolus., Palermo, 1886, pag. 8. 428 che ne dipendono viene ad essere designata col vocabolo di manus (1) . È questo il motivo, per cui la manus viene a comparire in tutte le manifestazioni, che si riferiscono al diritto quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio ; se essa riven dica qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo possegga, abbiamo la vindicatio e la manuum consertio : se essa lascia uscire qualche cosa dal proprio potere quiritario , abbiamo la manumissio e la emancipatio ; se essa infine afferra il debitore condannato per trascinarlo nel carcere privato abbiamo la manus iniectio . Questa manus simbolica non è però sempre inerme, ma talvolta compare munita della lancia od asta quiritaria , che trovasi simboleggiata nella vindicta , la quale serve come modo tipico per la manomis sione dei servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa cramento; nell'hasta , sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in guerra, e che si infigge dinanzi al centumvirale iudicium . Questo potere giuridico , sintetico e comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo serviano, e quindi viene negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio e del tuo, per modo che così il potere sulla moglie, che quello sui figli , che quello sui servi e sulle persone quae sunt in causa mancipii appariscono foggiati sul modello della proprietà , sebbene non sia lecito dubitare, che essi nel costume pre (1 ) La generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei varii vo caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più antico sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi, oppure anche il potere sulle cose . Egli è certo a questo riguardo , che i giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas. Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono, che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium : ma miriservo di dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose soggette al potere , che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi quella di manu-captum , e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona . Cfr. Voigt , XII Tafeln , II, $ 79; BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, pag. 100 , nota 1 ; Longo, La mancipatio, Firenze , 1887, pag. 3 , nota 4. 429 sentavano delle differenze e dei temperamenti. Così pure , sotto il punto di vista giuridico, nulla hanno di proprio nè la moglie , nè i figli, né i servi , e tutto ciò che essi acquistano va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero quirite e quegli che conta nel censo . Sarà poi una conseguenza di questa logica giuridica, che se il dipendente rechi un danno, il capo di famiglia potrà addive nire alla noxae datio ; che se alcuno si ribellerà al suo potere , gli spetterà un ius coercendi, che potrà giungere fino al ius vitae ac necis ; e se alcuna delle persone , che da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta , egli potrà proporre percid quella stessa actio furti od actio exhibendi, che potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di cui sia stato derubato . 341. Dalmomento poi che la manus costituisce così una concezione giuridica, si comprende che anche ad essa siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da Valerio Probo, secondo cui il potere giuridico del quirite verrebbe a suddividersi nella manus, che resta a significare il potere del marito sulla moglie , nella potestas, che significa il potere del padre sui figli, e nel mancipium , che qui sembra indicare il potere sulle persone quae sunt in mancipii causa . Quest'ultimo vocabolo tuttavia , più che un aspetto del potere quiri tario, sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dal potere spettante al quirite ; come lo dimostra la circostanza , che il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione attiva, ma sempre con significazione passiva (1). (1) Basta per ciò osservare, chementre nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum , potestatem , dominium , non occorre però mai l'espressione habere mancipium , ma sempre quella habere in mancipio: poichè quest'espressione di man cipium , derivando da manu-captum , significa bensì la cosa soggetta, ma non può si gnificare il potere sulla medesima. Io ritengo, che questa inesatta significazione data al vocabolo mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii ed incertezze nell' ar gomento. Così, ad esempio, non potrei accettare l'opinione, che mancipium sia stato il primo vocabolo con cui si indicò il dominium ex iure quiritium ; ciò sarebbe come dire che i vocaboli di praedium , fundus significassero il diritto di proprietà, mentre invece indicano la cosa , che ne forma l'oggetto . L'unico passo, che suol essere citato per far significare a mancipium un potere, è quello di GELLIO, XVIII, 6 , 9, ove si parla della mater familias in manu , mancipioque mariti, ma anche questo dimostra , che anche la moglie era talora considerata come in mancipio, e conferma così la significazione passiva del vocabolo. Se dovette quindi esservi un vocabolo primitivo, che potè indicare il potere del proprietario , esso fu quello di manus, che ha in 430 Una volta poi, che i poteri, un tempo inchiusi nel vocabolo generico di manus, sono cosi separati l'uno dall'altro, essi possono essere ca paci di una propria elaborazione e venirsi cosi differenziando fra di loro secondo il diverso concetto a cui si ispirano, per modo che cia scuno di essi finirà per ricevere un diverso svolgimento logico e storico ad un tempo, e per essere sottoposto a quelle limitazioni, che verranno ad apparire necessarie nella realtà dei fatti. Negli esordii invece della formazione del ius quiritium non presentasi ancora il dubbio , che il quirite possa in qualche modo abusare della propria manus, e quindi tutti i poteri, che a lui appartengono, giuridicamente considerati, vengono ad apparire senza alcun limite e confine. Che anzi le persone a lai soggette , sotto il punto di vista giuridico acquistano ed operano non per sè,ma per le per sone, di cui trovansi in manu, in potestate , in mancipio. Di qui la conseguenza, che mentre le persone sottoposte al potere del capo di famiglia possono rappresentarlo, questa rappresentazione invece non può essere cosi facilmente ammessa , allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il principio prevalente nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può promettere nè stipulare per un'altra (1). § 4. – Il concetto del mancipium e la distinzione delle res mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad essere considerata , in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le cose che da essa dipen dono, formasi il concetto del mancipium . Mentre i concetti di caput e di manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo invece di mancipium indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano sè l'idea della forza e dell'energia , ma non mai quello di mancipium , che allora e sempre significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi giureconsulti ci attestano , che in antico non eravi un vocabolo speciale per significare il dominio, ma dicevasi soltanto meum , tuum . (1) Di qui credo di poter indurre, che anche quel principio del diritto primitivo , secondo cui altri non può essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e niuno può promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in cui si iniziò la formazione del ius quiritium ; in quanto che nell'esercito e nei comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare da altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa , e presentasi con una signi ficazione eminentemente passiva . Non vi ha quindi nulla di ripu gnante, che esso nelle origini significasse il manu -captum ; e designasse specialmente il vinto che, fatto prigioniero di guerra , veniva ad es sere soggetto alla potestà del vincitore . Questo è certo ad ogni modo, che nel ius quiritium il vocabolo dimancipium , al pari di quello di caput e di manus, ha già assunta una significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel complesso di persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di famiglia, e che a lui apparten gono ex iure quiritium , e che nel censo compariscono in certo modo comeposte in suo capo (1). È quindi sopratutto coll'entrare a far parte delmancipium , che i diritti spettanti al capo di famiglia ed al pro prietario ex iure quiritium assumono quel carattere così esclusivo ed individuale, che è del tutto proprio del diritto primitivo di Roma. Con esso infatti il quirite viene ad essere staccato dall'ambiente gen tilizio , di cui fa parte , a compare nel censo con un complesso di persone e di cose, che dipendono da lui in modo assoluto . È quindi in virtù di quest'astrazione, che viene a formarsi il concetto di una potestà senza confini e di una proprietà assoluta ed esclusiva spet tante al capo di famiglia (2 ). Anche nel mancipium , come negli altri (1) Quasi tutti gli autori son concordi in ritenere, che il mancipium abbia avuta una significazione così larga da comprendere così le persone, quanto le cose, in quanto son soggette al potere del capo di famiglia . Solo combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, pag . 2. Ritengo che debba essere seguita la prima opinione, la quale per me ha un appoggio incontrastabile in ciò , che le formole serbateci da Aulo Gellio e VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu, potestate, mancipio ; la qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più antiche che a noi pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di Roma (Bruns, Fontes, pag . 45) e nella lex Acilia repetundarum , del 631 di Roma (pag . 57). Ciò vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si considera vano come comprese nel mancipium del capo famiglia , il che poi spiega come ad esse potesse anche applicarsi la mancipatio , l'emancipatio e simili. Ciò però non toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium fossero quelle specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto curule de mancipiis vendundis (Bruns, pag. 214 ), o quel complesso di beni, che doveva essere consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni dimancipium , è da vedersi il BONFANTE, op. cit., pag. 79 a 105 , col quale tuttavia non concordo in questo , che egli attribuisce al mancipium anche la significazione di una potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il mancipium non comprenda mai le persone (pag. 101, in nota). (2) Come il mancipium , fondendosi in certo modo coll'heredium , sia venuto a de signare le cose comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino romano è stato dimostrato più sopra al nº 331, pag . 414 . 432 concetti fin qui presi in esame, trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla stessa persona ; ma poi anche qui viene operandosi una specie di differenziazione, per cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il complesso dei beni, e quello di familia il complesso delle persone , che dipendono dal medesimo capo . Siccome però nel mancipium non si comprende tutto il pa trimonio del quirite, ma solo quella parte di esso , che è portata nel censo e che serve come stregua per determinare la classe , di cui entra a far parte ; così ne deriva che il censo serviano deve eziandio essere considerato come il momento storico , in cui cominciò ad accen tuarsi quella distinzione fra il mancipium e il nec mancipium , che diede poi origine a quella importantissima distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, che deve formare oggetto di par ticolare esame per le molte discussioni, a cui diede argomento . 343. La distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, è a mio giudizio , un rottame del diritto primitivo, che indecifrabile da solo , può cambiarsi in un documento prezioso , quando si riesca a ricomporlo nell'ambiente in cui ebbe a formarsi (1). L'antichità del concetto , a cui si ispira la distinzione, è dimostrata dal fatto , che i giureconsulti ebbero ad accettare la medesima come già esi stente nel fatto, senza pur cercare di darsi la vera ragione di essa (2 ). La circostanza poi, che questa distinzione ebbe a perdurare per se coli, dimostra che essa non può considerarsi come una semplice biz zarria giuridica, ma deve invece rannodarsi a qualche concetto fon damentale dell'antico diritto , che i giureconsulti classici credettero di dovere accettare e rispettare. Ció del resto può in certi confini anche argomentarsi dal modo singolare , in cui è concepita questa distinzione; in quanto che essa è evidentemente fatta nell'intento (1) L'importanza della questione per lo studio del diritto primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi assai sentita in Italia , come lo dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti e del BONFANTE sulle res mancipi e nec mancipi e quello del Longo sulla mancipatio. Ritengo tutta via , che questa sia una di quelle questioni, che prima debbono essere studiate nei particolari , ma difficilmente possono poi es sere comprese e spiegate, se non siano coordinate colle altre istituzioni del diritto primitivo , con cui concorrevano a costituire un tutto organico e coerente. (2 ) Non può certamente ritenersi definitiva la ragione data da Gavo , Comm ., II, 22, che le res mancipii siano così dette perchè suscettive di mancipatio ; poichè si potrebbe sempre chiedere la ragione, per cui le sole res mancipii furono ritenute suscettive della mancipatio . 433 di mettere in una posizione speciale e privilegiata le res mancipii, che costituiscono la parte positiva della distinzione, mentre l'altra parte della distinzione ha un carattere puramente negativo , cioè comprende tutte quelle cose , che non appartengono alla prima ca tegoria . Da questo carattere infatti è lecito indurre, che nello svol gimento storico dovette precedere la formazione delle res mancipii, ossia di un complesso di cose , che erano comprese nel mancipium , e che solo più tardi quelle, che non erano comprese nelmedesimo, vennero ad essere chiamate res nec mancipii, quasi per contrap porle alla categoria già formata dalle res mancipii. Queste considerazioni aggiunte a quella pur importante, che dopo l'ultima lettura del manoscritto di Gaio da lui fatta , lo Studemund avrebbe adottata la lezione di res mancipii e res nec mancipii a vece di quella di res mancipi e nec mancipi, che prima era ge neralmente adottata, mi inducono a ritenere che il caposaldo, a cui deve rannodarsi questa antica distinzione, sia l'antichissimo concetto del mancipium , le cui origini rimontano quanto meno alla costitu zione ed al censo di Servio Tullo (1). 344. Per poter poi spiegare come nell'antico diritto possa essersi cominciato a distinguere il mancipium dal nec mancipium , non sarà inopportuno il notare, che fin dai tempi più antichi noi troviamo degli accenni ad una specie di distinzione, che erasi fatta nel pa trimonio spettante al capo di famiglia. Noi troviamo infatti una specie di dualismo nei vocaboli di heredium e di peculium , e in quelli eziandio di familia pecuniaque, i quali appariscono in certo modo contrapposti fra di loro . Per verità mentre i vocaboli di he ( 1) Del resto la questione della i doppia o semplice nel vocabolo mancipi o man cipii non ba grande importanza dal momento, che nel latino primitivo solevasi usare l'i semplice a vece della doppia ii. Che anzi sonvi autori, i quali continuano a seguire l'antica scritturazione, appunto perchè veggono in essa un indizio ed una prova dell'antichità della distinzione, sebbene ammettano la parentela delle res man cipiä сol primitivo mancipium . Così il BONFANTE, op. cit., pag. 21. Per parte mia , siccome mi propongo di fare la storia del concetto , anzichè della parola, così trovo più conveniente di adottare quella scritturazione, la quale, esprimendo materialmente l'attinenza fra il mancipium e le res mancipii, impedisce di dare a questa distin zione una significazione diversa da quella , che veramente ha. La grafia mancipi sarà forse la più genuina e la più antica; ma essa condusse alla distinzione fra cose man cipabili e non mancipabili, e a cercare l'origine della distinzione in cose, che non avevano a fare con essa , il che appunto deve essere evitato. G. CARLw, Le origini del diritto di Roma. 28 434 redium e di familia indicano di preferenza quella parte del patri monio, che nel proprio concetto informatore è destinata a passare negli eredi, i concetti invece di peculium e di pecunia sembrano designare di preferenza quella parte di patrimonio, che per sua na tura è destinata allo scambio , alla circolazione ed al soddisfacimento dei quotidiani bisogni. Di quisi può inferire, che una distinzione come questa, che compare indicata con vocaboli diversi, e che si mantiene con una certa costanza , dovette trovare la propria ragione d'essere nelle condizioni economiche e sociali, in cui allora trovavasi il popolo romano, e che perciò la spiegazione di essa debba ricercarsi nell'e poca , in cui vennesi formando il primitivo ius quiritium (1). Parmipoi a questo proposito , che anche oggi, fermando lo sguardo sopra una comunanza di carattere rurale, si possa trovare qualche vestigio di condizioni sociali ed economiche analoghe a quelle, che determinarono questa distinzione nell'antico diritto di Roma. Anche oggi nelle comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo modo unificata nella persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico costituisce come un gruppo di persone e di cose , in cui si comprende il capofamiglia, la moglie , i figli, il bestiame, la terra coltivata , e la cui importanza può essere maggiore o minore, secondo la quantità di terra da esso posseduta, e il numero di braccia , di cui può disporre per la coltura della medesima. È poi facile l'osser vare come in questo patrimonio , che si intitola al padre , ma che nel costume si considera come proprietà comune del gruppo , for misi naturalmente una distinzione congenere a quelle , le cui traccie pur compariscono fra gli antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia agricola havvi anzitutto una parte fissa , sostanziale , che comprende tutti quei beni, senza di cui l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso regolare . Essa costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della famiglia agricola ; quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto appartenga al padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune; quella che è dal padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a malincuore, ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria figliuo lanza . Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza rurale non può a meno di esserne informata e il suo credito vacilla . Quindi piuttosto di alienare questa parte fissa e trasmessibile dal ( 1) Già si accenno a questa correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56 , pag. 70 . 435 proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un tempo la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di ricorrere a quella vendita con patto di riscatto , che nei nostri villaggi si cambiò nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde quell'usura , che chiamasi palliata . Accanto poi a questa parte fissa del patrimonio havvi eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale circolante della fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti dell'annata , le somme di danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto , che ogni anno si compra e si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il capo famiglia può fare maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di essi potrà rendere più o meno agiata la famiglia , senza però mettere a repentaglio l'esistenza della medesima. È naturale che una distinzione di questa natura abbia dapprima alcunché di vago e di indeterminato , in quanto che possono esservi delle cose, di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in questa od in quella parte del patrimonio . Se tuttavia in determinate con dizioni economiche avvenga un avvenimento di carattere ammini strativo , che costringa in certo modo a distinguere le due parti del patrimonio, quale , sarebbe ad esempio , la formazione di un censo o di un catasto per fissarvi sopra una imposta , la conseguenza im mediata di questo fatto sarà , che quella distinzione, che stava for mandosi , perderà il suo carattere vago ed indeterminato e finirà per assumere un significato preciso , il quale , mentre corrisponde allo stato reale delle cose in quel determinato momento, potrà in vece riuscire inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le condizioni economiche del popolo , di cui si tratta . 345. Or bene un avvenimento di questa natura ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e giuridica di Roma. Esso fu il censo di Servio Tullio , il quale , essendo stato posto a base di una nuova composizione del populus romanus quiritium , non potè a meno di lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto romano. Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche le sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia , che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa 436 miglia , colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece , che si facevano alla plebe, erano fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus , mediante le così dette adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di due, di cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano una specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale (tugurium ), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle servitù rurali di pas saggio e di acquedotto , che erano del tutto indispensabili per la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a costituire la pro prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente dalla sua manus, poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium . Che anzi è anche probabile , che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo proprietario, come lo dimostra il fatto , che i poderi romani ancora più tardi conservano il nome derivato da quello del primitivo proprietario , che si considera in certo modo come il fon datore del podere, e lo trasmettono successivamente ai proprietarii che vengono dopo (1). Era quindi questo mancipium , che doveva essere consegnato e valutato nel censo , e che costituiva la base, sovra cui si determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite ; le altre cose invece non gli erano tenute in conto , o perchè non appartenevano al quirite come tale , ma piuttosto alla gente , di cui esso faceva parte, o perchè costituivano una specie di capitale cir colante , di cui non potevasi fissare l'ammontare in questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che questo mancipium (1) Questa induzione mi fu suggerita da due notevoli articoli del FUSTEL DE COULANGES, pubblicati sulla « Revue des deux mondes » del 1886 col titolo Le domaine rural chez les Romains, tomo 3º dell'annata , pag. 318 a 348 e pag. 835 a 869. II FUSTEL DE COULANGES non si occupa veramente delle origini del podere ru rale in Roma, stante le incertezze che ancor durano sull'argomento, ma parla piut tosto dei poderi rurali sul finire della Repubblica e durante l'Impero, allorchè i medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che fare col primitivo man cipium . Egli nota tuttavia, che i poderi anche in quest'epoca avevano una denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario attuale ma del proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus Manlianus, Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per dare una personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato e posto in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità nel podere romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria del quirite , al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a lui spettante, il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani trasmisero poi con quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri esempi. 437 veniva in certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del quirite , cometale: quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in certo modo ne prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione di sorta , purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla comunanza quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili per il quirite; ma quelli, che entravano nel mancipium , avevano per esso una importanza del tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla loro alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i mali trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo, in cui si formò ilmancipium , trova poi la sua conferma nella enumerazione, che i giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii (1) . Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità remota , e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei sull’ager publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come cose singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto , che corrisponde alle condi zioni economiche del tempo , ed ai bisogni di una famiglia agricola , la quale debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium , non è già un campo nudo di qualsiasi attrezzo , ma è un praedium instructum considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù , che sono necessarie per la sua coltivazione (2). Una casa in città , un tugurio in campagna, circondato da un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà tipica del quirite ; quella proprietà cioè , che lo rendeva adsiduus, perchè ne accertava la residenza , e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e della famiglia. Essa era la prima porzione di (1) Gajo , I, 120 ; II, 14-17 ; Ulp., Fragm ., XIX , 1. (2 ) Anche questo concetto del fundus instructus sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op . cit ., pag. 340 , che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e instrumentum fundi » , ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di servi , che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di cose, che può raccogliersi . dall'enumerazione conservataci da Gaio e da Ulpiano delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi nell'attestare, che queste comprendevano ; lº i praedia , così rustici comeurbani, purchè situati nell'ager romanus od anche nel suolo italico , il quale mediante la concessione del ius italicum , poteva anche essere oggetto del do minium ex iure quiritium ; 2° le servitù rustiche , che sono il naturale compimento di un podere rurale, quali le servitutes viae, itineris, actus, aquaeductus; 3° i servi, in quell'epoca strumento indispensabile per la coltura ; 4º e infine i quadrupedes, quae dorso collove domantur , veluti boves , equi, muli et asini. Invece le altre cose tutte , che esorbitano da questa cerchia , comprendendovi la stessa pecunia , le pecore, i buoi ed i cavalli non domati, sono indicate senz'altro colla espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte a questa enumerazione dei giureconsulti si osservo , che riesce difficile a comprendersi come nelmancipium , quale pro prietà tipica del cittadino, non si comprendessero nè le pecore, nè le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né i greggi ed ar menti, cose tutte, che certamente costituirono la parte più notevole della ricchezza dei primitivi romani. È perd anche ovvio il rispondere, che il criterio della riforma serviana non fondavasi sulla ricchezza, quale che essa fosse, ma piuttosto sulla proprietà stabile , esente da qualsiasi vincolo . Era solo questa forma di proprietà , che poteva ren dere i quiriti adsidui e locupletes , e servire così di garanzia alla co munanza dell'interesse, che essi avevano alla comune difesa . Non fu quindi la pecunia , che ebbe ad essere tenuta in conto , perchè questa , anche consistendo in greggi ed in armenti , poteva sempre essere trasportata altrove. Si aggiunga che le mandre, i greggi, e gli ar menti dovevano dapprima non appartenere ai singoli capi di famiglia , macostituire invece la ricchezza delle genti collettivamente conside rate; poichè per il loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe stato atto il piccolo podere quiritario , ma occorrevano dei grandi e vasti spazi, che solo potevano trovarsi negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus della tribus primitiva, o nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai capi di piccolo bestiame, che po tevano anche appartenere al proprietario di un piccolo podere, 439 tenuto ex iure quiritium , essi costituivano quel capitale circolante, che formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti diane, e che perciò non offriva una base salda per essere valutato nel censo . 348. Parmi cið stante di poter conchiudere, che il primitivo man cipium consistette in quel complesso di cose, che costituiva in certo modo la proprietà tipica del quirite , come capo di una famiglia agricola , all'epoca in cui ebbe ad essere introdotta l'istituzione del censo. La selezione di questo mancipium dal resto delle cose, il cui godimento apparteneva ai primitivi romani, erasi preparata len tamente nelle condizioni economiche e sociali ed ebbe poi ad essere determinata in modo esatto e preciso dal censo serviano , il quale per tal modo potè perfino influire nel determinare le varie categorie delle res mancipii (1). È infatti questo mancipium , che nel censo appare intestato ad ogni singolo quirite , e che costituisce il primo nucleo di quella proprietà ex iure quiritium , che ebbe poi a svol gersi coi caratteri di assoluta , di esclusiva e di irrevocabile . Sia (1) Infatti non è punto improbabile, che la distinzione stessa delle res mancipii abbia potuto essere determinata dalle rubriche diverse, in cuidividevasi il mancipium , come già ebbi ad accennare al n ° 332 (in fine). Intanto colla soluzione indicata nel testo credo di aver fatto procedere di pari passo i due aspetti, sotto cui fu discussa l'origine delle res mancipië e nec mancipii. Nota giustamente il Bon FANTE, op. cit., pag. 35 , che le teorie diverse, da lui esposte, si possono dividere in razionali e storiche, secondo che cercano di spiegare razionalmente quella distinzione, oppure di rannodarla ad un fatto storico . I due punti di vista, a parer mio, deb bono esser fatti procedere di pari passo ; poichè la distinzione non sarebbesi intro dotta presso un popolo pratico e logico come il romano, se non avesse avuto una ragione di essere nelle condizioni economiche e sociali del tempo , ed essa non sareb besi poi perpetuata con tanta tenacità, se non vi fosse stato un avvenimento storico importantissimo, come il censo, il quale, per essersi in certo modo immedesimato colla vita e col modo di pensare del popolo, mantenne allo stato fossile la distinzione, di cui si trattava , anche allorchè non aveva più ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono perfino ad offrire alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare il concetto di mancipium alla bellica occupatio ; poichè questo carattere militare, inerente anche almancipium , è una conseguenza di quell'impronta militare, che sopratutto in quell'epoca assume il populus romanus quiritium ; impronta, che rimane inerente a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero origine in quell'occa sione. Tuttavia , siccome trattasi qui di ricostrurre e non di far l'esame critico delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di queste opinioni, delle quali alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti, pag. 38 a 68 , al BONFANTE, pag. 35 e 75 e agli altri autori, che di recente esaminarono la vecchia controversia . 440 pure, che più tardi, per l'accrescersi della fortuna dei cittadini ro mani, siansi aggiunte molte cose , che avrebbero pur dovuto essere tenute in conto per valutare il patrimonio del quirite ; ma in questa parte , come nel resto , i giureconsulti, allorchè trovarono foggiata questa configurazione giuridica , si guardarono dall'alterarne in qual siasi modo le primitive fattezze. Di qui ne venne, che il concetto del mancipium , come molti altri concetti del primitivo diritto, dopo avere un tempo corrisposto alla realtà dei fatti e aver così com preso quelle cose, che effettivamente costituirono la prima proprietà esclusiva del quirite, fini in certo modo per fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria giuridica, in cui si compresero tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere consegnate nel censo. Il mancipium si mantenne cosi come un rudere dell'antichità primitiva di Roma, che malgrado l'incremento delle cose romane rimase ad attestare le condizioni economiche dei quiriti, nel tempo in cui Servio Tullio pose il censo come base di partecipazione alla comunanza quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il potere rurale presso i Romani, salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora sempre conservati i tratti del primitivo mancipium , in quanto che esso continud pur sempre a costituire un tutto organico, ad avere un proprio nome, che è quello del primitivo proprietario, e ad essere considerato come fornito delle servitù e del bestiame necessario per la coltivazione di esso (instru mentum fundi). Le cose romane di piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad essere foggiate sul primitivo modello (1). 349. Nè può essere difficile lo spiegarsi come il concetto del man cipium siasi cosi conservato allo stato fossile, malgrado l'ingrandirsi delle cose romane, quando si tenga conto dello spirito conservatore della giurisprudenza romana, e della circostanza, che i giureconsulti (1) La miglior prova di ciò può aversi dagli articoli citati del FUSTEL DE COULANGES, sur le domaine rural chez les Romains. Da questi infatti si scorge che i Romani portarono il loro concetto del podere anche nelle provincie conquistate, e che le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad avere talora una esistenza propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere coltivato per mezzo di schiavi, quello fatto valere per mezzo di affittavoli, quello lasciato alla coltura dei servi e dei liberti, e quello più tardi coltivato da coloni; ma intanto le fattezze primitive non scomparvero più . Per tal modo anche il podere romano, come tutte le altre istituzioni di quel popolo, è un organismo, che si svolge e si differenzia nelle sue varie parti, ma conserva sempre quei caratteri, che già si potevano ravvisare nell'embrione, da cui è partito ; em brione, che, secondo il mio avviso, consisterebbe appunto nel primitivo mancipium . 441 in questa parte trovarono già chiusa e formata la cerchia delle res mancipii, nè ebbero motivo di estenderla o modificarla in un'epoca, in cui già cominciavano a ritenersi gravi e inopportune le forma lità dell'antico diritto . Di qui la conseguenza, che i giureconsulti in tutti i responsi, che si riferiscono alle res mancipii, mantennero inviolata l'antica misura, e solo ammisero qualche allargamento , che corrispondeva al concetto informatore del primitivo mancipium , e che era necessario per rendere applicabile il concetto stesso (1). Così noi troviamo, ad esempio , che i giureconsulti interrogati, se i camelli ed elefanti potessero essere compresi nelle res man cipii, risposero negativamente, sia perchè questi animali non erano conosciuti, quando si fissd il concetto del mancipium , o meglio ancora, perchè essi non si sarebbero potuti riguardare come una pertinenza di quel podere tipico , che costituiva il mancipium (2 ). Indarno parimenti si fece notare, che le servitù urbane avevano la medesima natura delle rustiche ; esse malgrado di ciò furono sempre ritenute come res nec mancipii, non tanto perchè non fossero co nosciute a quell'epoca, quanto piuttosto perchè non formavano parte integrante del podere stesso (3). Quando poi si chiese, se i cavalli e i buoi non domati potessero essere ritenuti come res mancipii, l'opinione prevalente fu che non fossero tali, probabilmente perchè essi, finchè non erano domati, non potevano essere strumento indi ( 1) Parmi perciò da seguirsi,ma con una certa discrezione, l'opinione che l'enumera zione delle res mancipii debba ritenersi tassativa, come quella che in parte fu determi nata da un avvenimento che doveva dargli un carattere esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel concetto comune anche altre cose potessero essere considerate come res mancipii, quali erano, ad esempio, le pietre preziose di Lollia Paolina, di cui ci parla Plinio il Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè posteriormente il concetto di mancipium , che erasi sovrapposto a quello di heredium , tornò a riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico significò talora i bona paterna avitaque , e specialmente quelli, che nel costume solevano trasmettersi digenerazione in genera zione, quali erano appunto le pietre preziose , che costituivano in certo modo un avitum mancipium . In ciò seguo l'opinione, che il Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del lavoro dello SQuitti nella Cultura , anno 1886 , 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op . cit., p . 93 . (2) GAJO , Comm ., II, 16 ; ULP., Fragm ., XIX , 1. ( 3 ) GAJO , II, 17 ; ULPIANO, loc . cit. Che anzi fra le servitù rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che hanno una maggior importanza per un podere ru stico, e che formano parte integrante del medesimo, cioè l'iter, actus, via , aquae ductus, e non le altre, come quelle del ius pascendi, calcis coquendae e simili , le quali, essendo particolarità di certi speciali poderi, non potevano dapprima essere tenute in conto . -.442 spensabile per la coltura del fondo, che costituiva il primitivo man cipium (1). Cid intanto può eziandio servire a spiegare come Varrone parli di formole relative alla vendita di animali da tiro , e da soma ed anche di servi, accennando alla semplice traditio e non alla mancipatio ; poichè questa doveva solo ritenersi necessaria , allorchè gli animali e i servi, di cui si trattava, dovessero considerarsi come instrumenta fundi (2). Siccome invece le res mancipii, ancorchè singolarmente enumerate , costituiscono però un tutto (cioè il man cipium ), così i giureconsulti rispondono, che alle medesime conside rate come un tutto può essere applicato quello stesso mezzo di alienazione, che è proprio delle singole res mancipii; donde la pos sibilità della mancipatio familiae e del testamentum per aes et libram , di cui si parlerà a suo tempo (3 ). (1 ) La controversia in proposito fra i Proculeiani, che escludevano dalle res man cipii questi animali finchè non fossero giunti a tale età da essere domati, e i Sabi niani, che invece li ammettevano fra le res mancipii, appena fossero nati, è accen nata da GAJO, II, 15, comemolto dubbiosa anche per lui, che era Sabiniano. In ogni caso la stessa esistenza di una simile controversia , ed anche il fatto, che erano res man cipii solo i quadrupedes, quae dorso collove domantur, dimostra abbastanza che la determinazione delle res mancipii aveva stretta attinenza colla coltivazione del fondo. (2) Le formole conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio dei cavalli e dei buoi anche domati (V. Bruns, Fontes, p . 388) condussero il Voigt a ritenere che i cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone nel novero delle res man cipië (Ius nat., Leipzig, 1875, IV , pag. 561). Veramente non si saprebbe ilmotivo di questa nuova introduzione in una distinzione, che oramai appariva antiquata ; ma ad ogni modo la cosa a mio avviso è facile a spiegarsi, quando si ritenga che la qualità di res mancipiä era dapprima attribuita dall'essere questa cosa un « instru mentumt fundi» . Quindi non sempre era necessaria la mancipatio per questi animali, come non sempre era necessaria per i servi, come lo attesta lo stesso Varrone. Non credo poi che possa essere il caso di supporre degli errori nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante, op . cit., pag . 111 , non potendosi supporre un er rore di questo genere sopra formole, che vivevano nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi giureconsulti. (3) È tuttavia degno di nota, che mentre il mancipium o la familia , intesi nel senso di patrimonio, sono per sè suscettivi di mancipatio, l'hereditas invece è consi derata come una res nec mancipië, e come tale è suscettiva di in iure cessio, ma non di mancipatio (Gajo, Comm., II , 14, 17, 34). La ragione, a parer mio, è questa, che la familia o il mancipium , finchè dipendono dal pater familias, costituiscono un'entità concreta : mentre l'eredità , riguardo a colui che vi ha diritto , costituisce già una cosa incorporale, una res, quae etiam sine ullo corpore iuris intellectum habet, e quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto però non parmiaccettabile l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit., pag. 12, che la distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile alle res singulares, poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium , nè la familia . 443 350. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle cose con dusse in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium . Così, ad esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano solo essere compresi i praedia , che fossero si tuati nel primitivo ager romanus, mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante suolo italico , quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in genere furono compresi fra le res mancipii (1). Non potrei invece ammettere col Puctha , che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere , che fossero in potestate , in manu , o in causa mancipii(2); poichè, come sopra si è notato , qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal capo di famiglia , le quali persone si dicono « alieni iuris , quae in manu, potestate,mancipio sunt » , ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che anche alle persone si applica la mancipatio , ma cid provenne, come si vedrà più tardi, da cid che la mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per eccellenza , che è l'atto per aes et libram , e quindi compare ogniqualvolta trattisi di acquistare o trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà giuridica quiritaria. 351. Intanto questa storia primitiva del mancipium ci pone eziandio in caso di risolvere la questione tanto agitata fra gli autori relativa alla precedenza fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii e nec mancipii. hi seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece denza alla mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si chiamerebbero tali appunto , perchè si trasferiscono me diante la mancipatio ; ma rimarrebbe ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne ad essere il mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di cose . La cosa invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri ( 1) Ho già notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo , allorchè non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem plice traditio . (2 ) Puchta, Inst., § 238. Cfr. SQUITTI, op . cit., pag. 15 . 444 tenga, che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium , il concetto cioè di una proprietà tipica del quirite , che compren deva uno spazio di terra e quelle pertinenze di esso , che riputa vansi il patrimonio indispensabile del capo di una famiglia agricola . La formazione di questo mancipium , che già aveva una base nelle condizioni economiche e sociali dei primitivi romani, venne in certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto l'influenza della costitu zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo economica, ma anche politica del mancipium , pose le cose , che erano comprese nel medesimo, in una posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose , che potevano spettare al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una proprietà essenzialmente quiritaria , perchè apparteneva al quirite come tale. Era quindi naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese nel medesimo si estendesse l'atto quiritario per eccellenza , che era l'atto per aes et libram , mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré anche la semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello poi, che si riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec mancipii, parmi evidente che essa fu l'ultima ad es . sere introdotta, e non ho difficoltà di ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi dai giureconsulti , quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad ordine sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto . Il censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res mancipii, ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie ; ma esso non poteva determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii. È quindi probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di cose (mancipium ), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano formato di queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui caratteristica consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre tutte le altre furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii (1). ( 1) Non parmi tuttavia accoglibile l'opinione del Voigt, secondo cui la distinzione sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma. Essa invece dovette già essere formata all'epoca delle XII Tavole, in cui accanto alla mancipatio , riservata alle res man cipii, era già comparsa l'in iure cessio, che era applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che sarebbe anche provato da ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res mancipii nella condizione speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos sero state vendute da una donna senza approvazione del tutore. È evidente infatti 445 Essi insomma fecero qui una distinzione analoga a quella , che si introdurrà più tardi, fra le cose, che appartengono ad una persona ex iure quiritium , e quelle invece che le appartengono solo in bonis ; poichè le prime costituiscono una cerchia chiusa e circo scritta, quanto alle cose, che possono essere l'oggetto , quanto ai modi di acquisto , e alle persone cui appartengono, mentre quelle in bonis comprendono tutte le altre . $ 6 . La storia primitiva della proprietà ex iure quiritium . 352. L'analogia , che ho sopra notata fra la distinzione delman cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi fra il dominium ex iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra volta sul grave problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà ex iure quiritium . Fino ad ora si è sola mente dimostrato , come già nel periodo gentilizio vi fosse una forma di proprietà , che intestavasi al capo di famiglia, e che pren deva il nome di heredium . Questa tuttavia non costituiva ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi mancipia . Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso populus romanus qui ritium , in base alla considerazione del censo, la sola proprietà , che era loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e perciò fu questa , che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris, sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex iure quiritium , ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo formo oggetto del medesimo ; come lo dimostra la circostanza , che in questo periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e da Ul PIANO, Fragm ., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di cui si tratta . Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op . cit., pag . 73 e seg ., e BONFANTE , op . cit., pag. 115 e seg . 146 dominio quiritario all'espressione meam esse : « aio hanc rem iure quiritium » . Ferma cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo del dominium ex iure quiritium , resta ora a ve dere come il suo concetto siasi venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso questa proprietà ex iure quiritium , la quale doveva poi divenire il modello di ogni proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto della proprietà ex iure qui ritium . L'Ortolan, ad esempio , trova assurdo che il quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano certe servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in qualmodo quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi indifferenti alla distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo induce a combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non conosceva un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium : « aut enim ex iure quiritium unusquisque do minus erat , aut non intellegebatur dominus » (1). È certo che la cosa riesce assai strana, quando si voglia ritenere che, al difuori della proprietà ex iure quiritium , non vi fosse pei romani primitivi altra forma di proprietà o di possesso ; ma la cosa pud invece essere spiegata quando si abbia presente il modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e le istituzioni, che entrarono a costituirlo . Già ho cercato di dimostrare comeil ius quiritium non comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso , che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e che di vento cosi comune ai due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far parte della stessa comunanza quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono ancor sempre a seguire le proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che quella parte di diritto , che essendo stata accettata come base della comunanza quiritaria prese il nome spe ciale di ius quiritium . Questo pertanto non governd dapprima tutti i rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano fra loro nelle ( 1) Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880, p. 606. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 40. . 447 loro qualità di quiriti, e fu solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti, che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti, modellando nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una grande e popolosa città , e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum (1). 354. Or bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò eziandio nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a costituirlo, e quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium . Questa non comprende dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma comprende solo quella parte di essa , che loro appartiene nella loro qualità di quiriti. Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il mancipium , che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a cui si determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la primitiva proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il mancipium , e fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza, cioè l'atto per aes et libram , e quella pro cedura quiritaria dell'actio sacramento , in cui i contendenti affer mavano: « hanc rem suam esse ex iure quiritium » . Questa infatti era l'unica proprietà , che poteva essere tenuta in conto al punto di vista quiritario e che doveva perciò avere la tutela del diritto qui ritario . Quindi era giusto il dire, che altri « aut erat dominus ex iure quiritium , aut non intellegebatur dominus » : il che non vuol già dire , che non si potesse avere il possesso od il godimento di altri beni, ma soltanto che le altre forme di proprietà non potevano es sere tenute in calcolo al punto di vista quiritario . Quindi al modo stesso, che il ius quiritium fu il frutto della selezione di certi con cetti e forme solenni, che furono adottate dalla comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure quiritium fu anche essa determinata da una specie di selezione. Il suo primo nucleo consistette nel man cipium , il quale costitui in certo modo la proprietà tipica del qui rite , ma più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti, e perciò alla cerchia troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium . Questo infatti (1) Questo carattere particolare del ius quiritium , per cui esso non è tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che vennesi consolidando al lorchè patriziato e plebe entrarono a formar parte della stessa comunanza quiritaria . fu dimostrato sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448 viene già ad essere più esteso : lº quanto alle persone a cui compete, che non sono più i soli capi di famiglia , ma tutti i cittadini ro mani ed anche i latini cui sia accordato il ius quiritium ; 2° quanto ai modi, con cui si acquista , che non si riducono più alla sola man cipatio, ma comprendono anche la in iure cessio e la usucapio (1 ); e quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii, ma tutte le cose in commercio , eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è evidente, che anche in questo secondo stadio la proprietà ex iure quiritium costituisce ancora sempre una proprietà privilegiata , quanto alle persone , alle cose , ai modi di acquisto ; cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste condizioni la cosa ap partiene solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto della pro tezione pretoria , che viene a poco a poco delineandosi una proprietà in bonis, accanto alla proprietà per eccellenza, che era quella ex iure quiritium . Qui pertanto appare evidente quella legge di for mazione del diritto romano, per cui accanto alla parte di esso già formata ne compare un'altra, che trovasi in via di formazione e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle forme di quella , che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel primitivo ius quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium , il medesimo invece nel ius proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato dalla proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis ; ma intanto la seconda distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad essere foggiata sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium , dopo esser stato modellato sulla realtà dei fatti, abbia finito per convertirsi in una costruzione giuridica non dissimile da quella , che abbiamo ravvisata nei concetti di caput, di manus e di mancipium . Esso è una forma di proprietà , che cor risponde al concetto del quirite, e quindi al modo stesso , che questi nella sua configurazione giuridica era una individualità integra e perfetta , concepita sotto l'aspetto esclusivamente giuridico , ed (1) Non è qui il caso di parlare nè dell'adiudicatio, nè della lex , e dell'adsignatio viritana , che potevano anche attribuire il dominium ex iure quiritium ; poichè lo stesso Gajo , Comm ., II, 65 , parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e dell'usucapio , come costituenti un ius proprium civium romanorum . 449 isolata da tutti gli altri suoi rapporti , cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere concepita come assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine della persona, a cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo , che allo svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del tutto ana loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di caput; cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio , furono adoperati dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato del quirite. Così , ad esempio , al modo istesso , che si ha l'optimum ius quiritium allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi havvi il dominium optimum maximum , quando il dominium non è soggetto ad alcuna limita zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi havvi eziandio una diminutio dominii , la quale è perfino in dicata collo stesso vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis diminutio. Che anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti gli uomini, cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium .ex iure quiritium ; il qual concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una specie di correlazione fra la concessione della civitas agli abitanti, e la concessione al suolo da essi abitato di quel ius privilegiato , che lo rende suscettivo di dominio quiritario . Cosi mentre il solum italicum ottenne questa speciale condizione, sotto il nome di ius italicum , il solum provin ciale invece non potè mai essere oggetto di vera proprietà , se non quando scomparve con Giustiniano la distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis (1) . Vi ha di più ancora, ed è che le trasformazioni storiche, che ac cadono nel concetto di caput, camminano di pari passo con quelle del dominium ex iure quiritium . Così, ad esempio , finchè il vero caput non appartenne che al capo di famiglia , anche questi fu il solo capace di proprietà ex iure quiritium . Quando poi la capacità di diritto dal capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano ) (1) In questa guisa si spiega, come i Romani procedessero nell'accordare ad un determinato territorio l'attitudine ad essere oggetto di proprietà quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia fra la formazione del ius latiï e quella del ius italicum : di cui quello si riferisce alle persone, questo invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin, Étude sur le ius italicum , nella « Nouvelle revue historique de droit français et étranger » , annate 1881 e 1882). G. CARLI, Le origini del diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per essere capace di proprietà ex iure quiritium . Quando infine la capacità giuridica appartenne ad ogni uomo li bero , perchè tutti gli abitanti dell'impero ottennero la cittadinanza, bastò essere uomo libero per essere capace di quella proprietà , che un tempo era stata privilegio dei soli quiriti. La qual trasforma zione avverasi anche, quanto alle cose che ne formano l'oggetto , le quali cominciarono dall'essere quelle soltanto, che figuravanonel censo intestate al capo di famiglia (res mancipii), e finirono per compren dere tutte quelle, che potevano essere in commercio . Il che deve pur dirsideimodi diacquisto , i quali dapprima furono probabilmente circo scritti alla sola mancipatio, mentre dopo compresero l'in iure cessio e l'usucapio, e finirono col tempo per comprendere anche quei modi di acquisto , che dapprima erano proprii soltanto del diritto delle genti ; donde la distinzione della classica giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio , civili e naturali, originarii e derivativi (1 ). 356. Era poi naturale, che alla proprietà cosi intesa i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella stessa analisi, che già ab biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il quirite alla cosa che gli apparteneva : gli fecero afferrare materialmente la cosa ed affermare la sua proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua ex iure quiritium : immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla medesima spettante, e le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne, goderne, e di disporne , anche abusando di essa . In questo diritto del proprietario , che non ha confine, deve quindi ravvisarsi una costruzione giuridica, non dissimile da tante altre, che occorrono nel diritto romano : poichè in effetto l'abuso della proprietà era poi frenato dal costume, e sopratutto dal iudicium de moribus, il quale , dopo essere stato una istituzione gentilizia , fu di nuovo ristabilito dalle XII Tavole, e fu affidato al pretore (2 ). Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella proprietà (1) Non può ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle origini del diritto ro mano non esistessero modi naturali di acquisto, il che sarebbe contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto alle res nec mancipii: ma soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca forse più antica , furono solo più tardi incorporati nella com pagine del diritto romano, il quale assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle forme prestabilite. (2 ) L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu dimostrata al n° 59, p . 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata dalla intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra richiamare qualche antica norma consuetudi 451 fini per ricevere una propria denominazione, e staccato dal ceppo , sovra cui aveva radice, fini per dare origine alle varie configura zioni dei diritti reali , comprendendovi anche il ius possessionis, ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo, pur sempre ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà , di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra essere venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare adoperato, quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che erano inchiusi nella medesima (1). 357. Questa ricostruzione intanto del dominium ex iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei rapporti, che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A questo proposito il diritto romano presenta questa singolarità , chementre il giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse) (2); noi troviamo invece , che nello svolgimento storico presentasi dapprima integro e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium , ed è solo molto più tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti tuzione giuridica , protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo stato di cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non distinguessero dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica sovra di essa ; ciò sarebbe smentito dal fatto , che essi fin dai primi tempi ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas , ed anche dalla circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si riconobbe dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza , che le XII Tavole, affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla gens, richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium , che era venuto meno nello stretto ius quiritium , e ristabili rono contro il prodigo interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una reliquia dell'organizzazione gentilizia . Il testo infatti, secondo la ricostruzione del Voigt, Tav. VI, 10 , sarebbe il seguente : « Qui sibi heredium nequitia sua disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto » . ( 1) Che il vocabolo di proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si trat tava di contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi nella medesima, può argomentarsi , fra gli altri passi, da quello di GAJO, II, 30, ove la proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. (2 ) L. 1, § 1 , Dig . (41, 2 ). 452 proprietà , ma una specie di possesso a titolo di precario , che non aveva ancora carattere giuridico (1). La causa invece del fatto deve riporsi in ciò , che anche in questa parte il ius quiritium , essendo già stato il frutto di una vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal concetto più vasto e comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di proprietà . Il concetto infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad essere modellato sul mancipium , il quale , implicando la sottomissione illimitata di una cosa ad una persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti i po teri, che ad una persona possono appartenere sopra una cosa. Il diritto infatti , che al quirite spetta sul proprio mancipium , nella sua sintesi vigorosa, implica la detenzione materiale e la proprietà della cosa : è un fatto ed è un diritto ; è una proprietà originaria , ma intanto comprende eziandio la proprietà derivata ; esso anzi de signa perfino una proprietà , che ha dell'individuale e del famigliare ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche in questo concetto venne penetrando l'analisi , la quale cominciò dal distinguere la materiale detenzione di una cosa (naturalis possessio), la quale è un puro e semplice fatto (res facti), dalla padronanza giuridica sovra di essa (dominium ex iure quiritium ), la quale costituisce invece un vero e proprio diritto (res iuris). Col tempo però, siccome fra questi due termini estremiverranno ad esservi delle possessiones, che per speciali considerazioni potranno anche apparire meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal pretore il concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più unicamente come una res facti , ma in parte eziandio come una res iuris ; non supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche l'intenzione di tenere la cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo possesso verrà cosi a pren dere un posto di mezzo fra la semplice detenzione materiale di una cosa, e la proprietà della medesima (2 ) ; quindi, per la protezione di esso , il pretore , non trovandosi di fronte ad un diritto compiutamente formato, non potrà ius dicere nel vero senso della parola , ma sol tanto interdicere , cioè proibire che venga turbato lo stato di fatto , del quale si tratta (vim fieri veto ), donde la denominazione degli inter . (1) Vedi, quanto alle primitive possessioni della plebe nel territorio romano, il nº 154 , pag. 190 e segg . (2) V. in proposito Savigny, Dela possession , Trad. Staedtler, sulla 74 ed . tedesca, Bruxelles 1879, § 5º, pag. 20 a 25 . 453 dicta , con cui si protegge il possesso . Siccome poi questo possesso , du rando un determinato spazio di tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero diritto; cosi il possesso , oltre al costituire per se stesso una istituzione giuridica , protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo , mediante cui il fatto della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può trasformarsi nel di ritto di proprietà (auctoritas) (1). È tuttavia a notarsi, che siccome tanto il dominium ex iure quiritium , quanto la semplice possessio debbono ritenersi come una scomposizione del diritto, che al quirite spettava sul primitivo mancipium , il quale aveva del materiale e del giuridico ad un tempo ; così tanto il dominium , che la pos sessio, presso i romani, non poterono mai intieramente spogliarsi di un certo carattere di materialità . Cid è dimostrato dalla circostanza, che da una parte il dominium fini per essere circoscritto alle cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo della tra dizione, e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che alle cose corporali e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime (quasi possessio ) (2). In questo modo possono facilmente spiegarsi le incertezze dei giureconsulti , i quali ora considerano il possesso come una res facti, ed ora come una res iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del diritto di proprietà , ed ora dicono invece , che il possesso ha nulla di comune con essa; poichè il medesimo, essendo una istitu zione intermedia fra il fatto ed il diritto , fra la detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto l'uno or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale punto di vista , sotto cui era considerato (3 ). Si comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia dovuto (1) A parer mio è importante nello svolgimento storico del diritto romano di tener distinti i due istituti del possesso ad usucapionem , e del possesso ad inter dicta . Il primo prese le mosse del concetto dell'usus e perciò potò essere applicato così alle res mancipië che alle nec mancipii, così alle cose corporali, che alle incor porali; mentre il secondo fu il frutto dell'analisi del mancipium , e ritenne quindi sempre qualche cosa della materialità inerente a quest'ultimo. L'uno mette capo alla legislazione decemvirale, mentre l'altro ricevette la propria configurazione giu ridica dal diritto pretorio . (2 ) Cfr. Savigny, op. cit., § 12 , pag . 170-177. (3 ) V. i passi in proposito citati dal Savigny, op . cit ., § 5 , pag. 21 e segg ., nelle note. Sono poi noti i passi di Ulp., 12 , § 1, Dig . (41, 2) nihil commune habet proprietas cum possessione» , ed altri analoghi, L. 1, $ 2 , Dig . (43, 17). Cfr. JHERING , Fondement des interdits possessoires, Trad . Maulenaere, Paris 1882, pag . 42. - 151 prendere le mosse dalla materiale appropriazione di una cosa , il concetto del possesso sia tuttavia di formazione posteriore, e non abbia ricevuto una propria configurazione giuridica, che per opera del pretore, allorchè il medesimo cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones nell'ager publicus, che per la propria durata già cominciavano ad assumere il carattere di un vero A proprio diritto ( 1) . Per quello poi, che si riferisce alla questione tanto agitata del fon damento razionale della protezione giuridica accordata al possesso, essa , come al solito , non ebbe ad essere trattata di proposito dai giu reconsulti ; ma si può indurre dallo svolgimento storico di esso , che tale fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto il diritto romano, secondo cui « ex facto oritur ius » , in quanto che ogni fatto , che riunisca in sè certe condizioni di durata e di buona fede, contiene in sé i germi di un diritto e come tale può già meri tare la protezione giuridica e servire ad un tempo di base all'usu capione (2 ). (1) Tale sarebbe l'opinione del Niebaur , Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op. cit., § 12 a , pag . 177-185. Essa parmi in ogni caso più verosimile di quella sostenuta dal Pochta , Istit., § 225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe provenuta dalla concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno dei contendenti nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento ; poichè questo possesso interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una protezione giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque stia la cosa , sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis , destinato appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto viene ad essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia collocare il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e reali, esso dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY, op . cit., $ 6 , p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa . (2 ) Senza voler qui prendere in esame le molte teorie , che furono escogitate in proposito, solo mi limiterò ad osservare, che la questione ebbe ad essere profonda mente discussa in due opere, che vennero ad un risultato compiutamente diverso ; di cui una è quella del JHERING , Ueber den Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui abbiamo la trad. franc. del Maulenaere, sopra citata , e l'altra è quella del Bruns, Die Besitzklagen des röm . und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con cetto fu adottato e largamente esposto dal PADELLETTI , Archivio giuridico, XV, pag . 3 e segg . Secondo il primo, la protezione accordata al possesso fondasi su ciò , che il possesso è una estrinsecazione della stessa proprietà , e quindi senza tale pro tezioneanche la proprietà non sarebbe sufficientemente difesa. Secondo l'altro invece, il posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base al concetto, enunciato nella L. 2, Dig . (43 , 17): qualiscumque possessor, hoc ipso quod possessor est , plus iuris habet, quam qui non possidet » . Parmi che, assegnando a questa protezione il fondamento razionale indicato nel testo, cioè il principio : « ex facto oritur ius » , si 455 358. Di fronte a questo svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere difficile la risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come quella della proprietà ex iure quiri. tium , dopo essere stata esclusivamente propria dei romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per essere adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta della dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo , che la proprietà quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da quel nucleo di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai singoli capi di famiglia , fini per essere isolata dall'ambiente , in cui si era formata , e si cambiò così in una costruzione logica e coerente . Fu in questa guisa, che la medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di costruzione giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per diventare quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti giuridici, e quindi anche questa o quella forma di proprietà , ma non tutti riescirono ad isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente storico , in cui si erano for mati ; solo i romani ebbero la potenza di sceverarli da ogni elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non interrotta , che duro pa recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato di purezza quella , che potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli istituti . Le loro analisi, le loro fattispecie , le loro costruzioni giuridiche non potranno sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche nel loro genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte greca ; ed è questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto romano. Questa elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al concetto della privata proprietà . In questo senso si pud dire col Sumner Maine (1) che essi furono i crea tori della proprietà privata ed individuale ;ma è sopratutto notabile abbia il vantaggio di far contribuire alla giustificazione della protezione giuridica accordata al possesso e l'una e l'altra teorica , e quello di dare contemporaneamente una base, così al possesso ad interdicta , come al possesso ad usucapionem . Secondo il Puglia , Studii di storia del diritto romano, Messina 1886 , pag. 72: « l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso come un mezzo particolare per risolvere una controversia , per la quale non potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio » ; ma è ovvio il notare che in questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr . PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom ., pag . 529 e segg., ove trovasi citata in nota la bi bliografia più recente sull'argomento . ( 1) SUMNER-MAINE, L'ancien droit, trad . Courcelles Seneuil, Paris, 1874, p . 244 . 456 il modo e il perchè essi ed non altri riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il concetto della pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel nucleo di cose, che era compreso nel primitivo mancipium , con cui ogni sin golo quirite compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto logico, che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium , a tutte le cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio . Per tal modo la proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e patriarcale , non dissi mile da quella , da cui usci la proprietà privata dei Germani e degli Inglesi nell'evo moderno ; ma a differenza di questa , quella fu ben presto isolata dall'ambiente , in cui erasi formata, e si cambid cosi in una proprietà tipica , strettamente individuale, che potè con certi temperamenti essere adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare comparazioni, che miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi dall'accennare ad alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà privata in Roma e presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a pag . 62, nota 2, la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito della proprietà presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa discussione porse argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886 , in cui egli fa un accura tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa le condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini le mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150 anni, che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a ciò, che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà collettiva del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della famiglia. Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso i Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886 , la descrizione degli ulteriori stadii , per cui passò l'evoluzione stessa . Noi cominciamo anzitutto dal trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia , i vicinalia , i vicanalia (SCHUPFER, pag . 26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che, senza essere del tutto individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama l'eredità , il passaggio cioè di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo vocabolo presso i Romani, era quello di heredium , e presso i Germani è quello di alodium ; il quale eziandio , secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò dapprima dall'indicare l'eredità , e passò poscia ad indicare il patrimonio avito. SCHUPFER , Op. cit., pag . 11 e 12. Or bene, presso l'uno e l'altro popolo, è questo heredium o alodium , che finisce per costituire il primo nucleo della proprietà esclusivamente privata . — È notabile anzi, che, nel periodo della tras 457 formazione, nè i Romani, nè i Germani hanno un vocabolo specifico per indicare la proprietà : poichè mentre i primi esprimono la proprietà coi concetti di meum e di tuum , di heredium , di praedium , di mancipium , i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land, Erbe, Eigen , Allod , Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani occorrono quei consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi vocaboli di « ercto non cito » . Questi consortia parimenti esistono sopratutto fra fra telli, e talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente nella comunione (SCHUPFER , pag. 52), e richiamano così la familia omnium agnatorum . — Infine la vera proprietà privata formasi presso i due popoli nella stessa guisa. Al modo stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu un assegno sull'ager gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà privata , presso i popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof. Schupfer, fu anche essa una sors, un lotto , un assegno ( pag . 63); accanto al quale però si svolge eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag . 60), il quale, salvo il linguaggio, non presenta poi grande differenza dal manucaptum dei latini. È poi anche degno di nota, che questo nucleo cen trale della proprietà privata presso i Germani, al pari che presso gli antichi Ro mani, è costituito da un podere o da una abitazione rustica, a cui trovasi annessa una certa quantità di terra , che in massima avrebbe dovuto essere invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è indicato coi nomi dimansus, di hoba , di sedimen , i quali proba bilmente portano eziandio con sè quella idea di residenza , che era indicata anche dai vocaboli di mancipium e di dominium . Che anzi, come già notava lo Schupfer , p . 78, anche l'uomo libero longobardo, che si chiama arimanno, indica la sua libera pro prietà col vocabolo di arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la sua proprietà esclusiva « dominium ex iure quiritium » . Infine questa proprietà si acquista , si trasmette e si rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la manci. patio e l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., pag. 122, 138 e 160 ). Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle leggi che go vernano l'evoluzione della proprietà , sonvi anche le differenze , che sono determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il popolo romano, giunto una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa una costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici invece non giungono a questa concezione tipica ; quindi mentre la proprietà romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente gentilizio , e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa, pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui era uscita , o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà, quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad . Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh, 1884 . - 458 CAPITOLO III. Il ius quiritium ed i concetti di commercium , connubium , actio . 359. Fin qui ho cercato di ricomporre il quirite negli elementi essenziali del suo status, e di seguire le trasformazioni, che si vennero introducendo man mano in ciascuno di questi elementi. Ricostruendo cosi il primitivo diritto , fummo condotti ad una con figurazione giuridica del quirite, la quale , ancorchè rigida e com passata, si presenta però organica e coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte più difficile di questa ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una figura cosi automatica potesse entrare in rapporti con altre individualità foggiate sullo stesso modello , e dare cosi origine a quella infinita varietà di negozii, in cui il quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività giuridica . Non è quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il magi stero dei veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più di notomizzare e di scomporre lo status del quirite , ma di mettere il medesimo in movimento ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma giuridica alla varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando col formarsi e collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione più ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto , sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere considerato come il frutto di una evoluzione lenta e graduata , determinata sopratutto dalle condizioni economiche e sociali del popolo romano (1). Lo studio invece delle vestigia , che a noi pervennero dell'antico ius quiritium , mi hanno profondamente convinto , che il medesimo, anche in questa parte , che potrebbe chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie di elaborazione e selezione potente , (1) Tale sarebbe l'idea, forse alquanto preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo : Studii di storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia scientifica , Messina, 1886 . 459 che venne operandosi su materiali giuridici preesistenti , la quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica giuridica , non dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica del diritto quiritario . Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi fondamentali dello status del quirite furono fissate , pressochè contemporaneamente, dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano ; lo svolgimento invece della parte del diritto quiritario , che si riferisce al negozio giuridico , fu l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata , la quale si operd man mano, che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato e la plebe , e che le loro rispettive istituzioni si fondevano insieme nell'attrito della vita cittadina. 360. Che questo sia stato il processo , con cui si formò eziandio la parte dinamica del ius quiritium , risulta da una quantità gran dissima di indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più importanti. È indubitabile anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio giuridico , il ius quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto particolare, ma parte invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi, quali sarebbero quelli del commercium , del connubium e dell'actio , i quali tutti hanno una larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere nel periodo gentilizio , anteriore alla fondazione della città . Cosi pure è certo, che il primitivo ius quiritium non viene già creando le forme giuridiche, a misura che si vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici , ma compare invece con certe forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare entrare, anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento la convivenza civile e politica . È in questa guisa, che un solo atto , quale sarà , ad esempio, l'atto per aes et libram , finirà per servire alle applicazioni più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius quiritium , nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati, presentasi dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il nucleo centrale , intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che hanno qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha dubbio , che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio , che è il matrimonio cum manu ; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram ; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio sacramento . Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano ; - 460 - ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale , che è quello del quirite . È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di questa parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi della sua naturale formazione, cominciando dal cercare : lº quali siano i concetti fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del ius quiritium ; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che essi subiscono en trando nel diritto quiritario ; 3º l'ordine progressivo , con cui questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora zione del ius quiritium . 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende le mosse la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli del connubium , del commercium , dell'actio . Cid pud inferirsi anzitutto dalla circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era naturale , che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria , li applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite , pur essendo un individuo , continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica del quirite , quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario di terra , i quali due caratteri, nella sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium . Era quindi naturale , che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si riducevano alla famiglia ed alla proprietà , così le varie manifestazioni dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del connubium , da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a quella del com mercium , in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge occasione la circolazione e lo scambio della proprietà . — Le une e le altre ma nifestazioni poi trovavano la propria difesa nell'actio , che serviva a tutelare il quirite sotto l'uno e sotto l'altro aspetto , non essendovi ancora la distinzione fra i diritti reali e personali. Questi concetti pertanto , trasportati nel ius quiritium , si cambiarono, per così dire , in altrettanti capisaldi, da cui si vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi l'attività giuridica del quirite ; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere ordine nello svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di necessità ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del connubium , del commercium e dell'actio (1). Tutto il diritto infatti, che si ri ferisce alle persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente privato , sembra metter capo al concetto del connubium ; quello invece, che si riferisce alle cose, non è che uno svolgimento del commercium ; e quello infine, che riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio , che costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli stessi giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai privati, finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del con nubium e del commercium , somministrandoci così, almeno questa volta , una chiave di quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice svolgimento della giurisprudenza romana (2). 362. Per quello poi, che si riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius quiritium , non può esservi dubbio , che essa deve essere cercata nel periodo gentilizio , il che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo ( 3). Vuolsi perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima avevano governato dei rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati nei rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante basi del diritto spettante ai quiriti , cosicchè dal connubium derivd il ius connubii ex iure quiritium ; dal commercium il ius commercii pure ex iure quiritium ; e infine dall’actio il sistema delle legis actiones , che è parimenti proprio della comunanza quiritaria . Questi concetti pertanto cessarono di avere uno svolgimento pura mente estensivo , come era accaduto nei rapporti fra le famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno svolgimento intensivo; cosicchè (1) Intendo qui parlare della nota distinzione di Gaio, Comm ., I, 8 : « Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad actiones » . Quanto alle obbiezioni che si fecero, sopratutto dal Savigny, al valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97, pag. 124, nota 1. (2) È sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi concetti di connubium e di commercium tutto l'esplicarsi dell'attività giuridica del qui rite. V. Ulp., Fragm ., V , 3, quanto al connubium , e XIX , 5 quanto al commercium . Quanto all'uno e all'altro concetto cfr . il Voigt, XII Tafeln , I, pag . 244 e. 274 , coi passi ivi citati, ed il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 108 e 109. (3 ) V. sopra lib . I, cap . VI, SS 2 e 3, pag . 123 a 138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una propaggine di quel diritto pri vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il nomedi ius quiritium , e che più tardi chiamarono ius proprium civium romanorum . Cosi, ad esempio , il connubium nel periodo gentilicio , era il di ritto di imparentarsi fra di loro, che esisteva fra i membri delle genti, che appartenevano al medesimo nomen . Trasportato invece nella comunanza quiritaria, esso venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium . Secondo Ulpiano infatti « connubium est uxoris iure ducendae facultas » , ossia il diritto di addive nire alle giuste nozze riconosciute dal ius quiritium , e di godere cosi di tutti i diritti , che in base al medesimo derivavano da queste giuste nozze , cioè : della manus sulla moglie , fino a che il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del cittadino romano ; della patria potestas sui figli, che anche più tardi i giureconsulti consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che anzi, siccome anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure quello della successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano stretta attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio dell'agnazione, che stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium , come una dipendenza del connubium , considerato come un ius proprium civium romanorum . 363. Lo stesso è pure a dirsi del commercium . Il medesimo, nei rapporti fra le genti, era il diritto di addivenire ai reciproci scambii « emendi vendendique invicem potestas » ; ma allorchè invece venne ad essere trapiantato fra i quiriti, i quali come tali avevano una proprietà speciale e privilegiata, che era la proprietà ex iure quiritium , esso venne a cambiarsi nel ius commercii ex iure qui ritium , ossia nel diritto di addivenire a tutti quei negozii giuridici, di carattere mercantile, che erano stati adottati come proprii dalla comunanza dei quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui ritium e ancora nella legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme fondamentali, che sono: lº il facere nexum , che è il diritto di potersi obbligare nella forma e cogli effetti riconosciuti dal diritto quiritario ; 2° il facere mancipium , che è il diritto di acquistare e trasmettere la prima proprietà quiritaria , consistente appunto nel mancipium , colle forme riconosciute dal diritto quiritario ; 3º e in fine il facere testamentum , che è il diritto di acquistare o di tras mettere un'eredità , mediante il testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario , donde il vocabolo di testamenti factio (1). Che anzi l'unità primordiale di questi varii negozii, in cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium , viene ad essere messa in evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii finiscono per compiersi con una sola forma tipica , che è quella dell'atto per aes et libram , e tutti appariscono foggiati sullo stesso modello . Basta perciò considerare, che il nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico ad un tempo, il mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la proprietà, e infine il testamentum , sotto un aspetto ha tutte le apparenze di un negozio tra vivi, e sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non produce i suoi effetti, che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Così pure l'unità di origine di questi varii negozii e il loro diramarsi dal concetto , che il proprietario ex iure quiritium deve poter liberamente disporre delle proprie cose , viene anche ad essere dimostrata dalla circostanza , che di fronte a tutti questi atti la legislazione decemvirale proclama il principio : « uti lingua nuncupassit » , o quello analogo : « uti legassit, ita ius esto » . 364. Da ultimo accade eziandio una trasformazione analoga nel concetto dell'actio. Questa nel periodo gentilizio era la procedura solenne, consacrata dal costume, a cui doveva attenersi il capo di famiglia , il cui diritto fosse disconosciuto e violato , e la medesima poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra i contendenti, quando essi non avessero potuto venire ad un amichevole compo nimento ( 2 ). Allorchè invece l'actio compare nel ius quiritium , essa imita bensì ancora la procedura anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia , ma intanto già si compie in iure , cioè davanti al magistrato riconosciuto come capo e custode della città . Di più questa actio non può più seguire arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel costume, ma deve invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa . Essa cessa perciò di essere ,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio , e viene così a cam (1) Fra gli autori, che dànno questa larga significazione così al connubium , che al commercium , accennerò il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 13 , in nota , il quale pur riconosce, che questi concetti dovettero prima aver origine nei rapporti fra le varie genti. (2 ) Quanto alle origini dell'actio nel periodo gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra lib . I, cap . VI, § 3 , pag. 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far valere le proprie ragioni davanti al ma gistrato , nella forma che è riconosciuta dal diritto quiritario . Quindi è, che anche la procedura quiritaria sembra prendere le mosse da un'azione tipica , che è l'actio sacramento, la quale può anche essa essere considerata come il nucleo centrale, da cui si verrà poi derivando non solo tutto il sistema delle legis actiones, ma in parte eziandio il sistema delle formulae. È poi quest'origine gentilizia dei concetti fondamentali del diritto quiritario, che spiega eziandio , senza bisogno di ricorrere a quello spirito formalista del popolo romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato , le cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di carattere quiritario : poichè anche queste solennità dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in quanto rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che spiega le formalità , da cui erano circondati (1). 365. Resta ora a determinarsi l'ordine progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del primitivo ius quiritium . Anche qui ci mancano le testimonianze dirette , perchè i veteres iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano divulgare il segreto dell'arte loro (2) ; ma abbiamo tuttavia una quantità di fatti, che possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima parte del diritto , che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu certamente quella relativa al commercium , e quindi viene ad esser naturale , che l'elaborazione di un ius quiritium , comune ai due ordini, inco minciasse da quegli atti, che si riferiscono al commercium . Questa circostanza verrebbe poi ad essere eziandio confermata dal fatto , che la parte di antichissima legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte relativa al com (1) Tralascio qui ogni maggior spiegazione intorno alle origini del formalismo romano, perchè ebbi già ad occuparmene al n ° 94 , pag . 117 e segg. e sopratutto nella nota 1a a pag . 118, ove si presero in esame le opinioni, in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering . ( 2) Cic., De Orat., I, 42, lagnandosi delle difficoltà , che ai suoi tempi ancora accompagnavano lo studio del diritto, dice espressamente, che una delle cause di queste difficoltà deve essere riposta nella circostanza che « veteres illi, qui buic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa , pervulgari artem suam noluerunt » . 465 mercium . Cosi pure abbiamo un'altra conferma di questo fatto nella circostanza , che, all'epoca della legislazione decemvirale, già si presentano come compiutamente formati i tre negozii giuridici attinenti al ius commercii, cioè il nexum , il mancipium ed il testa mentum ; cosicchè in questa parte viene ad essere evidente , che le leggi delle XII Tavole non fecero che confermare uno stato di cose già preesistente, e si limitarono a dire, che in questa specie di negozii, la volontà del quirite doveva essere sovrana, per modo che la sua parola costituisse legge (1). Infine un argomento indiretto di questa precedenza l'abbiamo anche in questo , che la forma dell'atto commerciale per eccellenza, che è l'atto per aes et libram , ebbe più tardi ad essere applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii, come nella coemptio, nell'adoptio e simili : il che significa , che l'atto per aes et libram già doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla concessione dei connubii fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi. Mi pare ciò stante di poter conchiudere, che la parte del ius quiritium , relativa al commercium , fu la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano appare costantemente modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il concetto espresso da Ulpiano , allorchè scrive : omne ius consistit aut in acquirendo , aut in conservando, aut in minuendo ; aut enim hoc agitur, quem admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo amittat (2); ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare del diritto romano, deve essere riposta nel fatto , che la parte del ius quiritium , relativa al commercium , fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo il nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si aggiunsero più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta . Quando si tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al connubium , si trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà , e quindi anche il diritto del marito , del padre , del padrone furono model (1) Cid non può lasciar dubbio quanto al nexum ed al mancipium , che già si presentano nelle XII Tavole come istituzioni compiutamente svolte, ed è confermato eziandio, quanto al testamentum , da ULPIANO, il quale dice espressamente, che le suc cessioni testamentarie e i tutori nominati per testamento furono confermati dalle XII Tavole. Fragm ., XI, 14 . ( 2) Ulp., L. 41, Dig . (1-4 ). G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 30 - 466 lati su quello di proprietà . Cosi pure quando si tratto di model lare le azioni, tutto si ridusse ad una questione di mio o di tuo , si trattasse di rivendicare una cosa qualsiasi, oppure la moglie od un figlio . Quindi è che la rigidezza, che a questo riguardo presenta il primitivo ius quiritium , non proviene già da una confusione, che si facesse fra i diritti di famiglia ed i diritti di proprietà , ma bensi da ciò , che essendosi nel ius quiritium modellato prima il diritto di proprietà , anche le elaborazioni posteriori ne conservarono l'im pronta . Ciò è anche provato dal fatto , che nelle fonti l'espressione di ius quiritium è sopratutto adoperata relativamente alla proprietà ed al commercio ; cosa del resto , che è facile a comprendersi, quando si consideri, che la comunanza quiritaria all'epoca serviana si formo appunto in base alla proprietà ed al censo . 366. Noi possiamo invece affermare con certezza , che fu solo assai più tardi, che il ius connubii entrò a formar parte di quella singolare costruzione giuridica, che porta il nome prima di ius qui ritium e poscia quello di ius proprium civium romanorum ; poichè fu soltanto colla legge Canuleia , che si riusci ad abolire il divieto del connubio dei patrizii colla plebe . Malgrado di ciò, si può essere certi, che, anche prima di quest'epoca , la parte più ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di accostarsi alla organizzazione della famiglia patrizia . Ciò è abbastanza dimostrato dal fatto, che i de cemviri considerarono la famiglia fondata sull'agnazione, come la famiglia propria dei quiriti , e cercarono anzi di fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per addivenire al matrimonio cum manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un anno, non interrotta per tre notti di seguito . Allorchè poi colla legge Canuleia furono leciti i connubii fra il patriziato e la plebe, era naturale, che l'atto quiritario per eccellenza venisse ad essere applicato anche in que st'argomento. Probabilmente dovette essere allora , che fra le forme del matrimonio cum manu, di cui una era la confarreatio, propria del patriziato , e l'altra l'usus, propria della plebe , venne svolgendosi. la forma del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria per ec cellenza, cioè quella per coemptionem . Intanto questo trapianto del l'organizzazione domestica, propria del patriziato, nel ius quiritium , comune ai due ordini, fece si che la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente sulla patria potestà e sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la tutela legittima fossero deferite , in base alla legislazione decemvirale, agli eredi suoi, agli agnati e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in questa parte, che l'organiz zazione gentilizia del patriziato riusci a penetrare nel diritto quiri tario ; donde la conseguenza, che il ius connubii e la conseguente organizzazione della famiglia finiscono per essere la parte dell'an tico diritto, in cui rivelasi più tenace e persistente lo spirito conser vatore dell'antico patriziato romano (1 ). 367. La parte infine del diritto primitivo , che ultima sarebbe entrata nella compagine del ius quiritium , deve ritenersi essere quella , che si riferisce alle legis actiones. Non è già, che anche in questa parte non vi fossero dei materiali preesistenti : ma, secondo l'attestazione concorde degli stessi giureconsulti, fu soltanto poste riormente alla legislazione decemvirale è in base alle parole stesse della medesima, che sarebbe stato modellato il sistema delle legis actiones. Che anzi si può affermare con certezza , che questa parte del primitivo diritto di Roma fu certamente dovuta alla elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle tradizioni patrizie , spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica giuridica , e cer tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che erasi già adottato nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi essi, che introdussero, quale azione tipica del diritto quiritario , l'actio sacramento , la quale può essere considerata come il germe di tutto lo svolgimento posteriore della procedura quiritaria : come pure furono essi, che si fecero gli iniziatori di quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla varietà infinita delle fattispecie , che si potevano presentare, la quale giunse poi a tanta eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non ignoro che l'opinione qui professata , secondo cui le legis actiones sarebbero state le ultime a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius proprium civium romanorum , sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi giureconsulti, sembra ( 1) Le affermazioni, che qui sono semplicemente enunciate, verranno poi ad essere meglio comprovate nel capo V , ove trattasi diproposito del ius connubii. È notabile, quanto al connubium , che l'espressione ad perata nelle fonti non è più quella di ius quiritium , la quale sopratutto si adopera in tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium civium romanorum . La causa di questo cambiamento sta in ciò che il connubium venne ad essere comune dopo le XII Tavole, cioè quando al concetto più circoscritto del ius quiritium già cominciava a sovrapporsi il concetto più largo di un ius civile, ossia di un ius proprium civium romanorum . 168 contraddire alla opinione oggidi molto seguita , secondo cui le actiones avrebbero avuta la precedenza su tutte le altre parti del diritto quiritario ( 1). Credo quindi opportuno di avvertire, che io pure ammetto , che in quella evoluzione lenta dei concetti giuridici, che ebbe ad avverarsi nel periodo gentilizio , il concetto che prima venne a svolgersi, fu certamente quello di actio (2 ): ma così invece più non accadde nell'elaborazione del ius quiritium . Questo infatti è già una costruzione organica e coerente, che prese le mosse dal concetto del quirite, come individualità giuridica integra e perfetta , e che in base al medesimo cominciò dapprima dal modellare la pro prietà , a lui spettante; poscia gli attribui il connubio ; da ultimo provvide anche alle azioni, che potevano tutelarlo nei suoi diritti di proprietà e famiglia : donde la conseguenza , che il ius quiritium , essendo già un'opera riflessa , accolse talvolta più tardi istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le prime (3 ). Intanto questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del ius quiritium ha ' per noi una grandissima importanza , in quanto che mantenendo nella ricostruzione l'ordine stesso , che ebbe ad essere seguito nella naturale formazione del ius quiritium , si potrà giungere a spiegare certi caratteri peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in tre capi toli , di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius connubii, e l'ultimo delle legis actiones. (1) Fra gli altri sembra attribuire questa precedenza all'actio sulle altre parti del diritto civile romano il Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del diritto privato, Torino , 1885, pag. 105 e segg . (2 ) Ho cercato altrove di spiegare questo carattere delle società primitive, che al punto di vista attuale pud apparire alquanto singolare nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880 , pag . 40 . (3 ) Per una più larga discussione intorno al modo, in cui si formarono le legis actiones, mi rimetto al cap . VI ed ultimo, § 1º, ove trattasi appunto di quest'ar gomento. - 469 CAPITOLO IV . Il ius commercii nel diritto quiritario . $ 1. Il commercium e l'atto per aes et libram . 368. Se havvi parte del ius quiritium , che sia modellata in per fetta correlazione con quella individualità giuridica , integra e com piuta, che era il quirite, è quella certamente, che si riferisce al ius commercii. In questa parte la volontà del quirite apparisce indi pendente e sovrana; la sua parola costituisce una vera legge;" e non trovasi imposto altro limite e confine al suo potere, salvo quello , che deriva dalla osservanza delle forme solenni, che sono ricono sciute ed adottate dal diritto quiritario . Il quirite infatti , quale pro prietario, può disporre delle sue cose fino ad abusarne, e può alienarle nel modo solenne proprio dei quiriti ( facere mancipium ) ; quale debitore può obbligare se stesso fino a vincolare la libertà della propria persona ( facere nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo debito, e come creditore può appropriarsi perfino la persona ed il corpo del debitore; come testatore infine può disporre in qual siasi modo del suo patrimonio , dimenticando anche di avere de' figli . Si può quindi affermare, che i tre atti fondamentali, in cui si esplica il ius commercii ex iure quiritium , sono tutti governati dal con cetto, che la volontà del quirite non deve aver limite o confine: concetto , che, quanto al nexum ed al mancipium , viene enun ciato con dire « uti lingua nuncupassit, ita ius esto » , e quanto al testamento, colle parole : « uti pater familias super familia tute lave suae rei, legassit, ita ius esto ( 1) » . E questa la parte , in cui « uti (1) Mentre nella ricostruzione del Dirksen , seguita dal Bruns, Fontes, pag. 22 e 2.3, la disposizione : « Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit , ita ius esto » sarebbe la legge 1º della Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt invece, essa viene ad essere la 1° della Tavola V. Così pure la disposizione legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto » , che nella ricostruzione del Dirksen è la terza della Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la prima della Tavola IV. Ciò dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza intorno all'ordine dei frammenti delle XII Tavole . - 470 domina sovrana la nuncupatio, e quindi si comprende come tanto nelle obbligazioni, quanto nei trasferimenti del dominio, quanto nei testamenti abbia avuto cosi larga parte lo studio delle espressioni adoperate. Queste espressioni infatti nel concetto primitivo costitui vano delle vere leggi, come lo dimostrano ancora le espressioni ado perate di lex mancipii, di lex testamenti, di lex fiduciae e simili, colle quali si comprendevano le varie clausole, che potevano essere apposte ad un trasferimento del dominio , o ad un testamento (1 ). L'unità poi, che domina tutta questa parte del primitivo ius qui ritium , viene anche ad essere provata dal fatto , che un medesimo atto tipico , che può chiamarsi l'atto quiritario per eccellenza, fini per servire quale mezzo per compiere tutti questi negozii giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente seguita , intorno all'atto tipico del diritto quiritario , sembra ritenere, che tale atto debba essere riposto nella mancipatio, argomentando dalla larga applicazione, che questa ebbe a ricevere, ogni qualvolta trattavasi di trasferire la manus, intesa nel senso di potestà giuridica sopra una cosa o sopra una persona (2 ). Parmi invece , che le poche vestigia , che a noi pervennero dall'antico diritto , conducano a ritenere, che la forma (1 ) Il vocabolo di lex , come significò la clausola di un contratto o di un testa mento, così indicò eziandio le condizioni pubblicamente prescritte per i luoghidesti nati ad uso pubblico o comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia , Caput I, pag. 240. Quanto agli altri significati del vocabolo di lex , nel primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº 228 , pag. 278. ( 2) Tra gli autori recenti, che cercarono di ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi sul concetto di manus, in quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone, e sulla mancipatio, quale mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve essere ricordato il Voigt, XII Tafeln , II, pag. 83 a 345. Anche il lavoro del dott. Longo, La mancipatio, Firenze , 1887, è un tentativo in questo senso . Questi verrebbe alla conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne, sarebbe una reliquia di un atto più antico e più solenne, il quale in origine avrebbe dovuto compiersi in calatis comitiis , e che sarebbesi applicato ad ogni acquisto e trasferi mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe le traccie nel testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis. Quest'opinione, a parer mio, non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve relativamente tardi, e si riduce in sostanza ad una semplice applicazione dell'atto per aes at libram . Quanto agli atti di diritto privato , in cui abbiamo ancora l'intervento del populus, essi non indicano già, che tutti gli atti relativi alla manus richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma debbono considerarsi come una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel pe riodo della città; come ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221, pag . 256 e segg ., discorrendo dei calata comitia , e degli atti che compievansi in essi. 471 tipica del negozio quiritario , debba essere riposto nell'atto per aes et libram ; cosicché la nexi datio , la nexi liberatio, la man cipatio, la testamenti factio debbono essere riguardate come altret tante applicazioni di quest'atto primordiale. Cid può essere dedotto anzitutto dal concetto fondamentale del primitivo ius quiritium , in cui tutto si riduceva ad una questione di mio e di tuo; donde la conseguenza, che ogni atto relativo al commercium si riduceva in sostanza a fare in modo , che una cosa di nostra diventasse altrui (quod de meo tuum fit) mediante un corrispettivo, che può consistere o nel prezzo , o nell'obbligazione solenne assunta dal de bitore, o nel corrispettivo di quella finta mancipatio familiae, in cui facevasi consistere lo stesso testamento : trapasso , che trova vasi mirabilmente espresso, mediante l'atto per aes et libram . Ed è questo concetto appunto, che risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi giureconsulti. Questi passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era un'applicazione dell'atto per aes et libram , e dapprima quasi confondevasi con esso, poichè era definito : « omne quod geritur per aes et libram » . Lo stesso è a dirsi del facere mancipium , in quanto che una parte essenziale della mancipatio, quale è descritta da Gaio , consiste senz'alcun dubbio eziandio nel l'atto per aes et libram ; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa del testamento per aes et libram , il quale si introdusse più tardi, e non fu che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram . Si aggiunga, che questi passi degli antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla significazione primitiva del nexum e del mancipium . Vi sono infatti dei giureconsulti, che nel nexum comprendono anche il mancipium , mentre altri già distinguono fra l'uno e l'altro , osservando che dal nexum deriva un obbligazione, mentre col mancipium si opera la traslazione della proprietà . Questa incertezza appare eziandio quanto al testamento per aes et libram , il quale sotto un aspetto appare come una vera vendita o mancipatio familiae, come lo dimostra l'intervento del familiae venditor e del familiae emptor ; mentre sotto un altro aspetto non è più una vendita nel vero senso della parola , ma è già un vero atto per causa di morte, poichè il familiae emtor riceve solo in deposito e in custodia il patrimonio del te statore, accið egli possa liberamente disporne « secundum legem publicam » per il tempo in cui avrà cessato di vivere (1). ( 1) Non sarà inutile riportare qui alcuni dei passi di antichi giureconsulti, che 472 Di qui pertanto si può ricavare, che nella sintesi primitiva del diritto quiritario tutto ciò, che riferivasi al commercium , compievasi per aes et libram , col quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra passo , e che solo col tempo in questa sintesi primitiva si vennero differenziando il nexum , il mancipium , il testamentum ; i quali col tempo procedettero ciascuno per la propria via , ed informati ad un proprio concetto finirono per dare origine a tre istituzioni fonda mentali. Col tempo infatti dal nexum scaturi la teoria delle obbli gazioni, dal mancipium derivò quella dell'alienazione e trasmissione del dominio e dei diritti reali inchiusi nel medesimo, e dal testa mentum si derivò tutta la teoria della libera disposizione delle proprie cose per causa di morte , la quale non potè mai confondersi ed imparentarsi colla successione legittima, poichè questa nel ius quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come sarà di mostrato a suo tempo (1 ). È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium , nella sua sintesi potente, ebbe a ravvisare uno scambio , ed una trasmissione con corrispettivo , tanto nel contratto , in quanto è fonte di obbligazioni, quanto nel trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento , mediante cui l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum , il mancipium e il testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni dell'atto per aes et libram . « Nexum Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in quo sint mancipia » . Varro, De ling. lat., 7, 5 , § 105 (AUSCHKE, Iurispr. antiiustin ., pag. 6 ); « Nexum , est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes et libram geritur , idque necti dicitur ; quo in genere sunt haec: testamenti factio, nexi datio, nexi liberatio » (Hoschke, Op. cit., pag. 96 ). Accanto a questa significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora « omne quod geritur per aes et libram » , sonvi poi altri passi, che già attribuiscono al nexum una significazione più circoscritta. Così, ad esempio : « Nexum , Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter quae mancipio dentur » , la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De ling. lat., VII , 105 , il quale aggiunge : « hoc verius esse ipsum verbum ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per libram , neque suum fit, inde nexum dictum » (Bruns, Fontes , pag. 386). Quest'ultima definizione sarebbe pur confermata da Festo, vº Nexum : « Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia, quae per nexum obligatur » (Bruns, Fontes, pag. 346). Sonvi poi eziandio dei passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata perfino colla espressione di traditio alteri nexu , quale sarebbe il seguente di Cic., Top., 5 , 28 : « Abalienatio est eius rei, quae mancipii est, aut traditio alteri nexu , aut in iure cessio » . Per altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln , I, pag. 197, nota 7 , e II, 482 e segg . (1) La successione legittima non prende le mosse dal commercium , ma dal con nubium , come sarà dimostrato nel seguente cap. V , $ 5 . - 473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e viene perciò ad essere obbligato alla continuazione dei sacra . Di qui la conseguenza , che, per ricostruire in questa parte il ius quiritium , vuolsi ricomporre anzitutto il primitivo atto per aes et libram , cercare l'epoca in cui esso penetrò nel ius quiritium , e se guire da ultimo le progressive applicazioni, che se ne vennero facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato , che nel diritto romano oc corrono le traccie di un processo , che ha del matematico , e che taluni vollero attribuire alla influenza di Pitagora , la cui filosofia, teorica e pratica ad un tempo, poggiava appunto sul numero, come espres sione dell'ordine e dell'armonia (1). Senza entrare in una simile di scussione, questo è certo , che non si può a meno di ravvisare questo carattere di matematica precisione ed esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio dei quiriti, che compare sotto la forma del l'atto per aes et libram ; poichè in esso noi vediamo comparire la persona di un pubblico pesatore , che tiene la bilancia quasi per de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere ricevuto in con traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et libram abbia avuto origine dalla necessità , in cui i contraenti erano di pesare l'aes rude, allorchè non erasi ancora introdotto l'aes signa tum : ma intanto si stenta a credere, che i veteres iuris conditores, allorchè introdussero come tipico quest'atto nel ius quiritium , e ne prolungarono la vita ben oltre l'epoca , in cui era veramente neces saria la bilancia , non abbiano ravvisato nel medesimo come una espressione ed un simbolo della esattezza e della precisione, che deveaccompagnare il negozio giuridico , e della uguaglianza, che deve mantenersi fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si riceve in contraccambio . Questo è certo , che difficilmente sareb besi potuto rinvenire un atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia , che Aristotele chiamò poi commutativa, e che era quella appunto , che doveva sovraintendere a quegli scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo di commercium (2 ). Ad ogni modo l'esistenza presso i Romani di un atto quiritario « quod geritur per aes et libram » da applicarsi in tutti gli scambii, in tutti i trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero interve ( 1) V. ZELLER , La philosophie des Grecs, trad . Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto la nota 8 , pag . 401. (2 ) Cfr. Carle, La vita del diritto, pag. 132. - 474 nire fra i quiriti, tanto negli atti tra vivi, quanto eziandio negli atti per causa di morte, non pud essere posta in dubbio (1). Vero è , che il medesimo non ci pervenne nelle sue fattezze genuine, ma soltanto nelle applicazioni diverse, che se ne fecero; ma il fatto stesso che l'atto per aes et libram compare nelle obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti dimostra, che esso in certo modo fra i quiriti compieva quella funzione, che presso di noi ha compiuto , sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi l'atto pubblico ed autentico, il quale , al pari dell'antico atto per aes et libram , con tinua in certi confini ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia del titolo esecutivo , salvo che esso sia impugnato di falso (2). Dal momento , che erasi venuto formando per la comunanza dei quiriti una forma particolare di diritto , che prese il nome di ius quiritium , era naturale che si modellasse eziandio un atto tipico, che potesse ser vire nei negozii essenzialmente quiritarii. Esso doveva essere pub blico, come tutti gli atti, che si compievano fra i quiriti ; doveva es sere fatto colla testimonianza dei quiriti stessi, in quanto che poteva mutare in qualche modo la posizione rispettiva degli uni verso degli altri nella comunanza quiritaria , donde l'intervento nel medesimo dei classici testes , corrispondano o non i medesimi alle cinque classi serviane ; doveva esser fatto coll'intervento di un pubblico ufficiale , che era il libripens, il quale poteva anche essere inca ricato di denunziare agli uffizii del censo le mutazioni, che ne derivavano alla condizione dei quiriti; alle quali solennità negli antichi tempi aggiungevasi eziandio la presenza di un antestator , incaricato in certo modo di richiamare l'attenzione delle parti e dei testimoni sulla importanza dell'atto (3). Il medesimo poi, per quanto si può inferire dalle applicazioni ( 1) Tra gli autori, che sembrano accostarsi all'idea, che l'atto per aes et libram costituisca nell'antico diritto la forma solenne per tutti i negozi relativi al com mercium , parmi di poter annoverare l'HÖLDER , Istituzioni di diritto romano, $ 28 , trad. Caporali. Torino, 1887, pag . 82. (2 ) Cod . civ. it ., art. 1317. (3) Questi varii caratteri del primitivo atto per aes et libram si possono facil mente ricostruire, ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed Ul PIANO ci serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram , quali la nexi datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per aes et libram , dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all' antestator o antestatus vedi il Longo, La mancipatio, pag. 74 e segg . 475 diverse, che ne furono fatte, ebbe ad essere costituito di due parti, cioè : lº dell'atto per aes et libram , il quale , mentre dava al negozio il carattere di pubblicità e di autenticità , poteva eziandio essere un ricordo effettivo di un'epoca, in cui l'aes rude serviva di istrumento per gli scambii e doveva perciò essere pesato colla bilancia ; 2º della nuncupatio, che era un complesso di parole solenni, accomodate alla natura dell'atto , le quali esprimevano con preci sione ed esattezza il negozio giuridico , che veniva operandosi fra i contraenti. Mentre la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi « dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » ; la seconda parte invece serviva a dargli duttilità e pieghevolezza, e a rendere possibili le applicazioni diverse, che si fecero dell'atto per aes et libram , non solo ai negozii giuridici propriamente detti, ma anche agli atti relativi all'ordinamento della famiglia (1). 371. Quanto al tempo, in cui l'atto per aes et libram può essere stato introdotto nel ius quiritium , esso non può e non potrà forse mai essere determinato con certezza , anche per il motivo che il medesimo può essere stato il frutto di una formazione lenta e gra duata. Egli è probabile tuttavia, che l'epoca, in cui esso cominciò a formarsi, dovette essere quella stessa , in cui prese ad elaborarsi un ius quiritium , comune al patriziato ed alla plebe, e quindi le sue origini possono con probabilità essere riportate all'epoca della costi tuzione serviana. Fu allora, che mediante l'istituzione del censo co minciò a delinearsi una proprietà ex iure quiritium , la quale con sisteva nel mancipium ; quindi è probabile, che anche allora siasi sentito il bisogno di una forma tipica per compiere i negozii quiri tarii. Questo è certo, che alcuni tratti dell'atto per aes et libram richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad esempio , noi sappiamo, che probabilmente in quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione nel sistema monetario , poichè presso i primitivi romani il più an tico strumento di scambio non consistette nel rame, ma nei capi di ( 1) L'esistenza di questo duplice elemento nel primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle XII Tavole: « qui nexum faciet , mancipium que, uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e appare poi dall'analisi di tutti i ne gozii, che si compiono per aes et libram , descrittici sopratutto da Gajo , Comm ., II, 104-5 e da Ulp., Fragm ., XX, 9 . - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e nei buoi, come lo dimostra la designazione delle multe, che anche più tardi si continuò a fare in questa guisa . Che se per avventura si volesse ritenere, come fino a un certo punto è probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato anche adottato per simboleggiare lo scambio, il trapasso , anche questo linguaggio simbolico corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai simboli dell'hasta , della vindicta , e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei testimonii dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi probabile, che fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la denominazione di classici testes : la quale , sebbene sia solo menzionata per i testimonii nel testamento , può ra gionevolmente essere estesa alle altre applicazioni dell'atto per aes et libram ( 1). Infine anche l'intervento di un pubblico ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla necessità , in cui si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella posizione ri spettiva dei quiriti. Comunque sia , è però sempre probabile, che anche nella formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es sere adoperato dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già preesistente, attribuendovi il carattere quiritario , e cambiandola cosi in una forma tipica, che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla ripugna pertanto , che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà nell'epoca, in cui l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece essere pesato ; ma questo è certo , che quando quest'atto compare nel ius quiritium , esso viene già ( 1) Festo, vº « Classici testes dicebantur, qui signandis testamentis adhibebantur » . La questione se questi classici testes dovessero ritenersi come rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi non potevano essere meno di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La mancipatio , pag. 83 e segg ., il quale sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare colla rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di dire , che i testimoni non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque classi serviane, ciò può facilmente essere consentito, poichè, secondo la testimonianza di GaJo, Comm ., II, 25, questi testi solevano essere amici dei contraenti e potevano perciò essere presi anche dalla stessa classe : ma intanto non vi ha motivo per ne gare, che essi fossero chiamati classici, appunto perchè dapprima dovevano essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes. Era infatti nello spirito della costituzione serviana, che nell'atto per aes et libram , con cui si attuavano le muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero intervenire dei testimonii tolti dalle classi al modo stesso , che ancora in base alle XII Tavole era stabilito : « adsiduo adsiduus vindex esto » . Tale sembra pur essere l'opinione del MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59 , il quale trova anzi non improbabile, che i non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque classi. 477 ad essere cambiato in un atto tipico , che poteva essere suscettivo di molteplici applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della mancipatio, come di una imaginaria venditio , senza neppur far cenno di un'epoca , in cui essa poteva costituire una vendita effettiva e reale (1 ). 372. Per quello poi che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et libram sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto quiritario , è opinione generalmente ammessa , che esso siasi prima applicato alla mancipatio, poscia al nexum , e più tardi al testamentum per aes et libram (2). Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda dell'atto per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano attestano , che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior mente a quella in calatis comitiis (3), ritengo invece, che sianvi dei forti indizii per credere , che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum debba essere considerata come la più antica . Un argomento di ciò l'abbiamo anzitutto nel fatto , che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi prima contro la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è solo assai tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite nere vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il facere mancipium suppone già un'epoca , in cui anche la plebe era pervenuta alla proprietà , mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà relativamente al nexum , poichè in un'epoca , in cui l'aes rude serviva come strumento di scambio , era una necessità il pesare la somma, che era data ad imprestito ; mentre invece l'applicazione (1) Egli è evidente che i giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes et libram come una forma riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam ) per compiere i negozii di carattere quiritario ; di qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di applicarle a negozii, che più non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad esempio, il matrimonio per coemptionem . (2) Tale sembra, ad esempio, essere l'opinione del Voigt, XII Tafeln , II, § 84, pag . 125 ; del MUIRHEAD, Op. cit ., pag. (3 ) GAJO , Comm ., II, 102 ; ULP., Fragm ., XX, 2 . 58 e segg . 478 dell'atto per aes et libram , non solo per eseguire il pagamento del prezzo , ma anche per operare il trasferimento della proprietà di una cosa , è già ad evidenza un espediente giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di « imaginaria venditio » . Si comprende pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il facere mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo nome « omne quod geritur per aes et libram » , mentre non consta che essi facciano mai rientrare il nexum nel concetto del facere mancipium (1). Infine si può anche aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un ius nexi mancipiique, e che le stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel famoso testo : « cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » : argomento questo, chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto , quando si consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani, sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo, facendo di solito precedere il concetto , che prima erasi formato a quello , la cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica , dal fatto cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad essere abolita , il che accadde per mezzo della lex Paetelia , nel 428 dalla fondazione di Roma; donde la conseguenza , che il nexum cadde pressochè in dimenticanza , mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario ; perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il mancipium , e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio; cosicchè tutto ciò , che compievasi per aes et libram , necti dicebatur, e quindi nel nexum veniva ad essere compreso « omne quod geritur per aes et libram » . La distinzione invece fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto Muzio Scevola, il quale dice bensi che il nexum è ancor sempre « quod per aes et libram fit » , ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in quello di obbli garla soltanto ; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad essere seguita , e fu allora che si chiamò nexum , « quod obligatur per libram , neque suum fit» . Si pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe dapprimauna significazione più larga, per cui tutto (1) V. in proposito i passi di antichi giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota 1. -- 479 ciò che compievasi « per aes et libram , necti dicebatur » , mentre più tardi fini per significare l'obbligazione assunta per aes et libram ; trasformazioni di significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i vocaboli di imperium , di manus e di mancipium , i quali tutti, mentre hanno una significazione più larga , finiscono per assumere un significato specifico più circoscritto . A queste considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge un'altra , per me più importante di tutte, ed è che nella formazione del diritto quiritario , che poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il diritto, quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come un nexum , ossia , come un vincolo , che intercede fra due quiriti . Ciò è dimostrato dal fatto , che la procedura primitiva è azione di una persona contro di un'altra, e che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la persona del debitore, e si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo (1 ). Quest'indagine intanto è per noi importante anche nel senso, che ci induce a discorrere prima del nexum , poscia della mancipatio , e da ultimo del testamentum per aes et libram . $ 2 . Il nexum e la storia primitiva della obbligazione quiritaria . 373. L'origine diquell'obbligazione quiritaria di strettissimo diritto , che contraevasi mediante il nexum , deve essere cercata in quel (1) Non parmi pertanto , che possa essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui fatti, del SumnER-MAINE , L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il nexum avrebbe prima significato il trasferimento della proprietà , e sarebbe poscia venuto a significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato il prezzo . Cid è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la consegna della cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente nella mancipatio. Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano fu compiutamente inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato e la plebe, fu quello del nexum , ossia quella rigida obbligazione, per cui il mancato pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona ; mentre solo più tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al PadELLETTI, Storia del dir . rom ., pag. 250 , dove, premesso che il con cetto del diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum . Cfr. Puglia, Studii di storia del dir. priv., pag. 73 e segg . 480 l'epoca, in cui la plebe, priva ancora di una vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non poteva trovar credito presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In virtù del nexum il debitore plebeo , che non pagava a scadenza, poteva essere sottoposto alla manus iniectio , ed essere tradotto nel carcere privato del creditore patrizio ( 1). Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria , il nexum , questa obbligazione rozza è primitiva , che era surta nei rapporti fra la classe superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi nella forma tipica della obbligazione quiritaria , ma dovette perciò sottomettersi a tutte le solennità dell'atto quiritario . Essa quindi dovette essere contratta colle formalità dell'atto per aes et libram , colla assistenza cioè di non meno di cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens e dell'antestator (2). La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci giunse invece, conservataci da Gaio , quella della nexi liberatio , la quale, essendone naturalmente il contrapposto , pud servirci per determinare, se non la formola precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella nezi datio , per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo (3 ). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero concorrere due parti, cioè : (1) Senza pretendere qui di citare la ricchissima letteratura sul nexum , ricorderò soltanto l'Huschke , Ueber das nexum , Leipzig , 1846 ; GIRAUD, Des nexi, ou de la condition des débiteurs chez les Romains, Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd ., 152 a 163. Le opinioni degli autori tuttavia sugli effetti del nexum primitivo sono ancora molto discordi. Secondo la dottrina più seguita , il nexum dava origine ad un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non soddisfatta , autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il Voigt sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun effetto speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 329. Per mio conto seguo la prima opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum , che ho cercato di spiegare più sopra ai nu meri 166-67, pag. 206 a 208, e sulla considerazione, che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della stipulatio. (2 ) Questa necessità dell'atto per aes et libram , per contrarre il nexum , probabil mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da Dionisio è attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag. 67 . (3 ) La formola della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm ., III, 174 , sa rebbe la seguente : « Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum , me eo nomine a te « solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque 481 1° l'atto per aes et libram , non minus quam quinque testes, cives romani, il libripens e forse eziandio l'antestator ; 2° e la nuncu patio, che non si sa bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi i contraenti. Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una pronunziata dal nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una specie di damnatio . Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro rispondeva damnas sum , il che implicava una specie di condanna , che il debitore pronunziava contro se stesso , al pagamento della somma (1 ). Di qui la conseguenza, che se il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di lui, come se il medesimo fosse damnatus al paga mento , e perciò poteva essere soggetto alla manus iniectio , senza che fosse richiesta una speciale condanna del magistrato . I dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum , sono quelli re lativi alla natura dell'obbligazione contratta col nexum , ed agli effetti, che derivavano da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia appariscono ancora nella legislazione decemvirale . 374. Per quello che riguarda la natura della obbligazione con tratta col nexum , alcuni antichi scrittori, non giuristi, descrivendo la trista condizione dei debitori, tradotti nel carcere privato del loro & expendo secundum legem publicam » . Essa è per noi molto preziosa : 1° perchè ci dice anzitutto, che il nexum per aes et libram importava una damnatio per parte del debitore, il che fa credere che rendesse contro di lui applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci dice appunto essere ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè essa è un argomento per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes etlibram dovevano essere risolte con un atto della medesima natura ; 3. perchè infine ci attesta , che l'atto per aes et libram era una forma di liberatio secundum legem publicam , e come tale non si applicava soltanto nei casi di obbligazioni con tratte col nexum , ma anche quando trattavasi del pagamento di una somma ex causa iudicati, o del pagamento di un legato per damnationem . Ciò conferma sempre più la congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram era in certo modo la forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue molteplici applicazioni, allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium . (1) La nuncupatio del nexum secondo il Voigt, XII Tafeln, pag. 483, si com porrebbe bensì di due parti; ma egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e spressione damnas esto e damnas sum , in conformità appunto della sua teoria , se condo cui il nexum non avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere spe ciale. Parmi che quest'ultima parte della sua ricostruzione non possa accettarsi ; poichè, così essendo, la formola della nesi datio non corrisponderebbe a quella della nexi liberatio, conservataci da Gaio, la quale è certo ciò , che noi abbiamo di più testuale in proposito. G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 31 482 creditore, ebbero a dire, che essi, dopo essere stati spogliati dei beni, avevano poi dovuto rinunziare alla propria libertà (1). Ciò fece ri tenere talvolta , che il nexum attribuisse il diritto di procedere non solo contro la persona, ma anche contro i beni del debitore. Questo concetto sembra ripugnare a quel carattere del primitivo ius qui ritium , secondo cui il medesimo, allorchè giungeva a separare due istituti, quali sarebbero quelli del nexum e del mancipium , lasciava poi che ciascuno procedesse per la propria via , informato ad una propria logica, senza che l'uno più non si confondesse coll'altro . Ora pur riconoscendo che il vocabolo di nexum , nella sua significazione primitiva , designasse in genere il vincolo giuridico , che intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche estendersi ai beni del debitore, questo è certo che non dovette più essere cosi, allorchè si operò la distinzione fra il nexum ed il mancipium , e i due con cetti cominciarono ad avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi sappiamo, che questa distinzione del nexum dal mancipium già erasi operata anteriormente all'epoca decemvirale , e che da quel momento il quirite come tale ebbe due mezzi per provvedere alle proprie necessità ; quello cioè di alienare il proprio mancipium , o quello di vincolarsi col nexum . Con quello egli poteva trasferire i beni e con questo vincolare la sua persona; ma gli effetti dell'uno non potevano più confondersi coll'altro . Fu in seguito a questa di stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal nexum , non possono mai riuscire al trasferimento della proprietà , il quale con tinuò sempre ad operarsi per mezzo della usucapione e della tradi zione, che erano sottentrate all'anticamancipatio . Parmi pertanto in questa parte di dovere seguire l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder , secondo cui il nexum costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel senso, che quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà del creditore per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio costituisce invece (1) Così, ad esempio Livio , II, 23, attribuisce queste parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe per causa della legge sui debiti: e se « aes alienum fecisse; id cumulatum usuris primo se agro paterno avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis ; postremo, velut tabes, pervenisse ad corpus » . È tuttavia evidente, che quinon si dice punto, che il creditore, in base al nexum , potesse pro cedere sai beni del debitore, ma solo che quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo patrimonio avito, e poi anche vincolare la sua persona al proprio creditore. 483 il trasferimento di una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione, che fu seguita recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono , che la primitiva obbligazione quiritaria , la cui forma tipica fu il nexum , costituisse dapprima un legame del tutto personale e fosse perfino intrasmessibile da una persona ad un'altra (1). Ho insistito sopra questo carattere esclusivamente personale del nexum primitivo ; perchè il medesimo, se nori a giustificare, può condurci in qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a cui nel diritto primitivo di Roma potè giungere il diritto del creditore contro il proprio debitore. Parmi tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali conseguenze , allorchè si tratterà della manus iniectio, ossia della procedura di esecuzione contro il debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva procedura non spiegasi soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i damnati (2 ). 375. È certo ad ogni modo, che il nexum , fra le istituzioni qui ritarie, era quella, che ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto esistere fra i membri di una stessa comunanza. Esso portava ancora le traccie della soggezione, pressochè servile , a cui un tempo era ridotta la plebe ; poichè anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che appariscono sottoposti al rigore del nexum , mentre il patrizio , anche oberato di debiti, poteva trovar sussidio presso la propria gente. Ne derivò che, durante le lotte fra i due ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del patri ziato per assicurare la sua superiorità sopra la plebe , e fu in tal modo che una istituzione di diritto privato si cambiò in un fomite di dissensioni civili. La questione della condizione dei debitori sembra già rimontare all'epoca di Sergio Tullio, il quale, se non pagd del proprio i creditori , come vorrebbe la tradizione, certo impose la solennità dell'atto per aes et libram per potersi obligare col nexum . Sotto la Repubblica poi, è a causa della legge sui debiti, che i plebei si rifiutano prima alla leva , poi abbandonano la città e si ritirano (1) HÖLDER, Istituz., trad . Caporali, pag. 225 e segg . Cfr . eziandio l' Esmein , L'intrasmissibilité première des créances et des dettes, nella « Nouvelle Revue histo rique » , 1887, pag. 48, nel quale scritto egli cerca di corroborare la stessa tesi già enunciata dal CuQ, Recherches historiques sur le testament per aes et libram pubblicato nella stessa « Nouvelle Revue », 1886, pag. 536. (2) La questione qui accennata del trattamento contro i debitori sarà trattata nel capitolo VI, § 3º, parlando della procedura esecutiva, mediante la manus iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui non ritornano , che dopo aver ottenuto la istituzione del tribunato della plebe. Anche la stessa legislazione decemvirale porta le traccie di questa contesa ; come lo dimostrano le disposizioni minute, a cui essa discende nella parte, che si rife risce al trattamento del debitore, ridotto in potestà del creditore. Malgrado di ciò , le dissensioni continuano fino alla legge Petelia del 428 di Roma, la quale non abolisce il nexum , e neppure dà diritto al creditore di procedere contro i beni del debitore, anzichè contro la sua persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il diritto di poter procedere immediatamente alla manus iniectio contro il debitore, senza che neppure occorresse l'intervento del magistrato ( ). Continuò quindi ancora a sussistere l'atto per aes et libram , qual mezzo di sottomettersi al nexum , come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio , che è ancora ricordata da Gaio ; ma intanto il nexum , sprovvisto di quegli effetti immediati contro la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di questo ingens vinculum fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad essere sosti tuito da altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel costume, ma non erano ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius quiritium . 376. Accade qui , in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga a quella , che abbiamo veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al concetto del mancipium . Al modo stesso che (1) Le espressioni di Livio , VIII, 28, sono le seguenti: « iussique consules ferre ad « populum , ne quis, nisi qui noxam meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur ; poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium « esset. Ita nexi soluti, cautumque in posterum , ne necterentur ». Di qui alcuni autori avrebbero argomentato, che da quel momento fosse stata abolita la procedura contro la persona dei debitori, e introdotta invece quella contro i beni. Cid sarebbe smentito espressamente dalla storia giuridica di Roma, dove la vera procedura fu sempre contro la persona , mentre quella contro i beni fu solo introdotta dal pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa cessio bonorum , introdotta dalla legge Giulia , fu ancora considerata come un beneficio fatto al debitore. Le parole quindi di Livio debbono essere intese nel senso, che d'allora in poi il nexum non bastò più per sè ad autorizzare il creditore a tradurre il debitore nel suo carcere privato, e che in tal modo l'obbligazione, contratta con questo mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di autorizzare senz'altro la manus iniectio ; ma produsse solo gli effetti, che sareb bero derivati da un 'obbligazione assunta mediante la semplice stipulatio. Questa fu probabilmente la causa, per cui il nexum andò gradatamente in disuso, e sottentra rono al medesimo la mutui datio e la stipulatio , come sarà dimostrato più sotto. 485 al mancipium , quale unica forma della primitiva proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo del dominium ex iure qui ritium ; così al nexum , forma primitiva dell'obbligazione quiritaria , sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio propria civium roma norum , al vincolo materiale, che stringeva il debitore al creditore sottentrò il vincolo giuridico (vinculum iuris); ma intanto i voca boli di obligatio, di solutio, di liberatio e simili rimasero ancor sempre a ricordare la rozzezza dell'antico concetto, che scorgeva nell' obbligazione un vincolo pressochè materiale , e nel pagamento ravvisava lo scioglimento di questo vincolo (solutio ). Così pure al modo stesso , che col sostituirsi al mancipium un concetto più largo del dominium ex iure quiritium , si vennero accogliendo nuovi modi di acquistare e trasmettere questo dominio ; cosi, allorchè al concetto del nexum sottentrò quello dell'obligatio , si vennero accogliendo nel ius proprium civium romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il nexum , mentre costituiva ed esprimeva efficacemente un vincolo materiale e giuridico ad un tempo, aveva eziandio questo carattere speciale, che esso teneva in certo modo del reale e del verbale, in quanto che componevasidi dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram , mediante cui avveravasi il trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna immediata della cosa ( tuum de meo fit ): e della nuncupatio , mediante cui fra creditore e debitore si conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due parti, collo scomporsi del nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di movimento , e si operò la distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e quella che con trahitur verbis , a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio l'obligatio quae contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente del nexum , che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure quiritium , sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius proprium civium romanorum , quali sono la mutui datio , la sponsio o stipulatio , e la acceptilatio : ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano, sotto il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio . Questa infatti continua a produrre un'obligatio stricti iuris ; si ap plica dapprima alla credita pecunia , e poi si estende a tutte le cose quae numero , pondere ac mensura constant: e la sua effi 486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae , oppure con segna della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu il modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato , del deposito , del pegno (1) . Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un più largo sviluppo collo scomparire del nexum , è sopratutto la sponsio o stipulatio . Questa , sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio , che già preesisteva nel nexum , salvo che essa, liberata di quella forma rigida della damnatio , che era propria del nexum , venne a trasfor marsi in una semplice sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo di una interrogazione e di una risposta , congrue e solenni, le quali, per la propria elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere la varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino romano. Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto nello svol gimento di essa , che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio l'attendere a concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula zione nei varii negozii giuridici (2 ). Anche la stipulatio divenne (1) Per ciò che si riferisce alla mutui datio, è nota la censura, che di regola suol farsi alla etimologia di mutuum data dai giureconsulti, secondo cui questo vocabolo deriverebbe da « quod de meo tuum fit » . Per conto mio, non come etimologo, ma come giurista , ritengo invece assai probabile questa etimologia , tenuto conto di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum e di tuum , e che l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano tanto più probabili, quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi tempi fu il frutto di una vera elaborazione , la quale può benissimo avere adattata la parola al concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi delle etimologie di testamentum da mentis testatio , di manci pium da manucaptum , e di altre analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per essere composte post factum , sono evidentemente foggiate per far dire alla parola cid , che è nella mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli analizza il significato della parola. Intanto il fatto stesso, che i giureconsulti cercano sempre di dare alla parola un senso, che corrisponda alla cosa significata, dimostra, che essi dovevano procedere in tal guisa, allorchè il comparire di qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare qualche nuovo vocabolo . In cid abbiamo anche una delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico di Roma potè diventare pressochè universale, come le sue leggi. (2 ) Sono molte le opinioni intorno all'origine della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la ritengono come la parte verbale del nexum , allorchè andò in disuso l'atto per aes et libram nel contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo sponsio , la ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti all'antichissima ara di Ercole ; altri infine la ritengono di origine greca , donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es., l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi ; ma il suo carattere non è più artificioso , come quello dell'atto per aes et libram , nè così rigido come quello della damnatio , propria del nexum , ma sembra essere desunto dalla natura stessa delle cose . La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso , viene colla stipulatio ad essere conchiuso , in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza sulla volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio a suo favore, di interrogare il promettente : « centum dare spondes ? » , e tocca a colui che promette di rispondergli congruamente: « spondeo » per modo che non possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà (1 ). Viene poscia nel costume una dextrarum iunctio , poichè, fra le genti primitive, la destra è l'emblema della fede, in base a cui si conclude il negozio . Forse in antico potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento , come lo indicherebbe la significazione in parte religiosa, del vocabolo di sponsio ; ma questa , quando è accolta nel diritto civile romano, sembra già aver perduto questo carattere primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica di obbligazione, ma essa non è più quella del nexum , propria del ius quiritium , e modellata probabilmente dal ius pontificium , nell'intento di serbare le tradizioni del passato ; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum , come lo dimostra il fatto , che anche quando i romani consentirono la stipulatio ai peregrini, riservarono sempre per sè la espressione primitiva : « spondes? spon deo » , la quale sembra ancora richiamare quel carattere religioso , che doveva accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio . Questo è certo ad ogni modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist, Graeco-ital. Rechtsgeschichte, pag . 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op. cit., pag. 228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi stere un modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello rappresentato dalla stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di correlativo, anche fra i popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio , pag. 47) ; ma non posso in verità persuadermi, che i Romani dovessero apprenderlo dalla Grecia , dal momento , che senz'alcun dubbio già lo conoscevano nei rapporti fra le varie genti. Essa quindi deve essere ritenuta come una di quelle istituzioni, che vivevano nelle costumanze, e che solo più tardi riuscirono ad entrare nella cerchia rigida del ius quiritium , il che probabilmente dovette accadere , quando cominciò ad andare in disuso il nexum . ( 1) Questo carattere speciale della stipulatio, per cui essa costituisce il modo più semplice ed acconcio per conchiudere le trattative di un negozio , in quanto che l'in terrogante viene ad essere colui che stipula , e il rispondente colui che promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 311. 488 contrastati sul nexum . Essa è duttile, pieghevole , come la parola umana, e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso ; è un materiale, che si adatta ad ogni specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico per conchiudere qualsiasi trattativa ; può servire per un'obbligazione principale ed anche per un'obbligazione accessoria ; sebbene unilaterale per propria natura , si può, raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una convenzione bilaterale . Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio è sopratutto atta ad esprimere i negozii stricti iuris . Ma essa, coll'aggiunta di una clau sola semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi ai negozii di buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i giureconsulti romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei contratti, in cui la giurisprudenza romana spiego una duttilità e pieghevolezza, tanto più mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai dall'esattezza e dalla precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più tardi, che vennero ad essere accolti nella compagine del diritto civile di Roma, quegli altri modi di obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti letterali. Anche a questo riguardo non può esservi dubbio , che il diritto civile di Roma non creò di pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per dir cosi, di accogliere sotto la sua tutela e di modellare, in base alla propria logica giuridica, le istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel costume. Così dovette accadere senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale, ancorchè entrata tardi nel diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la figura del primitivo capo di famiglia , il quale dir: gendo una vasta azienda e avendo sotto la sua dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il conto quotidiano del dare e dell'avere . Ciò che egli scrive nel proprio libro doveva certo far fede dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero , che era il più ovvio nelle consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe ricoli nel diritto , come quello , che fondavasi esclusivamente sulla buona fede. Fu questo il motivo, per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma, il quale cerco poi di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al nomen transcripticium una ricognizione scritta del debito , che doveva restare a mani del cre ditore (cautio , chirographum ); al qual proposito viene ad essere probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi imparentata con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di origine probabilmente g : eca , donde la cautio chirographaria , che pervenne fino a noi (1 ). 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta es sere indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi ad entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava a comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo, sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius honorarium , sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto , poichè la legislazione decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta , doveva essere accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata dalla mancipatio o dalla traditio . Di qui ne venne, che essa , come contratto stante per sè , comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale non ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere, praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati sul modello della compra e vendita (2 ). 380. Intanto si comprende, che la giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria , che era quella assunta col nexum , allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo , abbia cominciato a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera obligationum , quae ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di fronte ad una suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai contratti fu costretta a creare la figura dei quasi- con (1) Cfr. per ciò che si riferisce all'expensilatio ed all'abitudine del capo di fami glia romano di tenere il Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto romano, cap. XXI, pag. 249 e segg. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER , nella « Enciclopedia giuridica italiana » , vol. I, pag. 175 a 180 , vº acceptilatio. (2) Quanto alle origini di uno di questi contratti consensuali, cioè della societas, vedi l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico » diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti ; accanto ai contratti nominati dovette porre quelli non no minati ; accanto ai veri e proprii contratti, i patti, che non pro ducono azione, ma una semplice eccezione ; e da ultimo accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel diritto civile, quelli che avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche qui pertanto è facile lo scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel ius civile, presentisi costantemente una parte già formata e consoli data , e un'altra , che si viene foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle formazioni anteriori, senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della primitiva obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto è vero, che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto , a cui si informava l'istituzione primitiva del nexum , con cetto , che viene ad essere enunziato da Paolo con dire « obligationum « substantia non in eo consistit , ut aliquod corpus, nostrum , aut « servitutem , nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad « dandum aliquid , vel faciendum , vel praestandum » (1). Si viene cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e quella del trasferimento della proprietà , non meno radicale e pro fonda, di quella, che negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere nexum e quello del facere mancipium . È questo il motivo, per cui la genesi dei modi, coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la proprietà e i diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro istituto del diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio . $ 3. – La mancipatio e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire ildominio quiritario . 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che prese più tardi il nome di mancipatio , deve considerarsi come la forma primordiale , che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della proprietà ex iure quiritium (2). Tanto la nexi datio, ( 1) Paolo, Leg . 3 , Dig . (44 , 7). ( 2) Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura . Tra i recenti mi limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums Tradition , Iena, 1865; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30 , pag . 131 a 149 ; il Voigt, XIl Tafeln , II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere considerate come due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram , come lo dimostra il fatto , che i più antichi giureconsulti comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che si compiono per aes et libram (1). Esse vengono soltanto a differire fra di loro nella nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano accompagnare l'atto per aes et libram , e che potevano attribuire al medesimo una significazione diversa . Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere in una specie di condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma da lui tolta in imprestito ; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe ad esserci conservata da Gaio , consiste nella affermazione solenne del mancipio accipiens , che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium , per averla egli acquistata con tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc ego hominem ex iure quiritium meum esse aio , isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra ). Gaio poi non ci dice , se a questa affermazione solenne del mancipio ac cipiens corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma ad ogni modo egli è certo , che questi, essendo presente all'atto , e ricevendo quell'aes rude, con cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo , riconosceva con cið la verità dell'affermazione dell'acqui rente (2). È poi anche degno di nota nella mancipatio, che sebbene a 88 ; il Longo, La mancipatio , Firenze, 1887. Sembra essere opinione comune a questi autori, che nell'antico linguaggio in luogo di mancipatio si dicesse mancipium ; donde la conseguenza, che la espressione facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo di facere mancipationem . Noi abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium ebbe, fra le altre significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri. monio del quirite ; quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo. Quindi per noi le antiche espressioni di facere mancipium , mancipio dare, mancipio acci pere dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium , o il trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto . Di qui la conseguenza , che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr. BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, pag. 90 e 91. (1) « Nexum Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram , in quo sine mancipia » . VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel § 1° di questo capitolo, nº 369, pag. 471, nota 1. (2 ) Gaio descrive la mancipatio e le formalità, da cui era accompagnata , nei Comm ., I, SS 119 a 123 . 492 la medesima in effetto servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria , aveva perd eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo dimostra il fatto , che era l'acquirente , il quale doveva per il primo affermare la sua proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la cosa stessa ; donde anche la conseguenza, che la mancipatio richiedeva la presenza delle cose mobili, e per gli immobili era stata la sola necessità , che aveva condotto all'uso, accen nato da Gaio , secondo cui « immobilia in absentia solent manci. pari » (1). 382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe dapprima ad essere indicata coll'espressione di facere mancipium , costituisce un forte indizio, che la mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in quell'epoca stessa , in cui si formd il concetto del manci pium , e che essa sia stata introdotta quale mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento del mancipium , in quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della proprietà quiritaria , quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere consegnata e valutata nel censo. Fu l'importanza economica e politica , dal censo attribuita al mancipium , che rese necessario un atto solenne per la trasmis sione delle res mancipii contenute nel medesimo. Quindi l'origine della mancipatio deve rimontare probabilmente alla costituzione serviana, e l'introduzione di essa avere una stretta attinenza col concetto del mancipium ; il che è comprovato dal fatto, che anche i classici giureconsulti, memori dell'origine di essa , continuarono sempre a considerare la mancipatio , come un modo di alienazione del tutto proprio delle res mancipii, e sostennero perfino , che queste fossero cosi chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio (2). (1) Gaio , Comm ., I, 119. Sono da vedersi , quanto alla necessità di adprehendere manu la cosa acquistata , se mobile, i passi citati dal Voigt, op. cit., II, pag. 133, nota 10. Intanto nella necessità di questa materiale apprensione della cosa parmidi scorgere un'altra prova, che il concetto del primitivo mancipium implicava in certo modo la detenzione materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano oggetto, al modo stesso che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e il vincolo giuri dico, a cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende probabile l'etimologia di mancipium da manucaptum , come lo provano i passi citati dallo stesso Voigt, op. e loc. cit., pag. 134 , nota 12. (2 ) Cfr., quanto alle origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., pag. Sono poi Gaio, I, 120 e Ulpiano , Fragm ., XIX, 3 , i quali attestano che la manci patio era esclusivamente propria delle res mancipii. « Mancipatio, scrive quest'ultimo, propria species alienationis est rerum mancipü » . Ciò però non impedì, che, trattan 57 e segg . 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto alle cose, che costituivano il nucleo del mancipium , vi erano quelle, che non erano comprese nel medesimo, e a cui perciò non potevasi applicare il facere man cipium , così ne venne che accanto alla mancipatio dovette già essere in vigore la semplice traditio , la quale, accompagnata dal pagamento del prezzo , poté servire per il trasferimento delle cose, che non erano comprese nel mancipium . Mentre quindi la man cipatio veniva ad essere una costruzione giuridica , la cui forma zione fu determinata dal formarsi del mancipium , la traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle cose, che erano nec mancipii, e che perciò in questo primo periodo non formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium (1). 383. Questo stato di cose venne poi a subire una modificazione profonda, sotto l'influenza della legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che al concetto del mancipium , il quale restringeva di troppo il novero delle cose , che potevano essere oggetto di pro prietà quiritaria , cominciò già a sovrapporsi un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium . Da questo momento infatti le res mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo più importante delle cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria , ma questa già può estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel primitivo mancipium . Di qui ne derivo , che mentre le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo esclusivamente proprio per la trasmissione delle res mancipii, esse perd introdus sero o confermarono due altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione del dominium ex iure quiritium , di cui uno è l'in iure cessio, la quale, essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi di cose, le quali si ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in fami glia , quali erano ad esempio le pietre preziose, si potesse nella consuetudine appli carvi anche la mancipatio. V. quanto si è detto a pag . 441, nota 1. (1) Ciò è dimostrato da ULP., Fragm ., XIX, 3, e 7 ; il quale, dopo aver premesso che la mancipatio era propria delle res mancipii, soggiunge poi: « traditio aeque propria est alienatio rerum nec mancipii » ; nei quali passi è evidente, che la man cipatio e la traditio si contrappongono fra di loro, come il mancipium ed il nec mancipium . Quello cade sotto il diritto civile , e perciò deve essere alienato colle forme del diritto civile, il che pure si accenna da Festo, tº censui, allorchè scrive: « censui censendo agri proprie appellantur, qui et emi et venire iure civili pos sunt » (Bruns, Fontes, pag. 334). Che il contrapposto fra mancipatio e traditio sia stato poi la prima origine della distinzione fra i modi civili e naturali di acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad evidenza da Gaio , Comm ., II, 65 . 494 essere estesa alle res mancipii, e l'altro è l'usus auctoritas, più tardi denominata usucapio , mediante cui l'uso ed il possesso di una cosa , durato per un certo tempo, potė attribuire la proprietà quiritaria della medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad essere tre i principali mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la proprietà quiritaria , e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente proprio dei cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre la mancipatio , la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il tras ferimento del dominio , ma la medesima, essendo nata col mancipium , continua sempre ad essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii. Vero è, che in questi ultimi tempi si è dubitato , se la mancipatio non siasi più tardi applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere oggetto di proprietà quiritaria : ma questa opinione non sembra potersi accogliere, di fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali parlano sempre della manci. patio, come propria delle res mancipii (1). Ciò tuttavia non impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia acquistata una elasticità e pieghevolezza , che prima non aveva, il che spiega come essa sia durata così lungo tempo , quale mezzo di trasferimento della proprietà, ed abbia in questa parte esercitata una influenza analoga a quella esercitata dalla stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il facere mancipium , negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo diritto , che producevano l'immediata traslazione della proprietà , e non ammettevano perciò nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece introdussero il principio : « qui manci pium faciet, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » , e diedero così libertà ai contraenti di aggiungere al primitivo mancipium , sotto la forma di una nuncupatio, che faceva parte integrante del negozio, tutte le clausole e condizioni, che potessero convenire ai contraenti. Fu in questo modo, che l'antica mancipatio potè accomodarsi alla varietà dei casi e delle esigenze , e che si vennero così formolando, per opera degli stessi pontefici e giureconsulti, quelle clausole diverse , che sogliono essere indicate col vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il mancipio dans , pur alienando la cosa , potè riservarsi l'usufrutto della medesima, potè alienarla con patto di ( 1) GA10, I, 120, Ulp., Fragm ., XIX , 3. Vedi tuttavia ciò che in proposito si disse a pag. 441, nota 1. 495 - riscatto , poté restringere la propria garanzia per l'evizione, ed anche limitare l'uso della cosa venduta per parte dell'acquirente. Era pero naturale , che, per aggiungere alla mancipatio tutte queste clausole , più non poteva bastare la semplice affermazione del man cipio accipiens, che la cosa era sua ex iure quiritium ; maoccor reva eziandio, che il mancipio dans, con una congrua risposta , apponesse quelle clausole e condizioni, che potessero essere del caso , le quali, entrando a far parte integrante della stessa mancipatio , dovevano fra i contraenti avere la forza di vere leggi (1) . 385. Sopratutto , fra queste leges mancipii, viene ad essere impor tantissima quella, che suol essere indicata col vocabolo di lex fidu ciae , od anche semplicemente con quello di fiducia (2). Questa pro babilmente doveva essere nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non possedendo le vere forme giuridiche, doveva di necessità nelle proprie convenzioni lasciare una larga parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia colla legislazione decemvirale pe netrò nel ius quiritium , dove, combinandosi col rigoroso atto della mancipatio, diede origine a quella singolare istituzione della man cipatio cum fiducia , che doveva poi acquistare un così largo ( 1) Si può veder raccolta nel Voigt, op . cit., II, $ 85, pag. 146 a 166, una varietà grandissima di queste clausole o leges mancipii, raccolte da passi di antichi autori. Nel Bruns parimenti, Fontes, pag. 251 a 256, sono riportati parecchi moduli di mancipationes, che pervennero fino a noi. ( 2) Quanto alla mancipatio cum fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86 , pag. 166 a 187, ove sono raccolte le formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di mancipatio fiduciae causa , che si fa risalire al primo o secondo secolo dell' êra cristiana , riportato dal Bruns, Fontes, pag. 251. ( 3) Le ragioni, per cui le origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono già esposte al n ° 149 , pag. 184. Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli, ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come forma di pegno, non dovette essere il prodotto spontaneo delle pratiche necessità del commercio, ma una creazione artificiale , e che l'ipoteca nel suo concetto astratto è più semplice della fiducia (Le origini dell'ipoteca e l'interdetto Salviano, Livorno, 1887, pag. 1). Io credo, che se l'autore si riporti col pensiero ad una plebe ragunaticcia , in parte immigrata e priva ancora di una vera posizione di diritto, di fronte ai patrizii, fon datori della città, comprenderà facilmente come i membri di essa, per trovar cre dito presso coloro , che già vi si trovavano stabiliti, non avessero mezzo più acconcio , che quello di alienare a questi cum fiducia le cose, che loro dovevano servire di pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto una comunanza di diritto, che ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di proprietà , che mal si poteva conciliare colle condizioni di un popolo primitivo. 496 svolgimento nel diritto civile di Roma. Con essa , accanto all'ele mento strettamente giuridico, cominciò a penetrare anche la consi derazione della buona fede, in quanto che non si bado più in modo esclusivo alla osservanza delle forme esteriori del negozio giuridico, ma cominciò anche a tenersi qualche conto dell' intenzione vera ed effettiva dei contraenti. Che anzi questo elemento fiduciario fu introdotto nella formola stessa della mancipatio , cosicchè il man cipio accipiens non affermò più , la sua proprietà assoluta sulla cosa a lui alienata, ma disse invece : « hunc ego hominem fidei fi duciae causa ex iure quiritium meum esse aio » ; colla qual formola già si lasciava intendere, che, sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa perd era stata affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di fiducia ( 1). Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o con un creditore. Essa accadeva, ad esempio , con un amico nella manci patio familiae cum fiducia , che fu una delle forme più antiche di testamento , mediante cui si mancipava il proprio patrimonio ad un amico ( familiae emptor), coll'incarico di disporne nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui altri avesse cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore, allorchè a lui si mancipava la cosa , che si voleva lasciargli a titolo di pegno (2 ). È probabile che dap prima questa clausola fiduciaria non avesse efficacia giuridica , ma col tempo essa venne acquistandola. Per tal modo la mancipatio cum fiducia venne cambiandosi in un espediente giuridico , mediante cui la mancipatio non serviva più unicamente al trasferimento della proprietà ; ma serviva eziandio per costituire comodati, donazioni mortis causa, doti, e riceveva cosi applicazioni diverse, anche nei rapporti famigliari, nei quali essa si svolse , come vedremo a suo tempo, sotto la forma di coemptio fiduciaria (3). 386. Fu questo il magistero, mediante cui la mancipatio fu dal diritto civile di Roma adattata alle varie contingenze di fatto ; ma (1) Cfr. il MUIRHEAD, op . cit., pag. 140 e seg . e il Voigt, op. cit., II , pag . 172. (2) È notevole in proposito il passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23 , 24 , riportato dal Bruns, Fontes , pag. 406 , in cui egli istituisce, sulle vestigia di qualche antico au tore, una specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e l'hypotheca . Della fiducia egli scrive : « fiducia est, cum res aliqua , sumendae mutuae pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur » . (3) Quanto alle svariate applicazioni della fiducia V. Ascoli, op. cit., pag. 3 e seg . 497 siccome la sua applicazione era pur sempre circoscritta alle res mancipii, cosi, accanto alla medesima, si introdussero o si confer marono dalla legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e di trasmettere la proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa , ancorchè entrambi costituiscano un ius proprium civium romanorum . Essi sono l'in iure cessio e l'usucapio . È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di acquisto della proprietà ' quiritaria . Mentre l'in iure cessio viene talvolta nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio , perchè essa , al pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è in certo modo una rei vindicatio non con traddetta . (1) ; l'usucapio invece nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas. Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o dal cessionario , non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa , che forma oggetto di negozio , la quale si compie davanti almagistrato , e a cui sussegue l'aggiudicazione del medesimo ; la seconda invece fondasi esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra cosa , finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla . Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente legale e giuridico , in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato ;, nella usucapio in vece abbiamo un fatto , che trasformasi in diritto , ossia l'uso od il possesso , che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium , quando abbiano durato per un certo spazio di tempo . Queste considerazioni mi inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto , ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie , presso le quali tutto già facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato , l'usus auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale , avendo dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto , dovette cono scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione , che vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa (1) È lo stesso Gaio, Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis actio vocatur » . A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella brevissima di Ulp., Fragm ., XIX , 10 « In iure cedit dominus ; vindicat is , cui ceditur; addicit Praetor » . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma . 32 498 taria fu in certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due ordini; poichè da una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al magistrato , il quale era ricavato dall'ordine patrizio , e dall'altra il patriziato cominciava a riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus auctoritas, sulla quale 'soltanto fondavansi i di ritti della plebe (1). (1) Qui cade in acconcio di arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi alla espressione « usus auctoritas » , che occorre nelle XII Tavole. La legge relativa dal DIRKSEN collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle parole stesse di CICERONE, Top ., 4 : « usus auctoritas fundi biennium est ; ceterarum rerum omnium annuus est usus » . Essa invece dal Voigt, op. cit., I, pag. 110, sarebbe collocata al n . 6 , della Tavola V , e sarebbe così concepita : « usus, auctoritas biennium , cetera rum rerum annuus esto » . Di qui molte discussioni fra gli studiosi relativamente ai rapporti fra i due termini usus ed auctoritas, al qual proposito l'opinione pre valente sembra essere, che il vocabolo di usus si riferisca all'usucapione e quello di auctoritas alla garanzia del titolo , che incombe al venditore in una mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire, che tanto l'usus quanto l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno, secondo le cose di cui si tratta . Tale opinione sarebbe stata prima enunciata dal SALMASIO, De usuris, cap. 8 , pag. 215 ; Lugd., Bat. 1638 , e troverebbe seguito ancora oggidì, presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus dall'auctoritas con una virgola . A mio avviso invece sembra alquanto fuor di luogo, che si venga a discorrere di garanzia dall'evizione colà , ove tutti gli antichi autori non ci parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che l'espressione effi cacissima di « usus auctoritas » non possa essere che il contrapposto dell'altra espres sione « iuris auctoritas » , e che quindi la significazione naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come titolo, e il possesso equivarrà a proprietà , allorchè essi siano durati un biennio pei fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus, analogo a quello di possessio , non avrebbe potuto da solo indicare l'usucapione, e fu perciò , che dovette dirsi usus auctoritas, la quale espressione appunto occorre in Cic., Top ., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro Caec., 19 , sembri separare le due cose, allorchè scrive: « lex usum et auctoritatem fundi iubet esse biennium » ; ma è facile il vedere, che la dizione qui è già alterata dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur sempre una cosa sola , cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti dall'uso . Ogni dubbio poi viene ad essere tolto dal passo di Boezio , in Cic., Top ., loc. cit ., nel quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris auctoritas. Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive : « Plurima « rum autem rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, « id firma iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem ; fundi vero usucapio « biennii temporis spatio continetur. Ait Cicero : ut, quoniam ususauctoritas fundi « biennium est, sit etiam aedium . Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio « fieri sentit » (Bruns, Fontes, pag . 400). Che se altrove la legge dice a adversus hostes aeterna auctoritas esto » , gli è perchè ivi parlasi tanto della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva specificare il concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo significa la iuris auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due istituti tuttavia esercito certamente una maggiore influenza sullo svolgimento del diritto romano l'usucapio , che non l'in iure cessio . Di questa infatti dice Gaio , che la medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla mancipatio, poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi contraenti, coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori presso il magistrato (1). Di qui ne venne che , sebbene l'in iure cessio po tesse anche applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive di mancipatio . Così, ad esempio , Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec mancipii, la cessione della eredità , che consideravasi come una cosa incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto . Quanto a quest'ultimo tuttavia , egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa , riservava per sè l'usufrutto della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva conservare la proprietà , non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che mediante la in iure cessio (2). L'usucapio invece deve essere considerata come una delle istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del diritto . Essa in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da una posizione di fatto ad una posizione di diritto , per cambiare cioè la semplice usus auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa , che determinò la formazione della teoria del possesso , accanto a quella della proprietà , e che condusse la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il possesso può trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto all'usucapio del diritto qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero più volte ad accennare a questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre solo avuto occasione di parlare della durata dell'usucapio , e non mai della durata dell'obbligo di garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la ricostruzione più probabile sia la seguente: « usus auctoritas fundi biennium , ceterarum rerum annus esto » ; la quale concorda anche di più colle regole grammaticali. ( 1) Scrive infatti Garo , Comm ., II, 25 , discorrendo della iure cessio per le res mancipii : « Plerumque tamen et fere semper mancipationibus utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae agere » . (2) GAIO, II, 33 ; Ulp., Fragm ., XIX, 11 e 12 . 500 ritario, che essa, a differenza della prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi, non presentasi ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto il carattere di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di usucapio . Cid pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento all'usucapio , il quale non consiste nell'intento di punire coloro, che trascurassero di esercitare il proprio diritto , ma bensi in quello di evitare l'in certezza dei dominii : « ne rerum dominia diutius in incerto essent » . 388. Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere quiritario , cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in veri proprietarii ex iure quiritium . Quest'effetto era già stato ottenuto in grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i mancipia , proprii della plebe , in altrettante proprietà ex iure quiritium , facendoli consegnare nel censo ; ed il medesimo processo venne ad essere reso continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas , la quale in breve spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e proprio diritto . Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per far acquistare al marito la manus sulla propria moglie , e quale mezzo infine per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di un'eredità , come accade nell'usucapio pro herede (1 ). Così pure dapprima non si richiedono condizioni di sorta , perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente , che i giurisprudenti fis (1) Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto al nº 154, p . 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere giuridico ai possessi della plebe nel ter . ritorio romano era il miglior mezzo per interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD, op. cit., pag. 48, e l'Es sin , Histoire de l' usucapion nei « Mélanges d'histoire du droit » , Paris, 1886, pag. 171 a 217. Dal momento poi, che l'usus auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto diffi coltà di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della manus, ed anche all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le condizioni, che debbono concorrere in tale possesso , perchè possa dar luogo all'usucapione (1). Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia ad escludere certe cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii appartenenti alla donna, quando siano state vendute e consegnate senza il consenso del tutore (sine tutoris auctoritate) (2 ), mentre è solo più tardi, che la giurisprudenza venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal modo un mezzo, che dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una posizione di diritto , fini col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio contro il difetto inerente al titolo di acquisto , proveniente o da irregolarità dell'atto di trasferimento o da incapacità dell'ac quirente (3 ). L'usucapione poi, per sua natura, può già applicarsi cosi alle res mancipii , che alle res nec mancipii , ma non pud tuttavia applicarsi al suolo provinciale, come quello, che non poteva essere oggetto di proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia anche qui co mincia a svolgersi una istituzione del diritto delle genti , che è quella della prescrizione, la quale, salvo la durata maggiore, ha un carattere analogo a quello della usucapio nel diritto civile : come lo dimostra il fatto , che le due istituzioni finiscono col tempo per fondersi insieme, e dar cosi origine alla praescriptio longi temporis giustinianea (5 ). ( 1) Questo carattere dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein , op. cit., pag. 177, e può inferirsi dalla definizione di Ulpiano, Fragm ., XIX , 8 : « Usucapio « est dominii adeptio per continuationem possessionis anni, vel biennii » ; nella quale non occorre ancora quel carattere della iusta possessio , che compare invece nelle altre definizioni, e fra le altre in quella di Boezio riportata dal Bruns, Fontes, pag . 400. Quanto ai rapporti fra il possesso, di cui qui si parla , che sarebbe il pos sesso ad usucapionem , ed il possesso ad interdicta, che costituisce un istituto, avente un proprio scopo , e distinto da quello della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n . 357, pag. 452, nota 1. A parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos sesso ad usucapionem , e più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta. (2 ) Questa condizione speciale delle res mancipii, spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha evidentemente lo scopo di impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo nella linea agnatizia , è attestata in modo concorde da Gaio, Comm ., I, 47, 192 e II, 80, e da ULP., Fragm ., XI, 27 . (3) È naturale infatti, che l'usucapione in una società , che si forma, sia un modo di acquisto , e che in una società invece, che si è formatn , si converta in un mezzo di difesa ; e richieda così un tempo maggiore per servire quale mezzo di acquisto. Le società giovani pensano sopratutto all'acquisto ; mentre le società adulte e già for mate pensano sopratutto a conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm ., II, 46 : « item provincialia praedia usucapionem non recipiunt » . (5 ) Mainz, Cours de droit romain , I, SS 111 e 112 , pag. 745 e segg. 502 389. Intanto ,mentre accade questo svolgimento nei modi di trasfe rimento della proprietà ex iure quiritium , accanto alla medesima viene lentamente consolidandosi un'altra forma di proprietà , che prende il nome di proprietà in bonis . Questa dapprima non è che una proprietà di fatto , ma col tempo ottiene anch'essa in via indi retta e per opera del pretore una protezione di diritto, e viene così a costituire un vero dualismo nel concetto di proprietà , il che ebbe ad esprimere Gaio con dire: « postea divisionem accepit dominium , ut alius possit esse ex iure quiritium dominus, alius in bonis habere (1) » . Il primo nucleo di questa nuova forma di proprietà ebbe ad essere costituito dalle res mancipii, allorchè le medesime erano trasmesse colla semplice traditio ; ma poscia essa fini per comprendere tutte le altre cose, che per qualsiasi causa non fossero oggetto della proprietà ex iure quiritium . Che anzi il dualismo andò fino a tale per l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius honorarium , che di una stessa cosa potè accadere, che altri fosse il proprietario ex iure quiritium , mentre un altro la teneva in bonis; il che voleva dire in sostanza, che l'uno ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre l'altro ne aveva l'effettivo godimento . È tut tavia notabile , che prima della fusione delle due proprietà , quella in bonis già cominciava in certe cose ad avere la prevalenza ; come lo dimostra il fatto , che se un servo appartenesse ad una persona ex iure quiritium , e fosse stato in bonis di un altro, gli acquisti, che egli faceva, andavano a profitto di colui, del quale era in bonis (2 ). Diqui una lotta fra le due forme di proprietà , che diede occasione allo svolgersi dei modi naturali di acquisto , accanto a quelli ricono sciuti dal diritto civile ; lotta , che Gaio ebbe a riassumere scrivendo : « Ergo ex his, quae dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie nari, qualia sunt ea , quae traditione alienantur ; quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis et usucapionis ius pro prium est civium romanorum » ( 3). Così è pure questa lotta, che porge occasione allo svolgersi della publiciana in rem actio (4 ), ac canto alla rei vindicatio, della prescrizione accanto all'usucapione, ( 1) Gaio , Comm ., II, 40. ( 2) Gaio, II, 88 e UlP., Fragm ., XIX , 20. (3) Id., II, 65. Di qui infatti Gaio prende occasione di discorrere deimodi natu rali di acquisto . (4) Quanto all'actio in rem pubbliciana è da vedersi APPLETON, De l'action pub blicienne nella « Nouvelle Revuehistorique » , 1885, pag. 481-526 , e 1886, pag. 276-342. - - 503 fino a che le due proprietà finiscono per essere pareggiate fra di loro , ed allora si consegue l'effetto, che quelle caratteristiche della pro prietà quiritaria , che si erano prima applicate a quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel mancipium , poi si erano estese a tutte le cose, che erano oggetto delle proprietà ex iure quiritium , finiscono per essere estese a tutte le cose, che, per essere in com mercio, possono essere oggetto di proprietà privata . È solo allora che Giustiniano, forse non troppo consapevole dell'ufficio , che un tempo avevano compiuto le distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab irato queste distinzioni, le quali a suo giu dizio « nihil ab eniymate discrepant» e dànno solo più origine ad inutili ambiguità ed incertezze (1) . 390. Infine anche qui deve essere notato , che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà non potè mai trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso , che più tardi la giurisprudenza romana continua ad affermare che « traditionibus et usucapionibus dominia rerum , non nudis pactis, transferuntur » (2); così essa pur continua a professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro prietà, non possono invece servire per trasferire un'obbligazione da una persona ad un'altra . Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio e della in iure cessio, quali modi di trasferimento della proprietà: « obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt; nam quod mihi ab aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo, quibus res corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum ; sed opus est, ut, iubente me, tu ab eo stipuleris » (3 ). Quindi le obbligazioni, che si contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio, che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius quiritium , fra il facere mancipium ed il facere nexum , si mantenne per tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra prova della dialettica co (1) Giustin., Cod ., VII, 25 : de nudo iure quiritium tollendo; e VII, 31, $ 4 : de usucapione transformanda et de sublata differentia rerum mancipii et nec mancipii (2 ) L.20, Cod ., II , 3 (Dioclet. et Maxim .). (3 ) Gaio , Comm ., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima elaborazione del ius quiritium . Ciascun concetto di questo è come un nucleo, che viene attraendo tutto ciò , che può esservi di affine, ma il medesimo non si confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso . Chi poi volesse trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il semplice contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium ; avrebbe infatti ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente . Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram . $ 4 . La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario . 391. Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium , il testa mento è certamente quello , di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per ricostruirne la storia primitiva , e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può dubitarsi anzitutto , che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca anteriore alla fondazione della città , perchè noi sappiamo con certezza, che esso fin dagli inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti, che, al pari dell'adrogatio , della detestatio sacrorum e simili, dovevano essere compiuti coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie , riunito nei comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le genti patrizie, che concorsero alla fondazione delle città , le quali dovettero ser virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto . Si è veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia , ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e della tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto , e un proprio patrimonio (heredium ). Era quindi naturale , che essa tendesse a perpetuarsi, e che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande sventura la mancanza di un erede , che continuasse in certo modo la sua personalità , e che adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico . Fu quindi per supplire alla mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso presso le genti italiche l'adrogatio ed il testamentum : due istitu zioni, le quali , ancorchè in guisa diversa , mirano in sostanza al medesimo intento , cioè alla perpetuazione della famiglia e del suo culto . Intanto però , siccome l'una e l'altra istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia , cosi egli è certo , che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non poterono compiersi dal capo di famiglia , di sua privata autorità , ma dovettero invece essere compiuti colla approvazione degli altri capi di famiglia , che appar tenevano alla medesima gente o tribù (1). 392. Allorchè poi le due istituzioni vennero ad essere trapiantate nella città patrizia, esse conservarono dapprima il medesimo carat tere, e perciò apparirono come due negozi, i quali, avendo un carat tere pubblico, non potevano operarsi di privata autorità, ma dovevano essere compiuti nei comizii calati delle curie, convocati dai ponte fici. Che anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola dell'adro gatio, che ci fu conservata da Gellio , conviene inferirne , che anche il testamento , in questo periodo, dovette assumnere il carattere di una vera e propria legge (2 ). Intanto però egli è evidente, che questo testamento nei comizii calati delle curie dovette essere esclusivamente proprio delle genti patrizie , e che il medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al testatore un mezzo di disporre a capriccio delle proprie sostanze; ( 1) Ho già toccato dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il testamentum nel periodo gentilizio al nº 63-65, pag. 77 e segg . Cfr. in proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag . 184 e il CoQ, Recherches sur le testament per aes et libram nella « Nouvelle Revue historique » , 1886 , pag. 536. Qui solo ag. giungerò, che questa attinenza appare anche meglio nel diritto greco, e sopratutto nell'ateniese , nel quale il primitivo testamento compare sotto la forma dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales a Sparta . Paris, 1880 , pag. 96 e segg . ; e il Cocotti, La famiglia nel diritto attico . Torino, 1886, pag . 69. (2) Questo carattere pressochè pubblico dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente scomparso, come lo prova il detto di PAPINIANO , L. 4 , Dig . (28-1) : testamenti factio iuris publici est. Cfr . quanto ho scritto a n ° 221, pag. 268 e seg . 506 - ma lo scopo invece di perpetuare la famiglia ed il suo culto , e di impedire la divisione immediata del patrimonio, come lo dimostra l'antica espressione romana « ercto non cito » ; la quale ha tutti i caratteri di una primitiva clausola testamentaria . Quanto alla plebe , non avendo essa la organizzazione gentilizia , non poteva certamente possedere un simile testamento ; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo , quando rimaneva senza figliuolanza diretta , non avesse altro mezzo di disporre delle proprie cose , che quello di ri correre all'istituto della fiducia , affidando il suo patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui indicato ; modo questo di far testamento , che era una conseguenza naturale delle condizioni economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci indicherebbe come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di testamento, che a noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et libram (1 ). Di qui la conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro varsi di fronte due forme di testamento ; un testamento cioè, di origine patrizia , fatto colla formalità di una vera e propria legge, nei comizii calati delle curie , coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la famiglia ed il suo culto e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e l'altro , di origine plebea , che compievasi colle forme stesse di quel fedecommesso , che penetrò solo più tardi nel diritto civile romano, il quale non era che una applicazione della fiducia , e aveva l'unico scopo di porgere un mezzo al capo di famiglia per disporre delle proprie cose per il tempo , in cui egli avrebbe cessato di vivere. 393. Fu soltanto allorchè la plebe entro eziandio a far parte del populus, che potè svolgersi una forma di testamento , comune ai due ordini, ed è sopratutto a questo punto, che l'esposizione di Gaio ci può venire in sussidio per ricostruire la storia primitiva del testa mento civile romano (2 ). Gaio ci parla di due forme primitive di testamento , cioè: di un testamento , che compievasi in calatis comitiis, i quali si sarebbero radunati due volte all'anno per la confezione dei testamenti; e del (1) Gaio, Comm ., II, 107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe, che era una applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel fedecommesso, che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a n ° 149, pag. 184 e seg . Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 45 e seg. e p . 166 . ( 2 ) GAIO , II, 101 a 108 . 507 testamento in procinctu , che facevasi invece davanti all'esercito già preparato alla battaglia. Egli anzi sembra compiacersi nel notare, che queste due forme di testamento corrispondevano a quel carat tere civile e militare ad un tempo, che era proprio del popolo ro mano: « alterum itaque in pace et in otio faciebant, alterum in praelium exituri » ( 1); ma intanto non dice , se i comizii calati, a cui egli accenna, fossero i comizii delle curie o quelli delle centurie . Sembra tuttavia ovvio l'osservare , che Gaio qui discorre già delle due forme di testamento , comuni cosi al patriziato che alla plebe, allorché i medesimi già erano entrati a far parte dello stesso populus, e che perciò la sua distinzione non si deve riferire al popolo primitivo delle curie , ma bensì al popolo plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto si poteva dire a ragione, che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra invece costituiva un esercito . Di qui la conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di cui discorre Gaio , non è più il testamento proprio delle genti patrizie , che fa cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi un testamento , già comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii delle centurie (2 ). Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie , che dovevano radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti: mentre i comizii calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni qualvolta ne occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite, come tale, appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed è già libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte , come ebbe a dichiararlo espressamente la legge decemvirale ; così si può in durne, che il popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario , più non intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare la propria testimonianza , secondo la ( 1) GAIO , II, 101. (2 ) Gellio, XV, 27 , 1 e 2, parlando dei co:nitia calata , scrive : « eorum alia esse « curiata , alia centuriata. Curiata per lictorem curiatim calari, id est convocari ; « centuriata per cornicinem ». Egli dice poi, che in questi comizii si facevano i testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii calati curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V , 19, 6 , parla un'altra ' volta dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie , salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr . Cuq, art. cit., p . 539 . 508 formola , che poi ricompare più tardi nel testamento per aes et libram : « et vos , quirites, testimonium mihi perhibitote » . Cid è confermato eziandio dalla considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che due volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè impossibile , che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi avesse potuto essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria legge , che erano richieste nei comizii calati delle curie primitive . 394. Di qui deriva, che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava ancora nella forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle curie , nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità , in quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il testamento ,ma sol tanto ad assistere al medesimo cometestimonio . Si comprende pertanto , che la consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia , che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta posteriormente al testamento in calatis comitiis (1). Questo testamento non era in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea , salvo che esso era già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram , e ac compagnato dalla fiducia . Era quindi un testamento , che era facile a celebrarsi, ma che , al pari della fiducia iure pignoris , aveva dapprima l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il quale poteva anche abusare della fiducia , che il testatore aveva in lui riposta . Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice Gaio , di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram , e modellarono così quella forma di testamento , che penetrd con questa denominazione nel ius quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum , e che fu poi argomento di uno svolgi mento storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo testamento (1) Fra gli autori, che distinguono la primitiva mancipatio familiae cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore testamento per aes et libram , quale è descritto da Gaio , II, 102, è da vedersi il MuIRHEAD, op . cit., pag. 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc. cit., pag. 534 e segg., il quale, dopo aver discorso prima della familiae mancipatio, passa a trattare separatamente del testamento per aes et libram . 509 pertanto compare nel ius quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il mancipium , e viene ad essere una artificiosa applica zione dell'atto per aes et libram , nell'intento di porgere al quirite un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo , in cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento , secondo la definizione di Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e della nuncupatio. La prima consiste in un atto per aes et libram , compiuto, come al solito, davanti a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al libripens, in cui si addiviene ad una « ima. ginaria venditio » delle sostanze del testatore ( familiae). È però a notarsi, che,mentre nella primitiva mancipatio familiae il negozio seguiva effettivamente fra il testatore e l'erede, di cui quello era il familiae venditor e questo il familiae emptor ; nel testamento invece per aes et libram , quale appare modellato in questo secondo stadio , il familiae emptor non è più il vero erede, ma è piuttosto un depositario e custode del patrimonio, accid il testatore possa disporne « secundum legem publicam » (1 ). Cið appare dalla circostanza , che il familiae emptor, dopo aver finto di comprare il patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne dichiara perd semplice depositario , ricorrendo alla formola seguente : « familia pecuniaque tua endo mandatelam , custodelamque meam , quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam , hoc aere esto mihi empta » (2). ( 1) Trovo alquanto singolare la interpretazione che il Cuq, art. cit., pag . 565, verrebbe a dare a queste parole: « secundum legem publicam ». Egli ritiene, che tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex publica , che era andata in disuso ; mentre invece è evidente, che le parole della formola : « quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam » , mirano evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter fare il testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica . Una prova di cið l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione « secundum legem publicam » , compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui si dice : « hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem publicam » (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la significazione, che vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea interpretazione sta in ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et libram , come una modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha un'origine affatto diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo . (2) GAIO, Comm ., II, 104. Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum , novis curis auctum , Berolini, 1884; la quale presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal Dubois, dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una imaginaria venditio , della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta soltanto « dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » . La sostanza invece di questa forma di testamento consiste nella nuncupatio solenne, nella quale il testatore , in presenza dei testimoni, istituisce il proprio erede, il quale viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed indica eziandio i legati, che saranno poi a carico dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette essere compiutamente orale ; ma poscia potè essere fatta in doppia guisa , in quanto che il testa tore – o dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai testi moni, - o presentava invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie , dichiarando solennemente , che queste contenevano la sua ultima volontà : « haec ita , ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor : itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote » (1). Di qui prorenne, che già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento nun cupativo e il testamento scritto . 396. Basta questa semplice descrizione per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un concetto ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle genti patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis mirava a perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri monii: quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al quirite un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato dalla circostanza indicataci da Cicerone, che questo testamento deve considerarsi come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole : qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto ; ed è pur confermato dagli antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento, come di una va rietà ed applicazione del nexum , o meglio dell'atto per aes et libram (2 ). Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva ( 1) Gaio , loc. cit. e Ulp., Fragm ., XX, 2 a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue nettamente le due parti, di cui componesi il testamento per aes et libram , allorchè scrive al $ 9 : « In testamento, quod per aes et libram fit, duae res aguntur, fa miliae mancipatio et nuncupatio testamenti » ; e dopo viene senz'altro a parlare della nuncupatio, come di quella , che veramente importa . (2 ) Cic., De Orat., I, 57, § 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e 103, dimostra, che il testamento per aes et libram ebbe origine diversa da quello in - 511 . l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di provvedere al mantenimento del culto ; il testamento invece per aes et libram viene ad essere considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia della facoltà del quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi si attua mediante un atto di carattere esclusivamente mercantile , quale era l'atto per aes et libram , lasciando poi al ius pontificium di provvedere, quanto all'adempimento dei sacra (1). Mentre infine nel testamento primitivo la volontà del testatore era sottoposta all'approvazione del popolo ; nel testamento invece per aes et libram , la volontà del quirite appare indipendente e sovrana, e non è soggetta a qualsiasi limitazione. Dopo ciò credo di poter conchiudere con fondamento , che anche il testamento per aes et libram , quale compare nel ius quiritium , deve già essere considerato come il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica, e comeuna conseguenza logica di quel potere illimitato e senza confine, che appartiene al quirite di disporre delle proprie cose, non solo per atto tra vivi , ma anche per causa di morte . Non potrei quindi ammettere col Sumner Maine, che questa forma di testamento importasse dapprima uno spoglio immediato ed irrevocabile del testatore a favore del proprio erede : tanto più , che questa congettura è in diretta opposizione con tutte le notizie, che a noi pervennero del testamento romano , il quale appare essere stato fin dapprincipio una attestazione solenne « de eo quod quis post mortem tuam fieri vult » (2 ). calatis comitiis, poichè egli non dice già , che il medesimo sia stato surrogato a quello in calatis comitiis, ma dice invece : « accessit deinde tertium genus testamenti » . (1) Cic ., De leg., II , 19 , 47. Cfr. in proposito il Cuq, art. cit., pag . 555 , il quale pure osserva, che la mancipatio familiae, e quindi anche il testamento per aes et libram più non aveva carattere religioso, pag. 553, nota 2 . (2) È noto come il SUMNER Maine, Ancien droit, pag. 191, abbia coll'autorità del suo nome resa accetta a molti l'opinione, che il testamento per aes et libram fosse di origine plebea , e che esso importasse negli inizii una spogliazione immediata ed irre vocabile del testatore a favore dei proprii eredi. Tale opinione non può essere ac colta ; poichè il testamento per aes et libram , anzichè essere proprio della plebe, fu invece una creazione del ius quiritium , e quindi, al pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà la forma dell'atto per aes et libram . Il motivo poi, per cui esso ri vestì la forma di una mancipatio non sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato come una vendita immediata, ma bensì nella circostanza, che esso imponeva all'erede una quantità di obbligazioni, e fra le altre anche quella di provvedere alla continuazione dei sacra e al pagamento dei legati. A questo motivo si aggiunge una causa storica , ed è che il testamento per aes et libram era un rimaneggia mento della primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la quale, essendo un atto di carattere puramente fiduciario , figurava come un vero atto fra vivi. 512 397. Una volta poi che questo testamento entrò a far parte del diritto quiritario , esso ebbe a ricevere uno svolgimento storico e Ingico ad un tempo, non dissimile da quello delle altre istituzioni quiritarie , senza che mai si perdessero i caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto civile di Roma. Così, ad esempio , il testamento era stato accolto nel diritto quiri tario sotto l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual familiae venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca di Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di contesto , che è richiesta nel testamento , e la disposizione per cui quelli, che dipendono dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo ( 1). Cosi pure il testamento, nel suo concetto primitivo , aveva per iscopo di perpetuare nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale « caput et fundamen tum testamenti» ; il qual concetto continua pure a mantenersi fino alla più tarda giurisprudenza . Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era stato un negozio di carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la parola del testatore costituiva legge , e noi troviamo, che in tutto il suo svolgimento posteriore esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui giunge fino agli ultimi confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso ; come lo provano le espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi l'istituzione di erede, la diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione, e simili. Sopratutto poi questo carattere nuncupativo del testamento si fece palese nel tema dei legati, in quanto che nel diritto civile di Roma le varie specie di legato vennero ad essere determinate dalle diverse espressioni, adoperate dal testatore (2 ). Infine anche quel principio , secondo cui la volontà del testatore costituiva legge, continud a mantenersi anche più tardi; dapprima infatti si cercò con mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della diseredazione e la querela di (1) Questo carattere del primitivo testamento per aes et libram , per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor ed il familiae venditor, è chiara . mente attestato da Gaio , Comm ., II, 105 a 107 e da Ulp., Fragm ., XX, 3 a 6 . Questo carattere poi non si perdette mai completamente, ed è ancora ricordato da GIUSTINIANO , Instit., II, 10, $ 10. (2) È nota la distinzione fra i legati per vindicationem , per damnationem , sinendi modo, e per praeceptionem : in essi la volontà del testatore appare come una vera legge, e viene ad essere analizzata e studiata come la parola stessa del legislatore. V. Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm ., XXIV. 513 inofficioso testamento, di impedire che il testatore potesse abusare della libertà , a lui consentita dal primitivo diritto , e fu solo con Giustiniano che si introdusse una limitazione diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone il diritto ad una porzione legittima (1). 398. Intanto, anche nella materia testamentaria , è facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi sempre una parte , che continua ad essere in via di formazione. Quindi anche qui, accanto al testamento civile, si esplica un te stamento pretorio ; ma anche questo appare modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento pretorio più non comparisce l'atto per aes et libram , ma debbono però intervenire due nuovi testimoni, i quali si ritengono corrispondere al libripens ed al fa miliae emptor: donde la necessità di sette testimoni, che dånno au tenticità al testamento, apponendovi col testatore il proprio sigillo . Allorchè poi il testamento pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia giuridica, sopravvengono anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le quali tendono a fondere insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al testamento giustinianeo, il quale è ancor esso un coordinamento delle forme anteriori. Esso infatti , secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere costituito da un triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla presenza dei testimoni, che proviene dal diritto civile : dal numero di sette testimoni e dall'apposizione del loro sigillo , che è di origine pre toria : e infine dalla sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle costituzioni imperiali. Ciò però non toglie , che anche Giustiniano , per imitazione dell'antico , continui a ritenere il testa mento come un negozio che interviene fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica tenace, che è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa costantemente seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi, che si ven nero successivamente formando (2 ). (1) L'istituzione della legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione prima nello stesso diritto civile , poi nel diritto onorario, la quale non terminò che collo stesso Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti, a cui si appiglid il diritto , prima di venire alla fissazione di una legittima, deve appunto essere riposto in cid, che non volevasi porre una limitazione diretta alla volontà del testatore. Quanto alla storia della legittima, è a consultarsi il Boissonade, De la réserve héréditaire. Chap. IV, Paris , 1888, pag. 61–160. (2 ) Justin ., Instit., II, 10, $ S 3 e 10 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma . 33 - 514 399. A compimento di questa materia non saranno inopportune le seguenti osservazioni intorno allo svolgimento storico del testamento : 1 ° Il testamento in Roma è un atto , in cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di uomo di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il testamento civile ed il testamento militare, il quale, dopo essere cominciato colla distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed in procinctu , non solo si mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino all'epoca diGiustiniano ; 2 ° Nella storia del testamento romano si presenta questo fatto singolare, che si vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una forma di testamento analoga a quel testamento fiduciario , che era stato il testamento primitivo in uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al testamento quiritario , dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma di testamento , la quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento , che all'epoca di Au gusto. Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini per ce dere alla forza della pubblica opinione , e alla nécessità di ovviare agli abusi, a cui dava luogo l'inefficacia giuridica di un testamento , in cui tutto dipendeva dalla buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore (1). Noi abbiamo così una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono più tardi nel diritto quiritario, come proprie del diritto delle genti, già preesistevano nella comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare in quella rigida selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius quiritium . Un altro carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in cid , che nel diritto civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la successione testamentaria e la successione legittima ; ma questa singolarità potrà essere più facilmente spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso di quel ius connubii, di cui era una conseguenza la successione legittima, stata accolta dal diritto civile romano (2 ). (1) Che il fedecommesso sia sempre vissuto, se non nel diritto, almeno nelle con suetudini del popolo romano, lo dimostra il fatto, che Augusto si indusse a dargli efficacia giuridica per l'abuso , che taluni avevano fatto della fiducia in essi riposta . Appena accolto poi il fedecommesso apparve così popolare e trovò così favorevole ac coglienza, che si dovette ben presto istituire un pretore apposito ( praetor fideicom missarius). V. Justin ., Instit., II, 23 , ss 1 e 2. (2 ) Rimando l'indagine intorno alle cagioni storiche della massima « nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest , al seguente capitolo V , $ 5 ; perchè la questione non potrebbe essere risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano presso i romani la successione testamentaria e la legittima. 515 CAPITOLO V. Il ius connubii nel primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della famiglia romana . $ 1. - Sguardo generale all'argomento . 400. Più volte fu osservato dagli autori, che la famiglia romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto diversi da quelli, che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di essa . Mentre, sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla ; nella realtà invece essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano campo a svolgersi la pietà , l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre, giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa : « pater familias in domu do minium habet » ; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap pariscono comproprietarii del patrimonio paterno : « vivo quoque parente , quodammodo condomini existimantur » . Mentre infine, in base al diritto, il padre ha perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui dipendono, nel costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento profondo dei doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile costume (1 ). Di fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia quale appare nel diritto , e quale si presenta nel fatto, non è certo (1) Ho già accennato a questo contrasto , fra la configurazione giuridica della fa miglia e la realtà dei fatti, al nº 94, pag. 119. Del resto gli autori sembrano essere concordi in rilevare questa speciale caratteristica della famiglia romana. Basterà citare fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano attuale, I, &$ 54 e 55 ; il JHERING , L'esprit du droit romain , trad . Meulenaere, tomo II, SS 36 e 37 , e specialmente da pag. 190 a 214 ; il Gide , Étude sur la condition privée de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885 , cap . IV e V ; il Voigt, XII Tafeln , II, $ 92, pag. 241 a 256 ; il MUIRHEAD, Histor, introd ., pag. 24 a 34 ; il Brixi, Matrimonio e di vorzio , Bologna, 1886 , parte 1“, passim , e specialmente ai SS 21 e 22 , pag . 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano della famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER , La famiglia secondo il diritto romano , vol. 1°, Padova 1876 ; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius familiae, Bologna, 1881. ; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti ; ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione giuridica , che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben maggiore di quella , che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo , in cui trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate , proprie delle genti patrizie , e le istituzioni appena ab bozzate , proprie della plebe. Ciò è provato da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si protrasse fin dopo la legislazione decemvirale ; dalle lotte accanite, a cui diede origine l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia ; ed anche dal disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure dal culto di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose più tardi una pudicizia plebea. Così stando le cose , era anche naturale, che in questa parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente a fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia patriarcale delle genti patrizie, la quale , unificata sotto la patria potestà del padre, e stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa a perpetuare la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione religiosa , e conduceva alla comunione delle cose divine ed umane ; mentre dall'altra eravi la famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione consensuale di un uomo e di una donna , fatta palese dalla loro coabitazione, unita dai vincoli della affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo la procreazione della prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio (1) . (1) Quanto all'organizzazione domestica delle genti patrizie, vedi libro I, cap. 3', § 2º , pag. 28 a 34 ; quanto a quella della plebe, lo stesso lib . I, cap . 9 , pagina 188 e segg. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte , il più elaborato , il più coerente in tutte le sue parti , era certamente quello delle genti patrizie ; quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri fiutate a qualsiasi transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare un'assoluta prevalenza alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi, quanto all'ordinamento della famiglia, dovette cercare in qualche modo di imitare l'organizzazione delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più agevole, allorchè la plebe primitiva venne ad essere accresciuta da un largo contingente di famiglie di origine latina, la cui organizzazione doveva già essere analoga a quella propria delle genti patrizie . 402. Ne consegui pertanto , che l'ordinamento domestico , adottato dalla comunanza quiritaria , fu quello della famiglia patriarcale propria delle genti patrizie , e che anche in questa parte i veteres iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si erano attenuti nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta rono nella città quell'organizzazione domestica , che già preesisteva nel periodo gentilizio ; la isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale , in cui erasi formata , il quale serviva a temperarne la rigi dezza ; la riguardarono come organizzazione tipica della famiglia quiritaria e presero a svolgerla logicamente in tutte le sue parti. Siccome pertanto i concetti informatori della famiglia , nel periodo gentilizio, si riducevano essenzialmente all'unificazione potente della famiglia nella persona del proprio capo, ed alla tendenza della me desima a perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio ; cosi questi concetti vennero in certo modo a costituire il capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione del diritto quiritario, e spinti a tutte le conseguenze , di cui potevano essere capaci, condussero logi camente a quell'ordinamento della famiglia , che ci fu trasmesso dal diritto civile romano. Fu in questa guisa , che ogni famiglia , nel diritto primitivo di Roma, fini per costituire un gruppo di persone e di cose, ordinato sotto il potere del proprio capo , e disgiunto per modo da ogni altro gruppo, che una persona, uscendo da una famiglia , per entrare in un'altra , cessava di avere qualsiasi rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma tipica del matrimonio quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum manu ; perchè solo la conventio in manu, collocando la moglie in posizione di figlia , poteva con durre alla unificazione della famiglia nella persona del proprio capo. 518 Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia nella per sona del padre, ne derivava eziandio che il vincolo , il quale univa imembri della famiglia , non poteva più essere quello della cogna zione,ma doveva essere quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel potere spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia . Se poi tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico , appariscono unificati nel proprio capo , viene pure a conseguirne logicamente , che tutto quello , che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa, quando trattasi di persone , che appartengano ad un gruppo diverso . Così pure sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia, che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio , venga ad uscire da un gruppo per entrare in un altro , sotto il punto di vista giuri dico , cessi di esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia , in cui entra , quel posto , che le sarebbe spettato , quando fosse nata nel medesimo (1 ). 403. È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia quiritaria , la cui elaborazione già erasi cominciata nella città esclusivamente patrizia , ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente , mediante l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne ad essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in quanto che ogni cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e dovette come tale denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in certo modo il mancipium . Fu quindi sopratutto sotto l'influenza del censo serviano , che i diritti del padre sulla moglie, sui figli , sui servi vennero in certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più di qualsiasi altro , suscettivo di una vera e propria ela (1) Il concetto di quest'unità potente della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit., II, $ 72, pag. 6 e segg ., a proposito della domus fami liaque, considerata come un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico , in cui la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul concetto di proprietà , cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium , poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal connubium . Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia , e venne così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra ridursi ad una questione di mio e di tuo (1 ). Quando poi si promulgò la legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale . Essa infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo, che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel ius proprium civium romanorum , salve al cune poche modificazioni, che erano imposte dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe (2). Fu da questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una costruzione giuridica , organica e coerente in tutte le sue parti, i cui caratteri non potrebbero essere compresi, quando si di menticasse , che la medesima è un rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città , e svolto logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È certo che un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla famiglia quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto ; ma il medesimo ebbe anche il (1) Come il censo serviano abbia contribuito ad isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna famiglia , come un gruppo separato e distinto da tutte le altre , fu dimostrato nel libro III , cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°, § 1º. (2) Così, ad esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla plebe il matrimonio cum manu , fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin d'allora al matrimonio sine manu , accordando alla donna di sottrarsi al vincolo della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della coabitazione per tre notti di seguito . 520 vantaggio di isolare ciò , che havvi di giuridico nella famiglia , da ogni elemento estraneo , e di sottoporre così all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza , pressochè inumana, non produsse in realtà alcun inconveniente , poichè essa punto non impedi, che il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica ; che il iudicium de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al padre la dilapidazione del patrimonio famigliare ; che il censore, vindice della morale, punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e che infine il diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo di famiglia, al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il pericolo, che egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante conseguenza di questo svolgimento storico fu anche questa , che, siccome nell'organizzazione gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al concetto del con nubium , cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della famiglia qui ritaria sembra essere derivato da quest'unico concetto . Quel connubium infatti , che nei rapporti fra le varie genti aveva significato quella facoltà di imparentarsi , che di regola era circo scritta ai membri delle genti, che appartenevano allo stesso nomen , trasportato nel diritto quiritario , venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium , ossia nel diritto di addivenire alle iustae nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di dare così origine ad una fa miglia , organizzata ex iure quiritium , con tutte le conseguenze, che potevano derivarne (1). Quindi è, che anche la famiglia ex iure (1) Io parlo ancora qui di una famiglia ex iure quiritium : ma, a scanso di equi voci, devo far notare, che siccome l'organizzazione della famiglia romana non venne ad essere comune ai due ordini del patriziato e della plebe, che dopo la legislazione decemvirale e la legge Canaleia, così l'espressione, solitamente adoperata da Gaio e da Ulpiano relativamente al ius familiae, non è più quella di ius quiritium ,ma bensì quella di ius proprium civium romanorum ; poichè in quell'epoca il concetto del quirite già si era allargato in quello del civis romanus, e per conseguenza il ius quiritium si era in certo modo travasato nel ius proprium civium romanorum . Di qui consegue che mentre, per quello che si riferisce al ius commercü , i giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius quiritium (Gaio , II , 40), trattandosi invece della manus (Id ., I, 108 ) e della patria potestas (ID., I, 55 ), parlano invece di un ius proprium civium romanorum . 521 – quiritium , al pari del dominium ex iure quiritium , venne a costituire una famiglia privilegiata, che può giustamente chiamarsi propria civium romanorum , in quanto essa ha certi caratteri, che la contraddistinguono da ogni altra : quali sono la manus delmarito sulla moglie, la patria potestas del padre sui figli, l'agnazione, che stringe i varii membri di essa e che viene a costituire il fonda mento della tutela e della successione legittima. Del resto il concetto , che tutti i diritti di famiglia discendono in sostanza dal connubium , ha eziandio un fondamento nella realtà ; perchè è col connubio che viene a costituirsi una nuova famiglia , la quale poi si esplica nella figliuolanza : il qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone , allorchè scrive : « prima societas in coniugio, proxima in liberis ; deinde una domus, communia omnia » (1). Diqui derivò la conseguenza , che la famiglia quiritaria, pur essendo il frutto di una lunga e lenta elaborazione giuridica , fini in sostanza per modellarsi sulla realtà dei fatti, e per cogliere, per cosi esprimerci , l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi tuisce un tutto organico e coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento può appunto essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa l'organismo famigliare, cioè : lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae e negli effetti giuridici che derivano da esse ; 2 ° nel suo svolgimento , ossia nei rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne dipendono ; 3º e da ultimo nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo , scioglimento che dà occasione alla successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto delle genti patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica , che era propria soltanto di una minoranza , e che per giunta era una so pravvivenza di un periodo anteriore di convivenza sociale ; cosi, in tema di diritto famigliare, venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le istituzioni, che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario , e quelle invece, che continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto , che può scorgersi in ogni parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella lotta fra il matrimonio cum manu ( 1) Cic., De officiis, I, 17, 54. 522 e quello sine manu ; in quella fra l'agnazione e la cognazione ; e in quella fra la successione e tutela legittima e la successione e tutela testamentaria ; e più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la bonorum possessio . Sono queste lotte , che danno interesse allo svolgimento storico delle istituzioni famigliari, spiegano le modifica zioni lente e graduate che si introdussero nelle medesime, e dimo strano come anche in questa parte, alla parte del diritto già formato e consolidato , se ne contrapponga costantemente un'altra , che tro vasi in via di formazione, e che tenta di temperare il rigore delle primitive istituzioni quiritarie . § 2. – Le iustae nuptiae e la storia primitiva del matrimonio quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce al matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al risultato , che il medesimo, al pari della proprietà e del negozio giuridico , dovette incominciare da un concetto tipico , che è quello del matrimonio cum manu . Non è già che in Roma primitiva non potessero esistere altre forme più umili di matrimonio, sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius quiritium non si curò dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti quiritarii, che al matrimonio cum manu ( 1). Che anzi vi sono forti indizii per supporre, che l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario , stata riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia , fu quella accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio , la quale importava fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte (1) Questa è la conseguenza , a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel suo scritto : La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain , nei « Mélanges d'histoire du droit » , Paris 1886 , pag . 6. Una prova poi di quest'antico diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo periodo, chiamavasi materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la moglie , quae in manu 'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni di CICERONE , Top . 3 , il quale scrive : « genus est enim wor ; eius duae formae : una matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum , quae tantummodo uxores habentur » . La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII, 6 , 9 , ove dice : « matremfamilias appellatam eam solam , quae in maritimanu mancipioque erat » , e da Nonio MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes , pag. 390. Sopratutto è degno di nota , che l'espres sione di materfamilias è pur quella adoperata nella formola dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso Gellio , V , 19, 9. Cfr. in proposito KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und manus, pag . 71, e il Brini, Op. cit., pag . 37. 523 comprovato dalla circostanza , che le leggi regie, ogniqualvolta ac cennano al matrimonio , si riferiscono in modo espresso al matri monio per confarreationem . Così, per esempio , Dionisio attribuisce a Romolo di aver richiamato alla pudicizia le donne romane, rico noscendo questa sola forma di matrimonio , e parla anche di una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi stabilito , che il figlio, il quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col consenso del ge nitore, non potesse più essere venduto dal medesimo ( 1). Tutto ciò significa, che le genti patrizie , fondatrici della città , presero senz'altro le mosse da una forma di matrimonio, che pree • sisteva nel periodo gentilizio , e che il loro matrimonio continud nella città a celebrarsi con una certa solennità religiosa e patriarcale ; come lo dimostrano l'intervento del pontefice e del flamine di Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi gustano insieme il pane di farro , ed anche la presenza dei dieci testimonii, in cui si vollero ravvisare i rappresentanti delle curie , in cui dividevasi la tribù, a cui appartenevano gli sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al l'altissimo concetto, che queste genti patrizie avevano del matrimonio, il quale, oltre all'essere strettamente monogamo, importava l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione fra essi delle cose divine ed umane (divini et humani iuris comunicatio). Che anzi, a questo proposito , sembra pure essere probabile , che questa forma primitiva di matrimonio non potesse dapprima dar luogo al divortium , ma soltanto al repudium , il quale doveva essere accompagnato dalla cerimonia religiosa della diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che erano determinati dal costume e dalla legge (2). Cosi pure è a questo primitivo concetto del matrimonio presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel disprezzo per la donna che passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che questa forma di matrimonio , in (1) Dion ., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº 268 , pag . 329 e seg . ( 2) Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di Romolo, 22, in un passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, pag. 6. Una prova poi, che il matrimonio per confar reationem doveva durare tutta la vita, si rinvien lle attestazioni di Gellio , X , 15 , 23, e di Festo , vº Flammeo, dalle quali risulta , che alla moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae farreatae erano un ricordo del matrimonio primitivo, non era consentito il divorzio . Cfr. Esmein , Op. cit., pag. 17. (3) È a consultarsi in proposito il dotto lavoro del DELVECCHIO, Le seconde noeze del coniuge superstite , Firenze 1885 , pag. 12 a 15 . 524 cui apparisce quel carattere eminentemente religioso , che è proprio delle genti patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per questa il matrimonio dovette avere più un'esistenza di fatto, che una con. sacrazione di diritto , e consistere in una unione fondata sul reci proco consenso , fatta manifesta mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che con cerimonie di carattere giuridico e religioso ad un tempo . 407. Era frammezzo a queste due istituzioni, di carattere compiu tamente diverso , di cui una era forse importata dall'antico Oriente , mentre l'altra si ispirava alle tendenze spontanee dell'umana natura , che dovette formarsi un diritto comune alle due classi. Questo fu il problema, che dovette risolvere la legislazione decemvirale , e la cui difficoltà era tanto più grande, in quanto è probabile, che le classi più infime della plebe stentassero a comprendere un matri monio , come quello cum manu, che costituiva la moglie in condi zione di figlia del proprio marito. Questo potere del marito, il quale , corretto dal patriarcale costume, conduceva all'unificazione della fa miglia patrizia, poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso , allorchè fosse esteso a classi sociali, che non vi fossero preparate da una lunga educazione civile . È questa speciale condizione di cose, che spiega i singolari tem peramenti, che a questo proposito furono adottati dalla legislazione decemvirale. In questa infatti i decemviri, mentre da una parte si studiano di fornire alla plebe un facile mezzo per addivenire allo acquisto della manus, e di dar cosi carattere giuridico al proprio matrimonio , collo stabilire che basti perciò la coabitazione di un anno (usus), dall'altra si trovano nella necessità di aprire l'adito ad un matrimonio sine manu , accordando alla donna il mezzo di sottrarsi alla manus, coll'interrompere la coabitazione per tre notti di seguito (trinoctium ) (1). 408. Colla legislazione decemvirale non sembra essersi andato più oltre nella elaborazione di un diritto comune ai due ordini; poiché (1) In base all'attestazione di Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di acquisto della manus, non fu che un'applicazione della teoria dell'usucapione: la donna poi , che avesse voluto sottrarvisi , doveva ogni anno interrompere la coabitazione per tre notti di seguito. Questa parte della legge sarebbe dal Voigt, XII Tafeln , I, pag. 708, assegnata al n° 1', tav. IV , e ricostrutta nei seguenti termini: « si qua nollet in manu mariti convenire , quotannis trinoctio usum interficito » . - 525 sussisteva ancora il divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe . Quando invece il divieto fu tolto dalla legge Canuleia , si dovette sentire la necessità di introdurre un modo essenzialmente quiritario per l'acquisto della manus, che poteva essere comune al patriziato ed alla plebe. Fu allora, che si ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram , che era la forma solenne propria del negozio quiritario , e si diede cosi origine alla coemptio , quale modo di acquistare la manus (1). Non potrei quindi ammettere l'opinione, che considera la coemptio, come la forma essenzialmente plebea del matrimonio cum manu , e neppur quella , che ravvisa nella medesima una compra della moglie per parte del marito . La coemptio in Roma non fu che un'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza , che era l'atto per aes et libram , e venne cosi ad essere un espediente giuridico per esprimere l'acquisto di quel potere del marito sulla moglie, che nel ius quiritium era indicato col vocabolo generico di manus (2 ). ( 1) La questione della precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto romano per l'acquisto della manus fu assai discussa in questi ultimi tempi. Secondo il Mac LENNAN, Primitive marriage, 2me édit., 1876, pag. 71,avrebbe preceduto l'usus, poscia sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe venuta la confarreatio . Anche secondo il BERNHÖFT , Staat und Recht der römischen Konigszeit , 1882, pag. 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio : mentre invece quest'ultima, secondo il Karlowa , Formen der römischen Ehe und manus, pag. 59, avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la questione conviene bene intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di contrarre il matrimonio presso le primitive genti italiche, e in allora non ripugna, che anche presso le medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia comprata ; o si vuol invece determinare l'ordine, in cui queste varie forme penetrarono nel diritto romano, e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del primitivo diritto romano possano ancora richiamare uno stato ante riore di cose, si può però affermare con certezza, che le varie forme di matrimonio, adottate dal diritto romano, sono già il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica. Quanto all'ordine cronologico , con cui queste varie forme furono accolte, esso non potè essere che il seguente , cioè dapprima fa accolta nel ius proprium civium romanorum la confarreatio dei patres o patricii ; poscia fu riconosciuto l'usus di un anno per dar carattere giuridico alle unioni della plebe ; da ultimo, quando si comunicarono i connubii, comparve anche la coemptio, la quale fu comune ai due ordini, e come tale finì per avere la prevalenza su tutti gli altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN , Op. cit ., pag. 8 e 9 . (2) Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti autori , che la coemptio fosse di origine plebea , e che essa implicasse la compra della moglie per parte del marito . Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano, I, pag. 94 ; Voigt, XII, Tafeln , II , $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio , pag . 50 e segg . La coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram , e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto quiritario, nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario, componevasi di due parti, cioè : lº dell'atto per aes et libram , compiuto colle solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus per parte del marito ; 20 e della nuncupatio solenne , le cui parole non ci sono perve nute , ma la cui sostanza , secondo Servio e Boezio , consisteva in una reciproca interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse assumere a suo riguardo la qualità di madre di famiglia , e questa interrogava lo sposo se volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci spiega, come la coemptio , sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da Gaio come una compra fittizia della moglie per parte del marito , e sotto un altro invece colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di madre di famiglia (invicem se coemebant) ( 1). È poi probabile, che, come il vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio , cosi anche le parole solenni, che accompagnavano la coemptio , fossero una imitazione di quelle, che erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti religiosi, che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico deimodi, riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum manu, lascia abbastanza buire la manus al marito , e di attribuire carattere giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea di vendita della figlia , sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente comprata. Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pag. 65 , e sopratutto l'appendice sulla coemptio in fine al volume, nota B , pag. 441. (1) Che l'essenza della coemptio fosse per dir così simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due sposi, non è solo comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio , in Aen ., IV , 103 (Bruns, pag.402), allorchè dice : « Mulier atque vir inter se quasi coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns, pag. 370); da Isidoro, Orig., $ 24 , 26 (Bruns, pag. 407); e sopratutto da Boazio nei commenti alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice che il marito e la moglie « sese in coemendo invicem interrogabant » (BRUNS, pag. 399). Solo farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto per aes et libram « is emit mulierem , cuius in manum convenit » ; ma la cosa si comprende, quando si tenga conto che la coemptio componevasi di due parti , e quindi se nel l'atto per aes et libram doveva certo figurare come compratore il marito, che acqui stava la manus, nulla impedisce, che nella nuncupatio gli sposi apparissero uguali, e reciprocamente si interrogassero se volessero assumere rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di materfamilias, V. in senso contrario BRINI, Op. cit ., pag. 51 e segg. 527 scorgere il contributo diverso , che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio anzitutto, che la confarreatio dovette essere di origine patrizia , come lo dimostrano il suo carattere eminente mente religioso , e l'origine di essa , che rimonta ad un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza romana. Che anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia continuato ad essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie, come lo dimostra il fatto , che essa continud a sussistere anche sotto gli imperatori, sopratutto per considerazioni di carattere religioso . Noi sappiamo infatti, che i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi privilegii religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico patriziato. Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano figurare in certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi speciali di patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem era il solo, a cui potessero addivenire i flamini di Giove , di Marte e di Qui rino , i quali negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio ( 1). Per contro può affermarsi con una certa probabilità , che l'usus, ossia la coabitazione non interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la manus, non potè essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto, proprii della plebe , in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi della manus. Ciò spiega come l'usus , quanto aimatrimonii, abbia potuto produrre lo stesso effetto dell'usucapio , quanto all'acquisto della proprietà ex iure quiritium , e come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in argomenti, che pur erano cosi compiutamente diversi (2 ). Da ultimo la coemptio vuol essere considerata come il modo di contrarre il matrimonio cum manu , essenzialmente proprio dei quiriti, e come tale dovette essere introdotto , quando già erano permessi i connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa , fin dalle sue origini, dovette essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo (1) Gaio, I, 112. Nel passo già citato di Boezio, in cui egli parla delle varie forme di matrimonio, fondandosi sull'autorità di Ulpiano (Bruns, pag. 399), si dice espressamente che « confarreatio solis pontificibus conveniebat » . Cfr. Esmein, Op. cit., pag . 7, nota 1. (2) La ragione fu questa, che tanto l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus, qual mezzo per acquistare la manus, si proposero il medesimo'intento, quello cioè di cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto. 528 infatti, che la coemptio viene ad essere la forma dimatrimonio , che incontra maggior favore presso le varie classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di famiglia , essa sembra compiere quella funzione stessa, che compie la mancipatio nel trasferimento della proprietà quiritaria . Quindi al modo stesso , che accanto alla mancipatio effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio cum fiducia , così accanto alla coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie alla manus del marito, vediamo pure svolgersi quel singolare istituto della coemptio fiduciaria, la quale serve come espediente per sottrarre la donna alla tutela degli agnati, e per metterla in condizione di poter fare testamento (1). Intanto perd la coemptio dovette avere per effetto di attribuire un carattere essenzialmente civile almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere eminentemente religioso. Quindi viene ad essere probabile , che colla introduzione di essa anche il matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere suscettivo del divorzio, il che non sarebbe consentaneo col carattere religioso della confarreatio . Nella coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto di un con tratto, e perciò può essere risolta nel modo stesso , in cui ebbe ad essere acquistata, cioè mediante la remancipatio (2 ). 410. Intanto il carattere e l'origine diversa dei varii modi per contrarre il matrimonio cum manu , pud anche spiegare le sorti ( 1) GAIO, I, 114 a 116 . (2) GAIO , I, 115 e 137. Se siammette che il matrimonio primitivo per confarreatio nem non consentisse il divorzio, è un grave problema quello di spiegare, come il mede simo abbia potuto essere introdotto anche nel matrimonio cum manu , e persino essere esteso al matrimonio per confarreationem , il quale doveva però ancor sempre essere accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº diffarreatio ; Bruns, pag. 336. Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato a svolgersi nel matrimonio sine manu , e poi da questo siasi anche esteso a quello cum manu ( Cfr. Esmein , Op. cit., pag. 23 e segg.); ma non parmi probabile un'imitazione di questa natura . Piuttosto il cambiamento venne a farsi, allorchè, accanto al matrimonio religioso per confar reationem , venne a svolgersi il matrimonio civile per coemptionem . Fa in quella occasione, che al rito religioso sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il divortium , anche al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo divortium anche al matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per coemptionem , parmi che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di Gaio, . I, 137, ove, paragonando la moglie ad una figlia di famiglia , dopo aver detto che la figlia non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge quanto alla moglie : « haec autem (virum ), repudio misso, proinde compellere potest , atque si ei nun quam nupta fuisset » . 529 diyerse , che ciascuno di essi ebbe nell'ulteriore svolgimento del diritto civile romano . Noi sappiamo infatti, che l'usus, fra i modi di acquistare la manus, fu il primo a scomparire , poichè secondo Gaio « hoc ius partim legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine obliteratum est» ( 1). Esso infatti era stato un espediente per dar carattere quiritario ai matrimonii della plebe , che prima non l'avevano, e quindi si com prende che le leggi e il costume tendessero ad abolirlo, allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla introduzione della coemptio, venne ad essere più circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu quella, che ebbe a perdurare più lungamente ; provenisse ciò dalla tenacità con servatrice, che era propria delle genti patrizie, o da considerazioni di carattere religioso . Questo è certo , che Gaio parla della confar reatio , come di cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e il rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e non potevano contrarre altrimenti il proprio matrimonio . Noi sappiamo tuttavia da Tacito , che il mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo a difficoltà, per trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità di fla mini, il che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio , e che le matrone ottennero in quell'occasione dal senato , che il matri monio per confarreationem non dovesse più produrre gli effetti di un tempo , sopratutto quanto ai diritti del marito sui beni della moglie (2 ) Infine la coemptio diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum manu , e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio ; cessazione, che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume che per opera di legge , stante la prevalenza sempre maggiore, che venne acquistando il matrimonio sine manu (3 ) . ( 1) Gaio , I, 111. (2 ) GAIO , I, 36 ; Tacito, Ann. IV , 6 . (3 ) La laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio Vespillone , console nel 735 di Roma, riportata dal BRUNS , pag. 303 e seg., dimostra che verso il finire della Repubblica il matrimonio sine manu già cominciava a praticarsi anche nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio speciale di Turia per aver fatto a meno della conventio in manu , a differenza della sua sorella, e per avere, malgrado di ciò , lasciato il suo patrimonio all'amministrazione del marito , dimostra che un fatto G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 34 530 411. Un autore recente, il Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il prevalere del matrimonio sine manu , come un segno di decadenza del primitivo costume di Roma (1 ). A me parrebbe invece , che questa importantissima trasformazione dell'ordinamento giuridico della famiglia romana , debba essere considerata come una conse guenza necessaria dello svolgimento della vita cittadina, che veniva a poco a poco cancellando le vestigia dell'anteriore organizzazione patriarcale. È ovvio infatti lo scorgere, che la manus, mentre era una istituzione confacente all'organizzazione gentilizia , perchè da una parte serviva ad unificare la famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume, trapiantata invece nella città , ove le famiglie vivevano isolate le une dalle altre, poteva essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi della plebe , poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa , contro il potere dispotico del proprio marito . Fu questo il motivo, per cui i decemviri, i quali pur miravano, come si è veduto , ad estendere a tutte le classi dei cittadini l'or . ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia , si trovarono tuttavia nella necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio sine manu, dando alle donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo assentarsi dalla casa maritale per tre notti di seguito . Fu poi una conseguenza di questo provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero matrimonio ex iure quiritium , venne ad esistere di fatto un matrimonio sine manu, che non producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu . Il diritto civile non si preoccupo dapprima di questa forma più umile di matrimonio, e quindi esso si limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto , di fronte al vero matrimonio ex iure quiritium , che era il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui lo svolgersi della vita cittadina finì per rendere grave il vincolo della manus, anche per le donne, che appartenevano alle classi sociali più elevate, e fu in allora che il matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica comune, e dovette essere preso in considerazione anche dal diritto proprio dei quiriti. Tutto ciò però accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo svolgimento del matrimonio sinemanu , simile costituiva ancora a quei tempi una eccezione degna di nota nelle famiglie di condizione elevata . Cfr. De-Rossi, L'elogio funebre di Turia , negli « Studii e do cumenti di storia e diritto » . Roma, 1880 , pag. 17 . (1) BERNHöft, Op. cit., pag. 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, pag. 703. -- - -- - 531 - di fronte a quello cum manu , presenta una singolare analogia collo svolgersi della proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium . Quindi al modo stesso, che la proprietà in bonis :i venne a poco a poco modellando su quella ex iure quiritium , così anche il matrimonio sine manu venne delineandosi lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che esso fini per assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico , che ispirava il primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio cum manu . Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80 lennità dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della deductio della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la casa del padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a considerarsi come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio sinemanu si trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu , come lo dimostrano la maritalis affectio , e la perpetua vitae consuetudo , di cui parlano i giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè era già scomparsa la manus (1). 412. Cid pero non impedisce, che dalla sostituzione delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere cosi riassunti : lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però già ad avere una propria personalità giuridica , distinta da quella del marito ; 2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile , poichè, più non essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie (1) Credo che questa analogia fra il processo seguito dai Romani nello svolgere il diritto di famiglia e quello di proprietà non apparirà come puramente fantastica , quando si tenga conto della correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum manu e sine manu coi concetti del mancipium e del nec mancipium , e più tardi con quelli del dominium ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun zione, che compie la mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la coemptio, in tema dimatrimonio ; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio fidu ciae causa ; e infine la correlazione anche più singolare fra l'usus auctoritas, appli cato all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto della manus sulla moglie . 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio , nè la remancipatio , ma poté bastare il reciproco consenso del marito e della moglie ; 3° Sopratutto poi ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella posizione economica della moglie di fronte al marito. Senza affermare infatti, che l'istituto della dote sia veramente sorto col matrimonio sine manu , questo è certo, che la dote, qual concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio , non potè svolgersi che col matrimonio sine manu ; poichè un simile concorso non avrebbe potuto avverarsi di fronte a quell'unificazione potente , che veniva ad essere l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la dote, anche col matrimonio sine manu , abbia cominciato dal di ventare proprietà del marito , e siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi eredi fossero tenuti a restituirla (1). Non potrei invece ammettere, che il matrimonio sine manu debba considerarsi come una causa della decadenza della corruzione del costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine manu, quale ebbe ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale più elevato dello stesso matrimonio cum manu . In questo infatti l'unità della famiglia veniva ad essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la comunione delle cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero accordo e della con fidenza reciproca (2). Non fu quindi il matrimonio sine manu, che O per (1 ) Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine dell'istituto della dote al matrimonio sine manu , V. fra gli altri PADELLETTI, Op. cit., pagg. 172-73, e il Cogliolo , Saggi di evoluzione, pag. 33. A questo proposito conviene intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il padre di lei consegna al marito in occa sione del matrimonio , e la dote in questo senso dovette rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu , come lo dimostra l'esistenza di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln , II , pag . 486 . dote si intende invece l'istituto già svolto, per modo che essa venga ad apparire come il concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio ed attribuisca alla moglie una personalità distinta da quella del marito, e questa non potè svolgersi col ma trimonio sine manu, perchè in quello cum manu lo svolgimento dell'istituto era impedito dall'unificazione potente della famiglia e del suo patrimonio nella persona del proprio capo. Intanto ciò spiega la necessità di apposite stipulazioni, per la resti tuzione della dote, intorno alle quali è da vedersi GELLIO, IV , 3 , il quale dice, che la opportunità di esse avrebbe cominciato a sentirsi dopo il divorzio di Spurio Carvilio Ruga , seguito nel 523 dalla fondazione di Roma. (2 ) Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato : Du mariage romain et de la manus, nella « Nouvelle Revue historique » , 1887, pag. 1 a 20 specialmente pag. 17 e segg. 533 corruppe il costume, ma fu piuttosto il costume che abbassò l'altis . simo concetto del matrimonio . $ 3. — Il pater familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto, che in Roma primitiva la famiglia , sotto il punto di vista giuridico , costituisce un tutto organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il potere del proprio capo, sarà facile il comprendere come la logica quiritaria non scorgesse nella mede sima che un capo , il quale comanda, ed un complesso di persone, le quali debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias, che è l'unica personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium : dall'altra sonvi le persone, che dipendono da esso , cioè la moglie , i figli ed i servi, che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima manus, e furono perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia od anche dimancipium . Il padre è quegli, che è padrone nella casa , che figura nel censo colle persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i suoi dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria ; perciò i diritti, che a lui spet tano sulle persone componenti la famiglia , sono modellati in tutto e per tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò tuttavia non deve essere considerato come un indizio , che i romani confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose ; ma soltanto che essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia , si collocarono al punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui figli e sui servi, viene pure ad essere probabile , che questo potere sia stato indicato con un unico vocabolo , il quale con tutta verosimiglianza dovette essere quello di manus, la quale designava in genere la potestà giuridica spet tante al quirite (1). Fu poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo (1) L'autore, che ha recato incontestabilmente il maggior numero di prove per dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in genere la potestà giuridica, spettante al capo di famiglia, è certamente il Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80. Cid però non toglie che il vocabolo di manus, pur indicando in senso largo la potestà spettante anche sulle cose, designasse in modo più specifico il potere sulle persone , e fosse così pres sochè un sinonimo di potestas. 534 concetto sintetico e comprensivo cominciò ad apparire una prima distinzione, per cui mentre il vocabolo di manus, pur conservando in qualche caso la sua significazione generica, fini per indicare più specialmente il potere del marito sulla moglie , quello invece di po testas indico di preferenza il potere del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a distinguersi in patria ed in dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium , esso non scomparve, ma fini per restringersi ad indicare il complesso delle cose spettanti al capo di famiglia , e qualche volta servi ad indicare il complesso dei servi. Infine , siccome anche le persone libere potevano essere date a mancipio , ed essere poste così transitoriamente in condizione di servitù ; cosi dovette pure aggiungersi la categoria giuridica delle persone « quae in mancipii causa sunt » e che come tali « servo rum loco habentur » ( 1). 414. Allorchè poi questi aspetti diversi di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli altri , ciascuno potè obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi uno svolgimento storico compiutamente diverso . Di questi poteri, quello , che per il primo ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita cittadina, fu la manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città , ove non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la conventio in manu , dopo essere stata la regola , sia divenuta l'eccezione, finchè fini per cadere com piutamente in disuso . Con ciò non deve già intendersi, che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo che la moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia , ma (1) Secondo Gaio, I , 52 e 55 , il vocabolo di potestas comprenderebbe tanto il potere sui servi, quanto quello sui figli; quello di manus, invece il potere del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando esso viene poi a parlare delle personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg., comincia dal premettere, che anche i figli e la moglie mancipari possunt nel modo stesso, in cui lo possono i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo di mancipium ,nella sua significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le persone soggette alla potestà del padre. Quanto alle persone , quae in causa mancipii sunt, vedi lo stesso Gaio, I, 138 e segg. 535 acquistò una certa indipendenza dal proprio marito, sopratutto sotto l'aspetto economico (1) . 415. Così invece non accadde della patria potestas . Questa non ha più bisogno di essere volontariamente accettata , come la manus, ma deve invece essere necessariamente subita , e sotto un certo aspetto può anche apparire come una conseguenza del fatto della nascita . Mancò quindi il principale motivo, che contribuì alla abo lizione della manus del marito sulla moglie : donde la conseguenza , che la patria potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue fattezze primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria ebbe campo a spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista giuridico si appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud vendere ed anche uccidere i proprii figli ; può rivendicarli, se gli siano sottratti ; può dargli a mancipio , se abbiano recato un danno, che egli non voglia risarcire . È però a notarsi, che anche in questa parte la costruzione giuridica non risponde sempre alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli si ritengono compro prietarii del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere, a cui il costume reca gli opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di aspirare e di giungere agli onori e alle magistrature della città (2). Anche qui fu il corrompersi dei costumi, che fece sentire il peri colo di un potere illimitato e senza confine, e fu allora, che il di ritto civile romano , pur serbando integro il concetto della patria potestà , venne attribuendo forma e carattere giuridico a quei tem peramenti della medesima, che prima esistevano soltanto nel costume. Fu in questa guisa , che il diritto romano, senza derogare alla supe riorità del padre, fini per riconoscere una certa personalità giuridica anche al figlio, il quale venne così ad avere un proprio caput, e un proprio status nel seno della famiglia , ed introdusse eziandio dei temperamenti, sia quanto alla durata , che quanto agli effetti della patria potestà . 418. Noi troviamo infatti, che, mentre la patria potestà continud a durare per tutta la vita , venne formandosi l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad una singolare trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di vendere il proprio figlio , viene a (1) V. in proposito il precedente $ nella parte relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu , nn. 411 e 412 , pag . 530 e segg . (2 ) Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94 . 536 convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà . Anche qui abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et libram , salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole, per l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre, trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio (1). Ed è notabile eziandio , che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una libertà ed indipendenza , che prima non aveva, continua pur sempre ad essere considerata come una capitis diminutio ; poichè sotto il punto di vista giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo si spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge alla morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti (2 ). Cosi pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre , si viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei peculii. Non può infatti esservi dubbio , che i peculii già dovevano preesistere nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium , che era quel piccolo patrimonio, di cui il ( 1) Gaio , I, 135. Si è molto disputato circa la ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono richieste per l'emancipazione del figlio . Alcuni vogliono scorgere in ciò un indizio del più forte vincolo , con cui il figlio intendevasi congiunto al proprio padre. PADELLETTI, Op. cit., pag . 86. A parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa triplice mancipazione richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132, una conseguenza della letterale interpretazione data alla legge delle XII Tavole, secondo cui « si pater ter filium venum duit, filius a patre liber esto » . Per tal modo una disposizione, che era evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare della persona del suo figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in un mezzo per emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la lettera di questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote, potè bastare una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le singolarità di questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga conto della lette rale osservanza della legge, che era un carattere della primitiva iuris interpretatio . Questa interpretazione del resto trova un appoggio in Dionisio , II, 27. (2) Vedi quanto all'emancipatio, in quanto costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, pag . 424, nota 4. Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit ., II, $ 73, presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi all'argomento, pag. 27 e 28 , note 12, 13 , 14 . 537 padre concedeva una separata amministrazione al figlio ;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi e gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento , poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri, da lui fatti in guerra , quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali ( peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia graduazione per determinare a queste proposito i diritti , che appartenevano al padre ed al figlio (1 ). Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la patria potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an tica organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se ad operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle istituzioni degli altri popoli. 417. L'importanza di questa unificazione della famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente, quando trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in qualche modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio , con cui si viene a sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice adoptio , con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una persona, viene ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione della famiglia patriarcale, nella quale ( 1) L'antichità del peculium è dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a pecudibus). Del resto è facile a comprendersi, che lo stesso accentramento della famiglia nel proprio capo rendeva indispensabile la concessione di un certo peculio, così ai figli che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non creò già l'istituzione ; ma la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima configurazione giuridica . Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse forme di peculia , cfr. MUIRHEAD , Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI , Storia del dir. rom ., ediz . Cogliolo, pag. 187, nota 4 ; il SERAFINI, Istituzioni di diritto romano, $ 169. Sono poi degne di nota , quanto all'istituzione dei peculii, le osservazioni del SumnER MAINE , L'ancien droit, pag. 134. 538 si proponevano l'intento importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto . Quella perd fra esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista gentilizio, era certamente l'adrogatio , come quella che sopprimeva in certo modo una famiglia ed il suo culto , per rendere possibile la perpetuazione di un'altra (1). Essa quindi, nella comunanza gentilizia , dovette probabilmente essere compiuta coll'approvazione dei capi di famiglia , o degli anziani del villaggio ; donde la conseguenza , che quando fu poi trasportata nella città , essa fu uno di quegli atti solenni, che, al pari del testamento , dovevano es sere compiuti in calatis comitiis , coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano vegliare al mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme di una vera e propria legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era ancora soggetta alla patria potestà , suppo neva da una parte la rinunzia del padre al proprio potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio , applicando al solito l'atto per aes et libram , e dall'altra la sottomissione del figlio alla patria po testà dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato , me diante quella finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure cessio . 418. Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di istituzioni di origine esclusivamente patrizia , perchè era sopratutto nella famiglia patrizia, che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se stessa ed il proprio culto, cosi lo svolgimento storico di queste istituzioninon ritiene le traccie di un contributo diretto , che possa avervi recato la plebe. Le forme infatti , che le accompagnano, o sono di origine patrizia, come quella relativa all'adrogatio, o sono invece una elaborazione giuridica del diritto quiritario, comequelle che circondano l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo di adozione, che possa essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche l'arrogazione e l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune a tutti gli ordini sociali ; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono sempre più il loro carattere gentilizio , finchè finiscono per informarsi ad un con cetto ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces (1) Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente espresso da PAPIN., Leg . 11, § 2 , Dig . (37-11): « dando se in arrogando testator cum capite fortunas quoque suas in familiam et domum alienam transfert » . Quanto alle origini dell'adrogatio nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25 , pag. 31. Le differenze poi fra l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza da Gellio , V , 19. 539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto ; ma si limitano allo scopo di procurare le gioie della figliuolanza a coloro che siano privi della medesima, per guisa che in contrad dizione col diritto primitivo, anche le donne poterono adottare ed essere adottate. Così pure queste istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto una persona dalla sua famiglia, per trasportarla in un'altra, finirono per modificarsi in guisa da contemperare i diritti della famiglia naturale con quelli della famiglia adottiva (1). 419. Rimane ora a dire brevemente del potere del padre di fa miglia sui servi. Anche qui non pud esservi dubbio, che la servitù rimonta al periodo gentilizio , e che essa non dovette essere propria delle genti italiche, ma comune a tutte le genti; come lo dimostra il fatto , che i Romani non riguardarono mai la servitù come istitu zione loro propria , ma comeuna istituzione del diritto delle genti (2 ). La medesima sotto un certo aspetto era un compimento necessario della famiglia patriarcale: perchè senza di essa questa non avrebbe potuto costituire un gruppo , che potesse bastare a se stesso . È quindi naturale, che quando il capo di famiglia entrò a parte cipare alla comunanza quiritaria , esso comparisse nella medesima non solo colla moglie e colla figliuolanza , ma anche coi servi, i quali vennero ad essere compresi nel suo mancipium , e costituirono così una parte integrante della famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi diventarono in Roma gli strumenti intelligenti del cittadino romano, il quale potè valersi di essi per esercitare qualsiasi ne gozio o commercio , senza derogare alla sua dignità , ed anche per evitare ai proprii figli l'ignominia di una eredità passiva , chia mandoli anche loro malgrado a succedergli, in qualità di heredes necessarii (4). Si comprende quindi, che al punto di vista giuri dico i servi fossero considerati come cose, anzichè come persone, e che il potere del padrone sopra di essi apparisse illimitato e senza confine. Tuttavia , anche qui la famigliarità dei rapporti fra il pa drone ed i servi, l'intimità di vita , che eravi talora tra i figliuoli (1) Quanto all'ultimo stadio del diritto civile romano nello svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit. II, XI. (2 ) Fra gli altri Gaio, I , 52 , dichiara espressamente, che la potestas sui servi iuris gentium est. (3 ) Come i servi costituissero una parte integrante della famiglia risulta ad evi. denza dai passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln , II, pag . 12 e segg., e note relative. (4 ) GAIO, II, 152 ; ULP., Fragm . XXII, 11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli altri, l'abnegazione frequente dei servi per il loro padrone, e la necessità stessa, in cui fu la legge di porre dei limiti alla facoltà di manomettere i proprii servi, sono circo stanze che dimostrano, come anche la condizione effettiva dei servi, sopratutto nei primi tempi di Roma, non corrisponda in ogni parte alla severità, con cui essa ebbe ad essere governata sotto l'aspetto giuridico (1). 420. In ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio, che la condizione dei servi ebbe a subire ancor essa una trasformazione profonda nel pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta . Giuridicamente parlando , il potere del padrone appare forse più rigido nella città, che non nel periodo gentilizio ; ma in essa il servo ha il vantaggio di poter essere fatto libero , e di essere così elevato alla dignità di cittadino. Mentre dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa necessità delle cose , cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui apparteneva, e quindi col cessare di esser servo doveva trasformarsi in cliente : nella città invece, sopratutto dopo Servio Tullio , a cui si attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai servi affrancati, il servo manomesso venne ad essere sotto la protezione della pubblica autorità , e potè colla libertà acquistare anche la cittadinanza. Colla manomissione pertanto viene a verifi carsi la più profonda trasformazione nello stato giuridico , di cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con essa il servo , che era considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una persona, e colui, che non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia , viene ad acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie dell'antico stato di cose nella istituzione del patronato , la quale deve perciò essere considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia. Malgrado di ciò , questa impor tantissima trasformazione nello stato di una persona viene dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite, il quale può manomettere i proprii servi vindicta , censu , testamento , ed ha cosi potestà di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani. (1) Nota giustamente l'HÖLDER , Istituz., $ 42, pag. 117, che il servo, ancorchè sia considerato come una cosa , non perde però la sua qualità d'uomo, poichè gli si ri conoscono le facoltà , che lo distinguevano come uomo, prima dell'altrui dominio. È questo il motivo , per cui il potere sullo schiavo chiamavasi potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti erano stati validi, come se fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche qui fu solo più tardi, che l'esercizio illimitato di questa po testà privata sembrò essere in conflitto colle esigenze del pubblico interesse , e allora, mentre da una parte si cercd di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità dei liberti, dall'altra si cerco di met tere dei confini alla manomissione dei servi, il che si ottenne in parte coll'introdurre gradazioni diverse nella libertà , che era accor data ai servi (1). Fu in questa guisa , che al concetto di un'unica libertà i giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia Norbana, sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e dei dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore , secondo che essa lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana : « pessima itaque, conchiude Gaio , eorum libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut senatus consulto , aut con stitutione principali aditus illis ad civitatem romanam datur » (2 ). 421. Da ultimo anche le persone libere, quae in causa mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come lo prova questa notevole proposizione di Gaio: « admonendi sumus, adversus eos, quos in mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere ; alioquin iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines , sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa mancipentur » (3 ). Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la rigidezza, con cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante al capo di famiglia , trova la sua causa in ciò , che i Romani, anche in ( 1) È notabile a questo riguardo, che il più antico diritto di Roma, come lasciava al cittadino piena libertà dimanomettere i propri servi, così, in omaggio sempre alla libertà del testatore,non aveva tutelato in nessun modo le ragioni del patrono contro il testamento del liberto . Ciò viene attestato da Gaio, III, 40 , 41 , il quale, dopo aver detto, che « olim licebat liberto patronum suum impune in testamento prae terire » aggiunge poi che il diritto pretorio e poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di riparare a questa iuris iniquitas. (2 ) Gaio , 1 , 26 ; Ulp., Fragm ., I, 5 . (3 ) Gaio , I, 141. 542 questa parte , trasportarono nella città il potere del capo di famiglia patriarcale; lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da ogni elemento estraneo al diritto ; e riuscirono così a dare una configu razione prettamente giuridica , ad un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare molti temperamenti nel costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia romana trovano poi una conferma nel modo, in cui era governata la successione legittima, nel primi tivo diritto di Roma. § 4. – La successione e la tutela legittima nel primitivo ius quiritium . 422. L'ordinamento giuridico della famiglia primitiva in Roma presenta eziandio questa singolarità, che mentre, vivo il padre, tutto sembra unificarsi in lui, mancando invece il medesimo, senza aver disposto delle proprie cose per testamento (si intestato moritur), ricompare una specie di comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono dalla sua patria potestà . Queste persone infatti son chia mate a succedergli come heredes sui; non possono respingerne la eredità (heredes sui et necessarii) ; che anzi, senza bisogno di una vera e propria accettazione, sembrano essere direttamente investite dalla legge stessa di quel patrimonio famigliare, di cui già prima apparivano comproprietarie : « sui quidem heredes, dice Gaio , ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo domini existimantur » (1). Molti autori combatterono il concetto di questa comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla unificazione potente della famiglia romana nella persona del proprio capo (2). A nostro avviso invece questa specie di comproprietà , che i giureconsulti pongono a fondamento della successione degli heredes sui, può essere facil mente spiegata e conciliata coll'unità potente della famiglia romana, ( 1) GAIO , II, 157. (2 ) Fra gli autori, che combattono questa comproprietà famigliare, mi limiterò a citare il PADELLETTI, Op. cit., pag . 201, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione nel di ritto privato, pag. 108 e segg.; il quale, a pag. 111, in nota, fa pure un elenco degli autori, che tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il DUBOIS, La saisine héréditaire en droit romain , Paris, 1880, pag. 63 , e il CARPENTIER, Essai sur l'origine et l'étendue de la règle : nemo pro parte testatus, pro parte intestatus decedere potest, nella « Nouvelle Revue historique » , 1886, pag. 457 e segg . 513 quando si ritenga che la famiglia quiritaria non è in sostanza, che la stessa famiglia patriarcale, trasportata nella città , ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi formata . La famiglia patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri, pressochè opposti fra di loro ; quello cioè di apparire da una parte unificata nella persona del padre , il che la rendeva unita e compatta per la lotta , che doveva sostenere cogli altri gruppi, da cui era circondata ; e quello di sup porre dall'altra un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che produceva un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla . In questo senso potevasi dire di essa con Cicerone : « una domus, communia omnia » . Questa solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo gruppo famigliare viene ad essere dimostrata dai seguenti indizii : che il primitivo heredium era di sua natura trasmessibile di padre in figlio ; che il padre trovava un ostacolo alla dilapidazione del patrimonio famigliare, nel iudicium de moribus per parte del consiglio degli anziani della gens ; che il padre infine non poteva disporre delle proprie cose per testamento , nè scegliersi un figlio adottivo senza l'approvazione degli altri capi di famiglia , che appartenevano alla sua gente o tribù (1). Vero è , che tutti questi temperamenti del potere patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire, quando, col formarsi della città, la famiglia venne ad essere staccata dal gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte , e il capo di essa apparve così investito di un potere illimitato e senza confini; ma ciò deve essere considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica , che tendeva ad uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era quindinatu rale, che, quando questa unificazione non era più possibile per la mancanza del capo, risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le persone libere, che appartenevano allo stesso gruppo . Che anzi la stessa unificazione potente del gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie di comunione fra i membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza giuridica, che in questo caso non si avverasse una vera successione, ma il dominio del padre conti nuasse in certo modo nella persona dei figli ; conseguenza, che ebbe ad essere mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo : in suis heredibus evidentius apparet continuationem dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas fuisse , quasi olim hi domini ( 1) Ho cercato di dimostrare questi caratteri della proprietà famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib . I, cap . 4, § 3º, sopratutto pag. 70 e segg . 544 essent, qui, vivo etiam patre, quodammodo domini existimantur . Itaque post mortem patris non hereditatem percipere videntur , sed magis liberam bonorum administrationem consequuntur (1) . Fu in questa guisa, che la famiglia primitiva potè perpetuarsi nelle generazioni, e cambiarsi in un organismo immortale e perpetuo, poichè i figli apparivano come i continuatori della personalità del padre, e al modo stesso, che dovevano perpetuare il culto domestico, così dovevano raccoglierne, anche loro malgrado, l'eredità . 423. Nè si può ammettere, che questa specie di comproprietà , a cui accennano i giureconsulti , sia un concetto penetrato più tardi nella classica giurisprudenza , per spiegare il passaggio del patrimonio famigliare dal padre nei figli (2 ): poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto , come pure è a questo, che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale , che gli heredes sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa distinzione infatti già doveva esistere nella universale coscienza , all'epoca della legislazione decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa della succes sione dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa , che na turalmente accade, e che quasi non abbisogna di speciale menzione ; mentre è solo per il caso , in cui non siavi un heres suus, che le XII Tavole determinano l'ordine della successione per legge , chia mando alla medesima prima l’agnatus proximus, e in mancanza del medesimo i gentiles: « si intestato moritur , cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto ; si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento » (3). Che anzi a questo proposito parmi di poter con fondamento inol trare la congettura , che in occasione della legislazione decemvirale le genti patrizie cercarono di trasportare nel ius proprium civium ( 1) PAOLO, Leg . 11, Dig. X (28-2). V. nel CARPENTIER , Op. e loc. cit., una rac colta di testi che confermano questa comproprietà famigliare. (2) Tale sarebbe l'opinione del PADELLETTI, Op. cit., pag. 201 . (3 ) Queste due disposizioni delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op. cit., I, pag. 704, sarebbero la 2a e la 3a legge della Tav. IV. A questo proposito poi il Voigt, Op. cit., II, pag. 387, sembra ritenere, che esistesse una comproprietà di fatto, ma non di diritto . Convien però ammettere, che tale comproprietà producesse, dopo la morte del padre, delle vere conseguenze di diritto, dal momento che faceva considerare gli heredes sui, come continuatori della personalità del padre , e li metteva anzi nella impossibilità di rinunziarvi. Vedi Gaio , I, 157. - 545 romanorum , e di rendere così comune a tutte le classi quel sistema di successione ab intestato , che doveva già esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio . Noi sappiamo infatti dagli stessi giu reconsulti , che colle XII Tavole soltanto ebbe ad essere introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo anche una prova nella circostanza , che fu perfino introdotto un ordine di eredi le gittimi, che era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere alla plebe, dal momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il patriziato, che già aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria organizzazione domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema di successione. Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei romani deve essere considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della famiglia patrizia ; come lo dimostra la circostanza , che esso fondasi esclusivamente sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione, e si propone come scopo esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia agnatizia , e di farlo ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la famiglia (1) . Per tal modo, in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo a trovarci di fronte a tre ordini di eredi, che sono : lº gli heredes sui, nei quali si comprendono la moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri discendenti nella linea maschile , tutte le per sone insomma, che erano soggette alla patria potestà del capo di famiglia ; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro, che discendono per la linea maschile da un comune autore, alla cui potestà sarebbero stati sog getti, quando non fosse premorto ; 3º e da ultimo i gentiles, ossia tutti coloro , i quali, più non essendo compresi nella familia omnium agnatorum , hanno però comune la discendenza da un medesimo ( 1) Che la successione e la tutela legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole, mentre queste non avrebbero fatto altro , che confermare le successioni testa mentarie, è cosa a più riprese affermata da ULPIANO, Fragm . XI, 3 , e XXVII, 5 . Di qui ilMuirhead avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di pianta l'ordine degli agnati, come tutori e successori legittimi (Op. cit., pag. 122 e 172 ). Ho già dimostrato più sopra , pag. 39, nota 1", che questa opinione non può essere accettata, perchè l'ordine degli agnati già esisteva nell'organizzazione gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a fondamento della medesima; ma intanto questa sua opinione può essere accolta , quando sia intesa nel senso, che i decemviri colle XII Tavole estesero anche alla plebe quel sistema di successione legittima , che le consuetudini avevano già svolta presso le genti patrizie. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 35 546 antenato, e come tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla stessa gente. 424. È poi degno di nota il modo diverso, con cui questi varii ordini di eredi sono chiamati a succedere . Finchè trattavasi di heredes sui, essi, essendo soggetti alla patria potestà della stessa persona, e come tali appartenendo almedesimo gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se stessi; esclu devano gli emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi entrate in un'altra famiglia , tutti coloro insomma, che erano già usciti dal gruppo; non abbisognavano di vera accettazione dell'eredità , ma suc cedevano anche loro malgrado (heredes sui et necessarii) : non potevano essere spogliati dell'eredità mediante l'usucapio pro he rede ; infine succedevano per stirpe , ossia per rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva i figli rappresen tano il padre (1). Quando trattavasi invece di agnati , il patrimonio doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro : quindi la legge, per impedirne la suddivisione soverchia , si limitava a devolverlo allo agnatus proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere considerato come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non appartiene al gruppo famigliare nello stretto senso della parola . Egli quindi ha già facoltà di accettare o di respingere l'eredità , e può vedersi usucapita l'eredità da altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse poi l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità , questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles (2 ). (1 ) Gaio, III, 1 a 8 ; Ulp., Fragm ., XXIV, 1 a 3 . (2) GAIB, III , 9 a 15 , Ulp., Fragm ., XXIV , 1. L'enumerazione , che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati, confermano il concetto, che ho svolto nel lib . I, pag. 38 e 39, secondo cui la cerchia degli agnati sarebbe stata determinata da quella in divisione di patrimonio, che, morto il padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di scendenti per la linea maschile. Questo gruppo continuava in certo modo l'unità indivisa della famiglia, e costituiva quella famiglia più grande, che fu chiamata 547 Qui però l'espressione della legge cambia, in quanto che essa dice senz'altro: « si agnatus proximus nec escit, gentiles familiam habento » ; il che fa ritenere, che i gentili non fossero chiamati a succedere come individui, ma in quanto costituivano l'ente collet tivo della gens, cosicchè l'eredità sarebbe in certo modo ritornata alla gente considerata nella propria universalità , e sarebbe così ve nuta a ricadere in quell'ager gentilicius, da cui si erano staccati i primitivi heredia delle singole famiglie. Era sopratutto in questa parte, che erasi cercato di mantenere viva nella città l'antica orga nizzazione gentilizia : ma l'istituzione non potè mantenersi a lungo come lo dimostra Gaio, il quale parla di questo ius gentilicium , come di cosa andata da lungo tempo in disuso (1) . Non ha poi bisogno di essere dimostrato, che questo sistema di successione per legge, desunto dall'antica organizzazione gentilizia , trovava il proprio compimento nella disposizione, per cui la succes sione del cliente o del liberto , che fosse morto senza testamento o senza eredi suoi, veniva dalla legge ad essere devoluta al patrono, od ai figli di lui, od infine alla gente del patrono: « si cliens in testato moritur , cui suus heres nec escit, pecunia ex eius fa milia in patroni familiam redito » (2). omnium agnatorum . Quando poi venne meno quest' indivisione del patrimonio, si chiamarono agnati tutti coloro, che sarebbero stati soggetti alla patria potestà, quando il padre non fosse premorto . Fra essi ULPIANO, loc. cit., comprende anzitutto quelli, che egli chiama i consanguinei , « id est fratres et sorores ex eodem patre » ; poscia , quando questi manchino, gli altri agnati prossimi « id est cognatos virilis sexus, per mares discendentes, eiusdem familiae , (1) Gaio , III, 17 ; UlP ., Fragm ., XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna ad una causa di eredità , dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii patrizii ed i Marcelli discendenti da un loro liberto , in cui dice che gli oratori delle parti dovettero occuparsi « de toto stirpis ac gentilitatis iure » . Sembra tuttavia, che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di questo genere . (2 ) Ulp., L. 195, § 1, Dig . (50, 16). Nella ricostruzione del Voigt, I, pag. 705 , questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che dice lo stesso Voigt, II, pag . 392 e 393, quanto alla successione del patrono al liberto. Anche quanto alla successione del liberto si manifesta una specie di antagonismo fra la successione testamentaria e la legittima ; poichè,mentre nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare impunemente il suo patrono , la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del patrono, quando il primo fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è assai degno di nota , che, unitamente al sistema della successione legittima, dalla legislazione decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela legittima. Di cid abbiamo l'espressa attestazione dei giureconsulti ( 1): ma la prova più convincente vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della tutela legittima, quale ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato con quello della successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi ratore. Per giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro , che avevano il vantaggio della successione : « ubi emolu mentum successionis, ibi onus tutelae » ; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la tutela , che la successione le gittima si informano ancora ai concetti dell'organizzazione genti lizia , da cui furono desunte , e come tali mirano a conservare il patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla gente. Viene così a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im puberi ed anche la cura dei prodighi e dei furiosi , fosse affidata agli agnati ed ai gentili ; come le donne, anche perfectae aetatis , cadessero sotto la tutela degli agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai pupilli, non potessero essere usucapite , quando non si fossero alienate col consenso del tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della tutela primitiva del l'impubere , la quale mira piuttosto alla conservazione del patrimonio, che non alla educazione della persona , la cui cura soleva essere lasciata alla madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di preferenza all'affetto del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare integro il patrimonio famigliare (2) . i 426. Chi tuttavia riguardi al posteriore svolgimento del diritto civile romano, può facilmente inferirne, che tanto il sistema della successione, quanto quello della tutela legittima, non trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione comune della cittadinanza ro mana. Conformi al modo di pensare di quella minoranza patrizia , che si atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie , esse invece ripugnavano al modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti di ( 1) Ulp., Fragm ., XI, 3 . (2) È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari, il Pa DELLETTI, Op. cit ., pag . 188 e le note relative. 549 famiglia si ispiravano di preferenza al vincolo naturale del sangue e della cognazione. A misura poi, che le traccie dell'organizzazione gentilizia si venivano dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina, questo sistema di successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati stessi, che dovevano applicarlo . È questo il motivo, per cui Gaio a questo proposito non parla solo di sottigliezze del l'antico diritto , ma di vere iuris iniquitates ; alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio , introducendo, accanto alla successione legittima, una successione pretoria , e creando , accanto ai tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur questo il motivo, per cui i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela perpetua , a cui le donne erano sottoposte nell'antico diritto , e vennero creando essi stessi degli espedienti giuridici , quale fu quello veramente ca ratteristico della coemptio cum fiducia , per liberarle da una tutela , le cui ragioni dovevano forse essere cercate in un periodo anteriore di organizzazione sociale ( 1). In ogni caso poi una prova di questa generale condanna del si stema di successione e di tutela legittima può scorgersi eziandio nel largo sviluppo che presero in Roma la successione e la tutela testamentaria , e nell'antagonismo che sembra esistervi fra le due maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la successione legittima e la testamentaria nel diritto primitivo di Roma. 427. È noto che in Roma la successione legittima e la testamen taria non poterono mai fondersi insieme, e si mantennero anzi in una specie di antagonismo fra di loro . Ciò è dichiarato espressa mente dal giureconsulto, che scorge nelle due istituzioni un natu (1) Fra i giureconsulti, che non sanno darsi ragione della tutela perpetua , a cui le donne erano sottoposte, abbiamo Gaio, I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli, più sotto, I, 192, finisce per indicare la vera ragione, per cui anche le donne erano sot toposte alla tutela dei loro agnati; la quale consiste in ciò , che siccome gli agnati erano chiamati a succedere alle donne, che morissero ab intestato , così essi avevano interesse a che esse, senza il loro consenso , non potessero fare testamento, nè alienare le cose più preziose, che entravano a costituire il patrimonio. Per tal modo la tutela degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro successione legittima , quello cioè di conservare il patrimonio nella famiglia agnatizia ; il qual concetto è per certo uno di quelli, le cui origini debbono essere cercate nel periodo gentilizio. 550 rale conflitto ; è confermato dalla massima : nemo paganus partim testatus, partim intestatus decedere potest ; ed è provato eziandio da quella specie di ripugnanza , che avevano i Romani a morire senza testamento : ripugnanza , che si spinse fino a tale da ritenere pressochè disonorato chi morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato con certezza ; ma è tanto più ardua la spie gazione di esso , come lo dimostra la varietà grandissima di opinioni e di congetture , che furono emesse in proposito (1 ). Credo tuttavia , che anche in questa parte possa condurci a qualche conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium . Questo studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione legittima ed il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente diversi nel primitivo ius quiritium . Mentre la successione e la tutela legittima , le quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del diritto comune , sono istitu zioni di origine prettamente gentilizia , ispirate al concetto di ser ( 1) L'origine storica della massima « nemo paganus, ecc. » è una questione, che è lungi dall'essere risolta , malgrado la ricchissima letteratura , di cui fu argomento . Fra autori, che la esaminarono di recente , citero soltanto il RUGGERI, nei Do cumenti di storia e di diritto , 1880, pag. 147 a 168, e 1881, pag. 31 a 51; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue historique, 1886 , pag . 449 a 474 ; il Padel LETTI, La istituzione di erede ex re certa (« Archivio giuridico » , vol. IV ). Anche l'ESMEIN , La manus, la paternité , ecc., pag . 4 , nota 10. accenno di passaggio ad una spiegazione di questa massima , dicendo che la medesima proveniva da che il patrimonio si trasmetteva come l'accessorio di un culto, e che siccome di un culto non si poteva disporre per una parte soltanto, così non si poteva neppure lasciare un'eredità parte per testamento e parte per legge. Parmi che questa non possa an cora essere la risoluzione definitiva : poichè se un culto poteva dividersi fra più eredi legittimi, non vi può essere ragione , per cui non si potesse anche dividere fra eredi legittimi e testamentarii. Il CARPENTIER poi, nel suo dotto lavoro sopra citato , verrebbe alla conseguenza , che questa massima fosse una conseguenza logica del concetto romano, per cui tanto la successione legittima, quanto la testamentaria , do vevano comprendere l'intiero patrimonio ; ma anche qui si potrebbe sempre dire, che quest'universum ius, come poteva dividersi fra gli eredi per legge e testamentarii ; così avrebbe potuto dividersi eziandio fra gli uni e gli altri. Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il motivo della massima starebbe in ciò , che anche il testamento dapprima era una vera lex , e quindi doveva prevalere o la lex publica o la lex testamenti,ma non potevano concorrere insieme; ma egli è evidente , che questa ragione, se po trebbe valere per il testamentum in calatis comitiis , non può certo applicarsi al testamentum per aes et libram , che non ha più il carattere di una legge. Fu questo il motivo, per cui ho creduto didover cercare la causa prima di questa mas sima nella stessa dialettica fondamentale, a cui si informa il diritto primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed alla gente ; il testamento invece, che prevalse nel ius quiritium , non è più il testamento delle genti patrizie , ma è già un'applicazione dell'atto quiritario per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram , che si ispira al prin cipo : uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore dell'antico gruppo patriarcale : mentre in questo già campeggia la fiera individualità del quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere ( 1). A cið si aggiunge, che la successione legittima e la testamentaria , nella struttura organica del ius quiritium , muovono da un con cetto fondamentale compiutamente diverso . Mentre infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius connubii , ed è quindi una conseguenza dell'organizzazione giuridica della famiglia romana, il testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu un'ap plicazione del principio : « qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » ; come tale, esso prese le mosse dal ius commercii, e fu considerato come un mezzo di disporre libe ramente delle proprie cose (2 ). Fu sopratutto questa circostanza del l'essere le due istituzioni partite nella loro elaborazione giuridica da un concetto fondamentale diverso , che impedì alle medesime di con fondersi e di compenetrarsi insieme; poichè è un carattere della dialet tica quiritaria , che gli istituti giuridici, una volta separati, obbediscano ciascuno al proprio concetto ispiratore, nè sogliano mai confondersi con un altro, che si informi ad un concetto compiutamente diverso . Tale sembra appunto essere la significazione della celebre regola del giureconsulto Paolo : « ius nostrum non patitur eundem in paganis et testato et intestato decessisse , earumque rerum natu raliter inter se pugna est, testatus et intestatus » (3 ). Per verità (1) Quanto al carattere diverso di queste due successioni vedi il cap . III , § 4 , in cui si discorre della successione testamentaria , ed il $ precedente relativo alla successione legittima. (2) Questo carattere speciale del testamento per aes et libram è attestato , ancorchè solo di passaggio , da Cic., De orat., I, 57 , § 245 ; ma è poi dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad essere ritenuto come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in cui la volontà del testatore dominava sovrana . (3) Paolo, Leg. 7, Dig. (50-17). Secondo il PadELLETTI, Storia del dir . rom ., pag. 201, questa massima sarebbe invece una conseguenza della superiorità esclusiva della successione testamentaria sulla legittima; ma questo non è ancora un motivo adeguato per impedire che le due eredità si confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato illogico, che quel diritto , il quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai distinte fra di loro le obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui quelle erano partite dal concetto primitivo del nexum e questi da quello del mancipium , avesse pui consentito , che concorressero insieme due istituzioni, le quali muove vano da concetti fondamentali anche più distanti fra di loro . Questo quindi fu uno dei casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi alle nuove esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del testamento dei soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di esaminare brevemente un'altra gravissima questione, quella cioè della precedenza, che nel diritto primitivo di Roma abbia avuto la successione legittima o la successione testamentaria . Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente seguita l'opinione, che nella evoluzione storica del diritto romano dovette precedere la successione ab intestato, poichè la possibilità del testa mento, anche nel diritto romano, avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in quei casi, in cui non vi fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche agli altri casi ( 1). Mentre ritengo , che questa opinione possa essere conforme al vero, per quanto si rife risce al periodo gentilizio , nel quale il testamento non dovette essere , che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto, per il caso in cui non vi fossero dei figli, crederei invece , che essa non sia con forme all'evoluzione storica , che ebbe ad avverarsi nel ius quiritium . Sonvi infatti degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel ius quiritium penetrd dapprima il testamento, mentre la successione legittima vi fu solo introdotta più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una prevalenza incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole , mentre queste invece avrebbero confermata la successione testamentaria ; il che indica appunto , che il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già subito l'elaborazione del ius quiritium , mentre la suc cessione legittima non sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla legislazione decemvirale . Anteriormente a quest'epoca la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce agli agnati ed ai gentili, (1) SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 186 . 553 doveva probabilmente essere esclusivamente propria delle genti pa trizie, le cui consuetudini in quest'argomento erano certo diverse dalle semplici costumanze della plebe ( 1). Appare poi fino all'evidenza dalle espressioni stesse delle XII Tavole , che la successione testamentaria ha una prevalenza indiscutibile sulla successione legittima, in quanto che quest'ultima non può verificarsi, che quando manchi il testa mento (si intestato moritur); il qual concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento storico del diritto civile romano (2 ). In cid abbiamo un'altra prova, che il ius quiritium non deve essere considerato unicamente , come il frutto di un'evoluzione lenta e graduata delle istituzioni giuridiche, a misura che ne occorra il bisogno, ma piuttosto come il frutto di una selezione su materiali giuridici preesistenti. In esso infatti istituzioni più antiche penetra rono talvolta più tardi di altre, la cui formazione nella realtà dei fatti doveva essere più recente. Così, ad esempio, la successione le gittima, che fu certo la prima a svolgersi nell'ordine dei fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius quiritium , mentre il testamento, che era stato ultimo a comparire , fu il primo ad esservi accolto , come quello che meglio rispondeva a quella potente individualità giuridica , che era il quirite. — Cid apparirà anche più evidente trattando del si stema delle actiones, le quali, mentre furono le prime a formarsi nell'ordine dei fatti, furono invece le ultime ad essere elaborate nel primitivo ius quiritium . (1 ) ULP., Fragm ., XI, 3; XXVII, 5 ; L. 130, Dig. (50-16 ). (2) La prevalenza della successione testamentaria sulla legittima nel diritto civile romano è provata da una quantità grande di passi di giureconsulti, fra i quali mi limito a citaro i seguenti: « quamdiu possit valere testamentum , tamdiu legitimus non admittitur » (Paolo, L. 89, dig. 50, 17) ; « quamdiu potest ex testamento adiri hereditas, ab intestato non defertur » (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). 554 CAPITOLO VI. Le legis actiones e la storia primitiva della procedura civile romana. $ 1.- Le origini della procedura ex iure quiritium . 429. Quella tecnica giuridica , di cui già si riscontrarono le traccie nelle varie parti del ius quiritium , appare anche più rigida e se vera nella parte, che si riferisce alla procedura delle legis actiones. È qui sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto umano compare del tutto isolato e disgiunto da ogni elemento estraneo , e ove l'ela borazione giuridica dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di tecnicismo da rendere difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti direttivi, e la logica inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione. Alla difficoltà intrinseca dell'argomento si aggiun sero poi altre cause , che contribuirono a mantenere in questa parte una quantità di dubbii e di incertezze, la quale non potè del tutto essere dileguata dalla scoperta delle istituzioni di Gaio , dalla ricchissima letteratura, che in seguito alla medesima ebbe a svolgersi sull'argomento (1). È noto infatti, in base alle attestazioni concordi degli antichi au tori, che la parte dell'antico diritto , relativa alla procedura delle legis actiones , ebbe ad essere custodita ed elaborata dal collegio dei pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi ancora a co e (1) Anche qui non mi propongo di dare una bibliografia completa : ma piuttosto di indicare le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto speciale di vista , a cui mi collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo ZIMMERN , Traité des actions, trail . Etienne, Paris 1843; BONJEAN, Traité des actions chez les Romains, Paris 1845; il KELLER, Il processo civile romano e le azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli 1872; BETHMANN-HOLLWEGG , Der röm . Civilprocess in seiner geschichtl. Entwichelung, 3 vol., Bonn 1864-66, e sopratutto il primo, che tratta delle legis actiones ; BEKKER, Die Aktionen d . röm . Privatrechts, 2 vol., e sopratutto il vol. I, pag . 18-74 ; KAR LOWA , Der röm . Civilprocess zur Zeit d. Legisactionen , Berlin 1872 ; BUONAMICI, La storia della procedura civile romana, Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da pag . 15 a 86 ; JHERING , L'esprit du droit romain , tome 36, pag. 312 a 343; MuiraEAD, Histor. Introd ., pag . 181 a 235 ; Zocco-Rosa , Le palingenesi della procedura civile romana, Roma 1887 ; WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig 1888. 555 stituire per qualche tempo un segreto di professione e di casta . Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di aver modellate le legis actiones, in base alla legislazione decemvirale ; egli anzi dice con Gaio, che di qui sarebbe provenuta la denominazione di legis actio nes, le quali poi per la prima volta sarebbero state rese di pubblica ragione da Gneo Flavio , segretario di Appio Claudio (1). La notizia poi, che ci pervenne di queste legis actiones , è molto imperfetta ; poichè lo stesso Gaio , che è forse il solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema delle legis actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento , e quindi si limita alla enu merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al lorchè questi furono definitivamente formati, senza farci assistere alla progressiva formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice , circa la introduzione della legis actio per condictionem . A ciò si aggiunge, che Gaio , discorrendo di un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si limita a cenni assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con gravissime lacune, quali quelle relative alla iudicis postulatio , ed alla condictio (2 ). 430. Da questa notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia ricavare alcune illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor tantissime per la ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio quella delle legis actiones . È certo anzitutto, che anche in questa parte il primitivo ius qui ritium non venne creando speciali procedure, per i varii casi, che si presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura , che i pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi particolari, per guisa che le primitive legis actiones costitui scono , secondo l'esatta espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno poteva comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in secondo luogo , che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al concetto , secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse tutti i suoi stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali , di cui una compievasi in iure, cioè (1) Pomp., Leg . 2, § 6 , Dig. (1, 2 ) ; Gaio, IV, 11. (2) V. Gaio, IV, 17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare dell'actio per iudicis postulationem , e passare poi a discorrere della legis actio per condictionem . ( 3) Gaio , IV , 12 , scrive : , lege agebatur modis quinque etc. 556 davanti al magistrato , e l'altra invece seguiva davanti al giudice singolo od al corpo collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere rimesse dal magistrato . Mentre in iure si decideva , se in quel determinato caso si potesse far luogo all'applicazione della legis actio , e si dava alla fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti , in base alla configurazione giuridica , che la controversia aveva assunto davanti al magistrato ( 1). Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due ca tegorie, ispirate ad un concetto compiutamente diverso , in quanto che vi erano quelle, che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione del medesimo, e costituivano così la pro cedura , che potrebbe chiamarsi processuale o contenziosa ; e quelle invece , che miravano all'esecuzione del giudicato , e costituivano così la procedura esecutiva . Nella prima categoria noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis postulatio , alle quali venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per condictionem ; mentre nella seconda la vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio , che è diretta contro la persona del debitore condannato o confesso , poichè solo in pochi casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris capio (2). ( 1) Ho già accennato altrove n ° 243, pag. 296 e seg., come la distinzione fra il ius ed il iudicium debba considerarsi come una conseguenza necessaria di ciò , che la pubblica giurisdizione del magistrato non estendevasi dapprima a tutte le con troversie civili e penali, ma comprendeva soltanto quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione domestica e gentilizia , per essere deferite alla giurisdizione del magi strato . Di qui la conseguenza, che ogni controversia civile ed ogni accusa penale davano anzitutto luogo ad una questione preliminare , da decidersi in iure, in cui trattavasi di vedere, se la controversia , o se il delitto, di cui si trattava, potessero dare argomento ad un iudicium . Di qui le espressioni di actionem dare, iudicium dare. Questa distinzione pertanto , fra il ius ed il iudicium , non ha nulla che fare colla separazione tra il fatto ed il diritto : ma mira in certo modo a sceverare le questioni, che debbono essere lasciate alla giurisdizione domestica ed agli arbitra menti privati, da quelle, che debbono essere giudicate a secundum legem publicam » . (2) Questa distinzione fra la procedura contenziosa e la procedura di esecuzione non è espressamente indicata in Gaio, il quale si limita a dare come caratteristica delle legis actiones , che esse , ad eccezione della pignoris capio , si compievano in iure , cioè davanti al magistrato ; ma tale distinzione è comunemente accettata e può dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in effetto a discorrere delle azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e poi viene a parlare delle procedure esecu . tive, ancorchè queste fossero certo più antiche della legis actio per condictionem , 557 431. In questo stato di cose , la questione fondamentale, che pre sentasi all'investigatore delle origini della procedura quiritaria , sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba ritenersi creato di pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla medesima, o se invece debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu ridici già preesistenti (1). A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo tempo, che già fin dal periodo regio , cosi nei giudizii penali come nei civili , si possono trovare le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium , che venne poi ad essere fondamentale nel sistema delle legis actiones , e che dovettero fin d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie, certamente analoghe a quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis actiones. Che anzi abbiam visto eziandio essere probabile, che sopratutto all'epoca serviana, in cui si cominciò ad elaborare un ius quiritium , comune al patriziato ed alla plebe, e si modello l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram , siasi pure iniziata la formazione di una procedura propria per le questioni di carattere quiritario . Le prime origini di tale procedura sembrano accennate dalla tradizione, che at tribuisce appunto a Servio Tullio, di aver distinto i giudizii pubblici dai privati, e di aver ritenuto per sè la cognizione delle contro versie di maggior importanza , mentre avrebbe affidato a giudici scelti nell'ordine dei senatori, la risoluzione delle controversie di minor importanza. È infatti questa tradizione, che unita alla considerazione del grande movimento legislativo , che dovette ve rificarsi in quell'epoca, rende assai verosimile l'opinione di co loro , che farebbero rimontare a Servio Tullo l'origine del tribu che egli ci dice essere stata introdotta per l'ultima. Cfr. BUONAMICI, Op. cit., pag . 19 e 20 . (1) È questa la questione, che fu di recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi della procedura civile romanı , Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in proposito enunciate a tre, cioè : 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva procedura dal seno stesso della religione e del ius sacrum ; 2) alla teoria, che egli chiama della preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole ; 3 ) e alla teoria della discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla conclusione ammessa dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole moribus agebatur , mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le origini della primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine Aria, e questa sarebbe ricerca di grande interesse ; ma forse per ora non si hanno ancora materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva . 558 - nale quiritario dei centumviri, quella dei iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la iudicis postulatio ; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale iudicium , e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia , che accennano alla for mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole , non impediscono punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in tutte le sue parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto privato di Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale . Non parmi quindi, che possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi autori, secondo cui la procedura civile, se non creata , dovette almeno essere rimaneggiata , in base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio dei pontefici, e che in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state accomodate alla legge, abbiano assunta la denominazione caratteristica di legis actiones. Che anzi da questo fatto parmi si possa indurre con fondamento , che la parte del ius quiritium , relativa alle legis actiones, dovette essere l'ultima ad essere elaborata dai veteres iuris conditores , al lorchè già erasi formato un vero ius quiritium , e che, ciò stante, questa parte , per essere sopraggiunta più tardi, quando le altre già erano formate , non potè ridursi ad una semplice incorporazione di consuetudini processuali già preesistenti, ma dovette già essere il frutto di una selezione e di una elaborazione, a cui le medesime furono sottoposte. Nė può ritenersi improbabile , che questa elabo razione abbia potuto essere l'opera degli stessi pontefici, quando si ritenga, che essi da una parte erano i custodi delle tradizioni delle genti patrizie e personificavano in certo modo lo spirito conserva tore delle medesime, e dall'altra furono senz'alcun dubbio i creatori della tecnica giuridica , e i primi maestri alla cui scuola si forma rono i grandi giureconsulti della Repubblica e dei primi secoli del l'Impero. Parmi anzi, che questa elaborazione dei pontefici, giure consulti e patrizii ad un tempo, valga a spiegare quel doppio carattere dell'antica procedura romana, la quale nelle proprie forme e nei proprii vocaboli richiama ancora l'organizzazione patriarcale, mentre sotto un altro aspetto è già un capolavoro di tecnica giuridica, che corrisponde mirabilmente alle altre parti del diritto privato romano e al concetto del quirite , ispiratore del medesimo. A quel modo in somma, che i veteres iuris conditores , trascegliendo fra le forme di matrimonio e di negozii già preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti italiche , riuscirono a sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure quiritium , e a richiamare l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che costituirono il diritto esclusivamente proprio della comunanza quiritaria : cosi essi, operando una scelta fra i modi di procedere, che già potevano essersi formati nei rap porti fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i loro dipendenti, riuscirono a ricavarne una procedura tipica, che potè essere consi derata come propria della comunanza quiritaria . Anche qui pertanto i materiali certo erano preesistenti; ma il primitivo diritto romano non li accetto senz'altro , quali esistevano, il che avrebbe dato ori gine ad una varietà di procedure , analoga a quella che occorre presso gli altri popoli primitivi; ma li sottopose invece ad una se lezione, riducendoli a quelle forme tipiche , in cui tanto si compia ceva il genio giuridico romano, come lo dimostra il modo, in cui fu rono modellate tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa guisa , che si riuscì ad una procedura, la quale , mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un tempo , quale era il popolo romano, porta perd le traccie evidenti dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene cosi un ricordo prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della civile giustizia (1) . 432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo , come già nella stessa organizzazione gentilizia , e sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus, già potessero sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia , ed anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire alla risoluzione di tali con ( 1) Questa spiegazione intorno all'origine delle legis actiones ha il vantaggio di mettere d'accordo fra di loro i passi di antichi autori, relativi a quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa infatti può conciliarsi la vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio, coll'attestazione concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le legis actiones furono composte ed accomodate sulle parole stesse delle XII Tavole. Questi due caratteri, pressochè in opposizione fra di loro , possono conciliarsi fra di loro , quando si accetti la teoria , svolta più sotto, di distin guere nella legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti, cioè la parte mimica , e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una vetustissimi iuris observantia , ed è un ricordo delle varie fasi attraversate nello stabilimento della civile giustizia ; ed è la seconda , che potè invece essere accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO , IV , 11 ; POMP., Leg. 2 , 8 6 e 24 , Dig. ( 1,2). 560 troversie, abbia potuto dare origine a certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità consuetudinaria (1) . Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi di fa miglia , uguali fra di loro , che nella loro fiera indipendenza non accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato , il quale , anzichè giudice diretto della controversia , lo era invece della scommessa, con cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione . Questa è quella procedura , che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica, e denominata actio sacra mento , le cui traccie trovansi non solo fra le genti italiche , ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India (3). L'altra invece fu una procedura , la quale ricorda ancora uno stato di privata violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei. Essa nelle proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio , ma poscia fu richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio anche violento della potestà giuridica spettante a una persona , come lo dimostra il fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ). Or bene entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo anteriore di organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius quiritium , e vi furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti di esso . La prima fu adottata come azione tipica , allorchè trattasi di istituire un giudizio fra quiriti : come tale essa mira a serbare la più scrupolosa imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora chi possa essere il vincitore e chi il soccombente . La seconda invece fu adottata come azione tipica , allorchè trattasi di procedere all'esecuzione contro chi abbia subita una condanna, o confessato il proprio debito . ( 1) Quanto alla primitiva formazione delle actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia della stessa tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro dipendenti, vedi ciò , che si è detto nel lib . I, cap. V , § 3º, pag. 130 e segg. (2 ) V. in proposito lib . I, nº 104, pag. 135 , nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of institutions, Lect. IX ; e lo Zocco- Rosa , Op. cit., pag . 209 e seg . (3 ) V., quanto alle prime origini della manus iniectio, lib . I , nº 106 , pag . 137. Cfr. CAPUANO, Storia del diritto romano , Napoli 1878 ; Cugino, Trattato storico della procedura civile romana, pag. 116 ; BuonamiCI, Op. cit., pag. 58. - 561 433. Di qui provennero i caratteri compiutamente diversi del l'actio sacramento e della manus iniectio. Nella prima abbiamo una procedura fra eguali ; quindi i con tendenti sono in certo modo attori e convenuti ad un tempo : sono le persone, fra cui si discute , che recansi dinanzi al magistrato . Esse fingono un combattimento fra di loro; affermano con identiche parole il proprio diritto; fanno le medesime scommesse di 50 o di 500 assi , secondo il valore della controversia ; sono ugualmente obbligati a dare garanzia (vindicias dare) se siano ammessi al possesso della cosa , che forma oggetto della controversia . Lo scru polo nel mantenere l'uguaglianza non potrebbe spingersi più oltre, ed è uguale anche il pericolo per l'uno e per l'altro dei contendenti; poichè la somma scommessa si perde dal soccombente , e mentre nell'epoca gentilizia era forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo storico deve andare invece a benefizio del pubblico erario (1). L'altra procedura invece, rozza, violenta suppone una assoluta disuguaglianza fra i contendenti. Quella stessa legge, che procedeva titubante e quasi diffidente per il timore dioffendere l'indipendenza dei contendenti, non teme invece di accordare diritti illimitati e pres sochè senza confine al creditore contro il iudicatus ed il confessus. Essa non si preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà diritto al creditore di procedere contro la persona del debitore, di imporre sopra di lui la sua manus, e di trascinarlo avanti al magistrato per farsi aggiudicare la persona del debitore stesso . Questi invece non ha diritto di reagire contro la violenza del creditore (a se de pellere manum ) né di agere pro se lege ; ma solo di nominare un altro, che faccia valere le sue ragioni (vindicem dare) (2 ). Mentre l'actio sacramento è come una rappresentazione simbolica (vis festucaria) di quel combattimento effettivo (vis realis), a cui poteva dar luogo una privata controversia fra capi di famiglia indipendenti e sovrani, dell'interporsi fra essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione scambievole della propria ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una scommessa , della quale deve esser giudice quegli a cui le parti si sono rimesse ; la manus in (1) Tutti questi caratteri della legis actio sacramento si possono ricavare dalla descrizione di quest'azione fatta da Gaio, IV , 13 a 17, per quanto la medesima presenti molte lacune, sia quanto all' actio sacramento in personam , che quanto all'actio sacramento relativa agli immobili . (2 ) Gaio , Comm ., IV, 21 a 26 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del vincitore contro il vinto , di colui, che ha il diritto, contro colui, il quale ne è privo, di quegli, che può dettare la legge, contro colui, che deve subirla. Anche la controversia è una lotta : quindi se durante la me desima deve essere serbata l'uguaglianza , allorchè invece essa è finita , il vincitore può stendere la propria mano sul vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi naturale, che la procedura di un popolo agricolo e militare ad un tempo , per cui l'asta era il sim bolo del giusto dominio , venisse eziandio ad essere simboleggiata in una specie di lotta e di conflitto . 434. È tuttavia degno di nota, che i pontefici, nell'accogliere e nel modellare queste forme di procedura, si attennero ad un processo del tutto analogo a quello , che abbiam visto essersi seguito nel fog giare le forme dei negozii giuridici del diritto quiritario . Al modo stesso, che nell'atto quiritario per aes et libram può ravvisarsi una parte , che compievasi « dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » e che costituiva cosi un ricordo del passato , ed una parte veramente viva, che era la nuncupatio, mediante cui un medesimo atto poteva accomodarsi ad una varietà grandissima di negozii, anche di carattere compiutamente diverso ; cosi anche nella procedura primitiva , miri essa ad istituire un giudizio od alla esecuzione di un giudicato, possono facilmente distinguersi due parti, che compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi anzitutto una parte, che potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre uniforme ed uguale , la quale è mantenuta evidentemente più come un ricordo del passato, che per l'utilità effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra la disinvoltura , con cui si accettano gli espedienti, che mirano a semplificarla . Questa parte nell'actio sacramento è rappresentata dal recarsi sul luogo, ove trovasi l'oggetto in contestazione , se trattisi di immobile ; dal portare davanti al magistrato la cosa mobile o una particella di essa ; dal simbolo della festuca, che adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum consertio , dalla mutua provocatio , e dal sacra mentum . Nella manus iniectio invece essa è rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche parte del corpo del proprio debitore. È questa parte mimica, la quale, costituendo in certomodo una soprav vivenza , col tempo divento pressochè incomprensibile, e potè talvolta essere posta in derisione, anche da autori antichi e fra gli altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che lo stesso Cicerone, allorchè scrisse 563 nell'interesse del vero e non in quello del cliente, non dubito di dichiarare, che era di grande diletto questa impronta di vetusta , inerente alle legis actiones, e di affermare che : « actionum ge nera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant» (1). Queste formalità infatti, conservateci da un popolo , che, più di qualsiasi altro , seppe sceverare l'essenzialità del fatto umano dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un impor tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio delle primitive genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui mantenimento era l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi eziandio la parte veramente viva ed attuosa , e questa consisteva in quelle concezioni verbali, solenni e precise (conceptiones verborum , verba concepta , certa verba ), che servivano a dare una configurazione giuridica alle varie fattispecie e a farle entrare nella veste rigida delle legis actiones (2). Era in questo modo, che, malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si riusciva ad isolare l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle tutte a pochissimi genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima i pontefici, poi il pretore , e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo magistero che la sola actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le controversie di carattere quiritario , e la sola manus iniectio poté bastare a qualsiasi procedura esecutiva . Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis actiones costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura quiritaria . Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di agire del primitivo quirite, fiero , indipendente , geloso del proprio (1) Co., Pro Murena, vol. 2, scherza spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla proprietà di un fondo, dimostrando come le forme primitive avessero complicata una procedura, che avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De orat., I, riconosce eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in questo studio dell'antico, allorchè scrive : « Nam si quem aliena studia delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum libris , et in XII Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant. ( 2) A mio avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della nuncupatio nell'atto per aes et libram . Ciò sarà meglio dimostrato più sotto, nº 449, ed apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole atte nersi il primitivo diritto romano. 564 diritto , finchè la sentenza non sia pronunziata ; umile , sottomesso , pronto ad abbandonare se stesso al proprio creditore, allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria . Intanto però, accanto a queste due procedure fondamentali, se ne vennero svolgendo delle altre , che sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di ri cercare lo svolgimento storico , così della procedura contenziosa, che della procedura esecutiva. § 2. – Lo svolgimento storico della procedura contenziosa nel primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo centrale della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi sappiamo però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la iudicis postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri, e che alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per condictionem . Importa quindi di determinare la funzione, che questi vari genera agendi esercitarono sulla pri mitiva procedura , e di ricercare eziandio l'ordine progressivo della loro formazione. Delle antiche legis actiones, quella , intorno a cui ci pervennero maggiori notizie , è certo l'actio sacramento . Noi sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che poteva essere adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata introdotta altra speciale procedura , si trattasse di agere in rem , od anche di agere in personam . Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non doveva esistere ancora la distin zione fra l'azione in rem e l'azione in personam ; il che però non impedisce , che essa presentasse delle differenze nelle solennità e nelle espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere in rem o di agere in personam . Cosi pure in essa non vi è ancora la distin zione netta e precisa fra l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono attori e convenuti ad un tempo, come lo dimostra l'identità delle espressioni da essi adoperate . Infine essa non conduce alla ri soluzione diretta della controversia, ma piuttosto a giudicare quale dei due contendenti abbia affermato il vero e quale il falso , e quale perciò debba essere soccombente nella scommessa fra i medesimi intervenuta (utrius sacramentuin iustum , utrius sacramentum in iustum sit) ; cosicchè in essa il soccombente, oltre al perdere in 565 - direttamente la lite , corre anche il rischio di perdere la scom messa (1) . Noi sappiamo poi, quanto alle controversie che dovevano rivestire la forma di questa legis actio, che essa costituiva un preliminare indispensabile per tutte le cause di carattere veramente quiritario , le quali erano sottoposte al centumvirale iudicium , ed anche per quelle relative alla verità ed allo stato delle persone (caussae liberales), quanto alle quali noi sappiamo, che il sacramentum era solo di cinquanta assi (quinquagenarium ), e che esse erano devolute ai decemviri stlitibus iudicandis (2 ) . Tutti questi caratteri imprimono un suggello di vetustà all'actio sacramento , e ci richiamano a quella potente sintesi, che è carat teristica del primitivo ius quiritium , in cui non distinguesi ancora fra diritto personale e reale , fra attore e convenuto , fra la provo . catio e la litis contestatio . Si comprende quindi, che la mimica , che la precede, sia come un ricordo dei varii stadii, per cui passò lo stabilimento della civile giustizia , fra i capi di famiglia , e che essa , trapiantata dall'organizzazione gentilizia nella città, sia stata rico nosciuta come l'azione tipica del diritto quiritario . Ciò spiega eziandio come essa, mentre è certamente la più antica , sia stata anche la più duratura delle legis actiones; poichè, quando le altre furono abolite, continud pur sempre ad essere mantenuta qual preliminare al centumuirale iudicium , cioè davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che può essere considerato come il tribunale essenzial mente quiritario , sia per il modo, in cui era composto, sia per le controversie , che gli erano sottoposte, che erano appunto quelle, che riguardavano la posizione di ciascun cittadino nel censo , e quindi anche nello Stato ( 3). (1) GAIO, IV , 13 a 17 : Cic., Pro Caecina, 33, ove dice , che in una causa da lui trattata per la libertà di una certa Aretina fu deciso , che il suo sacramentum era iustum . Di qui le espressioni: iusto sacramento contendere , iniustis sacramentis petere. ( 2) La necessità della legis actio sacramento , per una causa da istituirsi davanti al centumvirale iudicium , è dimostrata dal fatto che , secondo Gaio , IV , 31, anche dopo l'abolizione delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa guisa : a domini infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit » . È poi lo stesso Gaio , IV , 14 , il quale ci attesta, che le cause di stato erano precedute dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle XII Tavole il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da Cic., Pro Caec. 33 . (3) La competenza del centumvirale iudicium , per le cause di carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello , che ci pervenne intorno alla legis actio per iudicis postulationem . Dal palimpsesto di Verona non si potè ritrarne, che il titolo , mentre da Valerio Probo si ricavo la formola , che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice o di un arbitro : iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono indicati varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere indeterminato, che suppongono una certa libertà di apprezzamento , e che talvolta sono anche designate col vocabolo di iurgia , piuttosto che con quello di lites, si propone la nomina di uno o più arbitri ( 1). Bastano tuttavia questi pochiindizii per dimostrare le molte e gravi differenze , che la contraddistinguono dall'actio sacramento . Essa in fatti già suppone la persona dell'attore distinta da quella del conve nuto ; suppone una amministrazione della giustizia già organizzata , in cuiil magistrato procede alla designazione del giudice ; conduce alla risoluzione diretta della controversia ; non trae più con sè, per quanto almeno noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una scommessa . Essa parimenti, come lo indica la sua denominazione, non conduce più alla rimessione dei contendenti avanti ad un tribunale collegiale , come quello dei centumviri e dei decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum , nel vero senso della parola, in cui il giudice o l'arbitro , secondo un antichissimo costume ro mano, dovevano essere concordati fra le parti (2 ). Essa infine differisce eziandio dall'actio sacramento per il ca rattere di indeterminatezza delle controversie , che ne formavano oggetto , le quali supponevano una certa libertà di apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata dall'enumerazione fatta di tali cause da Cic., De orat., I, 38. (1) I casi, in cui la legge decemvirale parla di nomine di arbitri , sono quelli relativi al regolamento di confini: « si iurgant de finibus, tres arbitros dato » ; alla divisione dell'eredità fra i coeredi (actio familiae erciscundae); all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano, $ 7, pag. 25 ; ORTOLAN , Expli cation historique des Institutes de Iustinien , Paris 1883, III, pag. 494. (2 ) Sebbene non si possa dire, che il centumvirale iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium privatum , tuttavia occorrono passi di autori , in cui i centumviri sono contrapposti al privatus iudex , come in Cic., De or., I, 38 , 39; in Quint., Instit. or., 10 , n ° 115, ove scrive : « alia apud centumviros , alia apud iudicem privatum in iisdem quaestionibus ratio » . Cfr. ZIMMERN, Traité des actions, pag. 36, nota 3 e 4 . 567 - — nel giudice o nell'arbitro chiamato a risolverlo ; cosicchè, di fronte al iudicium directum , asperum , simplex , che era istituito col l'actio sacramento , essa iniziava di preferenza un iudicium od un arbitrium moderatum , mite , in cui cominciava ad essere lasciata qualche parte a quell'equità e buona fede, che erano escluse dalle forme rigide e precise del primitivo ius quiritium . Al qual pro posito vuolsi eziandio notare, che quando si confronti la denomi nazione attribuita da Gaio a questa legis actio, che è quella di iudicis postulatio , colla formola serbataci da Valerio Probo, secondo la quale si domanda un giudice od un arbitro , è lecito di inferirne, che in essa dovette avverarsi uno svolgimento storico. Essa dapprima infatti dovette implicare soltanto la nomina di un iudex , sotto il quale vocabolo si comprendeva anche l'arbiter . Più tardi invece, e probabilmente in seguito alla legislazione decemvirale , la quale am metteva per certe questioni anche la nomina di arbitri, essa dovette porgere occasione a quella distinzione fra iudicium ed arbitrium , la quale presentava ancora tante incertezze all'epoca di Cicerone (1). 437. Questi caratteri presi insieme mi condurrebbero alla con clusione, che la iudicis postulatio non presenti più quell'impronta di vetustà , che è propria dell'actio sacramento, e non possa perciò essere considerata come una procedura di carattere patriarcale , trasportata nella città . Essa invece dovette già formarsi sotto l'in fluenza della vita cittadina, e dovette probabilmente essere una con seguenza della stessa formazione del ius quiritium . Siccome infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la formazione, il ius quiritium non costitui mai tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso , che corrispondeva al concetto del quirite , e che primo era riuscito a consolidarsi mediante il ricono scimento di una lex publica : cosi ne consegui necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere fra i cittadini, si divi ( 1) Cic. , Pro Mur., 12, osserva, scherzando, che i giuristi non si erano ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex o di arbiter. La difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la distinzione fra iudicium e arbitrium , fra il ius strictum e l'aequitas, fra la lis e il iurgium , è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai definitivamente risolte. Cfr. KELLER , Op. cit ., § 17, pag. 59. Quanto alla differenza fra iudicium strictum e arbitrium , mi rimetto ad una mil vecchia dissertazione col titolo: « De exceptionibus in iure romano » Torino 1873 , pag . 28 e segg. 568 dessero naturalmente in due categorie. Vi erano da una parte le controversie di carattere eminentemente quiritario , relative al caput, alla manus, al mancipium , all'atto per aes et libram , ai negozii rivestiti della forma del medesimo (nexum , mancipium , testa mentum ), all'eredità e alla tutela legittima; le quali, per poggiare sopra una legge o sopra un atto od un negozio di carattere quiri tario , potevano ridursi in certo modo ad una affermazione o ad una negazione, ed accomodarsi così alle forme rigide dell'actio sacra mento. Vi erano invece dall'altra parte quelle controversie, le quali, o per l'indeterminatezza del loro oggetto, o per supporre una certa latitudine di apprezzamento in chi era chiamato a giudicarle, o per dipendere più dalla consuetudine, che da una vera legge, abbisogna vano in certo modo più di un arbitro, che non di un giudice, nel significato ristretto , che ebbe ad assumere più tardi questo vocabolo . Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più semplice , non accompagnata dai pericoli dell’actio sacramento , in quanto che le parti contendenti potevano anche in parte essere nella ragione ed in parte essere nel torto : quindi è probabile , che siano state ap punto queste controversie, le quali, al punto di vista quiritario , ave vano minor importanza, che Servio Tullio avrebbe cominciato a de ferire al iudex privatus, introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così pure non è punto improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio primitivo le prime controversie di ca rattere veramente quiritario si indicassero col vocabolo di vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col vocabolo di iurgia (1). Siccome poi col tempo una parte di quel diritto, che in certo modo esisteva allo stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius quiritium , fini per essere attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle forme rigide e precise del diritto quiritario ; cosi si può comprendere, come col tempo la iudicis postulatio , che dap prima aveva un carattere sussidiario , abbia potuto entrare anch'essa a far parte del sistema delle legis actiones. Ciò anzi dovette av. venire naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale accolse la iudicis arbitrive postulatio , come lo dimostrano le controversie, ( 1) L'opinione qui svolta , circa i rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis po stulatio , si avvicina a quella enunziata dal KARLOWA, Der röm . Civilprozess, pag. 47 e segg.; 122 e segg. 569 per cui essa prescrisse al magistrato di addivenire alla nomina di un giudice , o di uno o più arbitri. Da quel punto la iudicis postulatio entrò a far parte del sistema della procedura civile romana ; costitui ancor essa una legis actio ; che anzi, per il minor pericolo che offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento, come lo dimostrerebbe il Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla iudicis postulatio , che alla stessa actio sacramento (1). Questo svolgimento poi fu sopratutto favorito dalla distinzione, che si operò nella stessa iudicis postulatio , fra il iudicium e l'arbitrium , il quale ultimo, accompagnato dalla clausola « ex fide bona » , fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per essere applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei negozii, in cui do mina la buona fede, quali sarebbero la società , la fiducia , il man dato , la vendita , la locazione e simili . Questi negozii infatti , negli inizii, erano ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium , e come tali non potevano formar tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis postulatio, alla quale probabilmente dovette appartenere la clausola conservataci dallo stesso Cicerone : uti ne propter te fi demve tuam captus fraudatusve siem (2 ). 438. Pervenuto a questo punto nella storia della primitiva pro ceilura romana, parmi opportuno di arrestarmi alquanto all'esame di un istituto, il quale, malgrado le sue modeste apparenze , dovette tuttavia esercitare una potente influenza sullo svolgimento della me desima. Esso è quell'antichissimo istituto, che è indicato col vocabolo di reciperatio , ed al quale si rannoda senz'alcun dubbio quella ca tegoria di giudici, o di arbitri, che vengono sotto il nome di recu peratores. Si è veduto in proposito , che nelle consuetudini delle genti ita liche era indicata col vocabolo di reciperatio quella clausola , che soleva aggiungersi aitrattati di amicitia e di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui stipulavasi fra esse un diritto di reciproca actio , cosicchè i cittadini di un popolo potevano chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il magistrato di un altro . Era con ( 1) Il Voigt, XII Tafeln , I, 586-589, assegnerebbe alla iudicis arbitrive postu latio ben 35 azioni, di cui nove apparterrebbero agli arbitria , e il rimanente ai éu dicia propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd ., pag. 199 . ( 2 ) Cic., De offic., III, 17. 570 - questa clausola , che la protezione giuridica , in base ad un trattato ( foedus), cominciava ad oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per estendersi a quelli di un altro , con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa poi aveva questo di particolare, che po neva in certo modo di riscontro i diritti dei due popoli, e rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores, tolti anche da popoli diversi, in quanto che i medesimi dovevano rappresentare l'elemento cittadino e lo straniero ad un tempo (1 ). Quando poi si ritenga, che Roma usci essa stessa dalla confede razione di genti di origine diversa , e fin dalle proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e colle alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la reciperatio sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente , e abbia col tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei rapporti fra i cives ed i peregrini. Cid è dimostrato dal fatto , che gli antichi autori indicano talvolta la recuperatio col vocabolo caratteristico di actio , e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed i peregrini, si cambiarono in una cate goria di giudici, che potevano essere nominati anche per le contro versie inter cives, e sopratutto dal bisogno sentito più tardi di creare un praetor peregrinus « qui inter peregrinos ius diceret » (2 ). (1) Ebbi già occasione di parlare della reciperatio, discorrendo del ius pacis, nei rapporti fra le varie genti, nel lib . 1', capo VII , § 2º, nº 211, pag . 143. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si svolsero a distanza di migliaia di anni,direi che la reciperatio , nel passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città nel mondo an tico, corrispose a quella istituzione, che pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma zione degli Stati moderni, e che si esplicò col nome analogo di reciprocanza di di ritto, la quale consisteva nell'accordare agli stranieri quella stessa protezione di diritto, che fosse accordata ai nostri concittadini nello Stato , a cui gli stranieri ap partenevano. In quei tempi antichissimi la reciperatio, come nei tempi moderni la reciprocanza , concorsero alla formazione dell'idea di una comunanza di diritto fra i diversi popoli, che presso i Romani prenderà il nome di ius gentium , e che nell'età moderna fu dal Savigny indicata col nome di comunanza di diritto , la quale, se condo il grande fondatore della scuola storica, dovrebbe essere posta a fondamento del diritto internazionale privato. V. Savigny, Traité de droit romain , trad .Guenoux, tome VIII, § 374. Quanto ai rapporti poi, che intercedono fra il concetto dell'antico ius gentium , e questa comunanza di diritto fra gli stati moderni,mirimetto ad altro mio lavoro col titolo : La dottrina giuridica del fallimento nel diritto intern . privato, Napoli 1872, pag. 25 , come pure all'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino 1880, pag. 346. (2 ) Quanto all'influenza, che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera 571 439. Queste circostanze intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più antichi tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una, propria dei quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario ; l'altra invece, applicabile ai rap porti fra cittadini e stranieri, e percid più semplice e spedita . Sic come perd uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima all'una e all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione singolare di proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di sentire dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana certe semplificazioni, che erano invece proprie della reciperatio . Di qui una scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continud ancora, allorchè l'accre scersi delle controversie condusse a dividere la iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di praetor urbanus e di peregrinus portano le traccie del dualismo, che essi rappresentano. Fu questo il motivo per cui, a quelmodo stesso , che i recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei rap porti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite , per essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma (1). Che anzi la coesistenza di queste due procedure dovette , a mio tores, i quali diventarono col tempo una istituzione romana e furono i modesti pre paratori della maggior opera, che doveva poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno 512 dalla fondazione di Roma, vedi KELLER, Il processo civile romano, pag. 28 de segg.; ZIMMERN, Traité des actions, pag. 45 e segg. ; JHERING , L'esprit du droit romain , I, pag. 235 e segg. ; KarLOWA, Röm . Civil prozess, pag. 218-230 ; Bouché-LECLERQ, Instit . rom ., pag. 421 e segg . ; MUIRHEAD, Histor. introd ., pag . 111 e 112 , 123 e 225 , quanto all'applicazione della recuperatio inter cives. ( 1) Il Keller, Op. cit., pag . 41; nota a ragione: « che il riguardare la legis actio come propria soltanto dei cittadini romani, è una asserzione più volte prodotta, ma non pienamente giustificata ». Noi sappiamo anzi da Gaio, IV , 31 , che coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al praetor peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus nominava dei recuperatores , anche per cause inter cives ; ma ciò venne appunto ad essere l'effetto di questa esistenza contemporanea delle due procedure, la quale condusse ad uno scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che negli inizii le cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano quelle, che si recavano davanti al centumvirale iudicium , non potevano essere che assolutamente proprie dei cives romani o dei latini , o dei peregrini , a cui fosse stato esteso il ius quiritium . 572 avviso , servire a preparare lentamente certi effetti, chenegli avve nimenti posteriori appariscono pressochè repentini. Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali cause, per cui, accanto al concetto rigido del ius civile, si dovette venir gradatamente deli neando nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circon davano, il concetto più largo di un ius gentium , il quale, una volta formato , doveva poi recare cosi profonde trasformazioni nel primo . Cosi pure egli è probabile, che il pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai terminidi una legge, dovette avere una maggior libertà nel formolare giuridicamente la controversia , il che lo pose in condizione di poter lentamente preparare, fin da quel tempo, in cui fra i cittadini duravano ancora le legis actiones, quel sistema delle formulae, il quale col tempo doveva poi essere accolto dal ius civile ( 1 ). Infine, per non spingere troppo oltre le induzioni, parmi eziandio probabile, che quella « legis actio per condictionem » , che ultima comparve nel sistema delle legis actiones, siasi modellata sulla condictio, che certo già esisteva nella procedura della recuperatio. Noi sappiamo infatti, che questa era appunto iniziata , mediante una condictio , in quanto che i contendenti condicebant diem , ossia fis savano di comparire fra trenta giorni, avanti il magistrato , per ot tenere la nomina dei recuperatores; come lo dimostrano le espres sioni, che occorrono nelle XII Tavole, di « status, condictus dies cum hoste » , il quale doveva essere sacro per modo da essere un legittimo impedimento a comparire in un giudizio fra cittadini. Sembra tut tavia , che vi fosse una differenza fra la condictio nella procedura inter peregrinos, e la condictio come legis actio inter cives ; poichè, mentre nella prima era in certo modo concordato il giorno di com parire avanti al magistrato, nella seconda invece, secondo la descri zione di Gaio , era l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario denuntiabat) di comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem capiendum (2 ). ( 1) Quanto all' influenza del praetor peregrinus nel preparare il sistema delle formole e dell'Editto provinciale nell'estendere il concetto del ius gentium è da ve dersi il Glasson, Étude sur Gajus, Paris 1885, § 12, pag. 212 e segg. Cfr. Carle, L'evoluzione storica del diritto romano, Prolus., Torino 1886, pag. 18 e segg. (2 ) Secondo il Voigt, XII Tafeln , I, pag . 697 e 698, la legge 2. Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a comparire avanti il magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum hoste . Cfr. quanto alla « condictio cum hoste » il MuruEAD, Op. cit., pag. 224. - 573 440. Anche intorno alla legis actio per condictionem ci per vennero notizie molto scarse, in quanto che il manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in cui egli, accingendosi a parlare della legis actio per condictionem , sembrava accennare alle origini di essa . Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si può ri cavare : lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella condictio , o meglio nella denuntiatio , che l'attore faceva al conve nuto di comparire fra trenta giorni ad iudicem capiendum ; 2º che nella medesima quella scommessa, che occorreva nel sacramentum , appare surrogata dalla sponsio et restipulatio tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della controversia , deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo di pena ; 3º che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le obbligazioni di una certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle obbligazioni di una certa res : leggi, che sogliono essere assegnate approssima tivamente al principio del sesto secolo di Roma (anni 510 a 520 U. C.). Quanto alla causa , per cui la condictio ebbe ad essere intro dotta, essa forma oggetto di discussione fra i giureconsulti, i quali ebbero ad osservare, che per le controversie di questa natura po . tevano servire le anteriori legis actiones ( 1). Ricomponendo tuttavia questi pochi indizii col resto , che sappiamo delle legis actiones, si possono ricavare alcune importanti illazioni. È certo anzitutto , che la condictio non era del tutto nuova, nè quanto al nome, nè quanto alla sostanza , e non è punto improbabile , che fosse una imitazione della condictio, propria della procedura inter cives et peregrinos. Essa poi fu accolta nel sistema delle legis actiones per le controversie, che volgevano o intorno ad una certa pecunia o intorno ad una certa res: quindi, riguardando obbliga zioni relative ad un certum , essa dovette restringere il dominio della (1) Gaio, IV, 17 a 20. Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae partis essa non è accennata nel testo mutilato di Gaio , relativo alla legis actio per condictio nem ; ma noi possiamo indurne la esistenza da ciò , che egli dice altrove, IV , 13 , che questa stipulatio et restipulatio tertiae partis faceva parte dell’qctio certae cre ditae pecuniae propter sponsionem . Ora l'actio certae creditae pecuniae, nel sistema formolario, succedette alla legis actio per condictionem : quindi se essa ritiene questo carattere, che certamente sa di antico , e richiama sott'altra forma la scommessa del sacramentum , dovette certo ereditarlo dalla medesima. È poi lo stesso Gaio, IV , 20, che accenna ai dubbi fra i giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova legis actio. 574 actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la quale era propria delle controversie di carattere indeterminato . Per tal modo la condictio si presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu ; abolisce tutta la parte mimica del sacramentum ; sostituisce, quanto alle obbligazioni aventi per oggetto un certum , il giudice singolo al tribunale popolare dei centumuiri; infine sur . roga alla scommessa , che andava a beneficio dell'erario, la sponsio et restipulatio tertiae partis , che va invece a benefizio del vinci tore delle lite ( 1 ). 441. Quanto alla causa storica , che può aver determinata questa semplificazione nella procedura relativa alle obbligazioni di un certum , essa deve certamente essere cercata in qualche importantissima tra sformazione, che dovette avverarsi nell'epoca della lex Silia e Calpurnia , quanto alle obbligazioni di carattere quiritario. Qui per tanto viene ad aprirsi un largo campo alle congetture ; ma è possi bile di giungere a qualche risultato probabile, se si tenga dietro al processo storico del ius quiritium nella parte relativa alle obbli gazioni. A questo proposito si è dimostrato a suo tempo , che la forma primitiva dell'obbligazione ex iure quiritium fu quella del l'atto per aes et libram , che pigliava il nome di nexum . Colla medesima il debitore sottoponeva senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio , per il caso che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa parte però il ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la lex Poetelia tolse di mezzo gli effetti speciali del nexum , negando al medesimo l'efficacia di un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel momento il nexum cessò di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima era, e cominciò a cadere in disuso ; ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi, esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una certa pecunia , o di una certa res, quali furono ad esempio la sponsio o stipulatio, la ex pensi latio o litteris obligatio , o infine la mutui datio, di cui formano oggetto quelle cose « quae numero, pondere acmensura constant » . Per tutte queste obbligazioni di un certum , non essendo più consentita la immediata manus iniectio , che un tempo era con (1) Cfr. in proposito Keller , Op. cit., pag. 62 e 63; e il BuonAMICI, Proc. civ. rom ., 1, 52 e segg . 575 sentita per il nexum , non poteva più esservi altra procedura, che quella dell'actio sacramento , la quale, per il pericolo, che vi era inerente, non poteva a meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa , il cui credito risultava in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile . Si comprende pertanto, che prima la lex Silia , per una certa pecunia , e poi la lex Calpurnia , per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la legis actio per condictionem , in cui evvi ancora un vestigio dell'antica scommessa nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non va più a benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il vincitore ed una pena per il soccom bente (1 ). Siccome poi nel diritto romano ogni istituto , che riesce a pene trare nella compagine di esso , ben presto si rivendica il posto , che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può essere capace; così la condictio , appena fu ammessa come legis actio, essendo più semplice , più spedita , meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per richiamare a sè stessa tutte le controversie relative all'obbli gazione di un certum , mentre l'actio sacramento si circoscrisse a tutte quelle controversie , che hanno il carattere di una vindicatio , intesa in largo senso . Di qui consegui col tempo, che il vocabolo di condictio , nel linguaggio giuridico, divenne pressochè sinonimo di actio in personam , mentre l'actio sacramento finì per significare di preferenza l'actio in rem o la vindicatio . Ha quindi tutte le ragioni Gaio di accusare di improprietà l'uso , che facevasi ai suoi tempi, del vocabolo di condictio per indicare l'actio in personam , poiché l'essenza della primitiva condictio non consisteva tanto nel dari oportere, quanto piuttosto nella denuntiatio diei; ma ciò punto non toglie, che di fatto, in virtù di un lungo processo storico, verifica tosi nel sistema delle legis actiones, l'actio sacramento si fosse ri dotta alle sole vindicationes, mentre la condictio era in sostanza divenuta la forma, sotto cui facevansi valere tutte le actiones in (1) V. il cap . prec., $ 2 , relativo al nexum , n ° 376 , pag . 484 e sogg ., ove trattasi appunto del comparire della mutui datio e della stipulatio, in surrogazione del nexum primitivo, che andava in disuso. Anche il MUIRHEAD, Op. cit ., pag. 226 a 235, 80 stiene un'opinione analoga a quella proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per condictionem . Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi. 576 personam , e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio in personam (1 ). 442. Intanto dalle cose premesse può esser ricavato il seguente svolgimento storico della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones. Le due procedure più antiche, le quali rimontano probabilmente ad epoca anteriore alla fondazione stessa della città , sono l'actio sacramento e la reciperatio. Quella è la procedura , che fu accolta come esclusivamente propria dei quiriti, per le questioni di carat tere quiritario , e quindi negli inizii dovette essere la legis actio fondamentale del ius quiritium , nello stretto senso della parola ; questa invece si applicò nei rapporti inter peregrinos ed anche in quelli inter cives et peregrinos. Siccome però nella città di Roma era continuo l'attrito fra i cives ed i peregrini, e l'una e l'altra procedura seguiva davanti allo stesso magistrato, così ne venne, che le due procedure finirono per esercitare scambievole influenza l'una sull'altra ; cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite della procedura inter cives et peregrinos finirono talvolta per es sere trasportate ed accomodate alle esigenze del diritto civile romano. Così, ad esempio , allorchè fra i cittadini, accanto alle vere lites di carattere quiritario, che per la precisione ed esattezza di questo diritto , potevano risolversi affermando o negando, si svolsero delle questioni di carattere più indeterminato , che chiamavansi piuttosto iurgia , accanto all’actio sacramento , che continuò ad essere l'a zione tipica del ius quiritium , cominciò a svolgersi la iudicis po stulatio , la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare eziandio nel novero delle legis actiones. Per tal guisa le controversie, che hanno per oggetto un certum , si trattano coll'actio sacramento ; quelle invece, che riguardano un incertum , dånno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi di queste due legis actiones fini ( 1) Gaio , IV , 18 , dopo aver detto, che l'essenza dell'antica legis actio per condi ctionem consisteva nella denuntiatio diei, aggiunge: « nunc vero non proprie con dictionem dicimus actionem in personam , qua intendimus dari oportere ; nulla enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit o . Egli aveva ragione dal suo punto di vista , perchè l'essenza dell'actio in personam ai suoi tempi stava non più nella denun tiatio diei , ma nel dari oportere ; ma storicamente lo scambio della parola si era operato, perchè nel sistema delle legis actiones la condictio era divenuta la forma, sotto cui si proponevano tutte le actiones in personam aventi per oggetto un certum . · 577 per subire una suddistinzione. Quando infatti, accanto all'actio sa cramento, penetrd la condictio, la prima fini per restringersi alle vindicationes, e questa invece attirò a sè tutte le actiones in per sonam , che avessero per oggetto un certum , e divenne quasi si nonimo di actio in personam . Cosi pure, allorchè nel diritto civile romano penetrd in parte la considerazione dell'aequitas e della bona fides, nel seno della iudicis postulatio si operd pure una distinzione; poichè essa potė dar luogo o alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un arbitro, secondo la larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro affidata nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni di equità . Intanto però , mentre si avverava questo svolgimento storico, è probabile, che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, abbiano imitate delle procedure, che già si applicavano nei rapporti inter cives et pere grinos . Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis actiones, si vennero preparando tutte quelle distinzioni di actiones , che poterono poi acquistare un libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali sono le distinzioni fra la vindicatio e la condictio ; fra l'actio in rem e l'actio in personam ; fra le actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le actiones certae e le incertae ; fra l'actio nes in ius conceptae e le actiones in factum . Si può quindi conchiudere , che anche in tema di procedura tutte le varietà e di stinzioni delle azioni sembrano procedere da un'unica forma tipica , che è quella dell’actio sacramento , la quale fu il nucleo centrale, intorno a cui si svolse la procedura contenziosa dell'antico diritto ; ma che accanto alla medesima fin dai primi tempi fuvvi la recipe ratio per le controversie inter cives et peregrinos, dalla quale do vettero essere mutuate certe procedure più semplici, come quella della condictio. Fu poi eziandio in questa procedura, che doveva essere applicata dal praetor peregrinus, che cominciò a prepararsi quel concetto del ius gentium , e quel sistema delle formulae, che esercitarono poi tanta influenza sul diritto civile romano. $ 3 . Lo svolgimento storico della procedura esecutiva nel sistema delle legis actiones. 443. Mentre nella procedura contenziosa l'antico diritto cerca di mantenere la più rigorosa imparzialità fra i contendenti, esso invece apre l'adito ad una procedura ben più decisiva, allorchè la G. CARLI, Le origini del diritto di Roma . 37 578 lotta fra i contendenti giunse al suo termine, e trattisi di proce dere all'esecuzione contro il soccombente . Anche il linguaggio giu ridico sembra allora richiamare un'epoca di privata violenza , in cui ciascuno era vindice del proprio diritto , e noi veniamo cosi a tro varci di fronte alla manus iniectio e alla pignoris capio, di cui quella sembra avere il carattere di una esecuzione contro la per sona del debitore, e questa invece il carattere di una pignorazione privata contro i beni del medesimo. È tuttavia facile lo scorgere , che nella procedura quiritaria si preferisce nell'esecuzione di procedere contro la persona del debitore, anzichè contro i beni del medesimo. Infatti nell'antico diritto il modo generale di esecuzione per le ob bligazioni viene ad essere la manus iniectio , che è diretta appunto contro la persona ; mentre la pignoris capio riveste in certo modo il carattere di un privilegium , e viene così ad essere ristretta a pochissimi casi , che furono specificamente introdotti o dalla legge o dal costume, e determinati dalla natura del credito (1 ). Intanto nell'una e nell'altra procedura già apparisce evidente , che se i vocaboli richiamano ancora l'uso della forza, questa perd viene già ad essere regolata dall'impero della legge ; poichè è questa che determina i varii casi, in cui può ricorrersi all'uno od all'altro modo di esecuzione. 444. Incominciando dalla manus iniectio , noi troviamo che la medesima, nel primitivo ius quiritium , compare sotto forme diverse, che vogliono essere tenute ben distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la manus iniectio, a cui poteva appigliarsi il padrone col servo, che avesse cercato di sottrarsi al suo potere, e questa era una conseguenza della podestà del padrone sul servo , di cui rimasero le traccie nella vindicatio in servitutem . Un'altra forma era quella invece, a cui dava origine l'obbligazione solenne del nexum , in base a cui il debitore, che non pagava a sca denza, poteva, anche senza l'intervento del magistrato , essere trasci nato nella casa del debitore, e quivi essere ridotto a condizione pressochè servile, fino a che non avesse soddisfatto il proprio debito . ( 1) Vuolsi qui aggiungere , che Gaio , IV . 29, accenna perfino al dubbio surto fra i giureconsulti, relativamente alla natura della pignoris capio, che alcuni ritenevano non essere una legis actio, in quanto che la medesima, sebbene si compiesse certis verbis, a differenza tuttavia delle altre legis actiones, extra ius peragebatur, e poteva perfino compiersi in giorno nefasto. 579 Questa manus iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore alla legislazione decemvirale, ed era una conseguenza del rigore della primitiva obbligazione quiritaria, contratta colle formedell'atto per aes et libram . Questa fu quella manus iniectio, la quale, applicata sopratutto nei rapporti coi debitori plebei, diede origine a quelle dis sensioni civili, a proposito dei nexi, a cui cercò di porre termine la lex Poetelia nel 428 di Roma. Essa però non era ancora una vera legis actio , in quanto che non fondavasi sulla legge, ma derivava direttamente dal rigore dell'obbligazione quiritaria , assunta colle forme del nexum , nella quale la volontà manifestata dalle parti co stituiva legge, ed implicava la condanna del debitore . Havvi infine quella manus iniectio , che occorre nella legislazione decemvirale e che costituisce un modo generale di esecuzione contro coloro , che avessero confessato il proprio debito (aeris confessi), o che avessero subita una condanna giudiziale per il pagamento di una determinata somma (iudicati vel damnati). A mio avviso , è solo a quest'ultima, che Gaio attribuisce il carattere di una vera legis actio , e che egli indica col nome di manus iniectio iudicati, sive damnati (1 ). La severità inumana, a cui poteva giungere la procedura della (1) Gaio , IV , 21. L'opinione espressa nel testo fondasi sulla considerazione, che Gaio restringe evidentemente la legis actio per manus iniectionem ai casi « de quibus, ut ita ageretur, lege aliqua cautum est » , e si limita a fare una rassegna storica delle varie leggi, le quali, incominciando dalle XII Tavole,avrebbero consentito questo mezzo di esecuzione . Nella sua esposizione pertanto non si accenna più a quella rigorosa procedura , di origine pressochè contrattuale, a cui dava origine il primitivo nexum ; tanto più che la medesima era andata in disuso fin dal tempo, in cui la lex Poetelia aveva tolte di mezzo le conseguenze speciali del nexum . Non mi sembra quindi il caso di voler forzare le espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella espressione dei iudicati o dei damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi dell'antico diritto potevano ritenersi compresi negli aeris confessi delle XII Tavole, dei quali non era più il caso che Gaio si occupasse ; poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli obbligati col nexum , le disposizioni delle XII Tavole erano state abrogate, e se si intendevano gli in iure confessi, non era il caso di farne una categoria speciale di fronte al principio:« in iure confessus pro iudicato habetur » . Questa opinione intanto si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero compren dere i nexi nei damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, op . cit., p. 205, e da quella eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo, il quale non parla dei nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla procedura della manus iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli altri debitori, come il Voigt, I, 626, e il Cogliolo , nelle note al PADELLETTI, Storia del dir. rom ., pag . 328, il quale pure ha adottato l'opinione del Voigt. 580 manus iniectio, fu probabilmente una delle cause , per cui la me desima col tempo diventò oggetto di investigazione curiosa per gli stessi autori latini, i quali ebbero cosi occasione di tramandarci le espressioni testuali delle XII Tavole a questo riguardo (1) . Allorchè altri aveva subito condanna per un proprio debito , gli era prima consentita una specie di tregua (velut quoddam iustitium ), che durava trenta giorni, in cui doveva avvisare almodo di pagare il debito (conquirendae pecuniae causa ). Trascorsi i medesimi senza che egli pagasse , il creditore poteva porre sopra di lui la sua manus, condurlo davanti al magistrato , e quivi pronunziare la formola solenne della manus iniectio ; né al debitore era lecito di depellere manum a se, né di agere lege pro se, ma solo poteva nominare un vindex , che facesse valere le sue ragioni, dando sicurtà per il processo e per l'eventuale pagamento del doppio nel caso in cui vincesse l'attore. Intanto il creditore po teva condurre il debitore nel suo carcere privato, e quivi metterlo in catene, con scelta al debitore di alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo arresto durava sessanta giorni, e negli ultimi tre giorni di mercato , compresi in questo spazio di tempo, il creditore doveva condurlo di nuovo davanti al magistrato, e far pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare per lui. Che se anche allora non si fosse fatto il pagamento , il creditore poteva ucciderlo 0 venderlo al di là del Tevere (capite poenas dabat, aut trans Tiberim venum ibat) ; ed anzi, se più fossero i creditori, veni vano le famose espressioni conservateci da Gellio : « partis se canto : si plus minusve secuerunt, se fraude esto » . (1) L'autore , che ci ha serbata più particolare notizia della procedura esecutiva nell'antico diritto, conservandoci perfino le parole testuali della legge , è Gellio , Noc. Att., XX, 1, $ S 41, 51, dove introduce il giureconsulto Sesto Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a discutere intorno ad alcune singolari disposizioni del primitivo diritto : interessante discussione , poichè da una parte abbiamo il giureconsulto, che, riportandosi alle opportunità dei tempi, cerca di scusare il vigore dell'antico diritto , e dall'altra abbiamo il filosofo , il quale, a nomedella ragione, viene combat tendone quelle disposizioni, che il tempo aveva fatto apparire o irragionevoli od inumane. Intanto, a questa discussione poi dobbiamo la maggior parte di quelle te stuali disposizioni delle XII Tavole, che a noi siano pervenute, le quali composte insieme colle informazioni dateci da Gaio, IV, 21, ci porgono le fattezze primitive della manus iniectio . 531 445. Si comprende come l'enormezza del potere, che la legge qui accordava al creditore, abbia lasciati increduli gli antichi ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente del Voigt di interpre tare la legge nel senso, che il capite poenas dabat significasse la riduzione in schiavitù del debitore, e che il partis secanto si rife risse alla ripartizione del prezzo ricavato dalla vendita, per il caso in cui fossero più i coeredi del creditore (1) . Certo è, che se noi avessimo soltanto il testo della legge, questo potrebbe forse consen tire questa interpretazione, punto non ripugnando che la legge at tribuisse a quei vocaboli una significazione giuridica, anzichè lette rale : ma noi, oltre al testo della legge, abbiamo anche il commento , che vi diedero gli antichi, e questo è tale da escludere qualsiasi interpretazione più benigna. Noi troviamo infatti presso Gellio , che il giureconsulto Sesto Cecilio , pur tentando di spiegare il rigore della legge, punto non accenna alla possibilità di tale interpretazione; ma dice invece , che i primitivi legislatori, nell'intento di tutelare la fede nei negozii privati, avrebbero introdotta una pena, che per la propria immanità non poteva essere applicata , come in effetto non lo era mai stata (2 ). ( 1) Voigt, XII Tafeln , II, pag . 361. Egli, ciò stante, nella ricostruzione della legge 8 della Tav. III , aggiungerebbe alle parole serbateci da Gellio : « Tertiis nundinis, partis secanto » le parole « si coheredes sunt » : il che vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da uno dei suoi creditori, egli non poteva più es sere soggetto alla manus iniectio degli altri; ma intanto se fossero stati più i coe redi del creditore, che l'aveva domum ductus, i medesimi potevano , in base alle XII Tavole, procedere contro di lui soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò dovevano chiedere il riparto della somma loro dovuta. Certo la supposizione è ingegnosa ; ma è difficile di persuadersi, che una espressione larghissima, quale sa rebbe quella di Gellio, possa restringersi ad un caso abbastanza speciale , qual sa rebbe quello posto innanzi dal Voigt. ( 2) Questa interpretazione letterale della legge, di cui si tratta , non sarebbe solo attribuita alla medesima da Gellio XX , 1 , 50 , ma eziandio da Quintil., Instit. or., III, 6 , 84 , e da TERTULL., Apol., 4 ; ma con parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta ,pur fatta da Gellio, loc. cit., $ 51, che la storia non ricordava alcun caso di sectio corporis: «dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi,neque audiri » , Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione siavi eziandio in quell'altra disposizione delle XII Tavole, secondo cui: « si membrum rupit, ni cum eo pacit, talio esto » ; ove compare in certo modo la stessa tendenza di accordare a colui, che ha subìto un danno per colpa di un altro , una potestà corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione ebbe pure ad essere sostenuta, col sus sidio della giurisprudenza comparata, dal Kohler , das Recht als Culturerscheinung, Vürzburg 1884 , pag. 17 e segg. , il cui brano relativo è riportato dal MUIRHEAD , 582 Non può quindi essere il caso di dare alla legge una significa zione diversa da quella , che vi attribuirono gli antichi, ma piuttosto di cercare, come mai i decemviri abbiano potuto giungere ad una disposizione di questa natura . Tale spiegazione , a parer mio , non deve essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi romani, quanto piut tosto in quella logica inesorabile, di cui già sonosi trovate le traccie nelle varie parti del ius quiritium , e sopratutto nel rigoroso con cetto, che questo diritto ebbe a formarsi dell'obbligazione personale. Al modo stesso che il diritto quiritario, nella sua logica rude, trat tandosi del dominio, immedesimò in certo modo la cosa , oggetto della proprietà , colla persona a cui essa appartiene : così pure esso, nel concepire il diritto di obbligazione , vide nel medesimo un vincolo strettamente personale, che stringe pressochè materialmente il de bitore al suo creditore (nexum ), senza punto preoccuparsi dei beni, che appartenessero a quest'ultimo. Se quindi il debitore condannato non soddisfi il debito, la logica del diritto primitivo non si appiglierà all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del debitore, ma procederà diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi di coazione contro il debitore che non paga,nell'intento di forzarlo ad eseguire il pagamento . Che se le coazioni di carattere giudiziale od estragiu diziale non bastino, questa logica primitiva, fissa nel carattere esclu sivamente personale dell'obbligazione, potrà anche giungere fino al l'estremo di accordare al creditore il diritto di vendere o di uccidere il debitore, al modo stesso , che attribuisce al proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gli appartiene (ius abutendi). È tuttavia evidente, che l'antico diritto , accordando simili diritti al creditore contro il debitore condannato, non intende tanto di accordargli un diritto reale ed effettivo , quanto piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti mezzi di coazione. Ciò è dimostrato da tutta la procedura op. cit., Appendix a nota 5, pag . 446 e 447. Lo stesso Kohler già erasi occupato della questione nel « Shakespeare vor dem Forum der Jurisprudenz » , Vürzburg 1884, di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD nella « Nouvelle revue historique » 1886 , p. 226 a 240. A compimento di questa notizia ricorderò anche la interessante dissertazione dell'ESMEIN, Débiteur privé de sépulture, nei « Mélanges d'histoire de droit », pag. 244 e 266 , ove il diritto del creditore prende un altro singolare svolgimento, quello cioè di porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di rifiutare al medesimo il riposo della tomba, finchè i congiunti o gli amici non ne abbiano pagato il debito . Qui la coazione adoperata s'appoggia sull'opinione po polare, che l'anima del debitore non trovi riposo, finchè il suo corpo non riposi nella tomba . 583 della manus iniectio , dalla necessità nei varii stadii della medesima della presenza del magistrato , dall'obbligo imposto al creditore di far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la persona del debi tore ; ed è questo il concetto , che ebbe ad esprimere, presso Gellio , il giureconsulto Sesto Cecilio dicendo che i decemviri: « eam capitis poenam , sanciendae fidei gratia , horrificam atrocitatis ostentu , novisque terroribus metuendam reddiderunt » . Che anzi, prendendo alla lettera l'espressione delle XII Tavole, nella parte , che si riferisce alla spartizione ; del corpo del debitore , essa appare perfino di im possibile attuazione, poichè vien dichiarato in frode il creditore, che tolga dal corpo del debitore una parte maggiore o minore diquella che gli sia dovuta , il che confermerebbe eziandio l'altra espressione dello stesso giureconsulto, secondo cui: « eo consilio tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam perveniretur » . Del resto non è questo il solo esempio di questa logica astratta , propria del diritto primitivo, che talora si spinge fino a tale da non essere quasi più applicabile nel fatto. Il diritto infatti del creditore sul corpo del de bitore trova un riscontro nel diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse stato rotto un membro: talione che, secondo l'osservazione da Gellio attrituita al filosofo Favorino (1), non poteva essere più fa cilmente eseguito che la spartizione del corpo del creditore in propor zione dei crediti. Cosi pure esso ha un altro riscontro nel ius vitae et necis, che giuridicamente parlando spetta al padre sui figli, al ma rito sulla moglie, al padrone sullo schiavo , ancorchè in questa parte sia certo, che il rigore del diritto trovava dei temperamenti nel pub blico e nel privato costume. Non è quindi il caso di inferire da queste disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi presso i ro mani (2); ma soltanto di scorgere in ciò una nuova prova, che il loro ius quiritium , essendo il frutto di una elaborazione giuridica , la quale mirava ad isolare l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo , fini per essere governato da una logica inesorabile, che tal volta appare non solo inumana, ma perfino inapplicabile nel fatto. (1) Dice infatti Favorino presso Gellio , XX , 1 , 15 : « praeter enim ulciscendi « acerbitatem ne procedere quoque executio iustae talionis potest; nam , cui mem « brum ab alio ruptum est, si ipsi itidem rumpere per talionem velit, quaero , an « efficere possit rampendi pariter membri aequilibrium ? in qua re primum ea dif « ficultas est inexplicabilis » . (2) È il KOHLER, op. e loc. cit., il quale dice scherzevolmente, che alla lista delle ipotesi escogitate per spiegare questa disposizione, ne manca una sola , quella cioè che gli antichi Romani siano stati degli antropofagi. 584 . 446. Dal momento poi che il primitivo ius quiritium , nella sua procedura di esecuzione, aveva preso di mira piuttosto la persona del debitore, che non i beni, che ne costituivano il patrimonio , si comprende, che esso , nella sua perseveranza tenace, abbia stentato più tardi ad abbandonare la via , che aveva prima seguito . Noi tro viamo infatti, che nel posteriore svolgimento della procedura esecu tiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso della pa rola continuò sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i beni del debitore, fu invece il ius honorarium , il quale soltanto molto più tardi riusci ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che costituivano il patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è abbastanza comprovata dalle atte stazioni di Gaio . Questi infatti, parlando delle legis actiones, ci fa assistere allo svolgimento storico della manus iniectio nel diritto civile di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus iniectio iudicati, altre leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu dicato , ed altre abbiano poi dato occasione ad una manus iniectio pura, la quale, a differenza delle altre due , non impediva che il debitore potesse manum a se depellere et lege agere pro se, senza ricorrere all'opera di un vindex . Posteriormente poi una legge Vallia avrebbe ristretto di nuovo i casi, in cui non potevasi manum de pellere e pro se lege agere, a quei due, che primierano stati in trodotti, in cui si agiva o in base a un giudicato , o contro una per sona per cui altri aveva dovuto pagare qual sicurtà : del che, secondo Gaio rimase una traccia anche dopo l'abolizione delle legis actiones in ciò , che anche ai suoi tempi colui, col quale si agisce in base a un giudicato o per aver pagato per esso, « iudicatum solvi satisdare cogitur » ( 1). Lo stesso Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice altrove , che l'introduzione della bonorum venditio soleva essere attribuita a Publio Rutilio , il quale dovette essere Pretore nel 647 di Roma, e noi sappiamo, che è appunto con questa bonorum venditio , che si introdusse in Roma un concorso fra i creditori, non dissimile da quello , che ora ha luogo nella procedura per fallimento (2 ). Fu solo più tardi, che anche il diritto civile , per mezzo della lex Iulia de (1) Gaio, IV , 21 a 25. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua esposizione della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni del debitore . (2 ) Gaio, IV , 35. Quanto a questa procedura contro i beni , vedi KELLER , Iі processo civ . rom ., $ 83, pag. 307 e segg., e quanto alle analogie, che questo con corso dei creditori presenta col fallimento, cfr . Montluc, La faillite chez les Romains. - - - 585 cessione bonorum , accordo al debitore il mezzo di evitare l'esecu zione personale , ricorrendo alla cessio bonorum : ma anche allora questa cessio bonorum dovette essere consentita dallo stesso debi tore , e costitui in certo modo un benefizio , che gli venne accordato per cansare la esecuzione personale e per evitare anche l'infamia , da cui questa era accompagnata . Quindi neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione contro la persona, ma piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso, essendosi introdotto un mezzo per liberarsi da essa . 447. Parmi poi, che questa preferenza indiscutibile del ius qui ritium per la esecuzione contro la persona del debitore, anzichè contro i beni spettanti al medesimo, sia stata eziandio la ragione, per cui si mantenne in così ristretti confini l'applicazione della pi gnoris capio. Essa infatti si ridusse ad essere un privilegio per crediti di origine militare (aes militare, hordearium , equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo di un hostia e il nolo di giumento allo scopo di un sacrificio , in dapem ). Un solo caso di pignoris capio lascið traccie durature nella storia delle istituzioni giuridiche, e fu quello introdotto da una lex praediatoria o cen soria , a favore degli appaltatori delle imposte, sui fondi che erano gra vati dalle medesime : privilegio di carattere fiscale, che ha un'ana logia incontrastabile col privilegio generale sugli immobili, che ancora oggidi spetta al fisco per le imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto , che nel diritto primitivo di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie obliga zioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal pretore . Che anzi è degno di nota , che anche questa procedura sembra negli inizii essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto , che noi la troviamo descritta dapprima nella lex Rubria de Gallia Cisalpina ( 1). Una ragione di questa preferenza (1) Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione contro i beni, vedi eziandio LENEL, das Edictum perpetuum , pag. 340. La lex Rubria , XXII , 25 (Bruns, Fontes, pag. 99 ) attribuisce la facoltà di accordare questa missio in bona al solo pretore della città di Roma, come lo dimostrano le seguenti parole della legge « Praetor , « isve qui de eis rebus Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius de « eius rebus omnibus ius deiicito , decernito, eosque dari bona eorum , possideri, « proscribique venire iubeto, etc. » Cfr. WLASSAK, Röm . Processegesetze, pag. 94 e segg. 586 dell'antico diritto per la persona, anzichè per i beni del debitore, non potrebbe essa trovarsi nella considerazione, che tutto il primitivo ius quiritium ebbe ad essere modellato sul concetto fondamentale del quirite, in quanto era considerato come una individualità integra e completa sotto l'aspetto giuridico , la cui parola dava origine al nexum , e la cui volontà costituiva una legge , cosi nei negozii tra vivi come nel testamento ? Non abbiamo anche in questo una conse guenza dal punto speciale di vista , a cui eransi collocati i model latori dell'antico diritto ? § 4 . Alcune considerazioni sulla influenza delle legis actiones sulla formazione del diritto civile romano . 448. Basta ora ricomporre insieme queste varie parti della pro cedura romana e metterle in movimento ed in azione, per compren dere come il sistema delle legis actiones , anzichè essere , come vorrebbero taluni, un complesso di solennità , escogitate dallo spirito sottile e formalista dei Romani, sia stato invece il mezzo più po tente ed efficace ,mediante cui venne preparandosi l'elaborazione del diritto civile romano. Le legis actiones furono, per cosi esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del fatto umano potè essere isolata da tutti gli elementi estranei, ed essere ridotta cosi a quello stato di purezza , che solo si rinviene negli scritti dei giureconsulti romani. Siccome infatti ogni diritto , per poter affermarsi in giudizio, doveva passare per lo strettoio della legis actio : cosi ne veniva , che con questo sistema prima i pontefici nel modellare le legis actiones ; poscia le parti nell'adattare alle medesime la loro controversia ; quindi il magistrato nel determinare i termini, in cui tale contro versia dovesse essere giuridicamente concepita ; infine i giudici, che dovevano di necessità restringere la loro decisione al punto di que stione che era loro sottoposto , attendevano tutti ad un medesimo lavoro , che era quello di spogliare una fattispecie da ogni elemento etico o religioso, con cui si trovasse implicata , per ridurla ad una configurazione e ad una formola esclusivamente giuridica . Siccome poi i giudici della controversia , o erano tolti dalle varie classi o tribù, come i centumviri e forse anche i decemviri, o scelti nel l'ordine dei senatori, come i iudices selecti, o convenuti fra le parti, come gli arbitri, od anche scelti in parte fra i peregrini, come i 587 recuperatores: cosi ne veniva, che l'elaborazione del diritto in Roma era un'opera collettiva, a cui concorrevano tutti gli ordini e tutte le classi, e che poteva perfino sentire l'influenza del diritto e della procedura , che applicavasi dei rapporti fra i cittadini e gli stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro era unificato e coordinato per opera del magistrato , che sovraintendeva all'amministrazione della giustizia , ed era poi assecondato dall'opera dei giureconsulti , che venivano racchiudendo in formole la varietà grandissima dei negozii giuridici ; cosi ne venne, che in Roma fin dai suoi inizii si trovo sapientemente organizzato un sistema di mezzi, il quale mirava ad isolare l'elemento giuridico del fatto umano dagli elementi estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in forme determinate e pre cise, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e generali. Fu in questo modo, che poterono scomparire i conten denti e si sostituirono ai medesimi dei nomi convenzionali ( Aulus Agerius e Numerius Negidius nelle formole processuali, Titius, Caius, Sempronius, etc. in quelle contrattuali) ; che le contro versie particolari furono tutte richiamate a certe forme generali ; e che intanto i concetti primordiali , da cui aveva preso le mosse il diritto privato di Roma, poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a tutte le conseguenze, di cui erano capaci. Fu quindi sopratutto in Roma, che il diritto potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo, un elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e varia ad un tempo, la quale obbedì costantemente a quei processi, i quali, applicati prima dai pontefici, passarono poscia al pretore ed ai giureconsulti, e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi imperatori. Per tal modo quel lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante le leggi, le quali, trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne avevano ricavato un diritto tipico , esclusivamente proprio dei qui riti, e perciò chiamato ius quiritium , venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della legge e nell'amministrazione della giustizia , le quali si sforzarono dapprima di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse , allorchè esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di provvedere. Per tal modo il ius quiritium si allargd ed amplid nel ius proprium civium romanorum ; poscia accanto a questo venne svolgendosi il ius honorarium , il quale pur derogando al 588 ius civile ed assimilando nuovi elementi, li forza tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate dal ius civile. È in questa guisa , che il diritto romano, dopo essere stato la selezione più rigida dell'elemento esclusivamente giuridico, che presentila storia , ed essere stato una produzione esclusivamente propria del popolo romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le considera zioni di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma, finchè non diventò tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano somministrato i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è anzi probabile, che i principii di questa grande opera di selezione fossero dapprima inconsapevoli, come gli inizii di tutte le opere umane, e fossero determinati dal modo di formazione della città , e dal genio eminentemente giuridico dei fondatori di essa ; ma egli è certo eziandio , che essa non tardd a cambiarsi ben presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita per più di dodici secoli con una perseveranza tenace, di cui non potrebbesi tro vare esempio, salvo forse nella storia delle grandi religioni della umanità . Così, ad esempio, dell'importanza delle legis actiones già dovette aver consapevolezza il patriziato romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il proprio diritto , continud tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici la formazione delle legis actiones, e la cambiò in un segreto di professione e di casta ; come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come lo dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione, avrebbe resa di pubblica ragione le primitive legis actiones (1 ) 449. Questa influenza poi del sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè l'abolizione delle legis actiones e l'intro duzione del sistema delle formole attribui da una parte almagistrato libertà maggiore nella concezione giuridica delle varie fattispecie , e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre nuove azioni, accanto a quelle, che si fondavano direttamente sui termini della legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si (1) Pomp., Leg. 2 , § 7, Dig . (1, 2 ); Liv. IX , 46. Secondo la tradizione, Gneo Flavio sarebbe stato dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità di tribuno della plebe, di senatore e di edile curule. 589 trovò eziandio nella necessità di edicere, ossia di pubblicare, entrando in ufficio, le norme, che avrebbe applicate nell'amministrazione della giustizia ; che accanto ai iudicia legitima si svolsero quelli imperio continentia ; che , accanto alle actiones legitimae, quae ipso iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, quae a praetore dantur. Da quel momento il pretore potè essere considerato come una lex loquens, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano nell'amministrazione della giustizia ( 1) . Tuttavia l'abolizione delle legis actiones e la sostituzione del sistema delle formulae debbono essere intese alla romana , il che vuol dire, che l'abolizione è soltanto parziale e non impedisce la sopravvivenza dell'actio sacramento , come preliminare del centum . virale iudicium e di quello damni infecti nomine, al modo stesso che l'introduzione delle formulae, anzichè una rivoluzione, è piut tosto il riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una pratica, che doveva già essersi prima introdotta nel fatto. È infatti proba bile, che il sistema delle formulae già potesse esser applicato nella procedura inter cives et peregrinos , nella quale non potevano essere applicate le legis actiones , e che in tal guisa una procedura propria della recuperatio sia penetrata nel ius proprium civium ro manorum , almodo stesso , che più tardi l'actio sacramento potè ezian dio essere proposta davanti al praetor peregrinus (2 ). Che anzi, per esprimere tutto il mio pensiero, riterrei, che il sistema delle formole fosse in certa guisa già contenuto in germe nel sistema delle legis actiones . A quel modo, che la stipulatio riducesi in sostanza alla parte nuncupativa del nexum , la quale , liberata dalla solennità del l'atto per aes et libram , potè essere adattata alla varietà dei negozii ( 1) Gaio, IV , 11, dice espressamente, che, negli esordii di questo sistema di pro cedura, edicta praetorum nondum in usu habebantur. Era quindi naturale, che quando questi furono introdotti, accanto a quella parte di diritto , che fondavasi direttamente sulla legge, e che perciò dava origine alle denominazioni di actus legi timi, actiones legitimae, iudicia legitima, si svolgesse un diritto, che fondavasi in certo modo sull'autorità del magistrato, e che, come tale, imperio continebatur, il quale finì poi per essere compreso sotto il nome di ius honorarium . È poi Cic., pro Cluentio, $ 3, 146 , il quale ebbe a dire, che siccome le leggi sono al disopra del magistrato, e questo è al disopra del popolo, « vere dici potest magistratum legem esse loquentem ; legem mutum magistratum . » . Quanto ai concetti di actio legi tima e di iudicium legitimum , vedi WLASSAK, op. cit ., $$ 3 a 5 , pag. 31 e 57. ( 2) Sall'influenza del praetor peregrinus e dell'edictum provinciale sul sistema delle formulae, v. Glasson, Étude sur Gajus, $ 12 , pag. 112. -. 590 giuridici: così la formola consiste essenzialmente in quei concepta verba , che già occorrevano nella legis actio , salvo che questa verborum conceptio , liberata dalla parte mimica , da cui era ac compagnata, e da quel rigore di termini (certis verbis), che era propria delle legis actio , potè acquistare una duttilità e pieghevo lezza, che la prima non poteva avere. Noi trovammo infatti , che già sotto la veste ferrea delle legis actiones, ogni modus agendi aveva finito per abbracciare diverse azioni particolari, e che queste azioni già avevano cominciato a distinguersi nelle actiones in rem in quelle in personam , in quelle, che avevano per oggetto un certum od un incertum , e in quelle , che davano origine ad un iudicium o ad un arbitrium . Or bene tutti questi materiali, che ancora erano riuniti nella sintesi potente della legis actio , si trovarono in certo modo abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante azioni, autonome ed indipendenti, aventi un nome specifico , una propria formola ed un proprio contenuto , e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento sviluppo, che ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della formola , che sarebbe stata peri colosa negli inizii della elaborazione giuridica , venne invece ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed abbastanza pro gredita ; poichè le prime formole, essendo state preparate sotto la rigida disciplina delle legis actiones e del ius pontificium , indica vano abbastanza la via , in cui doveva mettersi il magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la ragione, per cui i pretori, malgrado la libertà apparente, che loro appartiene, sia di introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già ricevute , procedono in cið molto a rilento , ed amano piuttosto di ricorrere a finzioni e di forzare cosi fatti ad entrare nelle forme ricono . sciute dal diritto, che non di alterare le forme, che già furono ac colte dal diritto civile . Per tal modo il nuovo trova sempre un addentellato nell'antico , anche allorchè mira ad introdurre una modificazione al medesimo, e intanto ciò non impedisce , che una parte di quel diritto, che viveva fluttuante pelle consuetudini, ac canto al vero ius civile , si venisse ancor esso consolidando sotto forma di un ius honorarium , che è pur sempre modellato sul primo. Così pure, nella opera progressiva dei pretori succedentisi gli uni agli altri, potè manifestarsi uno spirito di continuità, per cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente da alcuno di essi finirono per costituire un ius translaticium , che passava ai succes sori, e serviva cosi a preparare i materiali, che raccolti e coordi 591 nati costituirono poi l'Editto perpetuo di Salvio Giuliano. In questa condizione di cose appare ad evidenza l'importanza del sistema delle azioni, poichè ogni progresso pratico della giurisprudenza romana viene ad esser introdotto , o per mezzo di una nuova azione, che tuteli un diritto prima non riconosciuto, o per mezzo di una ecce zione, che neutralizzi l'effetto di un'azione già riconosciuta dal diritto civile . Allorchè poi un'azione è accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene ad essere come un centro, intorno a cui si moltiplicano le formole per abbracciare l'infinita varietà delle fattispecie, finchè si giunge a quella ricchezza di formole , a cui accenna Cicerone, allorchè scrive : « sunt formulae de omnibus rebus constitutae, ne quis aut in genere iniuriae aut in ratione actionis errare possit : expressae sunt enim , ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo, calamitate, iniuria , publicae a praetore formulae, ad quas privata lis accomodatur » (1). Le formole pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a compiere quel lavoro di selezione, che già erasi iniziato sotto l'impero delle legis actiones. Esse si accomoda rono alle varie fattispecie ; isolarono l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, gli elementi essenziali del fatto umano dalle cir costanze accidentali : accolsero quelle aggiunte , che erano rese ne cessarie dalla maggiore varietà dei negozii; riassunsero le varie fasi della controversia in guisa da presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio . Queste formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla pro cedura: ma all'epoca stessa , in cui penetrarono in questa , si vennero eziandio esplicando nei contratti , nei testamenti , nei legati , e in ogni altra parte del diritto civile romano, e vi portarono cosi dap pertutto l'esattezza e la precisione del linguaggio giuridico , non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà infinita dei ne gozii giuridici (2 ). È quindi facile il comprendere come pontefici , pretori e giureconsulti, non abbiano creduto indegno del loro ufficio l'attendere alla composizione delle formole, e come bene spesso l'in venzione di una formola abbia reso celebre e tramandato fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto . Basta perciò aver presente l'importanza grandissima e la larghissima applicazione, che ( 1) Cic, Pro Roscio, 4 , 5 a 9. Cfr. WLASSAK, op . cit ., pag. 67. (2 ) Occorrono delle notevoli osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile romano presso il LABBÉ, Préface all'ultima edizione da lui curata dell'Or TOLAN , Explication historique des Institutes de Justinien , Paris 1883, pag. vii e segg . - 592 ricevettero le clausole « ex fide bona » « quando aequiusmelius » « ne propter te fidemve tuam fraudatus siem », le formole aquiliane de dolo malo ed altre, che sarebbe lungo ricordare; le quali ser virono a far penetrare nel diritto la considerazione dell'equità e della buona fede , e a dare forma concreta e pratica applicazione alle lente mutazioni, che si venivano operando nella coscienza giu ridica del popolo romano. Era infatti per mezzo di una piccola ag giunta in una formola contrattuale e giudiziaria , che le aspirazioni latenti della coscienza giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il diritto fluttuante nelle consuetudini veniva ad ot tenere la tutela e la sanzione dell'autorità giudiziaria (1). 450. Quest'ultima considerazione intanto mi porge opportunità di conchiudere questa trattazione, spiegando un carattere del tutto peculiare della giurisprudenza romana. Credo che questo tentativo di ricostruzione del primitivo ius qui ritium abbia quanto meno dimostrato , che il diritto civile romano, anzichè essere stato il frutto di una incorporazione qualsiasi di con . suetudini preesistenti, operatasi a caso e lasciata in balia delle cir costanze, fu invece governato , fin dai proprii inizii, da una logica fondamentale , che non venne mai meno a se stessa . Esso può es sere paragonato ad un lavoro lento di cristallizzazione, in virtù di cui gli elementi affini, fluttuanti in un liquido, cominciano dal pre cipitarsi a poco a poco, e poi si compongono insieme, atteggiandosi costantemente a quelle forme tipiche, che sono imposte dalla legge, che ne governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni dubbio, vuolsi però anche ammettere , che questa dialettica fondamentale , la quale regge tutta la formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo essere dissimulata nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere, per quel poco che a noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come autonomi ed indipendenti gli uni dagli altri, go ( 1) Questa importanza delle formole appare sopratutto nelle formole processuali, poichè ogni progresso nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo le traccie nella composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ebbi ad espri mere, molti anni or sono, in un breve lavoro « De exceptionibus in iure romano, Torino 1873, pag . 13 , colle seguenti parole : « neque vereor dicere, omnia quae in < iudiciorum ordine, progressione temporum et seculorum elaboratione, invecta fue « runt ad corrigendam , producendam , emendandam et adiuvandam antiquissimi iuris « formulam quodammodo adhibita fuisse » . 593 vernati ciascuno da una propria logica, senza che più si scorgano le commettiture, che possono stringere un istituto cogli altri. Vero è , che considerando attentamente il formarsi di ogni singolo istituto, facilmente si riconosce la mano di artefici, educati tutti alla medesima scuola, cosicchè i varii istituti si possono paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla stessa forma: ma intanto più non si scorgono le traccie della legge, che ne governd la formazione. Era questo disordine apparente degli scritti dei giureconsulti, che tornava grave alla mente filosofica ed ordinata di Cicerone, il quale perciò giunse fino a dire, che i primigrandimaestri avevano cercato didissimulare la propria arte (1); ma se questo potè forse esser vero, finchè la scienza del diritto fu un monopolio delle genti patrizie , o meglio dei pon tefici, custodi delle loro tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in cui la casa del giureconsulto fu aperta a tutti coloro , che volevano consultarlo , e anche i plebei furono ammessi al collegio dei pontefici e a professare giurisprudenza . Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere transitorio , che vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione , che presenta l'elabo razione della giurisprudenza romana, ma piuttosto nel modo, in cui venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa . A questo riguardo vuolsi aver presente , che i modellatori del pri mitivo diritto di Roma (veteres iuris conditores ) non ebbero mai in animo di insegnare una scienza , ma piuttosto di professare un'arte (iuris prudentia), che formò solo più tardi argomento di scienza . Essi quindi, nei loro scritti , non intesero punto di soddisfare alle esigenze didattiche, nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio della scienza : ma si proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze pratiche, poichè erano i casi, che si venivano presentando , che loro offrivano occasione di applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella pratica era l' actio, che predominava , poichè era con essa, che il diritto sperimentava se stesso ; così ne venne, che dap prima furono le legis actiones, che costituirono il punto di richiamo dell'elaborazione giuridica , e determinarono l'ordine, a cui la medesima venne obbedendo. Quando poi la sintesi potente della legis actio venne ad essere disciolta , e pullularono così azioni e formole, molteplici e svariate, aventi ciascuna una propria vita ed una propria funzione nella formazione dei negozii e nell'ammini strazione della giustizia, furono eziandio le actiones, gli interdicta , (1) Cic., De orat., I. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 88 594 le exceptiones e simili, che costituirono il punto centrale , intorno a cui dovette appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è , che essi, per quanto ubbidissero ad una dialettica fondamentale , trascurarono naturalmente di far scorgere i fili, che componevano la trama; co sicchè i loro scritti appariscono come a frammenti, e ravvicinano istituti, che non hanno attinenza, disgiungendone altri, che sono in vece strettamente affini fra di loro (1). Di qui la conseguenza , che la costruzione giuridica romana non seguì il processo dei concetti fondamentali, da cui partiva, ma venne seguendo invece l'ordine prima delle XII Tavole, e poscia dell'Editto . Nè questo disordine apparente poteva recare imbarazzo agli esperti, perchè l'arte in essi era viva e feconda ; ma poteva invece riuscire grave agli altri, i quali, come Cicerone, cercavano di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo mentale diverso . Fu soltanto , allorchè la ricchezza dei materiali cominciò ad ingom brare il campo, che si senti il bisogno di introdurre distinzioni siste matiche, ma anche queste distinzioni non compariscono nelle opere di costruzione giuridica propriamente detta , quali sono quelle dei elassici giureconsulti, ma soltanto nelle opere di carattere didattico ; donde la spiegazione dell'ordine diverso , che occorre nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e nelle Pandette . Siccome poi anche l'or dine sistematico, introdotto nelle Istituzioni, aveva naturalmente lo scopo pratico di coordinare la giurisprudenza romana nello stato in cui si trovava, anzichè di fare assistere alla formazione progressiva di essa ; cosi ne viene, che anche le distinzioni, che occorrono in Gaio ed in Giustiniano, dånno talvolta come contemporanei degli istituti, che possono avere avuto origine in epoca compiutamente di. versa . Ne consegui, che la giurisprudenza romana, quale a noi per venne, colle sue proporzioni armoniche e colla coerenza delle sue varie parti, cela in certo modo la trasformazione lenta e graduata , che venne operandosi in essa , e la dialettica, che ne governò la for (1) Ciò appare sopratutto nelle Receptae sententiae di Paolo. Questo apparente disordine invece è alquanto minore nei cosidetti Fragmenta di Ulpiano, in quanto che questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo l'ordine dei Commentarii di Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi altrove qualche aggiunta , che al tera talvolta le armoniche proporzioni dei Commentarii di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del giureconsulto, saranno sempre un mo dello di ordinamento sistematico, fatto in un intento didattico. Cfr. Huschke, Jurisp . antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere sopra citate dei giureconsulti. 595 - mazione; ma ciò punto non impedisce, che, penetrando sotto la scorza di essa , tosto si incontrino le traccie di materiali e di ruderi, che appartengono a sorgenti e ad epoche diverse , e rivelano cosi al l'investigatore i diversi periodi e momenti, per cui passd la lenta e graduata formazione della legislazione romana. Giunto al termine di questo faticoso lavoro di ricostruzione , ri tengo opportuno di riassumere a grandi linee quelli fra i risultati a cui sono pervenuto , che possono cambiare in qualche parte il modo comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di Roma, nel l'intento sopratutto di porre in evidenza quella mirabile coerenza organica , che sempre si mantenne nello svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. CONCLUSIONE. Allorchè le genti italiche si sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate sopra quel suolo , che più tardi fu denominato italico, dovette avverarsi un periodo di forza e di violenza , non dissimile da quello, che si avvero più tardi all'epoca delle invasioni barbariche, ed il maggior bisogno , che dovette sentirsi allora dai vincitori e dai vinti, fu quello di uscire da quello stato di privata violenza. Fu allora , che le genti sopravvenute , memori forse delle tradizioni, che portavano dall'antico Oriente, irrigidirono la propria organizzazione gentilizia , cercando di attirare nella medesima anche le popolazioni dei vinti, e costituirono così l'aristocrazia territoriale dei patres, dei patroni, dei patricii, mentre i vinti furono orga nizzati nella classe inferiore dei servi , dei clienti , e infine dei plebei. Questa organizzazione, malgrado le differenze nei particolari, assunse pressochè dapertutto un carattere uniforme, non dissimile da quello dell'organizzazione feudale nel Medio Evo : essa venne cosi ad essere composta di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme dal vincolo di discendenza reale o fittizia da un medesimo antenato , le quali risiedevano rispettivamente nella domus, nel vicus e nel pagus , mentre il territorio da esse occupato era ripartito in heredia , in agri gentilicii, e in compascua. Fu a questo stadio del proprio svolgimento, che le genti italiche 596 presero tutte a travagliarsi intorno alla grande opera del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città . Questa ebbe sopratutto lo scopo di assicurare la comune difesa e di fortificarsi nelle lotte pres sochè quotidiane fra i varii gruppi. La città cominciò dall'essere un sito fortificato (arx , oppidum , capitolium ) per servire di rifugio in caso di pericolo ; poi diventò un sito per il mercato (forum ) e un luogo di riunione dei capi di famiglia delle varie comunanze confederate per la trattazione degli affari comuni (conciliabulum , comitium ); fu posta sotto la protezione di una divinità , comune patrona; finchè da ultimo sotto la protezione della comune fortezza cominciarono eziandio a costruirsi le abitazioni private. Non tutte le stirpi però erano pervenute al medesimo stadio di svolgimento , nè tutte avevano seguito il medesimo indirizzo nella formazione della città . Mentre gli Umbro -Sabelli aderivano ancora strettamente alla organizzazione gentilizia, e gli Etruschi erano già pervenuti alla città chiusa e fortificata , i Latini invece si trovavano in uno stato in termedio : essi erano pervenuti alla città di carattere federale, con siderata come un centro della vita pubblica per varie comunanze di villagio . È al buon seme Latino, che deve attribuirsi l'origine del grande nome di Roma. Essa cominciò dall'essere lo stabilimento fortificato di un nucleo di uomini forti ed armati (viri, quirites), staccatisi dalla città di Alba per cercare altrove sorti migliori, secondo una consuetudine comune delle genti primitive, fidenti sopratutto nella forza del proprio braccio, ma non immemori delle tradizioni proprie della stirpe, a cui appartenevano. Le lotte di questo nucleo di uo mini di arme, stabilitosi sul Palatino, i quali, senza essere ancora veri capi di famiglia , tendevano a diventarlo, colle comunanze di villagio stabilite sulle alture circostanti dell'antico Septimontium , lo condussero prima alla comunanza dei connubii e in seguito alla confederazione colle medesime. Da quel momento Roma primitiva nella sua progressiva formazione percorse due periodi compiutamente distinti, cioè : il periodo della città federale, in cui essa è una città esclusivamente patrizia , ed è un centro di vita pubblica fra varie comunanze gentilizie : e quello in cui la città esclusivamente patrizia associasi anche la plebe cir costante, già pervenuta ad una certa agiatezza , nell'intento sopra tutto di provvedere alla comune difesa , e chiude nelle proprie mura le primitive comunanze di villagio , che entravano a costituirla . 597 Nel primo periodo i cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie, confederati in uno scopo di comune difesa , e la loro città , posta nel centro delle varie comunanze di villaggio, ri specchia in se medesima le istituzioni dell'organizzazione gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia le abitazioni e i vil laggi, collocati sulle alture, che lo circondano . Essi infatti trapian tano nella città , centro della loro vita pubblica , le proprie istituzioni gentilizie , salvo che le medesime, assumendo un intento essenzial mente civile, politico e militare, cominciano a perdere alquanto il proprio carattere patriarcale , e ricevono cosi uno svolgimento com piutamente diverso . La città esce cosi dalla confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia (patres ) e dei loro discendenti (pa tricii) : ma intanto assume un carattere religioso, politico e militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla sua formazione. Sono i pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e religiose ad un tempo ; gli auguri, che modellano gli auspicia publica sugli auspicia , a cui già ricorrevano i capi di famiglia o delle genti ; i feziali , che serbano le tradizioni relative ai rapporti fra le varie genti. In questo periodo la città servi ad operare la selezione della vita pubblica , che cominciò a spiegarsi nella città , dalla vita dome stica e patriarcale, che continuò a svolgersi nelle varie comunanze di villaggio . L'urbs infatti designa l'orbita sacra , in cui trovansi riuniti gli edifizii aventi pubblica destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di Vesta e la domus regia ; la civitas non com prende ancora i rapporti di carattere privato , ma quelli soltanto che si riferiscono alla vita civile , politica e militare : il populus non comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della me desima, che possa giovare alla res publica col braccio (iuniores ) o col consiglio (seniores). Per tal modo il grande intento della città in questo periodo fu quello di sceverare la vita pubblica dalla privata (publica pri vatis secernere), di modellare il concetto della res publica , in quanto essa ha un'esistenza distinta dalla res familiaris, e di ar chitettarne la costituzione politica , la quale venne cosi ad uscire dal concorso di tutti gli elementi, che entravano a costituirla. La sorgente della pubblica potestà risiede quindi nel populus ; ma in tanto la parte dovuta all'età e all'esperienza nel provvedere all'in teresse comune viene ad essere rappresentata dal senatus , che è già elettivo ed è nominato dal rex ; il quale alla sua volta è l'eletto del populus e unifica in se medesimo l'imperium , che il medesimo 598 gli conferisce . Tutto cid , che riguarda l'interesse comune, deve essere deliberato col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re, appoggiato dal senato, votato dal popolo ; cosicchè la legge assume la forma di una pubblica stipulazione (communis reipublicae sponsio ). Per quello invece , che si riferisce alla vita domestica e privata (res familiaris), essa continua a svolgersi nel seno della domus, del vicus, del pagus, sotto la potestà dei capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie terre sotto la forma collettiva di agri gentilicii e di compascua, soli eccettuati gli heredia , assegnati dalla gens od anche dal re , i quali appariscono intestati ai singoli capi di famiglia . Anche la repressione dei delitti continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale , e le pene conservano quel carattere religioso , che avevano nel periodo gentilizio : solo assumono carattere di delitti pubblici, e sono sotto posti alla giurisdizione del re, temperata dalla provocatio ad po pulum , il parricidium e la perduellio , di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato politico. Quanto al diritto privato , esso continua in gran parte ad essere governato dal costume (mos ), il quale appare ancora circondato da un ' aureola religiosa ( fas) ; cid tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le tradizioni preesistenti già ve ne siano di quelle , che vengono sanzionate da una lex publica , la quale è preparata dai pontefici, proposta dal re e votata dal popolo ; donde la formazione delle leges regiae, nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche ser bano ancora quel carattere religioso , che era proprio delle istitu zioni delle genti patrizie . Nel frattempo quell'elemento plebeo , la cui formazione già erasi iniziata nelle stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo incremento collo svolgersi della città ; poichè, esso trovasi accresciuto dalle popolazioni conquistate e da coloro che, spostati nell'orga nizzazione gentilizia , vengono a stanziarsi nel territorio circostante alla città. Questa moltitudine, che per essere composta di elementi di provenienza diversa e per difetto di organizzazione chiamasi plebes, non entra ancora a formare il populus, nè è ammessa alle curiae della città patrizia , ma abita nelle circostanze di essa , e tiene cosi una posizione più di fatto che di diritto . Ai plebei, che la compon gono, solo dovette essere accordato, negli ultimi tempi della città esclusivamente patrizia , il ius nexi, ossia il diritto di contrarre dei prestiti, vincolando direttamente la propria persona, e il ius man 599 cipii, ossia il diritto di ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi erano stanziati colle proprie famiglie . È sotto l'influenza etrusca , che la città comincia a prepararsi ad un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata nelle proprie mura, il che però non toglie, che essa continui ancor sempre ad essere un centro di vita pubblica per le comunanze e le famiglie , che trovansi stanziate nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium della città . La trasformazione , iniziata da Tarquinio Prisco , si compie , allorchè con Servio Tullio la città viene a com prendere nella propria cerchia non solo gli edifizii pubblici, ma anche le abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene a formarsi accanto ai patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii e di plebei, ripartito in classi ed in centurie, di carattere essenzialmente militare, i cui membri hanno i loro diritti ed ob blighi civili, politici e militari determinati sulla base del censo . Da questo momento quel dualismo, che esisteva negli elementi, che entra vano a partecipare alla medesima città, penetra eziandio nelle istitu zioni politiche di Roma. Per tal modo accanto ai veri magistrati del popolo, comparvero i tribuni della plebe ; accanto ai comizii delle curie e delle centurie si formarono i concilia plebis, i quali col tempo si trasformarono in comizii tributi ; e da ultimo accanto alle leges si svolsero i plebiscita . Di qui lotte , che condussero a svol gere e in parte anche a modificare i concetti fondamentali, che servivano di base alla costituzione primitiva di Roma. Intanto la città si è ingrandita ; nelle suemura non si esplica più soltanto la vita pubblica , ma anche la vita domestica e privata : quindi la grande opera , che si inizia in questo periodo , viene ad es. sere la formazione di un diritto privato, comune ai due ordini, e la creazione di quell'arte, in cui i romani dovevano essere maestri al mondo, cioè dell' « ars iura condendi» . Gli elementi, che dovevano convivere sotto la protezione di un comune diritto, erano due, cioè : il patriziato ,onusto di tradizionireligiose, giuridiche e poli tiche, e la plebe la quale era un agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita civile e politica. Quello aveva l'organizza zione gentilizia fondata sul vincolo civile dell' agnazione, e questa non conosceva che la famiglia, stretta insieme dal vincolo naturale della cognazione ; quella aveva tante forme di proprietà , quante erano le gradazioni dell'organizzazione gentilizia , e questa non aveva in certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stan 600 ziata (mancipium ) ; quello aveva il fas, il ius, l'imperium , gli auspicia , i mores veterum , mentre questa non conosceva che l'usus auctoritas. Fu la distanza stessa, a cui trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo di sentire e di pensare compiuta mente diverso , in fatto di religione e dimorale, che resero necessaria la elaborazione di un diritto , comune ai due ordini, il quale facesse compiutamente astrazione dalla religione e dalla morale. Cosi pure è questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza dei risultati a cui essa pervenne , poichè la medesima dovette prendere le mosse dalle istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi a poco a poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun elemento continud ad atte nersi alle proprie consuetudini e costumanze ; ma la convivenza dei due ordini nelle stesse mura e l'attrito dei quotidianiinteressi finirono per determinare una specie di precipitazione delmateriale giuridico , fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (mores veterum ), o di costumanze della plebe (usus). Si iniziò così la più mirabile se lezione dell'elemento giuridico dagli elementi affini, con cui trovasi implicato, che siasi mai avverata nella storia dell'umanità ; selezione, che da una parte obbedisce a leggi naturali di formazione, e dal l'altra è già l'opera di una elaborazione, per parte sopratutto dei pontefici, i quali, essendo i custodi delle tradizioni delle genti pa trizie, già erano in possesso di una vera tecnica giuridica . Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il con cetto del quirite,ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e pro prietario di terre, quale appunto compariva nel censo . Il quirite viene cosi ad essere una realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un soldato ed un agricoltore ad un tempo ; ed il punto di vista , sotto cui si riguardano i quiriti nei reciproci rapporti, essendo determinato dal censo, viene ad essere quello delmio e del tuo. Di qui consegue, che per essi ogninegozio riducesi ad un trapasso dal mio al tuo, simboleggiato nell'atto per aes et libram , e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una specie di combattimento e di reci proca scommessa . Questo diritto , costituendo un privilegio dei qui riti, viene ad essere denominato ius quiritium ; i suoi concetti fonda mentali sono quelli vasti e comprensividi caput, manus,mancipium , commercium , connubium ed actio ; esso costituisce in certo modo l'ossatura rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo nucleo , che si vien precipitando e consoli 601 dando, si mantengono ancora sempre, allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei patres, quanto gli usi della plebe; così il primitivo ius quiritium viene in certo modo attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che potevano avere qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il medesimo, arricchen dosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel ius pro prium civium romanorum , il quale può essere considerato come un proseguimento di quella selezione, che erasi già incominciata col ius quiritium . Sono le XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo ius civile : quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei varii elementi, che entrano a costituirlo . Infatti in qualsiasi istituzione di quel ius, che i giure consulti chiamano proprium civium romanorum , può scorgersi una formazione centrale, che è dovuta al ius quiritium , e due laterali, di cui una suole essere di origine patrizia , e l'altra di origine plebea . Così, ad esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la confarreatio di origine patrizia e dall'altra l'usus di origine plebea , mentre la coemptio sta nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiri taria ; fra le forme del testamento , le più antiche sono il testamento in calatis comitiis, propria del patriziato , e la mancipatio familiae cum fiducia , propria della plebe, le quali poi, pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento quiritario, che è quello per aes et libram ; infine, fra i modi di acquistare e trasmettere il dominio , il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario della manci patio , attorno a cui si vengono poi accogliendo l'in iure cessio e l'usucapio . Intanto perd questa selezione non si arresta ancora colla formazione di un ius civile, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il ius honorarium , il quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi , facendoli perd entrare in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate dal ius civile . È con questo meraviglioso processo , che il diritto privato di Roma, dopo aver cominciato dall'essere la selezione più rigida dell'elemento giuridico , che ricordi la storia , ed una produzione esclusivamente romana, venne a poco a poco attraendo nella propria orbita anche le considerazioni di equità e di buona fede, ed assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che si acconciavano alla logica fonda mentale , da cui era governato , finchè divenne poi tale da essere considerato come un diritto universale, e da poter essere accomu nato a tutte le genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui erasi 602 venuto elaborando. Il diritto romano riusci cosi ad essere una co struzione eminentemente dialettica , la quale riunisce da sè gli op posti ed i contrarii; esso è antico nei materiali, che lo compongono, nuovo per le applicazioni che se ne ricavano ; sotto un aspetto è sempre fisso e fermo nei proprii concetti, sotto un altro è sempre in via di formazione ; esso obbedisce ad una logica fondamentale , e intanto lascia che ogni istituto proceda per proprio conto e segna un proprio concetto ispiratore ; mentre è una produzione del tutto propria del genio romano, assimila in se stesso le istituzioni di tutte le genti ; è un'arte ed una scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce e si piega alle esigenze pratiche, appare informato , come ben diceva il giureconsulto , ad una vera e propria filosofia, la quale non si abbandona alle speculazioni ideali, mamedita sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza giuridica, la modella in con cezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le conseguenze, di cui possono essere capaci. È questo il motivo, per cui le costruzioni giuridiche dei giureconsulti romani saranno sempre dei modelli, che difficilmente potranno essere superati, poichè nella divisione di la voro, che si operò fra i popoli moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in questa parte le attitudini veramente mera vigliose dell'ingegno romano per l'elaborazione dell'elemento giu ridico, e nessuno parimenti, che possa aver l'occasione, il modo e il campo , che esso ebbe, per applicare la sua giurisprudenza alla immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare destino quello della città di Roma! Come le sue mura furono costrutte coi massi più solidi dell'epoca gentilizia ; così i concetti , che le servirono di base , furono la sintesi potente di tutto un periodo di umanità , le cui vestigia si vengono ora disco prendo nelle necropoli delle più antiche città italiche e nelle civiltà fossili dell'antico Oriente. Da questi ruderi di un periodo che può chia marsi preistorico , essa seppe ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo, che bastd ad organizzare il mondo per tutto un grande periodo di civiltà . Senza essere ricca di concetti proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia assimilatrice da fare entrare nei me desimi il lavoro di tutte le genti, con cui denne a trovarsi a con tatto . Senza abbandonarsi a speculazioni ideali, essa riusci ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, e a svolgerla in tutte le sue conseguenze con una logica inesorabile e tenace. Quando poi i concetti, che stavano a base della sua grandezza, furono anch'essi 603 esauriti, dalle loro macerie uscì ancora la grande idea della uma nità civile, e le sue leggi poterono servire come punto di partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le città dell'universo , pud personificare in se stessa quella legge di con tinuità, che unifica la storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella preistoria , e le nazionalità moderne furono preparate da essa ; essa fu l'erede e la raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio , e intanto pose le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci alla città eterna: quando si pretendeva di cambiarla in sede esclusiva del potere spirituale, essa seppe di nuovo rivivere alla vita civile: quando si credeva di riguardarla come una specie di museo del mondo civile, colle sole sue memorie essa cooperd a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi, che ora esistono in Roma, non ci debbono impaurire ; perchè Roma fu sempre la città dei dualismi. Punto non ripugna, che essa da una parte possa essere la sede del potere religioso , e che dall'altra sia la sede del governo civile ; già altra volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso dal civile (sacra profanis secernere). Non ri. pugna parimenti, che essa continui ad essere la città dei dotti e degli eruditi, e che intanto sia la capitale di un giovine stato ; essa ha tal copia di monumenti del passato da ricavarne la più splen dida passeggiata archeologica , e ha spazio che basta per fondare nuovi quartieri, che possano corrispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi bisogni. Ormai era tempo, che essa un'altra volta arric chisse il nucleo ristretto della sua popolazione, accordando nuova mente la sua cittadinanza alle popolazioni, che vi concorsero da ogni parte dell'Italia . Solo sarebbe a deplorarsi, che mentre il potere religioso cura te nacemente le proprie tradizioni, lo Stato invece non cercasse di far rivivere la tradizione civile e politica di Roma. Lasciamo ad altri di combattere l'influenza della romanità ; noi studiando fra i ruderi di Roma antica avremo nella grandezza del suo passato uno stimolo ed un incitamento per l'avvenire; nè sarà inutile , che il giovine regno cerchi di educare il suo senso politico e legislativo , studiando l'opera dei più grandi politici e legislatori del mondo. La storia ci vile e politica di Roma e quella del suo diritto non deve in Italia essere privilegio di dotti e di eruditi; ma deve essere parte dell'i struzione e dell'educazione civile e politica del popolo italiano. È solo in questo modo, che si spiega la falange di giovani studiosi, 604 che si precipito sopra questo patrimonio, che deve essere nostro , allorchè lo studio della storia del diritto romano fu opportunamente chiamato a far parte dell'insegnamento giuridico nelle Università italiane. Credo infatti di poter affermare, senza timore di essere con traddetto , che nessun nuovo insegnamento provocò nel nostro paese cosi largo movimento di studii, come lo dimostrano le pubblicazioni fattesi sull'argomento , gli istituti per lo studio del diritto romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso , con cui non solo l'Italia, ma tutto il mondo scientifico partecipa alla commemorazione solenne di quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul diritto ro mano poneva le fondamenta dell'illustre Ateneo di Bologna. L'im portanza dogmatica del diritto romano potrà forse diminuire colla pubblicazione del Codice Civile Germanico, il quale farà si che il diritto romano cessi di essere il diritto comune di un grande po polo ; ma la sua importanza storica verrà per cið stesso ad essere accresciuta , perchè si tratterà pur sempre di determinare la parte , che nelle moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in fluenza del diritto romano. Ne è da farsi illusione, che questo ge pere di studii possa ugualmente mantenersi fuori della cerchia delle Università ; poichè, tanto in Italia che in Germania , la scienza è nata e si è svolta nelle Università , ed è in esse, che deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È soltanto nelle Università , che la storia del diritto antico può cessare di occuparsi esclusivamente di minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un sistema di con cetti, che possa essere succo e sangue per la giovine generazione.

 

 

 

 Giuseppe Carle. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carle” – The Swimming-Pool Library.

 

CARLINI (Napoli). Filosofo. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even more,  but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza fu Gentile, conosciuto qualche anno prima, e Croce, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al Carlini, anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate e tradotte) cui fece seguito uno studio su Bovio che desta l'interesse di non pochi studiosi e l'approvazione di Gentile, considerato da Carlini suo tutore indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.  In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero immanentista gentiliano (Gentile fu, fino alla propria scomparsa, suo amico, oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia. Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani, raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist. Naz. di Cultura, ser. 4; 5); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura, 2); Il problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni); “La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” ( Bologna, Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. Armando Carlini. Keywords: Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library.

 

CARO (Roma). Filosofo. Grice: “Caro likes ‘interpretant,’ I spent various tutorials going through Aquino’s Commentarium’ on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were fascinated by the fact that while the Grecian hermeneias is figurative – after Hermes, some say – ‘inter-pretatio’ is not!” -- “I love Caro – he has philosophised on Davidson’s philosophising, notably Davidson’s idea of the interpretant, an idea Davidson borrowed – but never returned – from Peirce!” Insegna a Roma.  Si occupa di filosofia morale, di libero arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha difeso la teoria detta " naturalismo liberale", già oggetto di discussione nelle letteratura specialistica sull’argomento. È membro dei comitati scientifici delle riviste Rivista di Estetica  e Filosofia e questioni pubbliche. Collabora con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La Repubblica, La Stampa e il manifesto.  È stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA) dal  al . È vicepresidente della Consulta Nazionale di Filosofia. Ha condotto ZettelFilosofia in movimento, programma televisivo RAI dedicato alla filosofia.  L'asteroide 5329 Decaro è chiamato così in suo onore; “Dal punto di vista dell'interprete. La filosofia di Donald Davidson, Roma, Carocci); Il libero arbitrio, Roma-Bari, Laterza); Azione, Bologna, Il Mulino); La logica della libertà, Roma, Meltemi); Normatività, Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet); Scetticismo. Storia di una vicenda filosofica” ( Roma, Carocci). Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Torino, Codice). La filosofia analitica e le altre tradizioni (Roma, Carocci).  Bentornata Realtà: Il nuovo realismo (Torino, Einaudi, . Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società” (Torino, Codice, . Biografie convergenti: venti ircocervi filosofici, disegni di Guido Scarabottolo, Milano-Udine, Mimesis).  Cos’è il nuovo realismo [“What is the new realism”], Mimesis, Milano , forthcoming.2)    Azione [“Action”]  , Il Mulino, Bologna, 2008.3)    Il libero arbitrio. Un ’  introduzione [ “ Free Will. An Introduction ” ], Laterza, Roma-Bari,2004; second edition 2006; Third edition 2009; Fourth edition 2011.4)    Dal punto di vista de ll’int  erprete. Il pensiero di Donald Davidson [ “ From theInterpreter  s  Point of View. Donald Davidson  s Thoug ht”],  Carocci, Roma 1998   8 5)    Interpretazioni e cause [“Interpretations and Causes”]  , Doctoral dissertation, Università diRoma. Editor (with M. Mori - E. Spinelli) of  La libertà umana: storia di un’id  ea , Carocci,Roma, forthcoming.2)   Editor (with A. Lavazza  –   G. Sartori) of Quanto siamo responsabili? Filosofia,neuroscienze e società,  Codice, Torino, 2013.3)   Editor (with M. Marraffa) of  La filosofia di Ernesto De Martino , special issue of  Paradigmi , 31, 2013.4)   Editor (with L. Illetterati) of a special issue of Verifiche  on “ Classical German Philosophy. New Research Perspectives between Analytic Philosophy and the Pragmatist Tradition” ,46, 2013.5)   Editor (with S. Gozzano) of a special issue of  Rivista di filosofia   on “T he philosophy ofconsciousness, ”  104, 2013.6)   Editor (with M. Ferraris) of  Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione , Einaudi,Torino, 2012.7)   Editor (with S. Poggi),  La filosofia analitica e le altre tradizioni , Carocci, Roma,2011.8)   Guest editor,  Naturalismo , special issue of  Rivista di Estetica , 44, 2010 (with C. Barberoand A. Voltolini).9)   Editor of The Architecture of Reason. Epistemology, Agency, and Science , Carocci,Roma 2010 (with R. Egidi).10)   Editor of Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio ,Codice, Torino 2010 (second edition 2010; third edition 2011) (with A. Lavazza and G.Sartori).11)   Guest editor of  E’ naturale essere naturalisti? , special issue of  Etica e politica , 9,2010 (with C. Barbero - A. Voltolini).12)   Editor of Scetticismo . Storia di una vicenda filosofia , Carocci, Roma 2007 (secondedition 2007; third edition, 2008) (with E. Spinelli).13)   Editor of  La mente e la natura , Fazi, Roma 2005 (Italian version of  Naturalismin Question ) (with D. Macarthur).14)   Editor of the Italian version of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy , Fazi, Roma,2004.15)   Editor of  Normatività, fatti, valori , Quodlibet, Macerata, 2003 (essays by G.H. vonWright, J. Hornsby, R. Fogelin, et alii ) (with Rosaria Egidi and Massimo De ll‟ Utri).16)   Editor of  Logica della libertà [ “ The Logic of Free dom”],  Meltemi, Roma, 2002(contains the Italian translation of essays by A. Ayer, R. Chisholm, P.F. Strawson, P. vanInwagen, H. Frankfurt).17)   Guest editor of “ Libertà e Deter  minismo”  [ “ Freedom and Determinism ” ], specialissue of  Paradigmi , 3, 1999.  11 3)   “Presentazione” del numero speciale di  Paradigmi  (25, 2013) dedicato a  La filosofia di Ernesto De Martino , pp. 4-7.4)   “Machiavelli e Lucrezio ”,  postface to A. Brown,  Machiavelli e Lucrezio. Fortuna elibertà nella Firenze del Rinascimento , Carocci, Roma, 2013, pp. 113-126.5)   “Metafisica e naturalism o: una entente cordiale? ”, Sistemi intelligenti , 25, 2013, pp. 84-94.6)   “Galileo e il platonismo fisico - matematico”, in R. Chiaradonna (ed),  Il platonismo e le scienze , Carocci, Roma 2012, pp. 119-138.7)   “Introduzione” (with R. Chiaradonna) to R. Chiaradonna (ed.),  Il platonismo e le scienze ,Carocci, Roma 2012, pp. 13-21.8)   “  Naturalismo nel mirino: ma quale intendiamo? ” , Vita e pensiero , 94, 2011, pp. 84-88.9)   Autonomia della filosofia e neuroscienze ,”  Rivista di Filosofia , 102, 2011, pp. 278-283.10)   “ Libero arbitrio e neuroscienze ,” in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di),  Neuroetica ,Il Mulino, Bologna 2011, pp. 69-8311)   “ Filosofia della mente ,”  in  Dizionario della mente Treccani , Istituto de ll EnciclopediaItaliana Italiana, Roma 2010, pp. 391-394.12)   “Ne uro-mania e natura lismo”  (commento, su invito, a ll articolo target di CristianoCastelfranchi e Fabio Paglieri) (con A. Lavazza), Giornale italiano di psicologia , 2,2009, pp. 319-323.13)   “ Il migliore dei naturalismi possibili  Etica & Politica / Ethics & Politics , XI, 2009, 2, pp.179 − 191 (with A. Voltolini).14)   “ Psicologia, intenzionalità, scopi: un punto di vista filosofic o,”  (invited commentary to atarget article by C. Castelfranchi and F. Paglieri), Giornale italiano di psicologia , 35,2008, pp. 785-789.15)   “ Libertà e responsabilità mora le,”  in  Enciclopedia del Terzo Millenio , Istitutode ll Enciclopedia Italiana, Roma 2009, pp. 151-159.16)   “ Le neuroscienze cognitive e l'enigma del libero a rbitrio,”  in M. Di Francesco  –   M.Marraffa (a cura di),  Il soggetto. Scienze della mente e natura dell  ’  io , BrunoMondadori, Milano 2009, pp.147-165.10) “  Neuroetica e libero a rbitrio,”  in S. Bacin (a cura di),  Etiche antiche e moderne , Il Mulino,Bologna 2010, pp. 101-118.11) Introduction to the Italian translation of John Dupré,  Human Nature and the Limits ofScience , Laterza, Roma-Bari, 2007 (with Telmo Pievani).12   ) “ Temi scotistici nella discussione contemporanea sul libero a rbitrio,”   Quaestio , 8,2008, pp. 25-37.13   ) “ Gazzaniga, Hauser e la fallacia dei cromosomi mora li,”  Micromega  ( “ Almanacco di scienz e” ) 2, 2007, pp. 143-149.14   ) “ Filosofia, musica e asc olto,”    Rivista di storia della filosofia , n. 1, 2007, pp. 69-73.  15   ) “ Il ritorno dello scientismo ,”  in M. Failla (a cura di) “B ene navigavi ” . Studi in onore di Franco Bianco , Quodlibet, Macerata 2006, pp. 69-74.16   ) “ Il naturalismo scientifico contemporaneo: caratteri e pr  oblemi,”  in P. Costa - F. Michelini(eds.),  Natura senza fine , EDB, Bologna 2006, pp. 85-95.17) Causazione mentale e plura lismo,”    Iride , 18, 2005, pp. 623-629 (with MassimoMarraffa).18   ) “ Due concetti di libero arbitr  io,”  in R. Calcaterra (ed.),  Le ragioni del conoscere ede ll’agire . Scritti in onore di Rosaria Egidi , Franco Angeli, Milano 2006, pp. 258-266.19   ) “ Scienza e libertà: due comuni fraintendimenti, SISSA NEWS, October 2005.20   ) “ Quattro tesi su filosofia e scienza ,”   Sistemi intelligenti , 18, n. 2, 2005, 203- 211.21   ) “ Frankfurt, Harry Gor  don”  (vol. 5 p. 4464), “ Teoria de ll az ione”  (vol. 2, pp. 987-989),   12 “ Scetticismo moderno e contemporane o” (vol. 10, pp. 10115- 10119), in  Enciclopedia filosofica di Gallarate , Bompiani, Milano 2006.22   ) “  Nozick, Strawson e lillusione  della libertà ,”  in G. Pellegrino - I. Salvatore (eds.),  Nozick  .  Identità personale, libertà e realismo morale , LUISS University Press, Roma2007, pp. 25-52.23   ) “ Questioni metafisiche: Dio e la libertà ,”  in A. Coliva (ed.),  Filosofia analitica. Temi e problemi , Carocci, Roma 2007, pp. 403-440 (with G. De Anna).24   ) “ Davidson sulla libertà umana ,”  Iride , 17, 2004, pp. 347-355.25   ) “ L'inscindibilità di fatti e valori in etica, in economia e nelle scienze natura li,” in troductionto  Fatto valore. Fine di una dicotomia (Italian translation of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy ), Fazi, Roma 2004, pp. vii-xxi.26   ) “  Naturalismo e scetticismo: il caso del libero a rbitrio,”  in R. Lanfredini (ed.),  Il problemamente-corpo, Guerini, Milano, 2003, 141-153.27   ) “ Responsabilità e sce tticismo” in Egidi - De ll Utri - De Caro (eds.),  Normatività, fatti, valori , Quodlibet, Macerata, 2002, pp. 31-39.28   ) “ Olismo e interpretazione radica le,”  in M. 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Aspetti della teoria analitica della traduz ione,”   Colloquium Philosophicum , 1999, pp. 69-84.37   ) “ Libertà metafisica e responsabilità mora le,”    Paradigmi , 51, 1999, pp. 519-546.38   ) “ Prese ntazione,”    Paradigmi , 51, 1999, pp. 453-456.39   ) “ Determinismo e filosofia della mente contemporanea ,”  in M. Cini (ed.), Caso, necessità, libertà, Cuen, Napoli 1998, pp. 167-195.40   ) “ Monismo anomalo ed epife nomenismo,”    Il Cannocchiale, II, 1997, pp. 255- 267.41   ) “ Il lungo viaggio di Hilary Putnam,”    Lingua e Stile, XXXI, 1996, 4, pp. 527- 545.42   ) “ Epistemologia e interpretazione: l esternalismo di Donald Da vidson,”    Rivista di filosofia, LXXXVII, 1996, pp. 315-341.43   ) “ Il platonismo di Ga lileo,”  Rivista di filosofia, LXXXVII, 1996, pp. 25-40.44   ) “ La discriminazione tra la scienza e l'arte: un problema per il relativismo epistemic o,”    Paradigmi, XII, 1994, pp. 533-560.    Review of S. Nannini,  Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente ,in  Iride , 21, 2008, pp. 505-507.3)   Review of L. Fonnesu, Storia dell'etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica ,in  Iride , 20, 2007, pp. 257-258.4)   Review of A. Massarenti,  Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima , in  Bollettino della Società filosofica italiana , January-April 2007, pp. 100-101.5)   Review of M. De ll Utri,  L’inganno  assurdo , in  Epistemologia , 29, 2006, pp. 512-514.6)   Review of Carlo Montaleone,  Don Chisciotte o la logica della follia , in  Bollettino della Società filosofica italiana , May-August 2006, pp. 91-93.7)   Review of Mario Ricciardi - Corrado Del B o (a  cura di),  Pluralismo e libertà fondamentali , in  Iride , 2006, pp. 456-457.8)   Review of Giacomo Marramao,  Minima temporalia ,  Iride , in  Iride , 47, 2006, pp. 214-216.9)   Review of Donald Davidson, Subjective, Intersubjective, Objective , in  Iride , 17, 2004, pp. 436-437.10)   Review of Massimo Marraffa,  Filosofia e psicologia, in  Epistemologia , 29, 2006, pp.461-463.11)   Review of Nicla Vassallo, Teoria della conoscenza, in  Epistemologia , 26, 2006, pp.484-486.11) “ Wittgenstein su mente e linguagg io”  [Review of R. Egidi (ed.) Wittgenstein: Mind and Language ], in  Rivista di filosofia , 1998, pp. 155-158.12)   Review of Mark Pickering (ed.), Science as Practice and Culture, in  Archives Internationale  s d’   Histoire Des Sciences, 1995, pp. 169-171.13)   Review of Marc De Mey, The Cognitive Paradigm. An Integrated Understanding ofScientific Development, in  Archives Internationales d  ’   Histoire Des Sciences, 1995, p.189.14)   Review of M. De ll Utri,  Le vie del realismo. Verità, linguaggio e conoscenza in Hilary Putnam, in  Physis, XXX, 1993, pp. 578-580.15   Review of “ Il naturalismo filosofico di Willard Van Orman Quine ”  [review of: W.V.O.Quine,  La scienza e i dati di senso , Roma 1987], Tempo presente, 124, 1993, pp. 78-90.16   Review of “ Scienza e relativismo: un ossimoro? ”  [review of: R. Egidi (ed.),  La svoltarelativistica nell'epistemologia contemporanea, Milano 1988], Tempo presente, 1989, pp. 103-105.17) Review of “ E' ancora possibile una storiografia dell'arte ? ”  [review of: H. Belting,  La fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte , Torino 1990], Tempo presente, 109-111,1990, pp. 88-90. 19 June 6, 2006: Università della Calabria, Conference of Italian Association of Philosophy ofMind. Commentator of the main speaker, Tim Crane.May 16, 2006: participant in the debate on “ Semiotics and Phenomenology of the Se lf,” Roma, Società Italiana di Filosofia.May 10, 2006: University of L  Aquila. Lecture on “ Free Will and Causal Determinism ” . March31  –   April 1, 2006: Ravenna Scienza, “  Neurobiology of Free Will: Is Our Will Free? ” .Invited speaker. Paper: “ The Philosophical Mystery of Free W ill”.  January 22, 2006: Roma, Auditorium “ Parco della Musica ,”  Festival of Science. Lecture on: “ Gödel Theorems and Free will”  (with Rebecca Goldstein).January 20  –   21, 2006: Reggio Emilia, Istituto Banfi. Conference “  Nature and Free dom”; invited spekaer for the section “ The naturalization of free dom” (commentators A. Benini eS.F. Magni). Paper: “  Nature and Free dom”.  December 2, 2005: University “ Ca   Fosca ri,”  Venice. International Conference, “ DonaldDavidson: Language - Meaning - Mind - Action ” ; invited speaker. Paper: “F reedom andInference to the Best Explanation ” . November 17 2005: Sassari, Sassari Association of Philosophy and Science. Lecture on “ Freedom and Scien ce” .October 27  –    28, 2005: “ Vita  –   Salute “ San Raffae le”  University, Cesano Maderno (Milano),  First Meeting of the Italian Association of Philosophy of Mind  ; organizer and chairperson.October 19-21, 2005: University of Genoa, International conference, “ Mental Processes ” ;relatore invitato per la sezione “ Action and Rationality ”  (discussant of Jennifer Hornsby).September 29-30, 2005: SISSA, Trieste. Conference “  Neurophysiology and Free W ill”;  invited speaker. Paper: “ Etica e libero arbitrio ” .June 9  –   11, 2005: University of Trento, International Conference, “ Agency and Causation in theHuman Sciences ” . Invited speaker (paper: “F reedom and the Social Sciences ” ).June 1, 2005: “ Vita e Salute - San Raffae le”  University, Milano. International Conference, “ ADay for Freedom? An International Conference on Free W ill”. Discussant di ChristopherHughes.May 12, 2005: University of Florence, International Conference “ Philosophy, Neurophysiologyand Free will”  (invited speaker). Paper: “ On the compatibility of philosophy and scienc e” .March 21 - 22 2005: Istituto di studi americani, Roma, International Conference, “ Pragmatismand Analytic Philosophy: Differences and Interac tions”  (invited speaker). Paper: “B eyondScientific Natura lism”.  January 31  –   February 2, 2005: University of Piemonte orientale, Department of HumanisticStudies. Three lectures on  Freedom and Nature.   November 26, 2004: University of Florence - Department of Philosophy. Lecture on TheConcept of Naturalism . November 16, 2005: University of Pavia  –   Giason del Maino College. Lecture on TheContemporary Debate on Free Will  . November 15, 2004: University "Vita e Salute  –   San Raffae le,”  Milano. Lecture on  Freedomand Nature .October 22-23, 2004: University of Piemonte Orientale, Vercelli, Department ofHumanistic Studies, conference on “ Scientists and Philosophers and the Study ofComplex Sy stems”.  September 23-25: Genova, VI International Conference of the Italian Society of AnalyticPhilosophy (member of the scientific committee).   20 May 11-12, 2004, Rome. International Symposium "Questions on Naturalism" (Organizer anddiscussant). November 7, 2003, Rome. Paper: “ Davidson on Human Free dom”.  Conference on DonaldDavidson, Department of Philosophy, Università Roma Tre (speaker and organizer). November 6, 2003, Rome. Discussant of Akeel Bilgrami. Workshop at LUISS University.September 29, 2003, Florence. Paper: “ Metaphysical Libertarianism ” . Conference on Robert Nozick   s philosophy, Department at the University of Florence (speaker).September 15, 2003, Sassari. Lecture on “ Logica e retorica ”  [Logic and Rhetoric].Department of Foreign Languages and Literatures, University of Sassari (invited lecturer). May7, 2003, Siena. Paper on “  Naturalism and Free dom”.  Workshop on The Free   Will problem . Department of Philosophy, Università di Siena (invited speaker).May 5, 2003, Sassari. Workshop on Skepticism and the Reemergence and the Self  ,” Department of Philoosophy, Università di Sassari, (discussant).October 12, 2002, Messina. Paper on “  Naturalism and Intentionality ” . Annual Meeting of theItalian Society of Philosophy of Language (speaker).May 14, 2002, Cosenza. Lecture:  Memoria e identità [Memory and Identity].Department of Philosophy, Università di Cosenza.May 6, 2002, Florence. Paper: “ Freedom and Moral Responsibility: Mysteries orIllusions? ” . Department of Philosophy, University of Florence (invited speaker). February7, 2002, Rome. Lecture  La teoria della conoscenza nel Novecento [TheTheory of Knowledge in the Twentieth Century]. Italian Society of Philosophy (invitedspeaker)February 5, 2002, Rome. Paper on  Il fondamento filosofico dei diritti umani [ThePhilosophical Foundation of Human Rights]. Conference “ The Question of HumanRights Today ,”  Università di Roma “ La Sapienza ” (sp eaker).January 16, 2002, Pavia. Lecture on  Responsabilità e causalità: critiche a Strawson e Frankfurt [ “ Responsability and Causality: Some Criticisms of Strawson and Frankfur  t”]. Department of Philosophy, Università di Pavia (invited speaker).October 30, 2001, Cosenza. Lecture on “ Ragioni e ca use”  [ “ Reasons and causes ” ],Department of Philosophy, Università della Calabria (invited speaker).May 27, 2001, Padua. Lecture on “  Freedom and Naturalism ,”  Department of Philosophy,Università di Padova (invited speaker).May 8, 2001, Milan. Paper on “ Interpretations and Criteria of Correctness ” .Conference:  Interpretation and Correcteness , Università Statale di Milano (invitedspeaker).May 7, 2001, Bologna. Paper on Causality and Naturalism . Annual Meeting of the ItalianSociety of Analytic Philosophy, Università di Bologna (invited speaker).April 10, 2001, Rome. Paper on  Forms of Causation . Annual Meeting of the Italian Societyof Philosophy, Università Roma Tre (speaker).October 5, 2000, Siena. Paper on What P.F. Strawson Hasn ’  t Proved  . Annual Conference ofthe Italian Society of Analytic Philosophy (spekaker)May 25-26, 2000, Rome. Paper on “ Freedom and the Self  ” . Conference: The Nature of theSelf, between Philosophy and Psychology , Università Roma Tre (speaker).   21 April 16, 2000, Rome. Paper on “ Van Inwagen  s Consequence Argument ” .Workshop:  Freedom and Necessity , Università Roma Tre (organizer andspeaker).April 8, 2000, Florence. Paper on “ What we should mean with the Word Pe r  son”   (withS. Maffettone). Conference  Le ragioni del corpo [The Reasons of the Body]. Istituto Gramsci (invited speaker).December 21, 1999, Rome. Paper on “ Davidson on the Conceptual Schemes ” .Workshop: Talking with Donald Davidson , Università Roma Tre (organizer and speaker).December 20, 1999, Rome. Speaker with D. Donald Davidson at the presentation of the book M. De Caro (ed.),  Interpretations and Causes. New Perspectives on Donald Dav idson’s P  hilosophy , Università Roma Tre (speaker).October, 28-30 1999, Rome. Paper on “ Against an Alleged Refutation of Kripke  sSkeptical Argument ” . Conference:  Facts and Norms , IV National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Università Roma Tre (speaker).October 14-16, 1999, Palermo. Paper on “ Davidson on Following a Rule ” .Conference: The Linguistic Rule . Conference of the Italian Society of Philosophy ofLanguage (invited speaker).April 16-17, 1999, Rome. Paper on  Is Libertarianism About Free Will Scientifically Acceptable? . Conference:  Determinism and Freedom , Università Roma Tre(organizer and speaker).September 23-26, 1998, Bologna. Paper on “ The Roots of Epistemic Skepticism ” .Conference: Science, Philosophy, and Common Sense , III National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Bologna (speaker).February 27, 1997, Rome. Lecture on  Freedom and Necessity . Seminar of theInterdipartimental Reasearch Center on Scientific Methodology (invited speaker).October 17-19, 1996, Rome. Paper on “ G.H. von Wright on the Mind-Body Proble m”.  Conference The Study of Mankind in George Henrik von Wright  , Università RomaTre (speaker).December 5-6, 1994, Rome. Paper on “ Davidson on Holism and SemanticExterna lism”.  Conference:  Perspectives on Holism , CNR Roma (organizer andspeaker).October 24-26, 1994, Rome. Paper on “ Galileo  s method ” . Conference:  Philosophies of Nature from the Renaissance to the Twentieth Century , Università Roma “ LaSapienza ”  (speaker).April 2, 1993, Rome. Paper on “ Davidson on skepticism”.  Conference  Donald Dav idson’s   philosophy , Università di Roma “ La Sapienza ”  (speaker and organizer).January 7-10 1993, Lucca. Paper on  Logic and Philosophy of Science: Problems and Perspectives . Triennal Meeting of Italian Society of Logic and Philosophy ofScience (speaker) . November 30, 1991, Rome. Paper on “ Perspectives of Rea lism”. Lecture at the Departmentof Philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ”  (speaker). November 20-22, 1989, Rome. Paper on “W ittgenstein and the Philosophy of Mind ” .Conference: Wittgenstein on Mind and Language , Università Roma Tre (speaker). Mario De Caro. Keywords: Davidson, Putnam, “derivative Old-World philosopher focusing on New-World philosophers like Putnam or Davidson!”, interpretatione, peri hermeneias, Davidson on Grice – Grice on Putnam on Grice ‘too forma’ – Davidson on Grice – ‘a nice derangement of epitaphs’ Grice on Davidson on intending: conversational implicature theory too social to be true: ‘intending’ ENTAILS belief, does not IMPLICATE it! Pears, D. F. Pears. – P. F. Strawson and H. P. Grice on ‘free’ – Actions and Events --.-  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caro” – The Swimming-Pool Library.

 

CARRAVETTA: Peter Carravetta (Lappano), filosofo.. Note  Peter Carravetta, Del postmoderno., by Alessandro Carrera  iawa-West welcomes Peter Carravetta and Marisa Frasca on Saturday, February 14,  at Sidewalk Cafe NYC  IAWA’s Open Reading Series Featuring Peter Carravetta & Marisa FrascaFebruary 14,  Filosofia Letteratura  Letteratura Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloPoeti italiani del XX secoloPoeti italiani del XXI secoloTraduttori italiani 1951 10 maggio. Grice: “Carravetta has been stealing the Italian voice of Italian philosophers, or rather silencing it!” -- Pietro Carravetta. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carravetta” – The Swimming-Pool Library.

 

Tractatus semeiotico-philosophicus – the opus magnum, almost, of Grice – or Speranza.

 

CARULLI (Bari). Filosofo. Grice: “I like Carulli – he philosophises on things we do not philosophy at Oxford, such as menstruation – or piegaturi, as Speranza prefers, since this is plural – ‘delle mestruazioni’.” Grice: “But Carulli has also philosophised on some anti-Griceian themes: my ‘fiducia’ becomes his ‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes his ‘sragione’! Delightful!” – Grice: “When I philosophised on “Not,” or “Not I!” alla Beckett – I wouldn’t realise these are negative implicatures – ‘negative implicatures of ‘not’ – Carulli speaks of ‘negative reflections on unaffirmation’!” “Genius!” – Grice: “Carulli can play with word: ‘il ‘mito’ della inatualitta ‘ di X’ – is this equivalent or, as I prefer, a mere vehicle for the cancellable implicature: ‘la attualita’ di X’?!” – Grice: “Carulli knows how to subtitle: his ‘sfiducia e sragione’ is not just that but a Spinozian double treatise, like Witters’s abhandlung – cfr. Speranza’s “Tractatus semeiotico-philosophicus”.Studia a Bari, una città tradizionalmente soggetta allo storiografismo, all'impegno cattolico e al marxismo. Produce una filosofia aliena ai grandi inganni e refrattaria alla celebrazione dei suoi miti -- la democrazia, i diritti, la socialità, il debolismo -- con un'inconsueta attenzione alla forma, seguendo la scuola della cosiddetta critica della cultura, da Nietzsche in poi, unendo gli epigoni di quello ai moralisti. Partito da posizioni di anti-storicismo puro, culminato in un Benjamin schiacciato sulla im-politicità di ritorno della sua filosofia in “Oggettività dell'impolitico: riflessioni negative a partire da Benjamin” (Genova, Il Melangolo). Così come da un'analisi eterodossa dell'ultimo Schelling, De contemptu, Dello Schelling tardo (Genova, Il Melangelo) è giunto ad esiti originali con “Metafisica delle mestruazioni” (Genova, Il Melangolo), dove si sottrae il fenomeno femminile alle analisi socio-antropologiche per riconsegnarlo alla sua radice metafisica. Il discorso sul cristianesimo ritorna in “Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico” (Napoli, La Scuola di Pitagora), dove si riprende inoltre la critica della democrazia. Il cristianesimo è visto come una forma culturale stanca e abitudinaria, ma in grado di reggere con la sua apatia allo scontro con l'Islam. Si affaccia la verità ontologica del “ente” in diminuzione che non giungono mai all'annullamento definitivo; una verità che lo distanzia dall'eternità dell’ “essente” come pure dai cultori dell'annientamento.  La sua filosofia, centrata ossessivamente sugli stessi temi, può essere idealmente divisa secondo un'altra direttrice, volta alla ri-costruzione critica pionieristica di su amico Sgalambro. In quest'ambito pubblica “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Sgalambro” (Napoli, La Scuola di Pitagora); Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il Melangolo), e “La piccola verità. Quattro saggi su Sgalambro” (Milano, Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità? Prove didattiche di studenti “tieffini” in formazione, Chiara Gemma, Barletta, Cafagna. Gianluca Veneziani, Storia, verità e politica. Perché Benjamin non è un marxista, in Libero, De contemptu, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e le mestruazioni: l'idea bellicosa di editoria di Regazzoni, su il foglio Alessio Cantarella, Sfiducia e sragione, su alessiocantarella, Davide D'Alessandro, Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo, su il foglio. Pier Francesco Corvino,  Religio Medici. Andrea Comincini, Per una interpretazione di Dio e del Contemporaneo, su scena illustrata.com. alessio cantarella. Sgalambro, un metafisico distruttore,  in La Sicilia. Corriere del Mezzogiorno, Sgalambro, “impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il Mattino, Sgalambro, filosofo pessimista che sape come godersi la vita, in Libero, Luca Farruggio, Una preziosa “Introduzione a Sgalambro” -- Davide D'Alessandro, Cara “Italian Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio, Introduzione a Sgalambro su rai playradio. Alessio Cantarella, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Uno Sgalambro non isolato, tra Cacciari e Severino, su il foglio, convenzionali.wordpress.com, Sgalambro e le piccole verità, su lgiornale. Sgalambro, l’esistenza e il peso di dio, su scena illustrata.com. Sgalambro, il filosofo che ama la canzone, in La Gazzetta del Mezzogiorno. Antonio Carulli. Keywords: critica della cultura, Nietzsche, De Contemptu, Schelling, impolitico, Benjamin, menstruazione, Aligheri sulla mestruazione, ente, essente, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carulli” – The Swimming-Pool Library.

 

 

CASALEGNO (Torino). Filosofo. Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me! Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!”  Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem; “Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi, un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio, Carocci,  Verità e significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci,  (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità: problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano, Bompiani, Normatività e riferimento, in  Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera, Archivio storico. Grice H. P. (1975). Logica e conversazione. In P. Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina 2003, 221–244. Il libro che vi presento oggi appartiene alla collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello Cortina. Il titolo è Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri di cui ho parlato in questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia di testi, appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica del linguaggio.  I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui Paolo Casalegno, Pasquale Frascolla, Andrea Iacona, Elisa Paganini e Marco Santambrogio.  I testi antologizzati consentono al lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e i concetti chiave che emergono dalla sua opera.  Apre il classico Senso e significato di Gottlob Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono quindi  Le descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle descrizioni definite), Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein (tratto dalle sue Ricerche filosofiche del 1953), Due dogmi dell’empirismo e Relatività ontologica di Willard Van Orman Quine, Nomi e riferimento di Saul Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Hilary Putnam, Interpretazione radicale di Donald Davidson, Logica e conversazione di Paul Grice, Dispute metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice - è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata . A tale fine , bisogna che ciascuno si attenga a quattro “ massime ” che possono ...  Introduzione alla filosofia del linguaggio  Paolo Casalegno 1. Significato e condizioni di verità Prendiamo in considerazione un’idea del primo Wittgenstein:  “Comprendere una proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus, 4.024). Poiché comprendere una proposizione equivale a conoscerne il significato, molti hanno concluso che alla base di una teoria del significato si deve porre la nozione di verità. Come sostenere la tesi wittgensteiniana?  Un  modo  può  essere  questo:  usiamo  il  linguaggio  per  descrivere  la  realtà.  Una proposizione singola fornisce una descrizione appropriata, anche se parziale, della realtà se le cose stanno in un certo modo, una descrizione inappropriata altrimenti. Per comprendere una proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le circostante in cui la descrizione della realtà che essa offre è ap-propriata, dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo affinché essa sia vera. Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una proposizione dobbiamo conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’.  Evitiamo di fraintendere. Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto diverso dal sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque confondere le due cose. Inoltre, non bisogna assumere  che  il conoscere  le condizioni di  verità di  una  proposizione equivalga  a  sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera.  La tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci, concentriamoci su alcune di queste.  Le obiezioni possono essere, principalmente, di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una proposizione equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere l’idea che la nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del significato (ci sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità sembra essere assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che il significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme determinato di condi-zioni di verità.  [Nota metodologica. Al termine ‘proposizione’ preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano ‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false.] La prima obiezione  si basa sull’ovvia  constatazione che esistono  espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente attri-buibili  condizioni  di  verità.  Ci  sono  espressioni  sintatticamente  ben  formate  che  non  sono  frasi complete, parole singole  o espressioni come  ‘valigia  pesante’. Che  queste  espressioni abbiano  un significato è indubbio, ma che si possa parlare di condizioni di verità sembra essere un’evidente for-zatura. In  secondo luogo,  ci sono frasi  complete come  le interrogative  e le  imperative. Inevitabil-mente, una teoria che voglia analizzare il significato di queste due sorte di espressioni deve ricorre a nozioni  diverse  da quella di verità.  Sembra  dunque  impossibile  che  proprio  su  questa  nozione  si fondi tutta quanta una teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale. Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono enunciati ha a che fare con la verità.  Consideriamo il caso delle parole singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla, equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle frasi: in particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa — e, più in generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi — se non presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo vale anche per frasi più com-plesse che tuttavia non sono frasi complete) (MAH).  Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati. Se ci si riflette un po’ su, ci si ren-de conto che la nostra capacità di capire e di usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta che si sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente: queste domande (come ‘è partito il treno per Udine’)corrispon-dono in modo ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il rispondere ‘Sì’ alla domanda equi-vale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene ri-flettendo sui casi delle interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o un’affermazione,  e  delle  frasi  imperative.  La  centralità  della  nozione  di  verità  sembra  così  essere confermata.  Della  seconda  obiezioni  esistono  più  varianti,  potremmo  perciò  formularla  come  segue.  Concen-trando l’attenzione sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per concentrarsi in modo esclusivo sul  loro ruolo di  veicoli di informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci tro-viamo,  delle  informazioni  di  cui  i  nostri  interlocutori  già  dispongono,  delle  loro  aspettative  ecc.; inoltre, ci sono regole precise di costruzione del discorso, violando le quali ciò che diciamo potreb-be non esser compreso o risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non bastano. In se-condo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono concepite di solito come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo da ogni loro impiego effettivo si può avere l’impressione che sia così. Ciò  che si può comunicare con un dato  enunciato varia enormemente con il variare dei contesti. La risposta abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la distinzione tra semantica e pragmati-ca, una distinzione che risale a un saggio di Charles Morris, secondo il quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi altro sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo dalla loro interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e pragmatica.  Qualcuno potrebbe però voler dire che questa risposta si riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il problema è se un tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla prag-matica sia giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le condizioni di verità da altre dimen-sione del linguaggio rispecchi un’articolazione intrinseca della nostra competenza di parlanti, iden-tifichi un livello realmente fondamentale, e possa costituir una scelta metodica feconda.  Due punti: né il filosofo del linguaggio né il linguista sono tenuti a rendere conto di tutti gli usi pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti a rendere conto solo di quelli che potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del linguaggio (MAH). Se focalizziamo la nostra attenzione su questi usi, possiamo convin-cerci che l’idea di partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che la conoscenza delle condi-zioni di  verità degli enunciati  svolga un  ruolo essenziale anche  quando sono  coinvolti fattori  che non sono riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gli enunciati siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo  2 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di studiosi.  Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi  sono  “costituenti  psichici”.  Usando  le  parole  di  Wittgenstein  si  può  continuare  a  dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?).  Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie.  Una proposizione che rispecchi fedelmente  la struttura del  pensiero espresso è  detta da Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata.  I nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune  è il requisito  della  semplicità.  L’oggetto  deve  essere  semplice,  ma  di questa semplicità  il Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus,  si scopre che una preoccupazione ricorrente di  Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché  ne avesse in mente esempi specifici, bensì  sulla base di considerazioni logiche astratte e generali.  In effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione elementari siano immagini.  (II) Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un  dato nome corrisponda davvero  qualcosa. Un’entità complessa  consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingen-te.   5 stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di studiosi.  Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi  sono  “costituenti  psichici”.  Usando  le  parole  di  Wittgenstein  si  può  continuare  a  dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?).  Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie.  Una proposizione che rispecchi fedelmente  la struttura del  pensiero espresso è  detta da Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata.  I nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune  è il requisito  della  semplicità.  L’oggetto  deve  essere  semplice,  ma  di questa semplicità  il Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus,  si scopre che una preoccupazione ricorrente di  Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché  ne avesse in mente esempi specifici, bensì  sulla base di considerazioni logiche astratte e generali.  In effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione elementari siano immagini.  (II) Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un  dato nome corrisponda davvero  qualcosa. Un’entità complessa  consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingen-te.   5 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! (III) Pertanto, se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che una data proposizione abbia un senso. Supponiamo che nella proposizione P figuri il nome N: se a N potesse corrispondere un’entità complessa C, saremmo sicuri che a N corri-sponde davvero qualcosa,  e quindi che P  ha senso, solo se fossimo sicuri che  C esiste: in altri termini, solo se sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi costituitivi di C sono correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein, “l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”. (IV) Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no deve essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza di una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.  (V)Conclusione: devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio.  NB. In questo ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma fissa consta appunto degli oggetti”.  La proposizione (I) non è dunque un’immagine vera e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno stato di cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre oggetti semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’ e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non implica che (I) sia priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente analizzate.  Si può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa attribuire, a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava Frege. Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la correlazione di un nome con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve essere garantita a priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione nome/oggetto non può essere una descrizione dell’oggetto stesso.  Vediamo  ora cosa Wittgenstein  sostiene  riguardo  le  proposizioni complesse. La  sua  idea  è  che  le proposizioni  complesse  siano  funzioni  di  verità  delle  proposizioni  elementari  che  figurano  come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari che figurano nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità di P dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione, congiun-zione, disgiunzione, condizionale…).  Per visualizzare il modo in cui il valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti, Wittgenstein propone un arti-ficio grafico: le cosiddette ‘tavole di verità’.  Tavola di verità della negazione:  P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1) 6 Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione (inclusiva):  Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di un  linguaggio artificiale: ad esempio, le  tre tavole di verità sopra riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,( P ^ Q),(P Q). Se si seguisse questo suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche enormemente ingombrante.  Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logi-ci. Per Frege ogni connettivo denota una certa funzione che associa valori di verità a valori di verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un modo per descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgen-stein, invece, i connettivi non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o false dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi.  A queste considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la concezione witt-gensteiniana della logica.  Né Frege né Russell avevano saputo spiegare  che cosa contraddistingue una proposizione logica da una proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al valore di verità di una pro-posizione  complessa  come  determinato  dai valori di verità dei  suoi  costituenti  elementari,  si  può constare che ci sono due casi limite: quello in cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’.  Ciò che Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni.  Avevamo detto che il senso di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione rappresenta. Alle  proposizioni complesse questa nozione di  senso non  può essere  applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è una proposizione complessa, non c’è uno stato di cose di cui si possa ragionevolmente dire che è rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha ragione nel dire che tutte le proposizioni complesse sono funzioni di  verità dei loro costituenti proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa dipende pur sempre dal sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò che Wittgenstein dunque propone è di identificare il senso di P con quelle combinazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per le quali P risulta vero. “Il senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP QTTTTFTFTTFFF 7  Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti!  Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! è un'attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO” di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA E’VERA( alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’(circostanze in cui essa è vera)-FRAINTENDIMENTI POSSIBILI:*1.CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O FEs: l’uomo + alto del mondo è bruno= NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI VERITA’ES : Napoleon was defeated by Nelson=E’ VERA ,MA NON CONOSCO L’INGLESE E NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’*2. CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA-PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f)=ENUNCIATO*tesi è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE DI SIGNIFICATO ,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI DI VERITA’ : espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi complete-PAROLE SINGOLE ,ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”,FRASI INTERROGATIVE-ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE NON SONO ENUNCIATI2.LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà , ma questo atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN TUTTI I CASI  NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F *parlando dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info che possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI  AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”,MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO*Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:  -conversazione= ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’=giusta via di mezzo   2.QUALITA’= non dire cs false    3. RELAZIONE=cose pertinenti    4.MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE2.FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna  -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico generale1.SINN:senso(OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele        La montagna + alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York *descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE  es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione=  E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI  AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”,MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO*Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:  -conversazione= ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’=giusta via di mezzo   2.QUALITA’= non dire cs false    3. RELAZIONE=cose pertinenti    4.MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE2.FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna  -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico generale1.SINN:senso(OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele        La montagna + alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York  *descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE  es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione=  E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti!  FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO + DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, MedioevoPREMESSAPARADIGMA CLASSICO DEL 900FregeRussellWigensteinTarskiQuinePutnamFREGESENSO E SIGNIFICATOENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B)TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e DESCRIZIONI DEFINITE)ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ)QUANTIFICATORIRUSSELLLE DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALITAUTOLOGIECONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀLA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA.TARSKILINGUAGGIO OGGETTO e METALINGUAGGIODEFINIRE LA VERITÀCONVENZIONE VCOSTANTI (INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE)SIMBOLI AUSILIARISODDISFACIMENTOPARADOSSIVERITÀ RELATIVA AD UN MODELLOCARNAPDESCRIZIONI DI STATOESTENSIONE e INTENSIONEPOSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHEKRIPKEVERITÀ LOGICAMODELLO KVERBI DI CREDENZADEISSI (o INDICALI)QUINEDUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO / SINTETICORIDUZIONISMOREGOLE SEMANTICHETEORIA DELLA VERIFICAZIONE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! - il significato non può essere ridoo ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non sono enuncia e quindi non gli si possono aribuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Tu gli studen che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi por il conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono enuncia ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentava risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Rifleendoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogave ed imperave dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è suciente per un’analisi adeguata del significato degli enuncia. Concentrando l’aenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enuncia possono essere adibi per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due movi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informavo degli enuncia dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contes.Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammeere che gli enuncia abbiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la disnzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concre dei segniL’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribaere che tuo ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di circoscrivere la semanca sia giusficato. Soolineiamo due pun:- non si è tenu a rendere conto di tu gli usi possibili del linguaggio - il significato non può essere ridoo ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non sono enuncia e quindi non gli si possono aribuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Tu gli studen che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi por il conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono enuncia ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentava risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Rifleendoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogave ed imperave dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è suciente per un’analisi adeguata del significato degli enuncia. Concentrando l’aenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enuncia possono essere adibi per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due movi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informavo degli enuncia dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contes.Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammeere che gli enuncia abbiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la disnzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concre dei segniL’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribaere che tuo ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di circoscrivere la semanca sia giusficato. Soolineiamo due pun:- non si è tenu a rendere conto di tu gli usi possibili del linguaggio Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! - è legima la disnzione tra semanca e pragmaca e, anzi, la pragmaca presuppone la semancaQuesto secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’avità cooperava alla quale i partecipan devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si aenga a 4 massime:1- QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento2- QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose pernen4- MODO: parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legima la disnzione tra semanca e pragmaca e, anzi, la pragmaca presuppone la semancaQuesto secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’avità cooperava alla quale i partecipan devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si aenga a 4 massime:1- QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento2- QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose pernen4- MODO: parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità

Paolo Stefano Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library.

 

CASANOVA (Veenezia). Filosofo. Grice: “It is fascinating to analyse what Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the plural – bendings – my implicatura is a bit like his piegadura, only less acute!” -- Grice: “I would hardly call Casanova a philosopher, but my wife hardly would not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo Girolamo Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore, poeta, alchimista, esoterista, diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto della Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di Venezia.  Benché di lui resti una produzione letterariatra trattati e testi saggistici d'argomento vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di matematica) e opere letterarie in prosa come in versivastissima, viene a tutt'oggi ricordato principalmente come un avventuriero e, per via della sua vita amorosa a dir poco movimentata, come colui che fece del proprio nome l'antonomasia del soave e raffinato seduttore e libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso chiamato "casanova".  A questa sua fama di grande conquistatore di donne contribuì verosimilmente la sua opera più importante e celebre: Histoire de ma vie (Storia della mia vita), in cui l'autore descrive, con la massima franchezza (pur non per questo privandosi d'anedotti romanzeschi e alcuni abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi e, soprattutto, i suoi innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è scritta in francese: tale scelta linguistica fu dettata principalmente da motivi di diffusione dell'opera, in quanto all'epoca il francese era la lingua più conosciuta e parlata dalle élite d'Europa.  Fra corti e salotti vari, si ritrovò a vivere, quasi senza rendersene conto, un momento di svolta epocale della storia, non comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento che avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase infatti ancorato fino alla fine dei propri giorni ai valori, precetti e credenze dell'ancien régime e della sua rispettiva classe dominante, l'aristocrazia, alla quale era stato escluso per nascita e della quale cercò disperatamente di far parte, anche quando essa era ormai irrimediabilmente avviata al crepuscolo, per tutta la propria vita. Tra le personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo di conoscere personalmente, e di cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si possono citare Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang Amadeus Mozart, Benjamin Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di Prussia. Dalla nascita alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia (ora Malipiero) Giacomo Girolamo Casanova nacque a Venezia, in Calle della Commedia (ora Calle Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu anche battezzato, il 2 aprile del 1725. Molte  opere enciclopediche o letterarie recano erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui origine è sicuramente da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835 Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII e de' contemporanei, Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce relativa al Casanova, Bartolomeo Gamba, intestò erroneamente la voce a un certo Giovanni Giacomo Casanova. Successivamente, l'errore fu ripetuto nel 1931 nella voce su Casanova dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso riapparso.  Si può leggere il nome corretto nel documento relativo al battesimo del Casanova.  «Addì 5 aprile 1725  Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano Giuseppe Casanova del q.(uondam) Giac.o Parmegiano comico, et di Giovanna Maria, giogali, nato il 2 corr. battezzato daGio. Batta Tosello sacerd. di chiesa de licentiaComp. il signor Angelo Filosi q.(uondam) Bartolomeo stà a S. Salvador. Lev. Regina Salvi.»  (Storia della mia vita, Mondadori) Il padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino parmigiano di remote origini spagnole (almeno stando alla dubbia genealogia tracciata dal Casanova all'inizio dell'Histoire, gli avi paterni sarebbero stati originari di Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la madre, Zanetta Farussi, era un'attrice veneziana che, nella sua professione, ebbe di gran lunga maggior successo del marito, dato che la troviamo menzionata persino da Carlo Goldoni nelle sue Memorie, ove la definì: "...una vedova bellissima e assai valente". La voce popolare lo considerava frutto di una relazione adulterina della madre con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4] e Casanova stesso affermò, seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori né donne, di essere figlio naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a suffragio della tesi potrebbero derivare dal fatto che, dopo la morte del padre, i Grimani si presero cura di lui con un'assiduità che appare andasse oltre i normali rapporti di protezione e liberalità che le famiglie patrizie veneziane praticavano nei confronti delle persone che, a qualche titolo, avevano servito la casata. Il che troverebbe conferma anche nel fatto che la giustizia della Repubblica, solitamente piuttosto severa, non infierì mai particolarmente nei suoi confronti. Dopo la sua nascita, la coppia ebbe altri cinque figli: Francesco, Giovanni Battista, Faustina Maddalena, Maria Maddalena Antonia Stella e Gaetano Alvise.   Chiesa di San Samuele, Venezia Rimasto orfano di padre a soli otto anni d'età ed essendo la madre costantemente in viaggio a causa della sua professione, Giacomo fu allevato dalla nonna materna Marzia Baldissera in Farussi. Da piccolo era di salute cagionevole e per questo motivo la nonna lo condusse da una fattucchiera che, eseguendo un complicato rituale, riuscì a guarirlo dai disturbi da cui era affetto. Dopo quell'esperienza infantile, l'interesse per le pratiche magiche lo accompagnerà per tutta la vita, ma lui stesso era il primo a ridere della credulità che tanti manifestavano nei confronti dell'esoterismo.  All'età di nove anni fu mandato a Padova, dove rimase fino al termine degli studi; nel 1737 s'iscrisse all'università dove, come ricorda nelle Memorie, si sarebbe laureato in diritto; la questione dell'effettivo conseguimento del titolo accademico è molto controversa: infatti Casanova descrive nelle Memorie gli anni passati all'Padova, sostenendo di essersi laureato. Analoga affermazione risulta anche dalla dedica dell'opera del 1797 a Leonard Snetlage, il cui frontespizio reca scritto A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Inoltre da documenti risulta che il Casanova abbia lavorato nello studio dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si era presunto che, compiuti gli studi e conseguita la laurea, fosse andato a compiere il praticantato presso il Da Lezze. Nonostante queste fonti, il primo a dubitare del titolo conseguito dal Casanova fu Pompeo Molmenti, ma ben presto gli studi del Brunelli, il quale aveva reperito documenti che dimostravano in modo certo l'avvenuta immatricolazione al primo anno e le successive iscrizioni, convinsero tutti gli autori dell'effettivo conseguimento del titolo accademico; in tal senso, tra i tanti, anche James Rives Childs (Casanova). Successivamente Enzo Grossato pose nuovamente in dubbio il conseguimento del titolo rifacendosi ai registri di laurea, i quali non menzionano il nome del veneziano. Dello stesso avviso Piero Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai registri consultati dal Grossato, anche un ulteriore codice, il Registro dottorati 1737 usque ad 1747, non riportava il nome del Casanova; inoltre egli constatò che il Casanova non aveva mai parlato del titolo se non in epoca tarda, quando ormai ricostruire la circostanza sarebbe stato difficile per chiunque.  Terminati gli studi, Giacomo Casanova viaggiò a Corfù e a Costantinopoli, per poi rientrare a Venezia nel 1742. Nella sua città natale ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato Marco da Lezze. Il 18 marzo 1743 la nonna Marzia Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla quale era legatissimo, si chiuse un capitolo importante della sua vita: la madre decise di lasciare la bella e costosa casa in Calle della Commedia[E 7] e di sistemare i figli in modo economicamente più sostenibile. Questo evento segnò profondamente Giacomo, togliendogli un importante punto di riferimento. Nello stesso anno fu rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto turbolenta, nel Forte di Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di luglio. Più che l'applicazione di una pena, fu un avvertimento tendente a cercare di correggerne il carattere.  Messo in libertà, partì, grazie ai buoni uffici materni, per la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che si recava ad assumere la diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato per le condizioni di povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a Roma, dove nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva, ambasciatore della Spagna presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse presto, a causa della sua condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel Palazzo di Spagna, residenza ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di casa.   Targa commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del 1744 arrivò ad Ancona, dove era già stato sette mesi prima. Durante il primo soggiorno nella città era stato costretto a passare la quarantena nel lazzaretto, dove aveva intessuto una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera superiore alla sua.[E 9]  Fu però durante il suo secondo soggiorno ad Ancona che Casanova ebbe una delle sue più strane avventure: si innamorò di un seducente cantante castrato, Bellino, convinto che si trattasse in realtà di una donna. Fu solo dopo una corte serrata che Casanova riuscì a scoprire ciò che sperava: il castrato era in realtà una ragazza, Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo Cesarino Lanti), che, per sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva passare per un castrato in modo da poter cantare nei teatri dello Stato della Chiesa, dove era vietata la presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di Teresa ricorre spesso nel testo dell'Histoire, a testimonianza dei molti incontri avvenuti, negli anni, nelle capitali europee dove Teresa mieteva successi con le sue interpretazioni. Ritornò quindi a Venezia e, per un certo periodo, si guadagnò da vivere suonando il violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei nobili Grimani che, alla morte del padre, avvenuta prematuramente (1733), avevano assunto ufficialmente la tutela del ragazzo, avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei Grimani, Michele, fosse il vero padre di Giacomo.  Nel 1746 avvenne l'incontro con il patrizio veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato sostanzialmente le sue condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu soccorso da Casanova e si convinse che, grazie a quel tempestivo intervento, aveva potuto salvarsi la vita. Di conseguenza prese a considerarlo quasi come un figlio, contribuendo, finché visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate in cui assisteva Bragadin, Casanova venne in contatto con i due più fraterni amici del senatore, Marco Barbaro[E 11] e Marco Dandolo; anch'essi gli si affezionarono profondamente e, finché vissero, lo tennero sotto la loro protezione. La frequentazione con i nobili attirò l'interesse degli Inquisitori di Stato e Casanova, su consiglio di Bragadin, lasciò Venezia in attesa di tempi migliori.  Nel 1749 incontrò Henriette, che sarebbe stata forse il più grande amore della sua vita. Lo pseudonimo nascondeva probabilmente l'identità di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. Su questa e su altre identificazioni, i "casanovisti" si sono accapigliati per decenni. In linea di massima, come è stato sostenuto da molti studiosi, i personaggi citati nelle Memorie sono reali. Al più, l'autore potrebbe essersi cautelato con qualche piccola accortezza: spesso, trattandosi di donne sposate, alcune sono citate con le iniziali o con nomi di fantasia, talvolta l'età viene un po' modificata per galanteria o per vanità dell'autore che non amava riferire di avventure con donne considerate, con i criteri di allora, in età matura, ma in generale le persone sono identificabili e anche i fatti riferiti sono risultati corretti e riscontrabili. Innumerevoli identificazioni e notizie documentali hanno confermato il racconto.  Se qualche errore c'è stato, lo si deve anche al fatto che, all'epoca in cui furono scritte le Memorie (dal 1789 in poi), erano passati molti anni dai fatti e, per quanto l'autore si possa essere aiutato con diari o appunti, non era facile incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni tanto l'autore si faceva però trascinare dalla sua visione teatrale delle cose e non rinunciava a qualche "colpo di teatro", il che peraltro contribuisce a rendere la lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità del racconto casanoviano è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in molti casi, impossibile da valutare è se i rapporti che Casanova riferisce di aver intrattenuto con i personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti. Taluni studiosi hanno ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati inseriti dei passaggi totalmente romanzati e di pura invenzione, basati comunque su personaggi storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel luogo e nel tempo della descrizione.  Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di Casanova con suor M.M.e i conseguenti rapporti con l'ambasciatore di Francia De Bernis. Si tratta di una delle parti più valide dell'opera dal punto di vista letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è serratissimo e la tensione emotiva dei personaggi di straordinario realismo. Secondo alcuni studiosi il racconto è assolutamente veritiero e si è ripetutamente tentata l'identificazione della donna, secondo altri il racconto è di pura fantasia e basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale Rosier), che effettivamente Casanova conosceva molto bene. La diatriba tra le varie tesi continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore dell'opera non cambia, perché ciò che perde il Casanova memorialista lo guadagna il Casanova romanziere.[E 15]  Rientrato a Venezia nella primavera del 1750, nel giugno successivo decise di partire per Parigi. A Milano si incontrò con l'amico Antonio Stefano Balletti, figlio della celebre attrice Silvia, e con lui proseguì alla volta della capitale francese. Durante il viaggio, a Lione, Casanova aderì alla Massoneria.[E 17] Non sembra che la decisione fosse ascrivibile a inclinazioni ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di procurarsi utili appoggi.  «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere il mondo, che non vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia dei suoi coetanei, deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per sapere superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene la loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve guardarsi dalle amicizie pericolose.»  (Giacomo Casanova, Memorie) Ottenne qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua vita, come Mozart[E 18] e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti a Parigi, Balletti presentò Casanova alla madre, che lo accolse con familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse per i due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si applicò allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre che, in molti casi, epistolare.[E 20]  Ritornato a Venezia dopo il lungo soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755, all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca, al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio.  Sui motivi reali dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di Casanova era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del regime aristocratico. Di fatto, Casanova conduceva una vita alquanto disordinata, ma né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come questi giocava, barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia di religione e, quel che è peggio, non ne faceva mistero.   L'arresto di Casanova (illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione alla Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma, l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto socialmente pericoloso restasse in circolazione.  Tuttavia gli appoggi, di cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è solo apparente, perché Casanova fu sempre un personaggio ambivalente: per estrazione e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua alla nobiltà, ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a qualche titolo, della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato che il suo presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle famiglie più illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e altrettanti cardinali. Questa paternità fu rivendicata da Casanova stesso nel libello Né amori né donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di corporatura dei due avvalorasse parecchio la tesi.  Dalla fuga dai Piombi al ritorno a Venezia (17561774)  Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo shock dell'arresto, Casanova cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo fu vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il 1º novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte, attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di allontanarsi fulmineamente con una gondola.  Si diressero velocemente verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava un'ombra sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono economicamente), Monaco di iera (dove Casanova finalmente si liberò della scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e quindi gli appoggi non gli mancavano.   Illustrazione da Storia della mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua specialità: brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga relazione, dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a disposizione, soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali magici.  Il 28 marzo 1757 assistette, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV.  Molto fantasioso, come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa venne autorizzata ufficialmente e Casanova venne nominato "Ricevitore" il 27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato cardinale; un mese dopo Casanova fu incaricato dal governo francese di una missione segreta nei Paesi Bassi.[26]  Al suo ritorno fu coinvolto in un'intricata faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la scrittrice veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese, Giustiniana era stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione con il patrizio veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di sposarla, ma la ragion di stato (lui era membro di una delle dodici famigliecosiddette apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a causa di alcuni oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo scandalo che ne era sortito, i Wynne avevano lasciato Venezia.[27] Giunta a Parigi, trovandosi in stato interessante e di conseguenza in grosse difficoltà, la ragazza si rivolse per aiuto a Casanova, che aveva conosciuto a Venezia e che era anche ottimo amico del suo amante. La lettera con cui implorava aiuto è stata ritrovata[28] ed è singolare la schiettezza con cui la ragazza si rivolge a Casanova, dimostrando una fiducia totale in quest'ultimo,[29] tenuto conto dell'enorme rischio a cui si esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il messaggio fosse caduto nelle mani sbagliate.  Casanova si prodigò per darle aiuto, ma incorse in una denuncia per concorso in pratiche abortive, presentata dall'ostetrica Reine Demay in combutta con un losco personaggio, Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in cambio di una ritrattazione. Benché l'accusa fosse molto grave, Casanova riuscì a cavarsela con la consueta presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua accusatrice finì in carcere. L'amica abbandonò l'idea di interrompere la gravidanza e in seguito partorì nel convento in cui si era rifugiata. Ceduti i suoi interessi nella lotteria, Casanova si imbarcò in una fallimentare operazione imprenditoriale, una manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una forte restrizione delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti che ne derivarono lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al solito, il provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo tolse dall'incomoda situazione.[30]  Gli anni successivi furono un intenso continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera, dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire ed è riferito nei minimi particolari; Casanova esordì dicendo che era il giorno più felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi con il suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora più onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31] Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene tratteggiata con ironia. Lo stesso Casanova non era d'accordo con molte idee di Voltaire («Voltaire [...] doveva capire che il popolo per la pace generale della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito), e quindi rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per il patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver ragione.[31]»  In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma.[33] Qui viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il soggiorno presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII.  Nel 1762 ritornò a Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla marchesa d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni presa in giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di pratiche magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo poco tempo, lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più favorevole, per Londra, dove fu presentato a corte.[34]  Nella capitale inglese conobbe la funesta Charpillon, con la quale cercò di intessere una relazione. In questa circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato debole e questa scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che fosse un grande amore, ma evidentemente Casanova non poteva accettare di essere trattato con indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi s'intestardiva, più lei lo menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di questa assurda situazione e si diresse verso Berlino.[36] Qui incontrò il re Federico il Grande, che gli offrì un modesto posto d'insegnante nella scuola dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente la proposta, Casanova si diresse verso la Russia e giunse a San Pietroburgo nel dicembre del 1764.[37]  L'anno successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò l'imperatrice Caterina II,[38] anche lei annessa alla straordinaria collezione di personaggi storici incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni. Merita una riflessione la straordinaria facilità con cui Casanova aveva accesso a personaggi di primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con chiunque. Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto della curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più esclusivi delle capitali.  Un po' la questione si autoalimentava, nel senso che in qualsiasi luogo si trovasse, Casanova si dava sempre un gran da fare per ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma Casanova il suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne.  Nel 1766 in Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente Casanova: il duello con il conte Branicki.[39] Questi, durante un litigio a causa della ballerina veneziana Anna Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone veneziano. Il conte era un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao II Augusto Poniatowski e per uno straniero privo di qualsiasi copertura politica non era molto consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso pesantemente dal conte, qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato in buon ordine; Casanova, invece, che evidentemente non era solo un amabile conversatore e un abile seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un duello alla pistola. Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia in caso di vittoria, in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne avrebbero rapidamente vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di Casanova a Madrid Il conte ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza da impedirgli di pregare onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne l'avversario, che si era comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza seriamente a un braccio, Casanova riuscì a lasciare l'inospitale paese. La buona stella sembrava avergli voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove fu espulso.Tornò a Parigi, dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia della morte di Bragadin, il quale, più che un protettore, era stato per Casanova un padre adottivo. Pochi giorni dopo (6 novembre 1767) fu colpito da una lettre de cachet del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di lasciare il paese. Il provvedimento era stato richiesto dai parenti della marchesa d'Urfé, i quali intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le pur cospicue sostanze di famiglia.  Si recò quindi in Spagna, ormai alla disperata ricerca di una qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu gettato in prigione con motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un mese. Lasciò la Spagna e approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente (gennaio 1769). Fu assistito grazie all'intervento della sua amata Henriette che, nel frattempo sposatasi e rimasta vedova, aveva conservato di lui un ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare, recandosi a Roma, Napoli, Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i contatti con gli Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che finalmente giunse il 3 settembre 1774.  Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia dopo diciott'anni, Casanova riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite grazie a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli Inquisitori come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi prima a condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le riferte di Casanova non furono mai particolarmente interessanti e la collaborazione si trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso rendimento". Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di persecuzioni che, avendole provate in prima persona, conosceva bene.   L'ultima abitazione veneziana di Casanova Rimasto senza fonti di sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta rete di relazioni per procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si usava far sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle stampe o addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter sostenere gli elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva manualmente e le tirature erano bassissime. Nel 1775 pubblicò il primo tomo della traduzione dell'Iliade. La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che avevano finanziato l'opera, era davvero notevole e comprendeva oltre duecentotrenta nomi fra quelli più in vista a Venezia, comprese le alte autorità dello stato, sei Procuratori di San Marco in carica[50] due figli del doge Mocenigo, professori dell'Padova e così via. Va rilevato che, per essere un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva delle frequentazioni di altissimo livello. Il fatto di far parte della lista non era tenuto segreto, ma in una città piccola, in cui le persone che contavano si conoscevano tutte, era di pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano che, malgrado le sue vicissitudini, Casanova non era affatto un emarginato. Anche qui è opportuna una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno oscillare tra la classe reietta e quella privilegiata.  In questo stesso periodo iniziò una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che per anni avrebbe scritto a Casanova, dopo il suo secondo esilio da Venezia, delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza commoventi,[52] utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano, con evidenti tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu l'ultima relazione importante di Casanova, che rimase molto attaccato alla donna: anche quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di cambio con discrete somme di denaro.  Il nome della calle deriva dalla presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di Giacomo Casanova è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di Castello. L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a Casanova di Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca), datata 13 dicembre 1783.L'appartamento occupato da Casanova e dalla Buschini (di proprietà della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete a trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione, spedita dalla Buschini a Casanova ormai in esilio, faceva riferimento alla casa antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste, Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, cit. in bibl.) Poiché tutti i caseggiati antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi incendi, avvenuti nel 1683 e nel 1686, l'area era rimasta praticamente priva di fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente era quello dinanzi al 6673[53]. In seguito la situazione non ha subito modifiche di rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare fondata e verificabile[54].  Negli anni successivi pubblicò altre opere e cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti, col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento della madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano Giustinian.[55]  Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città in cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola e c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso, era impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso l'aristocrazia fece quadrato e Casanova fu costretto all'ultimo, definitivo, esilio. Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno far circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto casanoviano, intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e vendicato al libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita, di Giacomo Casanova".[56]   Ritratto del 1788  Annotazione della morte di Casanova nei registri di Dux Lasciò Venezia nel gennaio 1783 e si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi,[57] accettò un posto di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla servitù,[58] ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata per sempre.  Da Dux, Casanova dovette assistere alla Rivoluzione francese, alla caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno di quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo conforto, oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo tenevano al corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione della Histoire de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue residue energie, compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere da una morte che ormai sentiva vicina. Scrivendola, Casanova riviveva una vita assolutamente irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario collettivo, una vita «opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che la salma fosse stata sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del castello. Ma riguardo al problema dell'identificazione corretta del luogo di sepoltura di Giacomo Casanova, le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non ci sono, allo stato, che ipotesi non correttamente documentate. Tradizionalmente si riteneva che fosse stato sepolto nel cimitero della chiesetta attigua al castello Waldstein, ma era una pura ipotesi. Altre opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal Francese, da rappresentarsi nel Regio Elettoral Teatro di Dresda, dalla compagnia de' comici italiani in attuale servizio di Sua Maestà nel carnevale dell'anno MDCCLII. Dresda); La Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda 1769Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana caprina. Epistola di un licantropo. Bologna. 1774Istoria delle turbolenze della Polonia. Gorizia. 1775Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.  Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie. Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. 1782Né amori né donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. 1784Lettre historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu connu... Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste entre le deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna. 1785Supplément à l'Exposition raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della contestazione, che susiste trà le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda. Venezia. 1785Supplemento alla Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur Jean et Etienne Luzac.... Vienna); Lettera ai signori Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque d'un penseur, Prague chez Jean Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et libraire. 1787 -Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs. Ecrite à Dux en Bohème l'année 1787, Leipzig chez le noble de Shonfeld 1788. Historia della mia fuga dalle prigioni della republica di Venezia dette "li Piombi", prima edizione italiana Salvatore di Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano 1911. 1788Icosameron ou histoire d'Edouard, et d'Elisabeth qui passèrent quatre vingts ans chez les Mégramicres habitante aborigènes du Protocosme dans l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois par Jacques Casanova de Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur le Comte de Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à l'imprimerie de l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) 1790Solution du probleme deliaque démontrée par Jacques Casanova de Seingalt, Bibliothécaire de Monsieur le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De l'imprimerie de C.C. Meinhold. 1790Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée a Dux en Boheme, par Jacques Casanova de Seingalt, Dresda. 1790Demonstration geometrique de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. 1792 Lettres écrites au sieur Faulkircher par son meilleur ami, Jacques Casanova de Seingalt, le 10 Janvier 1792. 1797A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue. 1960-1962Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara , traduzione Giancarlo BuzziGiacomo Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965. 7 voll. di cui uno di note, documenti e apparato critico. Piero Chiara e Federico Roncoroni Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori "I meridiani" 1983. 3 voll. Ultima edizione: Milano, Mondadori "I meridiani", 2001. 1968Saggi libelli e satire di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. 1969Epistolario (17591798) di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. Rapporti di Giacomo Casanova con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito "Prosopopea Ecaterina II (1773-74)", Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi veneziani. 1985Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli. Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a Dux), Milano, Rusconi. 1993Philocalies sur les sottises des mortels, Tom Vitelli. Salt Lake City. 1993Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition présentée et établie par Francis Lacassin.  2-221-06520-4. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte, Venezia, Editoria Universitaria. 1998Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia vita, traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton, coll. « I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo Casanova. Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. 2005Iliade di Omero in veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria,  Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne,  88-548-0312-X 2006Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria Universitaria. Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Histoire de ma vie, tome II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Histoire de ma vie, tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 137), Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome III. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 147).Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome III. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi, Milano, Luni Editrice, ,  978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze della Polonia, Milano, Luni Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera casanoviana  Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito ad Alessandro Longhi o, da alcuni[62][63], a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità storica dell'opera di Giacomo Casanova si è discusso parecchio.[67] Intanto bisogna distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado gli sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e addirittura matematico, Casanova non ebbe in vita, e tantomeno da morto, nessuna notorietà e nessun successo.[68] Successo che arrise invece all'opera autobiografica, anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte dell'autore.   Disegno di un busto di Giacomo Casanova, ubicato in origine a Dux, oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua produzione fu spesso d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono creati per ottenere qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte durante la detenzione a Barcellona nel 1768, che avrebbe dovuto servire, e infatti così fu, a ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto sospirata grazia. Lo stesso si può dire per opere scritte nella speranza di ottenere qualche incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia. Altre opere, come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario dell'autore ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto dall'Historia della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e varie edizioni, sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico e di proporzioni limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal racconto dell'evasione. Sembra quasi che Casanova tollerasse le sue creature autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di Casanova stava tutto nei suoi racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la narrazione salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era brillante e trascinante quando parlava della sua vita[71]- osserva de Lignequanto terribilmente noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su altre materie. Ma sembra che questo, Casanova, non abbia mai voluto accettarlo. E soffriva tremendamente di non avere quel riconoscimento letterario o meglio scientifico a cui ambiva.  Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti di Voltaire, che nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione. Quindi anche contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più fortunati ma meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere un grande successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in misura molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu iniziato tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi, che costituì per decenni il cavallo di battaglia del Casanova salottiero, fu pubblicata soltanto nel 1787.  Inoltre l'opera "vera", cioè quella in cui aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio negli ultimi anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò, in una lettera indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni prima e che era stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età mi fa credere di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia vita...". Cioè sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva, l'autore dovesse prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di futuro davanti da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa per chiunque, in particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro irripetibile.  Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto, acquistato[73] dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia nel 1821, fu pubblicata, dal 1826 al 1838, però in una versione notevolmente rimaneggiata da Jean Laforgue, il quale non si limitò a "purgare" l'opera, sopprimendo passi ritenuti troppo audaci, ma intervenne a tappeto modificando anche l'ideologia dell'autore, facendone una sorta di giacobino avverso alle oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva affatto alla verità storica, perché di Casanova si può dire che era ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un fautore dell'ancien régime, come dimostrano chiaramente il suo epistolario, opere specifiche e la stessa Histoire. In un passo delle Memorie, Casanova esprime chiaramente il suo punto di vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma si vedrà che razza di dispotismo è quello di un popolo sfrenato, feroce, indomabile, che si raduna, impicca, taglia teste e assassina coloro che non appartenendo al popolo osano mostrare come la pensano.[75]»  Per l'edizione definitiva delle memorie si dovette attendere fino a quando la casa Brockhaus decise di pubblicare, insieme all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al 1962, il testo originale in sei volumi curato da Angelika Hübscher. Ciò fu dovuto all'impianto generale dell'opera che era, a detta dell'autore e di smaliziati contemporanei come de Ligne, di un cinismo assolutamente impresentabile.[77] Quello che essi chiamarono cinismo sarà considerato, due secoli dopo, modernità e realismo.  Casanova è già uno scrittore di costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni, inclinazioni, attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e tali rimasero ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente il primo problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore, fu quello di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto precise del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale. Probabilmente si farebbe prima a dire di chi Casanova non ha scritto, e chi non ha incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue frequentazioni.[78]  Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro problema, questo insuperabile, fu la sostanziale "immoralità" dell'opera casanoviana. Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini, ai tic, alle ipocrisie della fine del Settecento e, ancor di più, del successivo secolo, ancora più fobico e per certi versi molto meno aperto di quello che l'aveva preceduto. Casanova ha precorso i tempi: era troppo avanti per diventare un autore di successo. E forse se ne rendeva perfettamente conto. Nella lettera a Zuan Carlo Grimani, ricordata in precedenza, Casanova, parlando dell'Histoire, scrive testualmente: ... questa Storia, che verrà diffusa fino a sei volumi in ottavo e che sarà forse tradotta in tutte le lingue... E poi, richiede una risposta ... perché io possa porla nei codicilli che formeranno il settimo volume postumo della Storia della mia vita. Tutto questo è avvenuto puntualmente.[79]  Riguardo all'uso della lingua francese, Casanova vi fece riferimento nella prefazione:   «J'ai écrit en français, et non pas en italien parce que la langue française est plus répandue que la mienne.[80]» «Ho scritto in francese e non in italiano perché la lingua francese è più diffusa della mia.»  Certo dell'immortalità della sua opera, se non al fine di garantirsela, Casanova preferì utilizzare la lingua che gli avrebbe consentito di raggiungere il maggior numero possibile di potenziali lettori. Molte opere minori, del resto, le scrisse in italiano, forse perché sapeva bene che esse non sarebbero divenute mai un monumento, come avvenne invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni, altro celebre veneziano, coevo al Casanova, scelse allo stesso modo di scrivere la propria autobiografia in francese.  L'autobiografia del Casanova, a parte il valore letterario, è un importante documento per la storia del costume, forse una delle opere letterarie più importanti per conoscere la vita quotidiana in Europa nel Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per le frequentazioni dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori, riferisce principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e borghesia, ma questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di contorno, di qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo. Leggere quest'opera è uno strumento importante per conoscere il quotidiano degli uomini e delle donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di ogni giorno.  La fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di vertice della scena letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera autobiografica ed è stata vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu attribuita la paternità dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in dubbio l'esistenza storica del Casanova, Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler, Hesse, Márai. Molti furono solo lettori e quindi influenzati in modo inconscio, altri scrissero opere ambientate nell'epoca di Casanova e di cui egli era protagonista.  Innumerevoli sono i riferimenti, nella letteratura moderna, a questa figura che ha finito per diventare un'antonomasia. In Italia l'interesse si è manifestato tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. La prima edizione italiana della Historia della mia fuga dai Piombi fu curata nel 1911 da Salvatore di Giacomo, il quale studiò anche i ripetuti soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse un saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara. Un capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della vita e dell'opera del Casanova. Proprio a questa legione di sconosciuti si debbono infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito, Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che probabilmente giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per l'Europa. La grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua vita a un certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla scrittura[91]  Riguardo al mito del seduttore, Casanova, insieme a Don Giovanni, ne è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di numerose opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi, benché ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile, lasciando dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il collezionista puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente all'immagine di sé e soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato unicamente sul numero delle vittime della sua seduzione.  L'interpretazione del suo mito sarebbe fornita proprio dal libretto del Don Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da Ponte, in cui Leporello, il servo di Don Giovanni, in un'aria notissima recita: Madamina il catalogo è questo, delle belle che amò il padron mio... e prosegue snocciolando le innumerevoli conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che alla redazione del libretto sembra abbia partecipato anche Casanovacome è stato sostenuto basandosi su documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e Casanova si frequentassero e che l'avventuriero fosse sicuramente presente la sera in cui a Praga andò in scena la prima dell'opera mozartiana (29 ottobre 1787)è tutto sommato marginale.[senza fonte] La partecipazione, comunque molto limitata, di Casanova alla composizione del libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana Don Giovanni, è ritenuta molto probabile da vari commentatori. L'elemento fondamentale è un autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una variante del testo che si è ipotizzato facesse parte di una serie di interventi operati in accordo con Da Ponte e forse anche con lo stesso Mozart.[94] Quel che è certo è che Casanova si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno ancora più grande, certamente più positivo e soprattutto reale.  Mostre 1998 Praga, Palazzo Lobkowicz, "Casanova v Čechách" (Casanova in Boemia). Catalogo: Casanova v Čechách, Praga, Gema Art 1998. 1998 Venezia, Ca' Rezzonico "Il mondo di Giacomo Casanova". Catalogo: Il mondo di Giacomo Casanova, un veneziano in Europa 1725-1798, Venezia, Marsilio, 1998.  88-317-7028-4  Francia "Casanova for ever, 33 expositions Languedoc-Roussillon". Catalogo: Casanova For Ever, Emmanuel Latreille (dir.), Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de France “Casanova, la passion de la liberté” (dal 15 novembre  al 19 febbraio ). Catalogo: Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, .  978-2-7177-2496-7 (BnF)  978-2-02-104412-6 (Seuil)  Stati Uniti d'America "Casanova: The seduction of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art Museum, Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: Casanova The seduction of Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston.  978-0-87846-842-3. Filmografia su Casanova Casanova (1918). Regia di Alfréd Deésy Il cuore del Casanova (Germania) Regia di Erik Lund. Soggetto di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con Bruno Kasner, Ria Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. Casanovas erste und letzte Liebe (Austria, 1920). Regia di Julius Szoreghi. Casanova (1927). Regia di Alexandre Volkoff Les amours de Casanova (Francia, 1934). Regia di René Barberis L'avventura di Giacomo Casanova (Italia, 1938). Regia di Carlo Bassoli. Le avventure di Casanova (Les Aventures de Casanova) (Francia, 1947). Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia, 1948). Regia di Riccardo Freda. Con Vittorio Gassman, Gianna Maria Canale, María Mercader, Antonio Centa. Le avventure di Giacomo Casanova (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose from Casanova, titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia, 1966). Regia di Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing, Maria Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W. Branbell, Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi Maltagliati, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro (Italia, 1975). Regia di Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens, Rosanna Schiaffino, Robert Alda, Massimo Girotti. (Casanova è uno dei personaggi). Il Casanova di Federico Fellini (Italia, 1976). Regia di Federico Fellini Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi, Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M. Berenstein. Il mondo nuovo (Italia, 1982). Regia di Ettore Scola. Con Jean Louis Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna Schygulla, Harvey Keitel, Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A. Belle, E. Bergier, Laura Betti. David di Donatello 1983 per la migliore sceneggiatura, scenografia e costumi. Il ritorno di Casanova, titolo originale Le retour de Casanova (Francia, 1992). Regia di Édouard Niermans Con Alain Delon, Fabrice Luchini, E Lunghini. Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000). Regia di Mauro Borrelli. Con G. Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E. Bradley. Il giovane Casanova (Francia, Italia, Germania, 2002). Regia di Giacomo Battiato. Con Stefano Accorsi, Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi, Silvana De Santis, Catherine Flemming, Katja Flint. Casanova (Stati Uniti, 2005). Regia di Lasse Hallström. Con Heath Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin, Sienna Miller, Adelmo Togliani. Historia de la meva mort (Spagna/Francia ). Regia di Albert Serra. Con Vicenç Altaió, Lluís Serrat, Eliseu Huertas. Casanova variations (Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael Sturminger, con John Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io Casanova (Italia ) Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour (Francia ). Regia di Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo Casanova), Stacy Martin (Marianne de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo lontanamente ispirati alla figura di Casanova Casanova farebbe così! (Italia 1942). Regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Le tre donne di Casanova (Stati Uniti 1944). Regia di Sam Wood. Casanova '70 (Italia 1965). Regia di Mario Monicelli. Film comici La grande notte di Casanova (Stati Uniti 1954) Norman Z. McLeod. Casanova & Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel. Tony Curtis, Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini, Marisa Mell, Hugh Griffith. Telefilm su Casanova Casanova (Regno Unito, 2005). Regia di Sheree Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura Fraser, Nina Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino per uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro — Roma, 1760 Riguardo l’onorificenza, Casanova nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori 2001,  II pag. 925 cit. in bibl.). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di ritrovare il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla Casanova (dicembre 1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi, senza alcun esito. Il che non significa che l’onorificenza non sia stata effettivamente conferita, in quanto potrebbe essersi verificato un errore burocratico, di trascrizione o altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso periodo furono conferite onorificenze ad altri personaggi come Piranesi, Mozart, Cavaceppi e il breve relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo stato, un riscontro oggettivo. Si aggiunga che il cavalierato dello Speron d’Oro era all’epoca già piuttosto inflazionato, al punto da sconsigliare l’esibizione in pubblico della decorazione. Lo stesso Casanova in un passo dell’opera autobiografica Il duello scrive, riferendosi all’onorificenza, "il troppo strapazzato ordine della cavalleria romana" (cfr. Il duello cit. in bibl.).[95]  Note Esplicative   Casanova visse a lungo in Francia e conobbe personalmente molti protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e Rousseau. Inoltre, in patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica dominante appartenenti all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva anche aderito alla Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di personaggi portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si definì sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare cui, pur non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore, reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli eventi, la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva assistito come semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente potenzialità e non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio, Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo sistema già dal 1721 (cfr. Montesquieu, Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il governo della classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed approfondito della posizione politica del Casanova è stato compiuto da Feliciano Benvenuti (Casanova politico, atti del convegno: Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, 16.11.1998, Gilberto Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini, Venezia, ed. Leo S. Olschki, 2001, pag. 1 e seg.)  Il cognome Casanova è attestato appartenere a nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma, Torino-Dronero  Casanova afferma che dalla città spagnola il suo antenato, padre Jacob Casanova, a seguito del rapimento di una monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito, nel 1429, a Roma in cerca di un rifugio dove, dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il perdono e la dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona, potendo così unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è interessante la tesi di Jean-Cristophe Igalens (G. Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont , pag. XL , op. cit. in Opere postume) il quale sostiene che la genealogia inserita dal Casanova all'inizio delle Memorie sia del tutto fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia di ciò che facevano regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i quali, all'inizio dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a ricercare una legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria, le vicende di cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le private rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se si considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale addirittura al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un cognome, praticamente un toponimo, estremamente comune.  A conferma del fatto che la nascita illegittima di Casanova fosse oggetto di chiacchiere, va citato un passaggio de La commediante in fortuna di Pietro Chiari (Venezia 1755) in cui si tratteggia un ritratto precisissimo di Casanova che chiunque era in grado di riconoscere sotto le spoglie di un nome di fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli altri un certo Signor Vanesio dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non legittima estrazione, ben fatto della persona, di colore olivastro, di affettate maniere e di franchezza indicibile". Evidentemente il riferimento a tratti somatici tipici e riconoscibili fa pensare che le dicerie fossero suffragate da una notevole somiglianza fisica con Michele Grimani. L'identificazione del Signor Vanesio con Casanova è pacifica, tra i tanti autori, concordi sul punto, si veda: E.Vittoria Casanova e gli Inquisitori di Stato cit. in bibl. pag. 25.  (Immatricolazione 29 novembre 1737 col numero 122, iscrizione al secondo anno 26 novembre 1738, fede di terzeria del 20 gennaio, 22 marzo e I maggio 1739. Fonte: Bruno Brunelli, Casanova studente, in “Il Marzocco” 15 aprile 1923, pag 1-2)  Il 2 aprile 1742 firmò un testamento in qualità di testimone.  Sull'ubicazione esatta della casa natale di Casanova e di quella in cui trascorse l'infanzia dal 1728 al 1743, anno della morte della nonna materna Marzia, si è discusso moltissimo. Certo è che al momento del matrimonio Gaetano e Zanetta Casanova non disponevano di un reddito tale da sostenere un spesa come quella affrontata, dal 1728 in poi, di 80 ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il 27 febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa della madre di Zanetta, Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E questa con ogni probabilità fu la casa in cui Casanova nacque il 2 aprile 1725 con l'assistenza della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta della casa natale è assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista Helmuth Watzlawick ha identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale civico 2993 di Calle delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di Casanova (Fonte: Helmuth Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical distraction, in Intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XVI 1999, pag. 17 e seg.). I coniugi Casanova si trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno dalla fortunata tournée londinese quando rientrarono a Venezia col secondogenito Francesco, nato a Londra il primo di giugno 1727. Tale abitazione risulta essere stata di gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al secondo piano che fu usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui era circa il doppio della media che veniva corrisposta nel vicinato per appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della commedia un'abitazione che corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al secondo piano e camera al terzo, nonché corrispondenza con la proprietà che si sa essere stata con certezza della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere alla descrizione è quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della Commedia) al civico 3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto che la lapide apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa calle, già Calle della Commedia, nacque il 2 aprile 1725 Giacomo Casanova" senza alcun altro più specifico elemento. Alcuni sostengono che a causa di rimaneggiamenti interni non è più possibile identificare la struttura originaria. Uno studioso dell'argomento, Federico Montecuccoli degli Erri, ha pubblicato (L'intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XX, 2003, pag.3 e seg.) un'analisi molto approfondita basata sulle cosiddette "Condizioni" cioè sulle dichiarazioni dei redditi immobiliari che venivano presentate dai proprietari. All'epoca, per verificare l'esattezza dei dati dichiarati, si procedeva ad un'ispezione diretta casa per casa effettuata, in ogni parrocchia, dal parroco. Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a ognuno il titolo di possesso. I proprietari dichiaravano il titolo di proprietà e gli affittuari dovevano o esibire il contratto oppure giurare le condizioni contrattuali. Poiché è stato ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta, Marzia, giurava per la figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda, che il contratto prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era di proprietà Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la residenza indicata sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche urbanistiche e catastali intervenute non consentono con certezza l'identificazione, anche perché all'epoca non esistevano dati catastali precisi. Secondo lo studioso citato, l'abitazione è da identificarsi con la casa al civico 3089 della Calle degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata designata come Calle della Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico che la proprietà. Comunque tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto di spazio di poche centinaia di metri; infatti è certo che i Casanova abitavano, per motivi di lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele, di proprietà dei Grimani. Documento: Calle della Commedia 324|casa|Giovanna Casanova comica al presente s'attrova in Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui) Registro dell'anno 1740 Atti della Parrocchia di S.Samuele.  Non nel noto lazzaretto del Vanvitelli, ma in quello in uso precedentemente.  Si è mantenuta la cronologia quale risulta dal testo delle Memorie. L'autore ha qui, come in altri casi, confuso le date o fuso insieme più viaggi. In realtà la permanenza nel Lazzaretto era durata dal 26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i due viaggi è stato di tre mesi, non di sette. Come affermato dall'autore, il soggiorno si svolse nel Lazzaretto "Vecchio", in quanto quello "Nuovo", pur terminato nel febbraio del 1743, iniziò a funzionare solo nel 1748 allorché la Reverenda Camera Apostolica se ne prese carico. Sull'argomento si veda: Furio Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in L'Intermédiaire des Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno  pag. 711. In tale studio viene ricostruita la situazione dei lazzaretti di Ancona e confrontato il racconto casanoviano con le risultanze di archivio relative ai progetti e all'iconografia degli edifici adibiti alle quarantene.La cronologia della permanenza è stata stimata dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J. Casanova, Histoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont,  I, Cronologia, pag. XXX, cit. in bibl.) Il progetto di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio", datato 1817, si conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e Piante, Parte I, Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo stato del fabbricato all'epoca della permanenza del Casanova.  Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone una tematica ricorrente cioè la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti riportati nell'Histoire e il considerare il personaggio descritto come realmente esistito. L'identificazione di Teresa con Angela Calori, nota virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su ricerche effettuate già dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il quale però ritenne che il personaggio fosse in realtà una costruzione letteraria. Teresa viene spesso citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di Teresa Lanti, maritata con Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte delle notizie, date e fatti riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con quelli attribuibili alla Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente nell'Histoire allorché Casanova riferisce di averla incontrata a Londra e di aver provato, vedendola, le stesse sensazioni avute in occasione di un incontro, a Praga, con Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare questo fatto una prova che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la Calori. Molti studiosi (tra gli altri Furio Luccichenti) propendono per l'assemblaggio d'invenzione, cioè pensano che Casanova abbia costruito il personaggio di cui parla con elementi derivanti da più persone diverse, il che non esclude che l'autore possa essersi ispirato, in larga misura, anche alla Calori. Comunque gli studiosi non demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio, Casanova a Bologna, 2007, pag. 33 e seguenti, cit. in bibl.) ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di un'altra famosa cantante bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino androgino e per aver interpretato spesso en travestie parti maschili. La tendenza a romanzare del Casanova sarebbe in questo caso particolarmente stimolata dall'ambiente e dai ruoli dei personaggi descritti. Egli ebbe sempre, infatti, fortissimi legami col mondo teatrale, essendo figlio di attori e avendo frequentato tutta la vita teatri e teatranti. Curiosamente, ogni volta che rappresenta un personaggio femminile che ha a che fare col teatro, sia cantante o ballerina, lo descrive, salvo rarissimi casi, in modo particolarmente negativo; come se, pur attratto da quel mondo, ne disprezzasse profondamente gli interpreti, attribuendo, soprattutto a quelli femminili, le peggiori inclinazioni alla falsità, all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è una delle eccezioni, il che farebbe propendere per l'idealizzazione, cioè per la non rispondenza alla realtà del personaggio, peraltro nascosto, come si è detto, sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra l'Histoire e il mondo del teatro si veda, di Cynthia Craig, Representing anxiety. The figure of the actress in Casanova's Histoire de ma vie. L'intermédiaire des casanovistes, Genève, Année 2003 XX.  Marco Barbaro (19 luglio 1688-25 novembre 1771), patrizio veneziano del ramo Barbaro di San Aponal, figlio di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a Casanova un legato di sei zecchini al mese. (Fonte: Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont cit. in bibl.  I pag. 997, che rinvia a Salvatore di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano)  Marco Dandolo, patrizio veneziano del ramo Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di Marco Dandolo 28 marzo 1779 in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario "...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo Casanova, che mi fu in tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj. Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui dorme.......... Al suddetto Giacomo Casanova lascio il mio orologio d'oro e le mie quattro possate d'argento"  (Fonte: L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in , pag.29 nota 104).  L'identificazione di "Henriette" insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno degli argomentipiù dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite ricerche è connesso con la centralità sentimentale di questi due personaggi nella vita di Casanova. Il nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle Memorie e la sua identità è stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le identificazioni che si sono susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere a: John Rives Childs  (1960), che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie d'Albert de Saint Hyppolite, nata il 22 marzo 1718, sposata a Jean-Baptiste Laurent Boyer de Fonscolombe, nipote di Joseph de Margalet, proprietario del castello di Luynes, che si trova nella zona descritta da Casanova come quella di residenza di Henriette. Helmut Watzlawick (1989), che sostiene trattarsi di Marie d'Albertas, nata a Marsiglia il 10 marzo 1722. Louis Jean André (1996), che avrebbe identificato Henriette in Adelaide de Gueidan (1725-1786). Quest'ultima ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante che, attraverso una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia, topografia della zona), conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione. Immagini del castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che secondo André corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da Casanova senza nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora però la prova inoppugnabile, una lettera o un qualsiasi manoscritto del Casanova stesso che consenta l'identificazione certa.  Molti studiosi hanno tentato l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo sull'argomento si deve a Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina Morosini (R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti T. CXLII (1983-84) pag. 235-266.  Sul rapporto tra romanzo e autobiografia nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova Michele Mari, pag. 237 e seguenti, cit. in .  Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata attrice amata dal padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era arrivato in giovane età a Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques Casanova, Vénitien, une vie d'aventurier au XVIII siècle, Pag. 26, note 1,2,3. Cit. in bibl. con rinvio a un passaggio delle Memorie di Goldoni)  Casanova fu iniziato nella loggia Amitié amis choisis, probabilmente su presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier Vincent, Casanova il contagio del piacere, cit. in bibl. pag. 145, nota 35).  L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza Massonica avvenne il 14 dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, pag. 56. Bruno Mondadori, 2005).  Nel novembre del 1750, Casanova ricevette i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di Gerusalemme (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)  Malgrado la diuturna applicazione, il fatto di aver avuto eccellenti maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia pratica durante la permanenza in Francia, il francese di Casanova non fu mai ritenuto sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli “italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. Casanova riferisce con dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon e la successiva intensa frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette anche i suoi limiti: infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre volte alla settimana ma non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori).  L'imputazione e la sentenza: 21 agosto 1755 Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. lo fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto Casanova condannato anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (VeneziaArchivio di StatoInquisitori di StatoAnnotazioniB. 534245)  Riferte di Giovanni Battista Manuzzi, confidente degli Inquisitori di Stato Incaricata la mia obbedienza dal Venerato Comando di riferire chi sia Giacomo Casanova, generalmente rilevo ch'è figlio di un comico e di una commediante; viene descritto il detto Casanova di un carattere cabalon, che si fa profittare della credulità delle persone come fece col N.H. Ser Zanne Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di quello... Giovanni Battista Manuzzi, 22 marzo 1755. ...Mi sovvenne allora che lo stesso Casanova parlato mi avea ne' giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e vantaggi che si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva dell'inclinazione il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta... Giovanni Battista Manuzzi, 12 luglio 1755.  Secondo il casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto di Casanova è da ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la scandalosa situazione. Cfr. Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 1065. Bibliografiche    Giacomo Casanova, Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A. Brockhaus-Librairie Plon, 1960-62.   Giacomo Casanova, Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, 1788-1789127.  Carlo Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi, 1967158.  Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVI in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.  G.Casanova,Storia della mia vita, Mondadori 2001,  I, pag. 502 cit. in bibl.  (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani)  (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello Studio Padovano. Giacomo Casanova, in Padova e la sua provincia)  (Fonte: P.Del Negro, Giacomo Casanova e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia dell'Padova n°25, 1992)  Aprile, maggio 1741 secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.  (Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)  Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.  Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero di un libertino veneziano, cit. in bibl. pag.32: Ma perché fu fermato? Non aveva da scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal Grimani che voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili della casa paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta, che doveva occuparsi della questione.  Si veda di Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo Casanova, L'Intermédiaire des casanovistes, XII (1995), pag. 27 e seguenti.  Si veda di Pierre-Yves Beaurepaire, Grand Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche : una cultura della mobilità nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali 21, La Massoneria, Gian Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49  cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.  cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl,  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, pag. 140 e seguenti, cit. in bibl.  Fonte: Bruno Rosada, Il Settecento veneziano. La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore, 2007, pag. 231, cit. in bibl.  Riguardo alla paternità del quadro in questione, la precedente attribuzione a Mengs (risalente a Johann Joachim Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e, allo stato delle ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco Narici, pittore di origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel 1952 a Milano da un restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale sosteneva di aver trovato tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un biglietto manoscritto che recava le parole Jean-Jacques Casanova 1767. Il fatto che il soggetto rappresentato possa effettivamente essere Giacomo Casanova, si basa su una serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di ipotizzare trattarsi di un uomo della stessa statura di Casanova che è nota; il fatto che i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di mano del fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per il soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare a una simbologia molto affine al personaggio di Casanova che, pur nello stile di vita brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro passò, nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe Bignami di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami, Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des casanovistes  XI, 1994, pagg. 17-23. Il mondo di Giacomo Casanova.... (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico, 1998, cit. in bibl.). Giuseppe Bignami, Casanova tra Genova e Venezia, La Casana, n° 3 luglio-settembre 2008, pag. 25-37. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF, , Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, pag.68-71  Marino Balbi (1719-1783), monaco somasco. Era un patrizio veneziano appartenente a una casata barnabota, cioè a una di quelle famiglie patrizie che avevano perso ogni ricchezza e i cui membri erano ridotti a vivere di espedienti. Erano detti barnabotti in quanto gravitavano intorno a Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, pag. 22, citato in ).  Si trattava di un certo Andreoli, custode del palazzo, che il Casanova vide approssimarsi, da una fessura del portone, "in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in mano". Sul punto, per maggiore approfondimento, si veda il commento di Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri Pozza 1997, pag. 316.  Sentenza di condanna a carico di Lorenzo Basadonna, carceriere del Casanova Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni de Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali ne provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi somasco, e di Giacomo Casanova, che vi erano condannati, per tenui motivi di contrasto con Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la interfezione. Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi del non ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del reo il caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r 175710 giugno. Lorenzo Basadonna sia condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato, Annotazioni, R. 535 c.83.  Jeanne Camus de Pontcarré marchesa d'Urfé 1705-1775, sposò nel 1724 Louis-Christophe de Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre figli. Rimase vedova nel 1734 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  II pag.1634 nota)  G. Casanova, Historie de ma vie, Libro 2, Volume 5, Capitolo 3  Molti commentatori hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista la rilevanza della documentazione, è indubitabile che Casanova abbia svolto un ruolo chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature politiche. Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo entourage era molto solido. Sul punto si veda G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001 cit. in bibl.  II, Pag. 164 nota 1, in cui si puntualizza che la lista dei 28 ricevitori, pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di Casanova in relazione alla ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto autobiografico. Secondo Samaran, (Jacques Casanova ecc.. Cit. In bibl.) Casanova avrebbe diretto una ricevitoria dal settembre 1758 a tutto il 1759, ma a Rue Saint Martin. Si veda anche Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie…. Éd. Robert Laffont 1993 cit. in bibl.  II, pag 21 nota 4 (con rinvio a C. Meucci, Casanova Finanziere, cit. in bibl. pag. 66 e seg.), pag. 23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo Casanova) e Jean Leonnet, Les loteries d'état en France aux XVIII e XIX siécles. Imprimerie nationale, 1963, pag 15 e seg. Il decreto di fondazione della lotteria è un arrêt delConsiglio di Stato del re Luigi XV, datato 15 ottobre 1757 (BnF, Departement des Manuscrit Française 26469, fol. 198).  Del viaggio nei Paesi Bassi, come incaricato di una missione diplomatica descritto da Casanova, vi è un riscontro obiettivo: il passaporto, ritrovato a Dux, rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys Lestevenon van Berkenroode (1715-1797), ambasciatore della Repubblica delle Sette Province a Parigi dal 1750 al 1762 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il documento originale è riprodotto in Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.  Dopo il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre Anna Gazini (che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard Wynne) decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero le altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel 1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un amore veneziano, Milano, Mondadori, 2003, pag. 23 e seg. e pag. 120 e seg.).  La lettera autografa di Giustiniana Wynne è andata all'asta all'Hôtel Drouot (Parigi) il 12 ottobre 1999. Il collezionista che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere l'anonimato, ne ha però consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut Watzlawick, L'Intermédiaire des Casanovistes anno 2003 pag. 25)  «...siete filosofo, siete onesto, avete la mia vita nelle mani, Salvattemi se c'è ancora rimedio, e se potete...»  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, Edizione 2001,  II, pag. 394, cit. in bibl.  Histoire, volume 15, capitolo XIX  Nous avons ici une espèce de plaisant qui serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres complètes de Voltaire avec des notes... Parigi 1837,  II pag. 91)  Fonte: Frédéric Manfrin in Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, , Chronologie, pag. 221.  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  II, pag. 1508 cit. in bibl.  Marie Anne Geneviéve Augspurger, detta La Charpillon, (circa 1746-1778), nota cortigiana londinese (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  III pag.117 nota).  Un riscontro del soggiorno di Casanova a Berlino deriva da una annotazione nel diario di James Boswell, datata 1º settembre 1764, in cui lo scrittore scozzese accenna all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla locanda Zu den drei Lilien (Ai tre gigli) in Poststraße, dove anche Casanova alloggiava. In particolare scrive: Ho mangiato da Rufin dove Nehaus, un italiano, voleva brillare come grande filosofo e quindi sosteneva di dubitare di tutto, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the Private Papers of James Boswell, London 1953,  IV, pag. 67). Il nome Nehaus è la traduzione di Casanova in tedesco (con un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che Casanova abbia usato il suo cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una lettera a lui indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus de Farussi, Farussi era il cognome della madre del Casanova. (Fonte: Helmut Watzlawick, Casanova and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII 2006, pag 41).  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. Casanova passò la frontiera russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXXIV in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 273, 274. Secondo quanto affermato nelle Memorie, Casanova incontrò varie volte la sovrana, sottoponendole vari progetti, ma senza alcun risultato.  Franciszek Ksawery Branicki, conte di Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si muoveva Branicki, che era un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui collusione con la potente nazione vicina rappresentò un vero e proprio tradimento, si può consultare la voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in particolare il paragrafo "Ritorno in Polonia".  Anna Binetti (cognome di nascita Ramon) celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il ballerino Georges Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò all'insegnamento della danza a Venezia (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  III pag.1183 nota)  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  III, pag. 285 e seguenti, cit. in bibl.  La vicenda sollevò un clamore notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei fatti, che ricalca sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la veridicità, si trova in una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe Antonio Taruffi, segretario del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e spedita da Varsavia a Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed. Zanichelli Bologna, 1878. La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati pagg. 196 e seg. e nota 1 pag. 203.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 288.  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 293. Cfr. anche, per la data di morte di Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa da Casanova (26 ottobre), Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. I soggiorni romani di Casanova furono tre: il primo dal 1º settembre 1743 al 23 febbraio 1744; il secondo dal dicembre 1760 al 5 febbraio 1761; il terzo dal 14 maggio 1770 a fine maggio 1771. I personaggi descritti, numerosissimi, sono noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere veridico il racconto che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è costituito da un documento che certifica la presenza a Roma del Casanova durante la Quaresima del 1771. Documento: Stato delle anime 1771, in Registri parrocchiali di S.Andrea delle Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di S.Eufemia Francesco Poletti anni 51 M. Angela moglie .anni 40 Margarita figlia zitella anni 16 Tommaso figlio anni 20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva anni 40  Piggionanti  Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti anni 37 Il signor Giacomo Casanova...anni 46  L'immobile in questione è quello, antistante l'Ambasciata di Spagna, sito nella piazza all'attuale numero civico 32. L'abitazione del Casanova era al secondo piano. (Fonte: A.Valeri Casanova a Roma cit. in bibl.)   Si è a lungo discusso circa l'esistenza di ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal titolo originale dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta dalla prima pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi, perché non è stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo al 1774. Va quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte primaria delle vicende di Casanova sono le sue Memorie; dopo il termine temporale delle medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di contemporanei, registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette. Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini, Casanova dalla felicità alla morte 17741798, cit. in bibl.). Evidentemente le notizie riguardanti il periodo compreso temporalmente nelle Memorie sono enormemente più numerose di quelle relative al periodo successivo. Circa l'attendibilità e la precisione delle notizie riportate nelle Memorie, il dibattito è stato amplissimo, ma numerosissimi riscontri ne hanno comprovato la sostanziale veridicità.  Il viaggio da Trieste a Venezia iniziò il 10 settembre 1774; la data è verificabile da una notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10 corrente è passato per qua il signor Giacomo Casanova di Saint Gall celebre per li diversi famosi incontri da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le opere da lui stampate, fra le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio la Storia delle vicende di Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo perdono e dopo venti anni si è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj Gorian Editoria e informazione a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta goriziana” , Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia , pag. 221-223).  È da osservare che la notorietà del personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer, rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel famoso Casanova che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco assai di nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue maniere sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik,  Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova, 2006).  Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo, Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier.  L'elenco completo dei sottoscrittori è consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. (pag.293 e seg.)  Delle lettere di Casanova alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute. A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Francesca Buschini che coprono il periodo dal luglio del 1779 all'ottobre del 1787. Di queste, 33 sono state riportate nel volume Lettere di donne a Giacomo Casanova Aldo Ravà, Milano, Treves 1912 cit. in bibl. L'edizione critica più recente delle lettere di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, è stata edita Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna , Grenoble, Antonio Trampus, Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni successivi al secondo esilio di Giacomo Casanova. Attraverso esse si vive il dramma umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più avvolta da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che praticamente viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva sempre più intollerante. Quando Casanova dovette sospendere i suoi aiuti in denaro, essendo ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si ritrovò letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di Barbaria delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna notizia ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è oltremodo toccante.  A.Ravà, Lettere di donne a Giacomo Casanova, cit. in bibl. p.176 e nota. Fonte dell'ammontare del canone: A.Ravà,  J. Marsan, Sui passi di Casanova a Venezia. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. pag. 347  Fonte: G. Casanova, Analisi degli studi sulla natura... G. Simeoni. Ed. Pendragon 2003, pag. 9. Il testo del libello è stata oggetto di una pubblicazione a tiratura limitata Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981. Si è ipotizzato che il Grimani abbia incaricato della redazione della replica Girolamo Molin, tuttavia il libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma fu fatto circolare in forma manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9).  Foscarini morì il 23 aprile del 1785.  Il conflitto con la servitù del castello divenne con gli anni sempre più acuto, tanto da far giudicare insostenibile la permanenza al castello del maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti rimosso dall'incarico. La diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au sieur Faulkircher... (vedi in ) nella quale Casanova trasfuse tutto l'astio accumulato per le persecuzionia suo diresubite.  Il concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14) ...Ma il Casanova è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei sensi.....  Il casanovista Helmut Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes, anno XXIII, 2006 pag. 38) una breve nota intitolata Lieu de sepolture de Casanova, in cui riferisce la notizia, comunicatagli da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di una testimonianza sull'argomento individuata nell'opera di un memorialista e storico coevo al Casanova: Johann Georg Meusel (1743-1820), professore di storia a Erlangen. Meusel, nella sua opera Archiv für Künstler und Kunst-Freunde (Dresda, 1805  I parte seconda, pag. 172) fa il seguente commento: «L'aîne, Jacques Casanova, Docteur en Droit de Padoue et bibliothécaire de Comtes de Waldstein-Warthemberg, à Dux en Bohème, où il mourût aussi, immortalisé par un monument plein de goût que le Comte lui a fait ériger dans son jardin, où il le faisait aussi enterrer selon son propre désir.» Pare quindi evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno del parco del castello e il conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno di gusto” in memoria del suo bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente dell'affetto per Casanova, oltre al legame derivante dalla comune appartenenza alla Massoneria, se è vero che gli conferì un incarico formale di bibliotecario ma in pratica, visto lo scarso impegno che comportava, una pensione, che lo mantenne per lunghi anni provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso dovette far fronte ai suoi debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi più che logico che abbia deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna e con un monumento funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo scrupoloso e non avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente verificabile da parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco Casanova, fratello minore di Giacomo e famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella medesima opera, un contributo biografico e che era ancora in vita al tempo della redazione dell'opera. Come sostiene Watzlawick, per avere la prova certa, bisognerebbe revisionare la contabilità del castello al momento della morte del Casanova, cercando la traccia dei pagamenti effettuati per la sepoltura e l'erezione del monumento.  Edizione in tre tomi basata sul manoscritto conservato presso la BNF, con le varianti di testo relative a passi rimaneggiati dall'autore. Attualmente () è l'edizione critica di riferimento.  Archivio Alinari, su alinariarchives.  Archivio GrangerNew York  Opere di LonghiCasanovaUbication: Firenze  Miti e personaggi della modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte, musica e cinema, edizioni Bruno Mondadori, : «Nell'arte. Di Casanova esistono alcuni ritratti, tra cui un dipinto giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi che lo raffigura all'epoca della maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un terzo attribuibile a Mengs» (NDR: oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco Narici)  Il quadro, conservato un tempo nella collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e nero in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe stato eseguito presumibilmente nel 1774 allorché Casanova rientrò a Venezia dall'esilio. Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni sconosciute donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti. Successivamente passò a Francesco Antonio Gritti di Treviso, zio materno dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla sorella di Francesco Antonio, Maria Gritti Rizzi. Nel 1934 il quadro faceva ancora parte della collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del Casanova nel soggetto ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, Casanova era vicino ai cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF, , Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil, pag.68-71. Su Alessandro Longhi si veda l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile su Ca' Foscari online). In particolare a pag. 237 vengono riassunte le vicende del ritratto con richiami bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les portraits de Jacques et de François Casanova, «Gazette des Beaux-Arts», Bernier G., Beau garçon, Casanova?, «L‟OEil», La questione è stata oggetto di un cospicuo dibattito sul quale spesso ha pesato il giudizio moralmente negativo circa la personalità dell'autore. Soprattutto al primo apparire di opere critiche sulla questione, cioè alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento, si tendeva a separare la indiscussa validità storica delle Memorie, nel loro complesso, dal giudizio di riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei passi delle memorie ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta da Benedetto Croce il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende casanoviane (si veda: Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili settecenteschi, ed. Sandron 1914) pur definendo le Memorie "un libro osceno" (B.Croce, Salvatore di Giacomo e il canto del grillo in "la Critica"). Col tempo il valore storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi sostenitori, come Ettore Bonora il quale scrisse ...fissati i loro limiti. i Mémoires restano un libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del mondo settecentesco, un libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali quanto pochi altri, può rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia società che la Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori del Settecento, pag 717, citato in ). Fonte: T. Iermano, Le scritture della modernità, citato in .  Emblematico a questo riguardo è il caso del romanzo utopistico Icosameron (Praga, 1788) che costituì un tale insuccesso editoriale da minare definitivamente la già non florida situazione finanziaria del Casanova. Malgrado gli sforzi dei volenterosi sottoscrittori, si accumulò una perdita di duemila fiorini, secondo una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di ottocento zecchini secondo una lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque di grande rilievo che costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a ricorrere a prestiti usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e perfino capi di vestiario (Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo Casanova, ed. Mondadori 1998, pag. 389 e seg.).  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei tanti elementi della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da parte delle autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria dell'esule, il che avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu sicuramente appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele influenti, stava compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il sostegno a Casanova si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano, alcuni dei quali molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo Morosini, di essere aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian era anche vicino ad ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo agire. Sul gruppo di patrizi che sosteneva le ragioni di Casanova ed era fautore del perdono si veda Piero Del Negro, Il patriziato veneziano nell'Histoire de ma vie, in L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in , pag.25, 26 nota 90. Si veda inoltre la lettera di Casanova a Zulian scritta da Lugano nel luglio del 1769, Epistolario  di Giacomo Casanova, Piero Chiara, cit. in bibl. pag. 105,106.  Il brano, un ritratto in prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De Ligne riuscì a cogliere con straordinaria esattezza e rendere con estrema obiettività gli elementi del carattere del Casanova. Il passo può essere consultato qui (Mémoires et mélanges historiques et littéraires, ed. Ambroise Dupont et C. Parigi 1828).  Su come Casanova esercitasse il suo fascino sull'uditorio, con il racconto delle sue avventure, vi è una testimonianza assai qualificata, per lo spessore del personaggio, che è stata lasciata da Alessandro Verri il quale, in una lettera al fratello Pietro, inviata da Roma nel 1771, scrive: ...V'è un certo uomo straordinario per le sue avventure, per nome il signor Casanova, Veneziano: egli è attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e vivacità; ha viaggiato tutta l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli riuscì di fuggire...Egli racconta questa dolorosa anecdota della sua vita, successagli quindici anni or sono, con tanto interesse e forza, come se gli fosse accaduta ieri... Alla risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla veridicità del racconto, Alessandro replicava: ...Ultimamente gliel'ho sentita raccontare da lui stesso. Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie le obiezioni, ed ha un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che v'interessa infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.  La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340  Alla morte di Casanova, il manoscritto originale dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini che nel 1787 aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria Maddalena. Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a Dresda, dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e i quattro saggi furono venduti, nel 1821, all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio , il ministro francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato l'acquisto del manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di Hubertus Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France.  Molti studiosi hanno analizzato, parola per parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile Casanova). L'autore procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da Casanova e la versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei crimini (tali Casanova li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo).  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  I pag. 733, cit. in bibl.  A questo proposito de Ligne scrive ...le sue memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio, difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e ritratti, pag. 189, cit. in bibl.),  Illuminante, a questo riguardo, il passo di una lettera datata 20 febbraio 1792, inviata da Casanova a Giovanni Ferdinando Opiz in cui lo scrivente dichiara: Per ciò che riguarda le Mie Memorie, più l'opera va avanti più mi convinco che è fatta per essere bruciata. Da questo potete capire che fin quando saranno in mie mani non verranno certo pubblicate. Sono di una tale natura di non far passare la notte al lettore; ma il cinismo che vi ho messo è tanto spinto che passa i limiti posti dalla convenienza all'indiscrezione (Fonte: Epistolari 1759-1798 di Giacomo Casanova, Piero Chiara, ed. Longanesi & C.)  Si veda in Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki 2001, pag. 171, cit. in bibl.  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione dell'Histoire (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 10). Quindi la scelta sarebbe stata orientata soltanto dalla possibilità di maggiore diffusione dell'opera. Ma il pensiero dell'autore viene chiarito, ampliato e approfondito nella cosiddetta “Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di Trocchio, cit. in bibl. Pag. 55), Casanova dice Ho scritto in francese, perché nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana; perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un problema di diffusione.  Stendhal fa, nella sua opera, numerosi riferimenti a Casanova e all'Histoire cfr. Promenades dans Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il casanovismo fra Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari cit. in bibl. pag. 383.  Foscolo, durante il soggiorno londinese, recensiva opere di autori italiani. A proposito dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse occasioni (sulla Westminster review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review del giugno dello stesso anno), che il protagonista era di pura fantasia e le vicende narrate completamente inventate.  Balzac si ispirò largamente alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed episodi per l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino Cane o per desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si veda Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia, Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs, Casanova. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris 1962  Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e scrive al padre: ..mi sono comprato le Memorie di Casanova dove spero di trovare un soggetto. Il soggetto fu il Casanova stesso, rappresentato nella commedia L'avventuriero e la cantante (1899) (Fonte: L'avventuriero e la cantante con postfazione di Enrico Groppali, ed. SE).  Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla vita dell'avventuriero, tra cui Le sorelle ovvero Casanova a Spa (ed. Einaudi) e Il ritorno di Casanova (ed. Adelphi).  Hesse scrisse il racconto La conversione di Casanova (ed. Guanda 1989) che fu pubblicato nel 1906.  Márai scrisse il romanzo La recita di Bolzano (ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha come protagonista l'avventuriero veneziano.  Salvatore di Giacomo "Casanova a Napoli" in Nuova antologia 1922.  Benedetto Croce "Aneddoti di varia letteratura", Napoli 1942. "Di un cantastorie del Settecento e di un luogo delle Memorie di Giacomo Casanova" opera il cui autografo di sei pagine è andato all'asta a Milano il 21.5.92.  Piero Chiara curò per Mondadori (1965) la prima edizione italiana basata sul manoscritto originale delle Memorie, scrisse un saggio Il vero Casanova, Mursia (1977) e molti articoli sull'argomento.  Scrive Casanova in una lettera all'Opiz Scrivo dall'alba alla sera e posso assicurarvi che scrivo anche dormendo, perché sogno sempre di scrivere. (Fonte: Piero Chiara Il vero Casanova, Mursia 1977, pag.209).  Tra le altre si veda Margherita Sarfatti, Casanova contro Don Giovanni, ed. Mondadori (1950), citata in .  La tesi è esposta in modo articolato da Francis Lacassin (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert Laffont, I, Préface, pag. X).  Di questo avviso Piermario Vescovo (Il mondo di Giacomo Casanova, pag. 187, , ed. Marsilio 1998, citato in bibl.). Un'analisi particolarmente approfondita si deve ad Andrea Fabiano il quale esamina, in dieci tesi, tutti i motivi che rendono probabile la partecipazione (Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, G. Pizzamiglio, ed. Leo S. Olschki 2001, pag. 273 e seg.). In sostanza è stato osservato che Da Ponte e Casanova si conoscevano e frequentavano, che Casanova era certamente presente a Praga nei giorni che precedettero la prima, che sia lui che Mozart erano massoni, che una serie d'incidenti aveva procrastinato la rappresentazione, costringendo a varie modifiche del testo per manifesta insoddisfazione di alcuni cantanti, che Casanova era stato sempre molto vicino per gusti e frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso di opere di teatro quindi perfettamente in grado di apportare le modifiche necessarie. Inoltre sembra assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare varianti al testo del libretto per puro passatempo.  Sull’argomento si veda lo studio di Furio Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année XVII 2000, pag. 21 e seg. In cui vengono minuziosamente riferite le ricerche effettuate, senza esito, nell'Archivio vaticano.   Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà , Il mondo di Giacomo Casanova, Venezia, Marsilio, Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, Robert Abirached, Casanova o la dissipazione, Palermo, Sellerio, Louis Jean André, Memoires de l'Academie des sciences, agriculture, arts & belles lettres d'Aix. Tome 6. Aspects du XVIIIe siecle aixois, Aix-en-Provence, Ed. Académie d'Aix, Maurice Andrieux, Venise au temps de Casanova, Paris, Hachette, 1969. 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Rivista internazionale di studi casanoviani (), Antonio Trampus, Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati, Università Ca' Foscari Venezia, Ca' Bembo.  Libertino (personaggio) Storia della mia fuga dai Piombi Manon Balletti Silvia Balletti Matteo Bragadin Francesco Casanova Gaetano Casanova Giovanni Battista Casanova François-Joachim de Pierre de Bernis Zanetta Farussi Michele Grimani Charles Joseph de Ligne Andrea Memmo Louise O'Murphy Giustiniana Wynne Pietro Antonio Zaguri Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Giacomo Casanova Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua francese dedicata a Giacomo Casanova Collabora a Wikiquote Citazionio su Giacomo Casanova Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giacomo Casanova  Giacomo Casanova, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giacomo Casanova, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  (IT, DE, FR) Giacomo Casanova, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Giacomo Casanova, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Giacomo Casanova, su The Encyclopedia of Science Fiction. Giacomo Casanova, su Find a Grave.  Opere di Giacomo Casanova, su Liber Liber.  Opere di Giacomo Casanova, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Opere di Giacomo Casanova, su Progetto Gutenberg. Audiolibri di Giacomo Casanova, su LibriVox.  di Giacomo Casanova, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Giacomo Casanova, su Internet Movie Database, IMDb.com.   Manoscritto originale dell'Histoire de ma vie su Gallica, su gallica.bnf.fr.  Sito della BNF con notizie sul manoscritto e iconografia, su expositions.bnf.fr.  Testo dell'Histoire de ma vie edizione 1880, su www-syscom.univ-mlv.fr.Testo dell'Histoire de ma vie edizione integrale in inglese, su hot.ee. Filosofi italiani. Aspetti poco noti della vita di Casanova vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche sull'opera autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la massima franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli incontri galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con almeno una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe legata alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare prete, fu scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a Casanova l'espulsione del seminario. Ma il numero di uomini con cui Casanova e' stato a letto non e' significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui Casanova racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non lo era affatto. E questo e' un grande merito di Casanova.L’ultimo amore di Casanova: Una grande storia d'amorebooks.google.com › books· Translate this page Fausto Bertolini · 2021 FOUND INSIDE ai tempi di Padova e ai giorni delle lezioni dell'abate Gozzi, che l'aveva istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e con un po' più di passione e di attenzione se lo era portato a letto per iniziarlo alla pratica omosessuale che Casanova si ... – Grice: “His first experience was with a Venetian nobleman; his second one cost him the expulsion from the seminary – Altham alleges he (Casanova, not Altham) slept with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s favourite is the description of the ‘erotical game’ as masked in Venice -- Giacomo Casanova. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casanova: conversazione sessuale, conversazione e conversazione” – The Swimming-Pool Library.

 

 

CASATI: Grice: “I like Casati; he is from Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or ‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but the idea stands for the thing, and the expression stands for the thing that stands for the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a typical Renaissance man of a philosopher, as he should!”  Studia a Milano con Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici (Laterza).  Si occupa di fenomenologia dello spazio e degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di questi due elementi secondo il senso comune. Buchi e altre superficialità (Garzanti), e Semplicità insormontabili (Laterza).  Buchi e altre superficialità è un tentativo di analizzare i diversi tipi di buco, superando il paradosso di classificare un elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il nulla. Utilizza strumenti di filosofia della percezione, geometria, logica e topologia, ma anche linguistica e letteratura. Un esperimento epistemologico che dimostra come l'esperienza e il linguaggio quotidiani si trasformino quando diventano oggetto di un'indagine filosofica e di una formalizzazione scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso quotidiano, diventa sfuggente e ambiguo.  Tra i suoi principali contributi si annoverano la teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la teoria 'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica analitica: la teoria dei suoni come eventi localizzati,  la regione spaziale immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli oggetti materiali, la teoria del futuro "strizzato"  nella metafisica del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle ombre e il loro contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali grazie alla scoperta di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre (ombre corrette che appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette), scoprendo o prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione "copycat", l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la cattura delle ombre, le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le ombre di oggetti non materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il modo in cui l'ombra è stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il ragionamento geometrico, in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra). Un'altra linea di ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati principali in questo settore sono la prima e finora unica semantica formale per le mappe, una sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la teoria dei "micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una teoria generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore di un progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura normativa, in un contesto di democrazia partecipata.  La sua Prima Lezione di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia, che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia. Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità insormontabili: 39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi di immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza); Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere, Laterza);  Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia, Raffaello Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente diaboliche. 100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo, Einaudi). Isola di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI UNA TEORIA DELL' IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e definizione. Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA VISTA E L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto visivo. Ombra. Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti materiali: la nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE E PERCEZIONE DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed immagine. L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il problema dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore della teoria della somiglianza   Somiglianza e rappresentazione. Alcuni casi limite. Contro la teoria della somiglianza. La complessità della percezione dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in. LO SPAZIO NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione canonica e scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun luogo. QUADRO E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie percettiva. L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario iconografico. Quadro ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio nel quadro. Alcuni esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE. Contesto di interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza iterata. Cornice e finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione ridondante. I CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di Escher e il fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte: rappresentare e immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia estetica. IL PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella materialità. La geometria dell'espressione. La dissoluzione della rappresentazione. Lo Stilo rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di esplicitazione. L'IMMAGINE E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la comunicazione. Critica. Riferimento e generalità.  La teoria che Grice e Casati propongono può chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la conversazione -- ma ‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati alternativi. La teoria di Grice e Casati sostiene che un artefatto (segno artificiale, non-naturale -- 'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo precipuo essere ri-conosciuto come emesso in base all’intenzione di profferire una espressione che... – dove si può immaginare vari modi di riempire lo spazio lasciato vuoto dai puntini di sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto è il seguente. Una emissione conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una qualche conversazione sulla loro produzione. Cominciamo con lo sgombrare il campo da possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che “molte cose vengono create con lo scopo di suscitare una conversazione, e queste non sono opere d’arte, come per esempio la produzione di gesti che conducono alla disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla stampa”. L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale non dice che le opere d’arte vengono create con l’intenzione di suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è compatibile con l’ipotesi che le opere d’arte non vengano create con l’intenzione di suscitare una conversazione. L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione di creare oggetti che vengano riconosciuti (per esempio, in virtù di certe caratteristiche fisiche) come creati allo scopo di suscitare una conversazione. È irrilevante per la soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare una conversazione, o se una conversazione venga poi effettivamente suscitata 4 . Vediamo subito anche alcune conseguenze immediate, tenendo presente il fatto che i due competitori diretti della teoria sono la teoria della comunicazione e quella dell’intenzione artistica, laddove la prima compete sull’aspetto sociale, e la seconda in quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale i prodotti artistici non servono per una “comunicazione” semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti utilitari, devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba creare l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in una conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati. 4  La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances artistiche come le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere d’arte sono particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli aspetti impliciti di tutte le opere d’arte. 17 La teoria spiega perché i prodotti artistici riescono a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene, questa sopravvivenza è un fatto molto strano, e comunque poco compatibile con l’idea che i prodotti artistici contengano un messaggio.)5 Passano il test del tempo perché la capacità di essere riconosciuti come creati allo scopo di suscitare una conversazione non dipende dalle contingenze specifiche di questa o quella conversazione, ma dai parametri generici che regolano la nostra capacità di inserirci in una conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche quando non è più possibile conoscere i termini della conversazione in cui il prodotto avrebbe inizialmente dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la possibilità di recuperare il prodotto all’interno di una nuova conversazione. In modo simile, le teoria spiega perché le opere d’arte passano il test dello spazio, ovvero possono venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla comunità originale del creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici hanno l’aspetto che hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati problemi - massimizzare la novità - attrarre l’attenzione (essere sufficientemente differenti da artefatti utilitari) - essere sufficientemente complessi (per via della loro forma apparente, o per via della storia della loro origine) da massimizzare la possibilità di venir utilizzati come spunti di conversazione in quanto li si è riconosciuti come tali. La teoria spiega le fluttuazioni di valore estetico ed economico dei prodotti artistici. Non basta avere delle buone qualità per essere un buono spunto di conversazione: deve anche esserci una conversazione per cui tale qualità può venir rilevata. La teoria spiega perché i prodotti artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti di moda, e muoiono (laddove la maggior parte delle latre teorie impone cesure irriconciliabili tra grande arte e arte demotica). La teoria conversazionale spiega l'origine dell'arte e degli artefatti artistici. L’arte non è stata inventata. Le opere d'arte sono state scoperte, nel senso che si è visto che certi artefatti erano produttori di interazioni sociali e davano al loro autore un credito che questi poteva riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito si è cristallizzata l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi requisiti. La teoria spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere d'arte (come nel caso dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano di espungere dal novero dell'arte.) 5  Riprendo nel seguito ed espando alcuni elementi da Casati 2002. 18 Spiega l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché certe cose siano considerate arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati estrinseci con un fondamento nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un certo oggetto massimalmente “conversazionabile”). La teoria spiega perché gli artisti amano parlare del loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è particolarmente arduo da spiegare in una teoria della comunicazione o dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le etichette e i pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere d’arte vengono acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla conversazione scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con svariate strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle routines (Bullot 2002), esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria ipotizza che gli artisti producano con un occhio di riguardo alle possibili conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile come... La clausola esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta per lo scambio conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere d’arte. Dove interviene lo studio della cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto che non tutti i soggetti sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire spunti per la conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo dell’intenzione meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni empiriche sul contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di ricerca, una antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo in questa direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo? Conclusione La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta un’ipotesi che cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su che cosa è un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti artistici e all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano. Anche se è una teoria che si situa nella regione della dipendenza della risposta, non non è una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche sono un tipo di risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti non artistici. Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe aspettare di fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte del 19 riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto resta un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che considera le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la cui forma dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione di controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio, D. 1990 L'arte come idea e come esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Luigi Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza, "Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza, "Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo". Roberto Casati. Keywords: “la conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto, segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo – logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati” – The Swimming-Pool Library. 

 

CASINI (Roma). Filosofo. Grice: “I like Casini – he takes, unlike me, physics seriously! But then so did Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did a lot of ‘physical’ rather than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a Roma sotto Nardi, Antoni, e Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con “L'idea di natura”.   I suoi interessi di ricerca in storia della filosofia si sono successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze sperimentali nel Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e alla diffusione della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a proposito di filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero, non senza tener conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in tale contesto Kant.  Insegna a Trieste, Bologna, e Roma.  Le sue ricerche riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra rivoluzione scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della fisica di Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca philosophia" e "antica sapienza italica", le dispute sorte attorno al darwinismo.  Altre opere: “Diderot "philosophe", Laterza); Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana, Laterza); Rousseau, Laterza);  Introduzione all'illuminismo, Laterza -- razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia” (Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino); “Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il concetto di creazione (Il Mulino).    La lista di autorità e l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini.   Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo passo le trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura romana alla riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni storico-archeologiche  e alle strumentalizzazioni politiche del Sette-Ottocento.  Giuseppe Bottai o delle ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa - La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico dell'economia corporativa - Il «bolscevico» epurato - «Mutevolezza e instabilità» - «Scienza», «ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la sociologia (Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax romana in Albione - «Aristòcrate» - Dottrina del fascismo - Il postfascismo e la «rivouzione mancata» - Verso la sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si parla» - «Scoperte e massacri» - Sguardi retrospettivi: tragedia e catarsi - Docta ignorantia - «Commesso viaggiatore dell'assoluto» - Genus irritabile vatum - Un dialogo tra sordi - Amici e nemici) - 5. Un autoritratto (A metà ventennio – Riflessi - Tra casa e scuola - Agrari in Toscana - I primi pedagoghi - L'Istituto Massimo sj - Vinceremo! - Il passaggio del fronte – Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità idealistiche - Ideologie in crisi – Diderot - Roma, gli amici - Savinio, Carocci - La naja – Intermezzi - Olivetti, Ivrea - La "cultura" della RAI – Let Newton Be - Anni di prova) - Indice dei nomi Order   Zoogonia e "Trasformismo" nella fisica epicurea Giornale Critico Della Filosofia Italiana 17 (n/a): 178. 1963. Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  10 Zev Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer Academic Publishers, 1991. Pp. xviii + 588. ISBN 0-7923-1054-3. £103.00, $189.00, Dfl. 300.00 (review) British Journal for the History of Science 27 (2): 229-230. 1994. Like Recommend Bookmark  6 The "Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia 99 (1): 51-80. 2008. Political Theory Like Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. Isaac Newton Like Recommend Bookmark  10 Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia 104 (2): 285-294. 2013. Jean-Jacques Rousseau Like Recommend Bookmark  9 Il momento newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark  5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia 91 (2): 251-282. 2000. Isaac Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution, 1992. Pp. xxii + 850. ISBN 0-7294-0374-2. No price given (review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th Century French Philosophy Like Recommend Bookmark Lo spettro del materialismo e la "Sacra famiglia" Rivista di Filosofia 17 261. 1980. Like Recommend Bookmark Lumi e utopie in uno studio di Bronislaw Baczko Rivista di Filosofia 13 109. 1979. Like Recommend Bookmark  21 The New World and the Intelligent Design Rivista di Filosofia 100 (1): 157-178. 2009. Anti-Darwinist ApproachesDesign Arguments for Theism Like Recommend Bookmark Scienziati italiani del Seicento e del Settecento Rivista di Filosofia 75 (3): 457. 1984. Like Recommend Bookmark  9 Kant e la rivoluzione newtoniana Rivista di Filosofia 95 (3): 377-418. 2004. Kant: Philosophy of Science Like Recommend Bookmark » Ottica, astronomia, relatività: Boscovich a Roma (1738-1748).« Rivista di Filosofia 18 354-381. 1980. Like Recommend Bookmark Introduzione All'illuminismo da Newton a Rousseau Laterza. 1973. Like Recommend Bookmark Newton e i suoi biografi Rivista di Filosofia 84 (2): 265. 1993. Like Recommend Bookmark Diderot e Shaftesbury Giornale Critico Della Filosofia Italiana 14 253. 1960. Like Recommend Bookmark  9 L'iniziazione Pitagorica Di Vico Rivista di Storia Della Filosofia 4. 1996. Like Recommend Bookmark Per Conoscere Rousseau with Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques Rousseau Like Recommend Bookmark Toland e l'attività della materia Rivista di Storia Della Filosofia 22 (1): 24. 1967. 17th/18th Century British Philosophy, Misc Like Recommend Bookmark L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia 61 (3): 239-262. 1970. Like Recommend Bookmark Rousseau, il popolo sovrano e la Repubblica di Ginevra Studi Filosofici 1 (n/a): 77. 1978. Like Recommend Bookmark Il mito pitagorico e la rivoluzione astronomica Rivista di Filosofia 85 (1): 7-33. 1994. Like Recommend Bookmark Newton, Leibniz e l'analisi: la vera storia Rivista di Filosofia 24 397. 1982. Like Recommend Bookmark  13 Francesco Bianchini (1662-1729) und die europäische gelehrte Welt um 1700 Early Science and Medicine 12 (1): 109-111. 2007. History of Science Like Recommend Bookmark L'antica Sapienza Italica Cronistoria di Un Mito . 1998. Pythagoreans Like Recommend Bookmark  16 Candide, Theodicy and the «Philosophie de l'Histoire» Rivista di Filosofia 102 (3): 381-404. 2011. Voltaire Like Recommend Bookmark  7 La filosofia a Roma Rivista di Filosofia 94 (2): 215-284. 2003. Like Recommend Bookmark Vico's initiation into the study of Pythagoras Rivista di Storia Della Filosofia 51 (4): 865-880. 1996. Pythagoreans Topic   Order   Teoria e storia delle rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn Rivista di Filosofia 61 (2): 213. 1970. Like Recommend Bookmark Il problema D'Alembert Rivista di Filosofia 1 (1): 26-47. 1970. Like Recommend Bookmark  5 Semantica dell'Illuminismo Rivista di Filosofia 96 (1): 33-64. 2005. Like Recommend Bookmark George Cheyne e la religione naturale newtoniana Giornale Critico Della Filosofia Italiana 383. 1967. Like Recommend Bookmark  1 Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution (review) British Journal for the History of Science 27 (2): 229-230. 1994. Isaac Newton Like Recommend Bookmark  1 Diderot and the portrait of eclectic philosophy Revue Internationale de Philosophie 38 (148): 35-45. 1984. Denis Diderot Like Recommend Bookmark  6 "Magis amica veritas": Newton e Descartes Rivista di Filosofia 88 (2): 197-222. 1997. Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura Isedi. 1975. Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la metafisica Rivista di Filosofia 87 (1): 83-94. 1996. Like Recommend Bookmark  9 Leopardi apprendista: scienza e filosofia Rivista di Filosofia 89 (3): 417-444. 1998. Like Recommend Bookmark  6 Studi stranieri sulla filosofia dei Lumi in Italia Rivista di Filosofia 97 (1): 117-130. 2006. Like Recommend Bookmark  1 Il metodo di Foucault e le origini della rivoluzione francese Rivista di Filosofia 83 (3): 411. 1992. Like Recommend Bookmark Rousseau e Diderot Rivista di Storia Della Filosofia 19 (3): 243. 1964. Like Recommend Bookmark Diderot « philosophe » Revue Philosophique de la France Et de l'Etranger 162 324-324. 1972. Continental Philosophy 1 citation of this work Like Recommend Bookmark Newton: gli scolii classici Giornale Critico Della Filosofia Italiana 1 (1): 7. 1981. Like Recommend Bookmark La ricerca embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di Filosofia 78 (1): 137. 1987. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark L'empirismo e la vera filosofia: il caso Scinà Rivista di Filosofia 80 (3): 351. 1989. Like Recommend Bookmark The Newtonian moment in Italy: A post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 61 (2): 299-316. 2006. Classical Mechanics Like Recommend Bookmark  6 James, Freud e il determinismo della psiche Rivista di Filosofia 93 (1): 65-88. 2002. Sigmund Freud Like Recommend Bookmark  1 Stanley Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A study in enthusiasm (review) Studia Leibnitiana 2 (n/a): 147. 1970. Like Recommend Bookmark Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di Filosofia 21 (3): 372-91. 1981. Like Recommend Bookmark  14 Newton: the classical scholia History of Science 22 (1): 1-58. 1984. 1 reference in this work 15 citations of this work Like Recommend Bookmark Diderot et le portrait du philosophe éclectique Revue Internationale de Philosophie 38 (1): 35. 1984. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark Morte e trasfigurazione del testo Rivista di Filosofia 83 (2): 301. 1992. Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  10 Zev Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer Academic Publishers, 1991. Pp. xviii + 588. ISBN 0-7923-1054-3. £103.00, $189.00, Dfl. 300.00 (review) British Journal for the History of Science 27 (2): 229-230. 1994. Like Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. Isaac Newton Like Recommend Bookmark  6 The "Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia 99 (1): 51-80. 2008. Political Theory Like Recommend Bookmark  9 Il momento newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark  10 Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia 104 (2): 285-294. 2013. Jean-Jacques Rousseau Topic   Order    5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia 91 (2): 251-282. 2000. Isaac Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution, 1992. Pp. xxii + 850. ISBN 0-7294-0374-2. No price given (review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th Century French Philosophy. Paolo Casini. Keywords: “antica sapienza italica” razionalismo, la metafora della lume, illuminismo, Bruno, il patto sociale --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casini” – The Swimming-Pool Library. 

 

CASOTTI (Roma). Filosofo. Grice: “I like Casotti; of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT you have to teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course reminds me of my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning ‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina gentiliana dell'attualismo.  Dopo aver aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino. Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana.  Motivazioni personali, unite all'esigenza di approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia” dell'aristotelismo aquinista.  Egli avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della «lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità, concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita, incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che consente il passaggio dalla potenza all'atto.  Fonda la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna, rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e adattare alle difficoltà del contesto.  Altre opere: “La concezione idealistica della storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero,  Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani.  Appello per un "Fascio di educazione Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica,  Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea: il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica»,  Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni»,  Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica»,  Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni»,  Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale , in « L ' Educazione Nazionale » , 1920 , n . ... L ' Idea Nazionale » , 18 , 20 , 21 e 22 aprile 1920 ) vedere M . Casotti , Dopo il Congresso Nazionale , in « La Nostra Scuola » , 1920 , nn .   1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la ... Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti , il quale riconosceva l'opportunità di abbandonare ...  Casotti Mario , La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione moderna , Vallecchi , Firenze , 1923 . Mazzoni Elda , L ' idealismo ... GENTILE GIOVANNI , Il Fascismo al governo della Scuola , Sandron , Palermo , 1924 . SGROI CARMELO . Casotti makes a dramatic break with actualism early in his career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the 1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with Neo-Thomist scholars and produced works on education with a distinct orientation. He is particularly remembered as the founder and director of the review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance in the postwar years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he is considered a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or end); anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his "anthropological" writings, he defends personalism against idealism and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that later became more widespread among Italian philosophers.  AQUINOSaggi di filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di S. Aquino, L'educazione naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi  più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano  lavorare dopo di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico  LA PEDAGOGIA DI S. TOMMASO D’AQUINO Saggi di pedagogia generale MARIO CASOTTI Professore nell’Università del Sacro Cuore BRESCIA, Editrice “La Scuola”, 1931 * * * INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari * * * PREFAZIONE  Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San Tommaso d'Aquino.  Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo.  Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano  lavorare dopo di noi.  Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno.  Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active!  Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano.  La pedagogia di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico. Da  quelle teorie, anche così come le abbiamo prese e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo pieno di speranze e di promesse.  A coloro che nel riprendere il pensiero di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S. Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. - I saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta pei seguenti : L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino  Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato, anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso problema, colle medesime esigenze.  Il problema, infatti, che San Tommaso affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la chiarezza  desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità, della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna, quel posto di prim'ordine che debbono avere.  Questo breve preambolo occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo «De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno studioso.  Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?» domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile, davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e scaltrite filosofie dell'educazione. * * *  Posto così, il problema dell' educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine «trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa, e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza (mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall' insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II  Ora, di dottrine che potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica.  Il De Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa, come non si arresterà poi l'indagine di S. Tommaso, ai particolari problemi della pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S. Agostino, né più né meno di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra appunto garantire tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale, se così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette la mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente l'espressione didattica.  Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva (spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta, tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa, per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od «oggettivo», ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare l'equivoco  devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché, effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un segno della parete: né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S. agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6].  Segni sensibili: ecco la natura del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo, allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente, proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri, per intendere il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva: la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro allo scolaro.  Ed ecco la conclusione. Le parole non possono essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili, invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio; chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre, quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà» [Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria della reminiscenza.  Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione fra soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e  scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III  L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla luce in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a questa domanda.  Comunque, se circa questo problema della possibilità dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con intenti nei due  casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità, non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi fondamentali dell'averroismo.  L'averroismo, infatti, qualunque possa essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...» Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del corpo.  Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal difficoltà  della «comunicazione» fra maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto unico.  Così la teoria averroistica accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro, costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro, finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna.  Ma la teoria dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche condannate nel 1270 affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare di «creazione» da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità, se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol perché si  sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre, anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo, questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il De Magistro di S. Tommaso. IV  Il quale S. Tommaso due volte, nelle due diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle teorie metafisico-cosmologiche.  Nella Summa Theologica, I, q. 117, art. 1, l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc quod sint disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro, non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito solo all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così dire, s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o all'altro individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico; mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel senso vero e proprio della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come adombrata e annuvolata, di passare a  risplendere in tutta la sua chiarezza.  Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro? Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo, Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)].  Difficoltà, si noti bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire, «immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile. Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie, ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che, nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel 1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro: identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza - numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum « ...docens non dicitur transfundere  scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in rapporto fra loro. V  Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato, considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio, e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti individuali.  Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica, se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme, scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali: come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita, nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica.  La dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un medesimo idealismo. E,  infatti, quanto all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso averroistico, S. Tommaso ha effettivamente innanzi a sé già i motivi fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la pedagogia idealistica moderna.  E all'autodidattica e all'idealismo che ne è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre, si capisce, quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento fondamentale contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non le conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni.  A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune «forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo» simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio «apriorismo» capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'«a priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra  «a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam  scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o sia mai per escogitare.  Ma (proprio come, benché nelle sette note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente, esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi, poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa cavarne fuori che, al massimo, una scala.  Giacché proprio questo è, secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana: essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De Mag. Art. I (ad XII. mum) « ...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando »].  L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi, mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse, non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI.  Sia concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di S.  Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone, più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le «categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l' «io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i «principi primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della conoscenza intellettuale.  Appunto per questo l'attività intellettuale ha bisogno di un «motore» (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale dai principi si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare, sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: « inquantum proponit discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem collativam » [S. Theol. loc. cit].  Ma il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere», ecc. (primi principi) io non posso formare i concetti di «animale», di «vegetale», di «uomo» ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io formo appunto il concetto di «animale», «vegetale», «uomo » ecc. Processo che S. Tommaso descrive così : «Cum  autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia, quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle nozioni o proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse [«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S. Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile, sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li adopera.  Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per intervento diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico, o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale. Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore: nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. * * *  Ma, e quel tale, difficile problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? E quella tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto ?  Per rispondere a queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti all'autodidattica.  E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa parlare, in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla scienza del maestro.  In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza, anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di numero. VII  Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto che «...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et per eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica alla natura.  «Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la natura. Similmente avviene pure  nell'acquisizione della scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze].  Dunque, la somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema della «comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura, possa, sia pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua?  Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo strumento principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla, «sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il «fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò, con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della sensazione coi medesimi concetti.  Facciamo un esempio. Si prende la legge fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una «forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste percezioni particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione. E come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della dilatazione.  Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione universale! E si capisce: quella «forma» che è la legge della dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma d'una materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono.  Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il calore dilata i corpi». Anche qui essa viene espressa con segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole. Segni  tanto sensibili quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o scrivere le parole «il calore dilata i corpi» si è già dovuto formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il calore dilata i corpi» (udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle quali il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così, patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no.  È questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia delineata da S. Tommaso. Per la quale, a differenza di ciò che succede in moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né, tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere, all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei vari metodi «intuitivi» od «oggettivi» escogitati dalla pedagogia moderna, da Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza - abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S. Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba doctoris audita, vel visa in scripta, hoc modo se habent ad causandum scientiam in intellectu sicut res quae sunt extra animam, quia ex utrisque intellectus intentiones intelligibiles accipit; quamvis verba doctoris propinquius se habeant ad causandum scientiam quam sensibilia extra animam existentia, inquantum sunt signa intelligibilium intentionum "]. E sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o "intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere dalle  cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente, attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo, è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e valore.  È risolto, così, quel tal problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro - San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro, ma il lume intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale scopre la verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i primi principi, mercé quella attività collativa nella quale consiste il raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire. L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione.  L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. * * * VIII   Articolo paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un fatto  evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno, siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci, intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha fondato la dimostrazione precedente.  E, anzitutto, si faccia bene attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione.  È questa, così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato. Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè, la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio.  Ma se questo processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche «insegnamento», o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non avrei bisogno di cercarla né di impararla.  Sembra un'oziosa questione di parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina) per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di estendere a una  vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)]. Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile, contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere di scienza e di forma pura.  E questa non è - si badi bene - un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento» [De Mag. Art. II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per doctrinam»].  Né si creda che quel ridurre a scienza «più speditamente», sia solo una sfumatura:  anzi, c'è sotto una questione di principio, così importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo.  C'è la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa, s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito sempre facendosi altro da quello che era prima.  Ora, un atto di questo genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di conoscere, non già come atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero in quanto è una pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come supporre che il figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla «possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta completa.  Ecco la differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa.  Ed ecco, quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire» e l'imparare. Si capisce che per coloro i quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo «scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento, poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella  delle rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno, non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. * * *  Andare più oltre vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore, il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione, oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi della scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare, consolidare l'opera della ragione.  Taluno, certo, obietterà che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata sull'equivoco.  Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione, anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa, colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e, perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così, affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto «medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo scorso, con tanta efficacia denunciato.  Tra gli sforzi di questa pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa, oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato? Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze, 1927)  In due sensi può parlarsi di educazione naturale o soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato, soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti, normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e, viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù, potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi s'assimila attraverso le specie eucaristiche.  Prendiamo, invece, un maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce nella religione i suoi scolari.  Evidentemente, oltre questi due casi in cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe, nonché raggiunto, neppure sospettato.  Cito un solo, ma tipico esempio: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto.  Io non parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto. Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II  Sarebbe abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che tutte le più importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata, appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi, libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando «errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente orgogliosi.  Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo, una ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo, ma  respinge come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale nell'educazione. III  Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente, o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé, esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione effettiva.  Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta  canzone, e la gioia e la serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le cantonate!  Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere - l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far diventare realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando si è persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano, irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV  Finora abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando,  sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via.  Ebbene, la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata, come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro» che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche, semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo ripetere altro che parole.  Per togliere questi inconvenienti, la pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito: procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo» che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole» ascoltare, nessuna  costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non artisti, ricevono una istruzione difettosa.  Ma non facciamo troppo facile la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è, poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo, troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche, nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate: sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano messe in pratica?  Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno, falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più ideali e favorevoli condizioni. V  Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi verso il prossimo?  E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non dire il falso testimonio», «non desiderare la donna d'altri» e simili precetti della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari.  Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne, tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della  finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo, cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare, pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe peggiore del male.  È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica. In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali.  Ma l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre, nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri, tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni, delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina? VI  Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare, emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato, l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato, quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità.  Eppure, nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto, meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie, l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione: e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai abusare l'uomo?  In realtà il genere umano quando spende tante fatiche nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono, secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che realizza quell'equazione misteriosa?  È la forza stessa delle cose, l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È  la razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta.  Ma sono nomi oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra possibilità e realtà.  La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione, necessario di una necessità relativa e morale:  utile nello stesso senso in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione.  Ecco una sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto, arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso. Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo, possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato, nella notte. L'Anima della pedagogia.  (Discorso tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi.)  Domando scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare  nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario. Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti — forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma Gentile: i benefici effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico.  Ma ecco che mi sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie  alle Suore che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola universitaria?  Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi, per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti, ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita. Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi, un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra cadranno da sé come vestimenti vuoti.  Che cosa sia in sé un Istituto Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad esse», ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi, a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel senso di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza un pubblico  che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale», ben più pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica, e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina «romana», le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in altri tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati, avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del raccoglimento e della meditazione,  «va a divertirsi» in un modo più o meno discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle, ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè, del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio «moralmente analfabeta» che nei suoi salari che gli hanno permesso il pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico, quello dello «stellone», non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il «fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli.  La gravità della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle dure necessità del suo  lavoro, dalla primitività rurale delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze, opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle — sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre. Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire.  Come vedete, è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia, essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura, l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è  parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale, noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie, alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora, secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio, miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato. Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato... Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie, disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica, l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica. Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza, daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone, attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario. Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria, superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento “ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi, onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione, della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale, anche la scuola  neoumanistica ?  La ragione? Ma la ragione sta nello stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come “uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè, dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia, esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito, ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista, cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso: Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore: che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri, deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno egoista ?  No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può andar mai disgiunta dallo spirito  cristiano. Ed ecco, infine, la ragione dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo, una scuola veramente liberatrice.  Non basta. Il problema della cultura non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella “consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: «che faremo dunque, degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare? Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più facile in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i bisogni della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i mille servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare, insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo che mina le basi delle nazioni moderne.  Anche qui la storia ci ammaestra. Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso, alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno per  fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli.  Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che — ecco la vera parola — barbara distruzione della libertà umana,  la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei giorni che sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone, lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei così detti “divertimenti”?  Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio, dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico, nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni, considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura, la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? — Oggi si raccomanda il «metodo attivo», si biasima il verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i Gesuiti debbano venir giudicati  esclusivamente in base all'opera dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi, un amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio, l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare,  quando la burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta ascoltare, è altamente significativo.  Ma è tempo ormai ch'io concluda questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e, possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie. Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e "filosofie" nelle scuole medie  L'introduzione dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato secondo la quale la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente tuttora negli scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio, amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio, quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa o quella singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica; cosa che non potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione religiosa.  È bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento religioso cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene dal non aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il problema filosofico che  della questione stessa sta al fondo. Per convincersene basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale corre, si può dire, sulle bocche di tutti. — Che significa — si domandano molti — questa dottrina cristiana che deve essere d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa forse che si debbano escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e quegli autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure. Ma allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante, anzi, dove andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che si svolge, è vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle Università, ma che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie, senza ridurre l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente, nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un momento e un aspetto necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e tenuto fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della filosofia moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e vuole avere, per sempre superato.  E, poste queste premesse, ecco che molta brava gente già si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia col color locale, o meglio, storico, una buona dose di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò, a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni sacri, all'edificante spettacolo.  Ora, i timori - più o meno irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave persone che i timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che le questioni filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti. Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni, siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze, la moltitudine.  Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine: domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire. Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è possibile, di ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci segue, amico o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto d'incappare. I.  Cominciamo con l'osservare subito che la questione che ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda, invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità, diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno di produrre, nel modo stesso di concepire la religione.  Ma quali sono queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire: e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta.  Ecco dunque le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte; verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte, verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra; verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da una parte e San Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati, la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si capisce, per modo di dire poiché,  chi crede tutti i sistemi filosofici veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della immortale verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto, colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o “scolastico”, “tomista” e filosofo.  Ci sia permessa, prima di procedere oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”, di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove  della sua asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II.  Il procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica, come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero per la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente quando se ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie.  E, infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale, qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente, lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a memoria un libro.  Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo  scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San Tommaso. Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino, facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca (nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol quando il vero effettivamente conosce.  Ma che cosa fanno, rispetto alla scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano, essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola, l'una e l'altra Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano, riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o libri altrui, con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola che già abbiamo udito deplorare.  Accusa alla quale, evidentemente, non si può rispondere altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla quale è partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler indicare col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e siano pur di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca. Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo, sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli avversari della scolastica si compiacciono d'insistere.  Infatti, una dottrina, come or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che, naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché colui che esamina la dottrina  proposta non sia in condizione di passare all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina medesima, persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla, imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi, non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano. Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria idealistica o positivistica, materialistica o scettica.  Il che è ancor più manifesto quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto perché scolaro non è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e colle sue sole forze la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e formule delle quali non scorge, o scorge solo imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice si vuol trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra dottrina, idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari, eclettica, si dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede infatti perché il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni e formule scolastiche debba esser più avvilente che imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente, allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui (salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere per testo San Tommaso così come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica diventa, certo, una dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e incompatibili con l’attività e la libertà del pensiero umano.  Ciò è tanto vero, che, in ogni tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di non credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il pensiero  sarà addirittura quello di non formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere inattuabile. * * *  Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale cadono, dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia “scolastica” che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi ultimi termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che non è ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica, laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica. III.  Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che, perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire, nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità delle  filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò, nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica, qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di libertà colle quali si presentano al pubblico.  Ma con ciò eccoci ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre debbono per forza esser false.  Per il pensiero moderno, invece, la verità e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano, si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora, a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua, il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il discepolo a “crearne” delle nuove.  E va benissimo. Sennonché, a un esame più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo, esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se, infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina non è un campo o un orto, bensì un atto  immateriale del pensiero, e in quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità. E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo: ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E viceversa, quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo fanno onore alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può aversi dalla conoscenza della verità.  Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la vostra concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la verità è tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte le altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata. Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo, allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria?  La risposta a questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono, infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude assolutamente potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle due: o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e allora la loro famosa tolleranza e larghezza di  vedute è finita, ed essi sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo, cioè, in ultima analisi, in un sistema solo.  La libertà, dunque, che la filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché, però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi in considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di necessaria conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con l'altro, e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che in quelle tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che ciascuno si diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della propria dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli stessi uomini politici che detengono effettivamente il potere.  Così la storia della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia. Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S. Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di Spencer, e che ognuno vi può spaziare entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e del kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso, sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme, circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza sia sempre quella.  Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur questa realtà la sola storia) e  mediante essa vi assumete il diritto di giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono, parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano, come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia scolastica?  Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte, la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente moderatissime - non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra modernissima “novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e così via.  Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T. Marinetti è superiore a quella d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte moderna: ora, dai tempi antichi, dei Greci, ad oggi si sono effettuati innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto che un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si vorrebbero inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è l'artistico. Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia dell'arte, non è meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove il professore X od Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la storia della filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è l'espressione del temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come temperamento individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una verità universale ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e  progredire. Ma si dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo, da individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi, il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché, nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe saputo scoprire.  In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta, invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. * * * IV.  Possiamo dunque riconfermare, senza tema di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico, idealistico o scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio, dello scetticismo e dell'eclettismo.  La verità di questa proposizione risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e il  cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o “giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla” storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di “giustificare” nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il gusto di fare una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti nascere e ne hanno garantito il successo, corredando il tutto con un grande apparato di erudizione critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della verità molto più severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi moderni, è sollecita più della formazione mentale, che della brillante informazione ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro questa disgrazia: «necessaria non norunt, quia superflua didicerunt»: il che la conduce a limitare, nella scuola, più che sia possibile questa parte storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla necessità di tener per veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare, nella scuola media, un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e, specialmente, alla sua parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della quale adesso non intendiamo occuparci.  Ma l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri avversari perché la scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per tanti rispetti superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono fra i sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà, poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende, per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è  libero di seguire le proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze stesse.  Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è una dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui verità o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta, seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema. Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale tanto poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo, sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre filosofie di “cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova della costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del cattolicesimo.  E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico? Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a  “storia d'errori”, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia, soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale concepiscono tale rivelazione.  Giacché la differenza fra il pensiero della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di “moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano, lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza, volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile, ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare, per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine, niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e progredire: «Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus est »: ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso infinito.  Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di essere una fede e una dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata della verità e  della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante, affatto inconciliabile colla sana libertà della ricerca scientifica, e addirittura contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento dell'anima umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio, non può darle che vani trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere infranti subito dopo che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia cattolica  Credo che a parlare di un'opera come questa Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo Crispolti, possa valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un fatto di più immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano o dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita. Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti alla congiura del silenzio!  Noi, per conto nostro, diciamo subito di non credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore.  L'esperienza in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa; ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa, talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza, all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti, ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart, bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici. Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”, nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita, prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente lievito d'una personalità vivissima,  aperta a tutte le voci dello spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze che maturavano nei nuovi tempi.  Tanto basta, e ne avanza, a giustificare il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano, risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi” e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia, delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai “laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita.  Si direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo, grande importanza a tutto il complesso delle doti  spirituali che, pur non interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è, secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi, o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale, pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto, condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna, dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via quella che «l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia cagione e valore» (p. 14).  Ora, in qual modo realizzare siffatto programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della virtù” , definì or non è molto il Croce il concetto sostituito dalla più recente speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non impossibile sterminio di tutte le umane passioni  e tendenze sulle cui rovine si erga la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio della moralità stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del problema, la santità che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché «non raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta, correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro serrate con un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore che tutte le supera e le fonde» (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono, nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina stessa, essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti umani. Ma, giustamente ammonisce il Crispolti, la santità eminente non è da tutti. «Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità, dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio, l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a rischio di più frequenti discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro, ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità, ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali. Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata educazione del coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato innanzi alle minacce di Don  Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro l'educazione cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché il Crispolti rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo» e che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla ben intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di difese contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore dovrà dire : “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi, seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p. 49-50). La «strada più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e proprio terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito, come poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé, soddisfazione, che le rende tutte «più o meno passionali» perché presentano all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio. Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare, facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso ricorrere già ad una «politica della virtù»: non perché si sia facilitata la virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica, ma perché, esorbitando la virtù «pura» dai mezzi di educazione umana, si è ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù «umane» e perciò già in sé stesse «passionali».  Conclusione di tutto ciò è dunque per il Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente quell'economia delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere anch'essa in considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando due errori egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal fine religioso e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del coraggio materiale per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia moderna secondo cui il  rinvigorimento del corpo non è già la formazione del «robusto ed agile animale», bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene osserva il Crispolti, parlando delle società cattoliche di educazione fisica, il loro carattere religioso dover consistere, non tanto nel titolo di cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener sempre presente alle menti giovanili «lo scopo di far servire le membra fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti limiti la loro progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili satireggiatori della «ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina» cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana? «Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo della stessa educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa diventi superba?» (p. 72). No certo, se teniamo presente che la pedagogia cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella superbia ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico. L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'«ansia costante e smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi scoprire dei pregi e provarne compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà è concepita in forma positiva, come un avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di precauzioni » (p. 74) e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio, si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La filosofia qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà.  Questa introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato, che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere automaticamente l'uomo eccellente in tutti i  campi della scienza, dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio» pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché, tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale. «Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi; moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere; procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni » (p. 137). Ch'è, in fondo, lo stesso principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che, cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere «secondo spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della religione stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro applicazioni; così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare un'espressione cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso: essere sentimento, pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento sempre importante per quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno illuministico quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante un pò dappertutto nella vita spirituale.  Qualcosa di simile al già detto per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su l'altra letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'Annunzio o ad un Pascoli? La ragione è sempre la stessa: pretendono gli artisti cattolici «di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro». Tutta la fatica, secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di Leopardi così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa della luce ma della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta «i figli delle tenebre» sono stati più prudenti dei figli della luce ( p. 163). Ciò è quanto dire che, dal punto di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda applicazione dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti, viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana: della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti «parchi e lontani da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così facilmente il nido alla vanità» gli scrittori classici: umili tutti coloro che non pensarono a scriver bene, ma «presi da alti pensieri, da alti affari o da alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la parola si facesse umile innanzi a quello» (p. 158) riuscirono, perciò solo, necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì «uomini in qualunque campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia dovuto umilmente ubbidire» (ibid.): talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco di Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi dell'estetica moderna quale si è affermata dal Croce in poi avrebbe in più per il Crispolti questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita.  Ma sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni intellettuali contro gli errori religiosi, in cui  nel parlare delle ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi, scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche. Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale, il Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto superiorità gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi, cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti, oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che in tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli incomincia a pronunziare» (p. 132). È il principio del “punto di partenza” da trovare nell'animo dell'alunno. Ma il Crispolti, con queste sue parole, viene a dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Il Crispolti giustifica qui, in certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e di altre simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna. Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene le ragioni.  Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla piacevole urbanità con cui il Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere, come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il  pensiero moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non per questo ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari di natura e di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver dimenticato questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice piaga che il Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e quella delle donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è istruita, la donna, cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo, «come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di mezzo». E invece non si è pensato alla differenza di abitudini mentali per cui l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo inconveniente c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo i primi indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale la cura di fare il resto. «La più elevata e piacevole erudizione delle donne è quella acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per un padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle partecipare in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse verso di esse, ciò che è più difficile» (p. 200). Non importa se per questa via la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra loro: per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo campo dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle singole idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo; elevazione per cui la donna «non pretenda di scoprire né di classificare, ma giunga a compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore» (p. 202). Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel far assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna «è una difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai, sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in quella interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i quali di necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati, seguiti, intesi nell'esercizio delle loro attività.  Ed eccoci ora al dissenso. Parlando della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la diversa formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di pensiero, nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del senso pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici, nei quali la mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava intatta» (pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del problema della cultura pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto risolto lasciando inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene. Ma che possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né le migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se, invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione. Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio, dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa rispondere se non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine, là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del Manzoni temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi che cristianesimo e modernità bene intesa  sono in ultima analisi concordi nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero, che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis, potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento, innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della retorica accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un singolare  incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica, consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik, dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse, che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte. L'INSEGNAMENTO RELIGIOSO NELLE SCUOLE ELEMENTARI  Non è ancora spenta l'eco delle discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I Diritti della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo, sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi, a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta cortesia - dalla Rivista romana.  Notano, dunque, «I Diritti della Scuola» che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva trattarsi, come pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti», ispirati a una ben diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo» ma «poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che parlasse  al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia, nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse non deve) dalla lettera dei sacri testi».  Noi non vogliamo rivolgere a «I Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi, e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata, quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i «dogmi» e i «misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo «irrigidimento»: il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica, ma un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i «sentimenti puri» del fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile 1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla circolare del Gennaio 1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con molto rispetto ma con molta fermezza, «I Diritti della scuola».  Ripetiamolo ancora: sarebbe ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità d'un cuore così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo, assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come «canto» ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le  persone di più difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano a loro modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia, quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste, colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione. Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo «intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali e poeti erano di là da venire!  Certo, la conoscenza assidua e amorosa della liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa, mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa, che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario a scala ridotta del metodo montessoriano.  E passo all'altro, apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo. Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene  l'altra, a meno di non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque, facilmente, che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o comunque hanno trascurato di completare la propria cultura religiosa con una buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia, cioè, quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato: ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza, si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne? Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum resurrectio et vita.  Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un insegnamento vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo" condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta, costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo, la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani, le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di poesia, e perciò armonica ai  fondamentali bisogni dell'animo infantile, sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento genuino della Chiesa.  Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione fra il decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello stesso ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre belle cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni, il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o il Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della filosofia italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto, la nota de "I Diritti" è, per noi, molto significativa e confortante: è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì, colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Il problema della dialettica oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere soltanto come è possibile che il tutore (Socrate) comunichi al tutee (Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse "co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si "tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale, non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia «tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade! Mario Casotti. Keywords: sì che Socrate si tramuti in Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casotti” – The Swimming-Pool Library.   

 

CASTELLI   

 

CASSIODORO BRUZI. (Squillace). Filosofo. Grice: “Cassiodoro was possibly a genius; I mean, I wrote a logic, and so did he – but he was ‘consul’ on top! My favourite – and indeed, the ONLY tract by him I recommend my tutees is his “Dialettica” – Strawson prefers his “De anima,” but ‘anima’ is a confused notion, for Wittgenstein and neo-Wittgensteinians alike – no souly ascription without behaviour that manifests it! – whereas with ‘dialettica’ you are safe enough!” –Grice: “I should be pointed out that of the three of the trivial arts – ‘dialettica’ is the only one that deals with my topic, conversation or dia-logue – grammatical is almost autistic, and rhetoric is for lawyers, i. e. sharks! Only ‘dialettica’ represents why those in the Lit. Hum. programme chose ‘philosophy’!” Grice: “Dialettica INCORPORATES all that grammatical and rettorica can teach!” --  Cassiodoro  Flavio Cassiodoro Gesta TheodoriciFlaviusMagnus Aurelius Cassiodorus. Cassiodoro, da un manoscritto su vellum del XII secolo. Magister officiorum del Regno Ostrogoto Durata mandato523533 MonarcaTeodorico il Grande (fino al 30 agosto 526) Atalarico (fino al 533) PredecessoreSeverino Boezio Prefetto del pretorio d'Italia Durata mandato533533 MonarcaAtalarico SuccessoreVenanzio Opilione Durata mandato535537 MonarcaTeodato (fino all'autunno 536) Vitige (fino al maggio 540) PredecessoreVenanzio Opilione Successore Fidelio Dati generali Professionefilosofo Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (latino: Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator.  Visse sotto il regno degli ostrogoti. Percorse un'importante carriera politica sotto il governo di Teodorico ricoprendo ruoli tanto vicini al sovrano, da far pensare in passato ad un effettivo contributo diretto al progetto del re ostrogoto. Successore di Boezio, oltre che consigliere, fu cancelliere de Teodorico e il compilatore delle sue lettere ufficiali e dei provvedimenti di legge. Collabora anche con i successori di Teodorico.  Al termine della guerra si stabilì in via definitiva presso Squillace, dove fondò la biblioteca di Vivario. La fonte principale che ci permette di conoscere la famiglia di Cassiodoro è data dalla sua più vasta e importante opera, le “Variae”. Nacque in una delle più stimate famiglie dei Bruzi, facente parte del patriziato. L'origine del nome è da ricercarsi in un luogo di culto dedicato a Giove. Da una lettera scritta da Cassiodoro per Teodorico abbiamo notizie sui suoi genitori, così come su un parente di nome Eliodoro. Dall'antica origine della famiglia si può comprendere la scelta dei Bruzi come nuova patria, essendo questa una zona della Magna Grecia. Si hanno notizie inoltre del suo bonno, definito “vir illustris” e del nonno Senatore. Quest'ultimo fu tribuno sotto Valentiniano III, e in qualità di ambasciatore conobbe il re degli Unni Attila.  Odoacre e Teodorico ritratti nelle Cronache di Norimberga. Al padre furono indirizzate alcune lettere delle “Variae”, il che ci offre più dati su di lui. Ricoprì il ruolo di comes rerum privatarum e successivamente di comes sacrarum largitionum nel governo di Odoacre. Mantenne la propria posizione di funzionario d'amministrazione anche sotto Teodorico, tanto da diventare governatore provinciale. Lo si ritrova governatore della Sicilia, e dopo essere entrato nelle grazie di Teodorico, governatore della Calabria, quando si ritirerà alla sua villa.  Così come per i suoi familiari, ricaviamo notizie sulla vita di Cassiodoro solo dalle sue opere. La nascita e quella indicata dal Tritemio nel suo “De scriptoribus” (Basilea 1494). Il menologio lo ricorda il 25 settembre. Per quelli che, come Theodor Mommsen, non ritengono attendibili i dati del Tritemio, le date di nascita e morte di Cassiodoro rimangono ipotizzate, principalmente grazie a quelle note dei suoi incarichi amministrativi; nonostante ciò molte cronache tendono a confondere alcuni dati della vita di Cassiodoro con eventi vissuti dal padre, attribuendo una grande longevità al letterato di Squillace. Proprio per quanto riguarda Squillace, non è certo che vi nacque. Molto più probabilmente vi passò l'infanzia, ricevendo dalla propria famiglia una prima educazione e seguendo degli studi. Ancora giovane fu avviato dal padre alla carriera pubblica, per la quale ricopre anzitutto il ruolo di “consiliarius”, per poi diventare quaestor sacri palatii, forse perché Teodorico apprezza particolarmente un panegirico che egli aveva composto.  Poco tempo dopo ricevette il governatorato di Lucania e Bruttii, notizia che si può apprendere da una lettera inviata al cancellarius Vitaliano. Seguendo differenti interpretazioni storiche, questa congettura è stata però di recente messa in dubbio. Risale la designazione a console. Nonostante si trattasse ormai di una carica onorifica manteneva una certa importanza, permettendolo di ricoprire il ruolo di eponimo. Dei anni successivi non si conosce salvo la pubblicazione della Chronica. Successivamente, fu nominato magister officiorum del re, succedendo nella carica a Boezio. Il ruolo e di grande prestigio, e rappresenta con esso il capo dell'amministrazione pubblica, degli official  e delle scholae palatinae. Alla morte di Teodorico,  si apre una complessa fase di successione. Divenne ministro della la figlia di Teodorico, succedutagli sul trono come reggente per il figlio Atalarico. Presumibilmente perdette parte della sua influenza nei primi anni di tali mutamenti politici, ma seppe poi riproporsi e, con un lettera di Atalarico, guadagna il titolo di Prefetto del pretorio per l'Italia. Non ricopre questo ruolo politico per molto tempo. Atalarico morì e ai consueti problemi di successione si aggiunse la malvolenza di Giustiniano verso gli ostrogoti, insofferenza che culminò poi con la guerra gotica. Resse nuovamente la prefettura, sotto i re Teodato e Vitige, per poi abbandonare definitivamente la carriera pubblica. Nelle Variae si possono trovare le ultime lettere scritte per conto di Vitige, anche se non viene detto nulla sul concludersi della sua funzione politica né si sa alcunché dei suoi successori. Di fronte all'avanzata bizantina rimase dapprima in ritiro a Ravenna, luogo che offriva ancora una certa sicurezza. Ravenna e conquistata dalle truppe imperiali, e da quel momento si perdono le sue tracce. Le alternative vagliate sono una permanenza a Squillace, dove però avrebbe avuto scarse possibilità di movimento, o una permanenza più lunga a Ravenna. Lo si ritrova nel seguito di papa Vigilio a Costantinopoli, città nella quale potrebbe anche aver soggiornato, secondo una terza ipotesi, in un periodo precedente alla data conosciuta. Rientrò nei Bruttii solo dopo la fine della guerra, ritiratosi definitivamente dalla scena politica, fondò il monastero di Vivario presso Squillace. Si hanno anche per questa parte della sua vita pochissime informazioni, non si conoscono quindi le motivazioni che lo portarono alla creazione di questa comunità monastica né particolari sulla contemporanea situazione politica della penisola italica; per quanto riguarda la sua situazione personale, si può ipotizzare che non ebbe eredi diretti. Al Vivarium trascorse il resto dei suoi anni, dedicandosi allo studio e alla scrittura di opere filosofiche. Qui istituì uno scriptorium per la raccolta e la copiatura di manoscritti, che fu il modello a cui successivamente si ispirarono i studii. Opera, il De ortographia. IL'obiettivo principale del progetto politico-culturale di Cassiodoro fu quello di accreditare il regno teodericiano come una restaurazione del Principato, ossia quella forma di governo che aveva garantito la collaborazione, formalmente quasi paritaria, tra l'imperatore e la classe senatoria. Questa autorappresentazione del governo goto serviva in primo luogo come legittimazione del regno nei confronti dell'Impero costantinopolitano. Sostanzialmente, essendosi conformato il regime ostrogoto al modello imperiale, il primato dell'imperatore e fondato esclusivamente su un piano carismatico (pulcherrimum decus). Al tempo stesso, tale imitazione da parte di Teoderico poneva l'Amalo in una posizione di superiorità nei confronti degli altri regni barbarici attraverso un principio politico-carismatico, basato su una gerarchia di due livelli (l'impero e il regno di Teoderico, gli altri regni), con un vertice binario e leggermente asimmetrico. Tra tutti gli altri dominantes, Teoderico era il solo che, per volontà divina, aveva saputo dare al suo regno gli stessi fondamenti etici e legali dell’imperium: il suo regno era una replica perfetta del modello imitato e a sua volta un modello.»  (Andrea Giardina[43]) La prospettiva di Cassiodoro, infatti, non è più l'impero universale, bensì quella nazionale dell'Italia romano-ostrogota, autonoma ed egemone rispetto agli altri regni occidentali, sebbene siano state avanzate riserve circa la reale ambizione di Teoderico di assumere l'eredità del decaduto Impero romano d'Occidente. In particolare, il fondamento dell'ideologia cassiodoriana ruota intorno al concetto di “civilitas”, che indica tanto il rispetto delle leggi e dei princìpi della romanità, quanto la convivenza sociale, giuridica ed economica di romani e stranieri fondata sulle leggi. Secondo Cassiodoro, il regno goto si sarebbe fatto custode della civilitas, garantendo così la giustizia e la pace sociale (l’otiosa tranquillitas, cioè l'obiettivo di ogni buon governo), in accordo con la legge divina e la migliore tradizione imperiale romana. Il richiamo all'ideologia del Principato da parte di Teoderico e Atalarico si basa, nella fattispecie, sull'emulazione della figura di Traiano, così come tratteggiata nel Panegirico di Plinio il Giovane. Con il regno di Teodato, invece, il principale modello di riferimento fu quello dell'”imperatore-filosofo” -- un ideale etico-politico ampiamente imbevuto di caratteri neoplatonici. In seguito, nell'impellenza della guerra greco-gotica, Vitige si distinse per il recupero di un'ideologia più specificamente germanica, in cui e messi in risalto le virtù bellica e l'ardore guerriero.  San Benedetto da Norcia.  Inoltre esiste la possibilità che un primo abbozzo di ciò che sarebbe diventato il monastero esistesse già da tempo, presente nei territori di Squillace da una data sconosciuta e utilizzato come residenza da Cassiodoro solo al ritorno in patria dopo la guerra gotica. Ad ogni modo non aiuta nelle varie ipotesi il silenzio delle fonti, poiché le Variae erano state già pubblicate e nessuna delle opere dell'ormai ex politico trattò di questa fondazione; nulla si conosce sul parto di questo progetto, né quando quest'idea fosse stata concepita.[59] Nonostante si intuisca dalle ultime opere di Cassiodoro un avvicinamento potente alla fede cristiana (si pensi al De anima e all'Expositio Psalmorum[60]), il monastero di Vivario nacque con uno scopo differente dal celebre Ora et labora: l'obiettivo principale del nucleo monastico fu infatti la copiatura, la conservazione, scrittura e studio dei volumi contenenti testi dei classici e della patristica occidentale. La caratteristica di Vivarium era quindi la sua forma di scriptorium, con le annesse problematiche di rifornimento materiali, studio delle tecniche di scrittura e fatiche economiche. I codici e manoscritti prodotti nel monastero raggiunsero una certa popolarità e furono molto richiesti. Le forme entro cui si espresse invece l'organizzazione monastica dal punto di vista religioso sono ben poco chiare, né aiuta l'assenza di riferimenti alla vicina esperienza di Benedetto da Norcia; forse Cassiodoro non ne conobbe neppure l'esistenza, o potrebbe averne parlato in opere non giunteci. Alcuni storici avanzano l'ipotesi che la Regula magistri, su cui si basa la Regola benedettina, sia addirittura opera dello stesso Cassiodoro. Questo presunto rapporto tra i due è però generalmente rigettato dagli studiosi, anche alla luce di alcune citazioni provenienti dalle Institutiones che chiariscono le norme monastiche adottate da Vivarium:[64]  «Voi tutti che vivete rinchiusi entro le mura del monastero osservate, pertanto, sia le regole dei Padri sia gli ordini del vostro superiore e portate a compimento volentieri i comandi che vi vengono dati per la vostra salvezza... Prima di tutto accogliete i pellegrini, fate l'elemosina, vestite gli ignudi, spezzate il pane agli affamati, poiché si può dire veramente consolato colui che consola i miseri.»  (Cassiodoro, Institutiones.[65])  Ritratto del profeta Esdra nel quale per molto tempo si riconobbe la figura di Cassiodoro, contenuto nel Codex Amiatinus. Questa citazione mostra come Vivarium seguisse quindi le più comuni regole monastiche contemporanee, mentre altri passaggi delle Institutiones ci suggeriscono un ruolo laico per Cassiodoro, forse esterno alla vita monastica e puramente patronale Il vero centro vitale di Vivarium era, particolare che segna la differenza con ogni altro centro monastico, la biblioteca. Cassiodoro distingue inoltre i libri del monastero da quelli personali, differenza poi scomparsa in un periodo successivo. E la biblioteca, infatti, come centro di cultura di tutto il monastero, la novità del suo programma, una biblioteca nata ed accresciuta secondo le intenzioni del fondatore che dei suoi libri conosceva non solo la sistemazione, perché l'aveva curata personalmente, ma anche i testi, perché li aveva studiati, annotati, arricchiti di segni critici, riuniti insieme secondo la materia in essi trattata e persino abbelliti esteriormente. Il monastero prende nome da una serie di vivai di pesci fatti preparare dallo stesso Cassiodoro. La loro presenza rappresentava un forte valore simbolico, legato al concetto di Cristo come Ichthys. Non lontano dal centro si trovava una zona per anacoreti, riservata a monaci con pregresse esperienze di vita cenobitica. Vivarium sorgeva, secondo gli studi ad oggi compiuti, nella contrada San Martino di Copanello, nei pressi del fiume Alessi. In quella zona fu ritrovato un sarcofago datato VI secolo, associato a graffiti devozionali e subito considerato la sepoltura originale di Cassiodoro. Per ciò che riguarda la ripartizione del lavoro, i monaci inadatti a seguire la biblioteca con annessi oneri intellettuali sono destilla coltivazioni di orti e campi, mentre i letterati si occupavano dello studio delle sette arti liberali (dialettica, retorica, grammatica, musica, geometria, aritmetica, astrologia) questi ultimi erano divisi in notarii, rilegatori e traduttori. Le opere di carità erano espressamente raccomandate dal fondatore, e legati a queste fiorivano gli studi di medicina. Cassiodoro fece preparare tre edizioni differenti della Bibbia e si occupò di copiature e riscritture di molti altri testi della cristianità, considerando tutto ciò una vera e propria opera di predicazione. Non mancano però nella biblioteca di Vivarium i testi profani: tra gli altri furono salvati grazie all'opera di Cassiodoro le Antiquitates di Flavio Giuseppe e l'Historia tripartita. Le opere di Cassiodoro del periodo di Teodorico, quelle da noi conosciute, sono tre: le Laudes, la Chronica e l'Historia Gothorum. Della prima si sono conservati solo due frammenti, mentre della Gothorum Historia rimane solo un'epitome a opera dello storico Giordane. La Chronica racconta la saga dei poteri temporali di tutta la storia, dai sovrani assiri sino ai consoli del tardo Impero, passando ovviamente per tutta la storia romana. Possediamo un frammento di un'ulteriore opera, l'Ordo generis Cassiodororum, che ci offre notizie sulla famiglia dell'autore. Tra la produzione di Cassiodoro occupano un posto speciale le Variae, raccolta di documenti ufficiali scritti i quali ci offrono quindi informazioni su differenti periodi della vita dell'autore e sulla storia dei Goti. A queste si può aggiungere il “De Anima”, opera per la prima volta lontana da interessi politici e invece basata su temi della filosofia psicologica. Il terreno religioso è battuto anche dalla successiva Expositio Psalmorum, commento ai salmi di particolare importanza poiché unico esempio pervenutoci dal mondo tardo antico. Al periodo di Vivarium appartengono tra le opere a noi giunte, le Institutiones, le Complexiones in epistolas Beati Pauli e le Complexiones in epistolas catholicas, le Complexiones actuum apostolorum et in Apocalypsi e il De ortographia. La prima, senza dubbio l'opera più importante di Cassiodoro, è datata in un periodo in cui il centro monastico era sicuramente avviato; rappresenta sostanzialmente una "guida" per gli studi nel monastero, è ricca di informazioni sulla vita dei monaci e sulle opere intellettuali da loro compiute. Il De ortographia sarà la sua ultima opera, scritta attorno ai novant'anni. Uno scritto di chiari intenti politici è la Chronica, una sorta di storia universale scritta nel 519 su richiesta per celebrare il consolato di Eutarico Cillica (diviso con l'Imperatore Giustino), genero di Teodorico e designato al trono. Il sovrano d'Italia non aveva eredi maschi mentre Eutarico, sposandone la figlia Amalasunta, era riuscito a donargli un nipote, Atalarico. Alla luce di questa nuova dinastia, la scelta di offrire il ruolo di console a Eutarico rappresentava quindi un importante evento politico: si trattava della celebrata unione tra i romani ed i goti, progetto che poi fallirà tragicamente. L'opera, che come comprensibile dal titolo ha chiari fini storici, propone una successione dei grandi poteri politici succedutisi nella storia, passando da Adamo sino ad approdare al 519 con Eutarico. È basata su numerose fonti che Cassiodoro spesso cita quali Eusebio, Gerolamo, Livio, Aufidio Basso, Vittorio Aquitano e Prospero d'Aquitania. Per la trattazione successiva al 496 invece l'autore è autonomo. L'elemento dell'opera che maggiormente colpisce è il suo carattere spiccatamente filo-gotico. Cassiodoro arriva a manipolare alcuni eventi storici o a farne addirittura scomparire altri, al fine di non far apparire i Goti sotto un'oscura luce. Historia Gothorum  Re Davide vincitore in una miniatura dall'Expositio Psalmorum, presente nell'edizione del Cassiodoro di Durham. Una delle sue opere più importanti fu il De origine actibusque Getarum (più noto come Historia Gothorum) in 12 libri, nel quale la sua ideologia filogotica era tracciata e sviluppata in maniera più organica.[83] Si considera l'opera contemporanea o poco successiva alla Chronica, anche se più studiosi tendono a ritenerla più recente, forse composta tra il 526 e il 533. Certamente la stesura fu caldeggiata da Teoderico, per essere infine pubblicata sotto Atalarico. Nonostante ciò essa ci è pervenuta solo nella versione ridotta dello storico Giordane, i Getica. Prima storia nazionale di un popolo barbarico, la Historia Gothorum era tesa a glorificare la dinastia degli Amali, la stirpe regnante, attraverso una ricostruzione della storia dei Goti dalle origini ai tempi presenti. Il tentativo più ardito dell'opera fucome emerge dal titolo stessol'identificazione dei Goti con i “geti” -- popolazione già nota a Erodoto e maggiormente conosciuta dal mondo romano. Il racconto narra eventi storici e come scopo ha inoltre quello di celebrare l'unione tra goti e romani, qui comprovata dal matrimonio tra il romano Germano Giustino e l'amala Matasunta. Il fine ultimo dell'opera lo svelaper bocca di Atalarico Cassiodoro stesso. Questi Cassiodoro ha sottratto i re dei Goti al lungo oblio in cui li aveva nascosti l'antichità. Questi ha ridato agli Amali la gloria della loro stirpe, dimostrando chiaramente che noi siamo stirpe regale da diciassette generazioni. L'origine dei goti egli ha reso storia romana, quasi raccogliendo in una corona fiori prima sparsi qua e là nel campo dei libri. Dell’Ordo generis Cassiodororum rimane un solo frammento in più copie. Il l testo, dalla difficile interpretazione, fu composto negli anni della carriera pubblica di Cassiodoro ed è dedicato a Rufio Petronio Nicomaco Cetego. L'opera offre rare notizie sulla famiglia di Cassiodoro, in particolare sul padre; nelle poche righe centrali vengono nominche Boezio e Simmaco, il che farebbe pensare ad un qualche grado di parentela tra l'autore e queste due figure, impossibile attualmente da stabilire. La sua attività di funzionario al servizio del regno goto è testimoniata dalle Variae, una raccolta di lettere e documenti, redatti in nome dei sovrani o trasmessi a firma dell'autore stesso in un arco di tempo che va dall’assunzione della questura al termine della carica di prefetto al pretorio. Il titolo come l'autore spiega nella prefazione all'opera è dovuto alla “varietà” degli stili letterari impiegati nei documenti del corpus, il quale divenne successivamente un riferimento per lo stile cancelleresco e curiale. Espone nella praefatio dell'opera il fine di questa raccolta di testi, ovvero la necessità di fornire nozioni utili a chiunque si dovesse in futuro accostare alla carriera pubblica. Ulteriore obiettivo dichiarato è quello di far conoscere i propri trascorsi come membro del ceto dirigente.[85] Le Variae sono assai utili per conoscere le istituzioni, le condizioni politiche, morali e sociali sia dei Goti sia dei Romani dell'Italia del tempo.[85]  De anima Cominciato poco prima della conclusione delle Variae, il “De anima” è considerato da Cassiodoro come una sorta di tredicesimo volume per quest'opera, quasi ne rappresentasse l'appendice. Affronta temi esterni al mondo della politica, avvicinandosi agli stessi interessi spirituali che poi toccherà con la Expositio Psalmorum. Il “De anima” si dipana su dodici questioni, tra le quali l'incorporeità e il destino dell'anima, legata alla tradizione di Tertulliano, Agostino e Claudiano Mamerto. Anche per l’Expositio Psalmorum non è possibile dare una datazione certa, anche perché la sua composizione sembra essere stata portata avanti per un periodo abbastanza prolungato. Si tratta di un commento completo ai salmi, unico esemplare rimastoci da tutta la tarda antichità. Per mole è certamente l'opera maggiore di Cassiodoro, anche se non viene considerata la più matura tra le sue produzioni. Una più ampia influenza nel Medioevo ebbero le sue Istituzioni, “Institutiones divinarum et saecularium litterarum”, erudita introduzione alle sette arti liberali – dialettica, retorica, grammatical – musica, geomtrica, aritmetica. Progettata dopo che la richiesta di Cassiodoro per la fondazione di un'studi ricevette una risposta negativa da papa Agapito I, l'opera visse un lungo periodo di incubazione: basti pensare che al suo interno cita il De orthographia, ultima opera attestata di Cassiodoro. Il lavoro su questa enciclopedia si suddivide in varie sezioni: la prima presenta i vari libri della Bibbia, la storia della Chiesa e degli studi teologici; la seconda si occupa di quelle arti incluse successivamente nel trivio e quadrivio, con un occhio rivolto alla cultura pagana e alle norme atte per trascrivere correttamente gli antichi. Altre opere sono citate direttamente da Cassiodoro nel De orthographia. Complexiones in Epistolas et Acta apostolorum et Apocalypsin; si tratta di un commento ad alcuni passi degli Atti degli Apostoli e dell'Apocalisse di Giovanni Expositio epistolae ad Romanos (Commento alla lettera dei Romani). Liber memorialis; breve riassunto del contenuto della Sacra Scrittura. Historia ecclesiastica tripartita, di cui fu autore della sola prefazione. De orthographia; trattato destinato a fissare norme e regole per la trascrizione di scritti antichi e moderni. Senator è parte integrante del nome e non già designazione della carica pubblica (Momigliano, 1978,  494-504; Momigliano, 1980487).  Le ipotesi che vogliono Cassiodoro organizzatore e stratega nascosto dietro Teodorico sono ad oggi considerate generalmente infondate, superate dalla tradizione che vede Cassiodoro estraneo alla politica del regno; Cardini, 2009109.  Cardini, 200911; Abbate, Cardini, Momigliano, 1980487.  In Siria si trovano attestati i nomi Κασιόδωρος e Κασσιόδωρος.  Cassiodoro, Variae, I, 3.  Noto come Mons Cassius, da questo deriva Kassiodoros, ovvero "Dono del Monte Cassio".  Cardini, 200972.  Cassiodoro, Variae, I, 4.  Cassiodoro, Variae18.  Onore guadagnato forse per la difesa della Calabria dai Vandali di Genserico nel 404.  Michel Rouche, IV- Il grande scontro (375-435), in Attila, I protagonisti della storia, traduzione di Marianna Matullo,  14, Pioltello (MI), Salerno Editrice, ,  87,  2531-5609 (WC ACNP).  Cardini, 200974.  Tuttavia non si conosce né la data in cui ricoprì la carica né il nome della provincia.  Cardini, 200975.  Il nome stesso di Cassiodoro viene riportato solo nelle lettere dei papi Gelasio, Giovanni II e Vigilio.  In Cardini, 2009,  75-76 ci si sofferma su dizionari e prontuari la cui affidabilità è considerata generalmente affidabile; in particolare si cita l'opera Lessico classico di Federico Lübker.  Cardini, 2009,  75-76; a novant'anni scriverà ad esempio nel Vivarium un trattato di ortografia. Franceschini, 200830.  Cardini, 200976.  Cassiodoro, Ordo generis,  27-32; si tratta di una carica pubblica con funzioni di consigliere.  Cassiodoro, Variae, IX, 24.  Cassiodoro, Variae, IX, 39.  Cardini. La congettura si basa su un passo delle Variae, in cui però Cassiodoro non afferma esplicitamente di essere stato governatore dei Bruzi. Questa ipotesi è stata rimessa in discussione da Andrea Giardina e Franco Cardini (Giardina, 2006,  23-24;Cardini, Aveva cioè la possibilità di dare il proprio nome all'anno, unitamente a quello del collega.  Cardini, 200978.  Cassiodoro, Variae, IX, 24-25.  Ghisalberti, 200238.  Ovvero le segreterie imperiali (officia memoriae, epistularum, libellorum e admissionum).  Si tratta del corpo militare speciale incaricato di sorvegliare la corte imperiale.  Non si è certi se fosse stato nominato prefetto del pretorio per la prima o seconda volta.  Cardini, Cassiodoro, Variae, X, 33-34.  Cassiodoro, Variae, XII, 16-24.  Momigliano, 1978495; Cardini, 2009,  79-80.  Cardini, 2009,  81.  Cardini, 2009,  Cardini, 2009,  84.  Reydellet, Giardina, 2006,  116-141.  Cassiodoro, Variae, I 1,2-3, su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 1º luglio )..  Giardina, 2006122.  Teillet, ,  281-303.  Dietrich Claude, Universale und partikulare Züge in der Politik Theoderichs, in «Francia»,Reydellet, 1995292.  Wolfram, 1990295.  Cassiodoro, Variae, IX 14,8: Gothorum laus est civilitas custodita., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato dall'url originale l'8 luglio )..  Cassiodoro, Variae, II 29,1: regnantis est gloria subiectorum otiosa tranquillitas., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 13 luglio )..  Cassiodoro, Variae, IV 33, su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato dall'url originale l'11 luglio )..  Reydellet, Anonimo Valesiano, II 60: a Romanis Traianus vel Valentinianus, quorum tempora sectatus est, appellaretur..  Cassiodoro, Variae, VIII 3,5: Ecce Traiani vestri clarum saeculis reparamus exemplum., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 7 luglio )..  Cassiodoro, Variae, VIII 13,3-5: Non sunt imparia tempora nostra transactis: habemus sequaces aemulosque priscorum. (...) Redde nunc Plinium et sume Traianum. (...) Bonus princeps ille est, cui licet pro iustitia loqui, et contra tyrannicae feritatis indicium audire nolle constituta veterum sanctionum. Renovamus certe dictum illud celeberrimum Traiani: sume dictationem, si bonus fuero, pro re publica et me, si malus, pro re publica in me.., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato dall'url originale l'8 luglio )..  Reydellet, 1981,  248-250.  Vitiello, 2006,  111-222.  Reydellet, 1981,  250-253.  Vitiello, Cardini, Cassiodoro, Expositio Psalmorum, praef 1-5.  Cardini, 2009140.  Cardini, Pellegrini, 200523.  Cardini, 2009,  141-142.  Cassiodoro, Istituzioni, I, XXXII, 1.  Cardini, 20092.  Cassiodoro, Istituzioni, I, XXIX.  Cardini, 2009142.  Cassiodoro, Istituzioni, I, IV, 4.  Cassiodoro, Istituzioni, I, VIII, 14.  Cassiodoro, Istituzioni, I, XXXII, 2.  Cassiodoro, Istituzioni, II, II, 10.  Questo porta gli studiosi a ipotizzare una maggior partecipazione di Cassiodoro al progetto.  Cassiodoro, Istituzioni34.  Cardini, 2009143.  Cardini, Cardini, 2009145.  Coloro che preparavano i testi per la trascrizione.  Cassiodoro, Istituzioni, I, XXX, 3. Cassiodoro, Istituzioni, I, VIII, 3.  Cardini, 2009146.  Cardini, 2009148.  Cardini, 200986.  Cardini, Cardini, Cardini, 200992.  Cardini, 200993.  Altaner, 1944341.  Ceserani, 197976.  Cardini, Cardini, 200985.  Eutarico morirà infatti nel 522.  La cronaca è un genere letterario caratterizzato dall'esposizione di fatti storici in ordine cronologico.  Simonetti, 2006101.  Moorhead, Cassiodoro, Variae, IX, 25.  De origine actibusque Getarum, in sessanta capitoli.  «La Historia Gothorum occupa un posto di rilievo nella storia della cultura occidentale perché fu la prima storia nazionale di un popolo barbarico: in tal senso essa introduce veramente il medioevo». Simonetti, 2006102.  Simonetti, 2006,  101-102.  Germano Giustino faceva parte della Gens Anicia, mentre Matasunta era nipote di Teodorico.  Cardini, 200987.  ...originem Gothicam historiam fecit esse Romanam...  Cassiodoro, Variae, IX, 25, 5.  Cardini, 200988.  Il frammento è noto anche come Anecdoton Holderi; edizione critica e traduzione francese in Alain Galonnier, "Anecdoton Holderi ou Ordo generis Cassiodororum: introduction, édition, traduction et commentaire", Antiquité tardive, Cardini,  Cassiodoro, Variae27.  Cassiodoro, Variae, XI, 7.  Cardini, Momigliano, Istituzioni delle lettere sacre e profane.  Cardini, 200994.  Cardini, 200995.  Muse, 1964,  III137.  Cassiodoro, Istituzioni15.  Opere di Cassiodoro Expositio Psalmorum, M.A. Adriaen, 1958. Le Cronache, Mirko Rizzotto, Gerenzano, Runde Taarn, 2007. Le Istituzioni, Antonio Caruso, Roma, Vivere in, 2003. Le Istituzioni, Mauro Donnini, Città Nuova, Ordo generis Cassiodororum, Lorenzo Viscido, M. 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Le dignità de' Consoli e de gl'Imperadori, e i fatti de' Romani, e dell'accrescimento dell'Imperio, ridotti a compendio da Sesto Ruffo, e similmente da Cassiodoro, e da M. L. Dolce tradotti & ampliati, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, Venezia). Storici romani Antica Roma  Antica Roma Biografie  Biografie Cristianesimo  Cristianesimo Letteratura  Letteratura Lingua latina  Lingua latina Medioevo  Medioevo Categorie: Politici romani del VI secoloLetterati romaniStorici romaniComites rerum privatarumComites sacrarum largitionumConsoli medievali romaniCorrectores Lucaniae et BruttiorumMagistri officiorumPrefetti del pretorio d'ItaliaScrittori. Grice: “The English had taught Italians that it’s not fair to call Cicero an Italian, or Pythagoras, for that matter, since this all happened before Garibalid! I’m glad the Italians never learned the lesson!” --   MAGNI AURELII CASSIODORI SENATORIS De Artibus ac Diſciplinis Liberalium Litterarum, PR Æ FATI O. vism lectioni 33. titulis Prov. 8.28. Erionum 7 . tartiem titke nec men wa/ > nec 716m2To Liberdivina UPERIOR liber, Domino præſtan- fuam cubitum unum ? Item IſaiasPropheta dicit: 16.40.1:. , S | licet divinarum continet lectionum manu. Rurſus creatura Dei probatur facta ſub comprebējus. hic triginta tribu's titulis noſcitur pondere ;ſicut ait in Proverbiis Salomon : Ei li . coinprehenſus. Qui numerus ætati Dominice brabat fontesaquarum ; & paulo poft: Quando probatur accommodus, quando mundo peccatis appendebar fundamenta terra , cum eo eram . mortuo æternam vitam præſtitit, & præmia cre- Quapropter opere Dei fingularizato , magnifi Hic liber ſce- dentibus ſine fine concellit. Nunctempus eſt, cæ res neceſſariâ definitioneconcluſæ ſuntut; fi cularium le- ut aliis ſeptein titulis ſæcularium lectionum præ- cut eum omnia condidiffe credimus: ita & quem ſentis libritextuin percurrere debeamus ; qui ta- admodun facta ſunt, aliquatenusdiſcerenus. lis abfolue men calculus per ſeptiinanas fibimet ſuccedentes Unde datur intelligi mala opera diaboli nec Opera diabolt tur, & cur in ſe continue revolutus , uſque ad totius orbis pondere , nec menfura, nec numero cortineri: nec pondere, finem ſemper extenditur. quoniam quicquid agit iniquitas , juſtitie ſein Defeptenario Sciendum eft plane , quoniam frequenter quic- per adverſum eſt; ſicut & tertius deciinus Pſalmus continentur. numero , quid continuam atqueperpetuum Scriptura fan- meminit , dicens : Contritio , ú infelicitas in viis Pfal. 13.30 quid feript.o. ita vultintelligi, fub iſto numero comprehendit; corum , á viam pacis non cognoverunt : non eſt ia Super cum ficut dicit David : Septies in dielaudem dixitibi; timor Dei anteoculos eorum . Ifaias quoque dicit : intel'iyat. Plal. 118. cùm tamen alibi profiteatur : Benedicam Domi- Dereliquerunt Deuin Sabaoth , & ambulaverunt 164 . numin omni tempore : femper lausejus in ore meo. per vias diſtortas. Revera mirabilis , & fummè Et Salomon : Sapientia edificavit fibi domum , ſapiens Deus, qui omnes creaturas ſuas ſingulari excidit columnas feptem . In Exodo quoque dixit moderatione diſtinxit : ne aliquid eorumfæda fingulari Doininus ad Moyſen : Facies lucernas ſeptem , & confuſio pollideret . Unde Pater Auguſtinus in deratione dio Exod.05.37. pones easſuper candelabrum , ut luceant ex adver- libro 4. de Geneli ad litterain minatifinè difpu- ftinxerit? Apocal. 1.4 . fo. Quem numerum Apocalypfis in diverfis re tavit. bus omnino commeinorat ; qui tamen calculus Modd jamſecundi voluminis intremus initia, adillud nos æternum tempus trahit,quod non po- quæ paulò diligentiùs audiamus ; * Intentus no- *Hicincipiño teſt habere defectú. Meritò ergo ibi femper com- bis elt de arte Grammatica , tive Rhetorica , vel MSS. codd. memoratur , ubi perpetuum tempus oftenditur. de diſciplinis aliqua breviter velle confcribere ; Arithmetita Sic Arithmetica diſciplina dotata eſt , quando quarum rerum principia neceffe eft nos inchoa dotata ,quan rerum Opifex Deus diſpoſitiones ſuas ſub nume- re ; dicenduinque prius eft de arte Grammatica; Dei ſub nu xi, ponderis , & menfuræ quantitate conſtituits quæ eft videlicet origo & fundamentuin Libera mern, ponle- ſicut ait Salomon ; Omnia in numero , menfura, lium litterarum. re our menu- c pondere feciſti. Creatura ſiquidem Dei ſic nu Liber autein dictus eſt à libro , id eſt , arboris Liber unde ra ft24 . micro facta cognoſcitur, quando ipfe in Evange- cortice dempto atque liberato, ubi ante copiam dictus. Sap. 11. 21. lio ait :Veftri autem & cepilli capitis omnes nume- chartarum Antiqui carmina deſcribebant. Scire Matth.10 jo ratifunt. Sic creatura Dei conſtituta eſt in men- autem debemus, ſicut Varro dicit , utilitatis ali ſura ; ficut ipfe in Evangelio teſtatur: Quis an- cujus caufà omnium artium extitiſie principia. Matth.6.27. tem veftrum cogitans poteft adjicere ad ftaturam Ars verò dicta eft , quòd nos fuis regulisarctet Unie ars Plal . 33. 2. Prov . 9. 1 , Ca Deus on - nes creatsT45 11. 12. n . do creat1471 dieta. Liberalium Litterarum. 559 rints compoſuit . malis voce. our atque conſtringat. Alii dicunt à Græcis hoc trà- Finis verò elimatæ locutionis vel ſcripturæ , in ctum eſſe vocabuluin , amo tús agerős , id eſt , à culpabili placere peritia . virtute doctrinæ , quam diferti yiri uniuſcujul Sed quamvis Auctores ſuperioruin temporum QuideGram que bonæ rei ſcienriam vocant. de arte Grammatica ordine diverſo tractaverint, matica orne tiùs ſcriple Secundò de arte Rhetorica , quæ propter nito- fuiſque ſæculis honoris decushabuerint,ut Palæ rem ac copiain eloquentiæ ſuæ , maxiniè in civi- mon, Phocas , Probus; & Cenſorinus: nobis ta Libus quæſtionibus, neceſſaria niinis, & hono- men placet in medium Donatum deducere , qui rabilis æſtiinatur. & pueris ſpecialiter aprus , & tironibus probatur Tertiò de Logica, quæ Dialectica nuncupa- accomınodus, Cujus gemina coinmenta reliqui-- Gemina com tur. Hæc , quantùm Magiſtri ſæ . ulares dicunt, mus, ut ſupra quòd ipfe * planus eſt , fiat clarior menta in ar diſputatdivina UPERIOR liber, Domino præſtan- fuam cubitum unum ? Item IſaiasPropheta dicit: 16.40.1:. , S | licet divinarum continet lectionum manu. Rurſus creatura Dei probatur facta ſub comprebējus. hic triginta tribu's titulis noſcitur pondere ;ſicut ait in Proverbiis Salomon : Ei li . coinprehenſus. Qui numerus ætati Dominice brabat fontesaquarum ; & paulo poft: Quando probatur accommodus, quando mundo peccatis appendebar fundamenta terra , cum eo eram . mortuo æternam vitam præſtitit, & præmia cre- Quapropter opere Dei fingularizato , magnifi Hic liber ſce- dentibus ſine fine concellit. Nunctempus eſt, cæ res neceſſariâ definitioneconcluſæ ſuntut; fi cularium le- ut aliis ſeptein titulis ſæcularium lectionum præ- cut eum omnia condidiffe credimus: ita & quem ſentis libritextuin percurrere debeamus ; qui ta- admodun facta ſunt, aliquatenusdiſcerenus. lis abfolue men calculus per ſeptiinanas fibimet ſuccedentes Unde datur intelligi mala opera diaboli nec Opera diabolt tur, & cur in ſe continue revolutus , uſque ad totius orbis pondere , nec menfura, nec numero cortineri: nec pondere, finem ſemper extenditur. quoniam quicquid agit iniquitas , juſtitie ſein Defeptenario Sciendum eft plane , quoniam frequenter quic- per adverſum eſt; ſicut & tertius deciinus Pſalmus continentur. numero , quid continuam atqueperpetuum Scriptura fan- meminit , dicens : Contritio , ú infelicitas in viis Pfal. 13.30 quid feript.o. ita vultintelligi, fub iſto numero comprehendit; corum , á viam pacis non cognoverunt : non eſt ia Super cum ficut dicit David : Septies in dielaudem dixitibi; timor Dei anteoculos eorum . Ifaias quoque dicit : intel'iyat. Plal. 118. cùm tamen alibi profiteatur : Benedicam Domi- Dereliquerunt Deuin Sabaoth , & ambulaverunt 164 . numin omni tempore : femper lausejus in ore meo. per vias diſtortas. Revera mirabilis , & fummè Et Salomon : Sapientia edificavit fibi domum , ſapiens Deus, qui omnes creaturas ſuas ſingulari excidit columnas feptem . In Exodo quoque dixit moderatione diſtinxit : ne aliquid eorumfæda fingulari Doininus ad Moyſen : Facies lucernas ſeptem , & confuſio pollideret . Unde Pater Auguſtinus in deratione dio Exod.05.37. pones easſuper candelabrum , ut luceant ex adver- libro 4. de Geneli ad litterain minatifinè difpu- ftinxerit? Apocal. 1.4 . fo. Quem numerum Apocalypfis in diverfis re tavit. bus omnino commeinorat ; qui tamen calculus Modd jamſecundi voluminis intremus initia, adillud nos æternum tempus trahit,quod non po- quæ paulò diligentiùs audiamus ; * Intentus no- *Hicincipiño teſt habere defectú. Meritò ergo ibi femper com- bis elt de arte Grammatica , tive Rhetorica , vel MSS. codd. memoratur , ubi perpetuum tempus oftenditur. de diſciplinis aliqua breviter velle confcribere ; Arithmetita Sic Arithmetica diſciplina dotata eſt , quando quarum rerum principia neceffe eft nos inchoa dotata ,quan rerum Opifex Deus diſpoſitiones ſuas ſub nume- re ; dicenduinque prius eft de arte Grammatica; Dei ſub nu xi, ponderis , & menfuræ quantitate conſtituits quæ eft videlicet origo & fundamentuin Libera mern, ponle- ſicut ait Salomon ; Omnia in numero , menfura, lium litterarum. re our menu- c pondere feciſti. Creatura ſiquidem Dei ſic nu Liber autein dictus eſt à libro , id eſt , arboris Liber unde ra ft24 . micro facta cognoſcitur, quando ipfe in Evange- cortice dempto atque liberato, ubi ante copiam dictus. Sap. 11. 21. lio ait :Veftri autem & cepilli capitis omnes nume- chartarum Antiqui carmina deſcribebant. Scire Matth.10 jo ratifunt. Sic creatura Dei conſtituta eſt in men- autem debemus, ſicut Varro dicit , utilitatis ali ſura ; ficut ipfe in Evangelio teſtatur: Quis an- cujus caufà omnium artium extitiſie principia. Matth.6.27. tem veftrum cogitans poteft adjicere ad ftaturam Ars verò dicta eft , quòd nos fuis regulisarctet Unie ars Plal . 33. 2. Prov . 9. 1 , Ca Deus on - nes creatsT45 11. 12. n . do creat1471 dieta. Liberalium Litterarum. 559 rints compoſuit . malis voce. our atque conſtringat. Alii dicunt à Græcis hoc trà- Finis verò elimatæ locutionis vel ſcripturæ , in ctum eſſe vocabuluin , amo tús agerős , id eſt , à culpabili placere peritia . virtute doctrinæ , quam diferti yiri uniuſcujul Sed quamvis Auctores ſuperioruin temporum QuideGram que bonæ rei ſcienriam vocant. de arte Grammatica ordine diverſo tractaverint, matica orne tiùs ſcriple Secundò de arte Rhetorica , quæ propter nito- fuiſque ſæculis honoris decushabuerint,ut Palæ rem ac copiain eloquentiæ ſuæ , maxiniè in civi- mon, Phocas , Probus; & Cenſorinus: nobis ta Libus quæſtionibus, neceſſaria niinis, & hono- men placet in medium Donatum deducere , qui rabilis æſtiinatur. & pueris ſpecialiter aprus , & tironibus probatur Tertiò de Logica, quæ Dialectica nuncupa- accomınodus, Cujus gemina coinmenta reliqui-- Gemina com tur. Hæc , quantùm Magiſtri ſæ . ulares dicunt, mus, u t ſupra quòd ipfe * planus eſt , fiat clarior menta in ar diſputationibus ſubtiliffimis ac brevibus vera ſe- dupliciter explanatus. Sed & ſanctum Augufti- tes Donati queſtrat à fallis. num propterfimplicitatem fratrum breviter in- Caffiodorus Quarto de Mathematica, quæ quatuor com- ftruendain , aliqua de codem titulo ſcripſiſſe re- *MS.Sanger. plectitur diſciplinas, id eſt, Arithmeticam ,Geo- perimus, qux vobis le titanda reliquimus : ne Lasinus. metricam , Muſicain , & Aſtronomnicain. Quain quid rudibus deeſſe videatur , qui ad tantæ ſcien Che Mathe. Mathematicam Latino ferinone doctrinalem diæ culmina præparantur. maticado tri poffumus appellare ; quo nomine licet omnia doctrinalia dicere valeamus,quæcumque docent: Donatus igitur in fecundit purte ita diſceptat. hæc libi tamen commune vocabulum propter ſuam excellentiam propriè vindicavit ; ut Poeta De Voce Articulata. dictus , intclligitur Virgilius : Orator enuntia De Littera. tus , advertiturCicero ; quamvis multi & Poëtæ, De Syllaba. &Oratores in Latina lingua eſſe doceantur;quod De Pedibus. etiam de Homero, atque Demoſthene Græcia fa De Accentibus. cunda concelebratı Dc Pofituris , ſeu Diſtinctionibus. Quid fit Ma Mathematica verò eſt ſcientia , quæ abſtra Et iterum de Partibus Orationis octo thematica ? ctam conſiderat quantitatem . Abſtracta eniin De Scheinatibus. quantitas dicitur , quam intellectu â materia fe De Etymologiis. parantes , vel ab aliis accidentibus, folâ ratio De Orthographia. cinatione tractamus. Sic totius voluminis ordo * Ed . * ado. quaſi quodam * vade promiffus eſt. Vox articulata , eft aër percuſſus, fenfibilis au- Quid fit vox Nunc quemadmodum pollicitafunt, per divi- ditu , quantum in ipſo eſt. articulati . Duplex dif- fiones definitioneſque ſuas, Domino juvante, Littera, eſt pars ininima vocis articulatæ. Quid Littera . cendi genius. reddamus : quia duplex quodammodo diſcendi Syllaba , eft comprehenſio litterarum , vel unius Qwid Syd genus eſt , quando & lincalis deſcriptio imbuit vocalis enuntiatio , temporum capax. * Ed. pol. diligenter aſpectum , & * per aurium præparatum Pes ; eſt ſyllabarúm & temporum certa dinu- Quid pes. intrat auditum . Nec illud quoque tacebimus, meratio. quibus auctoribus tain Græcis , quam Latinis, Accentus, eſt vicio carens vocis artificioſa pro- Quid Accen quæ dicimus , expoſita claruerunt ut; qui ſtudio- nuntiatio . MSS.Reg . le legere voluerit, quibuſdam * compendiis in Pofitura , ſive diſtinctio , eſt moderatæ pronun- Quid pofitu Sang. competentiis. tiationis apta repauſatio. troductus , lacidiùs Majorum di& ta percipiat, Partes autem orationis ſunt acto , Nomen, EXPLICIT PRÆFATIO. Pronomen , Verbuin , Adverbium , Participium, tionis funs Conjunctio , Præpofitio , Interjectio . Capitula Libris Nomen , eſt pars orationis cum caſu , corpus Quid fis non aut rem propriècommuniterve fignificans ; pro- men. Caput. I. De Grammatica: priè , ut Roma, Tiberis : cominuniter, ut urbs, 2. De Rhetorica. Huvius, 3. De Dialectica; Pronomen , eſt pars orationis, quæ pro nomi- Quid Pronta 4. De Arithmetica: ne pofita , tantuindem pene ſignificat , perſo S. De Muſica, namque interdum recipit. 6. De Geometria. Verbum , eſt pars orationis cum tempore & Quid verbi . 7. De Aſtronomia: perſona fine caſu . Adverbium , eft pars orationis , quæ adjecta Quid Advcr CAPUT PRIMUM verbo , ſignificationem ejus explanat atque iin- bium . pler ; ut , jam faciam , vel non fáciam . Inſtitutio de Arte Grammatica . Participium , eſt pars orationis, dicta qudd par- Quid Parti tem capiat nominis , partemque verbi ; recipit cipium. Unde Grama maticanomen GKRammatica à litteris nomen accepit , ficuè enim ànomine genera & cafus , à verbo tempo vocabuli ipfius derivatus fonus oſtendit; ra & fignificationes , ab utroque numeros & fi acceperit ? quas primus omnium Cadınus ſexdecim tantum guras. legitur inveniſſe , eaſque Græcis ſtudioſiſſimis Conjunctio, eſt pars orationis annectens, ordi. Qyid com tradens, reliquas ipſi vivacitate animi ſuppleve- nanfque ſententiam. junctio. De quarum formulis atque virtutibus, Præpoſitio , eſt pars orationis , quæ præpofira Quid Præpo Helenus, atque Priſcianus ſubtiliter Attico ſer- aliis partibus orationis, fignificationem earum Juio. Quidfit Gra mone locuti ſunt. Grammatica verò , eſt peritia aut inutat, aut complet, autminuit. * MSS. Au- pulchrè loquendi ex Poëtis illuſtribus, * Orato Interjectio, eſt pars orationis ſignificans mentis Quid inter Etoribus, ribuſque collecta. Officium ejus eſt fine vitio affectuin voce incondità. ječtio. dictionem proſalem metricamque componere: Scheinata , ſunt transformationes fermonum Quid Sche ba. ra . Partes ora octo. 5 $ 1 men. runt. marica ? mata . 560 Caffiodorus de Inſtitutione Quid Ortha les, vel fententiaruin , ornatus cauſâ policæ ; quæ à dis :interdami , ut folers ,iners. quodam Artigrapho nomine Sacerdote collecta, In plurali quoque , excepto genitivo & accuſa fiunt numero nonaginta octo : ita tamen , ut qux rivo, omnibuscalibus ſimiliter declinantur.Nam à Donado inter vitia polita ſunt , in ipfo numero quædam in uin genitivo , accuſativo in es exeunt, collecta claudantur. Quod & mihi quoque du- ut Mars, ars : quædam in ium, ut fapiens, patiens, ruin videtur vitia dicere,quæ auctorum exemplis, & ob hoc accuſativi eorum in eis excunt. Plera & maxiinè legis divinæ auctoritate firmantur. que aurein ex his nomina tribus generibus com Hæc Grammaticis Oratoribufque cominunia munia funt, & in licreram quam habent, neutra funt: quæ tamen in utraque parte probabiliter in nominativo plurali dant etiam genitivis reli reperiuntur aptata. quoruin generuin ,cum quibus coinmunia funt. Addenduin eſt etiam de Eryinologiis, & Ortho In T littera , neutra tantùm nomina quædam , graphia , de quibus alius fcripfiffe certiflimum eſt. pauca finiuntur ; ut git, quod non declinatur ; Quid 'Etymo. Etymologia eſt aut vera aut veriſimilis deinon- ut caput, ſinciput. Quidam cùm lac dicunt, loysa. ftratio , declarans ex qua origine verba defcen- adjiciunti, propter quod facit lactis : ſed Vir dant. gilius. Orthographia eſt rectitudo fcribendi nullo er Lac mihi non æſtate novum , non frigore defit. graphics. rore vitiata , quæ manum componit & linguam . quippe cùm nulla apud nos nomina in duas mu Hæc breviter dicta fufficiant. tas exeant , & ideo veteres lacte in nominativo Cæterùm qui ea voluerit lariùs pleniùſque co dixerant, gnoſceye , cum præfarione ſua codicem legat, X littera terminat quædam , in quibus omnia quem noſtra curiolitate formavimus, id eſt, Ar- communia in iuin cxeunt in genitivo plurali; ob tem Donati , cui de Orthographia librum , & hoc. accuſativo in i & s . Plurima verò genitivo alium de Etymologiis inferuimus, quartum quo- in u & in , non præcurrente i , & ob hoc in e & s que de Schematibus Sacerdotis adjunximus;qua- accuſativo exeunt ; nam in reliquis conſentiunt. tenus diligens lector in uno codice reperire pof- Ut pote cùın ſingulariter omnia nominativa & ſit , quodarti Gramınaticæ deputatum effe co vocativa habeant genitivum ini & s , agant da gnoſcit. tivum in i littera : ablativum in e vel i definiant, Nomen da Sed quia continentia magis artis Grammaticæ adjectáque m accuſativum definiant impleánt verbum tant dicta eft , curaviinus aliqua denominis verbique que : pluraliter verò dativum ablativúmque in partes adje regulis pro parte ſubjicere , quas rectè tantùm bus fyllaba finiunt. muis Ariſtote. Ariſtoteles orationis partes adferuit. Nam de cæteris , quibus diſident Veteres , qui dam atrocum & ferocum , qua ratione omnium x DE NOMINIBUS. littera finitorun una ſpecies videbitur. Huic x litreræ omnes vocales præferuntur ; ut capax , fru Nominis partes ſunt. tex , pernix , atrox , redux. Ex iis nominibus quædam in nominativo producuntur , quædain Qualitas , mocomm . corripiuntur: quædam conſentiunt in noininati Comparatio , ouynpisisa vo , in obliquis diſſentiunr. Pax enim , & rapax, Genus , 2005. item rex & pumex , item nux & lux , etiam pri Numerus, água uo'so mam poſitionem variant ad nix & nutrix. Item Figura , oxaudio nox & atrox ſic in prima politioneconſentiunt, Caſus, T @ SIS. urdiſcrepentper obliquos. Et illud animadvertendum eſt, quædam ex iis x Pronominis partes: litteram in g , quædam in c per declinationes compellere. Lex enimlegis , grex gregis facit, Qualitas ut pix picis, nux nucis. Nain in his quæ non ſunt Genus. monoſyllaba, nunquam non x littera genitivo i Numerus. c convertitur ; ut frutex fruticis , ferox ferocis. Figura. Supellex autem , & ſenex, & nix , privilegio quo Perſona. dam contra rationem declinantur : quoniam ſu Caſus. pellex duabus ſyllabis creſcit, quod vetat ratio; & fenex ut in nominativo itein genitivo diffyllabus G Ræca nomina , quæ apud nos in us ; ut, manet , cùm omnia x litterâ terminata creſcant. vulgus , pelagus, virus,Lucretiusviri dicit; Et nix nec in cconvertitur, ut pix : nec in gut quamquam rectiùs inflexum maneat. Secundæ rex: ſed in u conſonans, in vocalem tranſire non ſpecies funt, quæ per obliquos caſus creſcunt, & poſſit. genitivo ſingulari in is litteras exeunt ; ut , genus, In plurali autem genitivo , ablativus ſingularis nemus: ex quibus quædam uine mutant ; ut olus formas vertit. Nam in a auto terminatus , in rum oleris, ulcus ulceris : quædam in o , ut nemus exit; e correpta in um :producta , in rum : iter neinoris , pecus pecoris. In dubitationem ve- minatus in uin. Dativus & ablativus pluralis a. niunt fænus & ftercus in e , an in o inutent : in is exeunt & in bus. Quæ præcepra in ſcholis quoniam quæ in nusſyllabam finiunt, u in e mu- ſunt tritiora : ſed quotiens in is exeunt , longa tant; ut , vulnus , ſcelus , funus , & funeratos fyllaba terminantur : quotiesin bus, brevi. De dicimus. Fænusenim exemplo non debet noce- curlis nominum regulis, æquuin eſt confequenter re, cùin inter dubia genera ponatur. Item vete- adjicere canones verborum primæ conjugatio res ſtercoratos agros dicebant, non ſterceratos. nis. In S littera finita nomina , præcurrentibus n vel r , omnia ſunt uniusgeneris: nili quæ ante ſe t habent, interdun d recipiunt, ut ſocors ſocor DE De Grammatica. 561 : Tempus zeovc . DE V ER BIS. ſyllaba , manente productione terminantur ; ut Commeo , commea , commeavi: Lanio , lania , Partes verbi funt. laniavi : Satio , fatia , fatiavi. Eodem modo, codem tempore, fpecie inchoativa,adjectâ ad im Qualitas, perativum modum in bam fyllaba terininantur; Conjugatio. ut cominea commeabain , lania laniabam , æſtua Genus. æſtuabain. Prima conjugatione , codem modo, Numerus. eodem tempore , ſpecie recordativa , adjectis ad Figura. imperativum modum veram ſyllabis , terminan Tempus. tur partes : ut Commea commeaveram , lania , la Perfona. 'niaveram , æſtua æſtuaveram . Priina conjuga tione, codem modo , tempore futuro , adjecta Qualitas Verbi. ad imperatiuum modun bo fyllaba , terminan rur ; ut Cominea commeabo, lania laniabo , æſtua Modi, # ſtuabo. Indicativi, ogesich. Quæveròindicativo modò , tempore præſen Imperativi , προσακτική . tì, ad primam perfonam in o littera , nulla alia Opeativi , ευκτική. præcedente vocali terminantur , ea indicativo Conjunctivi, útotaxix . modo , tempore præterito , ſpecie abſoluta 80 Infinitivi, atrapéu pet exacta , quatuor modis proferuntur. Et eſt primus, qui lunilem regulam his babet . Genus Verbre Qui indicativo modo, tempore præſenti, prima perſona penultiinam vocalem habet : ut Amo, Adiva, švępyutix .. ama , amavi, amabam , amaveram , amabo, Pafliva, mee.Jotus amare , Communia, rond. Secundus eft , qui o ini convertit ultimam in præterito perfecto,penultimam in pluſquàm per fecto e corripit ; ut Adjuvo , adjuvi, adjuveram . Tertius , qui fimilem quidem regulaın habet Præſens, évesa's. primi modi, ſed detracta a littera deliungit ; ut Præteritum ; ta zenauges Seco , ſecavi , ſecaveram , ſecabo , ſecare. Facit Futurun , uitwr. enim ſpecie abſoluta ſecui, & exacta ſecueram . Imperfcerum , megatinad's. Quartus eſt , qui per geininationein fyllabae Perfectum , Tee XÉCU . profertur; ut Sto , ſtá , kteci , fteterain , itabo Pluſquain perfectam , impon TEARO'S. ftare. Huic ſimile Do , da , dedi , dabáin , dede Infinitum ; mogises. ram , dabo , dare , correpta littera a contra re-, gulain , in eo quod eſt , dabam , dabo , dare. Proferuntur fecunda conjugationis verba, dente vocali terminantur, vel præcante quæ indicativo modo, teinpore præſenti, perſo vocali qualibet , formas habet quatuor. na prima , in eo litteris terminantur ; ut Video , Secundæ conjugationis correpræ verba verba,, for- vides vides ; monco monc mones. Secundæ conjugatio mas habent viginti. Sic quæcumque verba indi- nis verba, indicativomodo, teinpore præſenti, cativo modo , tempore præfenti, perſona primà, ad ſecundanı perſonam iu e littera producta,ter in o littera terminantur, forinas habentſex ,quæ ininantur ; ut Video , vide ; moneo, mone. Se voces forınas habent duas. Quæ nulla præceden- cundæ conjugationis verba, infinito inodo , ad te vocali in o littera terminantur, formas habent je & ta ad imperativum modum re fyllaba, manen duodecim . te productione terminantur ; ut Vide , videre; Tertiæ conjugationis productæ verba , qua mone, monere. Secundæ conjugationis verba, indicativo modo , tempore præſenti , perſona indicativo modo, tempore præterito , {pecie ab prima in o littera terminantur , formas habent ſoluta & exacta , ſeptem modis declinantur ; & quinque. Quæcumque autem verba cujuſcum- eft primus, qui forinain regulæ oſtendit.Nam for que conjugationis indicativo modo , temporė mahæc eſt;cùm fecundæ conjugationis verbum , præſenti, perfona prima, vel nulla præc dente indicativomodo,temporepræterito quidem per vocali, vel qualibet alia præcedente , in o littera fecto , adjecta ad iinpecalivun modum vi fyllaba, *terminantur, corum declinatio hoc numero for- manente produđione. marum continetur. De quibus fingulis dicam . Primæ conjugationis verba indicativo modo, CAPUT SECUNDUM. tempore præſenti, perſona prima, aut in o litte : ra nulla alia præcedente vocali terminantur , ut De Arte Rhetorica . , Canto io ut lanio , , . Rrium aliæ ſuntpofitæ in Artes in tres Primæ conjugationis verba iinperativo modo, temporepræſenti ad ſecundam perſonain in a lit- lis eſt Aſtrologia : nullum exigens actum , ſed ipſo duntur. tera producta terminantur ;ut amo, ama : canto, rei, cujus ſtudium habet, intellectu contenta, canta : infinito modo ad imperatiuum modum, quæ Geargintzün vocatur. Alia in agendo, cujus in in re fyllaba,manente productione terminantur ; hoc finis eſt , ut ipſo actu perficiatur, nihilque ut aina, amare: canta , cantare. Item prima con- poſt actum operisrelinquat, quæ peakmix dici jugatio, quæindicativo modo , tempore præte- tur, qualis ſaltatio eſt.Alia in effectu,quæ operis, rito, ſpecie abſoluta , adjectâ ad imperatiuun yi quod oculis fubiicitur confummatione, finein Bbbb V . ib, uclanio,fatio:autuo ,uræſtuo ,continuo A evognizione peltimatione rerum ,quas partes divina 562 Caffiodorus ea 1 tor. Etanda , accipiunt, quam nontoxù appellamus, qualis eſt cauſam , locum , tempus, inftramentum , occa pictura. fionemnarratione delibabiinus. Multæ ſæpe in Orationis duo Duo funt Genera orationis : altera pespetua, una cauſa ſunt narrationes. Non femper co ordi fuigenera. quæ Rhetorica dicitur : alteraconciſa , quæ Dia- ne narrandum , quo res geſta eſt. Enthumous fit tectica ; quas quidem Zeno adeo conjunxit , ut ad augmentum vel invidiæ , vel miſerationis, vel hanc compreſlæ in pugnum manus, illam expli- in adverfis. Initium narrationis à perſona fier, & catæ fimilean dixerit. ſi noſtra elt , ornetur : fi aliena , infametur. Et Initiam di Initia dicendidedit natura : initium artis ob- hæc cum ſuis accidentibus ponitur. Finis narra cendi dedit fervatio. Homines enim ficur in Medicina , cum tionis fit , cùın eò perducitur expofitio , unde natura,ini- viderent alia falubrià, alia inſalubria ex obſerva- quæſtio oriatur. sium artis ob. tione eoruin effccerunt arrein . feruatio. Facultas orandi confunmatur naturâ , arte , De Egreſionibus Pacultas orandi tribus exercitatione; cui partein quartam adjiciunt qui cofummatur. dam imitationem , quam nosarti ſubjicimus. Egreſſus eſt , vel egrelfio , hoc eſt , méx6a95, Tria debet Tria funt quæ præltare debet Orator ; ut do- cum intermiffà parum re propofitâ , quiddain in præftare Ora- ceat, moveat, delecter. Hæc enim clarior divi- terſeritur delectationis utilitatiſve gratiâ. Sed fio eft , quàm eorum qui totum opus:in res , & ir hæ ſunt plures, quiæ pertotam cauſam varios ex affectus partiuntur, curſus habent ; ut laus hoininum locorumque; Invadendo In fuadendo ac diſſuadendo rrja primùm fpe- ut defcriptio regionum , expoſitio quarundam fodiſficaden- ctanda ſunt; quid ſit de quo deliberetur : qui lint rerum geſtarum , vel etiam fabulofarum . do triape- qui deliberent: quis ſit quifuadeat rem , dequa Sed indignatio , miſeratio , invidia , convi elintpar. deliberatur.Omnisdeliberatio de dubiis fit. Par- tium , excuſario , conciliatio, maledictorum re "tes fuadendi. tes ſuadendi ſunt honeftum , utile , neceſſarium . futatio , & fimilia :omnis amplificatio, minutio, Quidam , ut Quintilianus, furetor ; hoc eſt,pofli- omnis affectus, genusdeluxuria, de avaritia, re bile , approbat. ligione, officiis cuin ſuis argumentis ſubjecta ſi milium rerum , quia cohærent, egredi non viden Ware Procemiam à Græcis dicitur. tur. Areopagitæ damnaverunt puerum , corni cum oculos eruentem ; qui putantur nihil aliud Clarè partem hanc ante ingreffum rei , de qua judicaffe , quàm id lignum effe pernicioſiflima diccndum fit ,oftendunt.Nain livepropterea quod mentis , multiſque malo futuræ li adoleviſſet. brun cantus elt , & Citharædi pauca illa , quæ an tequam legitimum certamen inchoent, emerendi De Credibilibus favoris gratia canunt, Proæmium cognomina runt. Oratores quoque ea , quæ priuſquam cau Credibilium tria funt genera: ünum Grmiſti- Tria ſunt ore. fain exordiantur, ad conciliandos libi judicun muni, quia ferè ſemper accidit ; ut , liberos à pa aninospræloquuntur, Procinii appellationc fi- rentibus amari. gnarunt. Sive quod 40 Græci viam appellant Alterum velut propenſius, eum qui rectè va id, quod ante ingrekun reiponitur , fic vocari leat , in craſtinum perventurum . Dikfit Proa- eft inſtituruin . Caufa Proæmii hæc eſt , ut audiro Tertium tantum non repugnans; ab eo in dong mii carla. rem , quò fit nobis in cæteris partibusaccommo- furtum factum , qui domui fuit. datior, præparemus. Id fit tribus modis , li be nevolum , atrencum , docilemque feceris ; & in Argumenta unde ducantur. reliquis partibus haud minus, præcipuè tamen in initiis neceſſe eſt animos judicum præparare. Ducuntur argumenta à perſonis, cauſis , tem pore ; cujus tres partes ſunt, præcedens, conjun Quid differt Proæmium ab Epilogo. ctum , inſequens. Si agimus, noſtra confirmana da ſunt priùs ; tum ea , quæ noftris opponuntur, Quidam putarunt quòd inPræmio præterita, refutanda. Si reſpondemus; ſæpiùs incipiendum in Epilogo fucura dicantur. Quintilianus autem à refutatione. Locuples & fpeciofa &imperio co quod in ingreffu parciùs & modeſtiùs præten- ſa vult eſſe Eloquentia. tanda ſit judicis miſericordia : in Epilogo verò licear toros effundere affectus , & ficam oratio De Concluſione nem induere perſonis , & defunctos excitare, & pignora reorum perducere , quæ minus in Concluſio,quæ peroratio dicitur, duplicem has concluſodomen proæmiis ſunt uſitata. bet rationem ; ponitur enim autin rebus, aut in plicem habet affectibus rerum , repetitio & congregatio , que rationem . De Narratione. Græcè ávax!IO HAURIS dicitur , à quibufdam La tinorum renumeratio dicitur , & memoriam au Narratio aut torà pro nobis eſt , aut cora pro ditoris reficit, & totam ſimul cauſam ponit an adverſariis , aut mixta ex utriſque. Si erit tota te oculos ; ut etiam ſi per ſingulos minus vale pro nobis , contenti ſimus his tribus partibus, bant , turbâ moveantur : ita tamen ut breviret uc judex intelligat, meminerit , credat, nec quic eorum capita curlimque tangantur . Sed tunc fita quan reprehenſione dignum putet. ubi inultæ caufæ , vel quæſtionesinferuntur; nam Notandum , ut quoties exitus rei ſatis oſtendit fi brevis & fimplex eſt, noneft neceffaria. priora , debemus hoc eſſe contenti , quò reliqua intelliguntur; fatius eſt narrationi aliquot fuper De Affectibus: eſſe , quàm deeffe ; nain ſupervacua cum rædio dicuntur: neceſſaria cum periculo ſubtrahuntur. Affectuum duæ funt ſpecies , quas Græci '90s affectuur Quæ probacione tractaturi ſumus , perſonain, aj mrásos vocant , hoc eit , quafimores & affe- dua ſung species, dibilium gito nera . 1 1 De Rhetoricà. 563 Te . ventio . tio . tio . 114 . us concitatos } & Teses quidem affectus con- & quæſtionem .Cauſa eft res,quæ habet in ſe con citatos : " Jos veròmites atque compofiros ; in il- troverſiam in dicendo politam , perſonarum cer lis vehementesmotus, in his lenes: & resos qui- tarum interpoſitione : quæſtio autem ,eft res, quæ demimperat, its perſuadet ; hi ad perturbatio- habet in ſe controverſiam in dicendo polítam , nem , illi ad benevolentiam prævalent. Et eſt line certarum perfonarum interpofitione. Frágos temporale , ndos verò perpetuum ; utra que ex eadem natura : fed illud majus , hoc mi DE PARTIBUS RHETORICA nus , ut amor esos, charitas » Sus ; tados con citat , isos fedat. Partes Rhetoricæ funt quinque. In adverſos plus valet invidia ,quàm convitium: quia invidia adverſarios, convitiuin nos inviſos Inventio . facit. Nam ſunt quædam , quæfi ab imprudenti Diſpoſitio. bus excidant, ſtulta ſant; cum ſimulamus, venuſta Elocurio Orator vitio creduntur. Bonus altercator vitio iracundiæ ca Meinoria, iracundiæ ca- reat ; nullus enim rationi magis obftat affectus, & Pronuntiatio . reat; & qua- fertextra cauſamplerumque, & defornia convi tia facere ac mereri cogit, & nonnunquam in ipſos Inventio eft ex cogitatio rerum verarum aut ve . Quid fitta judices incitatur ; quoniam ſententiæ, verba, fi- riſinilium ,quæ cauſam probabilem reddunt. guræ , coloreſque funt occultiores quæſtiones in Difpofitio eft rerum inventarun in ordinem Quid Diſposa genio , cura , exercitatione. pulchra diftributio . Conjectura omnis , aut de re eſt , autde animo. Elocutio eft idoneoruin verborum ad inventio Onid Eloc14 Utriuſque tria teinpora ſunt , præteritum , pre- nein accommodata perceptio . ſens, &futuruin . De re & generales quæſtiones Memoria eſt firma aniini rerum ac verborum funt, & definitæ ; id eft, & quæ non continentur, ad inventionem perceptio. Quid Memo perſonis , & quæ continentúr. De animo quæri Pronuntiatio eſt ex rerun & verborum dignita non poteſt, niſi ubi perſona eſt; & de facto , cùm te, vocis &corporis decora moderatio . Quid Proing nuntiatio . de re agitur , aut quid factum ſit in dubium venit, aut quid fiat , aut quid futurum ſit , & reliqua fi De Generibus caufarum . unilia , De Amphibologia. Genera cauſarum Rhetoricæ ſunt tria princi- General Cares palia. Demonſtrativum , Deliberativum , Judi- Jarum Rheto Innsetabia Amphibologiæ ſpecies ſunt innumerabiles, ciale: Ticefunttrica les lient Am. adeò ut Philofophi quidam putent nullum effé Demonſtrativum & In laude phibologia verbum , quod non plura ſignificet genera , aut oftentativum species admodum pauca ; aut enim vocibus fingulis ac- Eyxaurasino's In vituperatione cidiper ópw rupaar aut conjunctis per ainbiguani Emdeuxtixò , conſtructionem , Quando fiat Vitiofa oratio fit, cùm inter duo nominamè- Deliberativum & ſua In ſuaſione. vitioſa oratio dium verbum ponitur. forium dicitur De oppofitio Oppoſitiones & fi contrariæ non ſint , ſed dif- EupBBAEUTIKON In diſſualione niben . fimiles : verumtamen li fuain figuram ſeryant, ſuntnihilomimus antitheta.. r In accuſatione, & de Naturalis quæitio eſt, quæ eſt temporalis ;fic Judiciale fenſione cut cúm que ſunt per ordines temporum acta, acercón marrantur. Nunc ad artis Rhetoricæ diviſiones În præmii penſione, & definitionofque veniamus ; quæ ficut extenſa at negatione que copiofa cft ; ita à multis &claris ſcriptoribus tractata dilatatur, Demonſtrativum genus eſt, cùm aliquid de- Quid fit De monſtramus, in quo eſt laus & vituperatio ,hoc monftrativi Onidfit Rhetorica eſt, quando per hujuſinodidefcriptionem oſten- genus. dituraliquis, atque cognoſcirur ; ut pſalınús 28. Rhetorica Rhetorica dicitur à copia deductæ locutio- . & alia vel loca vel pſalmi plurimi ,ut:Domine unde dicta. 'nis influere. Ars autein Rhetorica elt , fi- in calo miſericordia tua, &uſque adnubesveria cur magiſtri tradunt fæculariuin Litterarum, tas tua. Iuſtitia tua ficutmontesDei , & reliqua. bene dicendi ſcientia in civilibus quæſtionibus. Deliberativum genus elt , in quo eſt ſualio de . Quid Delią Quid fit Ora Orator igitur eſt vir bonus , dicendi peritus, ut diſſualio , hoc eft quid appetere , quid fugere, berativos . zor, ju offi- dictum eſt in civilibus quæſtionibus. Oratoris quiddocere, quid prohibere debeamus, citum ,erfinis. autem officium eſt, appolitè dicere ad perſuaden Judiciale genus elt, in quo eſtaccuſatio & de Quid Fudia ciale. dum. Finis , perſuadere dictione, quatenus rex fenſio , vel præmii penſio & negatio. ruin & perſonarum conditio videtur admittere in civilibus quæſtionibus : unde nunc aliqua bre De Statibus. viter aſſumemus, ut nonnullis partibus indicatis, penè totiusartis ipſius ſumınam virtutemque in Status Græcè ça'os. Status cauſarum ſunt año Status caufae telligere debeamus. rationales , aut legales. Status verò dicitur ea bacionales, rum åut ſuns Civiles quæſtiones ſunt ſecundum Fortuna viles quaftio- tianum Artigraphum novelluin , quæ in com ; a Hæ funt quæſtiones an huic, an cumhoc , an học Quid fit firas ant legales, nes , & quo modo divi munem animi conceptionem poffunt cadere ; id seinpore , an hac lege,an apud ipſum . Quidquidpræter van duntur. iſtas quinque partes in oratione dicitur; egreſſio eſt. eſt, quâ unuſquiſque poteftintelligere, cùm de Hæc nagex aois, quoniam à reco dicendi itinere defc. æquo quæritur & bono. Dividuntur in cauſam , : &itur quælibet inſerendo. Bbbb ij Quid fine ci 564 Caffiodorus Quidfit con Um. res, in qua cauſa conſiſtit. Fit autem ex intentio ne & depulfione , vel conftitutione. ab alio objicitur, ab adverſario pernegatur, Statum alii vocant conftitutionem , alii qua 2. Finitivus ſtatus cſt, cùm id quod objicitur, jocuralis fia. {tionen , alii quod ex quæſtione appareat. non hoc efle contendimus : fed quid illud lit, ad hibitis definitionibus approbamus. Quid fam.si Status rationales ſecun Conje & ura. 3. Qualitas eft , cùm qualis res lit, quæritur ; dum generales quæſtio Finis. & quia de vi & genere negotii controverſia elt, nes ſunt quatuor. Qualitas. conſtitutio generalis vocatur. Tranſlatio . 1. Conjecturalis ſtatus eft , cùın factum , quod Imprudentia ( Purgatio Caſus. Concellio Juridicialis Abſoluta Aut caufæ , Nixologian Remotio Aur facti. 3 criminis Negotialis aitam Cui juftè in aliocom generalis Relatio mittitur, quia & ifle in GegyueTiku priva criminis te fæpius commifin Αντίγκλημα.. Deprecatio Neceflitas. Qualitas Comparatio Squando melius id Αντίστασης . factum peragitur. 1 ſunt quinque ! с 12. 1 1 in Pſal. paz . ratio, Juridicialis eft , in qua æqui &re &ti natura , Questas Ju. ſ Scriptum& voluntas. riuscialis præmii & pænæ ratio quæritur. Porov ij dienoido Quid Nego Negotialis eſt , in qua, quid juris ex civili mo Sätus Legales Leges contrariæ , tizivs. re & æquitate lit , confideratur. Ambiguitas. Αμφιβολία . Quid Abfo luta . Abſoluta eft , quæ ipfo in ſe continet juris & Collectio , live Raciocinatio . injuriæ quæſtionem . Συλλογισμός purua Raid Allium . 'Affumptiva eſt, quæ ipfa exſe nihil dat firmi, Definitio Legalisa . aut recuſationem foris , aut aliquid defenfionis aſſumit. Scriptum & voluntas eſt, quando verba ipſa quid.fcripti Quid con Conceſſio eſt, cum reus non id quod factum eſt, videntur cum ſententia ſcriptoris dillidere. & voluniss. defendit: fed , ut ignofcatur , poftulat; quod nos Legis contrariæ ſtatus eſt, quando inter fe duz Quid legis Comment. ad pænitentes* probavimus pertinere. leges, aut pluresdiſcrepare videntur. contrarieta Remotio criminis eft , cùm id crimen quod in Ambiguitas eſt , cùm id quod fcriptum eſt, tus, 169.1.09103. ferrur ab fe &ab ſua culpa , vi & poteftate in duas auc plures res ſignificare videtur. Quid Ambi aligin reus dimovere conatur. guitas. Collectio Quid Remo , quæ & Ratiocinatio nuncupatur, Quid Colle tio criminis. Relatio criminis eſt , cùm ideo jure factum di- eſt quando ex eo quod fcriptum eſt, invenitur, ft :0. Quid Relatio citur , quod aliquis ante injuriam laceſſierit. , Definitio legalis eſt , cum vis verbi quaſi de criminis. erid Defini Comparatio eft , cùm aliud aliquod alterius finitivâ conſtitutione , in qua pofita fit , quz- tio legalis. Quil Compa. factum honeſtum aut utile contenditur , quod, ricur. ut fieret illud quod arguitur , dicitur eſſe com Status ergo tam rationales quam legales à Statusà qui iniffum . quibuſdam decein & octo connumerati ſunt. bullam 18. 2 Quid Purga Purgatio cft , cùm factum quidem conceditur, Cæterum ſecundum Rhetoricos Tullii decem & Tullio verò bes partenha- fedculparemovetur. Hæc partes habertres,Im- novem inveniuntur , propterea qudd Tranſlatio- 19.numeran prudentiam , caſum , neceſſitatem . Impruden- nem interRationales principaliter adfixit ftatus. tia eft, cùin fciſfe fe aliquid is qui arguitur,negat. Unde feipfum eciam Cicero ( ſicut ſuperiùs di Caſus eſt , cum demonſtratur aliquam fortune &tum eſt ) reprehendens, Tranſlationem Legalia vim obſtitiffe voluntati. Neceſſitas eſt , cùm vi bus ftatibus applicavit. quadam reus id quod fecerit , feciſſe ſe dixerit. Quid ft De precatio . Deprecatio eſt , cùm & peccaffe , & conſultò De Controverfia. peccaſſe reus conficetur ; & tamen , ut ignoſca Quid Trans- tur,poftulat.Quodgenus perraro poteft accidere. Omnis controverſia , ſicut ait Cicero , aut fim- Controverfis ex Cicerone lario. 4. Tranſlatio dicitur , cùm caufa ex eo pendet, plex eſt, aut juncta , aut ex comparatione. triplex eft. cùm non aut is agere videtur , quem oportet: aut Simplex eſt, quæabſolutam continet unam Quid fit com non cum eo, quioportet : aut non apud quos, quo quæſtionem , hoc modo: Corinthiis bellum indi- jeftura fim tempore , qua lege , quo crimine , qua pæna cenus, án non. plex . oporteat. Tranſlationi adjicitur Conſtitutio, Juncta, eſt ex pluribus quæſtionibus , in quòd actio tranſlationis &commutationis indi- plura quæruntur hocpacto:Carthagodiruatur: Quid juncts . an Carthaginienſibus reddatur , an eocolonia de Ubi adverſariis omnia conceduntur , & per colas ducatur. lacrymas lupplices defenditur reus. Ex comparatione, utrum potius, an quod po- Quid ex com paratione, a Et ſi juncta erit conſiderandum erit , utrum ex plu ribus quæftionibus juncta fit, an ex aliqua cóparatione. tur. H : gere videtur. 1 De Rhethorica. 565 > Exorarum . rario , t11.0 . tiſſimum quæritur ad hunc modum : utrum exer Exordium , eft oratio animum auditoris ido Quit fis cituscontra Philippum in Macedoniam mittatur, neè comparans ad reliquam dictionem . qui ſociis fit auxilio : an teneatur in Italia ; ut Narratio , eft reruin geftarum , aut at geſta- Quid Nar quàmmaximæ contra Annibalem copiæ fint. rum expoſitio. Partitio eft, quæ fi re &tè habita fuerit , illu- Quid Per , DE GENERIBUS CAUSARUM . ftrem &perfpicaam roram efficit orationem . Confirmatio eft, per quam argumentando no- Qrid Confir Genera cauſarumfunt quinque. ftræ caufæ fidem , & authoritatem , & firinamen- mario . tum adjungit oratio. Honeſtum . Reprehenfio eft per quam argumentando ad- Quid Repre Admirabile . verſariorum confirmatio diluitur, aut elevarur. henfio. Humile . Concluſio eſt exitus & determinatio totius exid con Anceps. orationis , ubi interdum & Epilogorum allegatio cnfio. Obſcurum . flebilis adhibetur. Hæc licer Cicero Latinæ eloquentiæ Lumen Duos libros Quid honefti Honeſtum caufæ genus eft , cui ſtatim fine ora- eximium , per varia volumina copiosè ninis & de Rethorica cauſæ genus. tione noftra favet auditoris aniinus. Admirabile diligenter effuderit, & in arte Rhetorica duobus compoſuit ci Admirabile, à quo quod eft pre eft alienatus animus eorum , libris videatur amplexus ; quorumCoinmenta à cero, quosM. Victorinus ter opinio- qui audituri ſunt. Mario Victorino compoſita, in Bibliotheca mea commentatus num hominü Humile eft, quod negligitur ab auditore ', & vobis reliquiffecognoſcor. eft. conftitutum . nonmagnopere attendendum videtur. Quintilianus etiain Doctor egregius , qui poſt Quintiliansis Quid Admi. rabile. Anceps in quo aut judicatio dubia eft , aut Auvios Tullianos fingulariter valuit implere quæ Doctor egre Quid Humile cauſa &honeſtatis & turpitudinis particeps , ut docuit , virum bonum dicendi peritum à priinâ gius in Rhe. Qivid Anceps benevolentiam pariật , &offenfionem . ætate fuſcipiens, per cunctas artes, ac diſcipli- sorica doceka Puid'obfcs Obſcurum , in quo aut tardi auditores funt,aut nas nobiliuin litterarum erudiendum eſſe mon difficilioribus ad cognoſcendum negotiis cauſam ftravit. Libros autein duos Ciceronis, de arte implicata eft. Rhetorica , & Quintiliani duodeciin inſtitutio num ! judicavimus eſſe jungendos ; ut nec codi DE PARTIBUS RHETORICÆ cis'excrefceret magnitudo , & utrique duin ne ceffarii fuerint , parati feinper occurrant. Partes orationis Rhetoricæ funt fex . Fortunatianum verò Doctorem novellum , Fortunatik . qui tribusvoluninibus de hac re ſubtiliter minu- nustria ro Exordium . tèque tractavit ; in pugillari codice Rhetorica Narratio . congruenterquc redegimus; ut &faſtidiuin lecto confecis. Partitio . ri tollat , &quæ ſuntneceffaria competenter in Confirmatio. ' finuet. Hunc legat qui brevitatis amator eft, Reprehenfio . nam cum opus ſuum in multos libros non teten Concluſio , five derit : plurima tamen acutiffimâ ratiocinatione Peroratio . diſſeruit.Quos codices cum præfatione ſua in uno corpore reperietis eſſe collectos. DE RHETORICA ARGUMENTATION E. da. tim lumina de aptè lorfitan , Rhetorica Argumentatio fit. Illatio quæ r Propoſitio | Aut per Inductio- ! nem cujusmembra &Affumptio funt hæc. dicitur. | Concluſio ina tayo Rhetorica Argu mentatio tracta tur. rEvdúcemus.Talo PEYSúumps, eſt commentum , Convincibili. vel commentio ' , hoc eſt | Oſtentabili. mentis conceptio. 3 Sententiabili. Exemplabili. Txer Suunne, qui eft imper- iCollectitio. fectus fyllogylinus , atque Rethoricus , ficut Fortuna tianus dicit , in generibus i explicatur. azódseçu eſt cer ta quædam argu menti concluſio vel ex confe quentibus , vel repugnantibus. Aut perRatiocina tionem de Argu mentis , in quo no mine complectun Atodict. tur , quæ Græci di cunt. Emxelamud too s Emreignus , eft fententia cum fatione , Latinè dicitur Exe čutio , vel Approbatio , vel Argumentum 11.apemrbiem uc verò , qui eſt Aut Tripertitus. Rhetoricus & latior fyllogyf: 3 AutQuadripercitus. Aut quinquepertitus. | mus eft. 566 Caffiodorus Unde Argu titus. ductio . Mem2. cit . mêtatiodista. Argumentatio dicta eſt quaſi argutæ mentis rici ſyllogiſmi, latitudinediſtanz& productione oratio . fermonis à dialecticis fyllogiſmis , propter quod Quidfit Ar Argumentatio eſt enim oratio ipſa, qua inven- Rhetoribus datur. gumentatio. tum probabiliter exequimur argumentum . Tripertitus , epichirematicus fyllogiſmus eſt; Quid Triper Quid fit In Inductio eft oratio,qua rebusnon dubiis capra- qui conſtat inembris tribus : id eft, propoſitione, mus aſſenſionein ejus, cum quo inſtituta eſt ,live aſſumptione, concluſione. inter Philofophos , ſive interRhetores , five inter Quadripertitus eſt , qui conſtatmembris qua- Quid Quz Seriocinantes. tuor: propoſitione , affumptione, & una propo- dripernicus. Quid Probo Propoſitio inductionis eſt ,quæ fimilitudines fitionis live afſuinptionis conjuncta probatione, fitio. concedendæ rei unius inducit , aut plurimaruin . & conclufione. Quid illatio. Illatioinductioniseft, quæ & affumptio dicitur, Quinquepertitus eſt,qui conſtat membris quin- Que de Marine quæ rem dequa contenditur, & cujus cauſa ſimi- que:id eft ,propoſitione ,& probatione , aſſum- quepertiim , litudines adhibitæ ſunt introducit. ptione, & ejus probatione , & concluſione. Quid con Concluſio inductionis eſt, quæ aut conceſſio . Hunc Cicero ita facit in arte Rhetorica: Si de clulo. nem illationis confirmat , aut quid ex ea confi- liberatio & deinonſtratio genera ſunt cauſarum , ciatur , oftendit. non poffunt rectè partes alicujus generis cauſa Qwid Ratio Ratiocinatio eft oratio , quâid de quo eft quæ- putari. Eadem enim res , alii genus, alii pars effc cinatio. ítio comprobamus. poteft: idem genus , & pars effe non poteſt, vel Quid Enthy Enthymema igitur eſt, quod Latinè interpreta- cætera ; quoufque fyllogiſini hujus meinbra clau cur mentis conceptio , quam imperfectum fyllo- dantur. Sed videro quantum in aliis partibus giſmum ſolent Artigraphi nuncupare. Nam in lecter ſuum exercere poſſit ingenium . duabus partibus hæc argumentiforma conſiſtit: Memoratus aurein Fortunatianus in tertio libro quando id quod ad fidein pertinet faciendam , meminit de oratoris memoria , de pronuntiatio utitur fyllogiſmorum lege præterita ; ut eſt illud: ne, & voce , unde tainen Monachus cum aliqua Si tempeſtas vitanda eſt , non eft igitur navigan- utilitate diſcedit: quando ad ſuas partes non im dum. Exſola enim propoſitione & conclufione probè videtur attrahere , quod illi ad exercendas conítat effe perfectum : unde magis oratoribus, controverſias utiliter aptaverunt. Memoriam { i quàm dialecticis convenire judicatum eſt. De quidem lectionis divinæ re cognita cautela ſerva dialecticis autem ſyllogiſinisſuo loco dicemus. bit, cùm in ſupradicto libro ejus vim qualitatém Quid con Convincibile eft ,quod evidenti ratione * con- que cognoverit: artem verò pronuntiationis in *AIS.convin .vincitur ;ſicut fecit Cicero pro Milone. Ejusigi- divinæ legis effatione concipiet. Vocis autem di tur mortis ſedetis ultores, cujus vitain , li * putetis ligentiam in pſalmodiæ decantatione cuſtodiet. * Ed . poſetis. per vosreſtitui poſſe, noletis. Sic inſtructus in opere ſancto redditur, quamvis Quid Ofien Oſtentabile eft , quod certa reidemonſtratione libris ſæcularibus occupetur. rabile. conſtringit ; ſic Cicero in Catilinam : Hic ramen Nunc ad Logicam , quæ & Dialectica dicitur, vivit , imò etiam in Senatuin venit. ſequenti ordine veniamus, quam quidam diſci Quid Senten tiabile. Sententiale eft , quod ſententia generalis addi- plinain , quidam artem appellare maluerunt , di cit ; ut apud Terentiun: Obſequium amicos,ve centes : quando apodicticis ,id eſt , probabili ritas odium parit. bus diſputationibus aliquid diſſerit , diſciplina Quid Exem plabile . Exemplabile elt , quod alicujus exempli com- debeat nuncupari: quando verò aliquid verilimi M. G. ini. paratione eventum fimilem comminatur ; ſicut le tractat , ut ſunt ſyllogiſini ſophiſtici, nomen Cicero in Philippicisdicit:Temiror,Antoni,quo- artis accipiat. Ita utrumque vocabulum pro ar *M.G. per- rum facta * imitere , eoruin exitus , non * per- gumentionis ſuæ qualitate promeretur. timefcere, horrefcere. Quid Colle Collectivum eſt, cùm in unum , quæ argumen CAPUT TERTIUM. tata funt , colliguntur ; ſicut ait Cicero pro Milo ne : Quem igitur cum gratia noluit, hunc voluit De Dialectica cuin aliquorum querela, quemjure , quem loco, quem temporemoneftaulus: hunc injuria ,alie- DJalecticam primiPhiloſophi indi&ionum no cum periculo non dubitavit occidere. runt : non tamch ad artis redegereperitiam. Poſt Ed. deftris Præterea ſecundum Victorinum Enthymematis quos Ariſtoteles, ut fuit * diſciplinarum omniun altera eft definitio. Ex fola propoſitione,ſicutjam diligens inquiſitor , ad regulas quaſdam hujus Ariffoseler dictum eſt , ita conſtat Enthymema ; ut eft illud : doctrinæ argumenta perduxit, quæ priùs ſub cer- Dialectice Si tempeſtas vitanda eſt , non eſt navigatio requi- tis præceptionibus non fuerunt. Hic libros fa- argumenta ad regulas renda. Ex fola aſſumptione s ut eſt illud : Sunt ciens exquiſitos, Græcorum ſcholam multiplici quafdamper autem qui munduin dicantfine divina adminiſtra- laude decoravit ; quem noftri non perferentes duris. tione diſcurrere. Ex folaconcluſione ; ut eft il- diutiùs alienum , tranſlatum expofitúmque Ro Dialecticam lud : Vera eſt igitur divina * fententia. Ex pro- manæ eloquentiæ contulerunt. Dialecticam verò , *MS. fcick poſitione& affumptione; ut eft illud: Si inimicus &Rhetoricam Varro in nove;n diſciplinarú libris canin move eſt, occidit. Inimicus autem eſt : & quia illi deelt tali funilitudine definivit. Dialectica & Rhetori- libris Vaira .conclufio, Enthymnema vocatur. Sequitur Epi- ca eſt, quod in manu hominis pugnus adſtrictus, definivit. chirema. & palma diſtenſa : illa brevi oratione argumenta Quid Epic Epichirema eft , quod fuperiùs diximus, dels concludens, iſta facundiæ campos copioſo fer chirema. cendens de ratiocinatione latior excurfio Rheto- mone diſcurrens : illa verba contrahens , ifta di Itendens. & Argumentum eſt argutæ mentis indicia quod per indagationes probabiles ,rei dubiæ perficitfidem,per Rhetoricaad illa ,quæ nititurdocenda, facun- pomaleticom Dialectica fiquidem ad differendas res acutior: Que fic diffe excmpla confirmans; ut eft : Noliæinulari in malignan tibus : quoniam tanquain fænum , &c. dior. Illa ad ſcholas nonnumquam venit , iſta ju. & Rhetori saris. Zivim. n.19167 . & Rhetoria 64m. De Dialectica.. son quenter. girer procedit in forum : illa requirit rariſſimos & noftræ diſpoſitionis curràtintentio. Conſue * MSS.fre- ftudiofos , hæc * frequentes populos. Sed priul- tudo iraque eft doctoribus philoſophiæ , ante quam de fyllogiſmisdicamus , ubi totius Diale- quam ad Iſagogen veniant exponendam , divis dicæ utilitas & virtusoſtenditur, oporter de ejus lionem philoſophiše paucis attingere :quam nos initiis , quaſi quibuſdam elementis , pauca diffe- quoque ſervantes; præſenti tempore non immer cere; ut ficut eſt à Majoribus diſtinctus ordo , ita ritò credimus intiinandain , Philofophiæ divifio. In Inſpectivam , TIXMT, hæc dividitur in In Naturalem . | Doctrinalem , hæc ( In Arithmeticam dividitur Muficam . Geometricain. Divinain . Aftronomicain Diviſt thing Lofophiæ. Philoſophia divi ditur fecundum Ariftotelem . Moralem . | Sirir. Er Actualeta Ciſpenſativa , Φρακτικών PorxorowyXXV. hæc dividitur in Civilem . ίπολιτική » ACETA! oixorouexin . weg.Xti xh. νομοθεπκό ., thesxor. Sewertexn . . φυσική . Definitiò Philos fophiæ. megatoxin. resnio intoxin . 23 Quid 1 3. Dirogoera oroimene Occs Kated to duratór ávöçóórw. plina quæ curſus cæleftium , fiderumque figuras homophine en Philoſophia eft divinaruin , humanarùmque re contemplatur omnes , &habitudines ftellaruni quotuplex. rum , inquantum homini poſſibile eſt , probabilis circa ſe; & circa terram , indagabili ratione per Ycientia: Aliter,Philoſophia eſt ars artiuni, & dif- currit. Actualis dicitur, quæ res propoſitas ope ciplina diſciplinarum.Rucſus, Philoſophia eſtme, rationibus ſuis explicare contendit. Moralis di ditatio mortis,quod magis convenit Chriſtianis, citur , per quam mos vivendihoneſtus appetitur; 2.Corint. 16. qui ſæculi ambitione calcata , converſatione dif- & inſtitura ad virtutem tendentia præparantur. ciplinabili , fimilitudine futuræ patriæ vivunt; Diſpenſativa dicitur , domeſticaruin reruin fa Philip. 3. 20. Sícut dicitApoftolus : In carne enim ambulantes, pienter ordo diſpoſitus. Civilis dicitur, per quàm non ſecundum carnem militamus ; & alibi: Con- totius civitatis adminiſtrarur utilitas. Philoſo verſatio noftra in calis eft. Philofophia eſt affimi- phiæ diviſionibus definitionibúſque tractatis, in lari Deo ſecundum quod poflibile eft homini. quibus generaliter omnia continentur , nunc ad Inſpectiva dicitur,qua ſupergreſſi vilbilia de di- Porphyrii librum , qui Iſagoge inſcribitur, acce vinis aliquid & cæleſtibus contemplamur, eáque damus. mente foluinmodo contuernur , quantum corpo De Iſagoge Porphyrii. reum ſupergrediuntur aſpectum . Naturalis dici tur,ubiuniuſenjufque rei natura diſcutitur: quia de Genere. Dávc . nihilcontra'naturain generaturin vita: ſed unun | de Specie. tidos. quodque hisufibus deputatur , in quibus à Crea- llagoģe Por de Differentia. Depoeg tore productú eit: nifi fortè cum voluntate divina phyrii tractat de Proprio. ibor aliquod miraculuin proveniremonſtrerur.Doctii i de Accidente, συμβεβηκός. *MSS. figni- nalis dicitur ſcientia , quæ abſtractam * conſiderat ficar. quantitatem . Abſtracta eniin quantitas dicitur, Genus eft ad fpecies pertinens, quod de diffe- Quid fit Ge quam intellectu àmateria ſeparantes ,vel ab aliis rentibus fpecie , in co quod quid ſit, prædicatur; nun accidentibus ; ut eſt , par, impar: vel alia hujuſce ut animal. Per ſingulas enim fpecies , id eft, modi in ſola ratiocinatione rractainus. Divinalis hominis , equi, bovis , & cæterorun,genus anis dicitur, quando aụt ineffabilem naturam divi- mal prædicarur atque ſignificatur, nam , aut ſpirituales creaturas ex aliqua parte, Species eſt , quod de pluribus & differentibii's Quid fit Spo profundifſimâ qualitate differimus. Arithinerican numero, in eo quod quid fit, prædicatur ; nam cies, eſt diſciplina quantitatis numerabilis ſecundum de Socrate , Platóne , & Cicerone homo prædi ſe. Muſica, eſt diſciplina quæ de numeris loqui- catur. tur , quiad aliquid ſunt his , qui inveniuntur in Differentia eſt , quod de plaribus & differen » Quid fit Dif". ſonis. Geometrica, elt diſciplina magnitudinis tibus ſpecie ,in eo quod quale ſit,prædicatur; ſicuc erensia, immobilis,&formarum . Aftronoinia,eſt diſci- rationale & inortale,in eoquodquale ſit, dc ho- f mine prædicatur, 568 Caffiodorus € lcens . men . atque bos. Tulum , Quid fit Pro Proprium eſt , quod unaquæque ſpecies , vel Hoc opus Ariſtotelis intentè legendum eſt, cur Carego prium. perſona certo additamento infignitur, &ab om- quando ficut dictum eſt ; quicquid hoino loqui- rie Ariftotelis ni communione feparatur. tur, inter decem ifta Prædicamenta inevitabili, intentè les erid fut Ac. gende. Accidens eſt , quod accidit & recedit præter ter invenitur : proficit etiam ad libros intelligen ſubjecti corruptionem : vel ea quæ fic accidunt, dos , qui live Rhetoribus, fivc Dialecticis appli ut penitus non recedant. Hæc qui pleniùs noſſe cantur. deliderant , Introductionem legant Porphyrii ; * £ d.alicujus quilicetad utilitatein * alieni operis ſedicatſcri Incipitperi hermenias , id eft , de inter bere, non tamen ſine propria laude viſus eſt talia pretatione. dicta futinafle. Sequitur liber peri hermenias ſubtiliſimus rii Categorie Ariſtotelis. mis , & per varias formas , iterationéfque cautif ſimus, de quo dictuin eſt : Ariſtoteles, quando Sequuntur Categorix Ariſtotelis, ſive Prædi- librum peri herinenias ſcriptitabat , calamum in camenta : quibus mirum in modum per varias fi- mente tingebat. gnificantiasomnis fermo concluſuseſt : quorum De nomine. organa ſive inftruinenta ſunt tria. De verbo . Inftrumenta Organa vel inſtrumenta Categoriaruin five In libro peri hermenias; De oratione , drogoriarum ( rent tria , /ci Prædicamentorum funtæquivoca , univoca, de- id eft, de interpretatio De enunciatione. licet. nominativa. ne, prædictus philofo De affirmatione. Æquivoca. Æquivoca dicuntur, quorú noinen folùm com- phusdehis tractat. De negatiore. mune eft , fecundùm nomen verò ſubſtantiæ ratio Decontradictione, diverſa ; ut animal, homo, & quod pingitur. Vniyoca , Univoca dicuntur , quorum & noinen com Nomen, elt vox fignificativa ſecundùm placi- quid fitmoi mune eſt, & ſecunduin nomen diſcrepare eadem tum, ſinė tempore: cujus nulla pars eſt ſignificati ſubſtantiæ ratio non probatur: ut animal , homo, va ſeparata: utSocrates. Verbum , eſt quod conſignificat tempus : cujus Quid forver Deuominati Dena ninativa , id eſt , derivativa , dicuntur pars nihil extra ſignificat , & eſt ſemper eorum bum, quæcuinque ab aliquo ſola differentia caſus ſe- quæ de altero dïcuntur nota ; ut ille cogitat, dil cundum noinen habent appellationem : ut å putat. grammatica gramınaticus,& à fortitudine fortis. ' Oratio , eſt vox fignificativa , cujus partium Quid ſit örä aliquid * feparatim ſignificativum eſt ; ut Socrates to Subſtantiaa sola, diſpucat. * MSS.lepa | Quantitas, mosotas. Enuntiativa otàtio, eſt vox ſignificativadeeo Quid fit Ad aliquid . ney's Fan quod eft aliquid , vel non eſt ; ut Socrates eſt , So- Enuntiatid. Ariſtotelis Ariſtotelis Catego Qualitas. TÓTUS. crates non eſt . Categorie riæ, vel Prædicamen- į Facere. FOREV. Affirinatio , eft enuntiatio alicujas de aliquo: quid fit Af son decem. ra decem ſunt Pati. PeoMHT. ur Socrates eſt. formatio. Situs. ευρώς . Negatio , eft alicujus de aliquo negatio : ut So- luid fitNe. Quando. done. crates non eſt. gatio. Ubi. Contradictio , eſt afficmationis & negationis euid fitcom | Habere. ( xar. oppoſitio: ut , Socrates diſputat , Socrates non diſputát. Subſtantia elt , quæ propriè , &t principaliter Hæc omnia per librum ſuprà memoratum mi. Liber Pero Hermenias & maxiinè dicitur ; quæ neque de ſubjectopræ- nutiſſimè diviſa ; & ſubdiviſa tractantur, quæ Boetio feprem dicatur, neque in ſubjecto eſt ; ut aliquis homo, breviter intimnaſſe ſuffciat, quando in ipfo com- libris expoſé vel aliquis equus. Secundæ autem ſubftantiæ di- petens explanatio reperitur : maximè cùin eum tu . cuntur, in quibus ſpeciebus , illæ quæ principa- Tex libris àBoëtio viro magnifico conſtet expoſi liter ſubſtantia primò dicta ſunt, inſunt atque tum , qui vobis inter alios codiceseſtrelictus. clauduntur ; ut in homine , Cicero . Nunc ad fyllogiſticas ſpecies formulaſque vea Quantitas Quantitas aur diſcreta eſt, & habet partes ab nianus, in quibus nobilium Philofophorum ju aplex, aiſ alterutrodiſcretas ,nec eominunicantes , ſecun- giter exercetur ingenium , dum aliquem communem terminum , velut nu merus, & ſerino quiprofertur; aut continua eſt, De Formulis ſyllogifmorum. & habet partes quæ ſecundum aliquem coinmu* nein terininuin adinvicem convertuntur ; velut (in priina forinula modi no linca, ſuperficies, corpus,locus, motus,tempus. Forinulæ Categori Ad aliquid verò funt , quæcumque hoc ipſo coruin , id eſt, Præ-, In ſecunda formula modi Formale ca quod ſunt, aliorum eſſe dicuntur ; velur majus, dicativorum ſyllo quatuor. duplum ,habitus , difpofitio ,ſcientia, ſeriſus, gilmorú ſunttres. | In tertia formula modi politio. i ſex. Qualitas , eſt , fecundum quam aliqui quales dicimur ; ut bonus, malus. Modiformule prime ſunt novem . Facere eſt , ut ſecare , vel urere , id eft , ali quid operari. Pati eſt , ut ſecari , vel uri. Primus modus eſt , quiconcludit , id eft, qui Situs , eft , ut ftat , ſeder , jacet. Quando colligit ex univerſalibus dedicativis , dedicati eft , ut hefterno, vel crás. vum univerſale directum ; ut, omne juſtum ho Ubi eſt : ut in Aſia , in Europa , in Lybia. neſtum , omne honeftum bonum , omne igitur Habere eft : ut calccatum , velarmatum effe. juſtum bonum . Secundus ött . tradictio, nos creta , con sinna , vem . tegoricum Syllogiſmorum funt tres. DeDialectica. 569 * Ed, concler dit. per quæ ſubti Secundus moduscft, qui * conducit ex univer- rivis particulari & univerfali dedicatvium parti ſalibus dedicativâ & abdicativâ abdicativum uni- culare directum : ut quoddam juſtam honeſtum , verſale directum : ut oinnejuſtum honeſtum , nul- omne juſtum bonum , quoddam igitur honeſtuin lum honeſtum turpe , nullum igitur juſtum bonum . turpe. Tertius modus eſt , quiconducit ex dedicativis Tertius modus eſt , qui conducir ex dedicativis univerſali & particulari dedicativum particulare particulari & univerſali,dedicativum particulare directum : ut , omne juſtum honeftuin , quod directum : ut quoddam juftum eft honeſtum ,om- dam juſtuin bonum, quoddam igitur honeſtum ne honeftuin utile, quoddam igirur juftumn utile. bonum . Quartusinodus eſt , qui conducitex particulari Quartus modus eſt , quiconducit ex univerſa dedicativa, &univerſali abdicativa, abdicativum libusdedicativa & abdicativa abdicativum parti particulare directum : ut quoddam juſtum hone- culare directum : utomne juſtuin honeſtuin , nul Itum , nullum honeftunı turpe , quoddam igitur lum juſtum malum , quoddam igitur honeſtum juſtum non eft turpe. non eſt malum . Quintus modus eſt, qui conducit ex univerſa Quintus modus eſt, qui conducit ex dedicativa libus dedicativisparticulare dedicativum per re- particulari & abdicativa univerſali abdicativum Mexionem : ut omne juftum honeſtum , omne ho- particulare directum : ut , quoddam juſtum , ho neftum bonum , quoddam igitur bonum juſtum . neſtum , omne honeſtum bonum ,igitur quoddan Sextus modus eft , qui conducit ex univerſali honeftum non eft malum. dedicativa, & univerſali abdicativa , abdicativum Sextus modus eſt , qui conducit ex dedicativa univerſale per reflexionem : ut omne juſtum ho- univerſali & abdicativa particulari abdicativum neltuin , nulluin honeſtum turpe, nullum igitur particulare directum : ut,omnejuſtum honeſtum , turpe juftum . quoddam juſtum non eſt malum , quoddam igi Septimusmodus eſt ,quiconducit ex particulari tur honeſtuin non eſt malum. & univerſali dedicativis dedicativum particulare Has formulas Categoricorum ſyllogiſmorum reflexionem : ut quoddamn juftum honeſtum , qui plenè nofſe deſiderat , librum legat, quiin Liber Apa!e omne honeſtum utile,quoddam igitur utile juſtú. fcribirur -Peri hermenias Apuleii, & qui inſcribi : Odavus modus eft , qui conducirex univerfa- lias ſunt tractata , cognoſcet. Nec faſtidium no- tur Peri her libus abdicativa & dedicativa particulare abdica- bis verba repetita congeminent ; diftin &ta enin, menias , le tivum per reflexionein : ut nullum turpe hone- atque conſiderata , ad magnasintelligentiæ vias, gendus. ftum , omnehoneſtum juſtum , quoddamn igitur præftante Domino,nosutiliter introducent.Nunc juſtum non eft turpe. ad hypotheticos fyllogiſinos , ordine currente, Nonas modus eit , qui conducit ex univerſali veniainus abdicativa, &particulari dedicativa abdicativum particulareper reflexionem:velut nullumturpe Modi Gyllogiſmorim hypotheticorum ,qui fiunt Modifyllogif morum hyposs honeſtun , quoddam honeſtum juſtum , quoda cum aliqua conjunctione, Jeptem funt. dam igitur juſtum non eſt turpe. funt feptem . Primus modus eſt , velut : Si dies elt, lucer ; eſt Modi formuleſecunda funt quatuor. autein dies ; lucet igitur. Secundusmodus eft ita : ſi dies eſt, lucet , non Primus modus eſt , qui conducit ex univerſali- lucet ; non eft igitur dies. bus dedicativa & abdicativa abdicativum univer- Tertius modus eſt ita : non & dies eſt & nonlu fale directum : velutomne juſtum honeſtum ,nul- cet , atqui dies eft, lucèt igitur. lum turpe honeftum ,nullum igitur juſtum turpe. Quartus modus eft ita : aut nox, aut dies eft, at Secundus modus eſt , quiconducit ex univerſa- qui dieseſt , non igitur nox eſt. libus abdicativa & dedicativa abdicativum uni Quintus moduseſt ita : aut dies eſt, aut nox, at-. verſale directuin : velut nullum turpe honeftum , qui nox non eſt , dies igitur eſt. omne juſtum honeſtum , nullumigitur turpe Sextus inodus eſt ica : non & dies eſt, & nonlu juftum cet , dies autem eſt , nox igitur non eſt. Tertius modus eſt , quiconducit ex particulari . Septimus modus eſt ita :non & djes eft & nox , dedicativa & univerfali abdicativa ab licativum atqui nox non eſt , dies igitur eſt. particulare directum : veluc quoddam juftum ho Modos autem hypotheticorum ſyllogiſinorum neſtum , nulluin turpehoneftum , quoddam igi- fi quis pleniùs noſſe deſiderat, legat librum Marii Marius Vi tur juſtum non eſt turpe. Victorini , qui inſcribitur de fyllogiſmis hypo- &torinus librá Quartus r.odus eſt, quiconducit ex particu- thericis. Sciendum quoque , quoniam Tullius de hypotheti: lari abdicativa & univerfali dedicativa abdicati- Marcellus Carthaginenſisde categoricis & hy- edidit. vum particulare directum : velut quoddamn juftum potheticis fyllogiſmis , quodà diverfis philoſo: TulliusMar non eſt turpe , omne malum turpe , quoddam phislatiſſimè dictum eft, feptem libris breviter cellus igitur juſtuin non eft malum , ſubtilitérque tractavit ; ita ut priino libro de re: thag. de Syl gula, ut ipſe dicit, colligentiarum artis Dialecticæ logiſmis Modi formula tertiæfunt fex. diſputaret ; &quod ab Ariſtotele de categoricis compofuit. ſyllogiſmis multis libris editum eſt , ab ifto fecun Primus modus eſt , qui conducit 'ex dedicativis do & tertio libro breviter expleretur ; quod aut univerfàlibus dedicativum particulare , tam dire- tem de hypotheticis ſyllogiſmis à Stoicis innume Etuin , quàm reflexum : ut omne juſtum hone- ris voluminibus tractatum eſt , ab iſto quarto & ftum , omne juſtum bonum , quoddam igitur ho- quinto libro colligeretur. In fexto verò de inix neftum bonum vel quoddamn bonum ho- tis fyllogiſinis , in ſeptimo autem de compoſitis neftuin . diſpucavit ; quem codicem vobis legendum re-, Secundus modus eſt , qui conducit ex dedica- liqui. cccc theticorum Car Jeprem libros > $ 70 Caffiodorus Quid las Depnilio. 1 .1 1 longum viaticum : modò ut laudet , ut adolers De Definitionibus. centia eſt Aos ætatis . Octava ſpecies definitionis eft , quain Græci Hinc ad pulcherrimas definitionum ſpecies ac- x7 a paistoin rõ Evertix vocant , Latini per pri cedamus , quæ tantà dignitate præcellunt , ut pof- vantiam contrarii ejus quod definitur, dicunt; up ſont dici orationun maxiinuin decus , & quædam bonum eſt, quod malum noneft: juftuin eſt, quod lumina dictionuin . injuſtum non eft. Et his fimilia : quod fe ita na Definitio verò , eſt oratio uniuſcujuſque rei turaliter ligat , ut neceſſariam cognitionem fibi naturam à communione diviſam , propria ſignifi- unius comprehenſione connectat. Hoc autem catione concludens : hæc multis modis , præce- genere definitionis uti debemus, cùm contrarium priſque conficitur. notun eſt ; nam certa ex incertis nemo probat. Definitionum prima eſt óvoradcas , Latinè ſub- Sub qua ſpecie ſunt hæ definitiones . Subſtantia ftantialis , quæ propriè & verè dicitur definitio ; eft , quod neque qualitas eſt, neque quantitas, ne or eſt, homoanimalrationale mortale , ſenſus dif- que aliqua accidentia : quo genere definitionis ciplinæque capax ;llæc enim definitio per fpecies Deus definiri poteſt ; etenim cùm quid fit Deus, & differentiasdeſcendens, venit ad proprium , & nullo modo comprehendere valeamus : ſublatio deſignat plenillimè quid ſit homo . omniuin exiſtentium , quæ Græci örta appellant, Sccunda eſt ſpecies definitionis , quæ Græcè cognitionem Dei nobis circumciſa & ablata no ŽVYOMMA TIx ) dicitur , Latinè notio nuncupatur : tarum rerum cognitione ſupponit ; ut li dicamus , quam notionem communi,non proprio nomine Deus eſt , quod neque corpus eſt , neque ullum poffumus dicere. Hæc iſto modo ſemper effici- elementum , neque animal , neque mens , neque cur : Homo eſt, quod rationali conceptione & ſenſus , neque intellectus , neque aliquid , quod exercitio præeſt animalibus cunctis. Non eniin ex his capipoteſt ; his enim ac talibus ſublatis , dixit, quid eſt homo , ſed quid agat , quaſi quodam quid fit Deus , non poterit definiri . figno in notitiam denotato . In iſta enim &in re Nona ſpecies definitionis eſt , quain Græci liquis notio rei profertur : non ſubſtantialis , ut Kåtalnooi , Latini per quamdam imaginatio in illa primariaexplanatione declaratur ; & quia nem dicunt : ut, Æneas eſt Veneris & Ănchiſæ illa fubftantialis eſt , definitionum omnium obti- filius. Hæc ſemper in individuis verſatur , qux ner principatum . Græci aqua appellant. Idem accidie in eo gene Tertia fpecies definitionis eſt , quæ Græcè redictionis, ubialiquis pudor aut metus elt no Trolótus dicitur, Latinè qualitativa. Hæc dicendo minare : ut Cicero , cùm me videlicet ficarii illi quid quale lit , id quod fit , evidenter oſtendit. deſcribant. Cujus exemplum tale eſt : homo eft , qui ingenio Decima fpecies definitionis eft , quam Græci valet , artibus poller , & cognitione rerum : aut as Tót , Latini , veluti , appellant ; ut fi quæ quæ agere debeat eligit :aut animadverſione quod ratur quid ſit aniinal , refpondearur , homo : inutile fit contemnit ; his enim qualitatibus ex non enim manifeftè dicitur animal folum effe preſſus ac definitus homo eſt . hominem , cum fint alia innumerabilia : ſed cuin Quarta ſpecies definitionis eſt , quæ Græcè dicitur homo , veluti ipfum hominem animal de soggapixn , Latinè deſcriptionalis nuncupatur: fignat : cùm tamen huic nomini multa ſubja quæ adhibitâ circuitione dictorum factorúmque, ceant. Rem enim quæfitam prædictum declata rem , quid fit deſcriptione declarat ;ut ſi lu- vit exemplum . Hoc eſt autem proprium defini xuriofum volumus definire , dicimus : Luxurio- tionis , quid fit illud , quod quæritur , declarare . fus, eſt victus non neceffarii & fumptuoli & one Undeciina ſpeciesdefinitionis eft , quam Græ rofi appetens,in deliciis affluens,in libidine pron- ci rece tead the matter , Latini per iudigentiain ptus ; hæc & talia definiunt luxuriofum . Que pleni ex eodem genere vocant : ut ſi quæratur ſpecies definitionis , oratoribus magis apta eſt, quid fit triens, refpondeatur , cui dodrans deeft, quàm dialecticis , quia latitudines habet ; hæc ut lit aſlis. fimili modo in bonis rebus ponitur , & in Duodecima ſpecies definitionis eſt, quam Græ malis. ci , Kata imesvov , Latini per laudem dicunt ; ut Quinta ſpecies definitionis eft , quam Græcè Tullius pro Cluentio: Lex eſt mens, & animus, AT nikov : Latinè ad verbum dicimus : hæc vo- & confilium , & fententia civitatis. Et aliter pax cem illam , de qua requiritur , alio ſermonedeſi- eſt tranquilla libertas. Fit & pervituperationem , gnat uno ac ſingulari, & quodammodo quid il- quam Græci tózer vocant : ſervitus eſt poſtre lud ſit in uno verbo pofitum , uno verbo alio de- mum malorum omnium , non modò bello , ſed clarat ; ut conticefcere eſt tacere : item cùm ter- morte quoque repellenda. minum dicimus finem , aut terras populatas inter Tertiadecima eſt ſpecies definitionis , quam pretemur effe vaſtatas. Greci κατ'αναλογίαν,Latini juxta rationem dicunt: Sexta ſpecies definitionis eſt , quam Græci x fed hoc contingit , cum majoris ire nomine , res Thu nepoege , per differentiam dicimus ; id eft , definitur inferior : ur eſt illud , homo ininor mun cùm quæritur , quid interſit inter regem & ty- dus . Cicero hac definitione ſiculus eſt :Edictum , rannum , adjecta differentia quid uterque fit, de- legem annuam dicunt eſſe . finitur : id eſt , rex eſt modeftus & temperans, ty Quartadecima eſt ſpecies definitionis , quam rannus verò impius & immitis . Græci sess , Latini ad aliquid vocant : ur eſt Septima eft fpecies definitionis , quam Græci illud, pater eft , cui eſt filius :dominus eſt, cui eft el ustápoegr . Latini per tranſlationein dicunt : fervus: & Cicero in Rhetoricis , genus eſt , quod ut Cicero in Topicis, Lictus eſt, quà Auctus elu- plures partes amplectitur: item pars eſt , quod lu dit . Hoc variè tractari poreſt : modò enim ut beſt generi . moveat , ficut illud , caput eſt arx corporis : modò Quintadecima eſt ſpecies definitionis , quam ut vituperet , ut illud , divitiæ ſunt brevis vitæ Græci koste BiTiongear , Latini fecundum rei fa ! De Dialectica. 571 tionuom . 5 rationem vocant : ut dies eſtrol fuprà terras:nox, dicativus atque ſubjectus. Terminos autem voco elſolſubterris. Scire autem debemus prædictas verba &nonina,quibuspropoſitio nectitur;ut niquifuntper propoſe ſpecies definitionum , Topicis meritò eſſe ſocia- in ea propoſitione qua dicimus:Homojuſtus eſt : tas , quoniaminter quædam argumenta funtpoſi- hæc duo nomina, id eſt, homo & juftus, propo tæ , & nonnullis locis commemoranturin Topi- fitionis partes vocantur. Eoſdem etiam terminos cis. Nunc ad Topica veniamus, quæ ſunt argu- dicimus : quorum quidem alter ſubjectuseſt , al mentorum fedes, fontes ſenſuu, origines di- ter verò prædicativus, Subjectus eſt terminus, &tionum : de quibus breviter aliqua dicenda ſunt, qui minor eſt: prædicativus verò , qui major: ut ut &dialecticos locos, & rhetoricos , ſive corum in ea propolitione , qua dicitur , Homo juſtus, differentias agnofcere debeamus: ac prius dedia- homo quidem minus eſt , quàm juſtus. Non Iceticis dicendum eft . enim in folo homine juſtitia eſſe poteft , verùm etiam in corporeis diviníſque ſubſtantiis : atque De Dialecticis locis. ideo major eſt terminus, juſtus : homo verò , mi nor; quò fit, ut homo quidem ſubjectus fit ter Quid die Propoſitio, eft oratio verum - falfúmveſignifi- minus, juſtus verò prædicativus. Propofitio. cans , utſiquis dicat , cælum eſſe volubile : hæc Quoniam verò hujuſmodi (implices propolis enuntiatio & proloquiun nuncupatur : quæſtio tiones alterum habentprædicativum terminum , verò eft, in dubitationem ambiguitatémque ad- alterum verò ſubje& um, à majoris privilegio par ducta propofitio ; utſiqui quærant, an fit cælum tis propoſitio prædicativa vocata eft.Sæpe autem Quid Concli- volubile. Concluſio , eft argumentis approbara evenit, ut hi termini ſibimet inveniantur æqua 330. propoſitio; ut fi quis exaliis rebus probetcælum les , hocinodo , homoriſibilis eſt; homo namque effe volubile.Enuntiatio quippe live ſui tantum & riſibilis uterque ſibi æquus eſt terminus. Nam caufa dicitur,five ad alios ad ferturad probandum , ncque riſibile ultra hominem , nec ultra riſibile propofitio eft : cùm de ipſa quæritur, quæſtio: homo porrigitur : ſed in luis hoc evenire neceſſe lipſa eſt approbáta, conclufio. Idem igitur pro- eſt, utſi quidam inæquales termini ſunt , major politio ,quæſtio , & conclufio, fed differuntinodo, ſemper de ſubjectoprædicetur: fi verò æquales Quid fit Ar Argumentum eſt oratio rei dubiæ faciens fi= utrique, converſa de fe prædicatione dicantur. gumentum . dem. Non verò idem eſt argumentum , quod & Ut verò minor demajore prædicetur, in nulla arguinentatio. Nam vis ſententiæ ratióque ea, propoſitione contingit. Fieri autein poteft, ut quæ clauditur oratione , cùm aliquid probatur propoſitionum partes, quas terminos dicimus, ambiguum , argumentum vocatur: ipfa verò ar- non ſolum in nominibus, verum etiain in oratio gumenti elocutio, argulhentatio dicitur ; quò fit, nibus inveniamus. Nam ſæpe oratio deoratione ut argumentum quidem mens argumentationis prædicatur hoc modo : Socrates cum Placone so Git atque ſententia : argumentatio verò argument diſcipulis de philoſophiæ ratione pertractat; hæc per orationem explicatio. quippe oratio , quæ eft , Socratesçum Platone & Quid fit Locus verò eſt argumenti fedes, vel unde ad diſcipulis , ſubjecta eſt: illa verò , quæ eft , de propoſitain quæſtionein conveniens trahitur ar- philofophiæ ratione petractat , prædicatur. Rur gumentum . Quæ cùm ita fint, ſingulorum dili- ſus aliquando nomenſubjectum eſt, oratio præ =' gentiùs nătura tractanda eſt, eorumque per fpe- dicaruin , hocmodo: Socrates de philoſophiæ ra-. cies ac membra figuraſque facienda diviſio. cione pertractat ; hic eniin Socrates ſolus ſubje Acpriùsde propoſitione eſt diſſerendum : hanc ctus eſt:oratio verò, quàm dicimus, de philoſo eſſe diximus orationein , veritatem , vel menda- phiæratione pertractat,prædicatur.Evenir etiam , Duæſuntpro- cium continentem . Hujus duæ ſunt ſpecies : una ut fupponatur oratio , & fimplex vocabulum pofitionum affirmatio , altera verò negatio . Affirmatio eſt, prædicetur hoc inodo : Similicudo cum ſupernis fpecies ſub , , fi qui ſic efferat, Caluin volubile eſt :negatio , li diviníſque ſubſtantiis, juſtitia eſt ; hic enim ora quis ita pronuntiet , cælum volubile non eſt. rio per quam profertur fimilitudo , cum ſupernis alie. Harumverò aliæ ſunt univerſales, aliæ ſunt par- diviníſque ſubſtantiis fubjicitur:juſtitia verò pre ticulares, aliæ indefinicæ , aliæ ſingulares. Uni- dicatur. Sed de hujuſmodipropoſitionibusin his verſales quidem , ut ſi quis ita proponat : Oin- commentariis, quos in Peri hermenias Ariſtotelis nis homo juftuseft, nullus homo juſtus eft. Par- libros ſcripſimus , diligentiùs differuimus. ticulares verò , fi quis hoc modo :Quidamn homo Arguinentum , eft oratio rei dubiæ faciens fi- Quid fit an juftus eft , quidam homo juſtus non eſt. Inde- dem :hanc femper notiorem quæſtione elſe nez gumentum, finitæ fic:Homojuſtus eſt , homo juſtusnon eſt. ceſſe eſt. Nain liignora nobis probantur , argu Singulares verò funt, quæ de individuo aliquid mentum verò rem dubiam probat: neceffe eft, ut fingularique proponunt:utCato juſtuseſt , Cato quod ad fidem quæſtionis affertur, fit ipfa notius juſtus non eft ; etenim Cato individuus eſt , ac quæſtione. Argumentorum verò oinnium alia Multiplicito fingularis. ſuntprobabilia & neceſſaria :alia veròprobabilia Juris Argan Harum verò alias prædicativas, alias conditio. quidem , ſed non neceſſaria : alia neceffaria; ſed nales vocainus. Prædicativæ funt, quæ fimpli- non probabilia :alia nec probabilia, nec neceffaria. Quid forProm citer proponuntur, id eſt, quibus nulla vis con- Probabile verò eſt, quod videturvelomnibus, vel bavile Argu ditionis adjungitur: ut fi quis fimpliciter dicat, pluribus, velfapientibus, & his vel omnibus, vel mensun . Cælum eſſe volubile. At , li huic conditio copu- pluribus , vel maximè notis , atque præcipuis, letur, fit ex duabus propoſitionibus una condi- vel unicuique artifici fecundum propriam facul tionalis, hocmodo: Cælum (irotundum ſit , efle càtem ; ut de medecinamedico , gubernatori de volubile ; hîc enim conditio id efficit, ut ita de- navibus gubernandis: & præterea quod ei vides mum cælum volubile eſſe intelligatur, ſit ro- tur cuin quo fermo conſeritur, vel ipſi qui judi tundum . Quoniam igitur aliæ propofitiones præ- cat . In quo nihil artiner verum falfùmvelit árgưr dicativæ ſunt , aliæ conditionales : prædicativa- mentum , fi tantùm veriſimilitudinem tenet. rum partes , terminos appellamus. Hi ſunt præ Neceffariun vero eft, quod ut dicitar, ita eſt, Quidfor Ne cearium . Сccc ij Locis. quibus multe mentorum genera . 572 Caffiodorus rium. atque aliter eſſe non poteft: & probabile quidein, fpeciebusutiturargumentis, quæfunt probabi ac neceflarium eſt ; ut hoc ſi quid cuilibet rei ſic le ac neceſſarium , neceſſariuin ac non probabile. additum , totum majus efficitur. Neque enim Patet igitur , in quo philoſophus ab oratore, ac quifquam ab hąc propoſitione diffentiet, & ita ſe dialectico in propria confideratione diſſideat ; in Quid fit le habere neceſſe eſt. Probabilia verò acnon ne- co ſcilicet, quod illis probabilitatem , huic veri provabile ac ceffaria, quibus facilè quidem animus acquief- tatem conſtat elle propofitam . Quarta yerò fpe non neceffa- cit , fed veritatis non tenet firmitatem ; ut cies argumenti, quain ne arguinentun quiden học , ſi mater eſt , diligit. Neceſſaria verò funt, rectè dici ſupràmonſtravimus, fophiftis Tola eſt Quid fit ne cilarium ,ac ac non probabilia, quæ ita quidein eſſe, ut dicun- attributa. Topicorum verò intentio eft, verili non probabile tur ſe habere , necefle eft, ſed his facilè non con- milium argumentorum copiam demonſtrares de ſentit auditor :ut ob objectum Lunaris corporis, fignatis enim locis,è quibus probabilia arguinen bredamſunt Solis evenire defectunt. Neque neceſſaria verd ta ducuntur , abundans.& copiofa neceſſe fiat nec neceffa- peque probabilia funt, quæ neque in opinione materia differendi. ria ,necpro- hominum , neque in veritate confiftunt, ut hoc, Sed quoniam , ut fuprà dictum eſt , proba babilia habere quæ non perdiderit cornua Diogenem , bilium argumentorum alia funt neceffaria , quoniam habcatid quiſque quod non perdiderit; alia non neceſſaria : cùm loci probabilium ar quæ quidem nec argumenta dici poſſunt : argu- guntentorum dicuntur , evenit , ut neceſſario mentaenim rei dubiæ faciunt fidem. Ex his au- ruin quoque doceantur , quo fit, ut oratoribus tem nulla fides eſt, quæ neque in opinione , ne- quidem ac dialecticis hæc principaliter facultas que in veritate ſunt conſtitutą. Dici tamen poo parecur , ſecundo verò loco philofophis. Nam teſt, ne illa quidem eſſe argumenta , quæ cùm fint in quo probabilia quidem omnia conquiruntur, neceffaria , minimè tamen audientibus appro- dialectici atque oratores javanțur: in quibus verò bantur. Nam ſi rei dubiæ fit fides , cogendus eft probabilia ac neceffaria docentur, philoſophic.e animus auditoris, per ea quibus ipſe adquieſcit, demonſtrationi miniſtratar ubertas. Non modò u concluſioni quoque, quam nondum probar, igitur dialecticus atqueorator , verùm etiam de poſlit accedere. Quod fi quæ tantùm neceffaria monſtrator , ac veræ argumentationis effector, (unt, ac non probabilia , non probat ille qui ju- babetquod ex propoſitislocis libi poſſit adſuine dicat,eltneceſſe, utneillud quidein probet,quod re . Cùm inter argumentorum probabilium focos, ex hujuſcemodi ratione conficitur. Itaque evenit neceſſariorum quoque principia traditio mixta ex hujufmodi ratiocinatione , ea , quæ tantùm contineat. Illa verò argumenta, quæ neceſſaria neceffaria ſunt, ac non probabilia, non efle ar- quidein ſunt , ſed non probabilia ; atque illud gumenta. Sed non ita eſt , atque hæc interpreta- ultimum genus ; fcilicet ilec probabile,nec ne tio non rectæ probabilitatis intelligentiam tenet. ceſſarium ,à propofiti operisconſideratione fem Ea funt enimprobabilia , quibusſponte, atque jundum eſt. Nili quod interdum quidam ſophi ultrò conſenſus adjungitur; ſcilicet ut moxaudi- ſtici loci exercendi gratia lectoris abhibentura ta fint, approbentur. Quocirca Topicorum pariterutilitas intencióque de fint ar Quæ veròneceffariafunt,ac nonprobabilia,aliis patefacta eft ; his enim & dicendi facultas, &in gamenta pro babilia . probabilibus ac neceſſariis argumentisantea de veſtigatio veritatis augetur. monſtrátur,cognitáque &credita, ad alterius rei, Nam quid dialecticos atque Oratores locorum locorum ** de qua dubitatur, fidem trahuntur;ut ſuntfpecu- juvát agnitio ? Orationi per inventionem co micos arque lationes,id cft,cheoremata, quæ in Geometriacon- piampræftant. Quid verò neceffariorum doctri- Oratoresmus fiderantut. Nam quæ illic proponuntur, non funt nam locorum philoſophis tradit? viam quodam- sum juvas. talia, ut in his fponte animusdiſçentis accedar: modo veritatis illuftrat. Quò magis perveſtis ſed quoniam demonſtrantur aliis argumentis, illa ganda eft rimandâque ulterius diſciplina ea, quæ quoque ſçita & cognita ad aliarum fpeculatio- cùm cognitione percepra uſu atque exer pumargumenta ducuntur.Itaque probabilia non citatione firmanda. Magnum enim aliquid lo Cunt, ſed ſunt neceſſaria his quidem auditoribus, corum conſideratio pollicetur, fcilicetinvenien quibus nondum demonſtrata funt: ad aliud ali- di vias ; quod quidem hi, qui ſunt hujus rationis quid probandum , argumenta effe non poffunt; expertes,ſoliprorſus ingenio deputantur : neque hi autem qui peioribus rationibus eorum , qui- intelligunt, quantun hac conſiderationequærat bus non adquieſcebant, fidem cceperunt, poffunt, cur , quæ in artem redigit vim poteſtatemque na cas quæ non ambigunt, ad argumentuin vocare. turæ . Sed de his hactenus : nunc de reliquis ex Sed quia quatuor facultatibus differendi omne plicemus. artificium continetur, dicendum eſt qux quibus uti noverit argumentis; ut, cui potiſſimum diſci De Syllogiſmise plinæ locorum atque argjinentorum paritur u Diale &tice, bertas , evidenterappareat. Quatuorigitur fa Syllogiſmorum verò aliiſuntprædicativi, qut" Syllogiſmialii Oratori, Phi- cultatibus,earúmque velutopificibus,differendi categorici vocantur,aliiconditionales,quos hy- predication Dolopho, so omnis ratio ſubjecta eft, id eſt, dialectico , ora , potheticos dicimus. Et prædicativiquidem funt, males, com phifte dife rendiomnis tori, philofopho , ſophiſtæ . Quorum quidem qui ex omnibus prædicativis propoſitionibus quid fins. ratio fobjekta dialecticus atque orator in communi argumen- connectuntur sur is , quem exempli gratiafupes, torummateria verſautur; uterque enim ,five ne- riùs adnotavi , omnibus enim propoſitionibus cellaria , kve minimè, probabilia tamen ſequitur prædicativis texitur.Hypothetici verò funt,quo Quefit diffe ventia inter argumenta . His igitur illæ duæ fpecies argu- ium propofitiones conditione nituntur , ut hics Dialecticum, menti famulantur ,quæ funt probabile ac non si dies eft , lux eſt zett autem dies , lux igitur eſte Oratorent & neceffarium : philoſophus vero ac demonftrator Propofitia enim prima conditionem tenet hanc, Philoſuphum . de ſela tantum veritate pertractant: Asque ideo quoniam ita demum lux eft , fi dies eft. Atque ſive liņt probabilia , five non fint , nihil referi,' idea fyllagiſmus hic, hypochericus , id eſt condi modo duin ſine peceſlaria : bic quoque his duabus tiopalis vocatur. Inductio verò eft oratio , per i i Onid fais duftio. De Dialectica: 573 Tuniwy . $ niio . 0 10 OS 2712 quam fitàparticularibus ad univerfale progreflio, plumvocamus :quoniam vero non pluresquibus hoc modo: Siin regendis navibusnan forte, ſed id efficiat colligit partes , ab inductione diſcedit. arte legitur gubernator : fi regendis equis auriga Ita igitur duæ quidem ſunt argumentandiſpecies non fortis eventu , ſed commendatione artis ad- principales: una , quæ dicitur fyllogiſmus, alte ſumitur : fi in adminiftranda republica non ſorsra que vocaturinductio ; ſub his aurem , &veluc principem facit ,ſed peritía moderandi ; & fimi- ex his manantia , enthymema atque exemplum , * Ed. infe- lia, quæ in pluribus conquiruntur , quibus * im- Quæquidem omnia ex ſyllogiſmo ducuntur , & pertitur : & in omni quoque re , quam quiſque ex fyllogifino vires accipiunt: live enim ſit enthy regi atque adminiſtrari gnaviter volet , qui non 'mena, liveinductio , live etiam exemplum , ex forte accommodat, ſed arte, rectorem , fyllogiſmo quàm maximè fidem capit ; quod in Vides igitur quemadmodum per fingulas res prioribus reſolutoriis, quæ ab Ariſtotele tranftu currat oratio,ur ad univerſale perveniat.Nam cùm linus, denonſtratumeft. Quocirca fatis eſt de non forte regi, ſed arte navim , currum , rempubli- fyllogilino differere , quaſi principali, & cæte cam collegiffet, quali in cæteris ſeſe quoque ita ras argumentandiſpecies continente. habeat , quod erat univerſale concluſit : in omni Reſtat nunc quid fit locus, aperiçe. Locus nam- Quid forlocais bus quoque rebus, non ſorte ductum , fed arte, que eſt , ut* Marco Tullio placet, argumentifea Dialectico . * MSS.Man præcipuum debere præponi. Sæpe autem multo, des ; cujus definitionis quæ fitvis, paucis abſol rum collecta particularitas aliud quiddam parti- vam , Argunventi enim fedes partin maxinia culare demonſtrat ; ut fi quis fic dicat: Si neque propoſitio intelligi poteft, partim propofitionis navibus , ncque curribus, neque agris ſorte præ- inaximè differentia. Nam cùm fint alize propoli ponuntur ; nec rebus quidein publicis rectores tiones , quæ cùin per ſe notæ lint, cùm nihil ul eſſe ſorte ducendi funt. Quod argumentationis teriùs habeant, quo demonftrentur , atque hæ genus maxiinè folet eſſe probabile , etſi non maxinæ & principales vocentur, funtque aliæ æquam ſyllogyſmi habeat firinitatem . Syllogif- quarum fidem primæ ac maximæ , fuppleant mus namqueabuniverfalibus ad particularia de- propofitiones : neceffe eft , ut omnium quæ curret. Eftque in eo , fi veris propoſitionibus dubitantur , illæ antiquiſſimam teneant pro+ contexatur , firma atque immutabilis veritas. bationein ; quæ ira aliis fidem facere poffunt, Ut inductio habet quidem maximam probabi- ut ipſis nihil queat notius inveniri. Nam li litatem , ſed interdum veritate deficitur; ut in argumentum eſt , quod rei dubiæ faciat fidem , hac : Qui fcir canere , cantor eſt : & qui luctari ídque notius ac probabilius eſſe oportet , quàm luctaror: quique ædificare , ædificator ; quibus illud quodprobatur : neceſſe eſt, utargumentis multis fimili jatione collectis , inferri poteſt: omnibus illa maximam fidem tribuant, quæ ita Qui fcit igitur malum ,malus eſt, quod non pro- per ſe nota ſunt, at alienâ probationenon egeant: cedit;mali quippe notitia deeſſe non poteſt bonoš Sed hujulinodi propoſitio aliquotiens quidem virtusenim ſeſe diligit, aſpernatúrque contraria, intra argumenti ambitum continetur: aliquotiens nec vitare vitium niſi cognitum queat. yerò extra polita, argumenti vires ſupplet ac per His igitur duobus velut principiis, &generibus fices, Duo funt alii argumentandi, duo quidem alii deprehenduntur Cinnes igitur loci , id eft ; maximarum diffe , Omnes loci à argumentori argumentationis modi: unusquidem fyllogiſmo, rentiæ propoſitionum , aut ab his ducantur ne quibus ternii modi, Enthy alter verò inductioni ſuppoſitus. In quibus qui- ceſſe eſt terminis , qui in quæſtione ſunt propo memaſciet exemplum , ea dempromptumſit conſiderarequod , ille quidem fiti, prædicato ſcilicețarquefubjeéto : aut extrin qaid (ma à fyllogiſmo, ille verò ab indu & ione ducat exor- ſecus adfumantur :auc horum medii acque inter dium : non tamen ,aut hicfyllogiſmum , aut ille utrofque verſentur. Eorun verò locoruin , qui impleat inductionem ; hæc autem ſunt enthyine ab hisducuntur terininis , de quibus in quæſtione ma , atque exemplum , Euthymema quippe eft dubitatur , duplex modus eſt : unus quidem ab imperfectus fyllogiſmus, id eſt oratio, in qua non corum fubftantia , aker verò ab his, quæ eoruin omnibus antea propoſitionibus conftitutis,inter ſubſtantiam conſequuntur shi verò quià ſubftária tur feſtinata conclufiosut fi quis ſic dicat : homo funt, inſola definitione conliſtunt.Definitio enim animal eſt, ſubſtantiaigicur eſt ; præterınjſic eniin ſubſtantiammónftrát ; & fubſtaạtiæ integra det alteram propofitionem , quâ proponitur omne monſtratio , definitio eſt. Sed , id quod dicimus, aniinal elle fubftantiam . Ergo cùm enthymema patefaciamus exemplis;ut omnis vel quæftionum , ab univerſalibus ad particularia probanda con- vel arguinentationum , vel locoruin ratio con tendit , quali ſimile Jyllogiſmo eft. Quod vero quieſcat. Age enim quæratur ; an arkores ani non omnibus, qu:e conveniunt fyllogiſmo,propor malialint , řátque hujuſmodifyllogiſmus: ani+ ſitionibus utitur , à fyllogiſmi ratione difcet mal eftfubftantia animata ſenſibilis:non eft arbor dit , atque ideò imperfectus vocatuseft fyllogif- fubftantia animata fenfibilis; igitur arbor animal mus, non eft. Hic quæſtio de genere eft ; utrùm enim Exemplum quoque inductioni fimili ràtionę arboresfub aniinaliumgenere panendæ fint,qux & copulatur, & ab ea diſcedit. Eft enim exem- ritur: locus qui in univerſali propofitione con, plum , quod perparticulare propoſitum ,particu- filtit , huic generis definitio non convenit , id lare quoddam contendit oſtendere , hoc modo ; ejus , cujus ea definitio eft , fpecies non eſt loci Oportet à Tullio conſule necari Catilinan, cùm fuperioris differentia : qui locus nihilominus à Scipione Gracchus fueritinteremptus ; appro , nuncupatur à definitione. batum eſt enim Catilinam à Cicerone debere pe Vides igitur ut çora dubitatio quæftionis fyllo rimi , quod â Scipione Gracehus fuerit occiſus : giſmi argumentatione* tracta (it per convenien: * Ed.sracht quæ utraque particularia effe , ac non univerſalià tes & congruas propoſitiones ,quæ vim ſuam ex "4. lingularum deſignat interpoſitio perſonarum prima &maxima propofitionecuftodiunt ; ex ea Quoniamigiturex parte pars approbatur , quafi {cilicet , quænegat effe fpeciem , cui ñnon conve: inductionis fimilitudinem tenet id , quodexem- niat generis definitio, Acque ipſa univerſalis pro nis ducantur : 374 Caſſiodorus ftantia du tem . poſitio à ſubſtantia tracta eſt unius eorum termi- eſt , hoc modo fæpe quæſtionibus argumenta ni, qui in quæſtione locati ſunt ; ut animalis ,id fuppeditat ; ut fi fit quæſtio, an juſtitia utilis fit, eſt, ab ejusdefinitione,quæ eſt ſubſtantia anima- fit fyllogiſmus: Omnis virtus utilis elt , juſtitia ra ſenſibilis . Igitur in cæteris quæftionibus ſtri- autem virtus eſt, ergo juſtitia utilis eſt. Quæſtio ctim ac breviter locorum differentiis coinmemo- de accidenti , id eſt , an accidat juftitiæ utilitas. fatis, oportet uniuſcujuſque proprietatem vigi- Locus is , qui in maxima propoſitione conſiſtir. lantis animi alacritate percipere. Quæ generi adfunt, & fpeciei. Hujus ſuperior Locus ex ſub Hujus aureinloci , qui ex fuſtſtantia ducitur, locus à toto , id eſt, à genere, virtute ſcilicet, quæ ftus, duplex duplex modus eſt; partim namquc à definitione, juſtitiæ genus eſt. Rurſus fit quæſtio , an huma eft. partim à deſcriptione argumenta ducuntur. næ res providentiâ,regantur. Cùm dicimus, li Differt autem definitio à deſcriptione , quòd mundus, providentiâ regitur : homines autem Que fit dif- definitio genus ac differentias affumic : def- pars mundi funt: humanæ igitur res providen ferentia inter criptio verò ſubjectain intelligentiam - claudit, tia reguntur. Quæſtio de accidenti, Locus quod defcriptiq quibuſdam vel accidentibus unam efficientibus toti evenit, id congruit etiam parti. Supremus proprietatein , vel ſubſtantialibus præter genus locus à toro , id eſt, ab integro. Quod partibus conveniens aggregatis. Sed definitiones, quæ ab conftat, id verò eft mundus, qui hominum to accidentibus fiunt, tamen videntur nullo modo tum eſt . ſubſtantiam demonftrare : tamen quoniam fæpe A partibus etiain duobus modis argumenta naf- A partibus veræ definitionesita ponuntur, quæ ſubſtantiam cuntur: aut enim à generis partibus , quæ ſunt, duobus modis monſtrant: illæ etiam propofitiones,quæ à deſcri- fpecies :aut ab integri, id eſt, torius ; quæ par- azamente ptione fumuntur,à fubftantiæ loco videntur affu- tes tantum proprio vocabulo nuncupantur. Et Mojcanine. mi. Hujus verò tale fit exemplum ; quæratur de his quidem partibus , quæ ſpecies funt , hoc enim , an albedo ſubſtantia fit: hic quæritur, an modo fit quæſtio , an virtus mentis benè conſti albedo ſubftantiæ , velut generi ſupponatur. Di- tutæ fic habitus : quæſtio de definitione, id eft, cimus igitur : ſubſtantia elt , quod omnibusacci- an habitus benè conſtitutæmentis,virtutis lit de dentibus poſſit eſſe ſubjectum : albedo verò nul- finitio. Facieinus itaque ab ſpeciebus argumen dis accidentibus fubjacet, albedo igitur fubſtan- tationem lic : Si juftitia , fortitudo , inoderatio, tia non eſt. Locus, id eſt , maxima propoſitio, atque prudentia , habitus benè conftituræ mentis eadem quæ fuperiùs. Cujus enimdefinitio vel funt: hæc autem quatuorunivirtuti velut generi deſcriptio ei,quod dicitur,ſpecies effe non conve- ſubjiciuntur: virtus igitur benè conſtitutæ men nit, id ejus quod eſſe ſpecies perhibetur, genus tis eſt habitus. Maxima propoſitio ; quod enin noneſt. Deſcriptio verò fubftantiæ albedini non ſingulis partibus ineſt, id toti inefTe neceffe eft. convenitalbedo : igitur ſubſtantia non eſt. Argumentum verò à partibus , id eſt, à generis Locus differentia ſuperior à deſcriptione ; quam partibus, quæ ſpecies nuncupantur ; juſtitia enim, duduin locavimus in ratione ſubſtantiæ . Sunt fortitudo, modeſtia & prudentia , virtutis fpe etiam definitiones , quæ non à rei ſubſtantia, ſed cies ſunt. à nominis ſignificatione ducuntur , atque itą rei, Item ab his partibus, quæ integri partes eſſe di de qua quæritur , applicantur; ut ſi ſît quæicio, cuncur, fit quæſtio , an fit utilismedicina. Hæc utrumnephiloſophiæ ſtudendum fit , erit argu: in accidentis dubitatione conftituta eſt. Dicimus mentatio talis : Philofophia ſapientiæ amor eſt, igitur , ſi depelli morbos , ſalurémque fervari, huic ſtudendum nemo dubitat : Itudendum igitut mederique vulneribus utile eft : igitur medicina eſt philofophiæ. Hic enim non definitio rei, ſed eſt utilis. Sæpe autem & una quælibet pars valer, nominis interpretatio argumentum dedit. Quod ut argumentationis firmitas conſtet , hoc inodo; etiam Tullius in oſtenſione ejuſdem philofophiæ ut fi de aliquo dubitetur , an fit liber : ficum vel uſus eſt defenfione , & vocatur Græcè quidem cenſu , velteſtamento , vel vindictâ manumiſ ovouzOtong , Latinè autem nominis definitio. fum eſſe monſtremus , liber oſtenſus eſt : atque Hæc de his quidem argumentis, quæ ex ſubſtan- aliæ partes erantdandæ libertatis. Vel rurſus , fi cia terminorum in quæſtione politorun fumun- dubitetur , an ſir domus quod eminus conſpici tur, claris ,ut arbitror,patefecimus exemplis: nunc tur : dicimus quoniam non eſt ; nam vel rečtun de his dicendum eſt , qui terminorum ſubſtana ei, vel parietes, vel fundamenta defunt , ab una tiam conſequuntur. rurſus parte factum eſt arguinentum . Divifio loco Horum verò multifaria diviſio eſt ; plura enim Oportet autem non folùm in ſubſtantiis , ve Tum qui(ubu funt , quæ ſingulis ſubſtantiis adhæreſcunt : ab růın etiam in modo, temporibus , quantitatibus, franciam com his igitur, quæcujuſlibet ſubſtantiam comitan- torum , partéfque reſpicere. Id enim quod dici fequantur. tur , argumenta duci folent, aut ex toto , aut ex mus aliquando in teinpore , pars': rurſus li fim partibus, aut ex caufis, vel efficientibus,vel ma- pliciter aliquid proponamus,in modo totum eſt: teria , vel fine. Er eſt efficiens quidem cauſa, li cum adječtione aliqua , pars fit in modo. Item quæ inover atque operatur , ut aliquid explice- fi omnia dicamusin quantitate, tòrum dicimus : tur: materia verò, ex qua fit aliquid,vel in quafit: fialiquid quantitatisexcerpimus, quantitatis po , propter quod fit. Sunt etiam inter eos lo- nimus partem . Eodem modo &in loco : quod cos , qui ex his ſumuntur, quæ ſubſtantiain con- ubique eſt , totum eſt : quod alicubi, pars. How ſequuntur, aut ab effectibus , aut à corruptioni- ruin autem omnium communiter dentur exem bus' , aut ab uſibus , aut præter hos omnes ex pla. A toto ad partem fecundum tempus : fi communiter accidentibus. Quæ cùm ita fint, Deus ſemper eſt , &nunc eſt. A parte ad totum cum priùs locum, qui à toto fumitur, inſpicia- ſecundum modum:ſi *anima aliquo modo niové» * MSS. amie tur, & fimpliciter movetur ; movetur autem cum mal. Totum duobus modis dici folet : aut ut genus, irafcitur ;univerſaliter igitur & fimpliciter mo bus modisdi- aut ut idquod ex pluribus integrum partibus vetur. Rurfus à toro ad partes in quantitate: fi conſtat. Er illud quidem quod ut genus , totum finis mus. Totum duo citur. 1 1 De Dialectica. 3 teria , fi jori. TA A. > verus in omnibus Apollo vatės eſt; verum erit oppoſitis, vel ex tranffuinptione. Et ille quidem Pyrrhum Romanos ſuperare. Rurſus in loco , fi locus , qui rei judiciuin tenet , hujuſmodi eft ; ut Locus à rei Deus ubique eft, & hîc igitur eſt. id dicamus effe , vel quod omnes judicant , vel judicio. Locusà came "Sequitur locus, quinuncupaturà cauſis. Sunt plures , & hivel ſapientes , vel ſecundam unam fis multiplex. verò plures cauſa , id eft , quæ vel principium quanque artem penitus eruditi.Hujus exempluin præſtantmotusatque efficiunt: vel ſpecierum for- eft, cælum eſſe volubile: quòd ita fapientes, atque mas ſubjectæ ſuſcipiunt: vel propter eas aliquid, in Aſtronoinia do & illimi diſudicaverint. Quæ vel quæ cujuſlibet forma eſt. ſtio de accidente. Propofitio, quod omnibus,vel Zocus ab effi- Argumentum igitur ab eficiente cauſa ; ut fi pluribus, veldoctis videtur hominibus,ei contra ciense cauſa. quis juſtitiam naturalemn velit oſtendere, dicat : dici non poſſe. Locus à rei judicio . congregatio hominum naturalis eſt : juſtitiam A fimilibus verò hoc modo , fi dubitetur , an verò congregatio hominum fecit : juſtitia igitur hominis proprium fit eſſe bipedem , dicimus fi naturalis eſt. Quæſtio de accidente. Maximapro- militer: ineſt equo quadrupes , & homini bipes; poſitio: quorum effacientescauſæ naturales ſunt, non eft autem equi quadrupes proprium ; non eft apſa quoque ſunt naturalia. Locus ab efficienti igitur hominis propriuin bipes. Quæſtio de pro bus; quodenim uniuſcujuſque cauſa eſt,id efficit prio. Maxiina propoſitio. Si quod limiliterineſt, can rem , cujus caufa eft, non eſt proprium, ne id quidem de quo quæritur, Locus à ma Rurſus, ſi quis Mauros arima non habere con- eſſe propriuin poteſt. tendat, dicit idcirco eos minimè armis uti , quia Locus à fimilibus : hic verò in gemina dividitur. Locus àfomi libus duplex. his ferrum deſit. Maximapropoſitio , ubi materia Hæc enim fimilitudo , aut in qualitate , aut in deeſt , & quod ex materia efficitur , defit locus à quantitate conſiſtit : ſed in quantitate paritas mareria : utrumque verò , ideft , ex efficientibus nuncupatur , id eſtæqualitas. atque materia,uno nomine à cauſa dicitur. Æquè Rurfus ab eo quod eſt majus , fi an fit animalis Locais à Ma. enim id quod efficit , atque id quod operantis definitio , quod ex ſe moveri poffit, dicimus , actum ſuſcipit , ejus rei , quæ efficitur , cauſæ magis oportet eſſe animalis definitionem , quòd funt. naturaliter vivat , quàm quòd ex ſemoveri poffit Locais à fine. Rurſus à fine fit propofitum , an juftitia bona Non eft autem hæc definitio animalis, quòd natu fit , fiet argumenratio talis. Si beatum eſſe , bo- raliter vivat : ne hæc quidem , quæ minùs vide num eſt , & juſtitia bona eſt; hic eſt enim juſtitiæ tur effe definitio , quod ex ſe inoveripoſſit, ani finis, ut qui ſecundum juſtitiam vivit , ad beati- malis definitio eſſe paranda eſt. Quæſtio de defi rudinem perducatur. Maxima propoſitio , cujus nitione. Propoſitio maxima. Si id quod magis finis bonus eft , ipſum quoque bonum eft. Locus videbitur ineſſe non ineſt , ne illud quidem à fine. quod minus ineffe videtur , inerit. Locus ab eo Loctus a for Ab eo verò, quæcujuſque forma eſt,ità non po- quod eſt inajus. tuiſſe volare Dædalum , quoniam nullasnaturalis A minoribus verò converſo modo . Nam fi eft locus à formæ pennas habuiſſet.Maxima propoſitio , tan- hominis definitio , animal grellibile bipes : cúm- mori. tìm quemque poffe , quantùın formapermiſerit. que id bipes videatur effe definitio hominis mi Locus à forma, nus. quàm animal rationale mortalc ; fitque defi Loc tus ab effe , Ab'effectibus verò , & corruptionibus, &uſibus nitio ea hominis, quæ dicit animal grellibile bi Etibus, corrm- hoc modo : namn ti bonum eſt ,domus, conſtru- pes , erit definitio hominis , animal rationale - ptionibus, &io bonum eſt , bonum eſt domus. Rurfus fi mortale. Quæſtio de definitione. Maxima propo ufibus. , maluin eſt , deſtructio domus : bona eſt domus,& ficio : Si id quod minus videtur ineffe , ineſt : & fi bona eſt domus , mala eſt deſtructio domus. id quod magis videtur inefle , inerit. Multæ au Item ſi bonum eſt equitare , bonum eſt equus : & tem diverfitates locorum ſunt , ab eo quod eſſe fi bonum eſt equus , bonum eſt equitare. Eſt au- magis acminùs , argumenta miniſtrantium : quos tein primum quidem exemplum à generationi- in expoſitione Topicorum Ariſtotelis diligentius bus , quodidem ab effectibus vocari poteft. Sea perſequuti fumus. cunduin à corruptionibus , tertium ab ufibus. Item ex proportione: ut fi quæràtur , an ſorte Lucus ex pro Omnium autem maximæ propofitiones : cujus fint legendi in civitatibus magiſtratus , dicamus portione. effectio bonaeſt, ipfum quoque bonum eſt, & è minimè: quia ne in navibus quidem gubernator converfo: & cujus corruptio mala eſt, ipſum bo- forte præficitur: eſt eniin proportio , nain ut fele nuin eſt , & è converſo : &cujus uſus bonuseſt, habet gubernatorad navem , itamagiſtratus adci ipfum bonum eft , & è converſo. vitatem. Hic autem locus diftat ab eo, quod ex ſi Locus à com A coinmuniter autem accidentibus argumenta milibus ducitur. Ibi enim una res quæ cuilibet muniteracci- funt , quotiens ea ſumuntur accidentia , quæ re- & alii comparatur : in proporcione verò non eſt linquere ſubjectum ,vel non poffunt, vel non ſo . limilitudo rerum , fed quædam habitudinis coin lent ; utſi quis hoc inodo dicat: ſapiens non pa paratio. Quæſtio de accidenti proportione.Quod nitebit ; pænitentia enim malum factum comita- in quaquereevenit, id in ejus proportionali eve tur: quod quia in ſapiente non convenit , ne poe- nire neceſſe eſt. Locus à proportione. nitentia quidein.Quæſtio de accidentibus.Propo Ex oppoſitis verò multiplexlocus eft. Quatuor Locus ex op fitio maxima: cui non ineft aliquid,ei neillud qui- enim libimet opponuntur modis ; aut enim ut pofo ismulti dein , quod ejus eſt conſequens , ineffe poteſt. contraria adverfo ſeſe loco conſtituta refpiciunt: plex. Locus à coinmuniter accidentibus. aut ut privatio , & habitus : aut relatio : aut affir De lo cis ex Expeditisigitur locis his, qui ab ipſis terminis inatio &négatio. Quorum diſcretiones in co li srinfecus. in propofitfone poſitis, affumuntur: nunc de his bro qui de decem prædicamentis fcripruscſt,com dicendum eft , qui licet extrinfecuspoſiti, argu- meinoratæ ſunt; ab his hocmodoargumentanaſ menta tamen quæſtionibusfubminiftrant : hi ve ro ſunt vel ex rei judicio , vel ex ſimilibus , vel à A contrariis fi quæratur , an lit virtutis pro- Locus à con majore, vel à minore , velà proportione , velex prium laudari , dicam minimè: quoniam ne vitii trariis . ; D cuntur. 570 Caſſiodorus Jocentu . habits . sione. Locus ex . ne. quidem vituperari. Quæſtio de proprio. Maxi- ſecundum proprii nominis fimilitudinem corr ma propoſitio : quoniam contrariis contraria fequuntur. conveniunt. Locus ab oppoſitis, id eft, ex con Mixti verò loci appellantur : quoniam ſi de ju- Qui mirtilo. ' trario. ſtitia quæritur, & à caſu , vel à conjugatis argu Locuus à pri Rurſus ſit in quæſtione pofitum : An ſit pro- menta ducuntui ; neque ab ipſa propriè atque vatione prium oculos habentium videre , dicam miniinè: conjunctè, neque ab his quæ ſunt extrinſecus eos namque qui vident, aliàs etiam cæcos eſſe polica videntur trahi, fed ex ipſoruin calibus, id contingit. Nain in quibus eſt habitus ,in eiſdem eſt, quadam ab iplis levi immutatione deductis : poteriteſſe privatio ; & quod eſt proprium , non Jure igitur hi loci medii inter eos , qui ab iplis, poreſt àſubjecto diſcedere. Etquoniam venien- & eosquiſunt extrinfecus, collocantur. te cæcitate viſus abfcedit:non effe proprium ocu Reſtat locus à diviſione, qui tractatur hoc mo- Locus è divi. los habentium videre convincitur. Quæſtio de de. Omnis diviſio vel negatione fit, vel parti- fione fisvel proprio. Propofitio , ubi privatio adetle poteft tione ; ut ſi quis ita pronuntiet : omne animal negatione,vel Partitione & habitus, proprium nonelt. Locus ab oppofi- aut habet pedes, autnon haber. Partitione verò , tis, ſecunduin habitum ac privationein . velut ſi quis dividat : omnis hoino aut ſanus , aut Zocus à rela. Rurſus ſit in quxſtione pofitum , an patris fit æger eft. Fit autem univerfa divifio , vel , ut ge proprium procreatorem eſſe, dicain rectè videri : neris in ſpecies, vel.totius in partes, vel vocis in quia filii eſt propriuin procrcatum efle ; ut enim proprias ſignificationes, vel accidentis in ſubje ſeſe habet pater ad filium , ita procreatus ad pro- cta , velſubjecti in accidentia , vel accidentis in Creatorem . Quæſtio de proprio. Propofitiomaxi- accidentia. Quorum omnium rationemin meo ma : ad ſe relatorum propria, & ipſa ad ſe refe- libro diligentius explicavi , quem de diviſione Libram dedi runtur. Locus à relativis oppofitis. Locus ab af compoſui:atque idcircoad horuin cognitionem vifione com pour celſis formatione e Item fit in quæſtione politum , an lit ani- congrua petantur exempla. Fiunt verò argumen - dow negatione. malis proprium moveri , negem : quia nec tationes per diviſionem , tun ea ſegregatione, * Ed. in ani- * inaniinati quidein eſt proprium non moveri. qux per negationem fit, cum ea quæ per parti mali. Quæſtio de proprio. Propofitio inaxiina : op- tionem . Sed qui his diviſionibus utuntur , aut di politorum oppoſitaeſſe propria oportere. Ló- re& tâ ratiocinatione contendunt : aut in aliquid cus ab ppolitis, ſecundum affirmationem ac impoſibile atque inconveniens ducunt , atque negationem ; moveri enim & non moveri, ſe- ita id quod reliquerant, rurſus adſumunt. cundum affirmationem negationémque fibimmer Quæ faciliùs quiſque cognoſcer, li prioribus opponuntur. Analiticis operam dederit : horum tamen in præ Ex tranſſumptione verò hoc modo fit : cùm ex fentitalia præftabunt exempla notitiain . Sit in transJumptio. histerminis in quibus quæſtio conſtituta eft,ad quæſtionepropoſituin, an ulaorigo fit temporis: aliud quidem notius dubitatio transfertur; atque quod qui negare volet, id nimirum ratiocinatio ex ejus probationeea, quse in quæſtione ſunt po- ne firmabit mallo , modo effe ortum :ídque dire ſita , confirmantur; ut Socrates, cùin quid pof- &tâ ratiocinatione monftrabit, hocmodo: quo ſet in unoquoque juſtitia , quæreret ; omnein niain mundusærernus eſt ( id enim pauliſper ar tractatum ad reipublicæ tranſtulit inagnitudi- guinenti gratiâ concedatur ) mundus verò fine nem ; atque ex co quodilla efficeret infingulis, tempore effe non potuit, teinpus quoque eſt æter etiani valere fitinavit. Qui locus à roro forſican num : ſed quod æternum eſt , carerorigine : tem eſſe videretur : ſed quoniam non inhæret in his, pus igitur orignem non habet. Atſi per impolli de quibus proponitur terminis, fed extra poſita bilitatein idem deſideretur oſtendi, dicetur hoc res, hoc tantum quianotior videtur, affumitur; modo. Sitempus habet origineni,non fuit ſemper idcirco ex tranſfumptionelocus id convenienti teinpus: fuit igitur , quando non fuit rempus, ſed vocabulo nuncupatus eft. Fit verò hæc tranſlum- fuiffe ſignificatio eſt temporis ; fuit igitur tein prio &in nomine, quoties ab obfcuro vocabulo pus , quando non fuittempus : quod fieri non ad notius transfertur argumentatio, hoc modo ; poteft ; non igitur eſt ulluin temporisprincipiuin ut ſi quæratur, an philoſophus invideat , fitque pofitum . Namque, ut ab ullo principio cæpe ignotum quid philoſophi ſignificet nomen , dice- rit , inconveniens quiddam atque impoffibile mus ad vocabulum notius transferentes, non in- contingit fuiſſe teinpus , quando non fuerit videre qui ſapiens ſit ; notius enim eſt fapientis tempus. Reditur igitur ad alterain partein , vocabuluin , quàm philofophi. Ac de his qui- quod origine careat: fed hæc quæ ex negatio dem locis qui extrinfecus aſſumuntur, idoncè di- ne diviſio eſt , cùm per eam quælibet argu ctuin eſt : nunc de mediis diſputabitur. menta ſumuntur , nequit fieri , ut utrumque fit ,, quod affirinatione & negatione dividi De Mediis. tur : itaque ſublato uno , alterum manet ; pofi tóque altero reliquum tollitur: vocaturque hic à Ex quibus Medii enim loci ſumuntur vel ex calu , vel ex diviſione locus , medius inter eos qui ab ipfis conjugatis , vel ex diviſione naſcentes. Caſus duci folent , atque eos qui extrinſecus adſumun Sumantur. Quid fit eſt alicujus nominis principalis inflexio in adver- tur. Cùm enim quæritur, an ulla temporis lit bium : uràjuſtitia inflectitur juſtè , cafus igitur origo , ſumit quidem eſſe originem ; & ex eo pet Quid Conju- eſt juſtitia,id quod dicimus juftè , adverbium . propriamconſequentiam à re ipſa,quæ quæritur, Conjugata verò dicuntur , qux abeodein diver- htimpoſſibilitatis & mendacii fyllogiſmus ;quo fo modo ducta Auxerunt :ut à juſtitia , juftum ; concluſo reditur ad prius , quod verum eſſe ne hæc igitur inter ſe & cum ipſa juſtitia conjugara ceſſe eſt ; fiquidem ad quod eioppofitum eſt, ad dicuntur, ex quibus omnibus in promptu lunt impoſſibile aliquid inconvenienſque perducit. argumenta. Namfi id quod juftum eft , bonum Itaque quoniam ex ipfa re, de qua quæritur, fieri eſt; & id quod juſtè eſt , benè eſt ; & qui juftus fyllogiſmus folet , & quali ab iplis locus eft du eft, bonus cft, & juftitia bona eſt ; hæc igitur cus : quoniam verò non in eo permanet, fed ad locis Medii Calus. gaid. politum De Dialectica. 577 BA tis li 1 . nd 20 je 18 19 100 . TOR: OK parti 17 10.3. pofitam redit, quafi extrinſecus fumitur: idcirco Quibus ita popofitis inſpiciatRus nunc cos lo: igitur hic à diviſione locus inter utrumque me cos', quos duduin extrinfecuspronuntiabamus Delocis eta dius collocatur. affuini ; ea enim , quæ extrinſecus affumuntur, frempris, , of Loci ex par Ac verò hi qui ex partitione funiuntur, multi- non ſunt ita ſeparata atquedisjuncta , ut non ali nitione fum- plici funt modo. Aliquotiens enim quæ divi quandoquali è regione quadam , ca quæ quærun qua dintre pri,maisiplici duntur , fimul effe poffunt ; ut fi vocem in figni- tar , afpiciant. Nam & funilitudines & oppofita frunt modo. ficationes dividamus, oinnes fimul eſſe poſſunt: ad ea lme dubio referuntur, quibus ſimilia vel op veluti cum dicimus amplector, aut actionein li polica funt , licet jure atqueordine videantur ex gnificat , aut paffionem ; utrumque finul lignifi trinſecus collocata. Sunt autem hæc, ſimilitudo, care poteft. Aliquotiens velut in negationis mo- oppoſitio, magis,ac minus, rei judicium . In ſimi do , quæ dividuntur fimul eſſe non poffunt ; ut litudine enimcum rei fimilitudo , tum propor fanus eſt , aut æger. Fitautein raciocinatio in tionis ratio continetur. Omnia enim fimilitudi priore quidem mododivilionis, tum quia omni- nem tenent. bus adeſt quodquæritur, vel non eft : tum verò Oppolica verò in concrariis , in privationibus; idcirco alicui adeſſe, vel non adeffe quod aliis ad in relationibus, in negationibus conſtant. Com ſit , vel minimè. paratio verò majoris ad minus quædam quali ſi Nec in his explicandis diutiùs laboramus, fi miliuin diffimilitudo eft ; rerum enim per fe finni prioresReſolutorii, vel Topica diligentiùs inge- lium in quantitate diſcretio majus fecit ac minus, nium le& oris inftruxerint. Nam fi quæratur, Quod enim omni qualitate , omnique ratione utrum canis fubftantia fit , atque hæc divifio fiar: disjunctum eſt , id nullo modo poterit compara canis vel latrabilis animalis eſt velmasinx belluæ, ri. Exrei verò judicio quæ ſunt argumenta, quaſi vel cæleftis lideris nomen e demonftraretque per teſtinionium præbent , & ſunt inartificiales loci ſingula & canem latrabilem fubftantiam eflc,ma- atque omnino disjuncti ; nec rem potius , quàm rinam quoquebelluam , & cælefte fidus ſubſtantiæ opinionem judiciúmque fectantes. Tranſſum poffe fupponi,nonftravit canem eſſe fubftantiam . ptionis verò locus nunc quidem in'æqualitate, Acque hic quidem ex ipfis in quæſtione propoſi- nunc verò in majoris minoriſve.comparatione tis ; videbitur argumenta traxiſſe. At in talibus conſiſtit ; aut enim adid quod eſt finile , aut ad id fyllogiſmis, aut fanus eſt aut æger : ſed fanus eft, quod eſt majus aut minus, fit arguinentorum raa non eft igitur ager : ſed fanus non eft, rgerigi- fionumque tranſſumptio. cur eſt ; velica : liæger eft, fanus igitur non eſt; Hi verò loci quos mixtos eſſe prædiximus, aut De locismist velita : fi æger noneft , fanus igitureſt. Ab his ex caſibus, autex conjugatis, aut ex diviſionenaſ- sis. * M5$. in- quæ funt* extrinſecusſumptus eſt ſyllogiſmus,id cuntur: in quibus omnibus conſequentia, & re trinfecu . elt,ab oppoſitis . Idcirco ergo totus hic àdiviſio- pugnantia cuſtoditur. Sed ea quidem ,quæ ex defi ne locus inter utrofque medius eſſe perhibetur: nitione , vel genere , vel differentia , vel caufis quia ſi negatione fit conftitutus , aliquo inodo arguinenta ducuntur , demonftratione maxiinè quidem ex ipfis fumitur, aliquo modo ab exte- fyllogiſinis vires atque ordinem ſubminiſtrant: tioribus venit. Si verò à particioneargumenta reliqua verò verifimilibus ex dialecticis. Atque ducuntur; nunc quidem ab ipfis , nunc verò ab hi loci maximè, qui in corum fubftantia ſunt, de exterioribus copiam præſtant: quibus in quæſtione dubitatur , ad prædicativos Etca Græci quidem Themiſtii diligentiſſimi ac fimplices:reliqui verò ad hypotheticos & con ſcriptoris ac lucidi , & omnia ad facultatem intel- ditionalesreſpiciuntfyllogiſmos. Partitio locou ligentiæ revocantis , talis locorum videtur effe Expeditis igitur locis ,& diligenter tam defini partitio. Quæcùm ita fint, breviter mihi loca- tione, quàm exemplorum etiam luce parefactis, rum divifio coinmemoranda eſt , ut nihil præte- dicendum videtur, quomodohiloci maximarum rea relictum eſſe monftretur, quod non intra cam ſint differentiæ propoſitionum , idque brevi; ne probetur effe inclufum . De quo enim in quali- que enim longå diſputatione res eget. Omnes bet quæſtione dubitatur , id ita firınabitur argu- enimmaxiinæ propoſaiones,vel definitiones, in mentis ; ut ea vel ex his ipfis fumantur , quæ in eo quòd ſunt maximæ , non differunt : ſed in ed quæſtione ſunt conſtirura, vel extrinfecus ducan- quòd hæ quidein à definitione, illæ verò à genere, tur vel quaſi in confinio horum pofita veſtigen- vel aliæ veniant ab aliis locis , & his jure differre; tur. Ac præter hanc quidem diviſionein nihil ex- hæque earum differentiæ eſſe dicuntur. tra inveniri poteſt : ſed ſi ab ipſis fumitur argu mentum , aut ab ipſoruin neceffe eſt ſubſtantia De Topicis. fumatur, aut ab his quæ ea conſequuntur , aut abhis quæinſeparabiliter accidunt,veleis adhæ- Topica ſunt argumentorum ſedes, fontes fen- Quid fire ſubſtantia ſeparari ſejungique fuum , origines dictionum . Itaque licet definire Topica. vel non poffunt , vel non folent. Quæ verò ab locum eſſe argumentiſedem : argumentum aucem corum fubftantiaducuntur , ca aut in deſcriptio- rationem, quæ reidubiæ faciat ħdem. Et funt ar- Quibus ex aut in definitione ſunt ; & præter hæc, à no- gumenta aut in ipfo negotio , dequo agitur: aut rebus argi minis interpretatione. Quæ verò eavelur ſub- ducuntur exhis rebus , quæquodanmodoaffectæ menta ernano ftantias continentia conſequuntur, alia ſunt, vel ſunt ad id ,de quo quæritur ; & ex rebus aliis tra ut generis, vel differentiæ , vel integræ formæ, &tæ nofcuntur : aut certè affumuntur extrinſecus. vel fpecierum , velpartiumloco circaca, quæ in- Ergo hærentia loca argumentorum in eo ipfone- Ex locis han quirantur , alliſtunt. Item , vel caufæ , vel fines, gotio funttria,id eſt , à toto , à partibus, à nota. rentibus & vel effectus, vel corruptiones, vel uſus,vel quan A toto eft argumentum etiam ,cùm definitio ad- ſunt tria. ticas, vel tempus , vel fubliſtendimodus. Quod hibetur adid , quod quæritur; ſicut ait Cicero, * Ed. exfc. verò propriè inſeparabile , vel adhærens , acci- Gloria eſt laus rectè fa &torum , magnorúmque in dens nuncupatur, id in communiter accidentibus rempublicam fama meritorum : * ecce quia gloria numerabitur. Et præter hæc quid aliud cuiquam totum eſt , per definitionem oſtendis, quid lis inelle pollit, non poteft invenici. gloria. Dddd firs 218 - am Timr . 578 Caffiodorus tredecim . Argumentum à partibus ſic ; utputa , ſi oculus A repugnantibus arguinentum eſt , quando videt, non ideo totuin corpus videt. illud quod objicitur,aliqua contrarietate deftrui A nota autem fic ducitur argumentuin , quod tur ; ut Cicero dicit:Is igitur non inodò à te per Græcè Etymologia dicitur : Siconſul eſt,qui con- riculo liberatus , ſed etiam honore ampliſſimodi ſulit reipublicæ , quid aliud Tullius fecit,cùm ad- tatus , arguitur domi ſuæ te interficere voluiffe. fecit fupplicio conjuratos ? A cauſis argumentum eſt , quando ex conſuetu Exipfis rebus Gex rebus Nuncducunturargumenta & ex his rebus, quae dine communi res quæ tractatur , fieri potuiſſe aliis, e junt quodammodo affectæ ſunr adid , de quo quæri- convincitur ; ut in Terentio : Ego nonnihil veri & ex rebus aliis tra &tæ nofcuntur: & funt tus ſuin dudum abs te Dave , ne faceres , quod loca tredecim , id eſt , alia à conjugatis, alia à ge- vulgus fervorum folet, dolis ut ine deluderes. nere , alia à forma generis, id eft, fpecie , alia à Ab effectibus ducitur argumentum , cùm ex his Limilitudine , alia à differentia, alia ex contrario, quæ facta ſunt, aliquid adprobatur ; utin Virgi alia à conjunctis , alia ab antecedentibus , alia à lio : Degeneres animos timor arguit; nam timor conſequentibus, alia à repugnantibus, alia à cau- eſt caula, ut degener ( ic animus, quod ciinoris fis , alia ab effectibus, alia à comparatione inino- effectum eſt. rumi, majorum , aut parium . A comparatione argumentuin ducitur, quando Primò ergo à conjugatis argumentum ducatur. per collationem perfonarum live caufarum , fen Conjugata dicuntur , cùm declinatur à nomine, tentiæ ratio confirmatur, & à majori ratione hoe & fit verbun ; ut Cicero Verrem dicit everriſſe modo , ut in Virgilio : Tu potes unanimes arna provinciam : vel nomen à verbo, cùmlatrocinari rein prælia fratres. Ergo qui hoc in fratribus po dicitur latro : aut nomen à nomine; ut Terentius: teft, quanto magis in aliis ?'A minorum compa Inceptio eſt amentium , haud amantium , ratione ; ſicut Publius Scipio Pontificem maxi A genere argumentum eſt, quando à re gene- mum Tiberium Gracchum non mediocriter labe rali ad ſpeciem aliquam deſcendit: ut illud Virgi- factantem ſtatum reipublicæ privatus interfecit. lii , Varium & mutabile ſemper fumina : potuit A pariuin comparatione;lic Cicero, in Piſone &Dido , quod eſt ſpecies , varia & mutabilis nihil intereſſe, utrum ipſe conſul improbis con eſſe. Velillud Ciceronis , quod fecit argumen- cionibus, perniciofis legibus rempublicam vexer, tum , deſcendens à genere ad ſpeciem :Nam cùm an alios vexare pațiatur. omnium provinciarum ſociorúmque rationem Extrinſecus verò affumentur argumenta hæc, De Argu diligenter habere debeatis , tuin præcipuè Siciliæ , quæ Græci år give vocant , id eſt , inartificialia, meniis ex judices. quod teitimonium ab aliqua externa re fumitur frin'ecus afa fumptis. Aſpecie argumentumducitur , cùmgenerali ad faciendam fidem ; & prius. quæſtioni fidem fpecies facit; ut illud Virgilii : A perſona, utnon qualifcuinque lit , ſed illa An non fic Phrygius penetrat Lacedæmonapa- quæ teitimonii pondus habet adfaciendam fi ftor ? quia Phrygius paſtorſpecies eſt ; & fi iftud dem , fed & morum probitate debet effe lauda ille unusfecis , & alii hoc Trojani generaliter fa- bilis. tere poffunt. A natura auctoritas eſt , quæ maxima virtute A ſimili argumentum eft , quando de rebus conſiſtit ; & à tempore funt, quæ afferant aucto aliquibus fimilia proferuntur ; ut Virgilius. ritatem ; ut ſunt ingenium , opes, ætas , fortu Suggere tela inihi, nam nullum dextera fruftra na, ars , uſus, necellitas, concurſio rerum for Torſerit in Rutulos, fteterintque in corporc tuicaruin. Grajum A dictis fačtíſque majorum petitur fides: cùm Iliacis campis. priſcorum dicta factáque memorantur. A differentia argumentum ducitur , quando Et à tormentis fides probatur, poft quæ neme per differentiam aliquæ res feparantur; Virgilius: creditur velle mentiri. Non Diomedis equos, nec curruin cernis Achil lis . De Syllogiſmis. A contrariis argumentum ſumitur , quando res diſcrepantes fibimet opponuntur ; ut Teren Prima figura modos haber quatuor, qui uni tius: Nam fi illum objurges, vitæ qui auxilium verfaliter vel particulariter affirmativam vel ne tulit , quid facies illi qui dederit damnum aut gativam concludent. malum ? Secunda item quatuor modos , qui ab negativa A conjunctis autem fides petitur argumenti; concludent , five univerſaliter live particulariter. cùm quæ lingula infirma ſunt, fi conjungantur Tertia figura haber ſex modos , qui affirmative vim veritatis affumunt ; ut , quid accedit ur tenuis vel negativè , ſed particulares facient copclufio ante fuerit, quid fi ut avarus, quid fi ut audax , nes. quid fi ut ejus, quiocciſus eſt, inimicus ? Singula Ergo primæ figuræ modus primuseſt , qui con hæc quia non ſufficiunt , idcirco congregata po- ficitur ex duabus univerſalibus affirmativis, ha nuntur , ut ex multis junctis res aliqua confir- bens concluſionem univerfaliter affirmativain , hoc modo . Ab antecedentibus argumentum eft, quando Omne bonumeft amabile . aliqua ex his quæ priùs gefta funt, comproban Omne juftum eft bonum . tur; ut Cicero pro Milone :Cùm non dubitaverit Omne igitur juftum eft amabile. aperire quid cogitaverit , vos poteſtis dubitare Secundus modus figuræ primæ conficitur ex quid fecerit ? præceſſit enim prædictio ,ubi eft ar- univerſali abnegativa , & univerfali affirmativa, gumentum , & fecutuin eſt factum . habens concluſionem univerſaliter, hoc modo . A confequentibus verò arguinentum eſt, quan Nullus rifibilis eft irrationalis. do pofitam rem aliquid inevitabiliter conſequi Omnis homo eft riGbilis. tur ; ut fi mulier peperit, cum viro concubuit. Nullus igitur homo eſt irrationalise. metur. De Dialectica. 579 Tertiusmodusprimæ figuræ eſt, qui conficitur gationem particularem concludit, hoc modo. ex univerſali affirinativa , & particulari affirma Quidam homo non eſt albus. tiva , particularem affirmativam concludens, hoc Omnis homo eft animal. modo. Quoddam igitur animal non eſt albumi Omne animal movetur. Sextus modus tertiæ figuræ eſt , qui ex univer Quidam homo eſt animal. ſali negativa , & particulari affirmativa particula Quidam igitur homo movetur. rem negativam concludir , hoc modo. Quartusmodusprimæ figuræ eſt , qui confi Nallus homo eft lapis. citur ex univerſali abnegativa, & particulari affir Quidain homo eſt albus. mativa , particularem abnegativam concludens, Quoddam igitur album non eſt lapis. hoc modo . Demonftrati ſunt omnes modi trium figuraru :n Nullum inſenſibile eſt animatumi categorici fyllogiſmi , licet quidam primæ figuræ Quidam lapis eft inſenſibilis. aliosquinque modos addiderint. Quidam igitur lapis non eſt animatus. Secundæ verò figuræprimus inodus eſt, qui ex De Paralogiſmis. univerſali abnegativa , & univerſali affirmativa Paralogiſmi verò primäe figuræ ita fiunt,ex prio concludit hoc modo univerſale abnegativum . ri affirmativa univerſáli, &fecunda negativa uni Nullum maluin eſt bonum . verfali. Omnis homo eft animal : nullú animal eſt Omne juſtum eſt bonum. lapis : nullus igitur homo lapis eſt. Et quiamuta Nullum igitur juftum eſt malum . to termino &univerfale & particulare concludet Secundæ verò figuræ ſecundus modus eſt , in & negativaļn & affirmativam : ob hoc eſt inutilis quo ex univerſalipriore affirmativa, & pofteriore approbatus idem paralogiſmus,quiex duabus ne univerſali abnegativa conficitur univerfalis abne- gativiş univerſalibus fit hoc , modo. Nullus lapis gativa concluſio , hoc modo. , animal eft : nullum animal immobile eft : nullus Omne juftum eft æquum . igitur immobilis eft lapis. Nullum malum eſt æquum , Idem paralogiſmus , qui ex duabus particulari Nullum igitur malum eſt juſtum . bus affirmativis fit hocmodo : Quidam equus Tertius ſecundæ figuræ modus , qui ex priore animal eſt: quoddam animal bipes eſt : quidam univerſali negativa,& pofteriore particulari affir- igiturequusbipes eſt. Rurſum ex duabus parti inativa , negationem colligit particularem , hoc cularibus negativis họcmodo : Quidam homo al modo. bus non eft : quoddam album non movetur : qui Nullus lapis eſt animal. dam igitur homo non movetur. Quædam ſubſtantia eſt animal. Dein, fi prior affirmativa particularis, & ſecun Quædá igitur ſubſtantia non eſt lapis. da negativa particularis fuerit, hoc modo : Qui Quartus moduseſt ſecundæ figuræ , qui ex affir- dam equus animal eſt : quoddam animal quadru mativa priore univerſali, & pofteriore particu- pesnon eſt : quidam igitur equus quadrupes non lari negativa , particularem negationem conclu- elt. dit , hoc modo . Idem ,li prior negativa particularis , ſecunda Omne juſtum eſt rectum . affirmativa fuerit particularis,hoc modo: Quidam Quidam homo non eft rectus. homo equus non eſt , quidam equus immobilis Quidam igitur homo non eſt juſtus. eſt ; quidam igitur homo immobilis eſt. Primus modus tertiæ figuræ eſt , qui ex duabus Idem , fi major propofitio affirmativa fuerit uni univerſalibusaffirmativis, particularem affirmati- verſalis, & minor propoſitio negativa fuerit par vam concludit : quia univerſalem affirmativam ticularis , paralogiſmus erit , hoc modo: Omnis licet in particularem affirmativam converti , hoc homo animal elt , quoddam animal rationabile modo. non eít, quidam igitur homo rationabilis non eft: Omnis homo eſt animal. At verò ſi major fuerit propoſitio univerſalis Omnis homo eſt ſubſtantia. negativa, & minor particularis fuerit negativa; Quædain igitur ſubſtantia eſt animal. nullus poterit eſſe fyllogiſmus, hocmodo :Nuli Item ſecundus modus tertiæ figuræ eft, in quo lus lapis animal eſt , quoddam animal pinnatum ex univerſalinegatione & univerfali affirmacione eft , nullus igitur lapis pinnatuseſt. fit particularis negativa concluſio. Rurſus, li primafuerit particularis , ſecunda Nullus hoino eſt equus. verò univerſalis, & utræque affirmativæ propofi Omnis homo eſt ſubſtantia. tiones , non erit ſyllogiſmus , hoc modo : Qui Quædá igitur fubftantia non eft equus. dam lapis corpus eſt , omne corpus menfurabile Tertius modus člttertiæ figuræ , qui ex particu- eſt, quidam igitur lapis inenfurabilis eſt. lari & univerſali aftırmativis parcicularem affir Idem ,liprima fuerit particularis propoſitione mativam concludit , hoc modo. gativa , & fecundauniverſalis negativa, non erit Quidam hoino eſt albus. fyllogiſmus, hoc modo : Quoddam animal bipes Omnis homo eſt animal. non eft, nullum bipes hinnibile eſt, quoddam -Quoddam igitur animal eſt album . igitur animal hinnibile non eſt; Quartus verò modus tertiæ figuræ eft , qui ex Idem , ſi prior affirmativa particularis, ſecunda univerſali &particulari affirmativis , particulare negativa univerſalis propolițio fuerit ; ſyllogif , affirmativum concludit, hoc modo. mum non facit ; hocmodo: Quidamn lapis inſen Omnis homo eſt animal. farus eſt , nullum inſenſatuin vivit , quidam igi Quidam homo eſt albus. tur lapis non vivit. Quoddam igitur album eſt animal. Idem , li prior negativa particularis propoſitio Quintus verò modus tertiæ figuræ eſt, qui ex faerit, & fecunda attirnativa univerſalis , para „particulari negativa, & univerſali affirınativa ne- logiſinus erit , hoc modo : Quoddam nigrunani. Dddd ij M cha 1 ܬ 580 Caffiodorus non cſt. lis eft. anarum non eſt, omne animatum movetur, quod- Confirmationem , Reprehenſionem , Peroratio dam igitur nigrum non movetur. Et de finitis nem . Quæ partes inſtrumenta ſunt Rhetoricæ fa propolitionibus fyllogiſmus non fit, quia parti- cultatis: quoniam Rhetorica in omnibusſuisſpe culares fimiles ſunt. ciebus ineft, & ſpecies eidem inerunt. Nec po tiùs inerunt , quàm eiſdem ea , quæ peragunt, ad Omnes propofitiones his modis conftant. miniſtrabunt. Itaque & inJudiciali genere cau faruin neceffarius eft ordo Proemii , & Narra Id eſt, Simplices, ita. Contraria . tionis , atque cæteroru: n ; & in Demonſtrativo, Omnis homo juſtuseſt. Nullus homojuſtus eſt. Deliberativóque neceſſaria ſunt. Opus auté Rhe- o "uis Rhero Quidam homo juſtus Quidam homo juſtus toricæ facultatis,docere & movere : quod nihilo- rice of move. eſt . minus iiſdem ferè rex inftrumentis, id eft oratio- re docere, Contradictoria . nis partibus , adıniniftratur. Partes autem Rho Omnis homo rationalis Nullus homo rationa- toricæ , quoniam partes ſunt facultatis , ipfæ quo eſt. que ſunt facultates ; quocirca ipfæ quoque ora Quidam homorationa- Quidam hoino ratio- tionis partibus, quali inſtrumentis utentur. lis eft . halis non eft. Atque ut his operentur, eiſdem inerunt. Nam Ex utriſque terminis infinitis. Omnis non in exordiis niſi quinque ſint ſupradictæ Rhetori homo non rationalis eſt. Nullus non homo non cæ partes ; utinveniat , eloquatur, diſponat, me rationalis eſt. Quidam non hoino non rationa- minerit , pronuntiet, nihil agit orator. Eoden lis eſt. Quidam non hoino non rationalis non eſt. quoque modo & reliquæ ferè partes inſtrumenti, Item ex infinito ſubjecto :Omnis non homo nili habeant omnes Rhetoricæ partes , fruſtra. Tationalis eft. Nullus non homo rationalis eſt. funt. Hujus autem facultatis effector, orator eſt : Quidam non homo rationalis eſt. Quidaın non cujus eft officium dicere appoſitè ad perſuaſio hoino rationalis non cft . nein : finis tum in ipſo quidem bene dixiſſe, id Item ex infinito prædicato : Omnis homo non eſt , dixiſſe appolitè ad perſuaſionem : altera rationalis eſt. Nullus hoino non rationalis eft. verò perſualifie. Neque enim fi qua impediant Quidam homo non rationalis eſt. Quidam homo oratorem , quominus perfuadear, facto officio, non rationalis non eſt. finem non elt confequutus :ſed is quidem , qui Item quæ conveniunt : Omnis homo rationalis officio fuit contiguus & cognatus, conſequitur, eſt. Nullus hoino non rationaliseſt. Onnis ho- facto officio. Is verò , qui extrà eſt, ſæpe non mo non rationalis eſt. Nullus homo non ratio- confequitur: neque tamen Rhetoricam ſuo fine nalis eit. Quidam homorationalis eſt. Quidam contentam ,honore vacuavit.Hæc quidem ita ſunt homo non rationalisnon eſt. Quidam homo non mixta , ut Rhetorica infit fpeciebus, ſpecies verò rationalis eft. Quidam homo non rationalis non infint cauſis. eſt. Cauſarum verò partes ſtatus effe dicuntur: quos Canlari Item. Omne non animal non homo eſt. Nul- 'etia : aliis nominibus cum conſtitutiones, tum partes flares dicuntár, lum non animal non homo eſt. Quiddam non quæftiones nominare licet :qui quidem dividun animal non homo eſt. Quiddam non animalnon tur ita , ut rerum quoque natura diviſa eſt. Sedà fiones. homo non eſt. principio quæſtionum differentias ordiamur: Item converfæ ex prædicato infinito . Omne quoniain Rhetoricæ quæſtiones circunſtanciis non animal homo eſt. Nullum non animal homo involutæ ſunt omnes , aut in fcripti alicujus con eit. Quoddain non aniinal homo eſt. Quoddamn troverſia verfantur, aut præter fcriprum ex re ipſa... non animal hoino non eſt. fumunt contentionis exordium , Item converfæ ex infinitoſubjecto. Omne ani Et illæ quidem quæſtiones,quæ in ſcripro ſunt, Queflionesia pro quin mal non homo eſt. Nullum animal non homo quinque inodis fieri poffunt. Unoquidem , cùng eft. Quiddam animal non homo eſt. Quoddam hic ſcriptoris verba defendit , & ille ſententiains i polliams. aniinalnonhomo non eft. atque hic appellatur ſcriptum, & voluntas, Item propoſitiones indefinitæ. Homo juſtus Alio verò , fi inter fe leges quadain contrarieta eſt. Hoino juſtus non eſt. te diffentiunt, quarum ex adverſa parte aliæ de Indefinitarum propoſitiones cum ſubje& o in- fendunt , aliæ faciunt controverſiam ; atque hic finito . Non hono juſtus eſt : Non homo juſtus vocatur ftatus legis contrariæ . non eſt. Tertio , cùin fcriptum , de quo contenditur, Ex prædicato infinito. Homo juſtus non eſt. fententiam claudit ambiguam : ambiguitas ex ſuo Homonon juſtus non eft. nomine nuncupatur. Ex utriſque terminis infinitis. Non homo Quarto verò, cùm in eo quod ſcriptum eſt,aliud non juſtus eſt. Non homo non juſtus non eſt. non fcriptum intelligirur ; quodquia per ratioci Propoſiriones ſingulares vel individuæ. Plato nationein & quamdam ſyllogiſmiconſequentiam juſtus eſt. Plato juſtus non eſt. veſtigatur , ratiocinativus vel fyllogiſmnus di Ex infinito ſubjecto. Non Plato juſtus eſt. citur. Non Plaro juſtus non eſt. Quinto , cùm ſermo ſcriptuseſt, cujus non fa Ex infinito prædicato. Plato non juſtus eſt. cilè vis ac natura clareſcat,niſidefinitione detecta Platonon juſtus non eſt. lit ; hic vocatur finis in ſcripro ; quos omnes à ſe Ex utriſque terminis infinitis. Non Plato non differre, non eſt noſtri, operiſve rhetorici demon juftus eſt. Non Plato non juſtus non eſt. ftrare. Hæcautem ſpeculanda doctis, non rudi bus diſcenda proponiinus : quamvis de eorum De locis Rhetoricis. differentia in Topicorum commentis per tranſi- Quationes Rhetorice tum differuerimus. Rhetorica oratio habet partes ſex , Procinium , Earum autem conſtitutionum , quæ præter fcri- prin masina plices , fex . quod Exordiumcft, Nacrationein , Partitionem , ptum in ipfaruin rerum contentione lunt politæ , corum dinzi modis fica præter fcri habet partes De Dialectica. 581 1 ses . riaicialis ita differentiæ ſegregantur,ut rerum quoque ip- lem partem vergant, defenfionis copiam non mi farum natura divila lit. In oinni enim Rhetorica niftrant; ex eiſdem enim locis accalatio defenſió . quæſtione dubitatur , an ſit, quid ſit, quale fit ; & que confiftit . propterhæc,an jure, vel more poſſit exerceri judi Si igitur perſona in judiciam vocatur , neque ciuin . Sed li factum ; velres quæ intenditur ab facta:n, dictúmve ulluin reprehenditur, cauſa eſte adverſario,negatur, quæſtio eſt utrùm fit ea ; quæ non poteſt. Nec verò factum , dictúinve aliquod conjecturalis conſtirutio nominatur. Quod fi in judicium proferri poteſt, li perſona non exi factum quidem eſſe conſtiterit,ſed quidnain ſit id ftet. Itaque in his duobus omnis judiciorum ra quod factum eſt , ignoretur: quoniam vis ejus tioverſatur, in perfona ſcilicet, atque negotia definitione monftranda eſt , finitiva dicitur con- Sed , ut dictum eft, perſona eſt , quæ in judicium ftitutio . Ac fi &effe conftiterit, & de rei defini- vocatur : negotium , factum , dictúmveperſone, tione conveniat, fed quale fit inquiratur : tunc propter quod reus ftatuitur. Perſona igitur & ne quia cui generi ſubjici debet ambigitur , genera- gotiamſuggerere arguinenta non poſſunt;de ipſis lis qualitas nuncupatur. In hac verò quæſtione enim quæſtio eſt: de quibus autem dubitatur, ea & qualitatis , & quantitatis , & compatationis dubitationi fidem facere nequeunt Argumen ratio verſatur. Sed quoniam de gènere quæſtio tum verò erit ratio rei dubiæfaciens fidem . Fa , eſt , ſecundum generis formam in plura neceffe ciunt autem negotio fidem ea , quæ ſunt perſo eſt hujusconſtitutionis membra diſtribui. nis ac negotiis attributa. Ac fi quando perſona Omniis quito Omnis eniin quæftio generalis, id eſt, cùm de 'negotio faciat fidem ,velutſi credatur contra rem ftio generalis in duas difiri genere, & qualitate,vel quantitatequæritut facti, publicam fenfifle Catilinam,quoniam perſona bnisur par in duas tribuitur partes. Nam aut in præcerito eſt vitiorum turpitudine denotata : tunc non iiz quæritur de qualitate propoſiti, aut in præſenti, eo quod perſona eſt , & in judicium vocatur , fia aut in futuro . Si in præterito , juridicialis con dem negorio facit , ſed in eo quod ex attributis Ititutio nuncupatur : fi præſentis vel futuri tem- perſonæ quandam ſuſcipit qualitatem . Sed ut re poris teneat quæſtionem ,negotialis dicitur. rúin ordo clariùs colliquefcat , de circumſtantiis Quæftio Fun Juridicialis verò , cujus inquiſitio præteritum arbitror eſſe dicendum. refpicit , duabuspartibus fegregatur. Aut enim De Circumftantiis. duabus parti. in ipfo facto vis defenfionis ineft , & abſolurà Circunſtantiæ ſunt, quæ convenientis fubftan . Detircnm . buslegrégie qualitas nuncupatur : Aut extrinfecus affumitur, tiam quæſtionisefficiunt. Nifienim fit qui fece Gancias para & affumptiva dicitur conſtitutio. rit , & quod fecerit, cauſáque cur fecerit, locus, situr Cicero. Sedhæc in partesquatuor derivatur: aut enim tempúſque quo fecerit,modus, etiain facultas; conceditur criinen, aur removetur , aut refertur, que li delint,cauſa non ſtabit. Has igitur circum aur , quod eſtultimum , comparatur. Conceditur ftantias in geinina Cicero partitur, ut eam quæ crinen , cùm nulla inducitur facti defenſio , ſed eſt , quis, circumſtantiam in attributis perſone venia poſtulatur. Id fieri duobus modis poreſt, ponat : reliquas verò circumſtantias in attributis circumftan fi depreceris, aut purges. Deprecaris,cùm nihil negotio conititaat. Et primùın quidem ex cir excufationis attuleris. Purgas , cùım facti culpa cumftantiis , eam quæ eft , quis , quam perfonæ tia titur , Quispada cicina his adſcribitur'; quibus obliſti obviarique non attribuit , ſecar in undecim partes. Nomen, ut in undecim poffit , neque tamen perſona ſint ; id enim in Verres , natura ut barbarus , victus utamicusno- partes. aliam conſtitutionem cadit. Sunt autem hæc, im- biliuin , perſona ut dives , ſtudium ut Geometra, prudentia , caſus, atque necellitas. cafus ut exul , affectio ut amans , habitus ut ſa Removeturverd criinen , cùm ab eo , qui in- piens, conſilium , facta , & orationes. Eáque cellitur, transfertur in alium . Sed remotio cri- extra illud factum dictúmque ſunt, quæ nunc minis duobus fieri modis poteft : fi aur cauſa re- in judicium devocantur. Reliquas verò cir fertur, aut factum . Caufa refertur , cùm aliena cumſtantias , quæ funt, quid , cur, quando,ubi, poteftare aliquid factum eſſe contenditur: faćtum quomodo , quibus auxiliis, in attributis negocio verò , cumalius aut potuiffe, aut debuiffe facere ponit. Quid, &cur, dicenscontinentia cum ipfo demonſtratur. Atque hæc in his maximè valent, negotio : cur, in cauſa conſtituens ; ea enim cauſa fi ejus nominis in nos intendatur actio, quòd non eſt uniuſcujuſque fa &ti , propter quam factaeſt * MSS.pottat fecerimus id , quod * oportuit fieri. Refertur cri Quid verò , ſecat in quatuor partes. În ſum- Quidfeceria men , cuin jultè in aliquem facinus commiſlum iam tacti , ut parentis occifio. Exhac maximè quatuorpars * MSS.com- effe * conceditur :quoniam is , in quem commif- locus fumitur amplificationis ante factum ; ut senditat. fum ſit , injuriofusfæpe fucrit, atque id quod in- concitus rapuit gladium : duon fit ; vehementer tenditur , meruit pati. percuſſit. Poſt factum ; in abdita fepelivit. Quæ Comparatio eft , cùin propter meliorem utilio- omnia cùın lint facta , tamen quoniain ad geſtum réinve rem factum , quod adverſarius arguit, negotiuin , de quo quæritur, pertinent, non ſunt commiffum effe defenditur. Atque hæchactenus: eafacta , quæ in attributis perſonæ numerara nunc de inventione tractandum eft. ſunt. Illa enim extra negorium , quòd extra poſi ta perſonam informantia fidem ei negotio præ De Inventione ſtant, de quo verſatur intentio : hæc verò facta, quæ continentia ſunt cum ipfo negotio,ad ipſuni Etenim priùs quidem Diale & icos dedimus, negotium ; de quo queritur, pertinent. nunc Rhetoricos promimus locos, quos ex attri Poftreinas verò quatuor circamftantias Cicero In perſona, butis perſonæ ac negotio venire neceſſeeſt. Per- ponit in geſtione negotii, quæ eſt ſecunda pars & negotio fona , quæ in judicium vocatur, cujus dictum ali- attributorum negotiis. Et eam quidem circuin quod factúmve reprehenditur. Negotium ; fa- ſtantiam , quæ eſt quando, dividit in tempus, ut putCie to Cuando , dia conftitute of. cum dictumveperfonæ , propter quod in judi- modò fecit; & in occaſionem ,ut cunctis dormien- in tempus, so cium vocatur. Itaque in his duobus omnis lo- tibus. Eam verò circunftantiam quæ eſt ubi , lo- in occafionč.. * MSS.excu- corum ratio conſtituta eſt ; quæ enim habent* re. cum dicit ; ut in cubiculo fecir : quomodo verò, ſarionis. prehenſionis occaſionem , eadem nili ad excuſabi ex circuinftantiis inoduin ur clain fecit : omnis loco . tum ratio > 1 582 Caffiodorus 1 mus. fed de vo 1 quibus auxiliis circumftantiam , facultatem ap- ita adhærebant , ut ſeparari non poſſint;ut locus, pellat, ut cuin multo exercitu. Quorum qui- tempus , & cætera , quæ geſtum negotium non dem locorum & fiex circumſtantia rerum , natu- relinquunt. tulis diſcretio clara eft :nos tarnen benevolentiùs Hæc verò , quæ ſunt adjuncta negotio , non in faciemus, ſi uberiores ad ſe ditferentias oſtenda- kærent ipſi negotio , ſed accedunt circuinitantiis, & tunc demum argumenta præſtant, cùm ad com Nam cùm ex circumſtantiis alia M. Tullius parationem venerint : ſunant verò argumenta propofuerit effe continentia cum ipfo negotio: non ex contrarietate , fed ex contrario ;& non alia verò in geſtione negorii , atque in continen- ex ſimilitudine, ſed ex ſimili, ut appareat ex re tibus cuin ipſo negotiv : illum adnurneraverit lo- latione ſumi arguinenta in adjunctis negotio ; & cum quem appellavit, duin fit sex ipſa prolatio- ea eſſe adjunéta negotio , quæ funt ad ipſum , de nis fignificatione idem videtur elle locushic,dum quo agitur ,negotium affccta. fit, cum eo , qui eſt in geſtionenegotii; ſed non Conſecutio verò , quæ pars quarta eft eorum , ita sft : quia dum fit , illud eft , quod eo tempore quæ negotiis attributa ſunt, neque in ,iplis ſunt açimiſum eſt , dum facinus perpetratur, ut per- rebus, neque rerum ſubſtantiam relinquunt,ne ouſſit. Ingetione verò negotii, ca ſunt, quæ & que ex comparatione reperiuntur: ſed rem geftam ante factum , & dum fit, & poft factum , quod vel antecedunt , vel etiam conſequuntur. Atque eſtum eſt continent;in omnibus enim tempus, hic locus extrinſecus eſt. Primum eniin in eo . locus, occafio ,modus, facultas inquiritur, Rur- quæritur id , quod factum eſt, quo nomine ap ſus dum fit, factuin eft, quod adininiftratur, eft pellari conveniat : in quo non de re , negotium :qux verò funt in geſtione negotii, non cabulo laboratur. Qui deinde auctores ejus facti ſunt facta, fed facto adhærent ; in illis enim, teni- &inventores , comprobatores, atque æinuli, id pus, occaſionem , locum , modum , facultatein, totum ex judicio , & quodam teſtimonio extrin facta eſſe conſenſerit : fed , ur dictum eſt , qux ſecus políto , ad ſublidium confluit argumenti. cuilibet facto adhærentia fint , atque in nullo Deinde &quæ ejus rei ſit ex conſueto pactio , ju modo derelinquant: quia quadam ratione ſubje- dicium , ſcientia , artificium . Deinde natura cta funt ipſi, quod geſtum eſt , negotio. ejus, quid evenire vulgò ſoleat: an inſolenter & Item ea quæ funt in geſtione negotii, finchis, rardhomines id ſuâ auctoritate comprobare, an quæ funtcontinentia cum ipfoncgotio , eſſe poſ- offendere in his conſueverint; &cætera quæ fas funt. Poteft eniin & locus , & tempus, &oc- ctum aliquod fimiliter confeftim , aut intervallo cafio , & modus, & facultas facti cujuſlibet intel- folent conſequi : quæ neceſſe eſt extrinſecus po ligi , etiamſi nemo faciat , quod illo loco ; vel fita ad opinionein inagis tendere , quam ad ipfam , temporc, veloccaſione, vel modo, vel facultate rerum naturam. fieri poſſet. Itaque ea quæfunt in geſtione nego Itaque in hæcquatuor licet negotiis attributa, tii, line his quæ ſuntcontinentia cum ipfo nego- dividere ; ut fint partim continentia cum ipſo ne tio, effe poffunt. Illa verò line his eſſe non pof- gotio , quæ facta eſſe ſuperiùs dictum eſt : partim ſunt; facèum enim præter locum , tempus, occa- in geſtionenegotii, quæ non effe facta , fed factis fionem , modum , facultatémque efle non pote- adhærentia dudum monſtravimus: partim adjun rir. Atque hæcfunt , quæ in attribucis perſona eta negotio ; hæc , ut dictum eſt , in relatione ac negotio confiftunt, velut in Dialecticis locis ponuntur: partim geſtum negotium conſequun ea , quæ in ipfis cohærent , de quibus quæritur: tur ; horum fides extrinſecus fuinitur. Ac de reliqua verò quæ vel funt adjuncta negotio , vel Rheroricis quidem locis ſatis dictum . negotium geſtuin conſequuntur, talia ſunt, qua Nunc illud eſt explicandum , quæ ſit his ſimi-. Quid fat diain Dialecticis locis ca, quæ ſecundum Themi- litudocum Dialecticis, quæ veròdiverſitas ;quod hobertura corean ſtium quidem partim rei ſubſtantiam conſequun- cùm idoneè, convenientérque monſtravero ,pro- Dialecticisfa tur, partim funt extrinfecus , partim verſantur poſiti operis explicetur intentio. Primò adeo ut militudo ,que in mediis ; ſecundum Ciceronem verò inter affe- in Dialecticis locis , ficut Themiſtio placet , alii verè diverfi &a numerara ſunt, vel extrinſecus polita ." funt, qui in ipſis hærent, de quibus quæritur: tab. Sunt enim adjuncta negotio ipfa etiam quæ fi- alii verò affumuntur extrinſecus , alii verò inedii quajiilem fa dem faciunt quæſtioni , affecta quodammodo ad inter utroſque locati ſunt; ſic in Rhetoricis quo cinn gafiio. id , de quo quæritur, reſpicientia negotium , de que locis , alii in perſona atque negotio conſi quo agitur , hoc modo. Nam circumſtantix ſtunt, de quibus ex adverſa parte certatur: alii feprem quæ in attributis perſonæ , vel negotio, verò extrinfecus , ut hi qui geſtum negotium con numeratæ funt, hæc cum cæperintcomparari,& fequuntur : alii verò medii. quafi in relationem venire , fi quid ad ſe conti Quoruin proximi quidem negotio funt hi , qui nens referatur, vel ad id quod continet , fit aut ex circumſtantiis : reliqui in geſtione negotii ſpecies, aut genus: fi id referatur,quod ab eo lon- conſiderantur. Illi veròqui in adjunctis negotio gillime diſtet, contrariun : at ſi ad finem ſuum collocantur, ipſi quoque intermedios locos pos atque exitum referatur , tum eventuscft. liti ſunt: quoniam negotium , de quo agitur, qua Eodem quoque modo ad majora , & minora, dam affectione refpiciunt. Vel fi quis ea quidem & paria comparantur. Atque omnino tales loci quæ perſonis attributa ſunt, vel quæ continentia in his quæ funt ad aliquid conſiderantur. Namn ſunt cum ipfo negotio , vel in geſtione negotii majus,autminus, alit lunile , aut æquèmagnum , conſiderantur; his lumilia locis dicat, qui ab ipfis aut diſparatum , accedunt circumſtantüs, quæ in in Dialectica trahuntur, de quibus in quæſtionc attributis negotio atque perſonæ numeratæ ſunt ; dubitatur. Conſequentia verò negotio ponat ex ut dum ipfæ circumftantiæ aliis comparantur, fiat trinſecus. Adjuncta verò inter utrumque conſti ex iis argumentum facti dictive, quod in judi- tuat. cium trahitur. Diſtat autem à ſuperioribus, quòd Ciceronis verò diviſioni hoc modo fic fimilis, ſuperiores loci , vel facta continebant , vel factis Nam ea quæ continentia ſunt cum ipſo negocio , Sunt adjun Eta ucgorio, ni, 1 De Dialectica. 583 1 1 ! 1 0 1 1 Dialecticus verò non ita velea quæ in geſtione negotii conſidecantur, in do aliquid ſpecialiter probant, ad Rhetores,Poë ipſis hærent, de quibus quæritur. Ea verò , quæ tas, Juriſperitóſque pertinent. Quando verò ge adjuncta ſunt , inter affecta ponuntur. Sed ea quæ neraliter diſputant,ad Dialecticosattinere manis geitum negotiuin conſequuntur , extrinfecus feſtum eit. collocata ſunt. Vel Gi quis ea quidem , quæ con Mirabile planè genusoperis, in unum potuiſſe tinentia ſunt cum ipfonegotio , in ipſis hærere colligi , quicquid mobilitas ac varietas humanæ arbitretur :affecta verò effe ea,quæ funt in geſtio- mentis in fenlîbus exquirendis per diverſas cauſas ne negotii , vel adjuncta negotio : extrinfecus porerat invenire ; concludi liberuin ac volunta verò ea , quæ geftum negotium conſequuntur. riun intellectum . Nam quocumque ſe verterit, Nam jam illæ perfpicuæ communitates", quod quaſcumque cogitationes intraverir, in aliquid quidem ipſi penè in utriſque facultatibus verſan- corum quæ prædicta ſunt , neceſſe eſt ut huma tur loci, ut genus, ut pars, ut ſimilitudo, ut con- num cadat ingenium. trarium , ut majus, ac minus. Decommunicati Illud autem competens judicavimus recapitu bus quidem ſatis dictum . lare breviter , quorum labore in Latinum elo Differentiæ verò illæ funt , quòd Dialectici quium res iftæ pervenerint ; ut nec auctoribus etiam thelibus apti funt : Rhetorici tantùm ad gloria ſua pereat, & nobis pleniffimè reiveritas hypotheſes, id eft, quæftiones informatas circum- innoteſcat. Iſagogen tranſtulitPatriciusBoëtius, ftantiis affumuntur. Nain ſicut ipfæ facultates à commenta ejus gernina derelinquens. Cate femetipfis univerſalitate , & particularitate di- gorias idem tranſtulit Patricius Boëtius , cujus ſtinctæ ſunt : ita earum loci ambitu , & contra commenta tribus libris ipfe quoque formavit. ctione diſcreti ſunt. Nam Dialecticorum loco- . Peri herinenias fuprà inemoratus Patricius tran rum major eſt ainbitus ; & quoniam præter cir- ftulit in Latinum : cujus commenta ipſe duplicia cumſtantias funt quæ fingulares faciunt cauſas, minutillimâ diſputatione tractavit.Apuleius verò non modò ad theſes utilesſunt, verumetiam ad Madaurenſis ſyllogiſmos categoricos breviter argumenta, quæ in hypothefibus polita ſunt, eof- enodavit. Suprà memoratus verò Patricius de que locos qui ex circumftantiis conſtanc,claudunt fyllogiſmis hypotheticis lucidiflimè pertractavit. atque ambiunt. Itaque fit; ut ſeinper egeat Rhe- * Topica Ariftotelis,uno libro Cicero tranſtulit in Hæcdefuitin tor Dialecticis locis? Dialecticus verò fuis poflit Latinum , cujus commentaprofpe & oratque ama- MSS. effe contentus. tor Latinorum Patricius Boëtius octo libris expo Semper eget Rherorenim quoniam cauſas ex circumſtantiis fuit. Nam & prædictus Boëtius Patricius eadem* Rhetor D4- tractat, ex iifdem circumftantiis argumenta præ- "Topica Ariſtotelis octo libris in Latinum vertic lecticislocis , fumit, quæ neceſſe eſt ab univerſalibus, & ſupli- eloquiun. cioribus confirmari, qui ſunt Dialectici. Diale &ti Confiderandum eft autem , quòd jam ,quia lo cus verò, qui prior eft, polteriore non eget , nifi cus ſe attulit in Rhetorica parte , libavimus quid aliquando incideritquæftio perfonæ ; ut cuin fit interſit inter artein & diſciplinain , ne ſe diver incidensDialectico ad probandam fuam theſim, fitasnominun permixta confundat. Interartem Que fa diften Cáufam circumſtantiis inclufam , tunc demum & diſciplinai Plato , & Ariſtoteles , opinabiles artem dif Rhetoricis utatur locis . Itaque in Dialecticis lo- magiftri fæcularium litterarum , hanc differen- ciplinam ſee ' cis ( fi ita contingit) à genere argumenta fumun- tiam eſſe voluerunt , dicentes : Arrem cflc habitu- cundem Plaa tur ,id eft , ab ipſa generis natura : fedin Rheto- dinem operatricem contingentium , quæ fe & Sonem ricis ab eo generequod illi genus eſt, de quo agi- aliter habere poffunt: Diſciplina verò elt , quæ Vide prefer tur; nec ànatura generis, ſed à re fcilicet ipſa ,quæ de his agit , quæ aliter evenire non poffunt tionem Nunc ergo ad Mathematicæ veniamus initium . Sed ut progrediatur ratio , ex eo pendet, quòd natura generis antè præcognita eſt; ut fi dubite De Mathematica. tur , an fuerit aliquis ebrius, dicitur , fi tefellere velimus, non fuifle : quoniam in eo nulla luxu- ' Mathematica , quam Latinè poſſumus dicere luid fitMara ries antecefferit. Idcirco nimirum , quia cum ku- doctrinalem , ſcientia eſt , qux abſtractam con- in quas para xuries ebrietaſis quaſi quoddam genus fit , cui fiderat quantirarem . Abſtracta enim quantitas tes dividalun luxuries nulla fuerit , ne ebrietas quidem fuit : dicitur, quâ intellectus à materia ſeparátur, vel ſed hoc pender ex altero. Cur enim fi luxuries ab aliis accidentibus ; ut eſt par, impar , vel alia non fuit , ebrietas eſſe non potuit , ex natura ge- hujuſcemodi, quæ in ſola ratiocinatione tracta neris demonftratur , quod Dialectica ratio ſub- mus, hæc ita dividitur ” miniſtrat. Unde enim genus abeft , inde etiain fpecies abelle necefle eft:quoniam genus fpecics r Arithmeticain, non relinquit. Ec de fimilibus quidem , & de contràriis , eo Muſicam . Diviſio Matheina dem modo , in quibus maxima ſimilitudo eft in ticæ in ter Rhetoricos ac Dialecticos locos : Dialectica Geometriam . . eniin ex ipſis qualitatibus , Rhetorica ex quali 1 tatem ſuſcipentibus rebus argumentaveſtigat; ut Aſtronomian . Dialecticus ex genere , id eft , ex ipfa generis na tura : Rhetor ex ea re , quæ genuseft. Dialecti Arithmetica; eſt diſciplina quantitatis numera Quid fit cus ex ſimilitudine, Rhetor ex funili, id eft , ex bilis fecuuduin ſe . Aruthinetica. ta re , quæ fimilitudinem cepit. Eodem modo Mufia eſt diſciplina , quæ de numeris loqui- QuidMufica. ille ex contrarietate , hic ex contrario. tur , qui ad aliquid ſunt his , qui inveniuntur in Memoriæ quoque condendum eft, Topica Ora- ſonis. toribus , Dialecticis, Poëtis, & Juriſperitiscom Gcometria , eſt diſciplina magnitudinis immo- Quid Geomes muniter quidem argumentapræftare: fed quan- bilis & fornarum . rentia inter genus eſt, trii 384 Caffiodorus 1 didit. Inns. Quid fis A. Aſtronomia, eft diſciplina curſus cæleſtiain (i- tergunt, &ad illam inſpectivain contemplatio fronomia. derum , quæ figuras conteinplatur omnes , & ha- nem , fi tamen ſanitas mentis arrideat, Domino bitudines ftellaruin circaſe , & circa terram inda- largiente , perducunt .' gabili ratione percurrit. Quas ſuo loco paulò la Scire autem debemus Joſephum Hebræorum Abraham ciùs exponemus , ut commemoratarum rerum doctiſſimum , in libro primo Antiquitatum , ritu- primim Aris virtus competenter poffit oftendi. Modò de dif- lo nono dicere ,Arichinericain , & Aſtronomiam ihmeticamen ciplinarumnominedifferainus. Abrahain primùm Ægyptiis tradidiffe ; unde ſe Aftronomien Diſciplina Diſciplinæ ſunt, qux , licut jam di & um eft, mina ſuſcipientes ( utfunt hoinines acerrimi in Ægypainte nunquam nunquam opinionibus deceptæ fallunt ; & ideo genii) cxcoluiffe ſibi reliquas latiùs diſciplinas. opinionibus cali nomine nuncupantur,quia neceffariò ſuas re- Quasmeritò fan &i Patres noftei legendas ſtudio deceptæ fal gulas ſervant. Hænec intentione creſcunt,nec fillinis perſuadent: quoniam ex magna parte per Iubductione minuuntur , nec aliis varieratibus eas à carnalibus rebus appetitus noſter abſtrahi permutantur : ſed in vi propria permanentes, re- tur, & faciunt deſiderare , quæ, præftante Do gulas ſuas inconvertibili firmitate cuſtodiunt. mino , ſolo poſſumus corde reſpicere. Quocirca Has dum frcquenti meditatione revoluimus, fen- tempus eſt , ut deeis ſingillatin ac breviter diſſe Cum noftruin acuunt , limúmque ignorantix de- rere debeamus. CAPUT QUARTUM De Arithmetica C49 Arith metica inter Scriptores fæculacium litterarum interdiccipli- faru efleformata ;attamennulla corum ,prætet Mathemati cas diſcipli metiiam eſſe volucrunt:propterea quòd Mufica, Credo trahens hoc initium , ut multi philoſo mis prima ju . & Geometria, &Aſtronomia , quæ fequuntur, photum fecerunt , ab illa ſententia prophetali, Sam 11. 21 . indigent Arithmetica , ut virtutes ſuas valeant ex- quæ dicit : Omnia Deum menſura, numero , & plicare. Verbi gratia ,ſimplum ad duplum , quod pondere difpofuiſſe habet Muſica , indiget Arithmetica : Geometria Hæc itaque confiftit ex quantitate diſcreta, čHY Arish verò , quod habet trigonuin , quadrangulum ,vel quæ parit genera numerorum , nullo fibi com- metice conf his funilia, item indiget Arithmeticas Aſtrono- munitermino ſociata. V. enim ad x. vi. ad iiii . vii. lidt ex quar mia etiam , quòd habet in moru liderum nuineros ad iii. per nullam coinmunein terminuin alteru- titate difcre punctorum , indiget Arithinetica. Arithmetica trâ fibi focietate nectuntur. Arithmetica vecò di sa. Pithagora verò , urlit, neque Muſica , neque Geometria, citur, co quòd numeris præeſt Numerus verò, merica dica Arithmetia neque Aſtronomia egere cognoſcitur. Propterca cft ex inonadibus multitudo compofita; ut iii. V. tur,& que camlan.c. hisfons, & måter Arithmetica reperitur ; quam X. xx . & cætera. Intentio Arithmeticæ elt doce- fit ejusinsects diſciplinam Pythagoras fic laudalle * probatur; re nos naturam abſtracti numeri, & que ei acci- tio. uromnia ſub numero , & menfura à Deo creata dunt ; ut verbi gratia, parilitas , impacilitas , & firatur. fuiſſe incinoret, dicens : Alia in motu , alia in cætera. Cur Arith vit . * Ed. mon s Paritei pat. Pariter impat. Impariter par Prima diviſio numera Tvel par , qui eſt Numerus, qui congre gatio monaduneſt, ľ Primus& ſimplex. vel iinper, qui eſt. Secundus & compoſitus. Tertius mediocris , quiquodam modo primus, & incompoſitus, alio verò modo ſecundus , & ( compofitus. Quid fit Par Par numerus eft , qui in duas partes æquales verbi gratia, xxiiii , in bis xii : xii, in bisyi:ſexo dividi poteft; ut ii. iii. vi.viii . x. & reliqui. in bis tres , & ampliùs non procedit. Quid impar. Impar numerus eſt, qui in duas partes æquales Primus & fimplex numerus eft, qui monadi- Quid primit dividi nullatenus poteft, ut iii. v. vii. viiii. xi.& c cammenſuram ſolam recipere poteſt ; ut verbi & implex reliqui. gratia iii . v. vii . xis xiii. xvii. & his finilias Quidpariter Pariter par numerus eſt, cujus diviſio in dua Secundus & compoſitus numerus eft , qui non Quid fecur par bus æqualibus partibus fieri poteſtuſque ad mo- folùm monadicam menſuram , ſed &arithmeti doto come nada ; ut verbi gratia lxiüi. dividitur in xxxii ; cam recipere poteſt; ut verbi gratia, viiii. xv. xxi. poftmo xxxii , in xvi : & xvi, in viji : viii in iii :üii, & his ſimilia . in duo : ïi , verò in i. Mediocris numerus eſt, quiquodam modo fim Quid pariter Pariter impar numerus eſt , qui fimiliter fo- plex & incompoſitus efle videtur, alio verò ino- cris impar. lummodo in duas partes dividi poteft æquales; do fecundus & compoſitus , ut verbi gratia , viiii. utx , in v : xiiii , in vii : xviii , in viiii.& his fi- ad xxv . dum comparatus fuerit , primus eft & milia. incompoſitus: quia non habet communem nu Quid impari. Impariter par nuinerus eſt, qui plures diviſio- merum , niſi ſolum monadicum : ad xv . verò li nes , ſecundùm æqualitatem partium dividere comparatus fuerit , ſecundus eft & compofitus: poteft, non tamen uſque ad allem perveniat; ut quoniam ineſt illi communis numerus præter monadi. Quid Media ter par De Arithmetica. 383 mõnadicum , id eſt , ternarius'numerus, qui no- fexta pars, duo :quarta pars ,tria : tertia pars,iii: vein menſurat terterni , & xv . ter quini. & duodecima pars unum ; qui oinnes aſſumpti fiunt xvi. Altera divifio , de paribios, do imparibues Indigens nunerus eſt , qui & ipſe de paribus QuidIndigãs. numeris . deſcendit , quantitatis fuæ ſummain partiuin in feriorem habet ; ut viii. cujus medietas , iiii : [ aut ſuperfluus. quarta pars , ii : octava pars , i ; quæ fimul con gregatæ partes fiunt vii. aut par eſt. < aut indigens. Perfectus numerus eft , qui taten & ipfe de QuidPerfe Numerus. paribus deſcendit : is dum par ſit, omnes partes aut impar. į aut perfectus. Taas ſimul aſſumptas , æquales habet ; ut vj. cu jus medietas , tria : tertia pars, ij : vj. pars únum . Quid Sriper. Superfluus numerus eſt, qui deſcendit de pari- Qux aſſumptæ partesfaciunt ipſum ſenariumnus fluis. bus, is dum par ſit , ſuperfluas partes quantitatis merum fuæ habere videtur ; ut xii , habetmedietatem vie. Cassiodoro. Keywords: dialettica, Squillace, i geti e i goti – teodorico, eteodorico, virtu bellica, ardore guerriero, pagenesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cassiodoro” – The Swimming-Pool Library.

 

CASTRUCCI (Monterosso al Mare). Filosofo. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di La Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi, laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di ricercatore universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena.  I suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo, le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. Castrucci ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso della sua ricerca  ha approfondito in particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”, “forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione, o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi della cultura del primo Novecento.  Accade in questo quadro che il primato classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma. Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro voci, che Castrucci analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del diritto.  Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di potenza si possono infine riconoscere, secondo Castrucci, le linee di un'antropologia politica fondata su basi individualistiche (potenza come acquisizione di spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che però non trascura il serio problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore dottrina costituzionale tedescadel radicamento materiale e simbolico del singolo individuo nella comunità politica di appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento individuale e comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il riferimento all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento, elaborata da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.  L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare, seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura, una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla "nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di Castrucci, la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste, l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas, nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un mito politico nell'età del nichilismo compiuto.  Hanno suscitato polemiche alcuni suoi tweet, a partire da uno pubblicato il 30 novembre  col quale si riferiva a figure storiche naziste come Adolf Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di Castrucci "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo la diffusione di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri, ritenuti di matrice filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica affermando di aver semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi, al di fuori della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero e successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore, sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena Francesco Frati ha preso le distanze da Castrucci, annunciando di aver "dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in procura dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole del docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di negazionismo. Dopo la sospensione, Castrucci non si è presentato alla Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare sul suo caso[33], mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la decisione, Milano, Giuffrè Editore); Considerazioni epistemologiche sul conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del diritto pubblico di Carl Schmitt, Torino, G. Giappichelli Editore); Hume e la proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto, Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli 101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo, Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni in Georges Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Emanuele Castrucci, Milano, Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi; Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale, Emanuele Castrucci, Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del 'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica,  15, Il Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento, Milano, Giuffrè);  Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma, potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè). Emanuele Castrucci. Keywords: il guerriero indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica, l’implicanza di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica. ; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library.

 

CATALFAMO (Catania). Filosofo. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’! Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he, along with a few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a critical personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to hope. Della corrente del "personalismo storico o critico".  Si laurea in Pedagogia e in Scienze Politiche. Prima assistente volontario di Galvano Della Volpe (che definisce unico filosofo a livello di Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si era formato alla scuola di Gentile, del quale era stato assistente), e suo collaboratore dal 1946, diviene libero docente, incaricato di Pedagogia e infine ordinario di Pedagogia. Fonda e diviene direttore dell'Istituto di Pedagogia all'Messina.  Il suo pensiero si snoda in quattro fasi: dell'epistemologo, del personalista storico ed antidogmatico, dello scettico, dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu Assistente di ruolo di Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi", fondata dai suo maestro La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico, concepito, e nel tempo modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione anche didattica. Nel suo personalismo, che ha come principi critici la storicità, la trascendenza e la problematicità "egli rintraccia nuovi aspetti... e incomincia a fare i conti con la storia e le sue fenomenologie", " il personalismo... lentamente ma inesorabilmente si qualificherà come «storico»; la persona assume una significanza fenomenologica di unità... in costruzione", "Catalfamo collega l'esserci e il farsi della persona al flusso della realtà oggettiva, nel doppio senso: nell'influenza e stimolazione di questa verso quella e della trasformazione della realtà oggettiva ad opera della persona". "L'uomo come soggetto agente impedisce che l'esperienza sia un limite, cerca di oltrepassarla vedendo in essa quello che non è e quello che potenzialmente è. La persona, dunque, è una realtà trascendente". L'aspetto problematico del suo pensiero, infine, fa riferimento alla "posizione stessa della persona, la quale, costituita nell'esperienza, è radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo per la persona è sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel mondo".  Catalfamo è stato fondatore e direttore della rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta; fondatore e direttore di "Prospettive pedagogiche", dal 1964 fino al 1988.  È stato anche Prorettore dell'Messina. Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la Medaglia d'oro al merito della Scuola, della Cultura, dell'Arte. Il 12/02/, la Giunta del Comune di Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi dell'Università, all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta una solenne cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa commemorativa, che riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato intitolato un Istituto Comprensivo.  Altre opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia, "Biblioteca dell'educatore", AVE, Milano Marxismo e Pedagogia, Avio, Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno di una pedagogia personalistica, Sessa, Messina Personalismo pedagogico, (1958), Armando, Roma La pedagogia contemporanea e il personalismo, Armando, Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I fondamenti del personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina Elementi di psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente, Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione con M. Vitetta), Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento (in collaborazione con Salvatore Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo spiritualismo pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età evolutiva (in collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS, Messina L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni della pedagogia, Milella, Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La Scuola, Brescia L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore, Cosenza Educazione della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento, Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove Ipotesi" a. IV,  246–248, D.U.E.M.I.L.A., Palermo. Il personalismo Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Elzeviro Catalfamo. Il personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: il concetto di persona, la transubstanziazione dell’umano nella persona, identita personale, il concetto di persona, pronome personale, la prima persona duale --, il ‘noi’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo” – The Swimming-Pool Library.

 

CATENA (Venezia). Filosofo. Grice: “I love Catena – of course he thought he was being an Aristotelian – and the confusing title he gave to his philosophising – Universa loca Aristotelis’ would have you think that – but he is a thorough Platonist – consider ‘pulcher’ as applied to Alicibiades – but ‘pulcher’ gives ‘pulchrum,’ an universal --!” Precursore della rivoluzione scientifica rinascimentale e indaga i rapporti tra matematica, logica e filosofia, occupando la stessa cattedra in seguito occupata da Galilei. Filosofo, eccellente conoscitore del latino. Lettore pubblico di metafisica a Padova. Gli succedettero Moleti, poi Galilei.  Pubblica a Venezia “Universa loca in logica Aristotelis in mathematicas disciplinas” -- la raccolta dei brani delle opere aristoteliche che riconoscevano il prevalente carattere speculativo del sapere matematico, tema a cui dedicò anche un'altra opera. Altre opere: “Super loca mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis”; “Astrolabii quo primi mobilis motus deprehenduntur canones” (Impressi Paduae, Giacomo Fabriano); “Oratio pro idea methodi” Patauij, Grazioso Percacino). Agostino Superbi, Trionfo glorioso d'heroi illustri, et eminenti dell'inclita, & marauigliosa città di Venetia, per Euangelista Deuchino. Domus Galilæ Biografia universale antica e moderna ossia Storia per alfabeto della vita pubblica e privata di tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti; Catalogo breue de gl'illustri et famosi scrittori venetiani, presso gli heredi di Giouanni Rossi; Le filosofie del Rinascimento, B. Mondadori); Alle radici della rivoluzione scientifica rinascimentale: sui rapporti tra matematica e logica. Con riproduzione dei testi originali, Domus Galilæana. On this subject Catena wrote two works , in one of which , Universa Loca in Logica Aristotelis in Mathematicas Disciplinas , Venice , 1556 , he tried to supply the lost mathematical basis for Aristotle's theory of demonstration as explained in the Posteriora Analytica. Pietro, in Dizionario biografico degli italiani. PETRVS CATHENA ARTIVM ET THEOLOGIAE DOCTOR , PROFESSOR PVBLI. CVS ARTI VM LIBERALIVM IN GYMNASIO PATAVINO , SVPER LOCA MATHEMATICA contenta in Topicis & Elenchis Ariſtotelis nunc & non antea, in lucem ædita. ka CVM PRIVILEGIO , LOLOTILLON 0 V EN E TIIS Apud Cominum de Tridinum Montisferrati, M D L XI . > PETRVS CATHENA DOMINICO MONTE. SORO DOCTORI MEDL song CO EXCBLLBN TISSIMO OPICORVM libri din Elenchorum Ariſtotelis quædamloca obſcuriuſću la contincbant qnæ apud Gręcos philofophos erant in primis clara, & per ea co tera loca maiori difficulta ti inherentia declaraban tur , ob id autem illis con tingit , quod veritatis amatores & philoſophiæ principes videri apud exteras nationes cupiebant, quod & re ipfa tales exiſtimarentur, niſi furto å Caldeis, egiptijs, & alijs abſtuliſſent, id autem , alįe na ſua feciſſe, vitio non omni ex parte abeſt, La tini vero quidam auaritiæ fine præſtituto( latinos hoc loco voco cos qui litteris illisRomanis, vel voce, vel etiam fcriptis ſuos conceptus explicant) philoſophiæ extremis partibus ita incumbunt A vt ſemper lutuoli,verlantesin excrementa naturæ appareant, quod quidem laude dignum effet,fi vt præclară prolem, quemadmodú boni viri faciunt aliqui egros inuiſerent, quo igiturme uerterem in inuio, non erat conſilium ,ničí Reuerendus domi nus Laurentius Venetus ex nobis familia foſca . rena Canonicus Veronenſis, virum Dominicum Monteſorum Gręca ambitione & auaritia immu nem oftenderet, cui hæc noſtra loca immo Ari ſtotelis declarata dedico, quæ fi Ariſtotelis fco pum attigerint, vt exiſtimo & tibi fore grata co gnouero ad reliqua philoſophiæ Ariſtotelis loca declarandanon piger animus noſter erit , quod fi minus,cenſoriam amicorum virgam nonfugiet hæc noftra expoſitio,interimmegratum habeas. Vale. IN PRIMO CAPITE PRIMI LIBRI TOPIC ORVV M. I DETV Ř autem hic modus differre à dictis ſyle logiſmis nequeenim ex veris, &primis ratioci natur pſeudographus,neque ex probabilibus, nem in deffinitionem non cadit ; neque enim quæ omni . bus videntur accipit, neque quæ plurimu i ,neque qnæ fapientibus, & his neque omnibus neque plu . rimum, neque probatiſſimis; ſed ex proprijs quidem alicuiſcientie fumptis,non tamen veris ſyllogiſmumfacit ,nam vel.eo quod femi circulos deſcribit non vt oportet , vel eo quòd lineas aliquas dicit non vt ducendæ ſunt paralogiſmum facit. VNC textum declarant Greci, & Latini vſque ad locum illum quo Ariſtoteles exemplo vtitur Geo. metrico,ad quem locum pręclari expoſitores cum per uenerint Tantis Tinebris vinctum loris , & funibus reliquerunt Ariſtotelem , vt ab Alexandri tempore(vo reor) vſque modo, omnes qui illas preclaras interpretationes legea rint, illius loci notitia priuati fint, quos prçclaros expoſitores pro prio ſuo citarem nomine , vt amatores Ariſtotelis eos cauerent vt infames ſcopulos acróceraunię, fed eos prçtereo vt in hacparte inu liles, line Geometria logiculos , legantfine liuore & vafricia expo fitores illius lociomnes, & has noftras declarationes non quidem criſpis naribus, ſubinde iudicent,fi intellexerint, quanti ingenö fuit , ficut in cæteris ipſe Ariſtoles , hæc citra in Alatas buccasdixiſſe ve lim , quiſquevt intelligat, fed vt litterarum aliquando illuſores re primantur pariterque eorum indocta audatia, fufcipiatur igitur re cta linea, a bquę feccetur quomoçunque contingat in puncto c , & ſuper vtranearī a ccb, ſemicirculus,non vt primīī petitū docet, facto d centro vnius & e alterius deſcribatur perperā ſemicirculus a h c,alter chb, quiſeſe Tangantin puncto h ſuſcipiaturque centrū huius ſemicirculiah cipſum d , illius autem ch b ſit centrum e, a punctis igitur d ; & e,ſemicirculorum centris ducantur duæ lineæ ad h contactum , & intelligatur Triangulus d he , quoniam autem 3 5 dur'lineædc & dhexeunta centro ad circunferentiam ipfæ per dif finitionem circuli funt æquales, pariter per eandem definitionem duæ lineæ ec & ehſunt æquales , duæ igiturdc & ce duabus d h & eheruntæquales, duæ autem ille dc, ceſuntvnum latus trian guli dhe,ergo vnum latus d e trianguli d heeft æquale duobus la ceribus eiuſdem triangulidh & e h ,quod eſt impoſsibile contra vi gefimam primi elemērorum Euclidis,duo enim latera omnis trian guli quomodocunque ſumpta , ſunt maiora reliquo & non æqua lia, vtpſeudographo ſyllogiſmo machinabátur proteruus,hocau . cem vitium non ex coprouenerat qex falfis fyllogiſmus fic con fectus,quia ex veris , & immediatis, & exeodem ſcientię genere, vt ex definitione 17 primi elementorum ſyllogiſthus affectus eſt ,ſed error atque peccatum proceſsit ex co ofemicirculos defcribit non vt oportet, quod notauit nobiliſsimus geometra Ariſtoteles, fic 1 a 6 etiamhi qui falfo fyllogizant,vnum fatus trigonimaius eſſe duo bus reliquis trigoni lateribus, no vt oportet femicirculos diſcriben tes , fic.n.linca a b & puncta in ea ſuſcipiantur cd & circa vtranq ac , &db , rectam ſemiciruli deſcribantur fe inuicem tangentes in puncto e alter a ec cuius centrum f,reliquus bed cuius centrum g , &a centro fprotrahatur recta fe fimiliter a punctog protraliatur gerecta , tunc triangulusfe g habebit latus f g maius duobus lateribusfe, & ge, quod fic perſuadetur,lineafc eft æqualis lineæf e cum vtraque exeat,a centro ad circunferentiam , fimiliter linca g deft æqualis geeadem ratione , fi igitur c d linea addatur lineis fc, & dg, equalibusfe & gcefficiunt linea fg latus trigoni fe gma jusduobus lateribus fe, & ge quod eſt impoſsibile per 20 primi clemcntorum ,vel eo q lincas aliquas ducit non vi ducendæ funt d g paralogiſmum facit, ſi ducatur linea a centro fad centrum g , illa non tranfibit per contactum e,vtin hac fecunda figura apparet, ve linea abf,in g,non tranſit per punctum e vt oporteret, per xi tertij clementora Euclidis, fi duo circuli fe contingunt & acentro ynius ad centrum akerius recta ducatur linea illa de neceſsitate applicabi tur contractui, ex mala igiturdeſcriptione attulit Ariſtoteles exem plum de ſyllogiſmo falſigrapho , qui oſtenſiuo fyllogiſmo oppo . Situs eft . CAPVT CAPY T SEPTIMVM. SIMILITER vero e ſi cubilali magnitudinepoſita dixe rit, quod ſuppofitum eft cubitalem magnitudinem ere, eo quid eft dicit, & quantum fignificat. RES duorum generum propinquorum continuiatas diſcre. ti vnius tamen generis remoti &analogi, quantitatis videlicet, in vnacubitali magnitudine continetur,obid, duodicit, qui magnicu dinem cubitalem ,effe magnitudinem duorum cubitorum , &quid , quando dicit magnitudinem , et quantum , quando dicit,cubitorum duorum , hinc manifeftum eft in ynoquod prædicamento reperiri quid,vthoc Ariſtotelis exemplo patet demagnitudine,aliud eft no tandum , quomodo vnum accidens,vt duorum ,quod ad Arithme ticam pertinet,accidere magnicudini,quod ad Geometriam attineta CAPVT DECIMVMTERTIVM, QVAEDAM enim statim &nominibus alia ſunt,vtacu to in voce contrarium eſt graue, in magnitudine autem , acuto , obtufum contrarium est. Multiplicita - tem huius vocis # (acutumdemon Itrat Ariſtoteles, quia et angulum norar, & vocem , # US Angulus accutus rectominor & contrarius eft obruſo , &voxac cuta graui vociopponitur, et graui contrariatur accutum in voce, leue in ponderibusgraui oppugnāt. Sed dubitatur,cum quantitati nihil fit contrarium , quo pacto acuto angulo obtufus contrarius fit ? Dico quod angulus noneft quantitasfed ex quantitate quan . titati adiuncta proueniens accidit quãtitati vt fit accata vel obtuſa pariterque pondus &lauitas funt quidem magnitudiniadiuncta , fed no eſ pondus,et leuitas, quatitas, ſi contraria fint leue et graue. cantus IPSIvero queà conſiderando eft, quòd diameter cofta incom menfurabile , nihil. DEincommenfurabilitate coſtæ cum diametro abunde faris in pofterioribus declaraui,quantum vero adhunc locumattinet, Art ſtoteles inquit, non effe quippiam oppofitum ipfi incommenſura bilitaci,vrpura commenfurabilitas, inter coftam atque diametrum quadrati nihil contrarij eft,dubitatur,cum in præcedenti textu, ſit de terminatum,& ea quęaddita eránt magnitudini, vt pondus & leui tas contrariarentur,hæc autem quæ magnitudini coſtę & diainetro, vtincommenſurabilitas, non contrarietur commenſurabilitati? Reſpondeo, prius dicta cótraria pondus et leue in naturalibus reppe riebantur,hæcautem incommenſurabilitas in abſtractis geometria cis; Præterea, nonfuit dictum omnia quæ in magnitudinibus re periuntur eſſe contraria ,Pręterea & li opponanturcommenſurabi liincommenſurabile,non tamen contraria ſunt, vel etiam fi contra ria fint,non tamen ratione ſubſtractorum ,quçſuntquantitates,co fta & diameter, contraria effe dicuntur , potus enim fitinon eft nifi quodammodo contrarius, delectatio autem , quæ ex potu prouenit opponitur contrarie triſtitiæ , quæ prouenit ex fiti, Præterea graue & leweſuntabſoluta quædam in diuerfis ſubiectis poſita ſeorfim , incommenſurabilitas autem relatio eft ; quæ indiſcriminatim funda tur in coſta ,ad diametrum & in diainetro ad coftam . CON SIMILITER autem et acutum ,nam non eodem mo do in omnibus idem dicitur,nam vox acuta quidem velox ,quemad modum quidem dicunt ſecundum numeros armonici. NOTA dignnm eft hocloco conſiderandum , a vox hoc lo co non accipienda eft pro humana voce tantum , ſed pro ſono , qui quidem fita cordulis inſtrumentorum , nam gratilior corda fitan gatur plures aeris percuſsiones facit quain crafsior cordula , fiea dem vi moueatur, modo inter percuſsiones multas aeris cordulæ gratilioris ad percuſsiones cordulæ craſsioris fi inultitudine repere ris duplam ,diapaffon, fi fefqualteram , diapente , fi vero epitritam diateſaron, vt aiunt Armonici continentiam inuenies, quia tamen Ariſtoteles de generatione animalium libro quinto capite feptimo pucat concinentiam fieri ex alia caufa quam ex proportione illo, rum ſonorum numeratorum ad alios fonos numeratos,vt pytha . gorici volunt, ideodicit quemadmodum quidem, vt dicuntarmo nici, quia fententia Ariſtotelis alia atque diuerfa eft ab illis armoni cis, qui Pythagoræ affentiri videbantur, CAPITE DECIMO VARTO, ET quòd pun&tusin linea do vnitas in numero , nam vtrun . que eft principium . PRÍNCIPIV M lineæ punctus , principium autem nu merivnitas eſt, ſed punctus non componitlineam alős punctis ap pofitus,vtin pofterioribus demonftraui,vnitas vero cuin alñs vni tatibus numeruin conftituunt atque componunt, principium tamé lineç atque finis ,punctus eſt ex cuius fluxu linea fit vt Ariſtoteles in mechanicis & ego in diſcurſu geminico determinaui, non tamen linea ex punctis conſtat , LIBRO SECVNDO CAPITE SECVNDO. 2 VEL duplicis & dimidij. AN ſit ne eadein diſciplina duplicis atque dimidă conſiderare oportet, quod profecto allerere videtur ex capire de relatiuis, cum nemo ſciat duplum ,niſi cuius ſit duplum ſciueric, quod diinidium eft, fi pro relatiuis vtrunque ſuſcipiatur. HOC autem non ſemper faciendum , fed quando non facile pojumus communem in omnibus vnam rationem dicere, quemad modum Geometra quòd triangulus duobus rectis æquos isabet tres angulos. NVLLI id in controuerſiam venit, an omnis triangulus ha beat tres angulos duobus rectis æquales , ſed illud dubium eft,an id quod rectilineumeft,habens angulos duobus rectis æqualis,trian gulus ſir, velquid horuin in plus fe habeat, & non fit vtrunque ſe cundum q ipſum, ſed vniuerſalius fit, habereangulos duobus reo Ctis æquales, atque comunius,an potius triangulum effe, ad quam dübitacionein , dico quod duobusrectis pates habere angulos, eſt quid communius , quam efſetrigonum , id autem inanifeſtum eſt de pentagono , cuius quodlibet latus, duo ex reliquis lateribus fec cat latera , id autem per primam partem 32, primiElementorum bis fumptam & per fecundam partem eiuſdem zz. ſemel ſum pram, vt in figura ſubſcripta deduci facile eft, & fi habere tres çqua les duobus rectis conuertatur cum trigono,non tamen habere om nes angulos equales duobus rectis ,conuertitur cum effe trigonuir . Dico igitur, quod habere omnes angulos equales duobus rectis,co mune eſt ipſi trigono, & pentagono, cuiusvnum latus ſeccat duo ex reliquis latera , habet tamen penthagonus quinque equales tri bus, qui tres duobus rectis pares funt, & fic figuramihabentem B omnes angulos duobusrectis pares communius eft, quam fit trian gulus, non igitur eſt affectio trianguli neque angulorum triangu . li, fed quid communius trigono, vel tribus angulis trigoni, non eft igitur eius proprium ,quod videturfoluere dubium fuper textu mo tum ,fed affectio trianguli eft habere tantum tres equales duobus rectis,velęqualitas duobus rectis, conuenit tribus angulis figuræ triangulari, & non omnes angulos, elle çquales duobus rectis. VEL pt buius a fecundum lechu ius ſecundum acci dens, vt fecundum Se quidem quòd tri angulus duobus re b Etis æquales habeat tres angulos, ſecun . dum accidens autē, quòd æquilaterus, quoniam enim acci dit triangulo,& qui. laterum effe trian gulum , perhocco gnoſcimusquòdduo bus reétis habeat internos. QVIDAM interprætes fic perperam exponunt Ariſtotele , quod habere tres duobus rectis pares,ipfi triangulo per ſe infit,ipfi vero Iſoſcheli cõuenit quidem habere tres duobus rectis parcs, ſed non per ſe,ſed per accidens , fic vt hæc predicatio , Iloſcheles habet tres duobusrectispares, ſit accidentalis,hec quidem ſua interprę. tatio & nulla eſt, &nullo modo ad Ariſtotelis textum facit, quod nulla fit, & falfa, manifeſtum eſt ex capite de per fe in poſteriori. bus, quia quod enim ſuperiori per fe ineft &inferiori pariter per ſe ineſt, ineſt tamen ſuperiori perfe & primo, inferioriautem , per ſe fed non primo. Aliter igitur exponendus venit is textus , primo igitur aduertendum quod circa idem ſubiectum fit prædicatio per fé & per accidens, vtpura circa triangulum , per fe quidem fic, tri angulus habet tres duobus rectis pares, per accidens vero ſic, trian gulus eſt Iloſcheles; vbi aduertendum ,vtin præcedentibus libris declarauit Ariſtoteles,omne inferius ſuo ſuperiori accidens eſt,cum abeffentia fuperioris omnino fecludatur inferius, & vt alienum a fui natura ſibi conueniat. LIBRO QVARTO. CAPITE PRIMO SIQVIS infecabiles ponens lineas , indiviſibile genus earum dicat eſſe , nam linearum habentium diuifionem non eft quod di Etum eſt genus, cumſint indifferentes ſecundum ſpecicm , indiffe-, rentes enim ſibi inuicem fecundum fpeciem rectæ lineæ omnes. TRACTATVS quidem de lineis infecabilibus extat,e greco latinitati donatus quem Ariſtotelis quidem effe exiſtimant, tametfi Georgii pachimerñ nonnulli effe dicunt, quod, quia cuiuf cunque fuerit,non facit ad expofitionem litteræ affequendam , me rito prætermitto auctorem fore inueſtigandum ,vt Ariſtotelis decla rationi infiftamus, pro quo in memoriam reuocandī eft id, quod Porphyrius habet, ſuperius genus de inferioribus ſpeciebusneceſe, fario predicari, quod fi de illis non prædicauerit,neque ad illas, illud eſſe genus manifeſtum erit, quapropter fiquis inſecabiles poſuerit lineas,atque ad illas genus id, quod eft indiuifibile,effe dicat,ftatim in contradictionem reducitur,ob id , quia ,diuiſibile,genus eſſe ad li ncas conſtat,modo lineas omnes eandem deffinitionem ſuſcipien . tes,eiufdem ſint fpetiei, fieri autem nequit , vt aliqua eiuſdem ſint ſpeciei, & genere fint diuerfa, quod quidem contingeret, fi indiuifi bile,ad lineas aliquas, genus effe diceretur,tunc enim indiuiſibile di ceretur de lineis infecabilibus p hypothefim cũ fic ſupponatur ( fal ſo tamen ) ad illas eſſe genus, & etiam de alñs, quæ per 10. primi Elementorum ſecabiles ſunt cum etiam adillas ſit genus, quod qui dein efle, nullo modopoteft, propter contradictionem , CAPITE SECVNDO. ET ſi differentiam ingenere poſuit tam quimſpeciem ,vt im par quidem numerum , Differentia quidem numeri, impar, & non ſpeties eſt, neque videtur participare differentia genus,nam omane quod eft, genus, velfpeties, vel indiuiduum eſt, differentia autem , neque fpeties, neque indiuiduum , manifeftum igitur quoniam non participat genus differentia , quare neque imparopetieserit , fed differentia quoniamnon participat genus. B ñ 9 tra NVMERV S quieſt ex vnitatibus profuſa multitudo,paro ; titur in numeruin imparem , &in numerum parem , vel perhas differentias diuiditur, quę ſunt, paritas, & imparitas, quarum neu includit numerum, qui genus eſt ad omnes numeri ſpecies,& fi ifta vera fic,rationale et animal, quando ly rationale accipitur pro Specie, quæ homo eft, & non pro rationalitate in abſtracto, qux eſt hominis conſtitutiua differentia ,eodem modo, & numerus prædi catur de pari in concreto & non de abſtracta paritare, hęcenin & fimiles illi, ſunt ſemper falle, paritas eſt numerus, vel imparitas eſt numerus,quodquia oinnia manifeſta , & nora Ariſtoteles cíle vo . luit, exemplo arithmetico declarauit, A 11 PLIVS ſi genus in petie pofirit, vt contiguitatem id ipſum quod eſt continuitatem , non enim neceſſariuin contingui. tatem continuitaternelle, led e conuerſo , continuitatem contigui tatem non enim omne contiguum continuatur, led quod cortina tür contigurn eft. CONTINVVM illum effe dico cuius partes copulantur ad terminuin vnum communem, qui quidem terminus elt tantuin potentia inter illas partes ipſius continui, nõ etiam actu, &opere, vt linea lineæ continuatur per punctum , qui non actu exiſtit, ſed tantum potentia inter illas duas lineas , velinter duas partes linex , quod & de partibus ſuperficiei , quæ per lineam in potentia copu lantur, &corporis partes, per ſuperficiem in potentia, Contiguum autein illud effe dico , quod alteri applicatur & iungitur non per mediuin potentia exiſtens,fed per mediuin quod actu & opere exi 1tit, vt manifeſtum eſt de cæleſtibus orbibus , concaua eniin ſuperó ficies ſuperioris orbis augem defferentis, & fuperficies connexa or bis differentis epy ciclum ſunt due ſuperficies actu exiſtēres inedia , per quas continguantur adinuicem illi orbes, non tamen continu : antur adinuicem: Cælum primū continuum quoddam eſt, & con. tiguaru: Cælo nono ſecundum fuperficiem concauam ipfius pri mi mobilis actu exiſtentem ,non tamen fequitur , primum mobile eſt contiguum cum nona ſphera , igitur continuum eſt cum nona iphera ,quemadmodī non fequitur, quinque digiti adinuicem funt contigui , igitur quinque digiti ſunt continui, ſed bene ſequitur , quinque digiti ſunt continui, igiturquinque illi digiri ſunt conti gui, vt quando clauditur manus, vel manus aperiatur quinæ digi zi aeri ſunt contigui ,vel aquç contigui, li in anforæ aquam inanum ponas , vel etiain cirotececontiguantur , & ratio eft, quia vnum quodque naturale corpus, alteri contiguatur , ne vacuum daretur in natura , 7 CAPITE TERTIO . CONSIDERAN DV M autem eſt , fi quod translatiue. dictum eſt, ut genus aſsignauit,vt temperantiam , confonantiam , nam omnegenus proprie deſpeciebusprædicatur,conſonantia ve. ro detemperantia ,non proprie,fed translatiue, omnis enim confo Wantia in ſonis eft. CONSONANTIA eſt diſsimilium vocum acuti gra . uiſque in vnum redacta concordia, quæ fine ſono, quę aeris percuſ fio eft fieri nullo modo poteſt, illa autem confonantia quæ transla tiue dicitur, quæ effrenatam libidinem moderat , non quidem a ſo no , quæ eft aeris percuſsio , fed illa quidem eſt , quæ a concordia diſsimilium dicitur, hæc autem non neceſſario in Conis reperitur, vt eſt illa ſupercæleſtis Armonia , quæ nil aliud eſt , quam coeleſtium motuumdiuerſorum ,in vnam munditotius conſeruationem apta concordia, quam celebrant quidem illi ſapientes pythagorei, quos gratis in libris de cælo redarguit Ariſtoteles, quam armoniam di ces illam effe de quaMarcus Tullius in 6 derepublica, cui de ſoin . no Scipionis nomen indidit, docte meminit, hanc quidein dico nul lo modo conſtare in fonis, ſed illam quam libro primo capite deci mumtertio & in hoc capite tetigit Ariſtoteles , ... CAPITE QVARTO. AVRSV M ji non ad idem dicitur fpecies 2 ſecundum ſe, da fecundumgenus , vt fi duplum dimidiy dicitur duplum o multi plum dimide oporter dici, li autem non, non erit multiplam genus cupli, abundansſimiliter cicitnr ſimpliciter ſecundum om . nia fuperiora genera ad dimidium dicetur. ABVNDANS numerus is eſt, cuius partes omnes fimul additæ in vnum exuperant totum illud cuius partes erant , vt duo, cenarius eſt abundans , quia 6,4, 3 , 1, ſiin vnum aggregentur 16 coinplent maiorem numerum duodenario , de quo quidem abun . danti, qui eſt fimilis centimanugiganti , non loquitur Ariſtoteles hoc loco, fed abundansillud eft, quod ſuperius eſt ad multiplum, ad ſuperparticularem , & ſuperparrienrem , abundans præterea ,vthic accipit Ariſtoteles,eſt ad aliquid, quod etiam de multiplici, at& lu perparticulari, & ſuperparrienti, &de omnibus ſub illis contentis, dicitur ,duplum igitur triplum ,quadruplumque cummultiplun lit & pariter vnumquodq; abundans erit, fi igitur abundansnon eſt, non eritmultiplum ,neque etiam duplum , itaque abundans vniuer lale magis quam multiplum eft . 1 era CAPITE SEXTO, QVONIAM autem muſicum , qua muſicum eftfciens,elle muſica ſcientia qua eft. MVSICA enim quathenusmuſicũ effe facit , nõ quathenus cantorem , qualitas eſt de prima qualitatis fpecie ,quathenus autem ſcientia eft, &fciens facit, relatiuum quidem eft, vt in capite ad ali quid fuit in prædicamentis determinatum . NVMERVM diuiſibile,e conuerſo autem non,nam diuifibi le non omne, numerus, DIVISIBILITAS non modo magnitudini ſed etiam numero conuenit, non tamen omni numero , ſed numero tantum pari,impari autem ob vnitatis interuëtum nequaquam , Veletiam melius erit dictu , diuifibilitas in duo æqualia , numero tantum pari conuenire, diuiſibilitas autem fimpliciter omni numero conuenire, id quod Ariſtoteles hoc loco velle videturdicere, ſeu in duo æqua. lia,vel in duo inæqualia numerus ipfe diuidatur , fic vtdiuiſibilitas in partes integrales cuilibetnumero conueniat , non diuiſibilitas in partes aliquotas omni numero, ſed tantum numero pari conuenire eft neceffe, aduerte etiam quod ipfinumero primo conuenit diuili . bilitas in tot partes, quot vnitates habet;in plus igitur ideft ,quod diuiſibile eft, quam id ,quod numerum eſſe, quia diuiſibile, eſt com mune ad diſcretum , quod in partes aliquotas &in partes integran tes diuiditur etiam ad continuum ,ſequitur igitur recte,numerus eft, igitur diuiſibile, ſi diuiſibile accipiatur commune ad id, quod in ali quotas & integrantes diuidatur partes, &non econuerſo , vt diui fibile eft , igitur numerus, LIBRO QVINTO, CAPITE PRIMO. LOGICV M problema . PROBLEMA apud Euclidem eſt propoſitio ,in qua vnum datur, & aliud (vt in pluribus) quæritur, vt ſuper datamrectam li neam triangulum collocare, linea quidem datum eſt, quefitum au tem ef trigonum ipſum conftituendum ſuper lineam datam , ſem per enim problema verſatur circa praxim ,quapropter, problema Geometricum ,eftpropofitio practica , Theoremavero Geometri. cum ,eſt ſpeculatiua propoſitio ,modo Ariſtoteles non ingnarus hu. ius duplicis fignificationis problematis Geometricc, & logice,pro pofitionem dubiam ad vtráque partem, dixit problema logicum , &non Geometricum debuifTe intelligi, inquit enim , logicum au tem eſt problema,ad quod rationes fiunt, &crebræ quidē, & bong CAPITE SECVNDO . ERIT enim ſecundum hoc bene poſitum humidiproprium , vt qui,qui dixit humidiproprium , corpus quod in omnem figuranı ducitur, vnum aßignauit proprium , o non plura ,erit fecundum boc bene pofitum humidi propriuns. FIGURA hicaccipiatur in corpore locante humidum ,humi. dum enim cum corpus fluxibile atque dilatabile fit , ſuſcipit quan cunque figuram a re locànte, quæ figura, feu natura, fiue etiamarti ficis opere introducta fit , in illo vaſe locantehumidum , accipere igitur hocmodo figuram a re locante , proprium eft ipfius humi di, & non alterius cuiuſque, NON omne ſenſibile extra ſenſum faftum ,immanifeftum eft, latens enim eft, fi adhuc ineft, eo quòd fenfu folo cognoſciiur, erit autem verum hoc ,in his, quæ non ex neceſitate ſemper conſequun tur, vt quia, qui pofuitſolis proprium , aštrum quod fertur fuper terram lucidiſſimum , tale vſus eſtin proprio ( ſuper terram in , quamferri) quod ſenſu cognoſcitur, non vtique erit benefolis af fignatum proprium immanifeſtum enim erit cum occiderit ſol , si adhuc ferratur fuper terram , eo quòd nos tunc deſeruimus fenfium . CECVS enim huius quod eft, folem fuper terram ferri,nul. lam habet ſenſationem ,ſed videns, illius ſenſationem habet quan do folem ſuper terram in die artificiali conſpexerit, quam primum autem fol occiderit , & fub orizonte conditus fuerit , definit ſenſus percipere folem fuper terram ferri, fi igitur illud proprium eſſet folis , illo deficiente, ( quod contingeret nullo conſpiciente ſo lem ferri ſuper terram ) proprio , & Sol , effe defficeret , quod quia abſurdum , non igitur proprium eft folis eum videri ferri fuper terram , licet femper Sol ſuper terram fereatur, id etiam , haud folis proprium eft , cum fyderibus omnibus, Igni, Aeri ſem per conueniat , id autem quod proprium eſt , conuenit omni foli & femper,inodo fecunda particula, (quod eft foli) non conue nit foli, fed etiam alijs a ſole, & a fyderibus, & elementis, conuenit; Præterea folem femper ferri ſuper Terram , & fi proprium ſolis ef fet,illud tamen non eſt ſenſibile, led immaginatum ,perceptibile,vel intelligibile, particula tamen illa aftrum lucidiſsimum , ipfi tantum foli conuenit, CONSTRVENTI vero , fi tale aßignauerit proprium , quod non ſenſu est manifeſtum , aut cum ſit ſenſibile ex neceſsitate ineſe manifeftum eft,hoc benepoſitum proprium , vt quia, qui po fuit fuperficieiproprium quòd primum coloratum eſt, ſenſibili qui dem aliquo vfus eft (coloratum eſſe inquam) tale quidem quod ma nifeſtum est ineſſe ſemper, erit fecundum hoc, bene aſsignatum fit perficiei propriim. IMMEDIATVM ſubiectumn coloris fuperficies eſt , ſub . ftantia enim colorata eſt, quia corpus coloratum ,etideo corpus co loratum eft, quia ſuum extremum eft coloratū , extreinum autem, ſeu terminus, ſub quo corpuscontinetur ſuperficies eft , in qua im mediate color fuſcipitur, iſtud autem proprium ,non ex natura ſu perficiei profluit , fed extrinſece aduenit color ipſi ſuperficiei , quæ quantitas quidem eſt, color, autem qualitas , fed cum ſenſibili per fenfum percipiatur, & fecundum apprehenſionem fiat exiſtimatio, et quia ſuperficies omnis,affecta ſit colore, ſequitur quod recte pro prium afsignabit ſuperficiei , fiquis dixerit eain effe coloratam & erit proprium ſuperficiei, proprium quidem ſenſibile,non tamen ex intrinſeca natura ſuperficiei. CAPVT TERTIVM. PRIMVMergo deſtruenti quidem, infpiciédum eſt ad vnum quodque eorum cuius proprium aßignauit, vt ſi nulli ineſt; aut fi non fecundum boc quidem verificatur, aut fi non eſt proprium c18 iuſ que eorumſecundum illud cuius proprium aſsignauit; non enim erit proprium ,quod pofitum eſt elle proprium , vt quia de Geome tra non verificatur indeceptibilemeſe ab oratione (nam decipi tur Geometra cum pſeudographiäfacit ) non erit hocſcientis pro prium , non decipi ab oratione. HIC locus videtur opponi ei quod Ariſtoteles determinauit de Geometra primo poſteriorum ,vbi ait Geometram non mentiri concipientem 9 concipienten lineam bipedalem, quæ tamenminimebipedalis eſt, fed fiquis recte inſpiciat,nulla certe oppoſitio apparebit , fed vtera quelocorum mutuo ſeſe alternatim declarabit, cuinam in dubium illud venit,fępemens ynī interne concipere, quod falax manus ex trinſece, illud peruertit: hoc quidé prothagoręfæpe contigiffe reffe runt, vt aprehenfo, ad ſcribendum calamo,id ſcripfiffe quod men ti fuę opponeretur, & id vitii non ſolum manui, fed linguæ ſæpe etiam contingit , quis enim id in feipfo non eft expertus . vt quan doque ynum ex inſperato lingua profferat, Q tamen aliter mente prius conceperat,id autem etiam cuidam Geometræ, ſi contingar, vt perperam ſemicirculos deſcribat veltrahat lineas,non vt opor tet ( vt interiusprius mente concepir) ficut primo topicorum capite primo fuit declaratuin ,non tamen id proprium eft Geometræ ,cum non ſemper vnicuique Geometræ conueniat , ſed raſo etiam vni accidat. LIBRO SEX TO . CAPITE TERTIO, SIMPLICITER igiturnotius , quod prius eſt poſteriore , vt punctum linca, o linea ſuperficie , & ſuperficiesſolido , quem admodum vnitas numero prius enim &principiã omnis numeris. VIDETVR hic textus contra determinationem philoſophi primo de phiſico auditu capite de primo cognito, vbi determinat de circulo p priino cognoſcitur, quam quod fit figura plana vna linea contenta : pro cuius loci huius &illius intelligentia , fcire debes deffinicum cum ignotum ſit, per deffinitionem explicatur,ipſa vero definitio per ea quę nota ſunt, ingnotum definitummanife ftum facit, quod Euclides,vbilineam rectam deffinit primo Elemē. torum prius punctum explicuit,quiin deffinitionem lineæ ponere , tur, vt furt declaratum capite de per ſe,primopofteriorum fubinde lineam per punctum , & fuperficies per lineam , & tandem libro 11 , corpus per ſuperficiem deffiniuit , quo autem modo diuerſo ſe ha heat punctus in linea ab eo modo, quo vnitas in numero,id in na lyticis capite de per ſe fuit manifeſtīt, ſed id in dubiữ verticur , quo nam modo corpore ſuperficies, & fuperficie linea , &linae punétus noctiora fint:'cīí hæc omnia apud Geometrā, & ftereometram ab ſtracte conſiderentur. Dico quod cum abſtractione in his omnibus minor & maior fimplicitas repperitur,vt in puncto quam in linea &fic deinceps, Adid autem de primo phiſicorum de circulo nulla videtur oppofitio in Ariſtotelis verbis, ibi enim de vniuerfali con fufe aprehenſo hicauté de ſinipliciori dictincte concepto loquitut C 1 pro no OPORTET autem non latere quædam fortaſſe aliter deffi niri non poffe, vtduplum , line dimidio. ID notandum euenit hoc loco , quod Ariſtotiles capite de ad ali quid poft multa examinara ibidemn determinauit,quodad aliquid non eft, cuius effe fit elle alterius, fed cuius eile eft ad aliud quodam modo refferri , vt dupli efTe, fic eft, vt abfque relatione ad illud cu ius eft duplum minimne poflit percipi, licet non cognoſcat illud fub nomine & natura dimidii,ſed tantum quathenus duplationen ter minat, quę fundatur in eo, quod illa duplatione duplum eft. OPORTET autem ad deprehendenda talia fummere mine orationem , vt quod, dies, eſt ſolis latio fuper terram. QVI deffiniet diem artificialem ( qui incipit ab emerſu ſolis ſu pra orizontem vſquequo accidat ) ponit in definitione lationem ſtelle apparentis fuper terram (qui fol dicitur )nam qui die vtitur & ſole vei neceffe eft , acquiſolem deffinir, ſtellam in die apparentem dicit, in qua deffenitione alterius,alterum ponit eo modo quo ea , quæ ad aliquid deffiniuntur, RVRSVS fieo quod e diuerſo diuiditur , id quod e diuerſo di uiditur diffiniuit, vt impar eſt qui vnitate maror eſt pare , fimul enim natura, quæ ex eodem genere e diuiſo diuiduntur, impar au. tem & parediuerſo diuidunt,nam ambonumeri differentia . PRETER eas quas Euclidesin elementis & Boetius primo Arithmeticæ deffitiones de impari atque,pari numero dederunt,hęc Vna eít ,qua in comparatione & non abfolute imparemnumerum in ordinead parem deffinit fic vt neuter abfque altero intelligi que at , & alter indeffinitione alterius ponatur,vtocto par , vnitatem imparem feptem ſuperet , & hic fenarium parem eadem vnitate maior euadat. Duo enim funt quæ diuidunt e diuerſo ipſum nume rum par, & impar, & in deffinitione alterius alter ponitur,cum ad feinuicem rellatiue conſiderantur & non abfolure , SIMILITER autem & fi per inferiora ſuperiora deffiniuit, pt parem numerum quibipartiteſecatur , name bipartite ſuma ptumest à duobus quæ paria ſunt. HIC textus obfcuriuſculus redditur in littera,ſenſus tamen fa . cilis eſt , ſuperius enim fi per ſuum inferius deffinitur, vt notius fia at, fuperius hic eft quod, bipartire ſecatur,inferius autem numerus eſt par,optime enim fequitur, hic numerus par eft igitur, bipartite fecatur,fed fi arguas bipartite ſeccatur igitur numerus eft,incõftans eft ifta argumentatio , neque y ſquam valida eft, nifi intelligatur 1 numerus in confequente pro numéro numerato , vt funt etiam ma. gnitudines, quæ nuineri ſunt, vt in pofterioribusdeciaratum eft per me, ita vtin conſequente accipiatur numerus pro quodam comu. ni ad numerum numeratū &ad numerum qui eſt ex vnitaubus profuſus aceruus,fic enim quod bipartitīī par numeruseft, & ficin deffinitione ſuperioris, quod eſt bipartiri veimur oumero pari,qui inferior eſt ad bipartiri ſimauis, bipartiri,a binario numero capias qui binarius inferioreſtad numerum parem ,cum quaternarius, & ali quam plurrimi fint pares numeri,modoqui in deffinitione nu . meri paris vtitur bipartiri , ille quidem in ſuperioris definitione Vtitur ſuo inferiore , CAPITE QVARTO . AVT rurſum qui deffinit noĉtum umbram terra . TERRA eniin cum ſit opacum corpus radë Colaresnon pof. funt illud ingredi & vltra progredi ( quod in traſparenti aericone tingit ,) ſed impediuntur a parte terræ , quæ pars ad folem reſpicit, ex alta autem terræ parte,luminis priuatio contingit, quæ priuatio luminis folaris fuper terram nox appellarur & cft liquis igitur no Etem definiat, fic inquiens nox eft priuatio luininis folis ob er iæ opacitatem proueniens , fimiliter terram quis deftiniens dicet, terra eſt corpus ex cuius opacitace nox fit, vide quo pacto &ter am in deffenitione noctis, & noctem in deffitione terræ & vtrun que in vtriufque deffinitione ponitur, fequuntur quædam Ariſtore lis verba in textu de multiplici & ſubmultiplici, atque de duplo & dimidio , quæ quia alias declarata ſunt pretereunda duxi , fed id no. tandum eft quod in deffinitione priuatiui , vtputa noctis , ponitur poftiuum , vtputa terra , quod etiam in multis eft aduertendum , quia non ſolum ponitur pofitiuum ,fed etiam priuatiuum , vtly pri uatio lurninis, CAPITE QVINTO, Si autem aliquurum complexorum aßignetur terminus, con fiderandum eft aufſerendo alterius eorum , quæ comple & tuntur ora tionem , fi eft & reliqua reliqui, Nam fi non ,manifeftum quonia, neque tota totius, vtſi quiſpam deffinit lineamfinalem rectam fic nem plani habentis finis , cuius medium ſuperaditur extremis , ſi finalis linca ratio est ,finis plani habētis fines recte oportet effe re liqui, cuius medium fuperadditur extremis,fed infinita,neque me dium neque extrema habet, re &ta autem est, quare non est relo qua reliqui oratio. ст · AVTEM quain ad expofitionem textus deueniam primo liç terai Ariſtotelis in tralatione Argyropili et in textu Auerois cor rigendam puto de mense Ariſtotelis ex Euclide iuxta cheonem , le gitur enim in vtroque textu cuius medium ſuperadditur extre mis , vbi legi debet , cuius mediuin ' non reſulta ab extremis 86 Aueroes in expofitione fic interpretatur,cuius inedium non occu . lit duo extrema, & videtur afſentiri ipfi Platoni deffinienti rectă , recta inquit linea eſt, cuius medium non obumbrat extremna , cæ , terīt mens Ariſtotelis eſt, quo pacto complexum deftiniatur often dere, vt fi homo gramaticus deffiniatur,hæcenim erit ſua deffini tio , fíue terminus,aninal rationale mortale recte legens atque ſcri bens, tota quippehec ratio, huic toti coplexo , nempe, homo gram maticus,conuenit,modo liably homo, ly gramaticus aufferatur, &ab ly animal rationale mortalely recte legens atque ſcribens, vt fic dicatur, homo eſt aniinal rationale mortale , &gramaticus eft recte,legensatque ſcribens, peroptime data erit deffinitio primo ipſius complexi,homo gramaticus,quod Ariſtoteles in Geometria exemplificat,iminaginans (de mente aliorum ,) planum efle infini tum ſecundum longitudinem tantum , finitum ſecundum latitudi. nem , quod quidein terminatur linea recta, quæ eius finis ſecundū latitudinem ellet, modo ſiquis definiret lineam finalem rectam die cens,effe finem planihabentis ( ſecundum latitudinem ) fines ,cuius ( quidein finis) medium non relultat ab extreinis ,hæc particula, fi nes plani habentis fines , in definitione pofica recte conuenit lineæ finalis, fed hæc particala , cuius medium non reſultat ab extremis , nonconuenit illi particulæ pofitæ in complexo, quæ eſt ly recta , velly linea , quia non conuenit niſi recrę lineç finicę , & non infi nitę, quęinfinita , vt fupponebatur, non habet medium , neque ex . trema,ideo deffinitio ipſius totiuscomplexi minime recte data erat quia ficut vna ablata particula in deffinitione conueniebat ablatę particule deffiniti , non fic reliqna particula deffinitionis conuenit relique particule complexi deffiniti, $ I autem differentia terminum alignauit confiderandum , fi eg alicuius numerun comunis est aſſignatus terminus , vt cum imparem numerum aliusmdium habentcm dixerit , deter minandum est , quo pacto medium habentem , nam numerus qui dem , comunis in vtrique rationibus eſt , imparis autem coaſſum pta eſt oratio , habent autem &linea & corpusmedium , cum non fintimparia, quare non vtique erit deffinitio hæc imparis. 12 IMPAR numerusin duoæqua dicendinequit ob vnitatis in teruentum medium indiuilibilis denumerantis totum numerum cuius illa vnitasıncdium eft , linea autem & corpus & ſi medium habeat,linca quidem punctum medium , quod per 10 primielemen torum inuenitur fi diuidatur , & fuperficies medium habet diame trum, illa tamen media ,vt nec punctum lineam ,neque linea ſuperfi ciem dimittuntur, neque illa componunt ea , quoruin media ſunt, determinatū igitur eft, quo pacto numerus medium habet, & quo pacto linea atque ſuperficies, & hoc de numero iinpari intelligas, cuius inedium interduas partes æquales,vnitas eſt , & non de pari, ficut etiam Ariftoteles ait in textu , CAPITE SEXTO . ex eis QV AE DA M enim ſic ſe habent ad inuicem, vt nibil ex fiant ; vt linea numerus. LINEA in lineam fiducatur vt 45 primielementorum Eucli dis docet & prima et ſecunda; ſecundi elementorum fuperficies pro ducitur, pariterque numerus, ſi in numerumduxeris,numerus pro ducetur , vt ex ſeptimo elementorum manifeftum eſt , non tamen idem prouenit per additionem, quia linea lineæ addita non facit ſur perficić, &fi hoc milliesmillienamillia addieris adinuicemlineas, non reſultabit ſuperficies, neque fi puncta ad fe inuicem addideris linea vnquam reſultabit, vnitas tamê li vnitatibus, velvnitati,nu. merus (tatim reſultabit, qui acccruus eft ex vnitatibus protufus, vt etiam in prædicamento quantitatis fuit declaratum. LIBRO SEPTIMO. CAPITE PRIMO . Avr fi eodem ab vtroque ſublato , quod relinquitur eſt alte rum, vt ſi duplum dimidi , co multiplum dimidij idem dixerit elje , fublato enim ab vtroque dimidio , reliquu oporteret indicare, non indicant autem, nam duplum &multiplum non idem fignificant. VLTRA cà quæ de duplo & multiplo libro quarto capite quarto ibi dicta ſunt,vnum illud conſiderandum eſt, quod a nega . tionc dupli ad interremptionem multiplex fiquis argueret commit teret conſequétis falatiam vniuerſalius enim eft ipfum multiplum ipfo duplo , vt eft animal equo vtrunque tamen ad aliquid eft, & duplum ad dimidium , &multiplum ad ſubmultiplum . LIBRO OCTAVO. CAPITE SECVNDO . . VIDET V R autem &in diſciplinis quædam ob definitionis deffe &tum , non facile deſcribi, vt quoniam quæ ad latusſeccat planum linea ,fimiliter diuidit &lineam &locum , definitione au tem di&ta ftatim manifeftum eft quod dicitur,nam eandem ablatio nem babent.loca d linea , eft autem definitio eius orationis hac. DEFFINITIO ſecunda tertń elementorum intellectum prebet huius deffinitionis pofitæ ab Ariſtorele , definitū eft ly linea fec cās planum , definitio eft ly linea fimi a Jiter diuidēs lineam &lo ct , fic enim Jittera ordi netur , linea quæ ad latus ſeccat pla num , eft li. nea diuidens lineam et locuni terminatum ab ipla linea recta , fieri enim non po teft , vt linea ſecet planum terminatum linea , quin il.. la linea terminans planum ſeccetur ab eadem feccante linea , id autē manifeſtum g eft ex fecunda , tertia , & quarta definitione tertń elementorum Euclidis, & alisexipfo tertio elemen forum , & xi fecundi, ly li. mea quæadlatusfeccat pla num,vocatAriftoreies orationem in hocloco , vbi ait, oautem : deffinitio eius orationis, hæc, id etiam dignī notatu cum deffinitio per genus, & differentiam detur,loco generis in hac definitione, eſt ly linea diuidens lineam , inodo cum linea prior fit plano, manife , ftum eft,quodde genere dicendum erat in hac definitione, SIMPLICITER autem prima elementorum , pofitis qui dem definitionibus ( vt quid linea vel quid circulus) facillimum oftendere, verum non multis ad vnumquodque eorum eft argumen tari, eo quòd nonſunt multa media , ſi autem non ponanturprinci piorum definitiones,fortaſſe autem omnino impoßibile. PRIM A elementorum hoc loco ,non ſunt intelligenda princie pia, quæ definitiones,petita,& animi conceptiones ſunt, ſed princi, pia ipſa,ſunt propoſitiones,quæ in probleniata & theoremata diui duntur , quæ prima elementorum, ideo dicunturcum per ipfa , quæ proponuntur in alís ſcientñs probentur, vt quid fit linea,videlicet longitudo illatabilis, & quid linea recta,cuius mediñ ſua ex æquali interiacet figna,tunc ſuper datam lineam rectam triangulum colo care proponit prima, primi elementorum, & pofita definitione cir culi per ipſam probatur triangulum ſuper datam lineam colloca. tum effe æquilaterum , & folum perilla media videlicet definition nem circuli 17 & primam animi conceptionem primi elemento rum, quæ definitio , & animi conceptio fi prius non ponantur diffi cile erit oftendere , fortaſſe omnino impoſsibile, quod triangulus conftitutus fuper datam lineam ſit æquilaterus, 1 SIMILITER autem his & in his quæ funtcirca orationes Je habe nt ; non igitur latere oportet , quando difficilis argumenta bilis eft poſitio ,quòd eft aliquid eorumquæ di&ta funt. LINE A quidem , atque circulus ſunt quædam incomplexa quæ diffinibantur ab Euclide deffinitione tertia & 17 primi ele mentorum,fed linea quæ ad latus ſeccat planum , fiue linea ſeccans planum ad latus , id totum complexum eft,atque compoſitum , & licut fieri non poterat, vt oftenderetur æqualitas laterum trianguli, abſque definitione incomplexicirculi, fic etiam fieri non poterit, vt quippiam de quopiam demonftretur , quando in demonſtratione ingreditur aliquod extremum complexum , quia tunc vtimur toto iſto tanquam principio ,ly linea leccans ad latus planum , nifi prius ipfius complexi atque orationis præierit deffinitio , quę eſt,ly linea fimiliter diuidens lineam terminantem locum &locum , ita vtpar. ticula illa circa orationes non intelligatur yt gramatici, & rhetores intelligunt orationes, fed oratio , pro quodam intelligatur comple xo indiſtantitamen , hoc eft fine copula, & verbo principali,parti cula illa , pofitio, cum inquit Ariſtoteles quãdo difficilis eſt pofitio , non intelligitur pro petitione, feu petito , quia petitum non eft argu mentabile,hoc eſt per argumentum probabile,neque difficile, ne facile , cum ſit primum principium &non probetur , fed petitio in hoc loco accipitur pro ipfa propoſitione, quæ probanda venit , ſeu fpeculatiua,vel etiain practicafit, feu problema, vel etiam theore, ma fuerit,et tunc talis propofitio difficile argumérabilis eft, quando inter probandam ipſam ,contingit aliquod deffiniendī , quod com plexum fit, quod nifi delfiniatur,difficilis argumentabilis eſt propo ſitio , & fortaffe omnino inpoſsibile , quando id quod dictum eſt contigerit,videlicet quod complexum deffiniendum interueniat, ly fortaffe autem omnino impoſsibile in præcedenti textu non dubi tatiue ſed magis comprobationis particula accipienda eſt . 1 CAPITE TERTIO . VELV T Zenonis quòd non contingitmoneri, neque ſtadium pertranfire. PROTERVI Zenonis eft fententia dicentis ftadium , quod octaua pars milliaris eft ,pertranfiri non polle, inter genera menſu . rarum quæ magis notæ ſunt,ftadium numeratur,quod iuxta Ptho. Jamei ſententiã primo Geographiæ eft milliaris Italici pars octaua. CAPITE QVARTO , OPORT ET autem eum quibene transfert diale &tice,& non contentioſe transferre, vt GeometramGeometricæ,fiue falſum fiue verum fit ; quod concludendum eft. DIALECTIC A trallatio eft,quæ apparens quidem eft,et conuenientiam habet ad illam remi fecundumquam trallatio facta eft , & non debet effe dubia,contentiofa , & fophiſtica, ſed magis ad inſtar geometræ, qui nõ errat aliquo pacto circa ſuam materiam er formam , vt primo poſteriorum declaraui , vel etiam quitransſeng hanc vocem triangulus, a ternario numero, et quadratum a nunc ro quaternario propter ternarium, & quaternarium numerum vel æquicrus a duobusæqualibus tibás, vel gradatus propter tria 1112 - qualia latera , quæ vt gradus concipiuntur, 2 CAPITE QVINTO. AXT fiquis corum qua ſequuntur ſeinuicem ex neceſſitateal Strumpetat vt latus incomenſurabile cle diametrofi oportet dia meter lateri. PRIMO pofteriorum fuit declaratum & demonſtratū quo pacto diameter quadrati coftę fit incommenſurabilis , quantum autem ad hunc locum attinet, non ſemper per ca que ſe conſequun tur immediate,probatio fieri debet, fed medium debet effe aliquo modo idem cū extremis,&aliquomodo diuerſum , vt in 10 clemë torum de diametro , &cofta eftmanifeftū ,Prçterea,non eft proban dumaliquod ingnotum per equc ignotum, quod fi alterum peta tur in alterius probatione, nil penitus demonſtratur, IN PRIMO ELENCORVM. CAPITE PRIMO, POSTQVAM enim ipſas per ſe res in difputationem alla tas vfurpare dicendo non eſt, ſed vocum veluti nutibus,rerum die ce primur, ſiquid in id incidit vitij,in ipſis eſſe rebus, nõ in vocibus putamus,quod vfu venire his,qui calculisrationem ineunt, ſolet. CALCULATORES noſtri temporis characteribus caldaicis vtuntur, per quos, in numerorī cognitionem trahuntur , ficut per voces in rerum cognitionem ducimur, IN TERTIO CAPITE, DIVISIONE vero,vt quoniam quinqueſuntduo et tria , fieri vt paria fint imparia, & maius fit æquale . SI diuiſim ſummas3.& 2. nunquam , quinque faciunt , ſecue autem fi coniunctim , &ceffatomnisinftantia. Neque dixit terna fium , & binarium , quia due ſpecies numeri , non componunt terº tiam fpeciem numerorum ,ſed quinque vnitatcs pro materia quiné sii accipiuntur. VD ANTVM vt quale,quale vt quantum . IN primo pofteriorum in de triplici errore circa vniuerfale fuit oftenfum ,proportionem proprie circa quantum &non circa qua le effe, ita vi ſiquis putet proportionem proprie eſſc circa quale, is quale pro ipſo vretur quanto vitioſe. IN QVARTO CAPITE. AVT quod idem eiuſdem duplum , & non duplum , duplum quidem in longuni, non duplum antem inlatum . CVM dederic eiufdem ad diuerfa : vt duo ad uſum &ad tria dat deinceps exemplum eiuſdein ad idem fecundâ diuerfa tama, Vt linca a b quatuoc,ad lineam a cduo actu dupla eft ,no autem dú pla in latū immo quadrupla elt a badac duo quod eft effe fuũ in potentia , quod manifeſtuin eſt, in triangulo a bccuius ca b'rectus eft , id autem manifeftum eft ex 46 primi Elementorum , Eucli dis, vel dicas ab duplam ad a cin longitudine, non autem in latiu dine, qua caret, eft dupla 1 : 6 CAPITE ÖVINTO. NEQYE ſi triangulusduobus rečtis tres æquoshabet, & ei . velfigură ,del primum ,vel principium eſſe dicit;quod velfigura , del primum , vel principium eſt triangulus eft, nam non quathe nusfigura del primum pel principium , ſed quatbenus triangulus demonftratio erat . TRIANGVLVS enim rectilineus figurarum rectilinea . sum prima eſt,ita vt fic & figura , & prima, & principium ,vt qui buſdam placet omnium figurarum rectilinearum ,non tamen id ve tum eft fecundum Euclidis fcicum ; vtAs primi clementorum dos cet, &vt Amonius determinat capite deſpecie ſupra porphirit , ſed hoc loco famoſe loquitur Ariſtoteles, & determinat quod no con uenit criangulo habere tres duobus rectis æquales , ratione corum quæ de eo dicta funt, fed ratione ſui ipſius,non aucem quathenus,fi gura ,vel primī, & principium neque etiam fi ifta fuſius accipian tur,figura,primüm principium inferunt triangulum efle , arguere. tur enim ex conſequente ad antecedens, & exmagis vniuerfale ad minus vniuerfale,ex ſuperiorique ad inferius, figura enim nedum triangulo conuenit, ſed pentagono &alijs multis,primum nedum figuræ, fed etiamnumero principium quoque in naturalibus, & his quæ arte fiunt repperitur, nedum in figuris cöpofitis (vt ais. bant ex triangulo ſape ſumpto , Hoc autem ab accidente differt, quoniam accidens quidem 1 I 1 in uno ſolo ſummere eft, vt idem ,elle flauum of melse album ege cygnum ,quod autem propter confequens in pluribusſemper opora tet,nam quæ vni & eidem funteadem er fibi ipſa poſtulantur elle eadem propter quodfit ea quæ propter conſequens eft redargutio, eſt autem non omnino verum , viſifit album ſecundum accidens , nam &nix cygnusalbedo idem ,autrurſum Melyſji oratio, ide elle poftulat,fa &tum eſſe , &principium babere', autæqualisfieri Geandem magnitudinem accipere ,quoniam enim principium ba bet quodfa &tum eft.co quod factum eſt, babet principium ,fa &tum elle postulatstam quam ambo eadem fint eo quod principiū fa &tu elle finitumquc habent, ſimiliter auto e in his que æqualiafa &ta Junt, ſi eandem magnitudinem & vnam ſumendo æqualia fiunt, et quæ æqualia faéta funt eandem dim onam magnitudinem ſum munt, quare conſequens ſummit. TRES modos errandiin falatia conſeguentis adducit philofa phus , primade accidente, ve de albo,aiebant quidam cõſequencia hác valere, cignus eft ,igitur album eſt, & econuerſo ,album eft ,ige tur cygnus eft ,determinat Ariſtoteles, quod album elle,vniuerſali us fit,quã effe cygnum , a magis comune ad minus comuneargud do cõinictitur fallacia cõrequêtis,albedo enim nedum eft in cygno, fed etiã in niue, & alñs reperitur: Secundo vt Melyflus aiebat, hæc duo videlicet, ly factum efle, & ly principium habere, vt recte fer quebatur fecundum Melyſſum factum eft, igitur principiñ habet, principium habet igiturfactum eſt, principium enim habere , vni uerfalius eft quam factum effe cælum enim principium habet, ma teriain ſuam ſcilicet &formam , attamen, non eft factum , quia fer cunduin falſam Ariſtotelis opinionem ſemper fuit, principiữenim .comune eft & ad id quod materiam &formă haber, & adid quod cæpit efle , in tempore modo a magis comune ad minus comune arguendo committitur error confequentis , Tertio loco , aduertic Ariſtoteles quod eadem magnitudo , &æqualis magnitudonon couertuntur,in plus eniin eſt æqualia effe,quam cadem effe,fiquis igitur inferat,magnitudo magnitudini eadem eft,igitur magnitudo 'magnitudiniæqualiselt,recte quidem intulit, vi in probatione ſce cunde partis quintæ lib. primi Elementorī vna &eadem linea di fit balis in duobus triangulis eft , fibiipfi æqualis & in quinta & ſexta terti Elementorum vna &eadé linea a centro exiens ad cor cunferentiam ( quæ duabos lineis ali comparatur )elt æqualis fibi, fed non omne quod eft æquaļe alteri,elt fibi ipfi idem , vipatet, in 1 . . tertia primi, Elementorum ,cuin de longiori æqualis breuiuri ſinex linea feccacur, ob id Euclides, In quinto Elementorum propofitio , ne 11.propoſuit probandum ,quod quæ vni ſunt cadera &libica: dem ſunt,quod fi principiuin primafuiſſet, licuti eft, quæ vni ſunt E qualia inter ſe ſunt equalia , non propoſuillet illud in quinto eile probandum ,quod Ariſtoteles confiderauit, CAPITE OCTAVO. QVARE manifeftum eft, quodeo demonſtraționes redargu. tiones funt &veræ quidem ,nam quæcunque demonftrare licet, ca Gredarguere eū,qui contradi tione veri ponet,licet, vtſicomen furabilem diametra pofuerit;redarguatquis demonftratione, quod incomenſurabilis;quare omnium oportet efle , nam alia quidem ea quæ in Geometriaſunt principia eorumque concluſiones &cæt. SIQ VIS diametrum commenſurabilem coſtæ ponat redar , guitur ab Euclide lib , 10 elementoruin propoſitione 115, vel leo cundum campanuin , per illam demonſtrationem , quæ ibi adduci . tur,quæ demonftratio ,redargutio eft ipfius proteruiafferentis con . trarium , fic vt pro declaratione huius textus fatis fit , quod ipía de monſtratio veri,redargutio eft falli allerti,vel afferendi a proteruo, NAM ſecundum vnamquanque,artem ſyllogiſmus falfus est, vt fecunlum Geometriam Geometricus , " VIDETVR ex hoc textú quod geometra paralogizet quod oppoſitum eft ei , quod determinatum eſt in poſterioribus, Geometram videlicet non paralogizare, Dico Ariſtotelem loqui non de Geometrico fyllogiſmo in quo,neque circa materiam nec circa formam error contingit , fed de fyllogiſmo in quo terminus, ſeu vox aliqua repperitur Geometrica, contraria lux fignifica tioni a Geometra pofita , vt quod triangulus pro circulo accipia tur,vel error paratur in conſequentia ,vt fi triangulus, igitur dua. bus lineis clauditur , & vtroque modorum erit pfeudogeometri cus fyllogifmus , vt fi quis pſeudogeometra per numerum inipa sem æqualem pari fyllogizer diametrum commenſurabilem effe ipfi coſtr,hoc ſuo fyllogilino non falſum redarguit, quin potius fal fum ingerit, de quo fyllogiſmo pſeudogeometrico , hic Ariſtoteles Intelligatur , & non de Geometrico , vt in pofterioribus determi, nauit philoſophus, & per me fuit declararā , quo modo Geometra non paralogizat lad ſyllogizat, & id, hoc loco in memoriam reuo candum eft , quod in prioribusde prima figura dictum fuit , quo nam pacto Geometra illa vtatur, IN NONO CAPITE. ET la cuis viletur plura ſignificare triangulus, deditque, nos, vt cam figuram de qua concludebat quòd duo re&tis, verum ad in telle &tum illius difputauit,hic an non? TRIANGVLVS enim eft figura plana tribus rectis li . neis contenta de qua Euclides ſecīda parte 32.primi elementorum demonſtrat quod habet tres angulos duobus rectis equales, modo fiquis immaginaretur quod triãgulus aliquid aliud fit, a tali figura ( qui triangulus eſt ) propter id quod omnes anguli ipfius figuræ fint etiam duobus rectis æqualcs , vtoninesanguli pentagoni,cu . ius vnumquodque lacusſeccat duo ipſius reliqua latera, talis pro fecto non diſputabit de triãgulo , quiaad intellectuin triangulinon reſpicit,fed ad aliud, vt ad talem pentagonum , no enim neceffe eft, vequicquid habet angulos duobus rectis pares, fit triangulus, nes quod habent tres duobus rectis pares , fed quæ figura habet tan tum tres angulos duobus rectis pares,ille triangulus eſt. VNITATEs binarijs in quaternzrijsæquiles efle,at binse rij hic quidemſic infunt illiautemſecus, SIQ VIS ex illo principio, quæ vni & eidem ſunt æqualia, inferre tentauerit quod binarij fint quaternarii, hoc medio, omnes vnitates ſunt ęquales vnitatibus binarë,omnis numeri quaternarij vnitates ſunt æqualesvnitatibus binarë, iglur omnes vnitates quaternarñ ſunt æquales Vnitatibus binarij,igitur quacernarius eft binarius,ad maiorem & minorem prime coufequentiæ dicendum, quod fi vnitates ſingulę & diuiſion accipiantur concedendæ ſunt vtræque & confequentia prima , fed fecunda confequentia interris matur , fi vero vnitates in maiori & minori acceruarim ſuſcipian , tur vtraque præmiſſarum eft falla & fequitur conclufio falfa , & les cundę conſequentiæ anteccedens eft falluin , & conſequentia fequi tur, & conſequens etiam falſum eſt . CAPITE DECIMO , NEOVE liquod pſeudographum circa verum eft vt Hyppo cratis quadratura que per lunulas, ſed qualiter Brifo circulã qua, drauit,tametficirculus quadretur,tamen quis non ſecundum rem ideo ſophiſticus est, quare etiam qui de bis apparens ſyllogiſmus cft,oratio plane eſt contentiola. / ! HYPPOCRAS tentauit circulum quadrareper lunulas et reduxit lunulam deſcriptam ſuper coſtarn quadrati inſcripti in ciro culo ad figuram rectilineam &exiſtimauit omnem lunulam redu ci poffe ad rectilineam figuram , ob id fuppofuit lunulas deſcrip tas fuper latus exagoni circulo inſcripti,poffe reduci adrectilineam figuram ex quo ſuppoſito non demonftrato, progreſſus eſt ad cir . culi quadraturam &variauit diagramma,tranfiens à quadrato ad exagonum , & tranfiens a lunula exiſtente ſuper lacus quadrati in fcripti circulo ad lunulam deſcriptam fuper lacus exagoni inſcripti in circulo , & fic preudographus factus eſt , Briſo fimiliter errauit circunſcribens circulo & infcribens circulo quadratum ,vterque fo phiſtice proceſsit,et fyllogizarunt contētiofe, fed alter in diagrāma te vt Hyppocras, reliquus vero in principäs proprös neque in illa rione, reliquus autem in conſequentia , & quia vtebatur principös coinmunibus, & fi circulus quadretur fophiftice , tamen non fecun dum rem , vt non per principia propria , neque per deſcriptionetti diagramatum ,hoceft per cõſtructionem debitam figurarum ,nec ex neceffaria cófequutione principiorum ad conclufionem ex illis principñsneceffario illatam, fyllogiſinus igitur quo Hyppocrates & Briſo fyllogizabant quadraturam circuli, contentioſa erat al tera ,vt quæ Brilonis, non contentiofa vero reliqua, vi hyppocra . cis ,vti Ariſtoteles inferius in hoc capite declarat inquiens, CONTENTIOS A vero quodam modo ſic ſe ad dialetti cam habet,quemadmodum pleudographa ad Geometriam , namex eiſdem , diferendi modo,captiose & pſeudographa Geometrice de cipit,fed hæc quidemnon eſt contentiofa,quia ex principys & con clufionibus quæ funt fub arte pſeudographa facit ,quæ autem ex his eftquafuntfub diale & tica,circa alia quide contentiofam efle mani feftum eft,vt quadratura quidem , quæper lunulas non contentio Sa , Brifonis autem contentiofa eft. ILLA ars quę falſum cöcludit vel potius artifex ille,an potius pſeudoartifex qui ſyllogizat falium ex principiis veris vel ex theo rematibus probatis, vt fecit Hyppocras in quadratura circuli,non contentioſe procedit, quia ex propriis principiis & theorematibus Geometriæ ,Briſo autem proceſſic ex his, quæ nedum Geometria , fed etiam aliis diſciplinis applicari poffunt, vt, quæ vni & eidem funt æqualia inter fe æquaha effe conftat,quod principium et Geo metriæ Arithmeticæ ſtereometriæ &ei quæ de ponderibus tractat diſciplinæ applicari poteft, pariter ratio Antiphontisde quadratu. G 16 ra contentiora eft, qua negat principium Geometriæ , quod eft fe cundum theorema certii elementorum Euclidis , & negat etiam li . neain poffe in infinitum diuidi, & dicit rectum eſſe curuum , & cur uum rectum , & dari duo puncta inmediata in linea circulari, quæ omnia fequuntur ex conſtitutione hilochilium triangulorum qui conſumunt lunulam contentam a circunferencia circuli & recta linea , CAPITE DECIMOTERZO . VT impar numerus ejt medium habens, eſt aut numerus im par, eft igitur numerus, numerus medium habens. IMPAR numerusa pari differt vnitatis incremento vel im minutione, vt quinarius a quaternario , & ſenario, in his igitur vo cibus, ly numerus & ly impar committitur vitium nugationis, quale committitur in his quæ ad aliquid dicuntur , vt fimitas naſi quidem curuicas eft,modo fic ordineturfyllogiſmus, Omnis impar eſt numerus habens medium . Sed numerus eft impar Igitur numerus eſt numerus habens medium Ecce quod bis numerus reppetitur in concluſionc, inaniter factum . LIBRO SECVNDO. CAPITE PRIMO , ACCIDIT autem quandoque ficut in mathematicis confia gurationibus , vt illic quæ foluimus quandoquecomponcre iterum non queamus. OVADRATVM, penthagonum , & cæteras figuras re . etilineas reſoluimus in triangulos,non tamen ex triangulis quadra tum fit ſed ex dacta linea recta in fe ducta deſcribitur&, 45primi clementorum Euclidis, & cæteræ figuræ , vt ex quartolibro elemen torum Euclidis patet,fed per id non videtur factum effe fatis textui Ariſtotelis,nifi dixeris , quod non ea facilitate idem componimus, qua facilitate ſoluitur in triangulos, vel etiam dicas quodin Geo metria abſolute non componitur figura ex triangulis, & fi omnia figura rectilinea in triangulos refoluatur, fecus autemin Arithmeti ca de mente pythagoræ , tefte Boetio libro fecundo Arithmetices immo vnaqueque figurarum ſpecies , componitur ex præcedenu fpecie et triangulo ,vt eo loco demonftratur, vel meliusex tot vni tatibus, quotpræcedensſpeciesconſtat, & vnitatibus triangulorum , vt illis declaratur locis, FINIS. VNIVERSA LOCA IN LOGICA M A R то тв LIS IN MATHBMATICAS DISCIPLINAS HOC NOVVM OPVS DECLARAT. сум PRIVILEGIO. aistas f 4 VBNBTUIS IN OFICINA FRANCISCI ,COLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń , fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN L MARCOLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń , fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN LCOLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń , fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN LIOTHEK PETRVS CATHENA VENETÝS PRESBITERORVM OMNIVM MINIMVS REVERENDISSIMO DOMINO MARCO LAVRETANO EPISCOPO NONENSI, · AC PATRONO S V O COLENDISSIMO . S. P. மரா NTER munera ,quæ diuiniore calculo benigna humanitatis arti fex natura nobiscontulit, uirtu tum de litterarum facratiſsime antistes , ad poftremum haud quaquam adducitur ipſa ratio , nempe ad quamomnia prope quæhumana addicuntur ſubstan tiæ ad unum adhæferunt, cuius munere ſi quis minime recte ufus fuerit ipſum naturæ aduerſari , atſi bonis artibus que de periere iam &deciderunt, quippiamſplendoris &utilitatiscor rogauerit & farcuerit, illum rationismunereperfunctumeſſe ne mo nefciat , hac de caufaconſiderans hominum mentes eodem effe quo arua fato , quæ ſi excolantur bona ſinegligantur mala perfe runt germina,uidiſſem multos , qui philofophi nominari uolunt prepoſteris imbutos litteris,quorum mentes ſentes alunt Gmon stra , quibusuellicandisne unus quidem Herculesſatiseffet , uin Etum in inestricabiles laberinthos quin potius in carcerem te terrimum Aristotelem ut ciuimilites traxiſſe,qui inutilibus que stionibus &Græcis tenue intincti literis, bomis artibusnegletis , fimiles factifunt oculo , qui quòd in tenebris fit lucem flocifecerit Aij decreuiquoingenijuires ,etiam fi exignas( nam apprime noui quàm fitmihi curtaſuppellex ) expenderem in eruendo Ariſtotele ex illo obfcuro , id autem tam comode quàm apte fieri putabam ſi Mathematica exempla ſua expreſsiora redderem , quibus in ex plicandis Logicis ufusfuit ipſe prefertim hoc tempore qua publi cis lectionibus Mathematicis in PaduanoGimnaſio incumbebam , ad huius etiam clariſsimi Philofophi elucidationem accedebat hor tatio iuuamen ReuerendissD.. Ioannis Marie Piſauri Epiſco pi Paphenſis &mecenatis optimi cuius expenſis opus imprimeba tur , hortabaturque me ille , ne opus hocpermiterem ex ire in ho minummanus fine duce aliquo cumpreſertim milta, &fere difi cilima hac tempestate contineret, que aut ab interpretibus uniuer fis omiffa , autoppoſita his effent que interpretati ſunt . Te igitur patronum Dominum meum delegi,qui & Ariſtoteleam Philo ſophiam uniuerſam cales, &qui has liberalesartes Latinis duri bus inuulgauit. Itaque ea. Aristoteles loca qua potui diligentia il lustraui, & quæ lucem claritatemque deſiderare uide bantur , curſimebreuis annotamenti lumine perui afeci , qua in reſi effe cerim quod uoluizesło iudex &cenfor. Has autem primores inge - ný nostri fæturastuo nomini Reuerendiss. Domine eam ob rem dicatas uolui,quo plane intelligeres noftri animigratitudinem pro innumeris quibus me in dies cumulare deſideras beneficijs , eoque quod aliter non datur temeum reuerear benefactorem ; neque ob aliud ſanete reuerear quàm quòd omni laude digniſsimum : Vale præfulum decus . ed RE agat , ueletium num in ſemen uiri, uelmulieris , uel inmatricem , { OTS PORPHYRII DE GENERE PE T R I C Α Τ Η Ε Ν Α PRESBITERI VENETINOVA IN T E R P R E T ATIO . IcetVR & alio modo genus uniuſcuiuſque principium or tus , tam ab co, qui genuit , quám a loco in quo eft quiſ piam ortus . Dicitur quòd locus , os pater cauſe funteffè &trices genis ti , diuerfimodetamen ,quippe pater aétiua fit caufa , locus uero conſer uatiua tantum ,que ad cauſam effe's Etricem non immerito reducitur ,aps te magis quàm adquodcunque aliud cauſé genus. Dico tamen quod , & locusnedum conſeruatiuum prin cipium est , fic ut genitum folummodo conſeruet poftea quam genitum ipfum acquiſiuerit effe fuum ,ſed etiam adiuuin principium eſt ipſe locus affe Ausrefpectu geniti accidentiumſententia est ipſius Ariſtotelis, quòd per acceſjum atque receſſum planetarumſub circulo obliquo fiunt in hæc inferioragenerationes atquecorruptiones , folis igitur , e planetarum aliorum lumine, ac motu , affectus locus, aštiue agit hoc pacto adgenera = tionem , atque parentes , fi fecus quis audiuerit, tunc sol, & pater non generarenthominem cum Sol non niſiſuis radijs reétis reflexis autfrae étis alterando aerem agatin ipſum , ca in contentum , quo autem pacto age quodmodo eidemſimili,quo etiam in uiſcera terre producitmineralia , o interræ fuperficie plantas . 6 PORPHY RIVS DE SPE. DE SPET I E. VLCR A Fucies , debita parilitate demiſſa,coloria bus lineamentiſuć luculenter affecta,fpetiesà Pors phyrio in prima ſpetiei ſignificatione uocatur. , ut Facies priami dignaeſt imperio , ad cuius fi militudinem , ill . est , quefub aßignato generepoa nitur , curus pulcritudo , est differentia fpecifica , qua pulcritudine informe genus contrahitur , atque pulcrumfit. Et Trianguluun , figuræ fpetiem ſimili modo ſignificat,fie gura rectilinea genus est ad triangulum , non figura in uniuerſum quamſic fufamfiguram Euclides primo Elementorum partitur in eam , que una clauditur linea , & in eam quæ pluribus lineis continetur, qui Triangulus Axties fitfigure reftilinee per hanc ſpecificam différen tiam qua est , claudi tantum tribus reftis , qua etiam differentia pula crum redditur figure genus . Indiuidua funt'infinita . Non intela ligas hoc uelim , niſi potentia ,qua infinitatis affectione etiam numerus ita intelligatur ; ſed modo quodam diverſo , numerus enim , quicunque fit , aexiſtat , finitus eſt , terminatus ,ſic pariter indiuidua on nia , quæ exiſtunt finita funt, ſed que preceſſerunt omnia,o que futu rafunt ex utraqueparte infinita diceret Ariſtoteles, numerus uero cum statum ad unitatemhabeat duplici modo finitus eſt,« actu , o deſcenden do ,uerum indiuidua duobus modis dictis funt infinita , unico autem modo ut quæ præfentiafunt, finita etiamfunt. IN PREDICAMENTA ARISTOTELIS DE O V A N TITATE. ENARAI numeri partes , ut quinque, & quinque . Animaduerſione dignum exemplar hoc in loco pofuitAriſtoteles., cum dixit quinque,& quin que partes eſe denarij numeri, non enim dixit quis narium , oquinarium denarium numerum compone re , quia nulla numerorun fpeties componitur ex di uerfisſpetiebus,neque etiam ex unis indiuiduis eiufdem fpetiei,ut diuerfa fpeties fiat, ex unis ternis uel quaternis , ant quinnis numeris nonfitfe nariusuel oftonarius aut denarius, ex unitatibus tamen quinis o quinis D DE VANTITATE * que materia eft. Cuiuslibet numeri, denari fpeties conflutur, eas ſententia Euclidis , Nichomaci, atque Boetij. Similiter & in cor pore fuimere aſsignareque lineam fuperficiemuè comu. nem terininun potes, quo partes corporis copulantur . Punctum eſſe lincæ terminum , or lineam ſuperficiei , e ſuperficiem corporis nemo neſcit , niſi qui Euclidis doctrina dignus est ,ſed illud unum maiori egeret indagine , quo nam pa&o lineaſitforſan etiam ima mediatus corporis terminus ,ne id Ariſtoteles aſſerens , quippiam affe rat contra Euclidis fcitum, prima enim deffinitione undecimi Elemen torum inquit ille , corpus ſiue ſolidum est, quod longitudinem latitudia nem ocraßitudinem habet , folidi uero terminus fuperficies est , uide ergo quod ſolidi terminusnonſit linea ipfa , ut Ariſtoteles aſſerit. Ves rum quòd linea terminusfit corporis manifeſtum est , fi idquod Euclides ait deffinitione nona undecimi elementorum non ignores ,folidus(inquit) angulus est , qui ſub pluribus duobus planis angulis comprehenditur non exiſtentibus in eodem plano,ad unum ſignum conſtitutis , plurium linearum igitur contactus ( nulla ſuperficierum habita conſideratione) qui estfolidus angulus corpus terminat,fub illis igitur lineis angulusfox Tidus contentus , terminusest illius folidi, ville lineæ termini ſuntnes dum illarum ſuperficierum corpus ambientium , quin etiam inmediati terinini funtillius corporis , cum linea continentes illos angulos in puran Etum unum concurrant. Preterea idipſum Euclides afferit de angulo, quod fit immediatus terminusfolidi problemate tredecimo, libri tredeci mi Elementorum , & in fequentibus quatuor problematibus idem uit ,in quibus docet conſtruere corpora regularia , queſuis angulis tangant ſu perficiem concauam circumſcribentis pheri , qui quidem uniuerſi angis li ſub tribus ad minus &pluribus tribus rectis lineis ad unum pun &tum concurrentibus continentur , &punctus ille , nedum est linearum terris minus, fed etiam regularis corporis finis ,cum ſit terminus omnium linea rum , quo termino tangit fphærum ,patet igitur id, quod Ariſtoteles dixit de lineis nedum ueritatem habere , ſed ut etiam pun tusſit terminus ips fius corporis, ſecundum Euclidis ſcitum, perinde dicendum eft de ſuper ficie , quòd non tantum lineis , ſedetiam ipſis pun tis terminata fit,fide ea, quæ rectis lineis claudatur fermofiat, øde corpore Iſoperimetro, fiue quod pluribus re&tis fuperficiebusclauditur , hocquod dictum est in telligatur . Adid uero , quod Euclides primo Elementorum ait deſuper ficie fiuefigura rectilinea deffinitione uigefima , refponde , quod uerum 8 DE OVANTITATE. dicit , figura rectilinea , inquit, contineturfub lineis reftis , enon die cit contineturfub pun£ tis , agequod contineriſub pun &tis diuerfum eſt, ab terminari punctis . Ariſtoteles hoc uidens , dixit corpus lineis termia narinon tamenfub illis contineri,quod deſuperficie ſimiliter eft dia cendum . Vel etiam reétè dices , fi ita fenferis , quòd figura in uniuer. ſali , linea claudatur , neque una,neque pluribus, & corpus in uniuer far liambitu ſuperficie claudatur , neque itidem una aut pluribus , o neua tra deffinitio fic in uniuerfum accepta habet exclufiuam particulam ,cum autem ad circulum uel ſpherum defcenderis,unum linea una clauditur re liquum uero una tantum fuperficie ſcias elſe claufum ,reliquæ uerofigur re rectilineæ non deffiniuntur cum particula exclufiua abEuclide,vel di cas , quòd in littera Ariſtotelis, eſt fua met interpretatio, ubi enim dixe rit , in corporefumere aßignarequelineam comunem terminum , statim correxit ſe, dicens fuperficiem eſſe comuném terminum corporis & Ex * clides non dixit quòd punctus , ſed quod angulus tangat fphærum . Rurſus in pago quidem , multos homines , Athenis au tem paucos dicimus eſſe, qui tamen funt illis plures , & in domo quidem multos in theatro uero paucos,qui quidem & ipfi multo funt illis plures .Aduertas Ariſtotelem utroque exi emplo, o paucos & multos dixiſſe , comparationem faciens hominum ad loca in quibusfunt , non habens rationens hominum ad homines , ut fimile exemplun daretur ſiquis dicat pauciaurcifunt in arca , @mule ti in crumena , fi in crumena eſſent tantum fex , decem in arca , DE HIS QV Æ AD ALIQVID . VADRATIONIS enim circuli , & fcibilis eſt, ſcientia quidem nondum eſſe uidetur eft autem fcibilis ipſa. Quadam libertate hoc lo co loquutus eſt Arift.afferens id quod ignorauit, quia ſi non ignoraſcet eam ,habuiſſet illiusſcientiam , o non dixiſſet (niſi forſan mendatio) ſcientia quidem now dum eſſe uidetur,fciens etiam quod nullus adtempus uſqueſuum proprijs principijs quadraturam inuenerit , nequecitra ad hanc ufq; horam ,quis oftenderit,nififorſan quibufdamſuppoſitis,quu ,et ipfa non minoriproba tione egerent quàm ipſa circuli quadratio ,fedquidper iftud exemplum utilitatis Ariſtot. attulerit , illud effe puto , ut ammoto fcibili, oſcien tia ARISTOTELIS. tia eiusremoveri neceſſe eſt , ut putacaufa nunquam cauſante nuſquam effectus erit , quadratio igitur circuli cum non ſit , nequefcientia de ip . fa quadratura circuließepoteft . Quid nam antiqui de quadratura ſe na ferint in fractionibus Mathematicis declarabitur . DE QUALI ET QVALITATE. VARTVM qualitatis gen'us eft figura & ca quæ circa unumquodque eft forma , & in fuper rectitudo , & curuitas, & quicquid eſt hiſce fimile . De figura fcias Ariſtotelem lom qui, non ut de ea Geometrica abſtracte conſiderata, Jed de figura in re figurata exiſtente ,ueluti in fubie & o, idem de forma, rectitudine , atque curuitate intelligas. Aduere tendum tamen ordinem quendam feruaffe hoc loco Ariſtotelem in his que proponit , à ſimpliciori ad magis compoſitum . Primo enim defi gura ,quæ linea , uel lineis clauditur , fecundo de his , quæ ſimplici bus lineis , aut ſuperficiebus uniformibus , nempe uel tantum re tis , aut tantum curuis , uelſolummodo conuexis ,aut etiain tantum concauis continentur , modus iſte ſecundus à primo non nihil differt , in hoc differentia est inter utrumque , quia primomodo de co quod planum eft , ueluti ipſa papyrus , ſecundo modo, de eo quod corpus, utmons , ficuti uulgus,quodfubtile eſt (ut papyrus) planum uocat , quod autem eft ualde craſſum , corpus appellat, ut montem, a facilioriperſuadens tya runculis ea,quæ etiam à uulgo principium cognitionis ſumunt. Triana gulus autem & quadratum cæteræque figuræ , non uidens tur talem rationem ſubire . Ariſtoteles parum ante dixit , que: nam ſint et , quæ magis, minufue ſuſcipiunt , ut puta qualia ipſa, gridus fufcipiunt intenfionis ,modo uides quod neque trianguliis,nequequadras tum ,qualia ſunt , fed quanta, que intenſione remißioninonſunt apta. Nam ea, quæ trianguli rationem circulinefuſcipiunt,trians guli fimiliter , aut circuli ſunt oinnia . Senſus huius eft , quòd triangulus. quilibet , uel omnia que triangula ſunt, niſi id quod tribus clauditur lineis ,aliud non eſt, a circuli omnes , nil aliud funtquam und çlaudi linea , in cuius medio punctus eſt quod centrum dicitur, à quo oma. nes recte linea uſque ad circunferentiam ductæ inter fefunt cquales.com hoc nihil aliud quàm circulus eſt,nõ enim triangulus circulus,neque cira B 10 IN PREDICAMENT A culus triangulus eft , neque utrunque aliquid unum eſt , licet utrunque figura ſit ,ſed hoc æquiuoce , & non uniuoce eſt. Neque te turbet hoc quia Ariſtoteles prius de triangulo , « quadrato propoſuit,c finit ſena tentiam de triangulo , e circulo , & non de triangulo , quadrato , quia de triangulo o quadrato dicens , ſubiunxit cæteræque figuræ quo uerbo etiam circulă intellexit, de quo ultimo loco explicite loquitur. Eorum uero , quæ rationein hanc, non ſuſcipiunt, nihil alio magis minúſie tale dicetur,non enim quadratum ma gis quàm altera parte longius circulus elt , quippe cum neu trum circuli fubeat rationem atque fimpliciter. Si non fubeat propoſiti, in quofit comparatio rationem , alteruin altero magis tale mi nuſueminimèdicetur . Quadratum neque circulus eſt, nec etiam altera parte longius circulus eſt ,cum igitur propoſiti circuli rationem neus trum ſuſcipiat , neque quadratum circulus eft ,nec etiam quadratum mas gis quam altera parte longius circulus est , idem age de altera partelons giore. Atquefimpliter pro hoc uerbo, ſcito Ariſtot.ſententiam hanc eſe , o ſi quadratum , &altera parte longius circulus eſſet, atque in eo conuenirent, quia tamen neutrum eorum , atque circulus, non eft qualis tas , fed quantitas,ideo à quadrato, o abaltera parte longiori, lymas gisminúfue,ſecludenda funt.Expoſitio hæc uidetur contra id , quòd Aris ſtoteles determinauit in capite de quali oqualitate , quo loco ait quara tum qualitatis genus eft figura,ad quodfoluendum , dicas figuram capi uno , atquealtero modo,primo figura conſideratur in ſe abſtracta aſus bie &to quocunque , cmſic quantumfeu quantitas eft,o non qualitas,nec etiam in quartoqualitatis genere ,alio autem modo conſideraturfigura in refigurata, cui largitur tale eſſe, or ſicfigura in fubieéto aliquo,quam. litatis naturam non refutat . NequeMuſica , cuiuſpiam muſica , niſi generis ratione ad aliquid , & ipſa dicatur. De uniuerſali Ariſtoteles,& non para ticularimuſica loquens , ſiue humant uoce uel inſtrumentis praxis fiat, uel Theorica ipſa intelligatur , biffariam eam conſiderat, quatenus à fubieéto uel obiecto ſeu genere ipſo caufetur,et quatenus cauſata in ſubie eo quopiam eſt , primo modo ad fubie &tum quod genus uocat , tan quàm ad effectricem caufam reffertur , ut ad ſonum numeratum , non due tem ad Platonem in quo recepta est , relatiue dicitur. Vel etiam dicas, quòd refertur rationefuigeneris , ut quatenusfcientia adfcibile. ARISTOTELIS. IL DE MODIS PRIOR IS. HR N DEMONT SRATIVIS ſcientisprius eſt nimirum atque pofterius ordine, Elemen ta nanque deſignationibus ordine priora ſunt . Scito elementa , ut deffinitiones , petita , animi conceptiones precedere ipfis propoſitiones in ſcientijs , id quod in Euclidis methodo patet,proa poſitio nem ſubſequitur expoſitio , quam expoſitionem statim deſigndz tio diagrammatisconſequitur , hancdeſignationem ( que beneficio petia torum tantun fit) determinatio , determinationem demonſtratio , ſexto loco epilogus, ſiue propoſitionis repetitio. Vel dicas elementa ,ipſatana tum eſſe petita reſpectu deſignationis tantummodo. Elementa etiam non tantum principia ,utdeffinitiones,petita , & conceptiones animi, reſpectu propoſitionum , que per ea probantur dicuntur, fed ipſa propoſia tiones probatæ , quatenus ad alias fequentes propoſitiones probandas fumuntur , dicuntur elementa , hac de caufa , quidam uolunt libros quindecim Euclidis uocari elementa , alij nero non ob id, quindecim libri dicuntur elementa ,ſed quia fingulis libris fua affiguntur principia , ut apud Campanum , ſed neuter modus dicendi placet, quin potius elea menta dicuntur oinnia , quæ in illis quindecim libris continentur, nedum propter deffinitiones,petita, Oʻanimi conceptiones ,ut iſti ,neque prou pter hoc , quòd alique prime propoſitiones , que demonſtratæ funt , fint pro alijs propoſitionibus fequentibus probandis principia , &elea menta ,ut illi dicunt , quia tunc ultima propoſitio noneſſet elementuin ad. quippiam , cum ipſa ultima eſſet, ſed elementa , atque principia omnia illa dicuntur , reſpectu omnium propoſitionum per ipfa probandarum infcientijs fubalternatis ad illos quindecim libros.. Bij 12 IN PREDICA MENTA DESPETIEB.V.S. MOT V S. i bЬ & CRET 10 ' , alteratio non eft. Hoc perſuaa det Ariſtot. exs * emplo Geometri co ( quod etiam multis modis in Arithmetica Boetius docet)Gnomon quidem ,ut in fecundo clementorum deffinitione ſecunda ha betur,figura eſt ſex laterum ,compoſi ta ex uno quadrato conſiſtente circa diametrum , « ſuplementis duobus , quefigura ab Euclide primo elemen torum propoſitione tirgeſima quar ta habetur, quæ est 6 , quam fi huic addideris quadrato a , quadratiſpe ties minime alteratur, licet fiat acre tio quantitatis , ſic ut in hac figu ra ab , quod una diuerfa peties alteri fpetiei addita non uariet fpes tiem ,exempla plus centum in tabule Pythagora , apud Nicomachum , Boetium ,in numeris inuenies , ut pu ta ex duobus longilateris altrinfecus ad quadratum pofitis, bis medio fumpto quadrato , quod fit, quadra = tumest ,licetfacta ſit acretio, ut ex duobus , fex , vbis quatuor, ut ofto , ſexdecim exoritur ,qui etiam quadratus eft , pari modo ,ex duo bus quadratis, er bis fumptomedio longilatero, nempe ex quatuor, e nouem ,bisfumptoſenario longilate ro, uiginti quinque quadratus ortus alb ARISTOTELIS.i . 13 est , que intelligas uolo ex in ateria primi quadrati , atque longilateri, ut ex ipſis unitatibus , ego non de numeris tūlis formaliter fumptis , cum prius corrumpaturſpeties preceden tis quadrati minoris, atque longilas • teri, in aliam petiem maioris quas drati , qui ex illis oritur , acretio . igitur ubique facta eſt , nulla intera ueniente alteratione in fpetie ipſius quadrati , licet e gnomonis atque longilateri apertiſsime facta fit alte ratio . Aduertas tamen , ad id quòd Ariſtot. ait in hoc exemplo de addia • tione gnomonis ad quadratum , ſic , utfpetiesquadrati nõ alteratur.licet • fiat acretio , in Geometria uniuerſali ter ueritatem habet , fed non eſt ita planum in Arithmetica, niſi intelles Xeris de fpetie ſubalternāte ,quòd ip fa non uariatur, uaristur tamen qua dratiſþeties ſubalternata , oſpetia liſsima,quòd patet ex eo quòdſi nu mero quadratoſexdecim ,addus gno monem uiginti, statim ex pariter paa ri, ut puta ſexdecim , fit impariter par, uidelicet triginta fex , quorums uterque , o fifit quadratus , diucrfarum tamen fpetierum funt , ut ex libris Euclidis de Arithmetica mani feftum eft ,quod exemplo fubſcripto manifeſtatur fatis, quapropter uni uerfaliter Ariſtotelem intelligas de quadrati , quatenus quadratum eft ', Apetie , hoceſt de fpetie quadrati in uniuerfum , non de quadratiſpe= tie ppetialifsima . vel etiam dicas quòd Ariſtoteles intelligit exemplifia cari in Geometria uniuerfaliter non autem uniuerfaliter fimpliciter , hoc oft non in omnibus difciplinis . 11 14 : IN PRIM VM LIB . IN PRIMO PRI O R V M AN T E SEC V N D V M S E C.TV M. n A M fine uniuerſali nô erit fyllogiſmus aut non ad pofitum aut quod ex principio pea tetur,ponatur enim mulicam uoluptatem & c. Sed magis efficitur inanifeſtum in de ſcriptionibus, ut quòdæquicruriæquales, quiad baſin , ſintadcentruin ductæ a ,b , fi igitur æqualem accipiata , c , d , angulum , ipſib , d , c ,non omnino exiſtimans æquales , qui ſemicirculorum , & rur. fus c, ipfi d ,non omnem aſunens eum qui ſeçti. Amplius ab æquis exiſtentibus , totis Angulis , & ablatorum, æqua les eflc reliquos e ,f; quod ex principio petet, nifi acceperit ab æqualibus æqualibus demptis ,æqualia dereli nqui. Plaa num igitur quòdin omni oportet uniuerſale exiſtere. Si dubitaret quis ,an. ſemicirculi eiuſdem ornnes anguli ſint equales, ſic perfuaderi uidetur, b omnes diametri eiufdem circuliſunt æquales per primam deffinitionem tertij elementorum ,peripheria eiuſ de circuli uniformis eſt per xv. def finitionem primi elementorit, o me dietas circunferentiæ est æqualis al teri medietati eiufdě circunferentia cumque omnes recte à centro ad cir cunferentiam du &tæ fint æquales,fe quitur igitur , quod duo anguli a , c , d ,cb, d , c , ſemicirculorum eiufdem circuli a , b , c , d , ſint ad inuicem æquales , hæc perfuafio fiat ei, qui non omnino exiſtimat æquales , qui ſemicirculorum , rurfus inquit c , ipſi d , angulus uidelicet uterý; minoris portionis æqualis eft alteri,nonaccepto toto angulo, ideſt,toto angulo ſemicirculib, d,c, e a cd , quod ſic perſuadetur, árcus c, d , eiuſdem est peripherie , que unir formis eſt, c , d , eſt unice, om eadem re&ta ,ſi igitur utrunque angus lorum minoris portionis ab utriſque ſemicirculorum angulis detraxeris, qui anguli reininent uidelicet e, of, erunt æquales æquicrurus igitur. PRIORVM ARISTOT. 15 triangulus habet ad bafim poſitos æquales angulos , quod demonſtratum fuit ,ſumpta iſta uniuerſali, ſi ab equalibus æqualia aufferantur , reli qua æqualia remanent, IN PRIMO PRIOR VM ANTE TERTIVM SECT V M. ECVNDVM uero unumquodque entium elia gere , ut de bono ,aut fcientia,priuate auten fecundum unamquainque , funt plurima quare principia quidem quæ ſecundum unu quodq; funt,experimenti eſt tradere,dico au tem ,ut Aſtrologicam experientiain aſtrolo gicæ ſcientiæ , acceptis enim apparentibus fufficienter, ita inuentæ funtaſtrologicæ demonſtrationes, &c . Compertum eſt aſtrolabio ſolem plus temporis conſumere à principio Arietis ad uſas finem Virginis, quam à principio Libre uſque ad Piſcium fines,idquod o hiſtoria traditum eft , propter hoc etiam Hiſtoria dereli&tum est Solem tres habere orbes, quorum medius,eccentricus eſt. Quibus habis tis apparentibus, facile eftdemonſtrationes de Sole concludere,oſimili ter in unaquaque diſciplina , prima principia hiſtoria data , &dereli Eta ſine probation funtpofteris , quibus principijs tanquàm uerisſupa poſitis ( hiſtoriæ enim proprium eft ueritatem narrare) demonſtratio nes fiuntſi autem de principijs aliquafiat demonſtratio ,illam « impro priain , a poſteriori, feu à ſigno eſſe , nemoeſt quineſciat . ANTE MVT V AM SYLLOGISMO RVM RESOLVTIONEM . On oportet autein exiſtimare penes id, quod exponimus , aliquid accidere abfurdum nis hil cnim utimur eo , quod eft hoc aliquid elle ſed quemadınodum Geometra , pedalem , & rectam hanc , fine latitudine dicit, quæ non ſunt: Textushic exponitur primo pofteriorum T. 52 fed hic tantum dubitatur,quo pacto intellectus ea poſsit ſufficienti appres henſione capere, quenon funt, ut quæ nunquam , fub fenfu fuerunt ? 16 IN SECVNDVM LI B. Adfecundum refpondeo, quod animam eſſe , intelligit intellectus , quam tamen nunquam uidit oculus, aut manus tetigit . Ideo multa intelligit ins telle &tus,quorum nunquamſenfus ſenſationem habuit. Ad primum dico, quodficut intellectus concipit coclearem artem abſtraftam , quætamen kon eſt , niſi indeterminatis , ſingularibus hominibus , fic etiam li ncam ſuperficie?n intelligit , que tamen non ſunt , niſi in linea atrd . mento picta , o ſuperficie , in corpore naturali , IN SECVNDO PRIORVM CAPITE DE PETITIONE PRINCIPII. - o cautem eft quidem fic facere,utſtatim cens ſeat quod propofitum eſt , contingit uero, & in alia tranſeuntes apta nata per illud mon ſtrari, per hæc demonftrare quod ex princie pio,uelutiſi ,a, monftretur per b ,b autein per C, c autem natun efſet monitrari per a accidit cnim ita ratiocinantes ipſum a ,per ipſuninet a monſtrare, quod faciunt, qui coalternas putant fcribere latent enim ipſi ſeipſos talia accipientes, quæ non eſt poſsibile monſtra : re non exiſtentibuscoalternis, quare accidit ita ratiocinans tibus unumquodque eſſe dicere, fi eft unumquodque , ſed ita omne erit per feipfum cognoſcibile , quod impoſsibile eft.Si propoſitum ſit probare , quod e ſit a , &id oftendatur per mes dium b,c fieret talis fyllogiſmus ( e est b , beſt a , igitur e eſt 4. Pros batio primæ minoris uidelicet quæ eſt hæc , e eſt b , fit per hoc medium f , ut in hoc Syllogiſino ( e eftc, c, eſt b, igitur e eſt b) Cuius minor , uis delicet hæc , & eft c ,fiprobetur . Tunc reſumitur prima concluſio pris mi Syllogiſmi,quæ à principio probanda erat, ut in hoc Syllogiſmo e eſt 4,4 eſt c,igitur e eftc) &fic e eft a ,quia e eſt a, Ofic error ijte uerfatur in probanda minore primi Syllogiſmi per plura media per c, oper a , propoſitio uero que probanda proponebatur , hæcuidelicet,e eft a, per tria media per b., perc , & per a , probatur , ſimiliter errant illi, qui nituntur probare parallelas effe per hoc, quod Triangulum habent tres æquales duobusreftis , quod quidem hoc probaretur modo, ſit triangu = lus a , b , c . cuius latusbc, ſi protendatur ,caufabitur augulus d, c, d , exterior equalis duobus angulis a , b , intrinſecis ex oppoſito colla * catis PRIORVM ARISTOT. 19 [ b N catis , ut patet ex prima parte tri q geſimæſecunde primi elementorun Euclidis , à punéto c , parallela dua catur ipſi b , a , quæ fitc, e, patea bit per ſecundam partem eiufdemn tri geſimæſecundæ primi elementorum , - quòd triangulus a , b , c , habebit tres duobus re&tis æquales . Si aus tem fumatur probandum quod b , a , uc , e , fint parallelæ , per hoc medium , quia triangulus b , a , c , habeat tres duobus re&tis æqua . les , ideo ipſe parallelæ ſunt , ſic , exterior æqualis eft duobus intrinſe cis ex aduerſo poſitis , qui exterior angulus a , c , d , in duos pars titur angulos in a , c , e ,we, c , d , , c , e æqualis eſt b , a,, ere, c , d , eft æqualis a ,b , c ; quorum utrunque probatur per lis neas eſſe parallelas,ut per uigeſimamnonam primi elementorum ,feques retur igitur , quod a ,b ,oc, e , parallelæ funt,quia parallelæ ſunt,ut b , a ,oc, f , parallelæ funt,quia triangulus a , b , c , habet tres duoc bus rectis equales , fed a , b , c , triangulus habet tres Angulos duos bus reftis equales , quia a , b , & c,e, parallelæ ſunt,igitur a, b ,a col, parallele ſunt , ,quia parallelefunt, quod uanum eft , oprobare quipe piam prius per aliquod pofterius , quod pofterius æget illo priori adſui probationem . Aliter exponatur Textus,ut fiintentü fit defcriberec, d , queſit parallela ipſi a , b, per uiges ſimamtertiam primi Elementorum d fiat angulus e , c , d, æqualis angulo 4,6,6, & argue poſtea ,quod d , 0,4 , ſit æqualis angulo b , a , 6 , quod eſſe non poteſt, niſi b , d ,egu c , d ," parallele fupponantur , fic b connectatur inductio , quia Trian gulus a , b , c , habet duobus reftis æquales,parallelæ funt a ,b , c,d, &quia paralellæ funt , ideo Triangulus habet duobus rectis æqualis , igitur paralella funt , quia parallele fit . a : í с 18.INSECVNDVM LIB. DE EO QUOD NON EST PENES HOC. VONIAM idem utique falſum per plures fup pofitiones accidere, nihil fortaffe inconue niens , ueluticoalternas coincidere, & fimas jor eft extrinſecus intrinſeco , & fi triangu lus haberet plures rectos duobus . Quod autem parallela a , b , c, d , coincidunt fic perſuaderiui. detur Angulus extrinfecus e , 8 , 6, maior eft angulo intrinſeco g, b , d, (quod quidem ſummitur falfum , pe nes quodſequitur impoſsibile ) ſed 9 4,8,6,6,8, ho per xiij.primi a -b Elementorumſunt æquales duobus re&tis igitur b, 8,5,64,6,8, erunt d minores duobus reftis per illam igi tur communem fententiam , ſi una f recta ſuper duas rectas ceciderit at que ex una parte cadėtis linee duo anguli intrinſeci fuerint minoris duobus reétis, illas duas reétas ad pars tem illorum angulorum concurrere neceſſe erit, fi protrahantur . Et fi triangulushaberet plures rectos duobus . Duo Anguli g , h, k ,68, k , h , ſuntmaiores duo . bus re&tis , multo magis igitur b , h , k , d , k , h , ſuntmaiores duos, bus rectis,igitur duo a , h , k , k , h , ſunt minores duobus res a. h b & is , quia omnes quatuor 6 , h , k. a , b , k . d , k , h . @c , k , h . og ſunt æquales quatuor reftis per des cimamtertiam primi Elementorum bis fumptam ,igitur b , a , d , c , f adpartem a , c , protracte concurs rent, per illam animi conceptionem ,fire &ta ſuper duas reétas cadensfes cerit duos angulos'ex una parte minores duobus reétis, illa duæ lineæ ad illam partem protracte neceſſario concurrent . ! Co Cс PRIORVM ARISTOT. IN DE DECEPTIONE QVÆ FIT SECVN DVM SVSPITIONEM. ELVTI fia , ineft omnib , buero omni c , a omni c inerit , fi itaque quiſpiam nouit quòda ineſt omni , cuib, nouit & quòd cui c, fed nihil prohibet ignorare c, quòd eft, ut ſia duo recti, in quo autem b , triangulus,in quo uero c , ſenſibilis triangulus , fufpicari nanque poflet aliquis non eſſe c ,fciens quod omnis trian gulus haberet duosrectos, quare fimulnoſcet,& ignorabit idem . Textum ſimilem habes in pofterioribus in principio primi,preu ter ea , quæ ibi dicentur pro nunc ad explanationem huius Textus, prie mo littera exponatur , omne b eft a , omne c eſt b , igitur omne ceſta , uel omnis triangulus habet tres duobus rectisæquales , qui conſtitutus eſt in tabula est triangulus , igitur qui conſtitutus eft in tabula habet tres : duobus reétis æquales,ſed ſimul dicas o charateres terminos,omne, b trigonum eſt habens tres angulos duobus rectis æquales , omnec fen . fibiletriangulum eſt triangulum , igitur omne c ſenſibile triangulum habet tres angulos æquales duobus re &tis . Cum teneret quis hanc uni uerfalem , omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis nondum fciebat , quòd ſenſibile triangulum effet huiuſmodi , quòd han beret tres , uidelicet duobus re &tis æquales , niſi potentia , non autem actu ; quàm primum autemfyllogizauit ſubſumptaminore , statim intua. lit , «cognouit , quod ſenſibilis triangulus , tres duobus rectis pares haberet. Cum autem ait ſuſpicarinanque poſſet aliquis , non eſſec , non eft intelligendum , ſic ut Græci , o omnes exponunt , quaſi quod ignos retur an fit c , fed hoc non uult Ariſtoteles dicere ,ſed cum inquit fufpicari nanque poſſet aliquis non eſſe c , hoc intelligas modo , quod stante prima uniuerſali, poterit ignorare anc, habeat tres duobus re &tis equales , licet non ignorauerit c effe , fed ignorabit c eſſe huiuf modi, utputa , quod habeat tres duobus rectis æquales ; ſcietigitur po tentia in uniuerſali propofitione , Waétu ignorabit in particulari ante quàmfiat fyllogiſmus. Syllogiſmo autem fačto ,feu fa & ainduftione Geos trica de qua inprimo posteriorum Textufecundo)a & tu ſcit, quòdfenſis bilis triangulus duobus re&tis tres pares habeat,nihil igitur prohibetfi . Cij 20 IN SECVN. RIO. ARIST. mulſcire , ignorareidem ſecundum diuerſa , ut ſcire potentia iniſud uniuerſali , & antequam fiat inductio, oignorare ſimpliciter , ut pus ta in particulari. DE A BDVCTIONE. VT Rurſus fi pauca ſint media ipſorumb , c , nanque & fic proximius ipfi cognoſcere uelutiſid eſſet quadrati, in quo autem e ,re etilineum , in quo uero z circulus , fi ipfius é z ſolum eſſet medium ,hoc , quod eft cum lunulis, æqualem fieri circulum rectilineo ce ſīpoflet prope ipfum cognofcere . In predicamento ad ili quid circa quadrare circulum fuit determinatum quantum fiebat fa tis ad Ariſtotelis intentionem , e de quadratura fuſius in fragmena tis noftris , fuper Logicis , multa declarabo , quo ad preſentem te - xtum Ariſtoteles facit fyllogifmum , cuius minor , cumſit dubia e oba ſcura , dicit unum eſſe medium ad probandam illam , arguit e, rectilis neun , d quadratur , ſed z , circulus fit reetilineum , igitur circulum quadrari,poſſet quis eſſe prope cognoſcere, minorem tentauit Antipho , Hypocrates chiusprobare per id medium , quod lunulas ad rectilis neas figuras nixi ſunt reducere, diuerſis tamen medijs , alio enim mos do tentauit Antipho , o aliter Hypocrates chius , qux figure reetilis neæ reducebantur poſtea ad quadratum , eo artificio , quo Euclides docet ultima ſecundi Elementorum , oſyllogiſmus connectatur ſic , ut fimul dicam characteres , me terminos Ariſtotelis , e , rectilinea figura , d quadratur , fed z circulus e figura rectilinea facta est, igitur zcirculus, d , quadratur . 21 IN PRIMVM LIBRVM POSTERIO RVM ARISTOTELIS, PETRI CATHENÆ NOVA INTERPRETATIO . TEXTVS SECVNDVS. VPLICITER autem neceffarium eft præ cognofcere , alia nanque , quia ſunt prius opinarineceffe eft,aliaueroquid eft , quod dicitur intelligere oportet, quædam autein utraque , ut quoniam omne quidem , quod eſt , aut affirmare, aut negare uerumeſt quia eſt , Triangulum autem quoniam hoc fignificat ; ſed unitatem utraque , & quid ſignificat, eſt quia eft , non eniin fimiliter horum unumquodque manifeftum eſt nos bis . Græci omnes , pariter & Latiniuniuerſi confuſione plenum rede dunthoc in loco Ariſtotelem , nedum qui ſcripſerunt , fed etiam recens tiores , quihac tempeſtate eum interpretantur , & priuatis colloquijs, epublicis etiam lectionibus. Anſammultorum errorum pofteris omnis bus prebuit . Ioannes Grammaticus Cognoinento Philoponus , ſuper hoc Textu in cuius expoſitione plufquain errorum mille contra Ariſto telis ſententiamfcripſit , qua decaufa , ipfa ueritate fretus, &uniuers fæ logicorum utilitati conſulens , lucidum , facilein , atque clarum Aris stotelem in hac parte reddere decreui, o inſaniam ignorantiæ depri = mere, ne etiam in futura tempora amplius à forticulis doctrina tamclan rißimiPhilofophilabefactetur , ſcito in primis , tres eſſe modos pres cognofcendi, quos Aristoteles ponit , in hoc Textu , unicuique hos rum modorum aptißimum ,atquefacilimum exemplum poſuit , feruans exemplorum ordinem cum ordine modorum precognofcendi, ſic , ut primo precognofcendi modo primum exemplum aptet ,ſecundo modoſe cundum , atque tertium tertio . Nequete perturbet , quod Ariſtoteles IN PRIMVM LIB . ait , dupliciter fit neceſſarium præcognoſcere'. Tripliciter autem dixes rim ego , primo autemmodo , opus eft præcognoſcere , quia eſt tantum, alio autem modo , quid eft id , quod nomen dat intelligere folummodo quos duos modos ab inuicem ſeiunctos , in tertio modo in unum aggregat uerum methodum compoſitiuam ſeruans . Duo igiturfunt modi precos gnoſcendi, alter quidem in parte oſeparatim , reliquus uero in totum , oin parte quidem biffariam . Vnus tantum quia eft ,reliquus uero tans tum quid ſignificet , in toto uero ille eft modus , qui horum utrunque in ſe comple &titur . Exempla Ariſtotelis multos Geometric ignaros turs batosego stupidos reliquerunt , qui ab Apoline reprehenfi , &fpreti à Platone , uagantes fomniauerunt , hoc in loco , tria attůlliſje Ariſtotes lem exempla , in ſcientijs diuerſis . Nempe Methaphiſica ,Geometria , O Arithmetica , quod chimericum eſt , ex ipſa uunitate magis uanum , fi enim ueftigijs fapientum Methaphiſices,Geometrie , & Arithmetica, prima limina attigiſſent, non incidiſſent in hasſuas philoſophicas furias, dicunt enim , quod artificio , id Ariſt. fecit,ut de demonſtratione agens, que inſtrumentum uniuerſale est , tria exempla (ſuam oftendensfacuns diam ) in ſcientijs tribus fpeculatiuis , &uniuerſalißimis attuliffe , ſic , uttandem concludant in ſua expoſitione Ariſtotelem uoluiſſe equinam ceruicem humano capiti iungere , &uarias plumas diuerſarum ſcien tiarum inducere , ut tandem tria formoſa , &pulcru exempla deſinant in nihil dicere. In una demonſtratione , datum eſſet unitas , queſitum triangulus , e principium Methaphiſicum , ualeat pereatque cim ins terpretibus hæc interpretatio . Non est Ariſtotelis confuetudo , exeine pla afferre ( aliter effet edire &to contra exemplorum naturam ) niſi ,ut do&trina , que aliquatenus non innitiatis uidetur obfcura , atque diffi cilis , fole clarior , atque perfacilis omnibus reddatur , quid rogo cons fufius, quàm in una re logica explicanda , tria exempla mutila , o tim diuerfa afferre ? ut in unotantum quia,in alio exemplo,folum quid ,c . in tertio exemplo , ey quia , &quid , ut tandem in piſcem definat fora mofa demonſtratio. Dico , omnia tria exempla attulliſſe Ariſtotelem in unica atque determinata Arte ; uel diſciplina Geometrica , quicquid Niphlus fentiat & fequaces , ex nulla eſt alia ueritas in hoc Ariſtotelis Textu , neque uerus fenfus , qui ad Ariftotelem faciat preter hunc , quem fubfcribo , uelint nolint omnes atque uniuerſi , qui philoponifena tentie initi uidentur, quem nullo modo ipſemet nec alij recteintelligunt, fcito primum , quod de lineis re&tis a centro ad circunferentiam du &tis POSTERIORVM ARISTOT. 23 1 Veruin eſt dicere quod ad inuicem funt æquales, uel non equales, ut etian de quolibet quidem quod est,aut affirmare,aut negare ucrum est,quia eſt, fimiliter,quòd quæ uni og eidem funt æqualia interſe funtæqualia ,uel in terſe nonſunt æqualia , uerum est dicere quia eſt ,ſed alteram partem hu ius diſiun £ ti fummit Geometra deffinitione xv. primi Elementorum , cum Similiter alterum alterius diſiunéti partem prebet prima animi conceptio primi elementorum , &hoc est uerum , quia est linearum à centro ad circunferentiam protractarum , ut adinuicem ſintequales , « prima ani mi conceptionis ,utſiab æqualibus equalia auferantur remanentia æqua lia erunt. Secundo loco exemplum poſitum est ,quid hæc uox , Triangulus ſignificet,quod etiam fupponit Geometra deffinitione xxi. primi Elemen torum , ex ſignificatfiguram tribus re &tis lineis contentam ,ſiue illud actu ſit ſiue actu non ſit,Quatenus tamen quæritur,nondü habetur,poteft tas men eſſe. Tertio loco ponit Ariſt.unitatem ,quæ quidem unitas , a quid ſignificet , quia eft ,utrunque habet . Hanc ego unitatem contra oma nes loquentes , « ad Ariſtotelis ſententiam aio , eſſe non eam , qua unaquaque res una dicitur,ut ea quæ eft principium numeri, ſed eſtres queuna ab illa unitate , quæ eſt principium numeri dicitur , nempe una linea recta data ſuper quam triangulum collocare oportet , ſiue ille fit æquilaterus , ut Euclides proponit , uel iſoſcelesaut gradatus, ut Aris ſtoteles querit in uniuerſum , quod quidem Proclum diadocum ,& Cam panumfuper primum primi Elementorum , non latuit, quæ unitas linea feu quæ linea una concluditur in decimaquarta primi Elementorum , tàm quàm queſitum , in qua quidem decimaquarta primi Elementorum ni hil de unitate, quæ fit principium numeri, ſed, una linea concludi tur , quæ linea una eſt datum inprimo problemate primi elementorum Euclidis , de qua lineæ unitate precognoſcitur , quid , utſit a puncto in punctum breuiſsima extenſio per diffinitionem tertiam primi elemehtoa rum , precognoſcitur etiam , quia est ,cum ipfa detur in prima pros poſitione primi elementorum . Ab Euclidis igitur methodo non recedens Ariſtoteles facilitat, declarat exemplis ubique locorumfuam do&tria hæc igitur uera atque germana Ariſtotelis interpretatio eft , alia , ut dixi nulla , fomnia igitur quæcunque diluantur , putas ne Arie ftotelem afferre illud Methaphiſice principium , nullo modo ad artem ali quam peculiarem contractum, uni Tirunculo in Logica inſtituendo ? ubi Methodus? que maior ordinis peruerſio ? quis nam in Logicum eua dere poterit niſi prius Methaphiſicis inniciatus fit? hec omnia uanis 11 nam , 24 IN PRIMVM'LIB. 2 tate plena ſunt, non faciunt niſi ad buccas inflandas . De unitate aus temdicit Ioannes ſic Ariſtotelem intelligere , ſicut docet Euclides pros poſitioneſextadecima ſeptimi Elementorum , fi unitas numeret quemli bet numerum , quoties quilibet tertius aliquein quartum , erit quoque, pernutatim ,ut quoties unitas numerabit tertium , toties ſecundus quar tum numerauerit , datum inquit Ioannes , eſt unitas, quæ eft principium numeri, de qua habetur &quid , & quia eft , o ſi hoc exemplo uidea tur Ioannes ueritatem quidem dicere , licet non ad mentem Ariſtotelis. Dico tamen quod Ariſtoteles neq; exponitur, & quòdfalfum eft,id quod Ioannes dicit ,ut quod unitas,quæ eſt principium numeri , fit datum ,non enim eſt unitas datum in ſextadecima ſeptimi Elementorum , fed unitas cum refpeétu ad numerum aliquem , quem numerat , eſt datum , que = ſitum autem eſt , ut ipfa tertium numerum numeret , ut ſecundus nus merus numerat quartum , quemadmodum amplius declarabitur in de tris plici errore circa uniuerſale.Preterea dignitas ſiue premiſſa in hac loan nis indu &tione eſt duodecinaſeptimi Elementorum , que probatur per precedentes , onon eſt immediatum principium ,exponitigitur Ariſtoc telem per unam demonſtrationem , quæ non procedit per immediata prin cipia , quod non eſt imaginandumin hoc propoſito , preualet igitur ex poſitio de unitate lineæ , quia ibifit deductio per immediata principia ut per xv.deffinitionem ,& prima animi conceptionem primi Elementorum Ecce quàm aliena est loannis expoſitio ſuper Textum Ariſtotelis . Die co igitur datum , eſſe unam rectam lineam , quæſitum , ut ſuper ipfarn trigonum conſtituatur , &quod , id conſtitutum , ſit trigonum , probas tur per decimamquintam deffinitionem , vprimam animi conceptionem primi elementorum . TERTIVS TEXT V S. ST autem cognoſcere alia quidem prius cognofcentem . Aliorum vero , & fimul notitiam capientem , ut quæcunque , con= tingunt eſſe ſub uniuerſalibus quorum haa bent cognitionem ; quòd quidem omnis triangulus habet tres Angulos æquales duobus rectis præfciuit , quòd uero hic , qui in ſemicirculo cft , triangulus fit , fimul inducens cognouit. Duos modos ſciendi POSTERIORVM A R IST. 25 ſciendi hoc textu tangit Ariſtoteles , primus , qui eft per reminiſcens tiam,de quo nondubitarunt antiqui . Alter uero, es ſecundus est , quo de nouo aliquid ſcimus , qui fuit alienus ab antiquorum mentibus, ſur per hocſecundo , ſit noſtra expoſitio . Ioannes Grammaticushanc para ticulam , fimul inducens cognouit, interpretatur fic ,ut per inducen tem intelligat eum , qui habens triangulum in ſemicirculo pićtum , ofub penula abſconſum , oftendat eum triangulum eſſe , quaſi abijciens penus lam , ey aperiens manum obijciat ipfum triangulumoculis uidere uolens tium , &Latini omnes fimiliter ,& Aueroes fequuntur ipſum in hac interpretatione . Non poſſum non mirari hominisiftius alias doétißimi expoſitionem & omnium fequatium ,que quidem interpretatio, fi ads mitatur,statim uidetur , quod Ariſtoteles uanus ſophifta effectus , id do ceat , quod ipſe reprehendit contramale foluentes,ubiinquit in fequenti textu,Nemoaccipit talem propofitionem ,oinnis triangulus quem tu ſcis eſle triangulum ,quod utique illi agebant de dualitate abſconfa inmanu,quòd neſciebant eameffe parem , quouſq;nonuiderent quòd illa eſſet dualitas . Ioannes &omnes interpretes Ariſtotelis allucis nati ſunt, putantes quod illa littera Ariſtotelis ſic debeat legi, quod ues ro est in femicirculo triangulus fit , fimul inducens cognouit ;cognouit quidem quodfit triangulus , per induétionem , id eſt per oſtenſionem ad oculum , aperta manuin qua abfcondebatur , ſic ut illa induétio certificet de eſſe triangul , quod ridiculum est , o uſque ad hæc tempora , falfum pro uero habitum ,henuga deſtruunt Ariſtotelis ſententiam ; non enim Ariſtoteles de trigono in ſemicirculo defcripto dubitat an trigonum ſit , neque igitur estopus, ut dubium remoueatur per oſtenſionem ad oculum quòd trigonum ſit , quia ut dixi, hoc non reuocatur in dubium , ſed has bita , hac uniuerſali ,omnis triangulus habet tres æquales duobus res Etis , dubitatur an qui in ſemicirculo eft triangulus , &qui quidein a &tu uideturſit huiufmodi , utputa , quòd habeattres angulos equales duo bus rečtis , quod quidem manifeftatur non per ſenſitiuum indu &tio s nem , quia per illam oftenditur tantum quòd fit triangulus , ut illi mda li interpretes exponunt. Neque id oftenditur per inductioncm Topia cam , que à particularibus ad uniuerfalem procedit , ocontrariatur huic poſterioriſtico proceſſui , quifit ab uniuerſali ad particularia , rea ftat igitur declarare quæ induétio fit illa de qua loquitur Ariſtoteles , quam dicunt aliqui elle ſenſitiuam , aliter tamen ſenſitiuam quàm loans nes Grammaticus intelligat , dicunt enim quod talis fenfitiua oftenfio 1 1 D 26 IN PRIM VM LIB . couptatur in Syllogiſmoſic , omnis triangulus habet tres angulos equat les duobus rectis, ſed hic qui in ſemicirculo , eſt triangulus, igitur hic qui in ſemicirculo , habet tres duobus rectis aquales,ecce inquiunt,quos modo minor eſt ſenſitiua , quia ponitur illud pronomen oftenfiuum , isti funt in errore maiori forſan quàm precedentes , putant eniin quod illud pronomen , &fimilia pronomina ſint oſtenſiua ad fenfum , quid igitur dicendum erit de hisloquutionibus,hic Apolo eſt cui barbam abraderefe cit Dioniſius, huic Apolini coronam Papus , iufsit fieri, & iſte Aurifexfædauit aurum ; ueletiam iſte est Euclides,quem Plato in theetes to commemorat , non ne omnia ifta pronomina oſtenfiua , funt ad intela lectum , & ſi quandoque per accidens ad ſenſum ſint oſtenſiua ? ideo pronomen in iủa minori , ſiper accidens oftendatad ſenſum , oſtenſia uum tamen precipue eft ad intellectum , aliter cecus non poffet illum Syla logiſmum efficere , quòd manifefte falfum eft , ueritas non eis obuiam uenit ſic interpretantibus.Laborant adhuc dicentes ,quod ila inductio nil aliud est quàmfubfumptio huius minoris , fed hic qui inſemicirculo est triangulus , fub illa uniuerſali nota , omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis , illam quidem diſpoſitionem premijarum in figus ra &modo , uocant inductionem , hoc autem non facit fatis ad Ariſtotea lis litteram ; quia ante quam inferatur concluſio , neſcitur de triangulo conſtituto inſemicirculo quod tres habeat duobus reftis æquales niſi po= tentia , poſt quam autem illatafuerit concluſio ,fcitur a &tu, o noi ama plius potentia, quòd uult Ariſtoteles,ut poſt quàmfactus fuerit ocoma pletus ſyllogiſmus, fimpliciter ſcitur,quod qui in tabula ,habet tres æqua, les duobus rectis . Agamus igitur & nos ,o . Ariſtotelis litteram prius diſponamus , ſubinde ſententiam exponamus.. De triangulo uero in feinicirculo conſtituto fimul inducens cognouit. Simulcum uniuerſale triangulo ſcit ipſum particularem trianguluna, quòd habet tres æquales duobus rectis , &hoc,inducens, uerbum hoc inducens du asinductiones ſignificat. Alteram Geometricam ,reliquam ſyllogiſticam , quæ etiam ordine ponuntur in littera Ariſtotelis dicentis ,antequàm in duétum ſit,uelfactus fuerit fyllogifmus , quæ duo uerba, non ſunt fynow nima , ita ut und &eadem res per, utrunque uerbum , inductum ſit , uel fa& usfuerit fyllogiſmus ſignificetur, quia in doctrinis,non utitur termin nis ſynonymis ,neque Ariſtoteles multiplicat uoces , terminos ean dem rem ſignificantes . Dicendum igitur, quod aliam rem uox hæc indue dio, &aliam ifta uox ,fyllogiſmus,ſignificat , non gūteſt indu &tio aliqua POSTERIORVM ARISTT.. 29 prediétismodisfupra citatis, ut probatum fuit , relinquitur igitur, ut inductio per quam ſcimus,quodtreshabeat æquales duobus reitis is,qui infemicirculo defcriptus est,nulla alia fit,neque excogitari poſsit quàm Geometrica induétio . Ila autem huiufmodi est , fuppofita deſcription per trigeſimamprimum primi Elementorum , Angulus c b d eft æquas lis ang ulo & c b, per primam par tem uigeſimenos lice primi Ele - mentorum Euclia dis , &Angulus dibe equalis eft ang ulo cab per fecundam partem uigeſimenone primi elementorum , totus igitu * cbe , eſt æqualis duobus angulis cøa, fed cbre, cum c b a per xiij. primi Elementorum equiualet duobusrectis , igitur angulia , cum eodem c b a , funt equales duobus reétis,quod inducendum erat, de triangulo ac b in ſemicirculo deſcripto,qui triangulus non erat abſcon fus immo ante oculos offerebatur, tamen illa oblatio,non erat inductio de qua Ariſtoteles intelligit , quam inductionem quis unquam utcun queetiam intin &tus litteris dicet , unum eſſe fyllogifmum ? quofyllogif mounico (it inferius declarabo) poteratidemfyllogizari , neque enthis meina unum eft, cum ibi multe ſint conſequentie, Enthimemaautem und tantum conſequentia eft , quòd neque Topica , inductio , patet ; quia ibi à ſingularibus ad uniuerfalem progredimur,in hac autem induétioneper decimamtertiam Guigeſimănonam primi Elementorum ,quæ uniuerſales magis funt quàmſecunda pars trigeſimæfecundæ primi Elementorum per quam patet intentum de triangulo in tabula conſtituto . Neque mi reris quod in hacinduétione non fumitur illa maior , omnis triangulus habet tresangulos æqualesduobus re&tis , quia illa fumiturin inductione fyllogiftica , in inductione uero Geometrica , fumitur decimatertia,cui gefimanona primi Elementorum , in utraque induktione cumGeometri ca ,tum etiam fyllogiſtica fit proceſfusab uniuerſalı ad particulare,uel ad minus uniuerſale, Syllogiſtica uero induétio,ex duabus premiſsis, illa ta concluſione conſiſtit, quafyllogiſtica indu &tione fæpeutitur Ariftoteles ut Tex.xciiy.Secundum partitionem loan.Grammatici,uel Textu trigeſi monono in paraphraſi, in magna , pero expoſitione Tex .clxiij.prima Dü IN PRIMVM LI B. poſteriorum , & alibi, habita o ſcita hac uniuerſali, omnis triangulus habet tres equales duobus reétis ,fatur modo aliquo idem de conſti tuto in ſemicirculo triangulo , ſimpliciter autem non fcitur,ofacta ine duftione ſyllogiſticaſimpliciter ſcitur , quod qui in femicirculo eft triane gulus , ſit huiuſmodi, ſicut ſcita decimitertiaeuigeſimanona primi elee mentoruin ſcitur potentia , quod qui in ſemicirculo eſttriangulus , duo bus rectis tres habeat pares ,licet nefciat, an qui in ſemicirculo ,fit triana gulus,ut Ariſtot,ait Tex.101. uel 169.a{tu autem , o ſimpliciter fcitur per Geometricam induétionem , quæ ſemper ex ueris, primis , caufis ila latiuis conclufionis , ex magis notis procedit, non autem ex immediaa tis ſemper , nequc ex cauſis quedant eße , fed ex his tantum , quæ dant propter quid iŪationis , tale inſtrumentum quod induétionemGeomes tricam uoco,non est una conſequentia , fed plures , ut plurimum , neque per immediatafemper procedit ,fedalternatim per immediata , oper ea que probatafunt procedit,inmediata autem , uoco propoſitiones per fe notas , etiam illas propoſitiones demonſtratas,quæ immediate proz bant fequentes , de hoc quidem toto inſtrumento non aliter Ariftoteles traftauit , nifi per particulas illas , utſupra commemoratas , ut ex ues ris Oc. Tractauit tamen de fuis partibus, ut de enthymemate , quòd pluries fumitur in tali induétione Geometrica,o de fyllogiſmo, ad quem reducitur talis inductio,non tamenadunun tantum ,ſed ad pluresfyllogif mos , neque uelim dicas propter hoc, quod Logica, Geometriam debeat precedere,utplacet nonnullis niſi deLogica,que natura nobis ſuccurrit. Quorundam enim hoc modo diſciplina eft, & non per inedium ultimum cognofcitur , ut quæcunque fingularia jamelle contingit, uec de fubiecto quoppiam . Hunc locum Ariſtotelis extorquent penė.omnes,uerum quidemdicunt, ſed in fua ues ritate duo errores continentur , primus eft , quod interpretatio non est ad propofitum , fecunduserror, quia id quodaiunt contradicit huicloa ÇO Ariſtotelis , inquiunt enim , quod per medium , ſcitur ultimum , hoc est , quod ultimum . Nempe maior extremitas concluditur per medium de ipſa extremitate minori . V.ideas quanta fit horum hominum uanitas, Ariſtoteles negatiue loquitur . Et non per medium ultiinum cox gnoſcitur. Ipfi autem uani exponunt , per medium ultimum cognofcia tur , aduertendum quod medium in propoſito intelligit Ariſtoteles ,quod non tantum fitu ,medium intelligas, quod bis in premißis capitur, fed me dium hoc loco,nil penitus aliud est quam , quodquid eft ipſius rei , ut POSTERIORVM A R IST. 29 fparfim in primo poſteriorum , e in ſecundo manifeftuin eſt , in pri moenim , Textu 201. Juxta partitionein philoponi , uel 39. uel Textu 169. iuxta aliain partitionem ; ait Ariſtoteles , quod uniuerſale mon ſtratur per medium , &non particulare ; uerbi gratia ,hic non per mea dium ,omnis homoest riſibilis Socrates eft homoigitur Socrates eſt riſi bilis , ly enim hono , non eft quodquid est , ſed eſt ſubiectum , hic uero per medium , omne animal rationale eſt riſibile , omnis homoeſt aniinat rationale, ergo omnishomo eft riſibilis, ibi enim animal rationale eft mes dium , fi inftes fic ,omne animal rationale eſt riſibile Socrates est animal rationale ,igitur Socrates est riſibilis . Dico quòd hoc non eft per fe,eta primo de Socrate , quòd fit animal rationale , nec etiam riſibile per ſe , & immediate,argués igitur fic ,omnis triangulus habet tres æquales duo bus rectis ,fed qui in ſemicirculo , eſt triangulus , igitur qui in ſemicir= culo habet tresæqualesduobus rectis . Ibi enim triangulus non eft quot quid eſt, ſed potius ſubie &tum , feu genus , ibi igitur non eſt demonſtras tio , licet fit fyllogifmus , &fi adhuc inftetur ,quod per decimumtertiam &uigefimamnonam prini,demonftretur quòd qui in femicirculo , ha beat tres equales duobus rectis , igitur ei qui in ſemicirculo eſt , non con uenit; quia triangulus;fed per decimamtertiam euigeſimamnonam pris mi Elementorum . Dico quod in inductione Geometrica , qua de triana gulo in ſemicirculo cöftituto oftendebatur,quod habet tres æquales duos bus rectis per decinătertiam ( uigefimamnonam primi, id immediate nõ conuenit triangulo quatenusſit in femicirculo deſcriptus , fed ut trian . gulus eſt, ut oſtenditur ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elemen torum ,fecundoautem , &per fe non immediate,omnibus alijs triangulis. Quorundam igitur ſingularium (quorum quodque non predicatur de ali quo ſubiecto , quiafingularenon predicatur deſubiecto aliquo , ut in pre dicamentis determinatum est ab Ariſtotele ) diſciplina est , non per medium , ultimum cognofcitur, cognofcitur quidem ultimum nempe mie iorem extremitatemineſſe minori ,fedhoc non permedium , id est non per quod quid est . Si vero non eft ita ,quæ in Menone contin . get dubitatio , aut enim nihiladdiſcet feruus Menonis,aut quæ prius nouit addiſcet non eniin iam ueluti quidam ni. tuntur foluere dicendum eft particula illa . Si uero non eſt ita,videlicet fi non eft fcire de nouo,ab uniuerſali ad particulare progre diendo ; tunc , quæ in Menone eſt, contingit dubitatio , particuld illa : Non enim iam . Yerbum illud iamfuturi temporis eſt, fic utfit ſens 30 I N P R IM VM LIB . ſus habita mea doctrina,omodo quo dixi, nos fcire de nouo ,quod id addiſcimus , quod tamen aliquo modo fcimus, non foluas poſt hac , eo modo , quo illi nitebantur foluere , fed eo palto ut predocui , it de omni dualitate fciens quod par ſit , de abfconfa in many dicas, quòd etiam de ea fcis potentia , quodſcit par . Veluti quidam nituntur ſoliere dicendum eſt . Exponunt Latini &Græci,hunc locum fic,quidam Platonici dicentes, nos nihil fcia rede nouo ,fed fcire noſtrum eratreminiſci arguebant illos , qui dices bant quod de nouo fcimus , &nitebantur Platonici ducere eos in contra dictionem ,hoc argumento interrogatiuo, aiunt enim Platonici ipſi jos ne omnem dualitatem eſe parem , nec ne anuunt quidam dicentes nos de nouo ſcire , ita eſſe , ſübinde atulerunt Platonici dualitatem dicentes , igitur fciebatis etiam hanc dualitatem , quam manu tegebamus eſſe pas rem , quod tamen effe non poteſt , quia nefciebatis ipſam eſſe dualitatem ecce contradictio , prius fatebantur ſeſcire omnemdualitatein eſſe par rem , &tamen neſciebantdualitatem hanc parem eſſe , quod manifeſtum contradictorium eft , reſpondebant autem illi , qui dicebant nosfcire de nouo , quod interrogati de omni dualitate, an par effet, reſponderunt non de omni dualitate abſolute , fed de dualitate quam utique dualitatem effe ſciebant , modo de illa , quæ abfconfam tenebant , oque non erat fibi nota , ut eſſe dualitas , non fatebantur illam eſſe parem , quia neſciebant illam effe dualitatem , ita ut hec expoſitio, eotendat , ut Ariſtoteles res prehendat illos , qui dicebant nos ſcire de nouo , quia male foluebant Argumentum Platonicorum , xnihil dicat Ariſtoteles contra Platoni. Cos. Expoſitio autem mea , e directo opponitur , huic omnium expofie tioni , ſic ut Ariſtoteles arguat Platonicos male foluentes argumentum dicentium nosfcire de nouo , & contra hos dicentes , quòd fcimus deno uo, nihil in hoc Textu dicit Ariſtoteles . Pro cuiusfententia declaranda, Queritate , est in primis aduertendum , quod in hoc textu , quoſdam in telligit Ariſtoteles dicentes , quòd de nouo nos fcire contingit aliquid , quod tamen etiam preſciebamus in uniuerfali, oiſti inquiſitiuo argu mento probant intentum contra tenentes , quòd ron ſcimus quippiam de nouo , quorum negantium de nouofcire reſponſionem redarguit Ariſtoa teles, einterargüendum , peccant og errant in perſuadendo id , quod probare nituntur , quem errorem , &peccatum dicentium nos de nouo ſcire , non redarguit Ariſtoteles propter duas cauſas , altera est , quia eft adeo manifeftus , ut fine reprehenſione à quolibet cognofcatur pre POSTERIORVM ARIST. meil , habita intelligentia primi textus huius primi , reliqua caufa quare: non eos redarguit est , quia primo textu feclufit fuam perſuaſionem , dicens omnis doétrina , o diſciplina intellectiua a diſcurſiua , ex præexiftens ti fit cognitione , ex preexiſtenti non quidem ſenſitiua, quia illa à Singue laribus ad uniuerſalem , hæc uero poſterioriſtica e contrario, ab uniuer ſali ad fingulare procedit , ideo eos non reprehendit Ariſtoteles , quia , quifq; per fe intelle &to primo Tex.cognoſcit; quo modo errabat ilii inter arguendum . Inquiunt enim arguentes , noftis neomnem dualitatem effe parem necne ? afferentibus Platonicis attullerunt eis quandam dualitas tem , quam non exiſtimabant eſſe , quare neque parem , en dicebant iſti arguentes , ſciebatis in uniuerſali, quod omnis dualitas est par , otas hoc , ideſt paritatem de hac dualitate , qua manu abſcondebatur neſciebatis , quiaignorabatis quid eſſetin manu, num dualitas,uel quips piam aliud , autnihil, « nunc uos fcitis iam per apertionem manus prius eam tegentis , in particulari hanc determinatam , & particularem dualitatem eſſe parem , ecce quomodo ab uniuerſalicognitione deuentum fuerit in cognitionem particularis , quod prius dubium apud uos erat . isti ſic arguentes peccant contra primum textum , utſupra dixi, ocon tra Tex. 112. Neque per ſenſum eft fcire , putabant autem isti ars guentes illam intuitiuam ſenſationem eſſe doctrinam ſeu diſciplinam . Quia tamen cum Ariſtotele in intentione , quod de nouo fcimus, & quia etiam error in perſuadendo manifeſtus eft , ut predocui, de intelle &tiua quidem & diſcurſiua diſciplina loquitur Ariſtot.ut de uirtute in uniuer ſali etiam in Menone erat ſermo ideo modo Ariſtoteles dimittit illos ,tam quàm non concludentes propoſitum , quodfatebantur , & diuertit ſe ad Platonicosmale foluentes argumentum ,tenentes quod id quodaliquo mo do ſcimus non poſſumus de nouo addiſcere , uel quòd nostrum ſcire,fit re miniſci, foluunt argumentum ſic, non enim fatebantur Platonici ornem dualitatem eſſe parem , neque dixerunt ſeſcire omnem dualitatem eſſe pa rem ,ſed dixeruut dualitatem , quam utique nouerunt dualitatem effe, mo do cum neſciuerint, an id , quod manu tegebatur effet dualitas, neque ali quo pacto fciebantipſam eſſe parem uel etiam imparem ,quiaſic aiebant, prius,debemusſcire,an fit dualitas,&poſted ,an parfit,uel etiam impar, ita ut quandointerrogati fuerant,an omnem dualitatein ſcirent eſſe parë uel imparem reſponderunt utique de dualitate hoc ſcire , quam quidem dualitatem eſſe nouerant , uerum eſſe, ſed de dualitate in manu abſconſa, nihil fciebant , nec quippiam deea aliquo modo fciebant, ideo nefciebant I N P R I MVM LIB. 3 idem uno modo , ut in uniuerſali de illa dualitate ,quòd effet par , u idem ut quod effet par ignorarent in particulari , atqui ſciunt cuius des monſtrationem habent , & cuills acceperunt. Acceperunt autem non de omni, de quo utique nouerint; quòd triangulum aut quod numerus ſit , ſed fimpliciter acceperunt ; illi arguebant deomni numero duali, atque triangulo,&c . Similiter reſponderunt illi , quod ſciebant omnem dualitatem efle parem . Verba hæcfunt Ariſtotelis contra tales reſpondentes,nullus enim propo nitſeu interrogat , aut nulla propoſitio accipitur talis , quòd quem tu . noſti eſſe numerum dualem , nofti ne eſſe parem ? aut quam noſti rectili neam figuram eſſe triangulum , quòd habeat tres æquales duobis reétis ? ſed accipit de omni numero duali, ede omni figura rectilinea trilatera, quis enim proponeretſuo tam inerudito colloquio fic,nunquid nofti oma nem dualitatem quam eſſe dualitatem nofti, quòd par fit ,autnon ?ines ptam igitur, contra loquendi modumfolutionem reprehendit Ariftot. reprehendens quidem Platonicos malefoluentes, cui non illos de nouo fci re dicentes perperam arguentes ; &modum fciendiquo de nouo fcimus fimpliciter id , quod potentia ſciebamus epylogando dicit , Sed nihil (ut opinor) prohibet, quod addiſcit aliquis ſic in particula ri , ante ſciuiſſe in uniuerſali , & in particulari priusignos raſſe, abfurdum enim non eft ,fi nouit quodam modo, quod addiſcit , ſed ita eſſet abfurdum , ut inquantum ads diſcit, co pacto ſciat. Idem diſcurſus &expoſitio fiat ſuper Textu fecundo priorum , in capitulo de Deceptione ſecundum fufpitionem , qué etiam Textum perperam interpretātur pſeudo philofophi. De dualitate autemſiquis nunc interrogaretur, noſti ne omnem dualitatem eſſe parent nec ne ? annuat quod ſic , o ſi offeratur abfconfa in manus dualitas, dia cat quod etiam ſcit eam in potentia parem effe, licet neſciat a & u , quod dualitas ſit ,e eft fententia Ariſtotelis Textu 101.0 in hoc Textuhas bita una atque altera interpretatione, cui dubium eft fecundam eſſe pres ftantiorem prima ?niſi quis dicat primam eſſe preſtantiſsimorum philo fophorum tàm ueterum Græcorum quàm Latinorum omnium prefertim iuniorum mentem Ariſtotelis interpretantium , fecunda uero interpre tatio noua est , o hominis uniusfolius,quæ nullo modo preualere poteft contra tam preclariſsimosphilofophos , quihæc uerba , &fimilia proa ferunt ex Macrologia loquuntur ,non ualentes intelligere nifi ea , que auctoritate proponuntur , fpreta ueritate ege ratione, quis iam tam inerudit POSTERIORVM ARIST. 33 ineruditus est , quiputet Platonicos , qui ætatem confumpferunt in fua opinione de reminiſcentia , argumentari contra Peripateticos , niſi a Peripateticis prouocati ſint ? &quomodo prouocari poſſunt niſi exci tentur ? quo pa &to excitabuntur , nifi co argumenti modo , quem in ſecunda interpretatione narrauimus? deinde quare magis redarguit Ari ſtoteles ſemiperipateticos illos , qui conueniebantfecum in concluſione, quàm illos , quie diametro cpinabantur contra ipfum ? depoſitaigitur emulatone iudicet id quiſque, quodmagisueritatem ſapit , uerum eſſe, O rationi magis conſentaneum , & erit ,fifecunde interpretationi be rebit , primafpreta, &neglecta omni ex parte . TE X T VS NON VS. ER A quidem oportet eſſe ,quoniam non eſt fcire quod non eft ,ut quòd diameter fit fie meter. De diametro , coſta pluribus locis Arifto telesſermonemfacit, utinprioribus, & in Methaphy : ficis , quapropter , hoc loco declarabo eius fententiam , ut poſteafit omnibus in locis clara , primoſcire debes , quod uera eſſe oportet ea , quæ fciuntur , ita ut ueritas ſuſcipiatur pro illa ueritate que est in concluſione , &non pro ueritate , quæ in prins cipijs est , a hoc probat indire & te , quia fi falfum ſciremus , utputa quod diameter eſſet commenfurabilis coſte , tunc imparia æqualia paribus fierent , o e conuerſo , ut ſi paria equalia imparibusfunt, igitur diame ter eft coftæ commenfurabilis , quod estfalfumſi igitur hocſciremus,ſci remus utique quippiam ex non ueris , fed pofuit, quòd fcire ex ueris fit, igiturſciremus ex non ueris &ex ueris, quod eſſe non poteft per immea diatam contradi tionem .Diametrum igiturincommenfurabilem cofte ef ſe noſcimus , quia impar pari æqualisnon eſt ,in qua re,talis eſt demons ftratio ſecundum Euclidis ſcitum in decimo Elementorum , qua ducitur ad hocincommodum , pofita iſta , quòd diameterſit commenfurabilis co ftæ,fequitur , quod numerus impar eſſet par , quod eftcontra primum principium ab Euclide poſitumfeprimo Elementorum ſexta &feptima deffinitionibus,uel etiam nono Elementorum prima &ſecundafecundum Campanum . In quare demonftranda fit diameter a b commenfurabis lis lateri a c (li ponatur) erit per quintam decimi Elementorum ab ad ac, ficut aliquis numerus ad alium numerum , quia illa communis , mene Б IN : P R I MVM LIB . b Cee ' . fo ... h............. g k.... ei6 fo L. m 64 kıż8 h 81 . a . fura,fehabebit ad illas duas lineds , diametrumfilicet , &coſtam a bigo á c , ficut unitas ad unum atque ad alium numerum ,unitas enim ut duos numeros illos metitur , ſic illa communis menſura diametrum , o coſtam dimetiretur,cuius rei ſenfus eſt iſte , quòd quoties continebitur in uno ats que altero numerorum unitas , toties illa communis menfura , quæ linea eft, continebitur in diametro , atque coſta , fint ergo numeri e @ f , qui ſint minimi in fua proportione, eritque ob hoc , alter eorum impar, quod fic probatur , fi enim uterque eorum effet par , non eſſent iammis nimi in fua proportione , ſi enim par uterqueſit ,uterque biffariam die uidi poſſet, outraque mediet asunius ad utramque alterius medietatem eandem haberet rationemficut totum ad totum ,quorumfunt medietates, ut patet de octonario atq; ſenario, cuius medietates ſunt quatuor, & qut tuor , atque tria etria,eadem enim fexquitertiaest,octo ad fex, qua tuorad tria, ſic e ofnon eſſentminimi inſua proportione quod est contra aſſumptum , quia fuæ medietates effent minores , quadratiigitür illorum minimorum e « f, ſint ge h , ſi ergo e eſſet impar , a f par , erit quoque per trigeſimam noni Elementorum g impar , fit itaque k duplus ad h, eritque k par,ex deffinitione prima noni Eleinentorum , quia igitur a b ad a c , ut e -ad f, erit per decimamodtauam fexti, ego decimāprimam octaui Elementorum , quadratum ab ad quadratum ac, ut g ad h , eſt itaque g duplus ad h , ſic enim est quadratun a b ad quadratum a c per penultimam primi Elementorum , quia ita k , etiam dupluseft ad h per affumptum ,ſequitur per nonam quinti Elemen torum , ut g numerus impar ,ſit equalis K numero pari. Quod fi e fit par , f impar , erit proportio f ad dimidium e , quod fit L, ficut POSTERIORVM ARIS T. 4 c ad dimidium ab, quod ſit ad , o ideo erit quadrati a c ad quadratum a d , ficut proportio numeri h , quieſt impar per trigeſi mamnoni Elementorumadquadratuin numeri L , quifit m, cui K poa natur effe duplus , eritque K per deffinitionem primam noni Elemento rum par, at quia quadratum a c est duplum ad quadratum a d per penultimam primi Elementorum , erit h duplus ad m . Cumque Kſit etiam duplus ad m , erit per nonam quinti, impar b , aequalis K nus mero pari , quod impoßibile à principio proponebatur demonftrandum C f . ........... go!" k ...... A Et ſi diceretur , quòd uterque eorum , quiſunt in fuaproportione mis nimi, ſit impar , ut quinque ad tria , ut ſcilicet e ſit quinque, ef tria quadrati illorum fint go b , eritigitur utraque eorum quadra= ta inparia per trigeſimam noni Elementorum , ſit itaque K duplus ad h , eritque k par ex deffinitioneprimanoni Elementorum ,quia igis . tur a bad a c , ut e ad f, erit per decimamoctauam fextielementorum vundecimam octaui,quadratum ab ad quadratum a c , ut g ad h , eſt . itaque g duplus ad h , fic enim est quadratum a b ad quadratum ac, per penultimam primi elementorum , & quia etiam k duplus est ad h.. per affumptionem fequitur , per nonam quinti elementorum , ut g numea rus impar ſit , æqualis k numero pari , quod est impoſsibile . Illatum , ſeu concluſio habita per hanc induftionem Geometricam eft ,quod impar par ſit , Ariſtoteles autem dicit , quòd diametrum effe comenſurabilem coft.e non ſcimus, quia ita non est, ſic ut illud fit conclufum , wnor af fumptum, ut in predi&ta indutione fa& um est . Vt autem fiatconcluſio Bij 336 " IN PRIMVM LIB. “, id , quod aſſumptum fuit , aduertendum , quod ut Ariftoteles in prima Poſteriorum determinat, Geometra non parallogizat , fed tota illa Geo metrica inductio est conſequentia formalis,quæ in omnibustenet, cs.com cludit ,nequeinquit, parallogizat Geometra , ut textus 62 probat Arift. ſubinde aliud etiam eſt aduertendum , ut in Topicis determinatAri ſtoteles, oſparſim in Logica fua , quod illa formalis eſt conſequentit , quando ex oppoſito confequentis infertur antecedentis oppoſitum , mos do cum ex contradiétione poſita , ut diametrum cofte eſſe commenfuram bilem ,ſequutum fit quòd impar numerus fit par , exoppoſito igitur con ſequentis , ut per numerus eft æqualis impari , igitur diameter coms menſurabilis ex coſte , id autem fequitur ex falfo poſito , ut quod ime parſit æqualis pari,igitur id quodſciretur , non eſſèt ex ueris, ſedpoſie tum fuit quod ex ueris oportet eſſe , igitur manifeſta eſt contradi&tio ,res linquitur igitur,quód diameter, nullo modo eſſet coſta commenſurabilis, eft igiturfalfum , igitur nonſcitur , quia uera effe oportet,quæfcim us TEXTV EODEM VEL TEX. V. OSITIONIS autem , quæ quidemeſt utram libet partium enunciationisaccipiens,ut dico aliquid effe,aut no elſe, fuppoſitio eft, quæ ue ro ſine hoc,deffinitio elt; deffinitio enim pofi tio eft.Ponit enim Arithmeticus unitatem in diuifibilem effe fecundum quantitatem , lup pofitio enim non eft. Quid enim eſt unitas, & eſſe unitaté, non idein eſt. Deffinitio inquit Ariſtot. non ponitur, altero membro contradicéte reiecto,utfit in fuppoſitione accipienda,fed deffinitionis na tura talis eft, ut ad hocquod ipfa intelligatur aget docente, eſt tamen & ipfa deffinitio,poft quam intellecta ſit ,etiam poſitio ,cõmuni uoce diéta,et legatur textus fic paulatim ,ponitenim Arithmeticus unitatem, utſiArithmeticum quis interroget, an unitas fit, uel non fit ? annuat quòd ipſaunitas fit,indiuiſibilem autem fecundum quantitatem ſuppoſia tio noneſt,ſed definitio, os exponitur àdocente, quia numerus quilibet diuidi poteſt, cumautem ad unitatem , ex qua numerus cöponitur deuen tum ſit, impartibilis omnifariam reperitur , ut poſito quocunquenumes ro, ut ternario, ocirca ſe, ex utraque parteſuper ſe numeri,esſuper illos , alij circumponantur, id toties fieripoterit,quousq; ad unitate dem POSTERIORVM'ARIST. 37 SH it 13 uentum fuerit,at ubi ad ill.im deuentum erit ,non fit ultraproceffus,ut cir ca tres,quatuor,& duo,etfuper hos,quinq; c unum ,medium horū aggre gatorī erit ternaris, hoc exemplari 1 2 345 ſignü eftigitur unitate eſſe principium impartibile omnium numerorīt, ut Boetius in Arithmetica, docet,modo, exſententia Ariſtotelis, non eſt idem ,unitatem fupponere, oipſam deffinire , quæ deffinitio eſt, unitas eft qua unumquodque unum effe dicitur, uel eft principium numeri, uel eſt indiuiſibilis, ex quo tamen indiuifibili, diuiſibilis numerus componitur, ad differētiam indiuifibilium fecundum magnitudinem , quæ indiufibilianon componunt diuiſibile ali quod. Age igitur ,ut Ariſtoteli placet, quòd non eſt fatis ad demonſtratio nem procedere ex fuppofitionibus , etiam immediatis, fed opus eſt etiam ex immediatis dignitatibus , que etiam dignitates improprie poſitiones funt, ideo in precedenti declaratione concludebatur ,numerū imparé eſſe parë,quia ex poſitione,quod diameter.eſſet commenfurabilis coſte, pros cedebatur, &non ex dignitate &deffinitione intelle &ta ,atque poſita. TEXT. DECIMUS ALIAS QVINTVS, CH fi re Lisa co UE ofi 18 ар 3 VONIAM autem oportet credere & ſcire ré, in huiuſinodihabendo fyllogifmum , quē 110 cainus demonſtrationein . Eft autem fic , eò quod ea ſunt,ex quibus eft fyllogiſmus,necef ſe eſt , non folumpræcognoſcere prima, aut omnia, aut quædain ſed etiam magis. Quico gnoſcit quòd Triangulus habeat tres equales duobus rečtis, prius nes ceſſe eft,ut cognofcat XIII . ey xxIx. primiElementorum actu , non autem ufqueaddeffinitiones fit refolutio pro illa x xXJI cognos feenda , omniaautem prima cognofceremus ,ſiuſque ad deffinitiones ago Elementa, ad que illius XIII. XXIX . primireſolutio fieret, que &fifitfactibilis, tedio tamennosafficeret , fi femperfieret ufqueadele mentaiſta reſolutio, fedfatis,quod hoc fieri poßit ,ideo dicit Ariſtoteles neceffe eft præcognoſcere prima,aut omnia,aut quçdam, Sed etiam magis aduertendum , ut declarabo fuſius Tex . 108 . huius primi,quòdquanto notitia eft deſimpliciori, illa, certior eft, quam que compoſitioriseft.Cum autem principium fit minus compoſităipfa concluſione, neceffe eft, ut &fua notitia ſit magiscerta , quam conclue fionis notitia ,ideo XIII, XXIX. per quas probatur fecunda pars IN PRIM VM LIB. trigeſimeſecunde primi Elementorum , ſunt magis nota , oſcite ,quàng illa fecunda pars trigeſimæfecundæ primi. TEXTVS XI. ALIAS V. MA 1 AGIs enim neceſſe eſt credere principiis, aut oinnibus,aut quibuſdam quam cons cluſioni. Aduertendum quòd magis credere ,fine pluri, nempe faciliorem effe credentiam aliud eft , à credere per demonſtrationem , & propter quid, fe ptima, atque octaua propoſitiones quinti Elementos rum , primo intuitu quando inſpiciuntur , facilius eis adheremus oafa ſentimur, quàm aſſentiamur deffinitioni fextæ ,atque o &taua eiufdé quins ti. Ecce quod non magis illis principijs credimus primointuitu , quins conclufionibus per ea principia demonſtựatis , ideo Ariſtoteles ait, aut : quibuſdam , non ſemper omnibus primo intuitu. Debentem autem habere ſcientiam per deinonſtrationé, non ſolum oportet principia magis cognoſcere, &, magis ipfis credere, quàm ei quod deinonſtratur. Sed & cete . Ada uertas quod & finotitia principiorü uideatur diſtantior intellectui quàm notitia concluſionis, tamen non poteſt uniri intellectui concluſionis notis tia ,niſi per notitiam principiorum ,quæ uidebatur ab intelle &u remotior, ut in illis concluſionibus , &principijs que precedenti comento citaui. TEXT. XVIII. AVT VIII. I ſiin omnilinea punctum finiliter eſt. Proprie hoc in propoſito de linea recta intelligas, que atu punéta habet terminantia , ficut homoactu eſt animal, o fi etiam de circulari intelligi poßit quæ in puncto à linea recta tangitur, fedde circulas ri expoſitio uideturfuperftitiofa , aliena à nas tura exempli , quia exempla per magisfaciliadantur , ita quòd, dequoa cunque uerum eſt dicere, quod fit linea recta , de co uerum eft dicere, quod in co eſt punctus. POSTERIORVM ARIS T. TEXT. XIX. VEL IX. 5, Elle P feo to oft 45 oné, 2015 Ado quan ER ſe autem funt, quæcunqueſunt in co, quod quid cft , utTriangulo ineſt linea , & : punctum lineę, ſubſtantia enim ipforum ex his eft , & quæcunqueinſunt in ratione di cente quid eſt. “ Philoponus & parum dicit ſuper hoc textu , uel étiam id quod dicit non facit ad propo ſitum Ariſtot. declarandum , uidetur enim quod tex. his contradicat que : determinat Ariſtoteles contra Platonem , uidelicet quodlinea non compo natur ex punctis, præcipue ſexto phiſicorum , primo de generatione, tertiometaphiſice ,ubiex fententia concludit lineam non poſſe ex punétis componi, quid autem ſuper hoc textu, qui uidetur oppofitus locis ſupras dictis dici poßit notaui in prædicamétis, capite de quantitate , uerba aus tem illa , quia ſubſtantia corum ex ipfis eft, intellige terminatiue, ut linea terminat ſuperficiem triangularem ', pun &tum lineam termis nat, o nullo modo intelligendñ eſt compoſitiue, ſic ut puncta lineam com ponant , nec etiam linea triangulum , tametfi aliter ab indoctis intelligas tur, quiafi aliter textus hic concipiatur , ftatim fequitur , utſi linea ex punctis componeretur, quod diameter o coſta eiuſdem quadrati eſſent comenſurabiles , quod textu nono, eſſe falſum « impoßibile oſtējumeſt, quia utrumque per comunem menfuram dimetiretur, nempe per pū &tum , quod eft contra Ariftot.fententiam ,& contra Euclidis ſcitum . Preterea tot puncta eſſent in coſta,quot in diametro, &ſic pars effet æqualis toti, ut coſta ipſi diametro , pro cuius indu &tione , ſit quadratum a b cd , cuius diameter a d , Cofta uero a c , in qua fuſcipiantur duo puncta e , f, immediata ſi poßibile ſit , ut aduerfarius ueritatis diceret, cum com ponatur ex punétis,à quibus, e , of, pun &tis duæ lineæ rectæ aufpicens tur innitia tranfeuntes per diametrū uſque ad aliă coſtum e regione pri me coſte collocatam ,certü eft , quòd hæ duæ lineæſecabunt ipſam diame trum in duobus pun &tis , quæ etiam puneta in diametro immediata erunt, propter hoc quia lineæ protracte ex hypotheſiſunt immediate , igitur ſi recte lineæ tot protendantur à coſta in coſtam oppoſitam ,quot pū &ta fue rint in ipſa coſta, per tot etiam punéta in diametro poſita tranſibūt eedë linee , nec erit in diametro punétum aliud per quod non tranſiuerit lined aliqua fic protracta ab immediatis pun&tis ipſius coſte, in puncta imme motia tunin eſt. Uligas, o achi poßit rcula à ma eguna dicera 40 IN PRIM VM LIB. diata alterius coſte , ut patet in hac a. figura ficut f, immediatum eft ipfi e, fic etiam & , ipſih , ſi l , fit immedias tum ipſi m , patet propoſitum ,fi au tem interl,om, intercipiatur pū Aumfitque illud K; ab illo per xxxi. f primi elemétorum excitetur paralles lus K, o , ipſif , 8 , uel ipſie , he tunc ipſa cadet inter gb , ut in pun Eto, o , igitur g h , non erant imme diata ,quod eſt contraaſſumptum ,uel extra utrumqueg ,oh, uerſus b , ueld, & tunc k o , neutri linearū f8 , web, erit parallelus,quod eſt contra conſtructionem , patet igitur quòd tot eſſent in diametro quot in coſta pun&ta. De circulari autem linea, quod non componatur ex pun ftis , fic demonſtratur per tertium petitum primi elementorum , fuper centrum a, deſcribatur circulus d minor , ocirculus bc, maior ,ficira cunferentia maioris componatur ex punétis ,duo immediata puneta fi gnentur b @c , &per primum petitum eiufdem primi ducatur recta alla a ad b, &ab aad c, hæduæ lineæ tranſibunt per circunferentiam mino ris circuli, ſecabunt igitur circunferentiam in uno ,uel in duobus pūétis, ſi in duobus, tot punčta erunt in minori circulo , ficut in maiori, fed ima poßibile eft, duo inequalidcomponi ex partibus æqualibus numero , ou magnitudine,punctusenim unus non excedit alium punctum in magnitudi ne,en tot funt in minori peripheria puncta quot ſunt in maiori, igitur pe ripheria minor eft æqualis maiori peripheric,igitur pars æqualis eft toa ti,quod pro impoßibile relinquitur, b ſi autem due recte linee a , b , 4 , C , ſecent minorem circunferens tiam in eodem puncto , fit ille d, ſu = per illam a c , erigatur linea recta perpendicularis per xi .primi Elea mentorum ſecansſilicet eam in pun . &to d, quæ fit d e , que erit contina gens minorem circulum ex corrolda rio x vtertij elementorum , iftad, c.cum linea 4 b , ex xIII. primi Elemens POSTERIOR V MARIST. 41 2 d IN Elementorum conftituit duos angulos rectos , aut æquales duobus rectis, @ed cum linea a c facit duos angulos rectos ex conftru &tione , duo igitur anguli a de , obde , funt æquales duobus angulis a de , cde per tertiam petitionem prini Elementorum Euclidis , dempto igis tur communiangulo a d'e , reſidua eruntæqualia, igitur angulus b.de erit æqualis angulo c d é , &pars toti , quod eftimpoßibile. Adiſtud diceret aduerfarius , quod db , odc , non includunt ali = b . quem angulum ; quia poſſet tunc illi angulo bafis ſubtendià puncto bad punétum c , quod est oppoſitum po ſiti, quia b c , poſita ſunt ima mediata , quando igitur diceretur , quod angulus c de , estmaior an gulo b.de negaretur ab aduerſa rio, quia per angulum b d c, nihil additur in angulo c d e, quia inter bec nihil mediat , e in concurſu bdoc din d, non est angulus. ifta reſponſio oſi ex ſe ipſa uideatur ua na , negandoangulum , ubi duæ rectæ line : bd, cd, concurrunt quæ expanduntur in eadem ſuperficie, oapplicantur non directe , o fit contra deffinitionem anguli , deffinitione ſexta primi Elementorum , negando etiam à b inc poffe duci lineam , neget primum petitum primi Elementorum , tamen quia aduerſarius non putaret iſta inconuenientia , quia ſequuntur ad id , quod ipſe dicit , ideo contra reſponſionem aliter ar. guo , angulus c d e includit totüm angulum b de, oaddit ſaltem pun Aum ſuper b de , o ſiproteruias quòd non addat angulum , & puns Etus per te , eſt pars , igitur c d e addit ſuper 6 d e partem aliquam , igitur c d e eſt totum adb d e . Aſſumptum patet, uidelicet quòd c de addat ſuper bd e , quia ſi angulus dicatur fpatium interceptum inter lineas non includendo lineas,ut Ariſtoteles concipit in queſtionibus meca nicis, queſtione octaua , tunc pun &tus primus lineæ b d extra circunfes rentiam minorem nihil erit anguli bde , o eſt aliquid anguli c de , igitur c d e maior est b de, a probatum fuit , quòd æqualis , igi tur aperta contradi&tio , fi autem angulus ultra ſpatiuin inter duaslie neas,includat lineam includentem ,fpatium tunc primus punctus lineæ cd extra circunferentiam minorem nihil erit anguli b de, e est aliquid ans F ino tis 0 th I N PRIMVM LIB . guli c d e , addit , igitur utroque modo angulus c d e punctum fuper angulum b de , patet igitur ex principali demonſtratione & folutionis bus ad inſtantias , quod linea non componatur ex punétis , neque recta ; neque circulari , ſubſtantia igitur lineæ ex punétis est terminatiue , o non compoſitiue, ut in principio expoſui vel dicas quòd Ariſtoteles famoſe , oexemplo loquitur de cauſa quæ dat eſe , vel etiam dicas, quod punétus,in deffinitione Geometrica ponitur, onon Methaphyfice conſiderata . TEX. X X. ALIAS I X. T rectum ineſt lincæ & rotundum . Verbum il lud rotundum legit Aueroes circulare, o melius, ut ali bi Ariſtoteles rectum ineft linee o circulare, ſic ut pro uerbo rotundum ,legatur circulare,ratio quia circula re lineæ est proprium ,quod uult Ariſtoteles in princis pijs mechanicarum queſtionum inquiens :In primis enim lineæ illi , que circuli orbem amplectitur,nullamhabenti latitudinem contraris quodam modo ineſſe apparent , concauum ſilicet,&conuexum . Rotondum uero proprie corpori conuenit , non lineæ , ut etiam placet Ariſtoteli libro fecundo Cali capite primo, quæ lectio non uidetur difplicere etiam Ioan ni Grammatico , &quodſit iſta mens Ariſtotelis , utfic legatur manife ftum eſt , per ea, quæ textu decimo ait , non enim , contingunt non ineſſc aut fimpliciter , aut oppofita,ut lineæ rectum aut obliquum ,capiens ob liquum pro circulare. TEXT VSvs X. T par & iinpar numero . Par quidem ille eft , qui ab impari unitate differt cremento uel diminue tione , ut quinque à quattuor , uel à fex unitate , Vel par eſt , qui biffariam ſecatur , impar uero, qui ne in duo æqualia diuidatur, impedimento eft unia tatis interuentus . POSTERIOR VM AREST. Τ Ε Χ. XXV. ALI AS XI. NIVERSALE autem dico , quòd cum fit de omni , & per ſe eſt, & ſecundum quod ipfum eſt . Ioannes Grammaticus & fequaces determinant, ut hæc tria inter ſeſint diſtincta, fic quod id , quodper ſe eſt inſit abſque eo , quod fecundum , quod ipſum eſt , 1/oſceli quidem per ſe ineſt habere tres æquales duobus reétis ,non tamen ineſt ei (inquit Ioannes).ſecundum quod ipſum , quia fecundum quod ipſum ineſt triangulo. Aduertendum quod famoſa doctrina ( qua etiam fæpe Ariſtoteles utitur ) perſe Iſoſceli inefthabere tres æquales duobus reftis non tamen ſecundum quod ipſum . Alio autem modo per fe ,id dicitur alicui conuenire , quod etiam conuenit ſecundum quòd ipfum , ita quod, id quod non conuenit ſecundum quod ipſum non etiam conueniat perſe , niſi quodam modo, fic quod perſe non immedia = te , oſecundum quod ipſum , diſtinguntur tanquam magis &minus uni uerfale per fe autem immediate , &ſecundum quod ipſum , hec quidem non diſtinguntur,ita ut unumſine alio poßit ineſſe eidem , Peccauit igitur Joannes ofequaces determinantes uniuerſaliter id, quod particulariter uerum est, uniuerfaliter autem falfum , Triangulo igitur immediate, cu per ſe, o ſecundum quod ipſum conuenit habere tresduobusre&tis æqua les , quodam autem modo non per ſe ipſi iſoſceli conuenit habere tres duobus rečtis equalis . Vt Ariſtoteles ſententia, hæc ſit , quòd per ſe immediate , ſecundum quod ipſum , idem fint , neque ab inuicem in aliquo diſtinguuntur, per le autem non primum , “ſecundum quod ip fum , hec duo uere diſtinguuntur , ut Ioannes ſuisexemplis, immo Ari ſtoteles in Texu,exemplomanifeſtat . HET luben 10a TE X. X X VI . ALIAS XI I. ## ling PORTET autem non latere , quoniam fæpe numero contingit errare , & non eſſe quod demonſtratur primum uniuerſale, ſecundum quòd uidetur uniuerſale demonſtrari primū, aberramus autem hac deceptione, cum aut ni hil ſit accipere ſuperius,peti fingulare , aut Fij 44 ? IN PR ÍMVM LI B. ſingularia. Aduertendum Ioannem Grammaticum & uniueros Ario ſtotelis interpretes , ſiue Greci, Latini , uel Arabes fuerint perperam eſſe interpretatos hunc Ariſtotelis Textum , &tres ſequentes textus @rita male fenferunt de Ariſtotele , quòd litteram pariter & fenfum omnem peruertunt &corruinpunt . Circa Ariſtotelis litteram , an tequim ad eius interpretationem accedam , falſit as loannis , oſequa tium est hoc loco non pretereunds. Primo circa hunc textum , loans nes adfert exempla multa quorum neque unum tantum facit pro textus declaratione , ait enim Ariſtoteles. Cum nihil fit accipere fupes rius. Nihil fit , neque uox quidem , utputa nomen aliquod fictitium ,& acceptum ,cui tamen in re nihil refpondeat ut eſt hoc nomen chimera, cui nomini nihil extra in re conuenit ,fic tandem, ut neque res ſi aliqua fie ue ens aliquod , ita ut nulla ſit res , neque ſit nomen aliquod ſignifi cans illud non ens . ipſe autem loannes explicat Ariſtot . litteram cirs ca illud , cui eſt accipere fuperius , &circa illud , cui nomen impoſitum eſt,ut est, Terra ,' Sol, øMundus , &triangulus , horum omnium ex tant nomina , ut manifeftum eft; o ſingulum ſuperius est ad ſua indiuis dua , nempe ad hancterram , ad hunc Solem , ad hunc mundum , ad -Scalenonen , perperam igitur interpretatur loannes hunc textum cum ipfe adferat exemplum de eo , cui ſit accipere fuperius , cui nomer impofitum eſt , Textus autem Ariſtotelis dicat , cum non fit accipere fuperius. T E X. XXVII. i VT fi quid eft, fed innominatum fit in difo ferentibus fpetie rebus. Ioannes Toto errat Cees loo .fequentes ipfum , circa litteram e doctrinam Ari stetelis ,textusfic habet . Si quid eft ,illud tamen innominatum fit in differentibus fpetie res bus . Ioannes inquit , non exiſtente commune aliquo de quo non exiſtente , prebet exempla deexiſtentibus , contra feipſum V etiam de nominatis in differentibus petie rebus , contra Ariſtotelis textum , ait enim Ariſtoteles . Sed innominatum ſit in differens tibus fpetie rebus , exempla adfert Ioannes de Triangulo, qui nominatur , eft in pluribus fpetiebus differentibus , ut in Iſopleuro Iſoſcele , Scaler.one , o fimiliter de quanto prebet cxemplum loane nes , quod nedum nomen habet , fed in differentibus fpetie pluribus est POSTRIO RVM ARIST. 45 par A @ etiam in pluribus generibusdifferentibus eft , neque mireris uelimſi Joannes ocæteri expoſitores aliò pedem retullerint, cumfaltus aſperie tatem ſenſerint &iuerit uſque Gorcie inficias , obfcurans Ariſtotelem Platonicis ſuadelis . TEXTVS VIGESIMVS OCTAVVS. VT contingat eſſe ficut in parte totum in quomonftratur his enim quę funt in te , ineft quidem demonſtratio , & erit de omni, ſed tainen non huius erit primi uni uerfalis demonftratio , dico autem huius primi , ſecundum quod huius demonſtra tionem , cumfit primi unirerfalis. Bonus Ioannes ofequaces prefertim Niphus fueſſanus medices Neapolitanus philotheus Augu ftinus philoſophus, og fequaces multi fimiles ſine nomine , pleni nominis bus, quos in interglutiendam uniuerſam Ariſtotelis philoſophiam, os ho rum textū ſuffocauit , cū ad exempla deuenerint,quibus Ariſtoteles cla rum reddit id, quod in tribus modis errandi circa univerſale dixit, loan nes ( eg peius cæteri) circa finem comenti huius textus fic ait ,in reliquia trium modorum exempla per bec exponit, uerū non utitur ordine exem plorum cum ordine modorum errandi, propofitum enim exemplum ters tij eſt modi, Dico philofophum fummoartificio ordiri otexere modos errandi cum exemplis , ſicut modo cuique errandi correſpondeat pros prium &peculiare exemplum , ut quemadmodum tres numerauerit ers randi modos circa uniuerfale , tria exempla , ipſis correſpondentia fubiecit, ſic ut primum exemplum primo errandi modo, fecundum exem plum ; ut in littera Ariſtotelis ponitur fecundo modo errandi correſpon deat, otertium exemplum ipſi tertio modo errandi apte conueniat, quo ordine confuſionem omni ex parte inter cxempla os modos errandi fuæ giens, in primis ſuo artificio , modum errandi &exemplum fibi corre fpondens notificauit circa id quod debet effe medium demonſtrationis , ſe cundus errandi modus &exemplum fibi correſpondens, cõcernitfubies Sum demonſtrationis, tertius modus errandi circa uniuerfale cum exem plo ſibi coherente, concernit totam demonftrationem , feu arguendi mo dum qui dicitur permutata proportio , errauit igitur Ioannes v omnes alij, qui aliter quam ut hucufque dixi extorquent Ariſtotelis textum , non intelligentes. 3 I N P R I M VM LIB. · Pro declaratione igitur uigeſimi fexti textus , fit hæc noftra prima ina ter expoſitores dilucidatio uel ſi difpliceat , dicas eam eſſe ſecundam ,uel etiam millefimam . Primī modum errandiexpono ſic, ſcias quòd de duas bus lineis reétis , tanquam de ſubiecto , concluditur hec paßio , nempe quod non intercidant; uidelicet quòd parallelæ ſint ſeu equidiſt antes, per hoc , tanquam per medium , quia linea recta ſuper duas line as rectas cadēs eſt poſita in omnibus quatuor angulis rectis , ideo ille due recte parallelæſunt, oetiam per hoc me dium , quod cum linea recta ſuper duas lineas rectas cadensfecerit an- A. 6 gulos quomodolibet æquales, utputa alternos acutos ſibi inuicem æqua- c . d les, uel alternos obtufos ſibi inuicem equales, illæ duæ lineæ funt æquidis ftantes , iterum per hoc medium quãdo linea recta cadens fuper duas alias rectas lineas fecerit exterio rem angulum æqualem interiori ex eadem parte, ille duæ lineæ paraller le ſunt , &adhuc per iftud medium , ut fi linea recta cadens ſuper duas rectas lineas , fecerit duos intrinſecos angulos æquales duobus reftis ,ut probant X X VII. XXVIII. primi elementorum quod adhuc illæ due recte linee parallelæ ſunt. Modo ſi Geometra putaret demonſtras, tionem factam per ſingulum mediorum di&torü ,eſſe uniuerſalem ,erraret primo errore circa uniuerfale ,quia nullibi medium eſt uniuerſale et unī; nulla enim natura, nec res aliqua eft cómunisad omnes quatuor angulos rectos, ad binos acutos, binoſque obtuſos,ad intrinſecum et extrinfecum ex eadë parteſumptos , et ad duos intrinſecos ex eademparte acceptos, niſi quis uudeat dicere,quòd quædam cõmunis natura,eſt ad omnes pres nominutos angulos, utputa æqualitas angulori, quæ quidem angulorum equalitas,ratio eſſet, ut cõcludas lineas eſſeparallelas, iſtud ſomnium ,ul tra quodfit falfitate plenum , eft etiam nimis procul ab apparenti mena dacio, non ne etiam in concurrentibus lineis repperitur æqualitas angu lorum ? ut puta in his angulis qui ſunt ad uerticem poſiti, cauſati à linea cadenteſuper duas rectus lineas,illa enim cadens cum utralibet earumf1 . per quas cadit , caufat uerticales angulos æquales ut ſunt anguli a gd, @ b8f, uel anguli c fe, em gfb, ſtatim hoc reiciet dicens,quod de al 1 POSTERIORVM ARI'S T. 47 ternis angulis intelligenda eſt illa equalitas , ut natura illa communis tantum ſit equalitas coalternorum , hec reſponſio eft uana cũ illa equa a litas ſitequiuoca , uel dicas analo gam , ad equalitatem retorum , acu torum , obtuforum angulorum , @etiam dico, quod totã hoc,& qua litas angulorum,non eft und abſolu = ta naturd,una abſoluta ( utputa) eſt unus atq; alter angulorum , reliqua natura eſt reſpectiua et ad aliquid , ut æqualitas inter utrumq;, ſi diceret quod accipitur pro medio, tantuin equalitas in omnibus illis fine pluri,dico quòd per æqualitatem non con cluditur, quod lineæ parallele ſint,niſi per æqualitatě talium angulorī, Et dico etiam quòd non tantum per equalitatem coalternorīt , ſed etiam per æqualitatë extrinſeciad intrinfecum, et per duos intrinſecos,quorīt alter acutus reliquus obtufus,qui equalesfunt duobus re & tis, quæ omnia non habent unum ſuperiusuniuocum , igitur non eft aliquid accipere ſus perius ad hæc omnia , igitur petimus tunc ſingularia media in propoſito concludendo, &ſicerramus , ſi nobis uideatur uniuerſale demonſtrare primū. Error igitur iſte circa uniuerſale,eſt circa medium demonſtratio nis quod quidem medium uniuerfale, cum non fit , fingularia media peti mus, ſimile habes huic per XXVII ( XXVIII primi Elementorū, Euclidis per quas Ariſtoteles manifeſtat propoſitum . Itidem fimile per quintam , fextam , a ſeptimum fextiElementorum ,quibus probat Eucli des per diuerſa media ſingularia , o non per unum uniuerſale medium , triangula eſſe equiangula. Aliud etiam in Euclide habes xui primi Elementorum « in ſexto Elementorum propoſitione xxx, quibus lo cis ſimile huic probat, quod duæ lineæ ,in dire&tum cõiun&tafunt et lines und, ohoc per ſingularia odiuerfa media, quibus non eft aliquid unis accipere fuperius. Vigefimiſeptimitextusſit hec mea declaratio , immo.eft ipſius Ariſto telis ad unguem , quam Ioannes grammaticus , neque nouus aliquis , ſiue antiquus etiam interpres, non percepit , hoctextu affert Ariſtoteles les cundum errandi modum , à primo modo errandi longe dißimilem , atque diuerfum , in primo modo errandi nulla natura communis accipiebatur 48. IN PRIM VM LI B. 1 fuperior, neque nomen aliquod, ſeu quæpiam uox habebatur, in hoc aue, tem ſecundoerrandi modo, natura ipſa communis eft, o inſuper nomen . ei impoſitum eſt. Verum quia natura illa non habet ſub ſe plures fpe= ; cies , ideo illa, &fi fit, anominata ſit, in pluribus tamen differentibus fpecie rebus, innominataeſt, ob defficientiam ipſarum ſpecierum , quiail Leſpecies non ſunt, ut folis , terre , mundi natura , eſt innominatain plu ribus ſpeciebus terre , quia plures ſpecies terre nonſunt , fi igitur quiſ piam demonſtrationemde cælo tentaret, & quodfit dextrum in ipſo com cluderet, &putaret quod eſſet ſuademonſtratio uniuerſalis , quia no eft aliud primum cælum ,erraret quia non de hoc cælo , primofitdemöſtra tio , fed de natura coeli , ut eft quid uniuerfalius ad hoc primum cælum , ſeu de cælo , fine contratione ad hoc ſingulare cælum, quam doctrinants Ariſtotelesſuis mathematicis exemplis, &quidem aptißimis , fole cans didiorum reddit ; inquit enim in exemplo fecundo , quod quidem fecundo errandi modo correſpondet , oſi triangulus non effet aliud quàm 1f0a) ſceles , ſecundum quod Iſoſceles eſt . Videretur utiqiie ineſſe primo,has bere tres æquales duobus rectis, cum nullus effet alius triangulus,uel nul la alia eſſet ſpecies trianguli quam fofceles , &tunc error ſecundo mos : do contingeret. Explico Ariſtotelis ſententiam . In primis eft aduerten dum , quòd triangulus re ipſa hubet ſub ſe tres ſpecies triangulorum , fo pleurum , iſoſcelem oScalenonen , quod ſi tamen per imaginationem ponamns , quod non haberet ſub ſe ljopleurum, neque Scalenonen , per ſecluſionem illarum duarum ſpecierum , tantum haberet ſpeciem unā, ut iſoſcelem , eſſet tunctriangulu : innominatus in Scalenone atque Iſos: pleuro, quia fi in illis ſpeciebus triangulus nominaretur , ut fic,Scalenon eft triangulus, Iſopleurus eft triangulus , iam illæ ſpecies duæ triangu . lorum effent , quas ſuppofuit Aristoteles, ut non eſſent,ut ſuum oſtendat . propoſitum . His ſuppoſitis , ſiquis de foſcele concluderet ; quòd tres haberet æquales duobus reétis ,o putaret quòd uniuerſalis effet bec des monftratio, quia nullus eft alius triangulus , quam foſceles, crraretſes. cundo errandi modo , quia Iſoſceles habet fuperius o uniuerſalius fe , nempe triangulum , de quo primo concluditur talis affectio, & talis era , ror multa diuerſa à prinoerrandi modo habet,quorum unum eft, ut pri mus modus errandi,ſit circa.medium , & iſte ſecundus modus errandi fit. circaſubiectum demonſtrationis . Aliud , ut in primo nonſitfuperius ali quid nec etiam nominatum , In hoc ſecundo eſte ſuperius og nominas, tum , ut triangulus, Tertio illud innominatumſit in pluribusmedijs, hoc. autein ? POSTERIORVMARIST. 49 DS autemfecundo modo innominatumfit in duabusfpeciebus tantum , uideli cet in Iſopleuro w Scalenone, Ibi ut in omnibus fit innominatum , Hic aue tem nominatum ſit tantum in una ſpecie, ut triangulus in 1fofcele. Advigeſimum octauum textum cã acceſſerit philoponus ad orchos in greſſus, non potuit ex inextricabılı labirintho egredi, ita ut ea, quæ pue rilia ſuntin interpretatione, perperam ej tortuoſe ſit interpretatus,vt puta uerbum hoc, aliquando , non temporaliter,inquit,audiendü eſt, ſed quaſi diminutius ut ait ipfe, non exacte fit audiendum , fimili modo ergo ijtud uerbum , Nunc,haud ,inquit,temporaliter audiendum eſt , quin po tius , exacte, o ſecundum Methodum demonftratiuam , Pedagogorā mo dum inſequutus, qui quattuorgrecis litteris intineti temerario aufu, ſi ne quacunquefcientia aut liberaliarte ad explicandum Ariſtotelem uens toſi cum accefferint ipſi implicati non ut loannes plicis binis uel ternis terminos exponit, ſed denis centenis atq; millenis epiſtolis ſuos codiculos imptent promittunt etiam multis nobilibus ſe expoſituros Ariſt.uocantų; fepe illos nobiles nominatim ut teftes tādem ſint ſue infanie , et ut uidean tur etiam ipſi aliquid in Ariſtotele ſuo chere illuſtraſſe, cum nondum pri ma philoſophie elementa fufceperint, Pereant ipſi cum ſua ignorantia , uelfuis fericis ueftibus addifcere poft multa těpora incipiant,oſiferico indueti,atque equoinfedentes, o rabini facti addiſcere uerecundantur. fufcipiant eam quam decet philofophum , ueftem , o Euclidis honeſtate accedant ad Socratem ; ne fintpoſt hac , fomenta praua difpofitionis preſtantißimæ iuuentuti in celebratißimis terrarum gymnaſijs . Qui dam alij interpretes quorum eſſe nefcio, quia ſuum eſſe nihil eft, neq; fuit unquam abradunt ly nunc, & locofuo,legunt, non, &ly aliquando,fo litarie fine fenfu relinquunt , quibus expofitionibus uel potius torturis iam iam incipiat Ariſtotelis lamétatio, Abigatur igitur cum mufcis afta bulòunaatque alteru interpretatio, feu magis Ariftotelis deprauatio , et legatur textus ut lacet in greco, quitextus græcus habet has particulas, aliquando, et nunc, que uerba temporaliter onullo alio modo intelligan tur, neque intelligi aliter poſſunt, onon legatur , loco de ly nunc , non, ut quidam facit hoc tempore, quenſcies, ſi tua ſcripta ab ipſo accepta le geris, Pro declaratione igitur uera , queunaſola eft, quă inferius fübi ciam , et nulla alia ab ifta uers effe poteft , ad Arijtotelem redeundo , textum expono . Proportionale, quod commutabiliter eſt. Aduertendū quod iftud de proportionale, exemplum , eft tertij modi, pro cutus declaratio 03 of 21 that * MA es G so IN PRIMVM LIB, ne dico Ariſtotelem proprium quantitatis determinaffe in fine predicar menti quantitatis dicentem ; Proprium autě quantitati cft maxi. me çqualitas & inequalitas,reliqua uero queno ſunt quan ta no proprie æqualia ac inęqualia eſſe dicuntur, Velutidiſpo ſitio ,uel etiam habitus æqualis, inequalisue non omnino propriedicitur, fed familispotius,atá; dißimilis, & album itidem æqualeinæqualeue non onnino dicitur, fed fimile dici atque dißimile dicifolet, Proportio ſeu ratio, ut ab Euclide deffinitur in quintoElemětorum eft duarum quantæcunquefint eiufdem generis quantitatum alterius ad alte ram habitudo quædam , ex Ariſtotele igitur habetur , quod proprium eft ipſi quantitati, esſe quale aut inequale. Ex Euclide uero quòd propora tio eſt quantitatumfolummodo, ex utroqueuero , quod tantum in quana titate proprie reperitur proportio , quæ quidem eſtæqualitatis , in equalitatis ; inequalitatis uero proportio biffariamſecatur fecundum Boetium in primo Arithmeticæ in inequalitatem maiorematque minoa, rem ,equalitatis proportio eſt quandofundamentā et terminusfunt æqua lia, ut duo ad duo, inequalitatis uero proportio eft quando fundamenti eſt maius , terminus autē minor , et hæceft maior inequalitas.uerominor eft,quando fundamentum eftminus terminus uero maior,ut sunr ad 21, maior,et 11 ad 1 1 1 1 minor, Præter hæc ſcito , quidam modiarguenda quibusmathematici utuntur(de quibusEuclides in quinto) indifferenter applicatur quantitatibus eiufdem , fiue etiam alterius generis, dummos do bina ſintuniusgeneris et bine alterius, ut in equaproportionalitate patet, hic autem modus-arguendi qui dicitur commutata proportio non niſi quantitatibus, quæ eiufdem generisſunt attribuitur . Quibus pras intelectis o declaratis , uides Platonem improprie applicuiffe uirtutia bus in Gorgia cõmutată proportionalitaté, quibus etiã qualitatibus,pro portio nonconuenit, ex deffinitione proportionis fuperius data,quapro, pter non eſt propria rerum natura, neque uera e propria Ariſtotelis ſententia ,aliena docirina perturbanda. Vbienim ait Ariſtotelesloquens de tertio errandimodo,aut cótingit efle, ficut in parte totūztoti hoc loco,uniuerſale intelligendum eft ,partem uero inferius ad ipfum uni uerfale , Mododico,quòd antiqui philofophi qui precefferütEuclidem Ariſtotelem ſæpißime errauerunt hoc tertio errandi modo, putantes de toto, feu uniuerfalemfacere demonftrationem , que tamen erat in par te demonstratio ,hoc eſt particularis &non univerſalis, ideoait philoſos plus quemadmodum demonftratum , eft aliquando , uidelicetabantiquis POSTERIORVM ARIST. philoſophis, qui tempore Ariſtotelem ,atque Euclidem preceſſerūt,quia ipfi non aduerterunt quod quantum , eſt id (id eſt natura aliqua) quod fum perius accipitur , nominatum eft in pluribus differentibus fpecie res büs, differt igitur iſte modus à primo, quia ibi non erat accipere aliquid ſuperius, o etiam differt àſecundo, quia in fecundo illud fuperiusnon erat nominatuin in pluribus differentibus ſpecie rebus, hoc autem , quod hic conſideratur, eft in pluribusſpeciebusnominatum, & comune,atque uniuerſale onnibus quantis, fiue illa diſcreta , ſeu cötinua ſint, quorun effe fucceßiuuki , feuetiam permanensſit , ut numeri ſunt,lines , folida, tempora , &alia huiufmodiſpecie differentia , feorfum ab inuicem ali quando acceperunt antiqui deſingulis demonſtrationemfacientes. Nunc uero, inquit,philofophus uniuerfale demonftratur, fenſus, uniuerſali ad hæc omnia,modusiſte arguëdi imediate et perſe attribuitur, ut ipſi quan titati , quatenus tale . Nunc dico , nedum in eo Ariſtoteleo quidem tempo të , & à philofophis reéte fapientibus , ſed etiam oprimo abEuclide; cuius clarißimi philofophi beneficio habetur demonſtratio uniuerſalis omnibus quantis, ut fuo quinto libro Elementorum docet, propoſitione fextadecima, Errabant igitur antiqui aliquando , arguendo permutatim in numeris ſeorſun , in lineis feorfum , cæteris feorfum , nunc au = tem non contingit iſte error his , qui ſequuntur Euclidis ſcitum , quia nunc, ideſt poſt Euclidis fcripta uniuerſaliter demonſtratur , hoc eſtmo:. dusiftearguendi primo per fequantitati conuenit , quægenuseft ergo üniverſale adomnia quanta , hæc autem eſt mea interpretatio , uera og germanaipſi Ariſtoteli, ut etiam ipſe ſuis uerbis manifeftat Text. 93. ubi apertißime declarat propoſitum . Propter hoc nec fi aliquis monſtret, unumquēque trian ĝulum demonſtrationeaut una , aut altera quod duos re čtos habet unuſquiſque Iſopleurus feorfum & Scalenon ,& Iſoſceles, nondum cognouit triangulum , quòd duos rectos habet , niſi ſophiſtico inodo ,rieque uniuerfaliter triangu huum ,ne quidem fi nullus eſt , pręterhæc triangulus alter,no enim fecüdum quod trianguluseft cognouit,neque fi om= nem triangulum ,ſed quatenus ſecundum numerum , ſecun dum autem fpeciem no omnem , & fi nullus eſt , quem non nouit . Non eſt ſurdaaure pretereundum artificium fummum , quod in hoc exemplo Ariſtoteles docet, fcias hoc exemplo de triangulo , com ple &ti duos errandi modos, vel facerepro duobus modis, errandi, ſecun Gij sa IN PRIMVM : LIB . do, atque tertio, cum primum defingulo modo , fecundo &tertio , fe. paratim exempla aptißima e peculiaria pofuit , ftatim attulit aliud exemplum utrique, ſecundo uidelicet,atque tertio modo feruiens, Com. poſitiuam methoduin etiam in exemplis feruauit. Littera autem per particulas, ſic declaratur ; inquit enim, demonſtratione aut una aut al tera; una enim demonſtratione numero fieri-non poteft , ut deIſopleuro folcele, C Scalenone , concludatur quod tres equales duobus reftis habeat , uia igitur fpecie demonſtratio erit, qua de his tribus triangu lorum fpeciebus demonſtrabitur , quod tres habeat æquales duobusree Atis , ideo dixit Ariſtoteles demonſtratione aut una aut altera ; ac fi dices ret pluribus numero demonſtrationibus, de tribus ſpeciebus illis cons cludi, quod tres duobus rectis pares habeat hæc autem demonftratio , nullo modo intelligi potest , quòd fyllogiſtica ſit , quia tuncmaior pre. miſſa acciperet de uniuerfalitriangulo , quod haberettres equales duo bus reftis ,ſic fyllogizando , omnis triangulus habet tres angulos æquam les duobus rectis , ſed Iſoſceles , uel Iſopleurus , uel Scalenon , eſt triangulus , igitur foſceles , uel Iſopleurus ,uel Scalenon habet tres, æquales duobus rectis, Sic igitur fyllogizando uel particulatim abſque illo diſiunto , fed uno tantum affumpto triangulo , non ne , ſcio de triangulo uniuerſaliter , in maiori aſſumpta quòd triangulus habet tres æquales duobus reftis ? quod e diametro opponitur ei quod Arift. ait,ut et fi de Iſopleuro, et cæteris fciuero,quòd habeat tres æquales duo bus,nondūſcio de triãgulo,niſiper accidens,per accidés dico quatenus in ferius omne, ſuperiori accidit,modus igiturilledicendi , quein uidentur omnes latini atque greciſequi, non poteſtſtarecum Ariſtotelis ſentena tia, quia iam priusſciretuniuerſale in maiore fumpta et per uniuerſale in cognitionem particulariñ deueniretur ,qui error non eſt , ſiquis autem di ceret, ut fic intelligi debeat demonſtratione,aut una fyllogiſtica , aut alte ra Geometrica, dico quod nullo modode ſyllogiſtica poteft intelligi, quia ſequeretur idein incommodum eo modo arguendiſyllogistice,contra dos Arinam ex litteram Aristotelis , ut fupra dixi, quia tunc per cognitio nem uniuerſalis deueniremus in cognitionem particularium quod ex ſi id uerum ſit, modusquo ipſe textu Il docet, quo modo de nouoſci mus,non hoctamen in hoc textu pertractat, ſed agit,hoc textu ,& in hoc , exemplo, de errore , qui opponitur uero modo ſciendi,onon de mo: do , quo de nouofcimus quippiam. Niſi quis de ſyllogiſtica demonſtratio neintelligensafingularibus ad uniuerſale progredereturfic, omnis 1 / 0 POSTERIO RVM 'ARIS T. ſceles habet tres equales duobus rectis,fed triangulus iſoſceles est , igis tur triangulus habet tres duobus rectis pares, &de alijs fpeciebus limie liter, & tunc fciret iste ſecundum numerum i particulariſubiecto I fofce le ad uniuerfalem triangulum progrediendo,quod no diſplicet, et ſic una fpecieſyllogiſtica concluderetur de uniuerſali per particularia , uel etiã altera,nempe Geoinetrica . Pro cuius ellucidatione , eft fciendun ; ultra ea , quæ de Geometrica demonſtratione dictum eſt in textu tertio , quod Euclides ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elementorun demonſtrat quod triangulus qua. tenus triangulus est, habet tres angulos æquales duobus-rectis , fi quis modo, utcunque intructus bonis litteris ( non dico Ariftelis deuoratos, res uel potius carnium «acephalorum ſeptem , unis bycis uoraces , quiafi uerbauinitateplena habeant non tainen Aristotelis do& rinam tenent,quam falſo profitentur)iſus fuerit illa. demonftratione oſtendens de 1fofcele , quòd habeat tres e qualesduobus reftis per decimamtertiam O vigeſimumnonam primi Elementorum , aut altera numero , eadem ta menſpetie de Iſopleuro & Scaleno.ne idein oftendat , ita quòd de ſingus lis trianguloruin þetiebus inducat , quod habeat unaqueque ſpecies triangulorum tres equales duobus, nonduin cognouit inquit , triangus lum quòd duobus reftis æquales habet , niſi ſophiſtico modo, neque uni uerſaliter trianguluna effe huiufmodi , ne quidein fi nullus eft , preter, hec, triangulusalius , non enim quod triangulus eft huiufmodi cogno uit , nequeſi omnem triangulum , hoc habere contingut , utputs duobus reftis æquales,ſed quatenusfecundum numerum , ideft fecundum nume rumfpetierum triangulorum, ſecunduin autein fpetien , in uno uidelicet uniuerfali, non omnein ca ſi nullus eft fecundum ſpetiem , id eſt ſe cundumnumerum trium triangulorum petieruin , ſeparatim ,quem non nouit. Erraret igitur duplici errore ille , qui putaret eße unia uerſale fubie&tum , & totum , id quod effet particulare fubieétum , parsfubieétiut , quia tunc acciperet in parte totum , id eft partem , to tum effe exiftimaret . Si autem triangulus immaginetur faluari in unica tantum fpetie , ut in iſoſcele, tunc exemplum intelligatur , aptari feo cundo modo errandi tantum , non etiam tertio . Vides igitur amice, quod Ariſtoteles modos tres attulit errandi circa uniuerfale,quorum cuique proprium , &peculiare exemplum aptauit . Neque legas poſt hac lyaliquando , prominus exacte , nequely nunc,pro exacte ita ,ut neutrum ,tempusſignificet , fed utrunque temporaliterlegatur , neque 1 i 54 IN P R I M V M L I B. legendum eſt ly nunc pronon , ut quidam , qui nullus homo est facit . Ad id autem quod Ioannes de Gorgia tetigit , aie quod quantitas , natura ipſa , qualitatem precedit , fic ut quantitas , fit prior ipſa qualitate non dico tempore necetiam natura ſed ordine , oid quod propriumquan titati eſt prius est proprio qualitatis, fimiliter et modi,quiſunt ipſiquãti tati proprij , ut eſt proportio, & modus arguendi , qui dicitur permu . tata proportio , funt hæc quantitati propria oſibi primo conueniunt, deinde etiam qualitatibus ſecundario « improprie attribuuntur. Quem admodum etiamSyllogiſmus , qui omnibus philoſophiæ partibus eft com munis per attributionem , de eo tamen primo oproprijsſime Logicafa cultas agit , quòd ſi ſubſtantijs quantitate prioribus , quis tribuat come mutabiliter proportionari, tunc uniuerfaliter reſponde , quod omnibus entibus poteft attribui commutabiliter proportionari improprie tamen , oper quandam attributionem fecrındariam , quatenus omnia entia,has bent quantitatem molis , aut uirtutis in ſe ,o ſic Plato attribuit in Gori gia commutabiliter proportionari illis qualitatibus improprie , opro ut ille qualitates includunt quantitatem uirtutis , quæ funtgradus pera feftionis. TE X. XXIX. ALIAS XIIII. VANDO igitur non nouit uniuerſaliter, & quando nouit fimpliciter , manifeftum eft utique. Quoniain , li idem erit triangulo eſſe & Iſopleuro , aut unicuique,aut omnibus fi uero non idem fed alteruin & cætera. Littera ſic exponatur , fi eadem deffinitio quæ trianguli est , cſJet ipſius etiam Iſopleuri propria o peculiaris , aut unicuique 1fos pleuro iſoſceli o Scalenoniſeparatim , aut etiam omnibus fimul in com muni à quanon ſit alia deffinitio ipſis conueniens , ſi uero non idem , id est finon est eadem unica deffinitio , quæ bis omnibus æque primo conue ! niat , fed alterum , id eſt diuerfum nempe deffinitio trianguli est figura tribus lineis rectis claufa , fed iſopleurus est figura tribus lineis rectis æqualibus claufa , iſoſceles est figura tribus lineis duabus nanque æquae libus , una inequali claufa , gradatus eſt figura tribus lineis inæquae libusclaufa , ecce modo , quàm diuerſa ſint deffinitiones , fi ineſt igitur tres habere his omnibus , hoc quidem eft unicuique , fecundum quod eſt triangulus , uelfecundum quod eft figura tribus rectis claufa , o non POSTERIORVM ARIST. 55 , 加以 has pro eta quia illis lireis equalibus , uel inequalibus claudatur. Vtrum autem fecundum quod eft triangulus , aut fecundum quod Iſoſce les infit, & quãdo ſecundum hoc, eſt primun, &uniuerfale, cuius eſt demonſtratio, manifeſtūeſt, quando remotis infit primo,ut Iſoſceli, æneo remoto ,triangulo infunt duobus rectis pares , fed æncun eſle remoto, &Ifoſceli etiam remo to infunt tres duobus rectis pares, fed non inſunt tres duo bus rectis pares figura & termino remotis, quia etiam ipfis inſunt duobus rectis tres æquales , fed eis non primo, ut fi gura que clauditur termnino uel terminis , quo igiturprimo reinoto , cui priino conuenit ; remouetur , & habere tres, fi itaque triangulus remoueatur, remouebitur & habere tres duobus rectis pares , & ſecundum hoc igitur , id eft few cundum triangulum ineſt, & aliis per ipſum & huiuſmodi trianguli uniuerſaliter eſt demonſtratio . Littera fic ordináta, artificiun Ariſtotelis est conſiderandum , in hac regula , quam prebet ad cognofcendum , quando erit uniuerfaliter demonſtratio , ego exem plum eft contraſecundum modum errandicirca uniuerſale,ſic ,utſeruans hanc regulam ,non errabitſecundo modo errandi circauniuerfale,& pri mo,remotis accidentibus indiuiduorī ,utremoto ere,non remoueturaf feétio uniuerfalis ut habere tres duobus reétis pares, as enimfeu aneum effe ,non conuenit fpeciebus triangulorum , niſi quia indiuiduis triangulis conuenit remota,fubinde fpecie trianguli , ut Ifofcele remoto , non pro pterea remouetur affectio uniuerſalis, quæ eft habere tres duobus reétis pares , quia in alijs fpetiebusſaluatur natura,cui primo conuenit habere tres,ut in ſopleuro,e Scalenone ſaluatur naturatrianguli,cui prinoco uenit habere tres,tertio remouet genus ad cuiusremotionem remouetur villa affeétio ,ut remotafigura, &tres habere duobus re &tis pares remo uetur , Quarto cultimo remota deffinitione generis, ut remoto termino figura enim eſt , que termino uel terminis clauditur , remouetur og illa affectio ſed non primo , primo enim conuenit ipſi triangulo , triangulo igitur remoto, statim remouetur & illa affectio , habere tres duobusre Atis pares, demonftratio igitur qua concluditur quòd triangulus habet tres angulos equalesduobus reātis , eft uniuerſaliter . & eft Te i IN PRIMVM LIB. TEX. XXXVII . ALIAS XX. Pro quo VORVM autein genus alterum eft , ficut Arithmeticæ , & Geometriæ ,non eft enim Arithmeticam demonftrationem accom modare ad inagnitudinum accidentia niſi magnitudines numeri fint. Gnarus Ari ſtoteles Geometrie & Arithmetica non dubitanz do loquutuseft inquiens ,niſi magnitudines numeri fint , fed fuæ regulæ uniuerfalis exceptionem faciens , niſi inquit magnitudines numeri ſint. aduertas magnitudines nunquam fieri numeri nifi numeri nuo merati , o adhuc numeri illi numerati non fit diſcreta quantitas , ſic ut illinumerati numeri, non copulentur ad aliquem communem terminum , ſicut numeri, ofillabe, no:1 ad terminum copulantur communem ,fed ad comunem terminum copulantar ille magnitudines que numeri funt per folum tamen intellectum à fe inuicem feparatæ intelliguntur ille quidem magnitudines quæ numerati numeri,Sunt non quod intellectus aliter quã ſint, eas percipiat oppoſito modo , fed eas tantum conhder atparticunt Latim , no intelligendo eas niſi priuatiuenon effe coniunctas ,non tamen in telligendo eas negatiue , non effe coniunétas, ut pro exemplofufcipiatur id ,quod Euclides proponit propoſitione quinta deci f mi Elementorum commens ar d ſurabiles magnitudines,ad inuicem rationem habent quam numerusad numeră be cuius deinonftratio talis est. Sint due inagnitudines a b communicantes, dico quod earum pro portio eft,ſicut alicuius numeri ad alium numerumfit enim maxima quan titas c cõmuniter menfurans a ®b, reperta ut docet xiij. Elementorum quæ inenfuret a fecundum numerum d, o b fecundum numerum e, erita; a ad c, ut d'ad unit atem eo quod ſicut a eft multiplex Citad eſt multiplex unitatis, at c adi b, ut unit as ad e , quoniam ſicut c eft ſubmultiplex b, ita unitas eſt ſubmultiplex e, igitur per aquam propor tionalitatem a adb, ut d ad e quod eft propoſitum , Ecce quod f linea fecans a lineam in puncto F, non ſeparatprima partē linet a, à fecunda parte CH POSTERIORVM ARIST. st n parte linee a, quis, punctus copulansprimam partem lineæ & cum fes cunda parte , manet idem , immo eſt communis punétus &ipfi lined a & ipſi f, intelle &tus tamen intelligit primam , atquefecundam partem li nea 4, abſque quòd conſideret,ut ad comunem punétum f copulentur. Ecce uides quomodo Euclides utitur medio Arithmetico,ut puta nume ro in constructione , «æqua proportionalitate ad probandam affeétio nëdemagnitudinibus, In vis uel 1 x propoſitione decimi utitur uns decima octaui, tamquam principio Arithmetico in concludenda affe ftio ne de magnitudinibus , hocfepißimefacit in toto decimo libro Eles mentorum Magnitudines , numeri funt, quando ille habent communem menfuram qua communiter dimetiantur , diameter igitur quadrati , Oſuacostanunquam funt, neque dicentur quod ipfæ numeriſint,de ma gnitudinibus etiä que numeri ſunt trattat Euclides in ſecundo Elemento rā à prima propoſitione ufq; ad undecimãexclufiue, Ecce quo pacto utis mur arithmetico principio,circa Genusgeometricã, quod græciala - tini non aduertentes prætereunt exponentesregulam Ariſtotelis uniuer faliter , quãipſe uult intelligi cumparticula exceptiua, In hac parte ex= ponenda Aueroesimperitißimusfuit, ita utſua littera e directoſit con tra Ariſtotelis fenfum , inquiens &propterea demonſtratio, quæ eft de queſito computatiuo, non poteft trăsferri in aliam à computatiua,quem uirum clarißimum non miror, ſimendacium hoc dixerit in ifta re parut ſed magis ,eum admiror quòd cum aliàsdiſciplinas mathematicas inuen taspropter ingenij exercitationem , &quia etiam philofophus dixerit eas puerost adipiſci, ipſumuero Aueroin ,neque pueritia ,necſuafeneétu te eas fuo ingenio intellexiſſe , niſi dixeris , quòd ipſe elleuatus in eſtaſi intelligebat omnia per intellectum in actu , quo multa peruerſo modo,e ordine intelligebat ſicut quædam fui fequaces Aueroico uerbo cupientes Aueroiſtas dici , ignorantes tamen que Ariſt. mathematicis explicanda propofuit, de quo intellectu poßibili, qui nihil eft eorum quæ uere ſunt ante quam intelligat,utproponit philoſophus,aliquando aperiam ,quòd non de ſeparato illo chimerico intellectu ex littera cmente Aristotelis, debemus intelligere,ut quidã Aueroiſta perperăget fequaces peßime in= terpretantur, pertranfeo tamëhæc inpræfentiarü,et quia non eft hiclo cusdifferendiillud, et utfic docentes falfo ,reſipiſcăt, et ueritatem Arifto telicăianiam incipiãt et intelligeret &alios post millenos annos docere. Hoc autem quemadmodum contingit in quibuſdam , po fterius dicetur. littera fic intelligi debet , magnitudines quando ſint 1 1 H S8 IN PRIMVM LIB: 3 numeri in quibufdam ,nempein temporibus, ideft quádo ipfa tempord, ut numeri concipiuntur, Poſterius dicetur,ut in libris de philoſophia et de anima.Hoc loco habemus artificium ab Ariſtotele, quoGræcorumexpo fitorum abufius mille ,o latinorü millies millena millia errorum cognoſci mus,De interpretibus uero noſtri temporis,ſierrent,non dico ,fed intelli gas uelim , ut quot uerba proferunt, tot mendacia contra Ariſtotelis or dinem ýmethodum committunt. Quis enim legit Grecos , Latinos, o noftri temporis expoſitoresAriſtotelis , non uideret conſiderauerit, illos ſepe, & fepe fepius adducereloca odoctrinam datamin philofo phia uniuerſá, in libris de anima, methaphiſicis, pro declaratione lo coruin logices , quis modus iſte obfcuritatis eſt , per ignotißima declarda re ea , quæ aliquo modo ignota funt ? eper ea quibus accommodantur principia, ipſaprincipia uelle declarare, oper poſterior aignota decla rare ipſum prius, ſic utfupponant iſti declaratores,hominem eſſe philoa fophum , animaſticum , & methaphiſicum antequàmfiat logicus,utille no Ater bonus homo docebat, quòd Ariftoteles attulit tria exempla in fecun do textu ,in tribus ſcientijs,ut ibi notaui ha,ha,pereat modus iſte contra Ariſtotelis doctrinam ,qui poftquàm exceptuationem uniuerſalis regulæ fue fecit, inquit, hoc autem , quomodo contingit , posterius dicetur , fic ut id ,quod inphilofophia dicit, nonreuocetin logicis declarandis , fedt diuerſo,exceptione qua in hoc locofacit,utetur tanquam nota in philofo phia , ut ex notis ad ignota o utex uniuerfali ad particularia tēpora procedat,perfuadeturigitur illa exceptio exx . libro Elementorū ut des claratum eft , & non ex philofophiæ locis , vt procedamus utpúta ex his, quæ in Geometria notafunt , ad ea declaranda , quæ inlogicis traa & antur , ut uera methodo , à notis diſcuramus adignota , fed fi idem in theologos ſacrosobijcias , qui indiſcriminatim ad declarındas theologia cas queſtiones loca uniuerſalis philofophiæ adducunt , igitur ipficra rant,refpondeo , In thcologia cui omnesſcientic &tota uniuerſalis phi lofophia ancilantur tanquam ſcalares gradus non inconuenit philofoe phic eliberalium artium theoremata adducere, quia proceditur à nos tis ad ignota declaranda . Ita ut ultra modum quo intelligimus Sacran do&trinam per reuelationem , ſunt quidam alij modi intelligendi, ſuppoſia ta tamen reuelatione primo, unus eſt modus deuotionis fpiritalis, quo particulariter dominusfuisfanétis, licet alias indoctis tribuit intelligere, ut Petro intelligebat ea,quecontinebantur in epiſtolis fratris noftri Pau li, quæ indocti deprauant ad fuum fenfum , non intelligentes, Alius mo POSTERIORVMARIS T.59 0 4 Ac LE FO r dus intelligendi facras litteras prouenit ex ingenij uiuacitate tantum , qui modusmultas hærefes attulitfidelibus . Tertius eft modus intelligendi beneficio naturalis philoſophic , &hic etiam decipit innaniterfideles nis fiunctione fanétifpiritusmoliaturfua duricies , hoc quidem tertio modo non intelligit aliquis facras litteras , niſi inſtructus illis difciplinis , que precedunt ipfam reginam theologiam , valeant igitur, eantuna oma nes ad olas carnium , nonadScotia Thome libros, qui, his artibus &philofophia non callent, non peccant igitur Theologitertio modo di di, copeccato, quo multiGræci, Latini , &præfertim noui interpretes in Ariſtotelem peccant,confundentes docendi ordinem . Videtur hæc ex poſitio, Ariftoteli oppugnare, ubi inquit Ariſt. pofterius dicetur , ut in libris philofophiæ , dixi tamen ego ex decimo Elementorum . Dico Arie ftotelem promittere quomodo continuum diſcretum căcipiatur , fed Eye clides quo modo per principium Arithmeticum de magnitudineaffeflio demonſtretur atq; concludatur. • Ex codem enim genere cft, extrema & mcdia eſſe, fi namqucnonfunt per ſe accidentia erunt, propter hoc Geo metrię non eft demonſtrare, quod contrariorum eadein eſt diſciplina , ſed neque quòd duo cubi ſunt unus cubus, ſit heclitteræ expofitio, ut media oextrema debeant effe eiufdemgeneris, media intelligas, feu in conſtructione medium , ſeu medium ad probadum , quod eft, aut principium, uel etiam propoſitiopredemonftrata,que fus mitur ad probandam aliam , propofitionem ; extremorum autem nos mine ( ubiait extrema) intelligende funt ipſa concluſiones , utfitfenfus facilis, premiſſão concluſiones ex codem genereeſſe debent. Sed ne que quòdduo cubi unus cubus fit , Quomodounus tantum cus buserit,cum duo fint ?duo prius feparatim erant,quiſi in unum redigan tur, unum tantum efficiunt ,ut due lincæ etiam una linea tantum efficis citur, utdocet XIIII primi Elementorum xxx ſexti Elementos rum ,vltra aduertendum quod cötrariorum cadem eſtdiſciplina,ſed hoc non probat Geometra ſimilitcr duo cubiunus cubus eft ,quod etiam Geo metra non probat, his habitis odeclaratis., ſtatim perit declaratio. cus iufdam philoſophi noui qui maiorigrauitate quàm pondere utitur; dicit enim illa ſua innani interpretatione, duo cubi in Arithmetica non faciunt ynum cubum , quod eft di&tu , quod duo cubi numeri nonfaciunt unum cu bum numerum ,ifta interpretatio opponitur littere Ariſtotelis ; li ttera anim affirmatiuc loquitur, quòd duo cubi unumfaciuntcubum,oiſte no ни ex 46 in is hi De IN PRIMV M LIB. ) uus philofophus exemplificat negatiue , quo mododuo eubi non faciunt unum cubum ; reiciatur igitur ſuainterpretatio , & Philoponi expoſitio ſuſcipiatur , quæ hoc in loco fatis conſiderata eft , atque docta ;Ratio enim quare non demonſtrat Geometra,quòd duo cubi unum cubum far ciunt, eſt quia non uerſatur Geometra circa genus folidorum , ut circa ſuuinſubiectum , fed uerſatur tantun circa planorum genus , ut circa proprium ſubiectum , Stereometra autem habet demonſtrare , quod duo cubi adinuicem aditi cubum unum cõficiunt, ut ftatim explicabo inferius, cum de duplatione are delorum , & in fragmentis logicis de triplatione, quadruplatione, quincuplatione, fexcuplatione , eptuplatione, es dein ceps demonſtrationes fecero. In qua re ut Ioannes refert Apolonij peri gei talis eft demonſtratio ab innumeris mendis purgata , opermepri ſtino candori redita cum Euclidis propoſitionibus in locis fuis ,utdecet appoſitis, ac ſiab Apolonij manibus nunc procederet. Pro cuiusdemonſtrationis notitia, aduertas quòd Art Delio Apoli ni dicata , eſto ſiuis ut trium eſſet pedum , quando Apolo imperauit dea lijs peſte laborantibus, eiuſdem Are duplationem , qui Geometrie impe riti (ut peneſunt in preſentiarum omnes totius orbis Gymnaſiste )adide runt alteram tripedalem Aram prime are, etſicturbata ,atý; corrupta forma cubica are primæ,dederunt are duplate formă trabis, fic ut fex pedű extendereturlongitudine, latitudineuero & craſitie trium pedum extenſa eſſet Ara, forma in qua complacebat Apolo deperdita ,fþreti igi tur propter hoc delij ab-Apoline , & graue peſte adhuc laborantes , ad Platoně confugerunt,qui eos redarguens, utGeometric imperitos tana dem eos adhuc dubios reliquit dicens eis , ut duas lineas medias inter exa tremas inuenirentſecundum eandem proportionem continuam . Et tunc ſcirent duplare Aram , formam habětem cubicam , In qua re plurimigre corum laborauerunt tandem unus Apolonius perigeus , duas inuenit lia neasillas medias Oſummo artificio duplarunt Aram delij ,fubinde ad peſte quieuerunt. Dátis igitur duabus lineis inæqualibus, quarum altera ſit longitudo Ar & primo fabricatæ triumpedum , fecunda uero lineaſit ed, que deno tet longitudinem trabis quamcompoſuerunt delij, &eſto pedum fex,ina ter has duas reperiendæ funt duæ alia medie in continua proportionam litate,quod in numerisfieri neutiquam eſt poßibile, fint igitur duæ data , primafit b c , quæ erat longitudo prime Are , e a b.longitudo tras bis, &ponatur per undecimam primi Elementorum uel per uigeſima POSTERIORVM ARIST. tertiam eiufdem primi, ut rectumangulum contineant,eum uidelicet qui füb a b c o compleaturparallelogrammum bd ; per tertiam atque tri geſimamprimam primi Elementorum ;qg diameter ipſius per primum po ſtulatum primi Elementorum ducatur a c o circa triangulum ac di per quintam quarti Elementorum deſcribatur circulus a d.c, os produ catur linee b a ,b c , per fecundum poſtulatum primi Elementorum in directum ufque ad fe 8,0 per primum poſtulatum coniungan tur f & , per lineam f g tranſeun b tem per punétum d , ita ut fe , æqualis fit lineæ e g , hoc enim tan quàm petitum ſummitur indemons Äratum . ( De quo, forſan poſterius noſtra palade non nihil dicetur) ma nifeſtum utique eſt, quod ex fe æqualis eft ipfi dg per hipoteſim , @primam animi conceptionem . f a f 6 f 6 6 G gд g fil 6 g ď 6 6 egg f fa d Б6 c 1M14 8 с C f f a d AB Xa -f MC À с a TE lik mo Ma Quoniam igitur extra circulum a dc punctum fumptum est feab ipſo dufte linee rette f b , feſecant circulum ad punéta a v d , quod igi tur fit ex bf in fa , per trigeſimamquintam tertij Elementorum ,æqua le eſt ei , quod fit ex ef, in fd , ac eadem ratione , &quodfit ex b & in c g æquale est, ei , quod fit ex dg ing e , aquale autem eft id quod fitex dg in g e , ei quodfit ex e f in f d , utraque enim utrij que equales funt , e f ſilicet ipſi d 8 , og f d , ipſi eg, igitur , ego quòd fit , ex bf in fa, æquale eftei, quod fit ex bg ing c , eſt igitur , 62 IN PRIM VM .; L 1 B. ut fb ad b & perfecundam partem decimequinteſexti Elementorum , ita g c ad f a ,fed ut fb adb 8, fic es fa ad ad per iij.fextiEleé mentorum , igitur per xi . quinti Elementorum g c ad f a ,ut f a ad ad, fimiliter per eandem xi. quinti Elementorum , ut dc adc 8 , fic cg ad fa, quia utraqueeft ,ficutea , que est fb ad b 8, altera per fecundam partem xv. reliquaper quartam fexti ;ut d.c.ad cgpro pter fimilitudinem triangulorum , est autem dcdqualisipfi ab,04 d , ipſi b c per xxxiij. primiElementorum , igituraut ab ad cg ita f a ad ad , erat autem , out f bad bg, ideft ut a bad c g ,fic cg ad fa , igitur out ab adog, fic oipfacg.ad fia , o ipſa fid , ad b c , quatuor igitur rectæ linea 46,8c,fa,bc, inuicem prom portionales funt,o propter hoc erit ; uta bad b c , ita quifit ex 4 b cubus , ad cubum , qui ex g cega qui ex g c , ad illum qui fit ex f a, e qui ex fa , ad illum qui ex b c ex corrolario xxxiij. undecimi Elementorum , igitur ut a b ad b © , ita cubus quiex f a ad cubum qui ex b c , fed a b dupla fumpta fuità principio , ipſius b.c, eft igia tur cubus , qui exfa, duplus ad cu bum , qui ex b c , quod demon - g strandum errat . Berlin . g c.8 F G f 6 f 6 6 a . 6 6 G 8 6 g ggġ Ġ gofa dic figffa d . o ga a 6 2. BВ POSTERIORVM ARIS T. 63 Eleg TEX. XLI. VEL XXII. F G ta 16 ORVM quæ ſæpe fiuntdemonſtrationes funt & fcientiæ , ut lunæ deffectus , Quee dam noua queſtio à quodam nouo interprete moues tur , circa particulas in textu poſitas , unde eft , quòdfæpefiat demonſtratio of ſcientia de lune men ſtruo? Cumſit, quod luna nonſemper , nequeſe pe eclypſetur, neque meſtruum patiatur? Queſtio mota fuit ex dus plici ignorantia queex duplici menſtruoſitate contingit , uidelicet Solis Lune , quia ille , qui eam mouerit , neque in die , neque nocte uidet , quid uelit Ariftoteles, ſi tamen alta uoce Ariſtoteles streperet in huius doctoris aures, hoc apponeretforſan miringam , ſın ditë, ſurdus ipſeerit ideo ille bonus homo,qui quidam homo erat ,fed nunc nefcio an aliquis ho mo ipſe ſit, monſtruoſamde lunæ menſtruo folutionem ,uel potius ligas mina tribuit auditoribus centum . Videas , ſepeenim inquit nofter nos uus interpres, fit Lune eclipſis , quia quandofit,tunc orientalibus quar ta hora , occidentalibus autem hora tertia , magis autem occidentalibus hora ſecunda noctis &alijs etiam ad indos magis tendentibus prima non & is hora apparet luna menſtrua:a, ecce inquit ille interpres do&tus,quid ſepefit , ut puta intot horis noftis, utfecunda&tertia atque alijs plu rimis. Quemirabilis doctrina @ſcientia , in dialogis &fabelis , quas apud ignem raulieres habentreponenda magis , quàm àuiro quoquo moa do etiam docto redarguenda eft , uel etiam à quouis audienda . Litteraſic ordinetur , eorum demonſtrationes & fcientia ſunt , eorum dico , que fæpefiunt . Dico igitur lunc deffe tusſæpe , atque ſemper fieri in plenie lunio , quum terra diametraliter ponatur inter Solem Lunam , quod quidemnon in omni plenilunio contingit , fed cum sol in capite, & Lue na in cauda draconisfuerit , quod Plato explicans ait linea re& ta eft cu ius medium obumbrat extrema, quamfententiam non intelligens quidam alius potius paraſcitus quàm doctor, &ille est , quem ſuperius dixi hae , bere grauitatem maioren , quàm pondus , redarguebat in quodam cons uiuio deffinitionem quam Paduano Gymnaſio in primis meis le &tionibus publicis dederam , explicans deffinitionem lineæ rectæ , que eft , à pun Ao in punctum breuißimaextenſio , aut cuius medium ex æquofua inter 1 incet ſigna, hoc eft , cuius medium non reſultat ab extremis , ſic explis 64 IN PRIM VM LIB. cabam per fenfitiuam & materialem lineam , ut facilius ipfa Geomes trica linea à tirunculis intelligeretur , linea recta eft , cuius medium non obumbrat extrema , neque eſt hæc mea explicatio rectæ lineæ , Contrda ria illi à Platone datæ , cum hæc in Geometria , illa uero Platonis in Aſtronomia accomodanda ſit, neque in hoc ignofeendum erat, quia igna rus Grecarum litterarum eſſem , ut ille efuriens greculus non lingua ne que natione , fed apparentia tantum , Tipto propter tiptis duo agebat dicens mefalfam le&tionem Latinam vidiffe , qua legeram in Platone, lie nea recta eſt cuius medium non obumbrat, cum Græcus textus , affira matiue legatur fic cuius medium obumbrat extrema, mitto hæc in Cora bonam , oad propoſitum à quo uidebar digredi redeo, Cauſis igitur illis commemoratis concurrentibus, femper & ſaepe fit Luna defectus , de qua Luna menſtruata habetur ſcientia , per medium illud , quæ eft ter re interpoſitio inter Solem atque Lunam diametraliter , que cauſa pro pria, & propinqua eſt ad Eclipfim de Luna concludendam, modo anfe pe fiat demonſtratio uelfepe habeatur fcientia de Eclipſi Lune , hoc non tangit Ariſtoteles., quia ly ſæpe eſemper , non determinant ly demon ſtrationes, olyſcientia ,fed determinantlydeffe &tusLune ; illis igia tur cauſis contingit Luna deffeétus fæpec ſemper,non autem illis quas commemorauit ille phantaſticus , ſecunda uel tertia hora noétis . TEXTVS XLII ALIAS XXIII. VONIAM autem manifeftum eft, quod unữ. quodque demoſtrare non eſt, ſed aut ex uno. quoque principiorum , fi id quod demonſtra tur, ſit,ſecundum quod eft illud, non eſt ſcire hoc quidem fi ex ueris & indemõſtrabilibus monſtretur, & inmediatis , eſt enim ficmon , ſtrare, ficuti Briſon Tetragoniſinum ,per commune enim demonſtrant rationes huiuſmodi , quod & alí ineſt, unde & alíjs conueniunt hæ rationes non cognatis, Quicquid anti qui dequadratura circuli fenferint , dicam quid fenferim ego , habita prius notia littere, &cognito textusſenſu, li ex ueris premißis, oins demonſtrabilibus , immediatis, fiat demonſtratio , non autem fiat ex præmißis proprijs, opeculiaribus illi generi,de quo fcientia queritur, ex illa demonſtratione per talia principia primadi&ta non habeturſcien tid POSTERIORVM ARIST. 656 tla,immoneq; illa erit demonftratio, quia per principia fieret talis pros ceſſus, que non tantum arti Geometrie, fed alijs difciplinis accommo dari poffunt , quo errore Brifo.crrauit tentans reducere aream circuli ad figuram rectilineam quadratam , quæ t alia erant principia datur max ius, datur minus , igitur datur æquale , quidamſciolus laborat , ut hæc principia uniuerfalia ,propria fiant ipſiGeometric ,dicens,daturquadra tum maius circulo , datur quadratā minus circulo, igitur datur quadras kun sequale ipſi circulo , et gloriaturinnani , & hoc fuum chimericâ con tulerit cum yno do&tißimo huiys noftri Gymnasij, qui non folum perfua fionemualidam , fed et demonftrationem eam effe affirmauit ; fcito enim , quòd os folidis, e linels , o numeris coaptatur iſta dedu &tio , ut datur numerus maior denario eminor denario , igitur datur equalis nume rus denario, es ſic in alijs plurimis , dico tamen quod huius fcioli do&to ris contra tio in propoſito nulla eft ad oſtendendum intenti , quia ultra quod Briſo errans,proceßit per comunia principia ,errauit etiam errorç peßimo in conſequentia ,ut ex his quæfuperquintadecima terty Elemen torī Euclidis demonſtrantur &fuper trigeſima ciufdem ,Ariſtoteles au tem folum redarguit ipfum in co , quod egit contra regulam de proprijs principijs ,quicquid de confequentia fitprætermittens tanquam non res Marguendum , ut oppoſitum ſuedat& regul« . De quadratura, errore Brifonis , Anthiphontis, Hipocratisc Boetij atque iuniorum trattabo in fragmentis mathematicis ſuper live bro pofterioruin. TEXTVS XLV ALIAS XXIII. ED demonftratio non.conucnit in aliud nus, aliter quàm ut dictum eſt, Geometricæ in mechanicas, aut perſpectiuas, & arithme ticæ in harınonicas. XXXVII textu determis nauit Ariſtoteles quòd ad Geometram non pertinet de BRAVAS PRINT monſtrare quod duo cubifaciant unum cubum , ratio , ut ibi declarani aßignabaturquia Geometra O stereometrauerfantur cir ca diuerſagenera, alter circa planum , & reliquus circafolidum, hoc au fem textu dicit, quod geometrice demonftrationes conueniunt in genus mechanicum , ait enim geometrice in mechanicas , pro qua apparenti contradictione, eft aduertendum quòd Stereometrica per principia Gear I 66 IN PRIMVM.LIB . metric probantur quia in terminis corporis, qui ſunt ſuperficies , ille geometricæ demonſtrationes attribuuntur , ideodemonftratio Geometri ca hoc modo in mechanicas,conuenit , o ſinon fint circa idem genus, necfubfe inuicem diſcipline. TEXTVS XLVI ALIAS XXIIII. VID quidem igitur fignificent, & prima , & quæ ex his funt, accipiendum eft, quòd au: tem ſint principia quidem , eft accipere, Alia uero demonftrare, ut unitas, & quid rectum , & quid triangulus,effe autem unitate accipe re & magnitudinem ,altera uero demonftra re. Dedatoibi quid fignificent de dignitatibus ibi & priina. De que fito ibi, & quæexhisfunt. Exempla omniafunt in boc textu dedato; primum eft in decimaſextaſeptimi elementorum ubi de unitate,que ſe ba bet ad aliquemſecüdum numerum , ficut quilibet tertius adaliquem quar tum ,concluditur q, ipſa unitas, itafe habebit ad tertiã numerum , ſicutfc cãdus numerus ad quartum ,fecundã exemplum eftde data linea in prima propofitione primiElementorum ,de qua demonſtratur quàd fit æqualis, welminor cæterisduabus lineis re&tis continentibus,Iſopleurum , uel ifo feelem , uel Scalenonem ,uel etiam exemplum hoc apparet indecima pri mi Elementorum ubi concluditur de linea recta , quòd ſit biffariamfe &ta, Tertium exemplum de dato, eſt in xxx 11 primi Elementorum , ubi de dato Trigono concluditur . habeat tres angulos duabus re&tis paresnon tantum , quid ſignificentoportet preaccipere, fed etiam iſta effe , vt tan dem de dato nonfolum quidfignificet, quod etiam eſt queſiti,preaccipes re, fed eo quidſignificet effe, vtrumque fupponendum ſit (licet non femper,)ut quid ſit unitas,et unitatem effe ,quemadmodum ſecundo textu predocuit Ariſtoteles , uerbum hoc , magnitudinem , intelligendum eſt, rectam lineam ,ut decima primi elementorī ,et triãgulum ,ut trigeſima ſe cīda primi elemétorum ,quem triangulum ,et reetū, explicite protulit ab unitate,inquiens alia uero demonſtrare, ut quid unitas , quid rectiem , Oquid triangulus fignificet, elle autem unitatem accipere & magnitus dinem , hoc loco aduertendum est Ariſtotelem , ſeiunctam poſuiſſe unita tem à refto trigono, quæ duo nempe reétum & trigonum amplexi fuifſe in unico uerbo hoc , magnitudinem , propter hoc ut intelligenda POSTERIORVM ARIS T. 67 effet unitas de qua hic loquitur principium numeri feu multitudinis , de. qua quidem unitate alia affe&tio concluditur , quàm de unitate linee , de qua loquebatur in fecundo textu huiusprimi, wratio interpretationis apparet exlittera , quia de quolibet dato. feparatim concluditur pro prium queſitum , ut hoc textu declaraui. TEX. XLVII VEL XX IIII & 24 Allia 721, pe Court Alle Blato che * with rima alis -life pri eld Side Vntautē quibus utimur in demonftratiuis ſciētíjs alia quidē propria uniuſcuiufq fcič tiæ , alia uero cómnunia, comunia autemfer cundum Analogiă, quoniam utile eft,quá. túeft in eo (quod eft fub fcientia ) genere, propria quidem , ut lincã elſe huiufinodi. &rectum , De dignitatibus hoc loco loquens, exempla de dignitatis bus prèbens ait. Alia quidem propria uniuſcuiuſq & c.Propria Geometrie ſunt ifta , utlineam elfelongitudinem illatabilem or ſine pro fonditate ,hacde caufa dixit lineameſſe buiufmodi,id efthabere banc defa finitione, & reétum , vt puta recta linea est , que ſua ex æquali intera iacetſigna,uel linea recta eft à punéto in punctum breuißima extenſio, non intelligas lineam, &rectum , Jolitarie o incomplexe,quia hoc loco de dignitatibus,que complexa funtloquitur : non de incomplexis utde linea tantă , ca de recto tantum ſed , dehoc cöplexo linea est longitudo illa tabilis ; ¢ linea recta eſt ,quæ ex æquali ſua interiacet ſigna ,de linea in uniuerfali, fubinde de contracta uſpecificalinea recta exempla explicăs , Communia autein ut æqualia ab æqualibus ſi auferas,quòd æqualia reliqua ſunt. Aliqui indoctirelatores interpretum et inter pretes Arifto, non intelligentes hunc locum ; naturam Geometrie ſcien tie perdunt, dicentes Geometram per principia communia procedere, id autem eft contra ueritatem ex parte rei econtra Ariftotelis do &tria nam . Pro cuiusdifficultatis nodo extricando , aduertendum quod princi pium iftud,de quolibet ente,uerum eftdicere quodeſt,uel no eſt tale, nun quam in demonftratione ponitur , nec eo utimur niſicontrate, oquae dam determinationeadgenus aliquod terminatum, er pro altera diſiuna Eti parteaccepto ,nulli enim fcientia eft, aut diſciplina , que utatur illo principio pro utrag; diſiunéti ,fed pro altera tantū parte , Sinile de hoc ( & alijs huiufmodi) principio, fi ab .equalibus æqualia auferas, que re MON jpes non exti ell I i IN PRIM VM LI'B . Manent,æqualia funt, audiendum eft, nulla quippe diſciplinaest, que es utatur niſi contracte, fic quòd Geometra nunquam eo ufus eft præters quam inhisquæ circa planum uerfantur, utfi ab equalibus lineis,uel fu perficiebus,aut angulis,equates lineæ, uel fuperficies aut anguli deman tur, quæ remanent lineæ ,uel fuperficies ,aut anguli funtæquales ,quão primum autem principium hoc contrahitur , non eft amplius commune Guniuerfale, fed fit proprium illius generis fcientiæ ad quod contrahis tur, quod uerohæc noftra declaratio fit ad Ariſtotelis mentemmanifes. ſtum eſt ex predicamento quantitatis ubi de diſcreto econtinuo agens, determinat quod utrique proprium eft peculiare fecundum eamæqua leuel inæquale dici, ſi inſtetur ex menteAriſtotelis dicentis, principiunt . - iſtud effe commune, inquit enim ,cõnunia autē &c. Dico illud prin cipium eſſe commune, ſi non contrahatur , quàmprimim uero contrahi tur non eftcommune amplius , ftatim enin fequeretur contradi&tio , quod eſſet commune ono commune, doétrina hæcmeacoheret his,quæ Aucroes commentationemagna affentiriuideturfuper hoc textu, o his que Ariſtoteles hoc loco dicitinquiens ;fufficiens eft autemunumquoda que iftorum quantum in genere eſt,hoc eft quatenusad determinatū get nus contrahitur, de principijs loquens ,ubi de datis dixerit, & tertio lo co de queſitis, ibi quodautē ſint demóftrant, o fi adhuc inftes e Theon &Campanus non contracteinquatuor primis libris Elemento rum , a quod Euclides affixit illud principium primo libro , dico quod Căpanus &TheonbreuiloquioStudentes accipiuntipſum principiū fne Contractione , femper tamen op ubique uolunt ipſum intelligi contra &te cum determinatone ad illud genus ad quod-co utimur , aliter. errarent , Euclides autem primo libro affixit , quid utitur ipfo con tracto in primis quatuor libris, Adhuc fi fortiuscontra hanc expo fitionem precipue inſtetur quod fiquid ueritatisſaperet , statim haberea tur circuli quadratura per hæcprincipia contra&ta , datur quadras tum maius circulo , datur quadratum minus circulo igitur dabitur quadratum æquale circulo , refpondeo , quò du os errores commiſit Briſo, o talis argutus doctorolus inter arguendum , primo quia Brie so per principia comunia , iſte audem do&tor per contra &ta illa princi pra, feduterque in æquiuocisarguebat, circulus enim et quadratum equi uoce funt figuræ altera enim curuilinea reliqua uero re&tilinea eft , hunc errorem fecundum non inuenies in mea hac expoſitione,&contra ipfam inftantianulla est , de crrore autem Briſonisfuſius in noftris fragmentis POSTERIOR V MARIS T. 3 Logicis . Idem enim faciet & fi non de omnibus accipiat fed in magnitudinibus folum , Arithmeticæ autein in numeris. Diuinus Philoſophus quàmprimum explicuerit , quæ namfunt propria per duplex exemplum uniusfeientia Geometria, linee uidelicet , &lia neæ recte , •fubiunxerit , que nam ſint communia principia exent plum prebens tale, nquit, ut æqualiaab æqualibusfi auferas quod æqua lia ſint remanentia , ſubiunxit quomodo hoc principium &fimilia cone trahantur ad proprium genus ſcientiæ &propriafiant dicens , ſuffia ciens eſt,unum quodque iſtorum , quantum in genere est , fufficiens quie dem acſi peculiaribus atqi proprijs principijsuteretur Geometra uteng iſto principio, æqualia ab æqualibus ſi auferas æqualia remanent , non quidemſi de omnibus accipiat , non quidem dico demonstrabit Geometra: fi fic de omnibus & uniuerfaliter ſine contractione utatur , fed demon , ſtrabit quidem , inquit Philofophus,ſi in magnitudinibus folum , id eſt contracte o determinatim ,eo ufus fuerit .Vtfic, fi ab æqualibus lineis ſuperficiebus , angulis, Arithmeticus, fi ab æqualibus numeris æqua les lineas ſuperficies angulos uel numeros auferas quod æquales linea fuperficies anguli onumeri remanebunt. Tunc uult Ariſtoteles quód iftud principiumſic contractumreddatur propriumipſi Geometra , og Arithmetico &unicuique artifici in fua arte , ac fi peculiari epros prißimo uteretur , non procedit igiturGeometra per communia prins cipia neque ob id , quia per cominunia procedit Geometria , ideo non fit dicenda ſcientia ipſa Geometria , ut quidam ingeniofus noftri teme poris immaginatur . Sunt autem propria quidem & quæ acci piuntureſſe , circa quæ , fcientia fpeculatur , quæ ſunt per le , ut Arithmetica unitates , Geometria autem figna & lineas. Euclides in Arithmeticis ab oskaud propoſitionenoniElemene torum uſque ad tredeci mam incluſiue accipit unitates , ſed ſigna id eſt punta accepit in ſecunda wtrigeſima prima primi Elementorum , lie neas uero in primt, ſecunda,& tertia primi,atque in undecima undecimi Elementorum . Hæc enim accipiunt eſſe, & hoc eſſe , idemo dixit in principiofecundi textus,ut de dato precognoſcatur utrunque &quid &quia est , accipiunt eſſe,id est deffinitionemſeu deſcriptionem welquid per nomenfignificatur, ex hoceffe ,nempeactueſſe , uel mente oaštu.confideratiuo effe, id quod concipiunt , quod eſſe potentia ,uel effe aptitudinedicunt . Horum autem pafsiones funtper fe quid quidem figni 70 IN PRIMVM L'IB. ficet unaquæque accipiunt , ut Arithmetica quidem quid par , Sicut uigefimaquinta noni Elementorum , aut impar , ut trige fimanoni Elementorum , Aut quadrangulus,ut xxxvi. noni Ele mentorum , &quilibet numerus à duobus duplus,ut xxxv. eiufdem , a eut declaraui ſuper textu xx. de altera parte longiori, Aut cubus ut quarta noni Elementorum ſic intelligantur termini exemplorum in Arithmetica;Geometra uero quid irrationale,ut XI. X. Elementorum , aut inflecti per contactum in unico puncto ex xij.ex xv.tertij Elemen . aut concurrere, ut xv.xi. Elementorum oprima Elementorum Geo metrie Vitellionis . Animaduerſione dignum est hoc , quod Geometra nunquàm hanc affectionem , ut irregularitatem deunica lineafola con = fiderat , neque etiam de una tantum linea id concludit , quicquid Cama panus ſentiat , fed id de linea una ad aliam comparata atque relata, cum qua non habet uliquam communem menſuram , ut est diameter wcofta quadrati . Inflexio uero in una atque eadem linea circulari eft , quætan gat aliam rectam lineam uel alium circulum interne , uel etiam exterins, in unopuncto tantum , quia inflexa non fecat nequere & amlineam , nes que etiam circulum , quorum utrumlibetfaceret linea recta , eifdem ! recte linee 6 circulo non contingenter neque in directum applicata . Quod autem fint paſsiones per fe demonſtrant per coin munia & ex his quæ demonftrata furt & Aftronomia funi liter . De datis dequibusaccipiebamus quid fignificarent &effe , de monſtrant artifices Arithmeticus OGeometra per communia , idef per uniuerſalia principia (que tamen unius generis ſint) v ex his etiam propoſitionibus, quæ prius demonſtrata funt, affectiones illas predis Etas , ſicut etiam aſtronomus facit , utper ea quæ in Geometria probas ta ſunt, etiam per propoſitiones probatas in Aſtronomia concludat etfiEtionesfequentrum Theorematun . TEX . XLVIII. ALIAS X XV. VASDAM tamen fcientias nihil prohibet quædain hortin defpicere ,'ut genus non ſupponere effe , & fit manifeftum quoniam eft,non eniin ſimiliter manifeftuin eft,quo niam numerus fit, & quoniam calidur , & frigidum fit. Natura enim &per fenfum notum POSTERIO RVM ARIST . 70 $ 200 ill 0 si est, quonian calidum eft, ideo non eft opus precipere mente o ſuppoi fitione aliqua intellettuali, «quadamſcrupuloſa indaginefuum quiade calido , quando calidum eſt ſubiectum ſeu datum uel genus, hoc cafu , quandoeft notum quia est dati , deſpicitur præcognoſcere mentis inda gatione de dato , an fit ? Quod noncontingit ſimiliter de numero, quans donumeruseft datum , de eo enim eft necefſe mente e intellectuali acte preaccipere quia numeri, Videlicet quod numerusaétu est mente con: ceptus , ac fiexifteret aétu , uel aptitudinem ad exiftendum habeat, en hoc quidempropter hoc , quod numerus neque nataraneque fenfu aetud liter percipiturquòd fit , fed tantun intelleétu dignofcitur , @ hæc duo exempla de dito prebetnobis Ariſtoteles,ſubinde de queſito feu paßione facit exceptionem dicent , & paſsiones non eft accipere quid fi gnificent ſi fint manifeltæ , ut puta ſi fit notiſsimum quodtale no men -notifsimam rem ſignificet . Tunceo cafu non prerequiritur indas gando quid fignificet illud nomen , quia iam notum eſt. De dignitatibus.au tem idein excipit ab uniuerſaliregula ,qua dixit fecundo textu , alia nana que quia funt prius opinari neceſſe eſt,utomne quidem quod est ,aut affir mareaut negare uerum eſt , quia eſt , o textu xlvi.aliud prebet exem plum , utæqualiaab æqualibus fiauferas , quòd æqualia reliqua ſunt , de his communibus principijs non eft preſuponerequia eft . Cum ipſorīt ugritas quafi natura nota fint , quaſi natura dico, utputa quia notis ter minis ipſarum dignitatum , statim notum est, quia est ipſarum dignitatum fecus autem eft de dignitatibus proprijs cuique arti,quia tunc non est,fa tis ,quid fimplices terminiſignificent preaccipere,fed opus etiam eſt pré cognofcere copulationem terminorū effe neceffariam , ueram ,ut quòd circulus fit figura plana unicalinea contentain cuius medio punctus est à quo ad circunferentiam omnes recta linea duétæ funtæqualesfecludit , igitur ariſt.àfubie&to ipſum quia quandoipſum eſſe,manifesti est ,non ſecludit ipfum quid est , ut exponit loan .Gram . Alexander, A queſito ſecludit aliquádo quid eft,era comunibus dignitatibus ipſum quia,quando notumeft quid queſitumfignificet, &quando ueritasdignitatum eſt mani feftifsima quod autem hæcde datofeuſubiecto expoſitio ſit germanatex. Ariſt.ut uidelicet excludat àſubiecto ipſum quia ,& non ipſum quid,mani feſtă eſt in littera,ubi ait ,Genus non fupponere efle fi fitmanife ftūquoniã eſt non dicit Arift.genus no ſupponere quid ſitexemplü de queſito,quandonon accipiturquidſignificet est propoſitione xiiij.primi : Elemen.quod est,indiređã linea una,quod quidē quid ſignificet non tung OI MI deo per da Jet OB um 10 & IN PRIM VM LI B. preaccipitur,cumfit notum ex deffinitione quarta primi Elementorum , quodnon queratur , quia eft , quando est notum ,id apertißime dicit philofophus textu fecundo ſecundi Poſteriorum ,inquit enim ,inuenien tes autem , quia deficit pauſamus, & fi in principio ſcirc mus, quia deficit ,nó queremus utruin , cum autem fcimus ipſum quia ,ipſum propter quid querimus & c. TEXTVS LII ALIAS XXV. EQYEGeometra falſa ſupponit,ſicut qui dam affirmant dicentes , quòd non oportet falſo uti , Geometram autem mentiri, dis centem lineam eſſe unius pedis,quę unius pedis non eft , autrectam lincam , non ree &tam cxiſtentem , ut in prima propoſitione prin mi elementorumfuper datam rectam lineam triangulum collocare , etiam in decima primi Elementorum datam lineam rectam , eum biffaria diuidere iubet Geometra, os ſiilla linea , que atramento pingitur , uel penna aut ſtilo protrahitur reta non fit, non ob id tamen dicendum eft, Geometram errare , quia non ad id intentionem dirigit Geometra quod oculis fubijcitur , fed ad id potius , quod intus animo concipit , dirigit intentionem , ideo non contingit Geometram circa aſſumptam materiam errare et mentiri, Geometra enim nihil concludit fecundum hanc lie neam pitam , quam ftilo pinxerat , fed fecundum intus conceptam lie neam , demonſtrationem percurrit ,idem habet Ariſtoteles primo priorã ante mutuamfyllogifmorum reſolutionem non errat etiam Geometra cir ca formam fyllogiſticam , ut textu 59 62, ait Ariſtoteles, igitur cer tißimefunt diſciplinegeometria, et non quiafenfatæ fint, ut falfo quis dam dicunt, Quia intus concipiuntur. TEXTVS LIX ALIAS XXVIII. VONIAM autem ſunt Geoinetricæ inters rogationes non ne funt & non geometri. cæ ? & in unaquaque fcientia,fecundü qua lem ingnorantiam funt Geoinetricæ ? & utrum quiſecundum ingnorantiam fyllo giſmus eft, fit qui ex oppoſitis fyllogifo mus, POSTERIORVM ARIST. 3 dis 2018 pria vik est 200 gt mus; an paralogiſinus? In unaquaque fcientia contingunt fieri in terrogationes, ficut in Geometria , In geometria autembiffariam contin git interrogatiofieri, uno quidem modo,ut nihil fapiat de illo, quod inter rogat, ut fiquis querat an icoceruus habeat tres æquales duobus rectis, ignorans omnifariam &quidfit Icoceruus , & quid ſithabere tres duo bus reétis æquales , hic interrogans habet ignorantiam fecundum nega. tionem , quia omnis habitus negatur in eo de illa re, quam querit. Altero autem modo, ut interrogās ſciat quippe partim de illo , quod querit, par tim uero non, ut adinuicem parallelas concurrere,fciat nanque que nani lineæ rectæ fint, oſcit quòd in utranque partem protrahuntur , ſcit etiam , quisnam ſit duarum linearum concurſus , &quatenus iſta nouit et interrogat,Geometrica queſtio atq; Geometrica interrogatio eft, quate inus autem opinatur an parallelæ in infinitum protrate concurrant,hac ex parte,non eft Geometrica quæſtio , et habet hic ignorantium habitus, idest fecundum habitum, quo fcit lineas rectas , ceas in infinitum pro trahi polle, et concurſum linearum effe in eadem ſuperficie, cum illo qui dem habitu , ſtat hec ignorantia , ut ne ſciat quòd etiam ſi in infinitura protrahantur, non căcurrunt. Errore hoc peßimo in interrogatione er rauit Pſcelus Grecus, quifuitilla tempeſtate quorundain Grecorum ho minum , qui præter uoces re ipfa nihil penitusaut parum doctrinæ has bebant, in quam calımitatem credo plurimosnoſtri temporis Græculos incidiſſe, Tentauit ipfe diuidere tonum, qui fexquioctaua proportione co ſtat accipiebatô; neruos duos, qui tacti, interuallum foni haberent, quos rum utrumlibet biffariam diuidebat, fubinde arguens agebat, totus ners uus maior ad totum neruun minorein habebat toni ratione, igitur medie tas nerui ad nerui alterius medietate ,ut medietas toni ad toni medietaté, poyo fic putabat dimidium Toni , hoc eſt ſemitonium uerum adinueniſſe, ignorans pauper , quod proportio totius nerui ad totum neruum eadem eft , que dimidij nerui ad dimidium alterius nerui per decimamoctauam @decimamnonam ſeptimi Elemětorum , erat igitur non Armonica quæa ftio, qua quærebat, an tonus dividi biffariam poſſet ? Verus autem Geo . metra ille eft , qui non habet ignorantiam neque ſecundum negationem , neque fecundum priuationem , «ille non facitinterrogationes non geo metricas, neque interrogationes partimgeometricas opartim non geo métricas, ſed interrogationesfacit omnifarians geometricas, ut, an trian gulus cõſtitutus in tabula, habeat tres æquales duobus reitis pares, Geo metra non errat , circa uffumptam materiā,ut tex. 52. determinauit phi lik line et K 74 IN PRIM VM LIB .. lofophus,non errat circa interrogationes, ut hoc textu patuit, neque era rat in forma, in ſua induftione, ut demonſtrat Ariſtoteles in textu. 62. nullus igitur error in Geometria contineri poteſt ex mente Ariſtotelis, hanc eandemfententia habet Galenus in de erroribuscognoſcendis et cor rigendis, quo loco innumeras Geometrie utilitates narrat. TEXTVS LXII ALIAS XXIX. ONTINGIT autem quofdam non fyllogi. ſtice dicere propter id quod accipiunt ad utraque conſequentia , ut & Ceneus facit, quod ignis in multiplicata analogia fit . Scito Ariſtotelem Cenei mentē recte intellexiſſe, que quia in formafyllogiſtica errabat parallogizădome rito eum redarguit, ut Joannes exponit ,ſed aduertendum eſt in materia parallogiſmi , quo modo id cita creſcat in multiplicata analogia , quia ut Alexander errauit in hac expoſitione quëadmodum Philoponus ei ima ponit non minustamen & ipfe etium loannes grammaticus grauiter era rauit aliter exponens quàm Alexander,oſi fuam expofitionem confir met Procli diadochi auctoritate, qui Proclus , ſi ita fenferit , ut ioana nes refert, perperam hunc locum interpretatus eſt,«mentem Cenei nõ intellexit,inquit Ariſtoteles de mente Cenei, quod in multiplicata analo gia creſcit, id cito creſcit , non autem ait, quod in multiplicationetermi porum analogia creſcit , id cito creſcit ſicut ipſe loannes & Proclus terminos analogie multiplicentfic , 1,2,4, 8 , 16, 32, 64, 128, 256 , $ 12 , 1024, 2048. Egouero aliter de mente Ariſtotelis Cenei dico ex doctrina Eucli dis deffinitione undecima quinti Elementorum , &ex deffinitione primi Geometrie uitellionis ubi quantitates denominantes ipſas proe portiones multiplicantur non termini, ut loannes Proclus facies bant,arguebat ſic Ceneus ,quæcung cito creſcit augentur in multiplicata Analogia , ſed ignis augetur in multiplicata Analogia , igitur ignis cito creſcit ,ubi maior &minor in ſecundafigura ſunt affirmatiua. Talis au tem error parallogizando à Geometra non committitur , igitur certiſie ma, ca in primo certitudinis gradu Geometria reponitur, POSTERIOR VM ARIST . 75 248 2 3 3.2 ov 4 64 16 1 2 8 16 2 S6 256 S 12, 1 256 65536 4 0 24 2 048 ei ad CI , C. qué mee erit 4096 8 1 9 z 1.63 8.4 32768 6 ss36 Julia ima 1 eta infor TEXTVS LXIII ALIAS XXIX. ină Tomi club = 56 wich ro cies ONVERTVNTVR autem magis , quæ funt in mathematicis, quoniam nullum reci s piunt accidens . Secunda pars trigeſimaſecunde primi Elementorum eſt , quodomnis triangulus duos bus rectis paret habeat , id autem probat prima pars trigefimaſecunde ,& ſecunda, o prima pars uigefi menone, &tertia decima primiElementorum , quæ omnes propoſitio nes concurrunt ad probandam illam conclufionem , quæ conclufio ſi in fua principia illatiua reſoluatur,non niſiin illareſolui poteſt, que ſupra commemoraui, ubi cernis &compoſitiuam methodum , ab illis principijs ad illam illatam conclufionem , reſolutiuam methodum ab illa conclus fione ad illa principia regrediendo , quihabitus reſolutiuus altißimus eft, e profecto ſignum eft re &te fapientis. Cumautem conclufiones in mathematicis fequantur ex determinatis principijs , tunc ibi facie lior eft reſolutio à concluſione in principia quàm in Topicis , ubi ex uagis, ofolum apparentibus, quandoque etiamfufpeftis odiuerſis, cito # Bie Kij 7.6 IN PRIMVM LIB . @non ex unis principijs concluditur quippiam de hac re , abundantius infragmentis nostris mathematicis fuper Ariſtotelis loca dicturus fum . TEXTVS LXIIII ALIAS XXIX . & fit par eſt ers VGENT VR autein , non per media , ſed in aſſamendo, ut a de b , hoc autem de c , rurfus hoc de d, & hoc in infinitum . Et in Iatus, ut a de b, & de e, ut eſt numerus quantus , uel infinitus ,hoc autem fit in quo eſt a, nunerus impar quantus in quo b, numerus imparin quo c,eft ergoade c, & fit quantus numerus, in quo d par numerus in quo e, go a de e. Exépla duo attulit primo in poſt ſumendo,ſecüdo in litus ſu mendo, primo exemplī prebet in numerisin poſtfumendo,ut a numerus , de b numero impari, et b ,de numero c primodicitur igitur a numerus de c numero primodicitur, In latus ſumendo numero pariter exemplificat, pro cuius notia, imaginare arborem porphirianam ,cui fimilē in numeris finge, &numerum quantū ,qui etiam potentia infinitus eſt, loco ſubſtans tiæ apta ; infinitus ait propterhoc, quia omnes imparis atque paris nu = meriſpecies,quæ in infiritum crefcunt,potentia continet ,ſicutſubſtan = tia fuas inferiores potentia fpeties continet, his autem numerus non po teft effe aliquis determinatus quantus , quia quicunque daretur , aut par effet , aut impar, qui non poteft effe communis pari &impari, fed talis debet eſſe numerus uniuerſaliter ſumptus, noluit autem uti iſto uer bo, uniuerfaliter, quia non eſt terminus Arithmeticus,ſedſpectat magis ad dialecticuin , ideo loco debito ufus eſt proprio uerbo hoc, uidelicet, ins finitus,quæ uox numero conuenit, ſicut incremento creſcat in infinitum inſuis fpetiebus, & numerus fic acceptus diuiditur in imparem , atque pa rem , &imparis numeri diuiſio est , in primum numerum ,ocompofi tum , prinus autem numerus dicitur in fui natura, &ſine comparation, ne ad alium quemcunque numerum ,o ille eſt quiſola unitate metitur,ut. 3 , 5, 85" 7, 13. Compoſitus numerus eft, qui alio numeroaf e ,oo ab unitate diuerſo , dimetitur, ut 9, aut 25 , à ternario , & à quinario dimetiuntur, is compoſitus diuiditur in parem , atque imparem , et par quidem numerus ille eſt ,qui biffariam ſecari poteft, ohic partitur in pariter parem , qui in duo æqualia fecantur , partes eius, quoufquc POSTERIORVM ARIST. 77 1 ad unitatem uentum ſit , ut trigeſima. In pariter imparem qui quidem in duo equalia partitur, partes in duo æqualia non fufcipiunt ſectios niem ,ut quatuordecim . In impariter partem , qui quidem in duo æqualia diuiditur partes ſimiliter in duo æqualia , fed hæc partitio , uſque ad unitatem non peruenit , ut trigintaſex , de quibus Euclides libris ſeptia mo o octauo, nono Elementoruin , Nicomacus atque Boetius primo Oſecüdo Arithmetice, Quo autem ad Ariſtotelis textī attinet, manife ftum erit exemplumſuum , numerus infinitus fiue quantusſit a numerus autē quantus &determinatus ſub ipſo ſit b , numerus alius nempe infes rior ad b ſit cog,par autem numerus quantus ſit d, qui trifaria ſeca tur in e k l, ut dictum fuit fupra , eft ergo a ded , &etiam de e k lo In latus autem dixit ,quiane dum per rectam lineam arboris, fed ex utra que partefumptio facta fuit. ES 11 in Exemplum in poſt.fummendo. 5, Exemplum in latus fummendo. 11: 111erus 111 : 11CTUS -is 14 impar primus 13 50 ut impar 6 d par ed S A i primus compofitis . 16 14 pariterper impariterpar pariter impar. 12 is 14 inte Aduertendumquod exemplum in numeris eſt contractius , quàm prius propofuerit per litteras ,ideo ne labores in numeris tot numerosfübfea inuicem poſitos, quot litteras, ibicommemorat, exempla duoin numeris appofui ut alia ipſe in textufecit, ne alia aliterdefiderentur. mo . 6 8 IN PRIMVM LIB. > TE X. LXIIII. A LIAS X X X. Iffert autem quia & propter quid fcire primo quidem in eadem ſcientia & in hac dupliciter uno quidein modo, ſi non per immediata fiat fyllogiſmus , non enim accipitur prima cau fa , quæ uero fcicntia proprer quid , per pri mam caufam eft . Hoc quidem primo modo non prebet exemplum aliquod philofophus , quicquid Aueroes , Philopou nus , fequaces fentiant , fed exemplum profecundo modo appofuit unicum folummodo pro quia , de ſintillatione planetarum , de rotons ditate autem Lune dedit etiam exemplum ,pro fecundomodo quia ,quo ta men exemplo declarat etiam quo pacto fieret propter quid demonſtratio O ob id imminutus aut ſuperfluus non fuit , quia primo modo textus est clarus ſatis, c profecundo modo quia ,duo exempla prebetin diuers ſis ſcientijs , utrunque exemplum est in ſcientijs medijs , alterum est in optica , reliquum est in Aſtronomia , &quia textus est ſatisclarus in duobus exemplis quantum ad inductionis modum . Primo declaro prie, mum modum , quo, quia à propter quid differt de quo primo modo,quo, quia a propter quid differt nullum dat exemplum ,ubi ait uno quidem modo,fi non per immediata fiat fyllogif. ita habet textus Philo ponio Aucrois Argiropilus autě habet , uno quidē modo fi ratio tinatio non per ea, quę uacant medio fiat,utloco uerbiſyllogiſ. legatur ratiotinatio, omelius meo iudicio, cum illud uniuerſalius fit uer bū , fenfus tamen ille est, utfi fiat deduétio, non per immediata,erit demon ſtratio quia ; ut fide homine concludatur reſpiratio, eo quod ſitanimal, ſi uero de homine concludatur quòd reſpirat , eo quòd pulmonem habet , eritdemonſtratio propter quid, oin utroque modo,concluditur res spiratio follogifmo ut omne animal reſpirat ,cæt.velomne habens pul: monemreſpirat & c. Si uero lectiofiat ſecundum Argiropilum ,Olegatur ratiotinatio , Tunc exemplum dari poteft pro primo modo, quando non per immediata fiat inductio, ut prima pars xxxij . primi Elementorum probatur per uigefimamnonam primi elementorum , & non per immes diata principia , fic ut fenfus fit , quod illa que probantur per alias pro poſitiones probatas prius, talia quidem probatione quia probataſint illa uero queprobanturper immediata principia propter quid demonftrens POSTERIORVM ARIST. 79 zmo citer fiat maus prio DOM -cpon cofuit bton uo ta cratio extus iuers mes : FUS IN • prie quo, dem philo atio ogil uer tur , ut eſt queſitum primi, ſecundi, atque tertij problematum primi Elea mentorum ,que quæfita per immediata principia demonſtrantur , facta prius deſcriptione , ut conuenit , neque dicendum est , ut quidam exiſtie mant,quod eafit propter quid ,quando perimmediataspropoſitionesfiat deductio imediationem illam tribuentes adſitum propoſitionū ut fecundit pars xxvIII. per primam partem illius, oprima pars uigeſimeoctaua per uigefimumfeptimam primi Elementorum,fed hoc loco , non imme diata accipit Ariſtoteles, omnes propoſitiones probatas,uel etiam , quæ per prima probare poſſunt , cum demonftratio fiant ex primis , & im mediatis, oppungat,ut immediatafint , o non fint primaabſolute . Et in Geometria etiam alio modo quia eſt , differt à propter quit , ut quando ab effeétu ad caufam progreffus fit , neinpe quando per æqualitatem an = gulorum concluditur equalitas laterum ,ut fexta primi Elementorum Eu. clidis proponit.Propter quid autem eſt,quádo à caufa ad effectum proces ditur , utputa quando ab equalitate laterum trianguli infertur æqualitas angulorum illa latera reſpicientium , ut prima pars quintæ elementorum Euclidis proponit . Atio autemmodo per immediata quidem non auteng percauſam , ſed per notius eorum que conuertuntur , ut lucidum non ſcintillare,o prope eſſe , fimiliter, creſcere per rotunda incrementa luz. cida , ceſſe rotundum æqualiter defe inuicem prædicant,notius tamen eft , non ſcintillare , quàm prope effe , &notius eſt creſcere per increa menta lucida rotunda, quàm eſſe rotundum , & primum eft per fenfum per induétionem in fingulisplanetis notummagis , non tamen caufa eft quare planetæ prope ſint, fed econtrario.Secundum etiam , ut quod incremento creſcere,non eſt caufa rotunditatis , licetfit notumfolummo do per ſenſum , non autem per inductionem à pluribus determinatis ſie mul exiftentibus, quia hoc tantum de unico incremento creſcente certi fumus , *cum per ipfa, fiunt inductiones , quòd planeta propefint, aut quod Luna rotundit ſit, talis utriuſque inductio eſt quid, quod fi ccontra riofieret, tunc propter quid, anon quia, erit demonſtratio , ifti igitur duo modi à fe diuerſi ſunt, eo quod primus, per priora quidem , non tas men immediata procedit. Alius autem per immediata non tamen per priora , fed ea quæeſt propter quid colligit utraque, & quod ex prio ribus fit, atque ex immediatis . Amplius quare planetæ , haud fcina tillare uideantur fuſius ſuper problemateultimo quintadecimæfectio nis problematum Ariſtotelis fiet per me declaratio , quæ etiam faciet fatis huic textui , eft tamen hoc loco aduertendum Ioannem dicere fira MON mal , het, pw atur non ros illa IN PRIM VM L I B. tillationem prouenire , quod protendentes uifus ufque ad aſtra fixa de biliores fiunt, quaſi quòd uiſio fieret per extramißionem radiorum , ut Thimeo &Empedocli placituin erat , quos Ariſtoteles reprehendit capi te ſexto De Senſu &ſenſili. In hac igitur parte reiciendus est Philopo nus , niſi exemplo loquatur famoſo . Alterum De rotunditate Lune fus per problemate oftauo eiufdem feftionis aperietur , ubi querit Ariftote les unde eſt , quòd Luna uideatur plana, cum fit rotunda. TEXTVS LXV. ALIAS X XX . MPLIVS in quibus inedium extraponitur etenim in his nó propter quidſed ipfius, quia demonſtratio eft , non enim dicitur caufa , ut propter quid non reſpirat paries, quia eſt ani mał . Tertium modum quo quia in eadem ſcientia à propter quid differt , nunc affert Ariſtoteles inquiens amplius eft, que quando neque cauſa probat 1,ut primus modus effe&tum infert , neque est,quando ex effectu caufa infertur , fed quando ex nega: tione pene cauſe infertur ipſius effe &tus negatio , feu etiam econuerfo , ut quia non funt parallele, ideo alterni anguli non funt æquales, opdo ri modo , quia extrinfecus angulus non eft æqualis intrinſeco'ex eadem parte , igitur parallele non funt ; oeſt hic modus tertius , quo quia à propterquid differt in eadem ſcientia , dixi quando ex negationepene caufe, oc. Quia parallelas effe,non eft caufa ut alterni anguli ſintæqua les ,nifi fuper ill. linea recta ceciderit, que propinqua caufa eft, quod al terni anguli fintæquales,ficut animal quidem longinqua caufa eft refpira di, propinqua eſt pulmo, totalis autem eſt animalhabemus pi Imonem me dium enim ad probandă affeétionem in perſpectiut accipitur extra perſpe fiuã, utputa in Geometria & Mechanica ad Stereometriam.ld no tißimum erit pariter v iocundum , fi id quod ait Ariſtoteles in ques ſtionibus mechanicis questione x l'intelligatur ,onera qua mouentur ſua per ſcytalas facilius mouentur, quam fi ſuper plauftra mouerentur,ultrd rationes illas Phiſicas quas ibi Ariſtoteles adducit , etiam ratio propter quidſummitur ex primoſtereometrie Euclidis deffinitione decimao taud uel undecima ex Theonis littera, Q * tertio Elementorum deffinitione fez cunda, minus enim offenfant ſeytale, quam plauſtrorum rote , quia ana gulus fcytalarum longe maior eft, quàmfit angulus rotarum plauftrorit ut angulus POSTERIORVM ARIST. 81 1 unt 41 utangulus rota a fe, uel etiam a fd longe minor eft quàm angulus fcytale af c, & ideo minus ad planum af b offenſat ſcytala quam rota ,quidfcytals,que in uſu noſtro tempore eſt, in questionibus mechaa nicis declarabo, pro nuncfcito illas eſſe ftangulas ,quibus utuntur lapi cide in trahendis magnis lapidibus, f & Harmonica ad Aritmetica a -6 Tonum in duo equalia diuidiſemito nia minime poteſt,quod muſicus dea terminat , ut Boetius re&te fentit lis bro tertio capite primo muſices, le quicquid Pfelus Greculus ſentiat , fedfecaturin apothomen eſemi tonium minus, huius autem propter quid ratio , ab Arithmetico reddia tur, quiafuperparticularis propor tio non poteſt diuidi in duo equalia , ut Boetius in Arithmeticis docet. Tonus autem cum in ſeſquioctaua ſonorum proportione conſiſtat in duo equalia ſemitonia diuidi haud quaquam poteft. & Apparentia ad Aſtronomiam . Apparentia , ipfa eft phenomena de qua Euclides, e Aratus poeta agunt, atque VergiliusAgricolas docens tempus quo mila lium feminaredebent , ait in Georgicis loquens de occafu hellaco , Candi dus auratis aperit cum cornubus annum Taurus, oaduerfo cedens cda nis occidit aſtro,rationemſiqnis agricola deſideret , cur eo tempore cda nis, qui et Alabor dicitur, occidat beliace ,id totum ab aſtronomo petat, qui rationem propter quid redet; Sol enim in orbe eccentrico à propria intelligentisex occidente in orientem motus , quicquid fomnietAlpetra gius Fracaſtorius, & fequaces,accedit annud orbita ad illud fydus, quod eft in geminis &fuo maximofplendore , non finit illud uideri, id autë fit cum Sol diſcurrës perſignum Tauri , attingit extremam partem Tauri, tunc enim canis perdit lumen ſuum , non uidetur amplius, propter So lis ad ipſumſydus uiciniam , quouſque iterum per motum eccentrici ab co fydere ellongetur Sol, quod iterum oriri heliace incipit ; hi ſunt igitur modi quatuor , quibuspropter quid , à quia differt , tres quidem funt in eadem ſcientia fubalternante,oquartus, quando id quoddemon ſtrandum eft inſcientia media ,per ea quæ in ſubalternante ſcientia nota funt, probatur , in quo quarto modo , funt plures demonſtratiomisgraa dus fpeculandi, quos quia Ariſtoteles non tangit,præterco. L Me hen 1 1 IN PRIMVM LIB . -7. Sunt autem hæc quæcunque alterum quiddam exiſten tia ſecundum fubftantiam, utuntur fpeciebils, Mathenati cæ enim ſecundum fpeciein funt, non enim de ſubiecto alia quo,fi cnim & de fubiecto aliquo Geometrica funt, ſed no quatenus Geometrica,de fubiecto funt. In præcedenti particu la huius textus dixit de ſcientia quia, quód fenfibilium eft, inquiens,Hic enim, ipſum quia ſenſibilă eft fcire, de fcicntia uero propter quid ,quòd uniuerfalium ejt , per caufas habetur,ait ,propter quid autem mathemde ticorum , hi enim habent caufaruin demor.ſtrationes, ofrequenter neſci unt ipſum quia, ficut illi uniuerſale conſiderantes , fepe quædam ſingula rium neſciunt propter id, quod non intendunt; Ecce quantimathematis cos ficiat philofophus, dicens eos noningnaros illorum, que uulgus tra Etat, fed Socratico more, ea non intendere quæfumuno ſtudio, amplectun tur uulzures, Differentia igitur ipſius ,quiu à propter quid,adhuc magis explicans,ait, funt autě ip / e quidemfcientiæ, quia quecunq;,utuntur ſpe ciebus (fenfibilibusuidelicet, alterã quiddam fecundum fubjtantiam pecu lantes, alterum quiddam non folum fecundum ſubſtantium ,fed etiamaltes xum quiddamn in exiſtentia,hoc eft in ſubiecto materiali exiſtens, Mathem matice enim , nempe quæ propter quid fient, circa fpccies ſunt , dubita . tur hocloco, cum ſcientia quia utatur fpeciebus, o ſciétia propter quid circa ſpeciesſit , quo nam puto , in quia , & quo modo in propter quid fpecies intelligatur. Dico , quod quia ſenſibilium eſt , ut ait Ariſtoteles, utitur, quia ſpeciebusſenſibilibus,quarum beneficio fenfus ſenſata perci piunt , fed propterquid,utiturfpeciebus abftractis àſubiecto materiali, ut ſuperficie , linea, puncto, &ſimilibus, quatenus affectiones aliquas de ipſis inipſis cognoſcit demonſtrator,non tamē circa hæc uerſatur Geo metra quatenus in ſubiecto funt ,ſed preciſius abſtractione , ea conſides rat , fi talia nufquam , ſine fubiecto ſint. Habet autem fead perſpectiuam , ficut hæc ad Geome triam , & alia ad iftam , ut id quod de, iride eft. Traslatio Ar giropoli in hac , precedenti particula facilior ,atque candidior eft, quàmfit textus Philoponi, ne uidear tamen in precedenti particula , e hac preſenti, litteram ſequi, quam pedagogio neoterici non doctores, ut fe præferunt , fæpe encruat ; loannis textum in utraque particula ex pono, quo etiam plura uirtute continentur quam, contineat textus, Are giropoli tum etiam, quia accedit ad hæc Procli interpretatio , ut teftatur loannes, ſcientiasigitur quas in præfenti Ariſtoteles cõmemorat,fub ale POSTERIORVM ARIST. 83 terno quodã ordine pofitæ funt;primo Geometria,cui imediate perſpecti ua,perfpe & iue autē ſpecularia &huic ſpecularie, ea ſcientia, quæ eft de Iride in qua, quæponuntur,perfpecularia probantur&, quæ in peculi ria , per ea quæ in perſpectiua funt notamanifeſtantur , qu : autê in pera fpectiua , per ea quæin Geometrianoșa, fuerunt , ut quòd iris ſit tricos lor,oquòdnunquamplures duabus Iridibus appareant ; et quòd denigs Rõ fit nidor femicirculo , per fcientias ſuperiores, hee omnia probatur. Multæ autein & non fubalternarum , ſcienriarun fe has bent fic , ut medicina ad Geometriam , q eniin uulnera , cir cularia tardius fanentur medici eft fcire quia, propter quid autein Geometræ . Parum ſupra in anteprecedenti particula dixit philofophus ,qu& namfcientiæ effentfere uniuoce inquiens, fere autem uniuocefunt hurumſcientiarī alique,ut aſtrologia ' et mathematicaet na ualis , o harinonica quae mathematica , oque fecundum auditum , in hac autem particuladeterminat de his fcientijs que nullo modouniuoce funt. ut Geometria os medicina que etiam fubalternate non funt, he enim due non ſubalternantur inter ſe, quia ſubiectum Geometrie eſt , id quod circa planum uerfatur , medicine uero ſubiectum eſt corpus jarabi le ,id , eft, quod proponit; ut quod in alterafcientia proponitur,probatur per ea,quæ in alia fciētia nota funt; non tamen hæ fevětiæ funt uniuoce , neque fubalternatæ ,ut in chierurgia ,que pars eft medicina proponitür uulnusrotundum , difficultate fanari, ut canumexcoriatoresteftantur. Geometria autem nobilis fcientia reddi propter quid , primo Elemento * rum deffinitione decimaquinta, quia exomni parte æqualiter diftat cas * o , ficut ibi acentro ipfa circunferentia. ly tie 20 SMS TEXT VS L XVII ALIAS X X X. 170 ot cs, tro autem modo , differt ipſum propter quid ab ipfo quia , quodelt , peralia fciené Stianu nrruinqué, ſpeciilari , Huiuſmodi au Matem funt , quæcunque fic fehabent, utals terum fub altero fit, ut perſpectina ad Geo metriani. vbi ait, per aliam ſcientiam fic intellis gatur per altam magis uniuerfalem et fubalternantem in aliam minus univerfalem . Vtrunquefpeculari, utrunque dixit refferens &propter. quid, quia, alia enim fcientia fpeculatur propter quid, c alia fpecus Ljj 84 IN PRIMVM LIB. 1.3 latur ipſum quia, ut Geometria proprer quid , perfpeétiuauero, quia, inquitenim Ariſtoteles. Hæ enimipſum quia, fenfibiliumest fcire, prom pter quid autem mathematicorum . Verbi gratia,oculus exiſtens in a uidens cd, uidet ipfam quantitatens minorem , quamſi idein oculus fiat in b , quia inquit perfpe&tiuus,uide tur ca ſubmaiori angulo ab oculo exiſtente in b , quam ab eodem oculo in a exiſtente,& quód angulus dbc ſit maior da c, Geometra id demon ſtrat primo Element propoſitione xxi. Dubitatur circa hoc , quod di cebatur de mente Ariſtotelis in dia & o exemplo perſpectiuo , quodne que percurrendum eſt ſicco pede,ut indoctifaciunt no intelligétes bonas artes , quicum ad Mathematica ex empla accedunt,pedem referunt,dia centes non eſſe uim ponëdum in illis . Ego autem econtrario dico , totum neruiim rei, eſſe in exempli intelles ione, ubi ait , quod perſpectiuus oftendit maius uideri id , quod de prope eft , demonftratione quia , o Geometra , idein propter quid , demonſtrat in vigeſimaprima primi Ele mentorum , qua uigefimaprimaprimi Elemen.non propter quid demon ſtratur , fed demonſtratione quia , ut demonftratio quia diſtinguitur , a propter quid primo modo, ficut textu 64. declaratumfuit, quòd illa des monftratio , quæ per mediata a probatas propoſitiones procedit , eft demonftratio quia , diftinguiturab illa ineadem ſcientia, quæ proces dit per immediata principia ,quæ demonftratio propter quid dicitur,mo do ex fexagefimoquarto textu ,determinatur quòd demonftratio uig eſi miprima primi Elementorum eſt , quia , hoc autem exemplo perſpectis uo dicit , quod eft propter quid , contradictio igitur manifeſta uidetur . Dico de mente Ariſtotelis hoc loco,&eft etiam loannis Grammatici ins tentio fuper textu fexagefimoquarto ,dicentis . Quodammodo autem in precedéribus dicebamusquod ipſum quia eſt primomado,permediata mo firare, cum fecundo modo ipſumquia per immediata,ſimiliter w propter quid , unde aduertendum , quod demonftratio , quæfit fuper uigeſimam primam primi Elementorum ,que per uigefimam decimāfextam primi elementorum procedit, fi ad demonſtrationem prime propoſitionis Elc . POSTERIORVM ARIST. es mentorum , quæ per immediataprincipia procedit comparetur demon Atratio quia, merito dicitur, ſi mero comparetur adperſpectiuam demone ftrationein , tunc propter quid dicetur , quia perſpectiuus pier eam pros bat intentum , u ſictricic apparentis argumenti explicite funt ,fc cundum philofophiſcitum . TEX. LXVIII. ALIAS XXXI. IG V R A R v M autem faciens ſcire maxime pri ma eſt , etenim Mathematicæ fcientiarum per hanc demonſtrationes ferunt, ut Arith metica , & Geometria , & perſpectiua, & fes re (ut eſt dicere) quæcunque,quæ ipfius pro pter quid faciunt conſiderationem ,aut enim omnino ,aut licut frequentius , & in plurimisper hanc fi guram (quieſt propter quid fyllogifmus) fit, Textus hic uis detur edirecto contra expoſitionem nouam factam permeſuper iỹ. tex tu de inductione illa Geometrica , que tanquam fictitium quoddam , uanißimum , &nullo Greco & Latinoexpoſitore do&tißimoexcogitatū, inquit enim Ariſtoteles , etenim Mathematicæ ſcientiarum , per banc primam figuram demonſtrationes ferunt , non igitur Mathematic & fea runt demonftrationes per illam Geometricam inductionē , utibifuit des terminatum . Inftantia hæc,eft hominisuaniloqui,qui ea profert& fcri bit ; quæ nonfunt notæ earum , quæin anima paßionumſunt, cum non folumanimamtanquàm abraſam tabellam habeant , fed potius tanquam ficcamcucurbitain , in qua nonniſi uentus reperitur , quia tamen nonfo lummodo fapientuin habenda eft ratio , stultis etians atque infipientibus pariter reſpondendum effearbitror , ne in fua ignorantia glorientur ua ne . In hoc textu Ariſtoteles nil aliud determinat , niſi quod preſtantior est prima, quàm fecunda & tertis figuræ ,&quód Mathematica hac fepe utuntur , &hoc quidem quandofyllogiſtica arguunt, ut ait in tex . dicens , oin plurimis per hancfiguram , que eſt propter quidfyllogif mus fit , modo quid refert , ſi Geometra, utatur fyllogifmo, non nece ibi in tertio textu fuit declaratum , quo modofyllogiſmo utitur Geomes tra , &quomodo inductione Geometrica ?fimodo quis ex hoc textu uca lit inferre , quod illa indu&tio Geometrica non detur , ipfe faciet mendas cem Ariftotelem , dicentem in tertio textu , quòd nedum fyllogifmo fed 70 IN PRIMVM LIB. , oinduétione , ſcitur quòd triangulus in femicir culo conftitutus, habeus tres angulos æquales duobus reitis . TEX . LXXXVII . ALIAS XXXVI. EMONSTRATTO enim eft ex his , quæcun queipſa quidem inſunt, fecundum ſeipſa rebus , ſecundum feipſa uero , dupliciter , quæcunque enim in illis infunt in co quòd quid eft , & in quibus, ipſa in eo quodqınd eft inſunt ipſis , ut in numero, impar, quod ncit quidem numero , eft autem ipfe numerus in ratione ipfius , & iteruụn multitudo ,aut diuiſibile in ratione nua meri , horum autem neutrum contingit infinita eſſe ,nec ut impar numeri, Secundum fe ipſum bipartitur , ut quando prie mum deffinitio de deffinito predicatur. uel etiam quädo deffinitum de def finitione , ut numerus est multitudo ex unitatibus aggreguta , ut Euclia des ait fecundadeffinitione ſeptimi Elementori,et etiam multitudo ex unii tatibus agregata numerus est : impar nuſquà inuenitur in deffinitione nu meriupud Arithmeticū , neq; etiä numerusin deffinitione paris, quid igi tur uelit Arift. hoc exemplo noſatis à Græcis etLatinis explicatum est, puto tamen egoquod ficut in deffinitionibus, quædum fecüdum quod ipfa inueniuntur,pariter etiam id in diuiſione fit , ut fi quippiam , nume rus eſt , id quidem impar uel par statim eſſe dignoſcitur ,oſi quid ims par uel parfit illud tale numerumeffe patet , ſic ut exempluinprimum Ariſtotelis , ſit circa diuiſionem , fecundum exemplum de deffinitios ne , quia tamen addit , aut diuiſibile in rationenumeri, nullibi apud Eus clidem reperitur quod diuſibile in numeri ratione ponatur , quatenus nu merus eſt , fed in deffinitione numeri paris ; recteponitur , ut diuidatur in æqualia, ut primadeffinitione noni Elementorum manifeſtum eſt, par numerus eft , qui in duo æqualia poteſt diuidi , & quicquid in duo equa lia diuiditur , id numerus effe patet , fiueboc de numero , quo numerisa mus , feude numero numerato, hoc intellexeris, ueritatemhabet. Meto dumdiuifiuam , in his exemplis ſeruauit Ariſtot. primo enim in diuiſione ſubinde in deffinitione,et tertio loco infpecie contenta, fub deffinito ufus eft exemplo,Numeriigitur primadiuiſio eſt in imparem atqueparem ; ut Boetius docet capite tertioprimi Arithmetica , definitio estſecunda fe-. POSTERIORVM ARIST. 87 ptimi Elementorum , deffinitio autem paris ; patet ex prima definitione noni Elementorum . Horum autem omnium nullum contingit infinita eſſe, numerus enim in imparem atque parem , impar in primum , compoſia tum , compoſitum in quadratun , o non quadratum , igitur quadratus compoſitus impar numerus eft , onumerus , eſt impar compoſitus qua dratus, feu numerus eft impar prinus , er prinus , impar numerus eft , ſicuti status eſt innumero ,ut tandem ſit ultima particulaque à par te fubieéti ponatur , ſiiniliter ſtatus erit in alijs particulis , que ponun tur à parte predicati, quando ipfe numerus àparte ſubiecti pofitus erit neque igitur inſurlum ,ncque igitur in deorſum infinita pre dicantia contingit eſſe in demonſtratinis fcientís , de quiz bus intentio eft, in furfum ait deffinitionem refpicientes , neque in deorfum diuiſionein feu partitionem animaduertit. d ac 38 در ۴ را mi TEX . LXXXVIII ALIAS XXXVII. for ONSTRATJslautem his , &e . Non te prea terit, quòd habere tres duobus reétis equales conie nito Joſcelio Scalenoni , neutri tamen per alte, rumconuenit ,fed utriqueperhoc , quodfigurarea Eilinea trilatera eft , idfæpe fuit in precedentie bus declaratum exfecunda parte trigeſimeſecunda primi Elementorum .. other VA 16 . TEXTVS.XCI. ALIAS XXXVIII. M ST autem inuin cuin iinmediatun fiat & una propoſitio ſinplex eft immediata & queinadınodum in alís eſt principium fimplex , hocautem non idem ubiqueeſt, fed in graui quidem untia , in melodia ,alle tem diefis , aliud autein in alio , fic eft in fyllogitno unum , propofitio immediata, Secundum antiquos rumfcitum , ut Campanus refert ſuper oriaus xiiij . Elementorum unumquodqueintegrum in xij.partes æquales per rationen og intelle Etum diuiferunt, ipſum totuin fic diuifum in partes illas , aſſem uoc4 = werunt , undecim earum dixerunt deuncem , decem dextantem , nchem IN PRIM V M. LIB : dodrantem , o &to beſſem , feptem ſeptuncem , fex uero partes femiffen , quinque quincuncem , quatuor trientem , tres quadrantem , duas ſexa tantem , unam autem appellauerunt unciam , quam unciam in minorafra gmenta nonfecat philoſophus , quia eft ultimum fragmentum integri à quofuum initium fumit ipfum integrum, tanquàm ab immediato prins cipio ,ex quo,fumiturfimile, quod in fyllogifmo etiam est ipſa immediata propoſitio, ultra quam nonfit refolutio in terminos,ſicut etiam ultra un ciam non fecit conſiderationem in minoresminutias, licet hoc fieripoßit, ficut propoſitio in terminos etiam quandoquidem refolui poterit. In melodia autem dieſis, Non eſt pretereundum filentio id,quod hoc loco Ariſtoteles tangit , id autem eſt, quod qui Logicam ipſiusprofi tetur quiſquis fit ille ,omnibus diſciplinis Mathematicis debetin primis fſe inſtitutus,aliter enim euenietei , ut in adagio dicitur, operam fimul ooleum perdet , quid per dieſim intelligat , notum erit fitonum ſimpli cem , interuallum integrum , nondum ad armoniam pertingens diuidi in duas equus partes eſe impoßibile quis prius perceperit , ut etiam in tex. Lix. prædemonftratum eft , duas tamen in partes inæquales diuidi , quarum altera maior eft , quæ apothomen , ſeu ſemitonium mas ius, reliqua uero eft minor, quæ minusfemitonium nuncupatur , oip fum minus femitonium in duas partes æquales diuiditur , quartum utras que dieſis appellatur à uetuftioribus muſicis , ut Boetio atque Nicomas co primo libro Muſicæ ,capite xxi. placet ,idprincipium toni eft , quid minimum . Practici uero Muſici dieſim uocant inciſionem duarum linearumfuper alias duas ſic *quam incifionem fignant ipfi practici Cantores , ſuper eam notam , ſub quain deſenſus toni, faciunt defen fum ſemitonij , ſed id cantoribus relinquatur , prima dieſis acception Ariſtotelis ſententiam explicat , quia dieſis in illa acceptione , eft minia mum conſideratum à mufico, fiue id , quodminimum eſt in concinentia conſideratum , ſicut uncia in ponderibus oimmediata propofitio in de monſtrutione fyllogiſtica , o boc intelligas de minutijs integri , non de minutiaruin minutijs, de quibus phylolaus apud Boetium libro tera tio capite octauo agit ,quiabec ad Ariſtotelisfententiam non faciunt pretermito. MAGIS tur POSTERIOR VM ARIST. 89 TEXTVS XCII. ALIAS XXXIX. AGIs autein ſeiinus unumquodque , ciim ipfum cognoſcimus ſecundun ipſum, quam fecundum aliud,utmuficun Coriſcum ,quá do Coriſcus muſicus eſt , quàm quod homo muſicus fit, Hoc loco tentat Ariſtoteles elencho ar gumento probarequod particularis demonſtratio ſit uniuerfali potior . Quis nam fit muſicus aperit Nicomacus atque Boes tius primo libro muſices capite xxx111. ille quidem eft, quinon ex eo quod manu cytheram pulfat , fed ille qui rationis imperio cantillenas rum distonice , cromatice,atque enarmonice ratum , atque firmum ſta tum agnoſcit diiudicat, atque imperat, qua re intellectu ,quærit Ariſto teles,num illa demonftratio, qua Coriſcus muſicus, an illa, qua homo mu ſicus co:rcluditur , quod eft , an particularis, uel ipſa uniuerfalis fit pos tior, Cui rationi reſpondendum; ut Ariſtoteles innuit per interemptios nem , negando quodCoriſcusſit muficus per fe , fiue quòd ifta cognofca tur per fe, Coriſcus eft muſicus. BI 74 1 142 ca TEXTVS XCIII. ici ha 10% OTior autem eſt, quæ eſt de eſſe quain de non eſſe, & propter quam non errabi tur quàin proptcr quam crrabitur eſt au tem uniuerſalis huiuſmodi, procedentes enim demonſtrant uniuerſale, quemadmo dum de eo quod eſt proportionale ,ut quo = niam quod utique fit talc,erit proportionale, quod ncque linea; neque numerus, ncque ſolidum , neque planum eft, fed præter hæc aliquid. illud idem totum quod text. xx v di& um fuit, hoc loco repetatur, ubi Ariſtoteles text. xx v dixit hæc uer ba, nunc uniuerſalemonſtratur,hoc textu , magis aperit dicens , proces dentes enim demonſtrant uniuerfale, quod neque lined, &cæt. fed pre ter hæc aliquid , quod quidem eſtipſum quantum , quatenus quátum eft, quod uniuocum eft omnibus quantis , neque illudeſſe tale immagineris, quod oquanto &quali communefit,ut immaginabatur,lo4nnes gram M IN PRIMVM LIB. maticus afequaces, quia illud,analogum eſſet, quod à propoſitoſecludit Ariſtotelesnonagefimo quinto textu reſpondens ad fecundam difficulta tem . TEXTVS XCIIII. S IGIT VR triangulus in plus eft, & ratio eadem , & non fecundum æquiuocationem , conuenit triangulo & Iſoſceli , & ineſt oinni triangulo duobus rectis æquales,non utique triangulus ſecundum quod eſt Iſoſceles , led Iſoſceles ſecundum quod eft triangulus,ha bet huiufmodi angulos. Concludit Ariſtoteles hoc textu uniuers falem demonſtrationem particulari demonſtratione potiorem eſſe , o eft quando per rationem uniuocam concluditur affectio de ipſo uniuerfali, eper eandem uniuocam rationem concluditur eademet affeétio de par . ticulari aliquo, ut habere tres æqualesduobus reétis, probatur infecun da parte x x x 11primi Elementorum de triangulo primo , deinde de iſopleuro , ſoſcele, oScalenone non primo , fed quatenus trianguli ſunt, &hoc idem de illis concluditur perfyllogifmum , uel etiam per ean dem induétionem trigeſimæ ſecñde primiElementorum Eft in hoc textu non minima conſideratione dignum , quod etiam non eft prætereundura immobili calamo, Ratio enimtrianguli uniuoca eſt , quia o nomine for rede uniuerfali triangulo ode particulari Ifofcele prædicatur , utpuu tafigura,quæ tribus reétis lineis clauditur , non tamen per ipfam ratios nem , cõcluditur de Trigono uel iſoſcele habere tres duobus reftis equa les, ſed per primam partem trigeſimæ ſecunda , eper uigeſimā nonam Otertiä decimă primiElementorum , quapropter non uidetur quod exemplumſit ad propoſitum regulæ Ariſtotelis,de ratione uniuoca ,Di cendum , quod naturaexemplieſt, ut non conueniat. Cum re in omni mor do,quia tunc non eſſet exemplü rei, ſed eſſet res ipſa.Dico fecundo quod memoria eſt dignum cum præfertimà nullo fit hucuſque perpéfum ,quod nulla demonftratio mathematica eſt potißima , & ob idmathematicæ nul leſunt ſciētie ſiſtetur in doétrina Aristotelisratio,quia in nulla conclu ditur aliqua affectio deſubie &to per deffinitionem fubie &ti,quod tamen uo lunt uirigraues de mente Scoti, neque etiam per deffinitionem paßionis ut alij determinant de mente Thomæ, Modo dicas,quod quando per cane dem deffinitionem ,fiue uniuocam rationem, demonſtratur affectio aliqua POSTERIORVM ARIST. 91 ineſſeſubie o uniuerſali , &eadem ineſſeparticulari per eandem deffini tionem , quòd de uniuerſali , immediate & per fe,de particulari autem non immediate, neque per ſe, ſed per uniuerſale concluditur, ideo uniuer. falis ipſa particulari demonſtratione potior, atque præftantior est , ut fi per rationale mortale, concludatur de homine riſibilitas , &deinde per id, de Socrate, quod fit riſibilis , illa in qua de homine , quàm illa in qua de Socrate demonftratio, eft potior, ſicuti de triangulo uerbigratia ,in fecunda parte trigeſime ſecunde primi Elementorum , &etiam de 1foſce le, probatur habere tresæquales duobus reftis, illa tamen inductio ,que probat de triangu o potioreſt illa industione, quæ de iſoſcele idem cons cludit, quia primo de triangulo uniuerſali, ſubinde de particulari trian . gulo concluditur , hoc pacto Ariſtotelis regula o exemplum intel ligendafunt. TEXTVS XCVII. fed 72 th po 1 MPLIvs uſque ad hoc quæriinus propter quid, & tunc opinamur ſcire, cum non fit aliquid aliud propter quid fciamus, quàm hoc, aut quòd fiat, aut quòd fit , & cetera uſque ibi, Cum igitur cognoſcamus quidē, quod quiſunt extra æquales funt quatuor ſcétis , quoniam æquitibiarum ,adhuc decft propter quid , quia triangulus , & hoc, quia eft figura rectilinea, ſi aus. tem hoc , non amplius propter quid aliud , tum maxi mc ſcimus & uniuerſale, tunc uniuerſalis itaque eft. Hoc tex tu Ariſtoteles determinatquòd , tunc arbitramurſcire cum ufque ad ul timas cauſas procedit nofter reſolutiuus diſcurſus , ait enim cum igitur cognoſcamus quidem quod, hi , quiſunt extra æquales ſunt quatuor rea &tis , o redit rationem , quoniam equitibiarum , ſed quia æquitibic figu ræ funt etiam quadrilatere, pentágone , adiecit proximiorem cau Jam dicens , quia triangulus, quia tamen trianguli diuerfa funt latera ,ut curua , conuexa, conuexa o curua, curua Qrecta ,conuexa a recta,ut omnia hæc excludat ait, qui eſt figura re{ tilinea, que cauſa magis udhuc proxima eft, quæ quidem ultima& propinqua cauſa, cumfucrit inuens taoaßignuta, non amplius propter quid aliud querimus, pq tunc mas xime fcimus, uniuerſale, o cæt. Quantum autem ad id , quod exem = plo , Ariſtoteles ait , paucis explicetur in fubie&ta figura a bc, cuius 1 1 Mij IN PRIM VM LIB. mnes extrinfecos angulos , quatuor reétis æquales effe dico, protrahan tur enim omnis latera a b, br, ca, uſque add, e, f, eritqüe per tertiã decimam primi elementorum duo anguliad c , pofiti æquales duobusrex & is , eadem ratione duoilli ad a , o reliqui duo ad b ſimiliter equales duobus re& tis, itaque omnes fex intrinfeci uidelicet,o extrinfeci,ſunt æquales ſex reftis , fed per fecundam partem trigefimæ fecunde prie mi Elementorum , tres intrinfecifunt æquales duobus re&tis , igitur tres reliqui extrinſeciſunt quatuor reftis equales,quod demonſtrandū erat. Non enim omnis triangulus uni uerfaliter fumptus , hahet tres an gulos duobus reétis equales , ſed ali quis habet duos angulos rectos , tertium acută , et quidam triangulus eft qui habet tres angulos rectos, ut Ptholameus cap. x. ſecüda dictionis magnæ cõſtructionis theoremate pri G mo, e ſequentibus manifestum faa cit, neque tamen id cötrariatùr pro poſitioni xyli primi elementorum, Euclidis ut quod duo anguli cuiusli bet trianguli fint minores duobus rectis , nec etiam eſt contra fecundam partem xxxl primi Elemen . Euclidis , quòd uidelicet omnis triangulos, habet tres duobus reftis æquales , ratio , quòdnulla inter hos fapientißia mosſit contradictio, eſt, quia de rectilineis Euclides , de fphelaribus ues ro Ptholameus & curuilineis triangulis agit , quod aduertens Ariftotea les adiecit , quia est figura rectilinea ; ut fit abſolutus fenfus, quod equis tibia figura trilatera rectilinea , habet extrinſecos angulos quatuor ree Stis equales. TEXTV S CI. I MPLIV's autein & fic , uniuerſale enim ina . gis demonſtrare eft, co quòd eſtper medium demonſtrare, cuin propius fit principio , pro xime autem immediatum eſt , hoc autem eft principium ;fi igitur quæ ex principio eſt , ea quæ non eft cx principio, quæ magis ex prin POSTERIORVM ARIST. cipio , ea quæ minus eft, certior eft demonſtratio . Hoc textu Ariſtoteles apponit extremammanum determinans,quòd uniuerfalis ſit particulari demonfiratione dignior , in quo quædamnon conſiderata à grecis,neque à latinis. , difta tamen ohic ab Ariſtotele tertio tex tu , ibi, quorundam enim hoc modo diſciplina eſt, onon permedium ube timum cognoſcitur , ut quæcunque iam fingularia eſſe contingit , nec de fubiecto quopiam , ubi aduertit quod quidammodus est, quo fciuntur af fertiones deſingularibus, onon per medium ,modus etiam est quo affea &tiones fciuntur de particularibus per medium , fed non primo de eis , ut declaraui in textů tertio 'nonageſimoquarto huius , affectiones uero que de uniuerſali cognofcuntur, he quidem per medium cognoſcuntur, hac de caufa uniuerfalis demonſtratio , eſt ipſa particulari potior , quia particularis non per medium , uniuerfalis uero per medium demonftrat, ut ait, uniuerſale enim magis demonſtrare est ,eo quod eft per medium de monstrare,id autem Geometrico exemplo-manifeſtat dicens,quod ſi quis cognouit , quia omnis triangulus habettresduobus rectis æqualesfciuit , quodammodo, & quod ifcoſceles duobus reftis tres pares habet,utputa potentiafcit, quia uniuerfale fciens aetu , potentia etiam fcit. ea, quæfub. ipfo continentur, &ſi non cognouerit 1fofcelem quòd actu ,oper aper tionemmanus (ut Philoponus tertio textu ofequaces interpretabane tur) triangulus ſit, hanc habens propoſitionem ,hæcparticula legenda eft , cum particula aduerfatiua fic ,hanc autem habens propoſitionem , nempefciens tantum potentia quod Ifoſceles habet tres duobus rectis pa rés, uniuerſale nullo modo cognouit, ut quòd triãgulushabeat tres equa les duobus rectis , neque potentia , neque actu , non quidem potentia, quia Iſoſceles non eſt uniuerfale ad triangulum ,uniuerſale enim potentia ſua inferiora continet. Accedit ad hoc etiã, quia ſi non fcitur uniuerſale atu , non ſcitur potentia fuum particulare, fi igitur particulare non ſcie tur actu, ſed potentia tantī ,quifieripoteft ,ut propter id ,ſuū uniuerſale potentia fciatur ? non etiam actu fcitur uniuerfalepropterea,quòd fuum particularefcitur potentia, quia ex ſcibile potētia , non inferturſcitum actu. Exhoc textuę precedentibus quibus determinat Ariſtot.uniuerſa lem demonftrationem esſe potiorem demonftratione particulari habetur de particularibus difciplinam eſſe , particularem eſſe demonſtratioa nem quæcunquefit illa ,aliter enim nulla effet comparatio Ariſtotelis in ter uniuerfalem o particularem demonſtrationem . Preterea etiam nos tatu dignum habetur , contra omnes interpretes , id autem eft, quod ali 94 IN PRIMVM LIB . quatenus ij. textu ta&tum fuit, ubi determinat quod de nouo quippians ſcimus, introducit eos , qui tenentes quòd de nouo fciebamus interrogae bant Platonicos tentantes oſtendere ipſis Platonicis , quod de nouo ſci mus inquiunt enim , noftis ne quod omnis dualitas par ſit ,nec ne ? Vel etiam , quòd omnis triangulus tres duobus re & tis æquales habeat, annuen tibus autem Platonicis attulerunt dualitatem , uel triangulum manu aba fconfum dicentes , ecce quomodo uos de nouoſcitis , hanc dualitatem eſſe parem , quia priusneſciebatis hanc eſſe dualitatem Neotericies antiqui expoſitores inuoluunt locum , ſic ut nedum ipſi intelligant , fed eshi qui cos audiunt ita faſcinentur , ut nedum Ariſtotelem fed & feipfos pers dant. Dicunt enim ſine propoſito , quod prius non poterantfcirede dua litate in manu abfconſa, ueltriangulo conſtituto in tabula quod eſſet par, uel duobus rectis æquales haberet , quia neſciebant illam eſſe dualitatem , vel illum effe triangulum , putant iſti exponere Ariftotelis"doctrinam fic dicentes , anon aduertunt , quòd id dicunt quod Ariſtoteles reprehens, dit , quod illi qui dicebant de nouo fcire , male tamen perſuadentes per oſtenſionem ad fenfum , egr reſpondentes perperam , dicebant fe nonſcia re eſſe purem , niſi quam dualitatem eſſe ſciebant,apertißimehic Aristo. teles dicit , quòd qui ſcit omnem dualitatem eſſe parem , uel quòd omnis triangulus tres duobus re &tis pares habet , fcit quòd dualitas ſitpar , quod Ifofceles , tres duobus reftis æquales habet potentia , licet neſciat a &tu perſenfum , quòd iſoſceles triangulus ſit, quem locum à me notae tum inter cetera pulcriora exiftimo animaduerſione dignum propter fal fos Ariſtotelis interpretes ad hanc ufque noftram etatem . • TEXTVS CVII. ALIAS XLII . T ca certior quæ non eſt de ſubiecto , ca quæ eſt de ſubiecto , ut Arithmetica armo nica . Numerus , ſubiectum eſt in ipfa Arithmetica qui quidem abſtractißimus est , nullum materiale ſubie &tum concernens , Armonica , uero de nume ro ſonoro , uel magis , de ſono numerato , quod magis concernitmateriain , ut fonum ipſum ., qui fonus numeratus, ſub iectum in armonia eft , ut Boetio placet libro primo muſices , modo Arithmetica cum circa ſubiectum minus immerfum matericfit , certior POSTERIORVM AR IS T. 95 estquamſit ipſa Armonia , quæfubie£tum conſiderat magis immerſum ipſimateria , eftigitur alia certioraltera propterſubiecti maioremabe ſtractionem ? TEXTVS CVIII. T quæ eft ex minoribus certior eſt , & prior ea , quæ eft ex appofitione , utArithmetica Geometria . Dico autem ex appoſitione ,ut unitas fubftantia eft fine poſitione , pun . tum autein fubftantia pofita ,hoc autem eft ex appoſitione. Hoc in primis conſiderandum eft, quod hoc textu non loquitur Ariſtoteles de ſubie&to fcientiæ.,ſecundum quòd magis og minus abſtracteconſideratur, quia id in precedenti tex . determinauit ; una enimſcientia determinat de abſtracto numero , reli qua uero defono numerato, unitas enim de qua hoc textu loquitur, non est ſubiectum in Arithmetica, niſiforfan in aliqua particularidemonftra tione , utin 15 ſeptimi ElementorumEuclidis ,in quibuſdam alijs des monſtrationibus trium librorum Arithmeticæ Euclidis . Dico autem ,ut unitas , ſubſtantia eſt, fine appoſitione, punetum autemfubftantia poſia ta , hoc est ex appoſitione,Nicomacus ,Boetius, Tonſtallus Anglus,Lu cas Paciolus , in primis lordanus , o Euclides recte interpretarentur huncAriſtotelis textum ſiadeſſent , quem locum obſcurant rabini cum * ueſtra excellétia ex appoſitione nominati,heu me, in manusquorü inter pretum incidifti Ariſtoteles ? quæ hominum dementia te torquet : erant ne ſimile hominum genus tuo tempore , ita inſipidi atque macrologia op preßi, qui Platonem , quique te audirent , expoliati Geometricis, &dis fciplinis orbati?ut funthoc tempore nedum iuuenes non recte imbuti lite teris , fed magis ſeneſcentes in fua , non tua philoſophia homines , exurs gant Romani uiri , liberalibus diſciplinis præditi, quorum bonarum are tium hereditas , negligentia pofteritatis , uerfa eft ad extruneas nationes o inter Barbaros fruftratim etiam dilaniatur , eo locum hunc inter pretentur. Non eget unitas ipſa;ut ſit in ſua natura,quod fit puncto affe & a , uellined , uelalio quoppiam alieno , fed punctus , uel linea', ſeufuæ perficies , uel etiam corpus ,impoſsibile eft, quod ſit,quin pun &tus unus, uel una ſuperficies , aut corpusunum , uel plurafint : Plura autem pun & a , eſſe non poffunt , niſi prius punctum unum ,uel unafuperficies,aut corpus unumfit, minus igitur eft unitas , quim punétum unum , utetiam 96 IN PRIMVM LIB. ipfa uocemanifeſtum eſt.Vnitatem Arithmetica conſiderat : non ut fuum fubie &tum , fed ut id , quod adſuum ſubie tum quodam ordine attribuia tur tanquàm pars ad ſuum totum . Vnum pun &tum , feu lineam unam , uel etiam unum corpus Geometra, atque stereometraconſiderans appos nit lineam ,pun & um &corpus ipſum unitati, uel illis unitatem appos nens , ex pluribusfacit fuam conſiderationem ,quàm fit illi Arithmetici, qui unitatem conſiderat abſtractiſsime , nulli reiappoſitam . Ex hac declaratione patet id quod Ariſtoteles ait primo de anima in principio, quòd fcientia de anima nobiliſsima , eſt , duabus de cauſis prima ex nobi litate ſubie &ti , ſecunda ex certitudine , ex certitudine dico , non ut quis dam inueterati in philofophia craſſa exponunt , uidelicet ex demonſtra tionis certitudine,ſedcertior dico , quia exſubiecto ſimpliciori eft, que anima eſt, atque minus compoſito , quàmſint ſubiecta librorum ,librum de anima precedentium , ex precedentis textus , atque huius expoſis tione id totum colligas uelim , ex precedenti, ſi de anima , ex præfens ti autem ſi de anime particula , loca libri de anima intelligantur . Claret etiam , ex hac noftra interpretatione,quod Mathematicæ diſcipline non ideo dicendæfunt non ſcientia , quia non funt circafubftantias , ut ans tiquusætate indostus quidam in hac parte , philoſophus non erubes fcitaſſerere', ofequaces ,quia illas inquit merito dicendasſcientias los quitur , quæ tantum circa fubftantiasfunt ; non autem que circa accia dentia , ut funt Mathematicæ , quod apud Ariſtotelem nunquam legitur Dico quòd Mathematice uere e in primis ſcientie , ſecundum nos & re ipfa funt , ex fententia doétifsimi Boetij in principiofue Arithmeticæ ,ubi ait , ſcientiæ atque ſapientia uerehe funt , quæſunt circa res , quæ nunquàm mutantur , fed fua natura femper funt,utſunt fubftantia ,a quantitates ; quo nammaiore auctore hec noſtra ſentens tia corroboratur , quàm ſitipſemet Ariſtot. in hoc præexpoſito textu ! qui in fua doctrina conftans , punctum ſubſtantiam appellit, itidem unitatem ſubſtantiam dicit , ſi igitur fole ille ſint ſcientiæ , quæ circa fubftantiasfunt , in primis Arithmetica atque Geometria merito ( quics quid balbitiant alij) ſcientiæ appellande nedum nomine, fed natura digna funt. Quia tamen de mente Ariſtotelis teneo Mathematicas diſciplinas, non eſſe ſcientias , non ob id , quia de accidentibus ſint,neque ex eoquod percominunia principia procedunt, ſed quia affectiones que in ipſis con cluduntur , non perdemonſtrationem , quemfyllogifmum ſcientialem Ariſtoteles uocat, concluduntur ut declaratum fuit textu nonageſia men , mo POSTERIORVM ARIST. moquarto ,merito ſcientia non funt , ſiſcrupulofa indagine ſcientiæ not men indagari, quis uelit . TEX. CXII . ALIAS XLIII . 3 EYE per fenfum eft ſcire id , Exemplis duobus. Altero Geometrico reliquo, Vero Aſtro Nnomico , declarat Ariſtoteles , ſi enim ſenſus uifus uideret id , quod intellefius percipit fecunda par te trigeſimæſecundeprimi Elementorum ,quód trian gulus. uidelicet , habet tres duobus rellis pares, non tamen propterea uidens illud diceretur fciens, fed ut fciensfieret ad huc demonſtrationem quereret ,o huius rationem reddit dicens, necef= feenimquidem eſt ſentireſingulariter , ſcientia autem eſt in cognoſcen= douniuerfale , unde eſi ſupra Lunam eſſentus, utputa inſupremo orbe defferente augem Lune , uel in orbe defférente caput draconis,uel etiam in cælo Mercurij, uideremus Lunam ingredi umbram terra, e par timenftruum non propter hoc diceremur fcientes, quia illud , quod uiá deretur ,effet ſingulare , &cum ſcientia ſit circa uniuerſale diſcurrene do, o per intellectionem ipſius uniuerfalis , ſequitur , quod per ſenſum non eft fcire . Aliter etiam exponaturſic , ut ſi eſſemusſuper planetum , qua Luna est , &in illa parte planete que terram , & centrum uniuerſi confpicit, &foc'es noſtra uerſus idem centrum mundi,quod.eſtterre cen trum ſentiremusquidem per ſenſum uifus, quòd deficeret Lund tunc, fed non propter quidomnino,quiaſenſus non plures percipit ecclipſes ſimul neque actu ,neque potentia ,fed unam tantum ,necobid tumen ſcientes dice remur , non enim uniuerfalis est ſenfus, fed particularis ut ait , ex conſi deratione multotiesaccidente univerſale uenantes demonſtrationem ha bemus , non ſecludit hoc loco Ariſtoteles ſcientiam de purticularibus, ut Tex. iij. fuit determinatum , fed ita intelligas , quod ſenſus eft tantum particularium , intellectus autem utriuſque , Sunt tamen quædam reducta ad fenfus defeétum in propofitis & c . · In hac particula huius textus , idem perſuadet diuerſo exemplo, quòd . videlicet neque per ſenſum eſt ſcire , in prima huius textus particulas Exemplum attulit in phænomena eGeometria , in hac autem particula exemplum est in perſpectiua , eft etiam quoddam aliud diuerfum , quia precedensexemplumeft,de unica wſingulari eclypſi. In hac auten pars N IN PRIM VM LIB. ticula exemplum præbet de multis illuminationibus faétis per uitra pera forata , ſiue foraminailla ſint pori uitrorum , feu etiam foramina ſint ma gna,artificio quodam facta, que fenfusuifus in multis uitris confpiciens, compertum haberet , &manifeſtum eſſet , & propter quid illuminat , id eft,propter ,quid illuminationes multæ fierent,quoniam , ut inquit,uis deremus quid ſeparatum in unoquoque uitro , id est foramina multa , per qua radijtranſeuntes illuminationes multe fierent in pariete e re gione collocato , uel in pauimento domus,quapropterſi plures eclypſes ſimul perciperet fenfus uifus,quodtamenfierinequit, &uideret etiam hoc euenire ex obiectu terræ inter Solem of Lunam , illud de Luna ex emplum nullo modo diuerfum eſſet ab iſto de uitris perforatis , niſi quod alterum in Phænomena , reliquum eſſet in perſpectiua ; Ne.credas tam men propter multas irradiationes a uiſu ſimulperſpectas, Q uiſis etiam fingulis foraminibusſimul , uel poris in uitris per quos radiationes fica rent, quòd quis ob id diceretur fciens,ſed ex his fingularibusfenfu pera ceptis unum uniuerfale intellectus intelligens,deeo.fcientiam generaret qua poftea merito quis diceretur fciens , illud autem uniuerfale non cola ligebatur, ab intellectu ex unica tantum eclypſi uiſa , fed ex pluribus die uerſis temporibusobſeruatis,Ex hoc loco habetur quod non est ſatisad demonſtrationem habere propter quid., niſi propter quid habeatur, per difcurfum (fenſus autem non difcurit ) ab uniuerſalibus ad minus uniuer ſalia , ſenſusenim percipiebat quod multæ illuminationes propter multa foramina fiebant , nulla tamen erat ibu demonſtratio. TEXTVS CXIIII. IRCA Textus particulam illam , Aut æquale maius , autminus, Scire eſt , quod primi Elea mentorum eſt conceptio animi apudEuclidem , ut fi una quantitas comparetur ad aliam eiufdem genes ris , aut erit ei æqualis , aut eadem maior , uel e46 dem minor , ut quatuor , ad quatuor , uel ad tria , aut ad quinque,ſi comparentur, fieri nequit , quod eadem quantitas qus tuor,ad quantitatem unam di &tarum comparata , fit æqualis, a maior minoreadem,statim enim fequitur contradictio,fedfi ad diuerfas quan titates comparetur , verumquidein poteft effe, quòd unaſit maior emi nor & equalis,ſi non ad unicam tantum , fedfi ad plures fit comparata, POSTERIORVM ARIST . 99 P TEX. CX V. ARTIC VI. A huius Textu , Neque omnium . uerorum principia funt eadem , neque con ueniunt,ut unitates punétis non conueniūt , læ quidem enim non habent poſitionein ,illa autem habent, Deappoſitione in punétis , eo pacto intelligas , ut tex.108 declaraui. Exemplo enim loqui tur de principijs ,non quidem ex quibus inferatur conclufio , fed ex qui dus compoſitumfit , quia ex unitatibus pluribus ſimul coaceruatis com ponitur numerus , ex pluribusautem punctis non componitur quippiam ut terminaui tex. xix .huius, ſimpliciores ob idfunt ipſe unitates , que funt numerorum principia, quamfint puncta,que lineas terminant, uni tas enim ,uel etiam unitates non ſupponunt punétum ,uel punéta,punétus 'tamen uel puncta eſſe non poſſunt , quin uel punctum unum,uel plura pun & ta fint ,non igiturconueniunt inter fe propter appoſitionem unitatis pñ to appoſite , wepropter non appoſitionem , puncti ipſi unitati , unitas enim non ideo unitus est, propter unum punétū,ſicutpunctum unum eſt, propter unitatis appofitionem , ®ultra ait , quòd diuerſafuntgenere, ille enim in diſcreta , hecuero in continua conſiderantur quantitate: TEX. CXX. ALIAS XLIIII . VONIA'M autem idein multipliciter dicitur eft autem , ut non commenfurabilein enim eſſe diametrum uere opinari inconueniens eſt , ſed quia diameter (circa quam ſunt opi. niones) idem , fic eiufdem eſt , ſed quod quid erat eſſe unicuique,ſecundum rationem non eſt idem , Circa eandemdiametrum ſcientia poteſt eſſe, opinio per media tamen diuerſa , falfam quidem opinionem habet ille qui diametrum commenſurabilem coſte eſſe ſentiet, ueram autem obtinebit ille qui Eucli dis demonftrationibus inftrúctus diametrum inconmenſurabilem coſte efje protulerit in qua re tex : 1x. huius determinatum & demonſtratum fuit, quod ipſe diameter incommenſurabilis eſt ipſi coſte,aliter enin , par numerus , impar effet , Circa idem igitur contingit diuerſitas , feu idem multipliciter dicitur , ut quòd diameter ſit commenfurabilis &inz commenfurabilis cofta . Nij IN SECVNDVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PRESBITER PETRVS CATHENA : V ENETV S. ** 3 TEX T VS II ALIAS I. TEATRI V M enim utrum hoc infit , aut hoc , quærimus in nume rumponentes,ut utrum deffi ciat Sol, uel non , ipſuin quia quærimus. Luna enim defficit in ſe a lumine , a patitur menſtruum , propter interpoſitam terram diame traliter inter Solem u Lunam , Sol autem non defficit lumine unquam in ſe, fed tantum non illuminat, quana do in capite uel cauda draconis res peritur fimul cum Luna hoc quidem prouenit , ex eo quod inter afpes Eum noſtrum o corpus folare interponitur Lund , quæ cum ſit core pus denfum , coppacum magis quàm alia pars fui orbis impedit fo lares radios , enon finit eos ad afpe&tum nostrum protellari . Dubita tur circa id quod fuit di&tum paruin ante,o quód fæpißimeait Ariſtote les, præfertim in ſequentibus,ufque ad textum nonum an Luna defficiat penitus lumine , quando patitur menftruum , quod eſt querere,an Luna habeat aliquod lumen àfe, uelſi non àfe, an conſeruet lumen in ſe imbis bitum tamen à Sole, utfomniat Aueroes , propterea quod , quandotota eclypfatur uidetur non nihilhabere luminis , apparere fubnigra, etiam apparet uideri eius rotunditas extra plenilunium , ad quod reſõſio abſolutißimafit,quod Luna nullum habet lumen,niſi à Sole ſecundoquod non imbibit lumen, quemadmodum ſpongia liquorem aquæum, cauſaaus të apparitionis luminis tempore eclypſis, uelfuæ rotunditatis antequam POSTERIOR V MARIS T. 102 fit in oppoſitione Solis eft, quă ſtatim declarabo quibuſdam paucis pres intellectis , cum ipſa ſint corpus denfum &politum quemadmodum cæte ra fydera , radijſolaresquifortes ſunt, cuin ad ipfam pertingunt non talentes ultra penetrare propter denſitatem ad terram reuerberantur, Tempore autem eclypſis, radij ſolares impediti a terre occurſu nõ attın gunt lunam, ſed tunc radij aliorum fyderum , qui debiliores ſuntſolaribus radijs, pertingunt corpus lunare , &fua tenui uirtute Lunam illuftrat, ob id Luna uidetur habere nõ nihil luminis tempore ſuæ eclypſis, et pro pter hanc eandem caufam dicatur quod eius rotunditas apparet citra ple nilunium . TEXT VS I x . + 1 1 + VID conſonantia, ratio numerorü ,in acu to & graui, & propter quid conſonat acue tum graui, propter id, quòd rationem has bent numerorum graue & acutum , utrum eſt conſonare acutum & graue , utrum ſit in numeris ratio corum ,accipientes autem quia eſt, quid igitur eſt ratio querimus. inter ea quæ elucidan da funt in hoc textu , idin primis occurrit , notatu dignum ; graue enim Cum motum fuerit , citius ad quietem redit quam leue æquali pulſumo tüm , Aliud etiam eft animaduerſione dignum hic notandum quòd neruus cumpellitur ininftrumentis non unumfolummodo ſonum efficere ſedmul tos , quiquidem multi à feinuicem distinti non percipiuntur , ut diſtins Eti, propter celeritatein unius poſt alium , Exemplum præberem de Tur bone,uiride, aut rubra linea lineato,qui propter celerem motumtotus ui deretur uiridis, aut rubcus , ſunt igiturmulti foni à grsui corda effceti ad quos, fi foni illi , qui leuiori neruo procreatifunt ,comparentur has beanto ad illos ratione, ut quatuor ad tria ,tūc diateſſaron cõfonantiaria minimam efficient, fi ueroeam quæ eſt nouem adſex diapente, odiapaf fon fi illam efficient , quæ quatuor ad duo , que concinentie , cum ſint ſimplices; exipſis aliæ que compoſitæ funt generantur,tanquam ex ſuis proximis elementis, ut eft diapentediapaffon ,o biſdiapaſſon, quæ ome nia ex Boetio clara habentur , o ſibi do toresqui Calepino student, in declaratione Ariſtotelis hec gratis prætereant , Alia exempla à tertio textu uſque ad undecimum ,que Ariſtoteles præbetfua Palade in mathea 1 1 02 IN SECVNDVM Ľ IB maticis, quæ quiaaliàs in præcedétibus dilucidata per mefuerunt,nunc conſulto pretereo, fed quæ di&ta funtfuper hoc textu non plane ſatisfae ciunt nostre menti,ubi enim nonfuerintplures pulfus ad pa uciores com parati, ut in humand uoce , căcinentia quidem reperitur inter re , ala licet nõ niſi ſingula,&fingula uox emittatur,non igitur interfonos paus ciores tantum, eu plures concinentia , ſed primo inter graue ego acutum reperitur , quæ autein uocum diftantia inter ſe reperiatur , ut debita ; fiat concinentia, tum ex hominum ufu ab inſtrumentis accepto , cumetiä per ea que Boetius tractat manifeſtum est , ſed'in dubium occurrit illud, quod muſicifaciunt , quando fuper breuem ſillabam , plus temporis cona ſummunt, quim par ſit, eſuperfillabam longam, breui temporis notu la festinant, ita ut ea ,quæ naturaſunt breues, fiant longe , &quæ longe ſuntſillabæ ,breuesfiant, ſic ut'nonmodesta &doctaſit ipfa muſica , fed Barbara o contra ufum loquendi appareat , Ad quod dico , ſequen tia dubia quæ funt,an concinentia proueniat ex mouente , ut Aristoteles in libris degeneratione animalium , uel ex motis rebus , ut in rethoricis, an exnumeratis pulſibus, ut hoc textů tangit , quòd in nostris fragmens tis logicis hæc omnia clarafient, fed pro declaratione littera , huius tex tus ,uideturexpoſitio feciſſe fatis. TEXTVS XIX. ¿ ALIAS II: MPLIvs omnis demonſtratio aliquid de aliquo demonſtrat , ut quia eſt, aut non eft , in deffinitione autem nihil alterum de altero prædicatur , ut neque animal de bis pede,neque hoc de animali,neque de plano figura , non eniin planum figura eſt, neque figura planum eft . Euclides póst quam deffinitionem plani dederit in primoElementoruin deffinitione quinta , ſtatim de angulis planis , e de fiquris planis adiecit deffinitiones, que figure ideo planæ dicuntur, quia in plano picte ſunt,feu quia in ſuperficie plana ſunt deſcripte , fi gura plana, hefunt due particulæ deffinitionis , quarum altera deals tera non predicatur, quia id quod planum , & id que in plano figura fit, 11on idem eft, demonſtratio uero cõcludit, quia eft hoc de hoc, ut de trian gulo, quod tres duobus rectis equales habeat, et q latus trigoni , quod fubtendien maiori angulo, nõ eft minies lateri fubtenſo minori angulo. POSTERIORVM ARIST. 107 TEXTVS XLIX ALIAS X I. V ANIFEST VM eft autem & fic , propter quid rectus eſt, qui in ſemicirculo eft, quo exiftente rectus eft ,fit igitur rectus in quo a , inediun duorum rectorü in quob, qui eft in feinicirculo in quo c, eius igitur , quod eſt a rectum inelle c, qui eſtin ſemi circulo caufa eft b, hic quidem ipfi a æqualis eft, c autem ipſi b, duorum enim rectorum dimidium eft b, igitur exia ſtente dimidio diiorum rectorum a, ineſt ipſi c, hoc autem erat in ſemicirculo rectum eſſe . Euclides xxx tertij uniuerſa lius proponit id, quod Ariſt. hoc loco ait magis contracte , ut ſecundum Ariſtotelem conſtruatur fic , ſit ſemicirculus a b d cuiuscentrum c, quo perpendicularis excitetur per undecimā primi Elementorum cd , ſecans arcum a b in puncto d, à quo, duæ lineæ protrahantur ad ter minos diametri dia,db, ſequiturper quintam primi angului a dc, bdc effe medietates reéti,quæ ſimulmedietates additæ faciunt angų lum a d bre&tum ,ficut duæ unitates bi narium numerum , quia tamē non uide tur quòd philofophus particulariter proponat id , quod uniuerfaliter Eucli des docet, ut uidelicet quod perpendi çularis à puncto c excitetur, &quòd folus angulus,qui fit in puncto de deter minato , ubi perpendicularis ſecat ar cum , re & tus ſit, licet illa due medietates formaliter ſint unius re &ti, fina gulađ; dimidium refti, quæ pro materia recti accipiuntur, ficut due uni tates materia numeri binarij, Ideo aliter declaro & litteræ philoſoa phi magis cohærebit non in figura præfcripta ,ſit angulus rectus a datus, b autemfit medietas duorum rectorum , c uero in ſemicirculo conſtitus tus, ſit æqualis b , quæ uero uni veidēfunt æqualia inter ſe funt æquae lia , cum autem a ſit æqualis b, quia uterqueeſt medietas duorum res. & orum , or ſimiliter c qui in ſemicirculo eſt ſit eidem b æqualis, c ipfi a equalis erit, a quippe rectus eſt ex dato igitur c, in ſemicircula conſtitutus rectus eſt , quod propoſuit Ariſtoteles , quis ſit angulus rer 104 IN SECVNDVM L I B. Aus patet per deffinitionem octauam primi Elementorum , quod autem b in quocunque puncto peripherie femicirculi fit medietas duorum rectos rum , patet per trigeſimam tertij Elementorum , quodetiam omnis alius angulus in quocunque puncto arcus ſemicirculi fit æqualis 6 , utputa 0 , patet per uigeſimam tertij Elementorum , qubi in priori expoſitione di cebatur ,quòd duæ medietates erant materia totius relti anguli, hic dica's tur,quòd illiduo partiales anguli b , ſunt materia torius anguli recti, fic ut demonftretur , quod angulus , qui in ſemicirculo conſtitutus , eſt re ctus , per materialem caufam , quæ materialis caufa , ſunt iple partes recti anguli ipſum integrantes . TEX TVS LIII. ONTINGIT autem idein & gratia alicuius eſſe , & ex neceſsitate , ut propter quid pe netrat laternam lumen , etenim ex neceſsitas te pertranſit , quod in parua eft partibilius, per maiores poros fiquidein lumen fit per tranſeundo , Minutiſsimæenimſunt; aut potius fub tiliſsime ſpecies uiſibiles ignis ,quæ propter ſubtilitatem ſuam per poros uiri in quofranguntur exeuntes clarum iter oſtendunt, ne adlapidem pe: des offendamius , exemplum eſt in optica,inaterialis caufa eft uitrum , fi nalis,neolfendamus ; fornalis eft illa compago uitrorum ,lignorumq;, effi ciens autem ,eſt ipſe luterne artifex ,quantum ad matheſimſpectat non eft niſi materialis cauſa in conſideratione, o radios fractos ipfius ignis in corpus disphinum , per quos illuminationes fiunt . TEXTVS LVI. ALIAS XII . CLIPSIS Lunæ futura , preſens , atque prete rita ,medio interpofitionis terre , diametraliter in ter Solem & Lunam ,nunc , olum , & in futurum con cluditur , cumfuerit Luna in capite uel cauda dras conis uelprope , o ſub'nadir Solis . SICVT POSTERIORVM ARIST. 105 TEX.LVII. ALIAS XIIII. IGVt ergo non funt puncta , adinuicem co pulata , ticque, quæ facta ſunt, utraque enim indiuifibilia funt. Puncta enim fiadinuicem copula rentur , statim haberetur , lineam ex pun &tis componi quod impoßibile effe demonftratum eft in primo , textu Wdecimo octauo . TEXTVS LX. ALIAS X VII. I co autein in plus ineſſe quæcúque, infunt quidem unicuique uniuerfaliter ,Atuero & alij ,ut eft aliquid quod oinni Trinitati , in eft fed & non Trinitati , ficut ens ineft Trini tati, ſed & non numero, numerum quemlibet ex materia oforma conſtare nemo eft qui neſciat , aliter cnim numerorumſpecies noneſſent numerofinitæ , potentia ueroinfis nite per unitatis additionem , fpecies autemexgenere odifferentia con ftat, genus uero materia differentia autemforma eft in numero , materia numeriſunt ipfæ unitates, ut in ternario numero, tres unitates materia eft numeri ternarij,formaautem eft ipfa Trinitas, ens inquit ineſt Trinita ti népe ternario numero,o hoc prædicatū , ens, extra genus arithmetică eft, quod quidem ens , alijs multo diuerſis genere à numeroconuenit. Impar uero & ineft omni Trinitati& in plus eſt . Etenin ipſi quinario ineft , fed non extragenus , ens quidem alijs ab arithmetico genere conuenit, imparuero nullis alijs niſi his, quæ infra arithmeticum genus continentur cõuenire poteſt,utquinariofeptinario &alijs multis. Huiufmodiigitur accipienda funt uſque ad hoc quouſ: que, tot accipiantur primum , quorum unumquodque qui dem in plus ſit, omnia autem non in plus. inquit quouſque tot dccipiantur primum , uerbum hoc, primum intelligatur ex æquo, feu ad equate , ut tot uenetur quis particulas deffinientes,quòd non fint ſuper abundantes, neque diminuteparticule, ſed ad idtendat, ad quod ille,qui tetragonicum latus alicuius figuræ quærit, utin libris de anima iubet phi bofophus. Duo præterea funt hic notanda precepta ,ut unumquodquefit LO 6 IN SECVNDVM LIB . cum non in plus , nempeunaqueque particula deffinitionis uniuerſalior ſitdeffini to, ut animal,rationale,mortale ,capaxbeatitudine, que omnes particu ie, in hominis deffinitione ſuntpofitæ, cunaqueque uniuerſalior eft ip sohomine, omnesautem fimul fumpte,nihilaliudnifihomo funt,Dubie tatur , an illa , quae in Elementorum Euclidis libris deffinitiones poſite funt, utunapromultis fimilibus excogitetur hæc,triãgulusredilineus, eft figura, plana ,claufa,tribuslineis re&tis,fit conftituta ex omnibus par ticulis deffinientibus,quarū una ,et altera,atqueſingulaſit uniuerſalior, ipſo triangulo rectilineo ? Dicendum confequenteradAriftotelem pro pter particulam illam , tribus lineis reftis , illam non eſſe deffinitionem , fit uniuerſalior ipſo triangulo rectilineo , quapropter ſunt ma gis dignitates appellande, quàm deffinitiones ,nifidixeris, quodAriſtote les intelligit de his particulis definientibus , quæ recto cafu, & non oblis quo explicantur, & fic proprie dicerentur deffinitiones, que interpreta tio qualiſcunque fit,non habetur ex Ariſtotelis littert, neque tamen ual de difplicet. Hanc enim neceſſe eſt fubftantiam rei eſſe, ut trinitati in cft oinni,numerus,impar, primusutroque modo, & ficut non menfurari numcro, & licut non componi ex numeris, hæ duæ particulæ ,numerus,impar,nõ patiuntur, difficultaté ,quinipſo. ternario uniuerſaliores ſint , ſed particula iſta primus utroq; modo,decla ratur ab ipfo Arift. quod fit uniuerſalior ternario numero ,propter altes rī modorū, quonumerus primus dicatur eſſe ut unitatefola metiri poßit, multis conuenit numeris, ut quinario, ſeptenario ,atque ternario , et alijs multis non cõponi ex numeris pariter multis cõuenit, ut ternario , qui ex binario ounitate conſtat, ſimiliter binario ,qui conſtat non ex pluribus numeris ,fed ex binis unitatibus, Ex hoc locohabeturnefcio quid contras Etius,quàm Euclides proponat,in feptimo Elementorü deffinitione x 15, XIII, quibus ait, quod primus numerus eſt, qui fola unitatemetie tur, Compoſitus autem eſt, qui dimetitur alio à fe ego ab unitate numero, quo loco uidetur quòdaliud fit dimetiri numero ; &aliud numeris dia uerſis componi , ut ſeptenarius , nullo alio número ab unitate dimetina tur eſi componatur ex diuerfis numeris,ut ex binario o quinario ,c . ex ternario &quaternario , primo enim modo aliquis poterit effe pris inus , qui compoſitus erit fecundo modo ut-XI, 0 X111, atque alij, quos vagu VI, VITI V Componunt nullus tamen eorum dimetia tur eorum alterum , var vi nullo modo dimetitur XI, VIII pariter POSTERIO RVM ARIST. 109 to v nullo modo dimetiuntur x1, cum neuter fit alicuius maioris pars, ut ex prima deffinitione quinti , &tertia deffinitione feptimiEle.. mentorum Euclidis manifeſtum eſt ,hoc igitur loco dico , quod Ariſtotea les non loquitur fecundum Euclidis ſcitum ,fed famoſe , ut philofophoa rum quorundam aliqui, Vbifecundum Ariftotelem tam partes aggregae tiua, que c irrationales , e integrantes dicuntur , quàm partes ali quote ,qua rationales, odimetientes, dicuntur numerum compone re, ſed ſecundum Euclidis fcitum , non niſi partes proprie fumpte , que aliquotæfunt, numerum componunt ; quod etiam Nicomachus & Boce . tius in arithmeticis aſſentiuntur, niſi dixeris quod etiam fecüdum Euclia dem ,non omnem numerum ,qui alium componit compoſitum dimetiri, fed ubi hoc Euclides fomniet non uidi. TEXTVS LXXVIII ALIAS XXV. ARTICVLA difficultatis ſe offert in hoc textu, quam Grecio Latini pretereunt , Aueroes tamen magna comentatione tangit nefcioquid , fed fcopum rei non tetigit iudicio eorü qui Ariſt.et Euclidis inſe quuntur,ueſtigis , Textus Ioannis grāmatici etArgi lopili obfcurăt aliquo modo primo intuitu pulchram Ariſtot.doctrinam , quam aperit textus Aucrois, ſiue Abramum , ſeu Bu, rinam inſpexeris, ipfius Aucrois interpretes , qua Ariſtotelis doctrina ex Aueroico textu bahita, illam poſtea ex loanne grammatico , Argi ropilo uidebis neceſſario effluere , loannis textus ita habetur , fi uero ficut in genere , finiliter fe habebit ,ut propter quid con mutabiliter, Analogum eſt. Alia enim eit cauſa in lineis, & in numeris, & eadem , inquantum quidem lineæ , alia eft ,in quantuin nero habens augınentun tale , eadem eſt, fic in omnibus, Argilopilus ſichabet fi fint ut in genere, medium ha bebunt finiliter ,ueluti propter quid etiam mutato ordia oc, funilitudinein ſubeunt rationum , eft enim alia caufa in lincis, & in numeris, atque eadem alia quidem eſt, ut linea rum rationem fubit ,eadem autem, ut tale habet incremen tum , & codem in omnibus modo; Aueroes fic habet commentar tionc magna,li autem fuerit fecundum modum generis,eft eis . affection 108 IN'SECVNDVM LI B. uinum fimilitudine, uerbi gratia , cur quando permutantur : fint proportionalia, huius cnim caufæ in lineis & numeris ſunt diuerfæ , qua autem addit , hac ſpecie additionis , hoci modo eft una per ſe in omnibus,hoc textu nõ minus laboris fum pſi propter uarietatem textuum , quam etiam ob id , quod interpretes: non ita interpretari uidentur , ut textui Ariſtotelis cohæreant fue interpretationes aut nug & potius , præter Aueroin , qui magna come mentatione , confuſo tamen ordine dicit aliquid , faciens ad Ariſtotex : lis ſententiam , non tamen aperit uerum fenfum littera Ariſtotelis Pro uera igitur Ariſtotelis ſententia ,in primisſcire debes , quod mas gnitudines ſeu continue quantitates, &multitudines feu quantitates die ſcrete omnes , uerfantur circa unum genus quanti, omnes enim quane titates funt , quæ antequàm permutentur , proportionalia eſſe debent , ut affeétio hæc,permutata proportionalitas ,ſeu permutatim proportios nari, concluditur de quantitatibus proportionalibus, ratio autem qua concluditur hoc ; de lineis, fuperficiebus,temporibus , vt corporibus, eadem de numeris concluditur , primum demonftratur propoſitione dea cimafexta quinti Elementorum Euclidis per alia principia , opropos ſitiones diuerſas ab his propoſitionibus &principijs , quibus de nume ris eadem permutata proportio concluditur in feptimo Elementorum , propoſitione decimatertia uel decimaquarta. Ecce igitur alia ratio in li neiseft,quia diuerſa e uniuerſalior , atque per diuerſa media , à ratio : ne qua idem de numeris concluditur , huius enim caufæ in lineis &nume ris ſunt diuerfæ , cauſas has , eas uoco , quæ folum dant propter quid & de his cauſis , que etiam dant eſſe, hoc loco minime intelligas uelim , quia tamen dicebam ,quòd non concludebatur hæc affe &tio,permutata pro portio niſi de proportionalibus quantitatibus . Si modofieret queſtio, o cauſainueftigaretur,quare quantitates dicantur proportionales, uel que nam ſint quantitates proportionales , aut quando proportionales funt , Ariſtoteles dicit unam eſſe cauſam in omnibus , cum difcretis tum etiam continuis , quæ eft ex additione fimili utrobique pro cuius notitia mania feſta deffinitio ſexta quinti Elementorum , minime negligenda eſt, oeft Quantitates quedicuntur eſſe fecundum proportionem unam , prima ad fecundam vtertia ad quartam ſunt , quarum prime otertiæ æques multiplices , ſecunde «quarte equemultiplicibus comparat & , fimiles fuerint uel additione , ueldiminutione,uel æqualitate ,eodem ordinefum POSTERIORVM ARI T. 10% ple . V'nica eſt héc caufâ, ut quantitates feu difcrete ſint , feu etiam continuefuerint,héc uidelicet fimilis additio,ueldiminutio,feu æquatio inter equemultiplicia,hoc autem eſt.quod ait in textu Ariſtoteles, in quantum uero habens augmentum tale , eadem eft fic in omnibus,hac igi: tur ſpecie additionis est una pér fe caufa in omnibus. Similem autem eſſe colorem colori , & figuram figuræ , aliam efſe alñ æquiuocum enim eft fimile in his . Hic quis dem eſt fortaſsis ſecundum analogiam habere latera , & æquales angulos. Figuræ rectilinee funtfimiles ex prima deffinitione fexti Elemen.quæ habent angulos omnesæquales, es latera illosæquales angulos continentia proportionalia,ſimilitudo igitur,non habet commus nefiguris ocoloribus, niſi nomenclaturam , non autem rem naturam unam , in coloribus enim non concernes , neque latera , neque angulos . Habent autem fe fic propter conſequentiam ad inuicem caufa, & cuius caufa,& cui eſt cauſa, unumquodque tamen accipienti , cuius eſt. cauſa, in pluseſt, utquatuor rectis æquales , qui funt extra plus ſunt, quàm triangulus, aut quadrangulus, in omnibusautem æqualiter. Quæcunque eniinquatuor rectis equales,qui ſuntextra ,textus hicdeffétis uus eft , & mutilus apud Ioannem Grammaticum & Argiropilum , ma. gne commentationis textus est clarior , ſed non ad plenumfacit fatis ,ut mens Ariſtotelis , fatim appareat . Caufe illationis , ſeu conſequentie , que mutuæ funt , feinuicem inferunt pro cuius exemplo, ad ea , quæ pri mo libro tex . xcvij. di &ta fuere inſpiciendum eſt, oultra aduertas quod uniuerſaliuseft habere omnes angulos extrinfecos æquales quatuor res Ais ,quàm eſſe triangulum ,uel quadrangulum ,aut pentagonum ,uel exago num , aut quippiamtale feorfum , fi autem accipiatur fic reétilineum est, igitur omnes anguli quiſunt extra, funt equales quatuor re& is , oecon uerfo , fic infertur , omnes anguli quiſunt extra funt æquales quatuor rectis ,igiturid cuiusfunt anguli extrinſeci accepti, rectilineñ eft,quo uet bo , re &tilineum , comprehenduntur nedum triangulus, quadrangulus,co penthagonus , fed omnes figuræ re& ilinec , hoc igitur uult Ariſtoteles quandoinquit , quod habere extrinfecos quatuor re&tis æquales , uniuer Jalius eſt trigono , otetragono , ſi uero hec omuia accipiantur , ut in hoc uerbo , rectilineum , omnes figure rectilineæ comprehenduntur, ajo fic hoc pacto habentſe propter confequentiam ,ut ad inuicem caufa «cu us caufa , &cui eft caufa . ilo : CAVSAB IGITVR ILLI SVMMAB SIT ILLS LAVS QY AM LINGVA ET VNIVERSA MENS CONCIPERE POTEST . FINISI > R E G I S T R V M. . A B C D E F G H I K L M N O. Omnes ſuntduerni. CORRECTIO OPERIS. 37 Pac. 4. lined s publicis , à publicis. fac.4.li.6 incumbebam ,abſtinere decreui..li.io laberinthos ,labyrinthos.li.21 literis litteris ubique . Pd.4 li.3 comode, commode .li. 11 prefertim , præfertim ubique . li.12cales, calles. li. 16 Ariſtoteles , Ariſtotelis . Facis li.24 age , aie . Fac . 6.li. 2 pulcra , pulchra ubique. li, z fpetie, fpecie percubique. li. 32. quinnis, quinis . lin. 3 3 unis,pluribus ubique. Fac. 7 lin.6 neſcit , fcit.Fa.8 li.25 comunem ,communem ubique. F2.13 li. 3 precedentis,precedentis ubique F &c.14 li.9 affumens , afſummens ubique. li.16 ſempliciter , fimpliciter. li. 12 equales æqualesubique. Fac.15.li.20 probation , probatione. Fa. 26 li. 26 reſumitur , reſummitur ubique. Fd. 19.3 1 Geotrica , Geomes trica . fac.20 li. o quadrati , quadrari. li. 10 e e Spoffet, effe poffet . li. 20 eeſſ;eſe. Fac.22 li. 10 A poline, A polline. Pac. 23 li. innitide tus,initatus. Fac.30 li. 12 fcit ,ſit .fac.31.li.12 atulerunt attulerunt. fa. 3 2.li.27 manus, manu . fac . 34.li.7 ſilicet , ſcilicet ubique . fuc.36.li.4 Textus , Textu . li.25. aget, & get. fac.41. li:3 2 queſtione, queſtione ubique. fac.4.3 li. 25 texu, textu.fa. 48 li.34 prinus , primus. Fac.49 li.16.fue , ſua . fac.49.li.20 induéti , induti . fac. stili . 12recte ,recti. fac.53 li. 11 A'riſtelis , Ariſtotelis .fac .53 li . 12 bucis , buccis ubique. li. 6 nltera , altera. fac.54.li.2.ie, git. fac. 57 li. 24 puerost , pueros, li. 25 illeuatus , eleuatus . fac.59 li. 7 olas , ollas . li. 3i ſimilitcr, ſimili ter. li. 3 4.innani,inani ubique. fac. 60 li.z eubi,cubi. li.25 . apolini, apollini per , , ubique.lin . 28 pret , preti.fac.61.li.14.palade,pallade, li.24 filicet, ſcilicet ubique.fac.62 li. 23 rrrat, erat. fac.64. lin . 31 nos tid , notitia.fa.67 li.14 prebens,prebens.li.16.profonditate,profundis tate. fac. 68 li. 20 queſitis, quæfitis.fa, 9.li.6.nquiinquit. fac.75 li. s. paret, pares . fac. 76 li.16 .notia .notitia . fac. 8 2.li. 13 ingnaros, ignaros.li. 27 preciſiua, preciſiua. li. 31. preedenti,precedentiubique fac. 83. li . 8.ſcienriarum , ſcientiarum . lin . 21.chierurgia , chirurgia . fac. 86 li. 10. neft, ineft.li. 17.angregata , aggregata. fac. 88 lin. 10 pretereundum , prætereundum.fac.91.li. 10.triangu o, triangulo. li.28. redit,reddet.fac.95li,31. eget,eget.fac.96.li.20 fequacea , fequaces. li. 32, balbitiant,balbutiant.fac. 104.11.18.uirum ,uitrum . ܐܐ ܀ Et fi qua alia ( que non funt pauca ) pretermiffa funt , diligens le& tor surum colligat &mufcas abigat .

 

 

Petrus Cathena. Petrus Catena. Pietro Catena. Keywords: logica matematica, logica aritmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catena” – The Swimming-Pool Library.

 

CATTANEO-C  (Milano). Filosofo. Grice: “I like Cattaneo; in fact, I LOVE Cattaneo; he is so much like me! I taught at Rossall, and he defended the the teaching in what the Italians (and indeed the ‘Dutch’) call the ‘gym’ not just of Grecian and Roman, but Hebrew – He famously claimed to know Hebrew when he interviewed for a job as a librarian! – From a semiotic point of view, he saw semiotics as the phenomenon the philosopher must consider when dealing with communication – he explored semantics, but also ‘sintassi’ in connection with ‘logic,’ and obviously, pragmatics – He was interested in comparing systems of communication in Homo sapiens sapiens and other species – and being an Italian, he was especially interested in how Roman became Latin – he opposed the Tuscany rule!” --  Grice: “Only a philosopher like Cattaneo is can understand Cattaneo’s contributions to semiotics!”. Figlio di Melchiorre, un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia Sangiorgio, trascorse gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso ospite di parenti. Fu proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del pro-zio, un sacerdote di campagna, si appassioa alla filosofia, soprattutto dei classici della filosofia romana.  Il suo amore per le lettere humanistiche classiche lo indusse a intraprendere gli studi nei seminari di Lecco prima e Monza poi, che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di diciassette anni, abbandonò il seminario papista per continuare la sua formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al ginnasio e liceo classic di Porta Nuova dove si diploma. La sua formazione filosofica fu plasmata, durante gli studi superiori, da maestri quali Cristoforis e Gherardini, i quali gli aprirono le porte del mondo filosofico milanese. Grazie a queste opportunità, oltre alla passione per gli studi classici, Cattaneo inizia a nutrire interessi di carattere sstorico. Sempre in questo periodo furono fondamentali per la sua formazione filosofica le letture presso la Biblioteca di Brera e il contatto con il cugino paterno, direttore del gabinetto numismatico, era anche un importante esponente del mondo filosofico milanese. Altro punto chiave per il percorso formativo degli suoi interessi furono la frequentazione assidua dell’Ambrosiana, grazie alla sua parentela materna Sangiorgio con il prefetto Pietro Cighera, e della biblioteca personale dello zio. La Congregazione Municipale di Milano lo assunse come insegnante di latino e poi di umanita nel ginnasio comunale di Santa Marta. Approfondizza le sue frequentazioni con gli filosofi milanesi, entrando a far parte della cerchia di Monti. Di questi stessi anni sono le sue amicizie con Franscini e Montani. Dopo aver iniziato a frequentare le lezioni di Romagnosi nella sua villa, ne divenne presto amico e allievo. Si laurea Pavia con il massimo dei voti.  Risale il suo saggio dato alla stampa e apparso sull’antologia, si tratta di una recensione all'assunto primo del concetto di “giure naturale”. Saggio sulla Storia della Svizzera italiana. Convinto sostenitore di richieste di maggiore autonomia del regno lombardo-veneto dalla corte di Vienna, pensava di puntare su una politica non violenta per avanzare tali richieste. Il motivo del suo rifiuto nei confronti della violenza si può comprendere da questa affermazione poco conosciuta del filosofo milanese che al tempo stesso lascia trasparire cosa egli ne pensasse di un'annessione al Regno di Sardegna. Siamo i più ricchi dell'impero, non vedo perché dovremmo uscirne. Ottenne alcune concessioni dal vice-governatore austriaco, subito annullate dal generale austriaco Radetzky.  Purtroppo l'evoluzione tragica delle Cinque giornate di Milano, degenerate in violenza, fecero capire a Cattaneo che un dialogo tra la nobiltà lombarda e la corte di Vienna e effettivamente difficile, stessa impressione che curiosamente ebbe anche Radetzky che nel periodo del suo governo nel lombardo-veneto punta a cercare il favore del volgo. Cattaneo e i suoi amici parteciparono quindi e contribuirono alle cinque giornate di Milano, senza agire con azioni di violenza gratuita. Ma dopo di esse, rifiuta l'intervento piemontese. Considera il Piemonte meno sviluppato della Lombardia e lontano dall'essere democratico. Presidente del Consiglio di guerra di Milano, che governa insieme al Governo provvisorio fino alla caduta di Milano al ritorno degli austriaci. Dopo una serie di moti popolari, nel frattempo, viene proclamata la repubblica romana, guidata da un triumvirato costituito da Mazzini, Saffi ed Armellini.  In seguito alla conclusione dei moti ripara nella ivizzera e si stabilì a Castagnola, nei pressi di Lugano, nella villa Peri. Qui ebbe modo di stringere maggiormente la sua amicizia con Franscini, potente filosofo ticinese, e di partecipare alla vita filosofica del Cantone e della città. Fonda il liceo di Lugano, che volle fortemente per creare un'istruzione pubblica laica libera dal giogo del papa, al fine di formare una generazione liberale e laica che era alla base dello sviluppo economico del resto della Svizzera. Amico di Manara, anda a Napoli per incontrare Garibaldi, ma poi tornò in Svizzera, perché deluso dall'impossibilità di formare una confederazione di repubbliche. Pur essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia unificata, rifiuta sempre di recarsi all'assemblea legislativa per non giurare fedeltà ai Savoia. Viene ricordato per le sue idee federaliste impostate su un forte pensiero liberale e laico. Acquista prospettive ideali vicine al nascente movimento operaio-socialista. Fautore di un sistema politico basato su una confederazione di stati italiani sullo stile della svizzera. Avendo stretto amicizia con filosofi ticinesi come Franscini, ammira nei suoi viaggi l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputa proprio a questa forma di governo -- è più pragmatico del romantico Mazzini -- è un figlio dell'illuminismo, più legato a Verri che a Rousseau, e in lui è forte la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di rinnovamento della communità. Pur essendogli state dedicate numerose logge massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ferrari, una sua lettera a Bozzoni, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria, per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta segreta e negata.  Per lui scienza e giustizia devono guidare il progresso della communità, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della libertà di pensiero. Il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo, comunitario, attraverso un continuo confronto con l’altro. La partecipazione alla vita della communita à è un fattore fondamentale nella formazione dell'individuo. Il progresso può avvenire solo attraverso il confronto collettivo comunitario. Il progresso non deve avvenire per forza o autoritarismo, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli uomini che scandiscono le tappe del progresso. Nega il concetto di “contratto” comunitario o sociale. Due uomini si sono associati per istinto. La comunita, la diada, la società è un fatto naturale, primitivo, necessario, permanente, universale -- è sempre esistito un federalismo delle intelligenze umane -- è sorto perché è un elemento necessario di due menti individuali.  Pur riconoscendo il valore della singola intelligenza monadica, afferma però, che più scambio, conversazione, dialettica, e confronto ci sono, più la singola intelligenza monadica diventa tollerante dell’altro nella diada. In questo modo anche la società e la comunita diadica e più tollerante. Le due sistemi cognitivi dei individui della diada devono essere sempre aperti, bisogna essere sempre pronti ad analizzare nuove verità.  Così come le due menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati europei che hanno interessi di fondo comuni. Attraverso il federalismo i popoli, le comunita, possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica. La communita, il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà. La comunita, il popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie esigenze.  La libertà economica è fondamentale per Cattaneo -- è la prosecuzione della libertà di fare -- la libertà è una pianta dalle molte radici. Nessuna di queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà economica necessita di uguaglianza di condizioni. La disparità ci saranno ma solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di confrontarsi nella conversazione aperta. E un deciso repubblicano e una volta eletto addirittura rinuncia ad entrare in parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi all'autorità e la forza del re. Viene richiamato quale iniziatore della corrente di pensiero federalista in Italia. Fonda il periodico Il Politecnico, rivista che divenne un punto di riferimento dei filosofi lombardi, avente come intento principale l'aggiornamento tecnico e scientifico della cultura nazionale. Guardando all'esempio della Svizzera cantonale (improntata alla democrazia diretta), define il federalismo come "teorica della libertà" in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Nota al riguardo che abiamo pace vera, quando abiamo gli stati uniti dell’Europa, alla svizzera. Cattaneo e Mazzini videro negli nella Svizzera l’unico esempio di vera attuazione dell'ideale repubblicano. Federalista repubblicano laico di orientamento radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, e alieno dall'impegno politico diretto, e punta piuttosto alla trasformazione culturale della società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero parlamento alternativo a quello dei Savoia.  In accordo con il Tuveri redattore del Corriere di Sardegna, intervenne in merito alla questione sarda in chiave autonomistica locale. In tal senso, denuncia l'incapacità ed incuranza del governo centrale nel trovare una nuova destinazione d'uso al mezzo milione di ettari (più di un quinto della superficie dell'isola) che avevano costituito i soppressi demani feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il diritto di ademprivio, per usi civici.  A lui è dedicato l'omonimo istituto di ricerca. Altre opere: “Scritti filosofici”; “Interdizioni israelitiche”; “Psicologia delle menti associate” – questo saggio – associazione -- non è stata completata e rimane allo stato di frammenti. Il tema de saggio sarebbe dovuto consistere nel cercare un'interpretazione sociale – diadica -- nello sviluppo dell'individuo o monada. La città – cittadino – cittadinanza -- considerata come principio ideale delle istorie italiane; Dell'India antica e moderna; Notizie naturali e civili su la Lombardia Vita di Dante di Cesare Balbo Il Politecnico, Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura sociale e comunitaria; Dell'Insurrezione di Milano e della successiva guerra. Rapporto sulla bonificazione del piano di Magaldino a nome della società promotrice, In Lugano, Tipografia Chiusi. Le cinque giornate di Milano di Carlo Lizzani -- interpretato da Giannini. Cattaneo e le cinque giornate di Milano  Secondo una tesi, non comprovata e non accolta dai dizionari biografici, Cattaneo sarebbe nato a Villastanza, frazione del comune di Parabiago in provincia di Milano. Certamente più antica è la Villa prospiciente la Chiesa, sulla piazza ed attualmente in proprietà del signor Luigi Gagliardi, cui è giunta per eredità dagli avi. Un'insistente tradizione vuole che in questa casa, abbia avuto i natali nientemeno che Carlo Cattaneo. Ma il Cattaneo deve aver passato qui soltanto alcuni anni della sua infanzia, ospite nei mesi estivi della famiglia amica ai propri genitori. Si veda, a tal riguardo, “Storia di Parabiago, vicende e sviluppi dalle origini ad oggi, Unione Tipografica di Milano. (G. Tortora), da Filosofico (Diego Fusaro)  Arch. Rebecca Fant Milano  Bertone, Camagni, Panara, La buone società: Milano industria. Almanacco istorico d'Italia,  1, Battezzatti. Carlo Cattaneo genealogy project, su geni_family_tree. 16 marzo .  Il Famedio, su  del Comune di Milano. Carlo G. 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Carlo Cattaneo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Carlo Cattaneo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Carlo Cattaneo, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Carlo Cattaneo, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Carlo Cattaneo, .  Carlo Cattaneo, su storia.camera, Camera dei deputati.  Tiziano Raffaelli, Cattaneo, Carlo, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, . Arturo Colombo, Cattaneo, Carlo, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Opere Scritti di Carlo Cattaneo in versione e-book, su classicistranieri.com. Scritti di Carlo Cattaneo: testi con concordanze e lista di frequenza Indice Carteggi di Carlo Cattaneo. PDF Altro Cronologia della vita di Carlo Cattaneo, su storiadimilano. Carlo CattaneoIl contemporaneo dei posteri a cura del Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della nascita (1801-2001 Filosofia Letteratura  Letteratura Politica  Politica Risorgimento  Risorgimento Categorie: Patrioti italiani del XIX secoloFilosofi italiani del XIX secoloPolitici italiani Professore1801 1869 15 giugno 6 febbraio Milano LuganoScrittori italiani del XIX secolo Personalità del Risorgimento Positivisti Insegnanti italiani del XIX secoloFilosofi della politicaRepubblicanesimoLinguisti italianiSepolti nel Cimitero Monumentale di MilanoPolitologi italianiFederalistiDeputati della VII legislatura del Regno di SardegnaDeputati dell'VIII legislatura del Regno d'Italia Deputati della IX legislatura del Regno d'Italia. Linguaggio e ideologia: la posizione di Carlo Cattaneo Pubblicato il 1 novembre 2020 da Comitato di Redazione matania_edoardo_-_ritratto_giovanile_di_carlo_cattaneo_-_xilografia_-_1887-2_imagefullwide Edoardo Matania, Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo, xilografia, 1887  di Alessandro Prato  La centralità della figura di Carlo Cattaneo (1801-1869) nell’ambito della cultura italiana della prima metà dell’Ottocento è giustamente ricollegata al suo pensiero liberale e laico, agli studi giuridici che hanno contrassegnato l’intera sua formazione, all’interesse verso l’etnografia e la psicologia sociale [1]. La sua personalità di studioso poliedrico e sfaccettato, fortemente influenzata dalla cultura classicista e dalla filosofia dell’illuminismo, si è concretizzata in varie forme tutte di grande rilevanza: il filosofo, l’economista, il critico, lo storico, lo scrittore politico, il fondatore della rivista Il Politecnico (1839-44) e, non da ultimo, il linguista.  Nel quadro di questa ricerca intellettuale così ricca e variegata un posto rilevante assumono i suoi studi etnico-linguistici di impianto storico-positivo e i suoi progetti politici orientati sul concetto di “nazionalità”. Con questo termine egli si riferiva allo stesso tempo sia alla più alta e unitaria aggregazione culturale, sia alla diretta partecipazione popolare allo sviluppo della società civile.  Proprio sugli interessi linguistici di Cattaneo [2] concentreremo la nostra attenzione mettendo in evidenza l’impulso che egli ha dato alla costruzione dell’italiano come lingua comune che riflette il nesso tra la vitalità della lingua e la vitalità culturale della nazione di cui la lingua stessa è «il vincolo unitario in senso geografico e sociale» (Vitale 1984: 457), perché è da essa che dipende la possibilità per gli italiani di partecipare al progresso della cultura del proprio Paese. La forte coscienza del carattere comune della lingua faceva sì che Cattaneo potesse prescrivere la rinnovabilità della lingua – rifiutando quindi le angustie del purismo, i grecismi e i particolarismi provinciali – e sostenere anche un’opposizione recisa, basata su una coerente visione culturale di impronta europea, sia al neotoscanismo e al fiorentinismo manzoniano, sia all’accademismo della Crusca, in nome di un principio di unità di cultura e di vita civile nazionale.  Questa impostazione spiega poi la sua duplice posizione rispetto ai dialetti: da una parte riproponeva in termini nuovi, non antitetici,  i rapporti fra i dialetti e la lingua, riconoscendo la validità dei dialetti in quanto depositari di un patrimonio storico da preservare, apprezzando i valori riposti nelle culture popolari e sottolineando anche il valore della letteratura dialettale; dall’altra però considerava i dialetti come elementi superabili nel processo dialettico fondativo della lingua comune, essendo consapevole che il coinvolgimento dei parlanti nella lingua comune poteva avvenire nella misura in cui essi riuscivano progressivamente ad abbandonare l’uso esclusivo del dialetto.  Il primo scritto di linguistica di Cattaneo è quello sul Nesso della nazione e della lingua Valacca coll’italiana, pubblicato nel 1837 [3], come parte di un lavoro più generale che riguardava l’influenza delle invasioni barbariche sulla lingua italiana e che non venne mai condotto a termine. Si tratta di uno studio sul passaggio dalla società tardo romana a quella feudale e poi comunale, condotto sulla scia dell’insegnamento di Romagnosi ma con una sostanziale differenza: mentre Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà in storia degli istituti giuridici e solo marginalmente si interessava di questioni linguistiche, Cattaneo già in questo primo scritto – il cui carattere storico generale è evidente – metteva al centro della sua trattazione il problema linguistico, considerando la lingua come espressione della nazionalità e testimonianza delle vicende della storia dei popoli.   La funzione sociale e in senso lato politica della lingua viene così enfatizzata con la finalità di studiare le interconnessioni tra le cose, cioè gli anelli che compongono le catene sociali che tengono uniti gli individui in quanto membri di una comunità: le parole, che sono ricche di sottili significati, possono essere comprese pienamente solo se situate in un contesto sociale più ampio di quello del loro svolgersi immediato (Lewis 1987:17). Il nucleo che tiene insieme le memorie individuali e collettive è insomma costituito dalla lingua e l’esercizio della lingua rafforza tale nucleo dal quale poi dipende in buona parte l’identità di un popolo, la sua coscienza storica. In questo caso Cattaneo non si riferiva alla lingua solo come insieme di regole sintattiche e di etichette fonologiche, ma anche come modalità socialmente e regionalmente differenziata, dunque non la lingua come sistema, bensì come norma e istituzione: «è nelle parole della lingua che si condensano i path, i “sentieri” della memoria propri di ciascuna comunità» (De Mauro 2008: 67).  poliCattaneo mostrò fin dagli anni giovanili grande interesse per l’opera di Vico, anche grazie all’influenza che ebbero su di lui le opere di Romagnosi e Ferrari che la interpretavano alla luce dell’antropologia laica dell’illuminismo. Proprio dal libro di Ferrari, Vico e l’Italie uscito a Parigi nel 1839, egli prese spunto per un saggio Sulla scienza nuova che pubblicò sul Politecnico nello stesso anno [4]. L’interesse per le età primitive e per la vita collettiva dei popoli, il rapporto tra lingua e nazione [5] denotano la presenza di motivi vichiani, con i quali Cattaneo corresse certi eccessi del razionalismo settecentesco, senza mai però rinunciare all’idea di progresso, e allo stesso tempo senza farsi influenzare dagli aspetti teologici della filosofia di Vico. La sua formazione illuminista lo portò a non condividere nessun mito del Risorgimento romantico e spiritualista, a celebrare come maestro Locke contrapponendolo alle fumosità dell’idealismo, ad avversare le posizioni di Rosmini, Gioberti e anche Mazzini.  L’illuminismo nella sua opera «si rivela sotto il carattere di una radicale antimitologia» (Alessio 1957: XIX). Rispetto al Romanticismo la posizione di Cattaneo è contrassegnata da una sostanziale estraneità: giustamente Timpanaro (1969: 233-34) osserva che parlare – come spesso si è fatto – di un romanticismo di Cattaneo può essere giusto se ci riferiamo al romanticismo come una categoria spirituale generale, definendo romantico ogni forma di interesse per le età primitive, per le tradizioni popolari e per il nesso lingua\nazione. Ma questo non ci deve far dimenticare che per il Romanticismo inteso come movimento culturale storicamente definito Cattaneo – come del resto anche Leopardi – mostrò sempre un atteggiamento critico e distante motivato dalla sua avversione al medievalismo, a quella concezione religiosa della vita che i romantici – sia pure con sfumature diverse – condividevano e al modo ambiguo con cui veniva da loro esaltato lo spirito popolare, inteso più come attaccamento alle tradizioni locali e forma di ingenuità, che come aspirazione democratica.  Sui rapporti tra romani e barbari e sulle origini della lingua italiana Cattaneo tornò diverse volte in altri scritti successivi quel primo saggio del 1837 [6], sostenendo la derivazione dell’italiano dal latino volgare e limitando al massimo l’influsso delle lingue dei barbari sulla formazione dell’italiano, tanto più che secondo lui il numero dei barbari dominatori era stato assai esiguo contrariamente a quanto pensavano molti storici. Per valutare al meglio questa continuazione dell’italiano dal latino volgare per Cattaneo era necessario tener conto anche dell’influsso esercitato dalle antiche lingue dei popoli italici conquistati dai romani (etrusco, umbro, celtico ecc..).  Questa è l’importante teoria del sostrato senza la quale è difficile ad esempio spiegare la varietà dei dialetti italiani e che coinvolge soprattutto la fonetica piuttosto che il lessico: non si tratta quindi di una generale mescolanza di lingue, ma della stessa nuova lingua pronunciata in modo diverso in base ad abitudini fonetiche precedenti che rimanevano vive perché radicate dall’uso dei parlanti [7].      Gli studi sull’origine dell’italiano sono importanti anche per spiegare la posizione che Cattaneo ha assunto nel dibattito sulla questione della lingua, che ha avuto del resto una grande rilevanza nella cultura italiana del tempo. Cattaneo, infatti, non vedeva una scissione tra il suo impegno di linguista militante e i suoi studi di linguistica storica, al contrario riteneva lo studio storico delle lingue come la base, e dunque il fondamento, della linguistica normativa [8]. Di fronte al problema di come la lingua italiana avrebbe dovuto essere formata e regolarizzata, egli sosteneva una rigorosa battaglia antitoscana, svolta su due fronti essenziali. Il primo era diretto – riprendendo una polemica che era stata inaugurata dagli illuministi lombardi del Caffè – contro il modello arcaico e passatista dell’Accademia della Crusca, che sosteneva una concezione immobilistica della lingua, estranea a ogni innovazione e fondata sulla netta scissione tra lingua e cultura. Il secondo fronte riguardava il modello certamente più moderno e funzionale del Manzoni, ma che ai suoi occhi risultava troppo accentrato e basato su un concetto di popolarità che egli non condivideva:  «la dottrina della popolarità da cui primamente si presero le mosse, oramai non significa più che si debba agevolare l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti: ma bensì che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. Si intende un’angusta e inutile popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità dell’uso e dei frutti» (Cattaneo 1948: I, 8). 2560350164442_0_0_0_696_75In alternativa, Cattaneo opponeva una forma di lingua che costituisse un punto d’incontro delle varie tradizioni dialettali italiane in maniera da poter svolgere veramente una funzione unificatrice della nazione. Una lingua, allo stesso tempo illustre [9], «insieme austera e moderna» (Timpanaro 1969: 237), adeguata non solo alla cultura letteraria, ma anche a quella scientifica e filosofica.     Fin da quel primo articolo, cui abbiamo già fatto riferimento, Cattaneo ha dimostrato inoltre di avere due maggiori capacità rispetto ad altri autori italiani suoi contemporanei. La prima era quella di saper andare al di là dei ristretti confini nazionali, interessandosi ad esempio delle lingue germaniche e del romeno. La seconda consisteva nell’avere ben presente il principio che la comunanza di origine tra due lingue è dimostrata dalla somiglianza delle strutture grammaticali, più che dei vocaboli – principio che ricavava dalla nuova linguistica comparata di Bopp e dei fratelli Schlegel [10] che, proprio in quegli anni, erano diventati per lui importanti interlocutori anche polemici e avevano impresso nuovi sviluppi alle sue idee linguistiche. Nel 1839 Bernardino Biondelli [11] cominciò a pubblicare sul Politecnico una serie di articoli sulla linguistica indeuropea, recensendo anche importanti opere dei comparatisti [12], informando così il pubblico italiano sui risultati scientifici da loro raggiunti. Questi articoli hanno indotto Cattaneo a prendere una posizione critica di fronte a questa corrente di studi e a scrivere il saggio Sul principio istorico delle lingue europee [13].  In questo saggio Cattaneo criticava l’idea che dall’affinità delle lingue fosse possibile ricavare una comunanza d’origine dei popoli, perché era invece convinto che non ci fosse una connessione essenziale tra affinità linguistica e affinità razziale e che la linguistica e l’antropologia andassero attentamente distinte; inoltre credeva che si fosse troppo insistito sull’unità dell’indoeuropeo, trascurando le differenze tra le varie lingue dovute al sostrato. Guardava con sospetto l’esaltazione orientalizzante che costituiva forse la conseguenza più effimera e fuorviante del comparatismo indoeuropeo (Marazzini 1988: 406). Per Friedrich Schlegel [14] il sostrato svolgeva soprattutto una funzione negativa corrompendo la perfetta forma del sanscrito; per Cattaneo, al contrario, la commistione del sanscrito con le lingue europee primitive ha dato luogo a un innesto fecondo perché il sostrato «rappresentava appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore» (Timpanaro 1969: 266). La parentela linguistica non è quindi nel sistema di Cattaneo identità di origine, bensì il risultato di un lento e progressivo avvicinamento delle popolazioni, dovuto all’istaurarsi fra di esse di rapporti politici, economici e culturali. Non si tratta, quindi, di un punto di partenza, ma di arrivo:  «Le lingue vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua comune, che tende alla pluralità e alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una lingua commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende all’associazione e all’unità. Se una volta in diverse parti d’Italia e delle isole si parlò il fenicio, il greco, l’osco, l’umbro, l’etrusco, il celtico, il carnico, e Dio sa quanti altri strani linguaggi, come tuttora avviene nella Caucasia, la sovraposizione d’una lingua commune avvicinò tanto tra loro i nostri vulghi, che ora agevolmente s’intendono tra loro. Il tempo che cangiò le lingue discordandi in dialetti d’una lingua, corrode ora sempre più le differenze dei dialetti; e lo sviluppo delle strade e la generale educazione promovono sempre più l’unificazione dei popoli.  Non è che una lingua madre si scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse, assimilandosi ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che l’opera si continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti e infine mettono foce commune in lei» (Cattaneo 1957: 450). Sulla base di queste considerazioni, Cattaneo, nell’ambito dell’acceso dibattito sulla monogenesi o poligenesi del linguaggio, sosteneva una posizione particolare: rifiutava evidentemente il primo, ma allo stesso tempo era anche distante da quel particolare tipo di poligenismo sostenuto da Schlegel, che consisteva nel separare nettamente pochi tipi linguistici originali dai quali sarebbero derivate tante lingue cosiddette “figlie”. Per lui invece esistevano tante lingue primitive originarie che si erano ridotte di numero, via via che le tribù avevano cominciato a unirsi in aggregati più ampi. Non esistevano quindi – come per Schlegel – delle lingue perfette fin dall’inizio (le lingue flessive); tutte le lingue avevano origini umili o, come scriveva lui stesso, “ferine”. I modelli di questo modo di intendere il poligenismo linguistico sono Epicuro, Vico e Cesarotti [15]. Sempre contro Schlegel, rivendicava la giustezza della teoria agglutinante secondo la quale anche le forme flessionali più perfette e sofisticate derivavano dall’agglutinazione di monosillabi che all’origine avevano una funzione autonoma. E in quel primo articolo del 1837 osservava infatti che le declinazioni della lingua latina e greca potevano derivare da semplici nomi con un articolo affisso (Cattaneo 1948: I, 228).  psicologiadellementiassociatecarlocattaneoeditoririuniti_1024x1024-1La polemica con Schlegel riguardava anche la questione dell’origine del linguaggio: mentre per il primo la flessione indoeuropea era dovuta sostanzialmente a un intervento divino, per Cattaneo, l’origine del linguaggio non poteva che essere umana, e su questo avrebbe mantenuto una posizione coerente anche negli scritti successivi come le Lezioni di ideologia del 1862, dove, ad esempio, confutava il sofisma di Bonald che negava all’uomo la facoltà di costruirsi un linguaggio. Su questo tema come per tanti altri Cattaneo è vicino alla grande tradizione della linguistica illuminista che con Locke e Herder aveva respinto recisamente la concezione delle idee innate e l’origine divina del linguaggio (Prato 2012: 17-22) ed è del tutto immune dalla concezione misticheggiante della linguistica tanto cara ai romantici.  Proprio nel Saggio sul principio istorico delle lingue europee, Cattaneo si proponeva di verificare il rapporto tra fenomeni linguistici e tradizioni culturali, considerando la ricerca linguistica in stretta correlazione con una riflessione propriamente filosofica. L’analisi dei fenomeni linguistici non si riduceva per lui solo a una raccolta estemporanea di dati ma si traduceva in una vera e propria scienza sociale. Alla filosofia analitica degli Idèologues – che era rappresentata per gli scrittori italiani soprattutto da Condillac e Tracy – egli riconosceva senz’altro il merito di aver esaminato con acume e precisione i problemi del linguaggio, inserendoli in una prospettiva il più possibile concreta e razionale. Allo stesso tempo era tuttavia consapevole anche dei suoi limiti, che consistono nell’aver indicato come proprio oggetto di riflessione una figura di uomo dai caratteri astratti e indipendente dal rapporto con i suoi simili. Proprio «la famosa ipotesi della ‘statua’ condillachiana gli appariva emblematica di un concetto destorificato della natura umana» (Gensini 1993: 238). Non a caso alle conferenze tenute a partire dal 1859 presso l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Cattaneo volle dare il titolo di Psicologia delle menti associate [16], dove il termine di “psicologia sociale” è inteso appunto in senso antropologico sia come riflessione sull’uomo a partire dai rapporti che lo legano agli altri suoi simili, sia come ricostruzione delle mentalità e dei sistemi simbolici quale risultato di mediazioni sociali. In queste lezioni Cattaneo osservava che il lievito che fa fermentare le idee non si svolge in una mente sola perché «la corrente del pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più intelletti» (Cattaneo 1957: 277-78).  La genesi delle idee, che Locke aveva dimostrato scaturire dal linguaggio, in questa nuova prospettiva aperta da Cattaneo, non può che radicarsi nella pratica sociale: «Nel commercio degli intelletti, promosso da felici condizioni, si svolgono le idee, come nel mondo materiale, al contatto delli elementi, si svolgono le correnti elettriche e le chimiche affinità» (Cattaneo 1960: II, 16). Il linguaggio stesso è la società (Cattaneo 1957: 316), ed è proprio su questo terreno che l’ideologia – ovvero l’analisi delle idee – iincontra la linguistica. Ideologia è del resto il titolo di una parte del corso di Filosofia che Cattaneo aveva tenuto presso il liceo di Lugano.  Non a caso aveva scelto questo titolo se consideriamo che per la sua chiara derivazione illuminista, l’ideologia [17] rappresentava la sola reale forma di opposizione al conformismo della cultura del suo tempo perché l’ideologia era «un’arma efficace per una filosofia democratica, atta ad opporsi alla marea montante della filosofia restaurata, allo spiritualismo eclettico in Francia, all’ontologismo cattolico in Italia» (Formigari 1990: 153). I principi che contrassegnano l’intera ricerca di Cattaneo e che spaziano dal riconoscimento del valore del pensiero scientifico, alla negazione della metafisica e alla difesa della laicità, la rendono insomma pienamente aderente ai problemi e alle esigenze del nostro tempo, oltre che aperta a ulteriori forme di sviluppo e approfondimento.    Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020  Note [1] Per un ritratto complessivo di Cattaneo e dei rapporti con i suoi contemporanei rimandiamo a Alessio (1957) e Mazzali (1990). [2] Studiati in particolare da Timpanaro (1969: 229-83). Si veda anche Gensini (1993: 237-40), Benincà (1994: 576-80), Geymonat (2018). [3] Negli Annali universali di statistica, si leggono ora in Cattaneo (1948: I, 209-37). [4] Si trova in Cattaneo (1957: 39-75).  [5] Anche per Giordani la lingua è il vincolo di una comunità che si identifica con la nazione (Cecioni 1977: 59), [6] Per esempio nella recensione alla Vita di Dante di Balbo pubblicata sempre sul Politecnico del 1839 (ora in Cattaneo 1957: 380-395) di cui viene criticato il contenuto religioso e metafisico e la difesa del neo-guelfismo. [7] Questa teoria del sostrato come è noto verrà ripresa da Ascoli nei suoi celebri scritti linguistici. Sul rapporto tra Cattaneo e Ascoli rimandiamo alle dense pagine di Timpanaro (1969: 284 sgg) e Timpanaro (2005: 237-51). [8] Qui lo scrittore lombardo riprendeva un’idea ben radicata nella cultura italiana e che risaliva al De vulgari eloquentia di Dante. [9] Su questo si può cogliere l’eco della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (1817-1822) del Monti che Cattaneo del resto aveva letto fin da giovanissimo con passione e interesse. [10] Sulla linguistica dei comparatisti si veda Morpurgo Davies (1994). [11] Sulla funzione positiva svolta da Biondelli per lo sviluppo degli studi linguistici in Italia vedi De Mauro (1980: 49-52). [12] Per esempio la Deutsche Grammatik di Jacob Grimm. [13] Pubblicato sul Politecnico nel 1841 è certamente il suo scritto linguistico-etnografico più ampio e originale. [14] Qui Cattaneo fa riferimento al libro: Uber die Sprache und Weisheit der Indier del 1808. Sulle idee filosofico-linguistiche di Schlegel vedi Timpanaro (2005: 17-56). [15] In particolare su Cesarotti e sul suo Saggio sulla filosofia delle lingue (1800) che è stato per Cattaneo una lettura importante vedi Gensini (2020). [16] Pubblicate postume da Bertani nella raccolta di Opere edite e inedite in 7 volumi usciti tra il 1881 e il 1892, si leggono ora in Cattaneo (1957: 270-326). [17] Ideologia è del resto il titolo stesso di una parte del corso di Filosofia che aveva tenuto presso il liceo di Lugano: si trova ora in Cattaneo (1960: III, 3-204). Riferimenti bibliografici Alessio, F. (1957), “Cattaneo illuminista”, in Cattaneo (1957): XI-LI. Benincà, P. (1994), “Linguistica e dialettologia italiana”, in Lepschy (1994): 525-625. Bobbio, N. (1960), “Introduzione”, in C. Cattaneo, Scritti filosofici, Firenze, La Monnier, I: V-LXIX. Cattaneo, C. (1948), Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, a cura di A. Bertani, Firenze, Le Monnier. Cattaneo, C. (1957), Scritti filosofici, letterari e vari, a cura di F. Alessio, Firenze, Sansoni. Cattaneo, C. (1960), Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, Firenze, Le Monnier. Cattaneo, C. (1990), Scritti su Milano e la Lombardia, a cura di E. Mazzali, Milano, Rizzoli. Cecioni, G. (1977), Lingua e cultura nel pensiero di Pietro Giordani, Roma, Bulzoni. De Mauro, T. 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Keywords: cinque giornate, community, communita, diada, monada, associazione, contratto sociale, conversazione, psicologia filosofica, psicologia, sociologia filosofica, ego e alter ego, logica e linguaggio, il latino, l’italiano di lombardia, il natale di Cattaneo – regione Lombardia – provincia -- – Milano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.

 

CATTANEO (Roma). Filosofo. Grice: “I love Cattaneo, but then you would, wouldn’t you – He reminds me of H. L. A. Hart, and then *I* am reminded that Cattaneo translated Hart to Italian as a pastime! What I like about Cattaneo is that instead of focusing on “Roman law” and Cicero – he focuses on Pinocchio!”. Si laurea a Milano sotto Treves. Su consiglio di Treves e Bobbio ha soggiornato al St. Antony's, criticando Hart, professore di Giurisprudenza, di cui su suggerimento di Bobbio e Entreves ha tradotto “Il concetto di legge”. Insegna a Ferrara, Milano, Sassari, Treviso. Analizza l'evoluzione storica delle teorie della pena e le opere dei grandi giuristi italiani. Membro della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Altre opere: Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto” (Milano); “Il positivismo giuridico” (Milano); “Il partito politico nel pensiero dell'Illuminismo e della Rivoluzione” (Milano); “Le dottrine politiche” (Milano); Illuminismo e legislazione” (Milano); “Filosofia della Rivoluzione” (Milano); “Diritto liberale” “Giurisprudenza liberale” (Ferrara); “Filosofia del diritto, Ferrara); La filosofia della pena” (Ferrara); Delitto e pena” (Milano); Il problema filosofico della pena, Ferrara); Stato di diritto e stato totalitario, Ferrara); Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano); “Metafisica del diritto e ragione pura, studi sul platonismo giuridico di Kant” (Milano); “Goldoni ed Manzoni: illuminismo e diritto penale, Milano); “Carrara e la filosofia del diritto penale, Torino); “Libertà e Virtù” (Milano); Pena, diritto e dignità umana” (Torino); Diritto e Stato nella filosofia della rivoluzione” (Milano); Suggestioni penalistiche”; “Persona e Stato di diritto Discorsi alla nazione europea, Torino); Critica della giustizia, Pisa); L'umanesimo giuridico penale” (Pisa); Pena di morte e civiltà del diritto” (Milano); Terrorismo ed arbitrio, Il problema giuridico del totalitarismo, Padova); Il liberalismo penale di Montesquieu” (Napoli); Dignità umana e pace perpetua, Kant e la critica della politica” (Padova); “L’idolatria sociale (Napoli); “L’umanesimo giuridico, Napoli); Kant e la filosofia del diritto” (Napoli); Diritto e forza. Un delicato rapporto, Padova); Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli); Dotta ignoranza e umanesimo” (Napoli); La radice dell'Europa: la ragione, uno studio filosofico-giuridico (Napoli). “Analisi del linguaggio e scienza politica” (Filosofia del diritto); “Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto, Milano, Istituto editoriale Cisalpino); “Il positivismo giuridico e la separazione tra il diritto e la morale” (Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano. Richiamo a istituti di diritto privato per la risoluzione del problema dell'origine dello stato, in “La norma giuridica: diritto pubblico e diritto privato, Atti del IV Congresso di Filosofia del diritto, Pavia, Milano, Giuffre); “Il realismo giuridico” in »Rivista di Diritto Civile”; Alcune osservazioni sui concetto di giustizia in Hobbes, in Il problema della giustizia: diritto ed economia, diritto e politica, diritto e logica, Atti del V Congresso Nazionale di Filosofia del Diritto, Roma (Milano, Giuffre); “Hobbes e il pensiero democratico nella Rivoluzione inglese e nella Rivoluzione francese, in »Rivista critica di storia della filosofia”; “Il positivismo giuridico inglese: Hobbes, Bentham, Austin, Milano, Giuffre); Il partito politico nel pensiero dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, Milano, Giuffre); Le dottrine politiche di Montesquieu e di Rousseau, Milano, La Goliardica Stampa); Il positivismo giuridico, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«, “Il concetto di diritto” (Milano, Einaudi); “Considerazioni sul ‘significato’ della proposizione, ‘I giudice crea diritto«, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«; Illuminismo e legislazione, Milano, Edizioni di Comunita); Leggi penali e liberta del cittadino, in »Comunita«, Montesquieu, Rousseau e la Rivoluzione francese, Milano, La Goliardica); dispense del corso di Storia delle dottrine politiche, Milano); Quattro Punti, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«, Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino); Considerazioni sull'idea di repubblica federale nell'illuminismo francese, in »Studi Sassaresi”,Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano, Istituto Editoriale Cisalpino); Filosofo e giurista liberale, Milano, Edizioni di Comunita); Filosofia politica e Filosofia della pena, in Tradizione e novita della filosofia della politica, Atti del Primo Simposio di Filosofia della Politica, Bari, 11-13 maggio 1970, Bari, Laterza); Pigliaru: La figura e l'opera, testo della commemorazione tenuta i125 giugno 1969 nell' Aula Magna dell'U niversita di Sassari, in »Studi sassaresi«, Serie Ill, 11 (1968-1969), Milano); Le elezioni e il liberalismo. Autonomia dell'Universita e neo-corporativismo, in »La Rassegna Pugliese«, Anti-Hobbes, ovvero i limiti del potere supremo e il diritto co-attivo dei cittadini contro il sovrano (Milano, Giuffre); Anti-Hobbes o il diritto co-attivo dei cittadini --; Considerazioni suI diritto di resistenza e liberalismo, in »Studi Sassaresi«, Ill, Autonomia e diritto di resistenza, Milano); La dottrina penale nella filosofia giuridica del criticismo, in Materiali per una Storia della Cultura Giuridica, ICorso di filosofia del diritto, Ferrara, Editrice Universitaria); La filosofia della pena nei secoli XVII e XVII: corso di filosofia del diritto, Ferrara, De Salvia). Discutendo giurisprudenza con Treves, pone il problema che sarebbe stato al centro di tutta la sua vita di uomo impegnato nello studio, nell'insegnamento, nella vita civile. Interrogandosi suI rapporto fra “rivoluzione” e “ordine giuridico”, vale a dire fra “fatto” (de facto) e “diritto” (de iure), giunge alIa conclusione che da un punto di vista epistemico-doxastico-giudicativo-conoscitivo-descrittivo non e possibile distinguere tra ordine giuridico e regime di violenza, autoritatismo, perche il diritto non e giusto per sua intrinseca natura, ma soltanto se e concretamente rivolto ad attuare il valore del giusto e rispetto della persona umana. Il rapporto fra forza autoritaria e la forza della legge, che da il  titolo a uno suo saggio, e la relazione fra diritto o gius come valore, costituisce infatti la questione su cui non cessa mai di interrogarsi, nella prospettiva del fondamento metafisico (escatologico, propriamente) del concetto di ‘giure’ non e riducibile alla volizione o ragione pratica del legislatore propriamente adgiudicato (alla Aristotele). In questo modo, Cattaneo indica la ricerca del giusto come compito specifico della filosofia del diritto e  pre-annuncia il suo intero percorso filosofico caratterizzato da un assunto basilaro. La filosofia, come assere Socrate, ha il suo carattere precipuo nel porre un problema piuttosto che nel risolverlo o dissolverlo, e, come nel mito platonico della caverna, l’analisi concettuale si muove suI piano della trascendenza escatologica, diverso e superiore a quello della realta empirica o naturale. Anche la filosofia giuridica, in quanto filosofia, e aperta alla escatologia metafisica e, avendo come base la conoscenza del codice u ordine del diritto romano-italiano *positivo*, pone il problema della sua valutazione escatologica alIa luce del valore della dignita kantiana umana e del concetto di un “stato di diritto”. Compito del filosofo non e dunque *descrivere* il diritto positive fattico empirico esistente, ma conoscerlo per condurne una meta-analisi critica al fine del suo adeguamento al modello ideale platonico socratico di giustizia contro il neo-trasimaco di Hart. Il problema giuridico della rivoluzione.  Il concetto di rivoluzione nella scienza e nel diritto, Milano-Varese. Neokantismo nella filosofia del diritto di Treves, in Diritto, cultura e liberta. Diritto e forza. Un delicato rapporto, Paova. La filosofia del diritto: il problema della sua identita, in Filosofia del diritto. Identita scientifica e didattica oggi, Cattania. IL SAGGIO DI MARIO A CATTANEO “CARLO GOLDONI E ALESSANDRO MANZONI  ILLUMINISMO E DIRITTO PENALE  IL tema del rapporto tra Diritto e Letteratura è stato più volte trattato dal Prof. Mario Cattaneo che ha pubblicato i seguenti saggi: ”Riflessioni sul <De Monarchia> di Dante Alighieri” del 1978, “L’Illuminismo giuridico di Alessandro Manzoni” pubblicato nel 1985 nelle Memorie del Seminario della Facoltà di Magistero di Sassari., “Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. illuminismo e diritto penale” nel 1987 e “Suggestioni penalistiche in testi letterari “ del 1992. Nella Introduzione del volume su Goldoni e Manzoni rileva che i rapporti tra diritto e letteratura e la discussione di problemi giuridici in opere letterarie non sono stati in generale molto studiati; non mancano tuttavia alcune ricerche concernenti soprattutto il diritto nel teatro  Sono stati compiuti degli studi sul significato giuridico di alcune opere di Shakespeare da R. von Jhering (1818-1892)  e J. Kohler (1849-1919)  ed è stato esaminato il pensiero di alcuni poeti tra cui in Italia soprattutto Dante del quale si sono occupati Francesco Carrara (1805-1888), Vaturi  , Giorgio Del Vecchio  (1878-1970), Mossini   e lo stesso Cattaneo .  Vi sono importanti opere della letteratura europea che hanno affrontato problemi giuridici rilevanti come il “Michael Kolhaas” pubblicato nel 1810 da H. von  Kleist (1777-1811) e “Delitto e Castigo” di Dostoevskijj ,l’ Autore rileva peraltro che la presenza di temi giuridici nella letteratura è particolarmente rilevante nell’illuminismo data la sensibilità civile di questo movimento. Il volume è dedicato all’esame degli aspetti giuridici – soprattutto di diritto penale – di due grandi autori italiani : Carlo Goldoni ed Alessandro Manzoni.  Cattaneo rileva l’accostamento tra i due grandi letterati deriva da alcuni elementi di contatto : Goldoni passò l’ultima parte della vita in Francia e vide il declino dell’ancien regime francese e Manzoni trascorse parte della giovinezza in Francia nel periodo napoleonico. Goldoni visse gli ultimi anni della sua vita a Parigi nei primi anni della Rivoluzione francese ma non sappiamo come abbia seguito le fasi della stessa mentre Manzoni li seguì e scrisse l’ode “Del trionfo della libertà” che manifesta le opinioni del suo Autore e verso la conclusione della vita scrisse “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859” un saggio che fu pubblicato postumo e che, secondo Cattaneo,  è ispirato a sentimenti di libertà  i due scrittori  hanno un orientamento differente Goldoni, bonario ed ottimista,  esamina gli aspetti gioiosi della vita pur con una punta di satira e critica della società mentre Manzoni esamina gli aspetti essenziali e drammatici  della esistenza umana, sotto il profilo religioso Goldoni risulta tiepido ed alquanto indifferente mentre Manzoni nelle sue opere affronta il problema religioso.  Cattaneo evidenzia che l’accostamento tra i due letterati è già stata istituita da alcuni studiosi e cita l’opinione espressa da Ferdinando Galanti  nel 1973 che evidenzia che Goldoni diede all’ Italia la nuova commedia, il ritratto della vita sulla scena, Manzoni è importante per la nuova tragedia ed il romanzo lasciando un popolo di caratteri originali, vivi e che rimarranno nella memoria di tutti come figure casalinghe, parlanti, che saranno ereditate di generazione in generazione quale caro tesoro di famiglia. Galanti ritiene che Manzoni abbia continuato , nel cammino della verità, l’opera di Goldoni.  Questo giudizio è ripreso da Federico Pellegrini in uno scritto del 1907  che indica come elemento comune <il rispetto della natura> e ricorda i giudizi favorevoli di Manzoni su Goldoni in materia di lingua. Pellegrini rileva che nelle Commedie di Goldoni come nei Promessi Sposi l’esuberanza della fantasia non offende la sobrietà dell’insieme e vi è una processione di personaggi buoni e cattivi al di sopra dei quali vi è una idealità: la vittoria del bene sul male, questo è la morale di tutti i drammi. Pellegrini raffronta ed accosta  i personaggi delle opere dei due letterati e conclude affermando che: i geni si incontrano . Il Mazzoleni ha istituito un confronto fra “I Promessi Sposi” e “La Putta onorata”  commedia in cui Bettina, fidanzata di Pasqualino, viene rapita dal marchese Ottavio. Le coincidenze tra le due opere peraltro escludono l’influsso di Goldoni su Manzoni, per cui vi è affinità non dipendenza.  Il Petronio nel suo libro ”Parini e l ‘illuminismo lombardo” mette in rilievo che. “ben quattro volte l’Italia ha tentato una letteratura realistica” : “Una prima volta con l’illuminismo, col Parini e il Goldoni; una seconda con il romanticismo lombardo, i tentativi generosi del Berchet nel verso e i risultati luminosi del Manzoni nella prosa; una terza col verismo meridionale e la soluzione geniale ma singolare, senza seguito, del Verga; una quarta in questo secondo dopoguerra”    Lina Passarella ha associato Goldoni, Manzoni e Collodi nel suo studio “Goldoni filosofo” ed ha definito i tre letterati “i più grandi umoristi del mondo” scrivendo che “Mentre il Manzoni narra di lotte intime di uomini travolti dalla malvagità e Collodi sorride delle cadute e degli sforzi di quel Pinocchio fatto di legno ed emotivo e vivo di tutti gli elementi dell’essere umano, sintesi di tutta l’umanità aggrappantesi sulla ripida china che conduce a essere degni di chiamarsi umani, il sorriso col quale Goldoni guarda i suoi attori dice che il suo problema è la socialità: scontri ed incontri, beffe e incomprensioni, cadute e risollevamento nelle opinioni altrui”   Cattaneo evidenzia anche che un breve cenno comparativo tra Goldoni e Manzoni sotto il profilo giuridico è svolto anche da A. C. Jemolo  il quale scrive a riguardo che Goldoni, che aveva studiato giurisprudenza, cercò nella commedia “L’Avvocato veneziano” di darci una figurazione di avvocato virtuoso, per cui la toga è davvero una divisa di soldato: Manzoni nel mondo del diritto non ci ha lasciato che la immagine imperitura di Azzecca-garbugli, il ricordo caricaturale delle Gride dei Governatori e quello del conte-zio, alto burocrate del suo tempo, il quadro atroce dei giudici della Colonna infame.  Padoan ha rilevato in un suo scritto che << anche oggi, e non senza qualche ragione, potremmo indicare in Goldoni una polemica contro l’ozio nobiliare, anteriore al Parini; un atteggiamento di interesse verso il mondo degli umili, che non fu senza influenza sul Manzoni…>>>   Cattaneo conclude l’introduzione al volume affermando che le citazioni prima esposte sono sufficienti a giustificare la trattazione dei due autori in un unico volume  , la sua analisi prende in considerazione la visione del problema giuridico dei due scrittori ed analizza il pensiero giuridico nelle sue premesse di fondo .nelle sue fondazioni filosofiche , nella misura in cui fare questo è possibile; a tal fine ritiene che l’elemento unificatore dei due autori in relazione al diritto, indicato anche nel titolo è l’illuminismo   L’autore evidenzia che nel Goldoni avvocato, difensore della professione forense, che mette in rilievo diversi problemi giuridici in molte sue commedie, si risente , in modo non marcato, l’influenza dell’Illuminismo , che è la radice della sua satira sociale, della sua garbata critica della nobiltà e delle disuguaglianze sociali, come in Manzoni critico della giustizia umana e della incertezza giuridica, che satireggia i pubblici funzionari e  gli avvocati, raccogliendo l’eredità del grande nonno Cesare Beccaria (1738-1794)  In conclusione Cattaneo ritiene che, oltre le apparenti differenze,.<< sia rintracciabile, nel pensiero di Goldoni e di Manzoni, il filo conduttore dato dai principi fondamentali dell’illuminismo giuridico, principi che si possono individuare essenzialmente nella certezza del diritto e nella dignità della persona umana>>    Nel primo capitolo del volume l’autore riferisce degli <Studi su Goldoni avvocato> rilevando che la critica ha tenuto presente in modo primario del significato letterario delle sue opere  un breve cenno agli studi giuridici di Goldoni era stato fatto da un grande recensore contemporaneo al commediografo  Friedrich Schiller (1759-1805)  nelle due recensioni  alla traduzione tedesca dei “MÉMOIRES.”  nella letteratura italiana Zanardelli, importante esponente dell’Italia risorgimentale, cita Goldoni in alcuni passi del volume “L’Avvocatura”  soffermandosi sulla figura della commedia “L’Avvocato veneziano” delineato come il tipo ideale dell’avvocato.   Gli scritti italiani più importanti dedicati a Goldoni avvocato, scarsamente  ricordati nelle bibliografie goldoniane, sono opere di due studiosi parenti di Cattaneo. Il primo è l’articolo “Carlo Goldoni avvocato” di Alessandro Pascolato (1841-1905)  il secondo è di Mario Cevolotto , avvocato di Treviso   Il Pascolato rifiuta la tesi che Goldoni sia stato un dilettante della giurisprudenza ed afferma la reale e profonda cultura giuridica attestata dall’esercizio dell’attività forense a Pisa dove vinse persino tre cause in un mese e che evidenziano il carattere schietto e buono anche in mezzo ai volumi dei dottori ; il Cervolotto esamina gli studi giuridici di Goldoni di tre anni a Pavia, ad Udine nel 1726, la sua attività di coadiutore del cancelliere criminale a Chioggia nel 1728 e la sua laurea in legge a Padova del 1731. Un capitolo è dedicato alla attività professionale a Pisa (1744-1748) dove esercitò più nel criminale che nel civile. Il penultimo capitolo è dedicato all’esame degli aspetti giuridici delle commedie goldoniane specie la commedia “L’Avvocato veneziano” che costituisce una esaltazione del foro veneto e altre note commedie. Cervolotto ritiene che Goldoni fu senza dubbio giurista, oltre che avvocato di valore non certo mediocre o comune evidenziando i buoni studi benché saltuari da lui compiuti e la sua conoscenza di molte questioni giuridiche presenti nelle sue opere . Cattaneo cita anche gli studi Gaetano Cozzi  e di Gianni Zennaro  Il secondo capitolo è intitolato “Goldoni, la procedura criminale e Il problema penale”  e Cattaneo riporta un passo dei “Mémoires” di Goldoni che tratta il tema della procedura criminale ed è commentato dal Pascolato che rileva che <<quella procedura criminale, colla continua ricerca della verità, coll’assiduo studio dei caratteri, lo aveva ammaliato: è una lezione interessantissima per lo studio dell’uomo. Di verità e di caratteri Goldoni faceva allora provvisione per i giorni, ancora lontani, della sua gloria. E intanto voleva diventare cancelliere>>   Goldoni sottolinea la presenza nel diritto vigente di limiti posti all’inquisizione dell’imputato, a tutela di questi ma non appaiono nelle sue opere chiari intenti riformatori della procedura criminale. IL terzo capitolo è intitolato “L’Avvocato veneziano : Goldoni fra diritto civile e diritto naturale” Cattaneo rileva che Goldoni stesso mette in rilevo i due fondamentali temi della commedia : la difesa della onorabilità della professione forense mettendo in scena la figura di un avvocato onesto ed onorato e la contrapposizione di due sistemi giuridici e giudiziari, quello di diritto comune e quello veneto, dando a quest’ultimo la preferenza;  la commedia come è stato evidenziato da alcuni studiosi, rompe una tradizione letteraria e teatrale di derisione e messa in cattiva luce della figura dell’avvocato, dell’uomo di legge che troveremo invece nella figura completamente negativa del dottor Azzeccagarbugli ne “I Promessi sposi”   Il quarto capitolo si intitola “Il giusnaturalismo illuministico di Goldoni: <<La Pamela>> e altre opere”  Cattaneo rileva che le radici illuministiche e giusnaturalistiche  del Goldoni si manifestano in rapporto alla procedura penale, al diritto penale, al problema delle fonti del diritto, ai rapporti fra la funzione del giudice e le opinioni dei giuristi. Il giusnaturalismo e l’Illuminismo di Goldoni si manifestano soprattutto nelle opere teatrali aventi come oggetto , o come sottofondo, il tema fondamentale della uguaglianza fra gli uomini, al di là delle differenze fra le classi sociali. Tra le opere significative per questa prospettiva giuridica teatrali emergono “La Pamela”, “Il Cavaliere e la Dama” , “Il Feudatario” “Le femmine puntigliose” il dramma giocoso per musica “I portentosi effetti della Madre Natura” e la tragicommedia (così definita dall’autore stesso) in versi “La bella selvaggia” che trattano il contrasto tra natura e società, infine la commedia in versi “La peruviana” che vengono esaminate negli aspetti più essenzialmente rilevanti sotto il profilo filosofico-giuridico dall’autore   che conclude il capitolo affermando che : “Quando si trattava dei valori supremi, come la pace, anche Goldoni sapeva essere religioso e invocare la grazia del cielo”  La seconda parte del volume è dedicata all’analisi di Alessandro Manzoni.  Il primo capitolo si intitola “Studi su Manzoni e il diritto”  e Cattaneo passa in rassegna gli studi esistenti dedicati espressamente ed esclusivamente o all’idea di giustizia nel pensiero di Manzoni, o agli aspetti giuridici della sua opera. L ‘autore commenta il lungo articolo di Michele Zino del 1916 “Il diritto privato nei “ Promessi Sposi” , esamina poi l’articolo di Alessandro Visconti “Il pensiero storico-giuridico di Alessandro Manzoni nelle sue opere”  del 1919. Il più importante e più completo studio sul pensiero giuridico di Manzoni è il volume di Roberto Lucifredi del 1933 “Alessandro Manzoni e il diritto” . Tale volume si conclude con alcune considerazioni generali sulla mentalità giuridica di Manzoni e Lucifredi ritiene che Manzoni era molto dotato per lo studio del diritto e sarebbe divenuto un ottimo cultore delle discipline giuridiche, un ottimo magistrato, un ottimo avvocato nel senso più nobile della parola e della funzione. . Nel 1939 Fortunato Rizzi ha pubblicato il volume “Alessandro Manzoni. Il Dolore e la Giustizia”  di cui la terza parte è dedicata al problema della giustizia. Nel 1942 è uscito il saggio di Enrico Opocher “ Il problema della giustizia nei Promessi Sposi”  in cui ribadisce che tutto il capolavoro manzoniano è essenzialmente un poema sulla giustizia e conclude affermando: ”I Promessi Sposi non costituiscono soltanto la storia attraverso cui la Provvidenza sana le sofferenze del giusto, ma anche, e vorrei dire soprattutto, la storia attraverso cui la Provvidenza feconda queste sofferenze, facendone lo strumento della redenzione degli oppressori” Nel 1961 il Tanarda ha pubblicato uno scritto “Il diritto nell’opera di Alessandro Manzoni”  in cui ribadisce che Manzoni era cresciuto in una famiglia coperta da una grande aureola giuridica, nipote di Cesare Beccaria, familiare dei Verri, amico di Rosmini; per lo scrittore lombardo l’uso del diritto autentico non può mai contrastare con la morale. Concludo ricordando la  strenna natalizia dell’editore Giuffrè pubblicata in occasione del bicentenario manzoniano con il titolo “<Se  a minacciare un curato c’è penale>”Il diritto nei Promessi Sposi” con saggi di noti docenti quali E. Opocher e S. Cotta. (1920-2007) Il secondo capitolo si intitola “Valori morali, giustizia, diritto naturale” Cattaneo ritiene opportuno esaminare la concezione manzoniana della giustizia, anche nelle sue premesse teoriche sulla base sia di alcuni brani, di pensieri inediti e di scritti di sapore filosofico. Dalla analisi di due postille redatte da Manzoni e da un brano scritto dallo stesso Cattaneo deduce che il grande scrittore lombardo esalta la tesi della certezza delle verità morali, tra le quali l’idea del giusto istituendo un paragone tra verità morali e verità matematiche.                                 Secondo Cattaneo questo brano manzoniano è affine alla dottrina platonica delle idee espressa nel dialogo “Parmenide”  , vi è inoltre una affinità con Kant che afferma che non è cosa assurda pretendere di far derivare il concetto di virtù dall’esperienza, perché ciò significherebbe fare della virtù qualcosa di ambiguo e di mutevole secondo le circostanza. In realtà è sulla base  della idea di virtù che si giudicano gli esempi empirici di virtù e di comportamento morale.  L’Autore richiama anche la filosofia di Rosmini , il più grande filosofo italiano dell’Ottocento , la cui filosofia si fonda sull’idea dell’essere e cita un brano del “Nuovo saggio sull’origine delle idee”  .Va anche evidenziato che Manzoni ribadisce una sostanziale e piena identità fra morale e religione, come si rileva dal capitolo III delle “Osservazioni sulla morale cattolica “ dedicato alla critica della distinzione fra filosofia morale e teologica . Cattaneo sottolinea che per Manzoni le leggi umane non raggiungono mai la giustizia, viceversa, la religione conduce naturalmente alla giustizia, senza ostacoli, perché si appella alla coscienza, perché porta a dare volontariamente (in vista di un bene futuro), il che non provoca opposizioni, ma solo ringraziamenti e benedizioni.  Il capitolo terzo si intitola “Le gride e l’illuminismo giuridico ne < I Promessi sposi>” .  Cattaneo rileva che se il problema morale e religioso della giustizia pervade tutta l’opera di Manzoni, ed in particolare il suo celebre romanzo, Stefano Stampa, figliastro dello scrittore lombardo, narra che Manzoni dichiarò che la prima idea del suo romanzo gli venne dalla lettura della grida fatta vedere dal dottor Azzeccagarbugli a Renzo, nella quale sono minacciate pene contro coloro i quali <con tirannide> e con minacce costringono un prete a non celebrare un matrimonio .  Dall’esame dei brani di ”Fermo e Lucia”  e dei “I Promessi sposi” risulta che Manzoni muove una pesante critica al sistema, in quei tempi diffuso, di consorterie e di caste , inoltre, descrivendo criticamente la società e la situazione giuridica di Milano sotto la dominazione spagnola, indica chiaramente il modo in cui le leggi penali non dovrebbero essere e le caratteristiche che le stesse non dovrebbero avere  Il risultato pratico di quella legislazione è da un lato l’impunità del  colpevole e dall’altro la vessazione degli innocenti e dei privati indifesi da parte dell’autorità  Manzoni raccoglie l’eredità dell’Illuminismo giuridico nella critica alla proliferazioni delle leggi e dell’incertezza giuridica, che può sorgere sia dalla mancanza di determinazione precisa delle fattispecie penali, sia dalla enumerazione eccessivamente prolissa dei delitti, a questa critica è connessa la denuncia dell’arbitrio degli esecutori della legge, che possono aumentare a capriccio le pene delle gride ed ai quali è sottoposta ogni mossa dei cittadini  Lo scrittore lombardo critica anche la comminazione di pene sproporzionate , misura considerata ingiusta ed inefficace per la prevenzione dei crimini , l’impunità dei colpevoli è indicata dagli illuministi come il risultato pratico che spesso deriva dalla eccessiva severità o crudeltà delle pene.   Il quarto capitolo si intitola  “La critica dell’utilitarismo e della prevenzione sociale” . Cattaneo sottolinea che la sfiducia di Manzoni nella giustizia penale umana si traduce in un atteggiamento critico verso la prevenzione generale come compito e funzione della pena, che si riscontra in numerosi passi de “I Promessi Sposi” ; l’autore cita a proposito il brano del capitolo V in cui è inserita la conversazione alla tavola di Don Rodrigo, a cui assiste Padre Cristoforo, relativa al tema della carestia. Il conte Attilio raccoglie la tesi che la carestia dipenda dagli intercettatori e dai fornai che nascondono il grano e ribadisce che bisogna impiccare senza misericordia tali delinquenti senza processi, in tal modo il grano sarebbe saltato fuori da tutte le parti. . Questo brano rappresenta la mentalità violenta ed aggressiva che sta alla base della teoria della pena come <esempio>, cioè una pena esemplare esorbitante rispetto alla effettiva colpevolezza del reo , mirata esclusivamente a <dare un esempio> agli altri, per uno scopo sociale ed utilitaristico; in tal modo viene peraltro giustificata  la punizione dell’innocente. In altri passi del celebre romanzo manzoniano si rileva un atteggiamento mirato ad indicare non solo l’ingiustizia ma anche l’inefficacia e l’inutilità della prevenzione generale, unitamene ad una condanna della moltiplicazione dei supplizi, che finisce per favorire l’impunità, come messo n evidenza dagli scritti di molti giuristi illuministi. Significativo è a riguardo la conversione dell’Innominato e le ragioni per cui il potere pubblico non intende procedere contro lo stesso per i suoi passati delitti, in al modo viene dimostrata l’inefficacia della punizione nel caso di una persona che ha cambiato vita perché questa potrebbe avere solo l’effetto opposto a quello voluto  Nel penultimo capitolo il commento di Manzoni sulla situazione del bando di Renzo dal Ducato di Milano dopo le vicende della giornata di San Martino denota la tesi dell’impunità come risultato dell’eccessiva proliferazione di minacce legislative e del carattere esorbitante, situazione che porta ad una frattura tra il comando legislativo e l’esecuzione della pena.  Cattaneo conclude il capitolo istituendo un parallelo sostanziale ed oggettivo (se pure a qualcuno potrà apparire sforzato) tra Manzoni e Kant, dato che:  “la visione della morale, nonché del diritto, ed in particolare del diritto penale è svolta in una prospettiva anti-empiristica e ani-utilitaristica, ed è caratterizzata da un <liberalismo cristiano >, vòlto a difendere la persona umana da ogni prevenzione collettivistica e <sociale>”   Il quinto capitolo si intitola“ La storia della Colonna Infame”  L’autore ribadisce che il motivo fondamentale della critica conto la ragione di stato, contro l’utilitarismo sociale, contro il prevalere dell’interesse generale  e sociale sui diritti individuali sta alla base dello scritto “Storia della Colonna Infame” del 1842 due anni dopo l’edizione definitiva de “I Promessi Sposi”. . Di recente tale opera ha sollevato critiche severe sotto il profilo storiografico e si è accusato il Manzoni di non essere uno storico , ma di guardare alla storia da moralista, sul modello del cosiddetto <astrattismo> illuministico settecentesco , e quindi di non studiare le vicende storiche con partecipazione e simpatia ma di giudicare i comportamenti umani secondo un codice morale superiore Tale critica è stata formalizzata da Benedetto Croce  . Dopo una lunga ed attenta analisi dello scritto e di alcuni dei suoi maggiori studiosi Cattaneo conclude che i punti di vista in relazione ai quali il volume manzoniano ha dato un importante contributo sono tre: 1) Manzoni ha dato un contributo alla comprensione della storia, affermandone la non inevitabilità e questo punto ha suscitato le maggiori discussioni interpretative e le reazioni negative dei seguaci dello storicismo. 2) Tale scritto manzoniano, come ha sottolineato Giuseppe Rovani, <non è per nulla inferiore alle altre opere del Manzoni , anzi rivela il suo ingegno e la sua dottrina e la profonda sua acutezza anche nelle materie giuridiche>  Tale scritto è un’opera giuridica, è senza dubbio la più giuridica del Manzoni. 3) Il significato più importante del libro è quello morale, come rilevato da Tenca , Rovani e Passerin d’Entreves (1902-1985) e consiste nella difesa del libero arbitrio , della libertà del volere e nella rivendicazione della responsabilità morale dell’uomo. Libertà interiore dell’uomo, responsabilità morale, dignità umana; questo è il trinomio in cui Manzoni fonda la sua lezione morale o, come potremmo dire, la sua lezione etico-giuridica   Il sesto capitolo si intitola “Manzoni e la criminologia”  L’autore evidenzia che l’analisi della “Storia della Colonna Infame” ha portato a mettere in rilievo l’idea del libero arbitrio dell’uomo quale elemento centrale dell’impostazione manzoniana dei problemi giuridico-penali, della sua condanna dell’operato dei giudici milanesi del 1630. Vi sono studiosi come Graf e Sergi  che hanno creduto di vedere in tale opera di Manzoni ed in alcune figure di criminali de “I Promessi Sposi” dei precorrimenti delle correnti criminologiche sviluppatesi nell’ambito della Scuola positiva di diritto penale, che, rileva Cattaneo, ha respinto l’idea del libero arbitrio dal problema dell’imputabilità penale ed ha seguito la strada del determinismo . L’autore esamina in particolare lo scritto di C Leggiadri Laura “Il delinquente ne <Promessi Sposi> rivolto ad interpretare il pensiero manzoniano in chiave naturalistico-deterministica   e lo scritto del Preve “Manzoni penalista” che segue l’interpretazione del Leggiadri Laura e delinea nelle figure dei criminali del romanzo i tipi classificati dalla scienza lombrosiana. Dopo un attento esame critico di numerosi passi delle opere dei due autori prima citati e di altri studiosi  Cattaneo conclude che non ritiene valida la concezione di Manzoni come precursore del positivismo penale e criminologico, dato che per i positivisti non è questione di giustizia e di libertà del volere, bensì di determinismo e di difesa sociale   Il settimo si intitola “Manzoni teorico generale del diritto ?”  Secondo l’autore la forma mentis giuridica di Manzoni appare evidente anche negli scritti storici e storico-giuridici, in particolare essa si manifesta in modo tipico nel “Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia”  oltre che nello scritto postumo sulla Rivoluzione francese. Cattaneo mette in evidenza un aspetto meno noto che è peraltro presente nel libro: le osservazioni concernenti il rapporto tra Romani e Longobardi e le leggi regolanti la loro convivenza, osservazioni che sono di natura di <<teoria generale del diritto>. Le osservazioni riguardano  in particolare la concessione data agli Italiani di vivere secondo la legge romana che fu considerata dal Muratori <un bel tratto di clemenza, e una prova, fra le mole, della dolcezza e saviezza dei conquistatori longobardi> Manzoni dimostra una sensibilità moderna perché si preoccupa secondo Cattaneo di rendersi conto di come fosse strutturato l’ordinamento giuridico sotto i Longobardi e evidenzia la <struttura a gradi> dell’ordinamento giuridico, per dirla come Kelsen  e definisce alcune norme <leggi costituzionali>, le leggi così designate sono le <norme di competenza> di Ross  e le <norme secondarie> di Hart , cioè le norme che conferiscono il potere di emanare, modificare, abrogare le altre norme, concernenti direttamente il comportamento dei cittadini. Manzoni si preoccupa di esaminare quali fossero le norme di statuto, di competenza o secondarie, espressione del potere longobardo, le quali regolavano la permanenza delle leggi romane, che regolavano il comportamento dei cittadini di origine romana.  L’ottavo capitola si intitola “Manzoni e la Rivoluzione francese”  Il rapporto tra Manzoni e la Rivoluzione francese durò in varie forme per tutta la vita del letterato lombardo. Questi visse molti anni in Francia nel periodo napoleonico, nel 1800 a 15 anni scrisse il “Trionfo della Libertà“ un poemetto di sentimenti giacobini ed anti-monarchici  con la condanna delle spietate repressioni penali. Nel ”5 Maggio” Manzoni fornisce un giudizio equanime su Napoleone  dapprima glorioso e poi rapidamente caduto e rileva la caducità degli idoli umani  Nel dialogo “Dell’Invenzione” Manzoni  esamina la figura di Robespierre ed abbandona il cupo giudizio di <mostro> del politico francese pur non abbandonando la tesi di una responsabilità avuta da Robespierre nel Terrore ridimensionata dalle moderne storiografie  Lo studio che esprime nel modo più chiaro il rapporto di Manzoni con la Rivoluzione francese è il saggio pubblicato postumo a cura di Ruggero Bonghi “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859”   I motivi su cui si basa La critica di Manzoni alla Rivoluzione francese sono  A) La mancanza di un giusto motivo per la distruzione del governo di Luigi XVI e di una autorità competente nei deputati del Terzo Stato che ne furono gli autori B) Questa distruzione avvenne indirettamente ma effettivamente in conseguenza dei loro atti  C) Il nesso di queste cause con gli effetti indicati Le riforme legittime, sentite dal popolo francese, avrebbero potuto avvenire per vie pacifiche e legali;  Manzoni peraltro non si rende conto che la sua critica non tiene conto della situazione dell’ancien régime, in cui il potere trovava la legittimità dal diritto divino mentre la critica da lui avanzata è accettabile entro i presupposi giuridico-costituzionali creati dalla Rivoluzione francese                                       Il letterato lombardo sottolinea l’aumento del dispotismo  dal Terrore, al Direttorio, al bonapartismo come risultato immediato degli atti iniziali della Rivoluzione francese. Trattando della “Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo” Manzoni discute il suo rapporto con la precedente Dichiarazione americana sottolineando le differenze. Lo scritto di Manzoni ha senza dubbio il merito di evidenziare il contrasto fra gli ideali e le realizzazioni pratiche della Rivoluzione francese, nella sua critica lo scrittore lombardo critica, come in altre opere, il potere politico umano che riveste in forme giuridiche la sostanza dell’arbitrio e della prepotenza ed ad esso contrappone il valore assoluto dell’idea del diritto , che è <una verità>  Tale considerazione induce Cattaneo a proporre un altro parallelo fra la posizione di Manzoni e quelle di Kant e Robespierre. Kant ha negato il diritto di un popolo alla rivoluzione ed ha considerato l’esecuzione di Luigi XVI un crimine inespiabile ma nello stesso tempo è stato un convinto sostenitore della Rivoluzione francese ; Robespierre <rivoluzionario legalitario, giudicato non equamente dal Manzoni, fu un uomo dal forte sentimento giuridico e , nel momento della sua caduta ,pur  proscritto e ricercato all’Hotel de la Ville, benché fosse esortato dagli amici a redigere un appello all’insurrezione popolare esitò e si chiese <Au nom de qui?>   come è attestato dalla sorella Charlotte  Nella lunga ed articolata conclusione  Cattaneo ribadisce che il pensiero giuridico di due letterati ha numerosi elementi in comune e svolge alcune considerazioni sul metodo seguito. L’autore evidenzia che il suo saggio ha <un taglio diverso> dagli studi citati sull’attività forense di Goldoni , sul significato riformatore delle sue commedie e sulle implicazioni politiche del pensiero di  Manzoni. Il punto di vista seguito nel volume dal docente è quello della considerazione a un lato del diritto come <categoria autonoma>, dotato delle sue specifiche caratteristiche e dall’altro del diritto inteso come fondato filosoficamente, posto in relazione con problemi storici, politici e sociali. Lo studio degli aspetti giuridici e dei problema del diritto nl pensiero e nell’opera di Goldoni e Manzoni non è stato disgiunto all’esame dei temi della riforma sociale e della riflessione politica nella loro attività letteraria. Il punto di vista seguito sempre dall’autore  , come da lui steso dichiarato, è stato quindi¨<quello dell’ autonomia del diritto  , ma non inteso secondo una prospettiva meramente logico-formale, bensì basato su una fondazione filosofica, e dotato di rilevanza politica. > . L’angolo visuale usato come punto di riferimento per i due letterati è l’illuminismo giuridico. L’illuminismo  è coevo di Goldoni, che anticipa Rousseau nella proclamazione del principio dell’uguaglianza naturale ed è aperto al problema della riforma sociale ,come è riconosciuto da numerosi interpreti delle sue opere. I rapporti tra Goldoni e l’illuminismo giuridico sono più evidenti nel passo dei “Mémoires “ sulla procedura criminale e nelle commedie L’uomo prudente e L’Avvocato veneziano  . Manzoni è posteriore all’illuminismo ma l’autore ha cercato di indicare la presenza di una eredità Illuministica , con riferimento ai problemi giuridici, ne    “I Promessi sposi” e nella “Storia della Colonna infame” dove peraltro sono presenti degli elementi di superamento delle concezioni illuministiche.  Il docente ritiene di rifiutare la tesi diffusa di coloro che interpretano Manzoni esclusivamente dall’angolo visuale della linea agostiniana-pascaliana con venature giansenistiche negando il profondo legame con l’illuminismo, in realtà Manzoni si dimostra erede dell’illuminismo per l’habitus mentale razionalistico del suo pensiero, per la sua considerazione della ragione e per la sua ricerca delle radici razionali della fede; in tal modo il grande scrittore lombardo fa propria l’eredità migliore dell’illuminismo, il filone etico-religioso che si contrappone al filone ateo e materialistico  di alcune correnti.   Ragonese   e Caretti  hanno bene sottolineato i rapporti tra Manzoni  e l’illuminismo. Cattaneo conclude il suo volume ribadendo che il motivo comune fondamentale di Goldoni e Manzoni è il principio cristiano ed illuministico (e kantiano) della dignità umana.  In Goldoni questo principio è meno evidente ma è legato soprattutto all’idea della comune natura umana, al di là delle differenze sociali, che appare in numerose commedie ed opere drammatiche, in Manzoni la difesa della dignità umana è svolta ad un livello di maggior profondità ed è connessa ad una prospettiva religiosa come traspare chiaramente dal testo recitato dal coro de “Il Conte di Carmagnola”   Nella Appendice  viene riproposto lo studio di Alessandro Pascolato “Carlo Goldoni Avvocato” pubblicato su “Nuova Antologia” il 15 dicembre 1883 CAPITOLO V  IL VOLUME DI MARIO A CATTANEO  “SUGGESTIONI PENALISTICHE IN TESTI LETTERARI”  Nel 1992 Cattaneo ha  pubblicato  il volume “Suggestioni penalistiche in testi letterari”. Il libro, che  è dedicato alla memoria del Prof. Renato Treves, per molti anni ordinario di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Milano, tratta le opere di numerosi letterati. Il libro , che si articola in 12 capitoli ed una appendice, tratta di  scrittori  che nelle loro opere hanno affrontato il  tema della pena o problemi di natura giuridica. Il lavoro , rileva l’Autore, non ha avuto una genesi unitaria  Il primo saggio scritto riguardava Giuseppe Parini (1729-1799), un “poeta civile” rappresentante di un Illuminismo cristiano ed equilibrato , è seguito il saggio su Collodi (1826-1890), l’uomo del Risorgimento che ha combattuto a Curtatone e che mostra nel suo aperto scetticismo nei confronti della legge e dell’autorità costituita una opinione diffusa di molti uomini dell’Italia post-unitaria tra cui il grande giurista liberale Francesco Carrara (1805-1888)  .Il terzo saggio è stato dedicato a Foscolo (1778 -1827) che nello scritto < L’orazione sulla giustizia> ed altri due scritti <La difesa del sergente Armani> ed <una lettera al “Monitore Italiano”> tratta problemi relativi alla pena  Il primo saggio del volume si intitola “Studi Dante e il diritto penale”  Lo studio riguarda il rapporto tra il grande poeta Dante (1265-1321) ed il diritto penale. . Cattaneo rileva che gli studi di storici e filosofi del diritto che hanno trattato il pensiero giuridico di Dante hanno trascurato l’aspetto penalistico. Dante non si è occupato di diritto penale ma l’analisi del suo capolavoro mostra un elaborato sistema di rapporti tra colpa e pena. Numerosi studiosi hanno rilevato che le pene crudeli descritte nell’Inferno del poema dantesco sono molto lontane dalle prospettive della legislazione penale moderna anche se occorre distinguere tra la prospettiva morale e religiosa del poema dantesco e le finalità delle legislazioni penali attuali Dante peraltro opera una distinzione tra peccati puniti fuori e dentro la città di Dite che può corrispondere  ad una distinzione tra peccati e delitti, il più rilevante contributo indiretto dato da Dante al diritto penale è il criterio di graduazione delle gravità delle colpe e le corrispondenti pene come è stato evidenziato da Giorgio Del Vecchio.   Il maggior contributo diretto di  Dante alla cultura giuridica moderna sono l’affermazione del principio di uguaglianza e di personalità delle pene e l’affermazione della volontà del volere dell’uomo quale presupposto della conseguente valutazione del merito o del demerito delle sue azioni.  Cattaneo conclude che :” Certamente , fare apparire Dante come un grande giurista, un grande penalista, può risultare sforzato e retorico,…..Ma nello stesso tempo, non è assolutamente possibile e lecito ignorare il contributo, diretto o indiretto, che Dante ha dato anche al diritto penale; la Divina Commedia è un costante punto di riferimento per qualunque problema, religioso, filosofico, umano;  ricordo che mio Padre diceva che nella Commedia <<c’è tutto>>”  Nella introduzione ho accennato a due recenti approfonditi studi su Dante ed il diritto , un tema caro a molti studiosi  Il secondo saggio si intitola “Giuseppe Parini e L’Illuminismo giuridico”.   Cattaneo rileva che Parini, sacerdote non per vocazione ma uomo profondamente credente, fu sensibile a numerosi ideali illuministici di riforma civile ed attraverso una delle sue Odi  riprende le idee illuministiche sul diritto penale, che propugnavano il principio umanitario della doverosità della mitigazione delle pene considerando l’inefficacia di pene eccessive in determinati contesti sociali. Vi è dunque una continuità di principi da Parini, cattolico ed illuminista, a Manzoni e Rosmini (1797-1855), cattolici liberali, una continuità di principi ed ideali umanitari relativi al problema della pena e nell’ode Il bisogno è presente una concezione penale cristiana ed illuminista.  Cattaneo conclude il suo saggio affermando che Parini poeta civile e morale interpreta il momento migliore dell’Illuminismo e si fa portavoce dei suoi più significativi valori .  Il terzo saggio si intitola “Ugo Foscolo e la giustizia come forza”.   L’Autore rileva che notoriamente Foscolo fu un poeta impegnato nelle vicende politiche del suo tempo segnato dalla rivoluzione francese e dall’epopea napoleonica. Negli scritti di natura penalistica  il poeta accoglie i principi della dottrina giuridica illuministica, come la difesa della certezza del diritto ed il rispetto delle garanzie processuali. Foscolo inoltre critica la teoria della retribuzione morale e quella della prevenzione generale. Il quarto capitolo è intitolato . “Le <veglie notturne> di Bonaventura e la critica dei giuristi”  un libro tedesco poco conosciuto in Italia, opera uscita anonima nel 1805 a Penig (Sassonia) presso il poco noto editore F Dienemann , che l’aveva pubblicata nel suo <Journal von neuen deutschen Original Romanen>. Cattaneo evidenzia che nelle pagine dedicate a temi giuridici viene messo in rilievo l’invito a rendere il diritto più umano ed a metterlo al servizio degli uomini. La descrizione del giudice freddo paragonato ad una macchina o ad una marionetta , il rimprovero ai giuristi che si assumono il compito di tormentare i corpi, come i teologhi tormentano le anime, l’uccisione della giustizia da parte dei tribunali, il richiamo al diritto naturale , che dovrebbe essere il vero diritto positivo, la critica di una giurisprudenza svincolata dalla morale  sono chiari segnali di una aspirazione ad umanizzare il diritto, specie quello penale. Il V capitolo è intitolato  “Heinrich Heine e la satira delle teorie della pena”   L’Autore analizza il breve scritto che Heine (1797-1856) aveva aggiunto quale appendice al suo volume “ Lutezia”, opera scritta tra il 1840 ed il 1843. Lo scritto è dedicato  al problema della riforma delle prigioni ed alla legislazione penale e porta il titolo <Gefaengnisreform und Strafgesetzgebung> .  Il saggio, pur nella brevità, è un esame attento delle teorie fondamentali della pena. Cattaneo suggerisce  che l’analisi critica del poeta si traduce in una satira delle dottrine della retribuzione, dell’intimidazione e dell’emenda e coglie i punti centrali di tali concezioni. Heine sottolinea l’ingiustizia della teoria dell’intimidazione generale  ed evidenzia il carattere patriarcale e paternalistico delle teoria dell’emenda. Nell’esaminare il principio di una prevenzione dei delitti commessi con mezzi diversi dalla pena, Heine ritiene che bisogna agire con durezza , reclusione ed addirittura con la pena di morte concepite come prospettiva di difesa sociale. Cattaneo rileva che è sempre più chiara e più facile la parte negativa della filosofia penale , cioè la critica delle dottrine sulle pena che la parte costruttiva  cioè l’indicazione di un fine positivo nella funzione penale.  Heine critica inoltre il sistema carcerario filadelfiano e quello auburniano  Il capitolo VI è intitolato “Victor Hugo e la pena come fonte di delitti”  L’Autore rileva che il problema giuridico penale è presente nell’opera letteraria di Hugo (1802-1885) con una severa critica del sistema penale dell’epoca e la sua difesa della dignità dell’uomo. Il problema emerge chiaramente nel celebre romanzo “Les Miserables”  e nel suo protagonista l’ex-forzato Jean Valjean. Il romanzo affronta il problema di una pena sproporzionata ed inumana, che è causa di nuovi delitti e di una spirale indefinita di reati e pene successive. Il tema è sviluppato nella figura centrale di Valjean.  Tutte le tragiche vicende del protagonista nascono da un tentativo di furto dovuto alla miseria ed alla fame; a causa del furto di un pezzo di pane ,che poi viene gettato via ,Valjean è condannato a 5 anni di detenzione e, in seguito a tre successive evasioni di breve durata, la sua detenzione dura ben 19 anni.  Vi è una enorme sproporzione  tra il danno causato dal reato e la pena che trasforma ed indurisce Valjean, la cui psicologia viene analizzata in profondità da Hugo. La pena continua a gravare su Valjean anche dopo la liberazione per cui questi riesce a lavorare solo per una giornata data la sua qualità di ex-forzato. Hugo critica sia l’atteggiamento di diffida e di rifiuto di tutta la popolazione sia la macchia di infamia stabilita dalla legge . Cattaneo rileva che è ammirabile la battaglia combattuta da Hugo contro la pena di morte, la sua  denuncia della sproporzione tra la gravità dei delitti e le pene, la critica dell’assurdo criterio nel valutare la recidiva. Queste battaglie  sono importanti contributi all’evoluzione del diritto penale ed alla difesa della dignità umana.    Il settimo capitolo è intitolato “Dostoevskij la coscienza e la pena” .  L’Autore evidenzia la centralità del tema del delitto, della colpa e della pena nello scrittore russo, come è stato rilevato nel profondo scritto di Italo Mancini , che ha evidenziato sia la validità di una ricerca su Dostoevskij pensatore e filosofo sia  che per lo scrittore russo < la questione penale non rappresenta solo un contenuto ma il contenuto>. Pietro Gobetti a proposito dei personaggi dello scrittore russo ha rilevato che <I suoi personaggi non si sforzano mai di arrivare ad una verità, ma piuttosto di chiarire e capire sé stessi>>  Nel volume “I ricordi della casa dei morti “ lo scrittore russo ricorda l’esperienza personale della prigionia in Siberia e sottolinea chiaramente l’incapacità  del carcere di procurare l’emenda del reo dato che Dostoevskij rileva che nel corso di parecchi anni non ha visto tra quella gente il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per il delitto commesso; lo scrittore russo  indica anche nella solitudine e nella mancanza di privatezza un elemento di particolare tormento della prigione.  Il lavoro nella prigione, rileva lo scrittore russo,  non era faticoso ma era penoso perché obbligato sotto la minaccia di un bastone. Dostoevskij evidenzia anche l’ineguaglianza della pena per i medesimi delitti in relazione alla classe sociale, da cui deriva l’ingiustizia e l’inefficacia della pena. Radicale è la sua critica svolta nei confronti del regolamento carcerario e del comportamento ottuso e crudele delle guardie carcerarie , severo è il giudizio sulla prassi della fustigazione definita una piaga della società> Nel <L’idiota>  lo scrittore russo pone un giudizio duro e severo  sulla pena di morte in bocca al principe  Miskin nelle prime pagine del romanzo. Nel brano Dostoevskij sottolinea la svalutazione del carattere meno afflittivo della decapitazione rispetto ai supplizi accompagnati da tormenti e la sofferenza morale generata dalla attesa della esecuzione, che è peggiore della sofferenza fisica. Nel romanzo “Delitto e castigo”  Dostoevskij evidenzia la tesi della necessità della pena giuridica quale espiazione della colpa e come risultato del rimorso avvertito dal colpevole.  La trama del romanzo mette in luce la progressiva conversione, il rimorso e la ricerca di espiazione del colpevole. Cattaneo sottolinea che il Leitmotiv del celebre romanzo è la ricerca della espiazione sulla base di una spinta interiore e del rimorso e che  tale impostazione pone lo scrittore russo sulla linea del Platone del Gorgia e di  Boezio nel <Consolatio philosophiae>. La conclusione giuridica processuale del romanzo rileva una sensibilità giuridica moderna che pende in considerazione le circostanze attenuanti, le cause sociali, psicologiche e morali del delitto ed il recupero morale e sociale del colpevole. Il finale giuridico evidenzia la complessità del problema penale e l’interesse di Dostoevskij , spirito umanitario e riformatore,  per la riforma del procedimento penale, d’altra parte, sul piano morale, rileva il  desiderio di espiazione che conduce all’emenda.  Dostoevskij  manifesta l’atteggiamento del cristiano che si sente corresponsabile delle colpe degli altri e riprende le parole di Cristo “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” Cattaneo ribadisce che per Dostoevskij il punto che più conta è il rimorso per la colpa commessa e la auto-condanna da parte del delinquente . La pena giuridica non ha rilevanza, ciò che conta è il processo di autocondanna, di espiazione e di redenzione che avviene nella coscienza del colpevole  Il capitolo VIII  è intitolato “Tolstoj e la abolizione della pena” . L’Autore ribadisce che lo scrittore russo postula una radicale abolizione del diritto penale in una prospettiva di amore cristiano e di non violenza. I temi giuridici vengono affrontati da Tolstoj un due opere “Resurrezione” e la novella “Il racconto di Koni”.   Il romanzo Resurrezione  è fondato su una vicenda processuale , la condanna ad alcuni anni di deportazione in Siberia della protagonista Ekaterina Maslova , diventata prostituta a seguito di tristi vicende. Tolstoj analizza il processo e la successiva pena dei forzati deportati ed evidenzia che negli istituti di pena gli uomini erano sottoposti ad ogni genere di umiliazioni inutili, catene, teste rasate , divise infamanti per cui si inculcava l’idea che qualsiasi violenza, crudeltà e atrocità era autorizzata dal governo per chi si trovava in prigionia nella sventura. Lo scrittore sottolinea il distacco tra la condanna e la concreta esecuzione della pena con le sue brutalità. In Tolstoj il tema fondamentale è l’indicazione dell’ingiustizia dell’intero sistema repressivo-penale e la sottolineatura delle cause sociali dei delitti come Victor Hugo.  Lo scrittore  suggerisce anche la necessità di abolire la pena e sostituirla con il perdono, un ideale sublime ma difficile da realizzare in pratica e che indica tutta la complessità del problema, Cattaneo si chiede se si tratta “del sogno di un visionario , una utopia generosa o di un ideale verso cui la società deve tendere.”    Il nono capitolo è intitolato “Pinocchio e il diritto”  L’Autore rileva che l’opera di Collodi è stata oggetto di numerose indagini  . Le ricerche sulla natura pedagogica ed educativa sono state sviluppate da Bertacchini , Il testo di Collodi è stato esaminato sotto il profilo filosofico e teologico nei due volumi scritti da Vittorio Frosini e Giacomo Biffi  . Frosini evidenzia che: << Il mito di Pinocchio si rivela……come un mito  tipicamente risorgimentale,  al tramonto di un’epoca; e anzi proprio di un risorgimentalismo di stampo repubblicano e mazziniano>> basato su principi di umanitarismo positivistico. Giacomo Biffi sottolinea che Pinocchio fu scritto quando l’Italia era unita politicamente ma non era una nazione consapevole di sé e concorde sui valori che danno senso alla vita. Il Collodi aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, un carisma profetico più alto della sua militanza politica, così poté porsi in comunione forse ignara con la fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo.  . La lettura di Pinocchio evidenzia interessanti problemi e temi di natura giuridica e filosofico-giuridica e lo scritto di Cattaneo evidenzia soprattutto i temi più rilevanti dal punto di vista penalistico.  Cattaneo sottolinea che Carlo Lorenzini (1826-1890) (ovvero Carlo Collodi) era un fine umorista  che sapeva cogliere il lato ridicolo ed insieme  doloroso della vita umana (opinione espressa anche da Lina Passarella nel suo scritto prima citato su Goldoni filosofo), e cita  ad esempio l’episodio dei pareri opposti dei medici al capezzale di Pinocchio in casa della Fata dal Corvo e dalla Civetta e quello della condanna del burattino derubato degli zecchini dal giudice-scimmione. Nel terzo capitolo Pinocchio scappa di casa ed è acciuffato da un carabiniere  per il naso (Cattaneo rileva in tal modo la naturale predisposizione dei cittadini ad essere oggetto delle interferenza da parte del potere); dopo la riconsegna di Pinocchio a Geppetto e le sue proteste il carabiniere, a seguito dei commenti della gente, rimette in libertà il burattino e conduce in prigione Geppetto che piange disperatamente. L’episodio mostra un membro dell’apparato giudiziario che arresta Geppetto sulla base delle opinioni della <voce pubblica> compiendo un atto arbitrario senza motivazioni precise e mostra un innocente debole ed inerme che non riesce a difendersi di fronte all’atto arbitrario del potere.  Un altro episodio interessante è narrato nel capitolo XXVII, dove si descrive la battaglia con i libri di testo fra Pinocchio ed i suoi compagni. Un grosso volume scagliato verso Pinocchio colpisce alla tesa un compagno che cade come morto. Tutti i ragazzi fuggono e rimane Pinocchio a soccorrere il compagno. Arrivano due carabinieri che ,dopo un breve colloquio, arrestano Pinocchio malgrado le sue dichiarazioni di innocenza. Il burattino fugge inseguito dal cane Alidoro al quale salva la vita mentre stava per annegare. Cattaneo evidenzia a riguardo che la vittima del potere è l’innocente , l’unico trovato vicino ad Eugenio, che viene arrestato perché le circostanze sono contro di lui La frase dei carabinieri “Basta così” è commentata da Biffi che evidenzia che l’invito a ragionare insospettisce spesso l’autorità, la quale è incline a tagliar corto. In molte vicende giudiziarie si nota che una concatenazione di indizi sfavorevoli dà l’avvio a processi indiziari seguiti da condanne di persone innocenti.  Un altro episodio clamoroso di palese ingiustizia è la vicenda che conclude il rapporto tra Pinocchio ed il due truffatori La Volpe ed il Gatto.  Pinocchio incontra la Volpe ed il Gatto e viene convinto a seminare i 4 zecchini d’oro nel Campo dei miracoli vicino alla città di Acchiappacitrulli. Tale città descritta minuziosamente  da Collodi  è ,secondo Cattaneo, e il simbolo dell’ingiustizia e di un diritto positivo basato sul puro potere politico; tale città esprime in modo chiaro il pericolo del prevalere della politica sulla giustizia  nella amministrazione della giustizia, come dimostra l’episodio giudiziario che riguarda Pinocchio. Pinocchio accortosi di essere stato derubato delle monete d’oro torna in città e denunzia al giudice i due malandrini che lo avevano derubato, ma ,invece di ottenere giustizia, è vittima di una tragica beffa.  Il giudice scimmione, al quale Pinocchio si era rivolto,  ordina che il burattino  venga messo in prigione. L’ordine viene eseguito da due mastini che tappano la bocca al burattino , il quale resta 4 mesi in prigione e viene liberato a seguito di una vittoria dell’imperatore della città di Acchiappacitrulli.  Per ottenere la libertà Pinocchio dichiara al carceriere di appartenere al numero dei malandrini e così viene salutato rispettosamente e può scappare. Cattaneo rileva che la figura dello scimmione sottolinea la miseria della giustizia umana ed il carattere insoddisfacente dei tribunali umani dove, come scrive Platone, si discute sulle “ombre della giustizia” Biffi nel suo volume rileva dapprima l’aspetto positivo della figura del giudice che è descritto come un personaggio rispettabile, benevolo, attento al racconto del burattino, successivamente Biffi sottolinea che la figura dello scimmione della razza dei gorilla rappresenta la caricaturalità della giustizia terrena rispetto a quella vera, per cui  il giudice finisce con applicare la legge umana che con i suoi meccanismi colpisce il debole anche se innocente. Cattaneo rileva che la situazione proposta da Collodi ricorda quella descritta da Manzoni ne I Promessi Sposi dove i violenti erano organizzati e protetti ed i deboli , non sorretti da consorterie, erano vittime dei soprusi del potere.   La lettura di Pinocchio di Collodi ed in particolare di alcuni brani può dar luogo a considerazioni di natura filosofico-giuridica e giuridico- penale, come suggerisce acutamente  Cattaneo nel suo volume. Merito indubbio di Collodi è descrivere alcune situazioni caratterizzate da abuso di potere, oppressione dei deboli e sfasamento dei corretti rapporti stabiliti dagli ordinamenti giuridici, come del resto è stato rilevato da numerosi importanti interpreti. E’ opportuno sottolineare che il capolavoro di Collodi, come molte altre opere letterarie, affronta importanti problemi giuridici tra i quali va segnalata l’importante e costante aspirazione perenne che la legge in essere non sia solo la volontà del gruppo sociale dominante , una forma di controllo sociale, e che inoltre l’ordinamento giuridico tuteli la dignità e le aspirazioni degli uomini come attesta la storia del diritto. Il capitolo decimo è intitolato “Oscar Wilde e le sofferenze del prigione”  Wilde (1854-1900) in alcune sue opere ha descritto la sua penosa esperienza carceraria ed il clima del carcere., lo scrittore inglese fu condannato a due anni di carcere che scontò interamente.  Cattaneo evidenzia che <Wilde fu il tipico capro espiatorio dell’ipocrisia della società vittoriana> Lo stesso letterato nel <De Profundis>,  redatto in carcere, attesta di essere passato dalla gloria all’infamia con un mutamento dell’opinione pubblica dalla esaltazione al disprezzo. Le osservazioni di Wilde sul problema della pena nel suo celebre <De Profundis> e nella accorata <The Ballad of Reading Gaol> hanno fornito un importante contributo alla battaglia per la riforma del sistema carcerario. Il volume <De profundis> fu redatto da Wilde negli ultimi anni carcere. L’opera è redatta sotto forma di lettera all’amico Alfred Douglas <Bosie> e contiene molti rimproveri all’amico per i suoi atteggiamenti durante il processo ed il successivo carcere. L’opera, dopo molte controversie, fu pubblicata definitivamente nel 1949 dal figlio di Wilde Vyvyan Holland . All’inizio dell’opera Wilde rimprovera l’amico Douglas   e soprattutto sé stesso e riflette sul suo stato di persona imprigionata e rovinata <a disgraced and ruined man>   lo angoscia dopo la sentenza e l’esperienza carceraria e e. Lo scrittore inglese rileva che per chi vive in carcere la sofferenza che lo domina è la misura stessa del tempo ed il fondamento del proprio continuare ad esistere  Wilde evidenzia che la terribile esperienza in prigione sia stata per lui più dolorosa che per altri e si e si lamenta per la perdita della patria potestà sui due figli e rimarca l’ingiustizia di tale procedimento che incrina il rapporto familiare. Lo scrittore rileva che per i poveri la prigione è un dramma che tuttavia suscita peraltro la simpatia delle altre persone mentre per gli uomini del suo ceto la prigione li rende dei <paria> , per cui i condannati di ceto abbiente non hanno più diritto all’aria ed al sole ,la loro presenza infetta i piaceri degli altri e bisogna tagliare i legami con l’esterno dato che l’onore e la reputazione della persona condannata è leso.   Wilde evidenzia anche che molte persone ,quando escono di prigione, nascondono il fatto di essere stati in carcere che considerano una sciagura e, rileva lo scrittore inglese,, è orribile che la società li costringa a tale comportamento. La società ha il diritto di punire i colpevoli ma non riesce a completare ciò che ha fatto e lascia l’uomo al termine della pena, quando dovrebbe iniziare la riabilitazione, sarebbe giusto invece che non ci fosse amarezza o rancore tra le parti (colpevoli e vittime). Cattaneo evidenzia l’ipocrisia che sta dietro l’idea della retribuzione morale  e cioè che subendo la pena il colpevole abbia pagato il suo debito verso la società, se si applicasse tale principio , dopo la fine della pena tutto dovrebbe cessare e non dovrebbero esservi più né fedine penali né casellari giudiziari. Nella realtà comune resta una macchia sulla persona che è stata in carcere, un pregiudizio che la società perpetua e l’onta non deriva dal delitto commesso ma dalla pena scontata. La società riconosce implicitamente l’inutilità della pena perché l’onta del colpevole incarcerato rimane. Analizzando la vita in carcere Wilde sottolinea che le privazioni e restrizioni del carcere rendono una persona ribelle ed impietrisce i cuori dei condannati. L’abito dei carcerati li rende grotteschi come clowns, oggetto di derisione e berlina della gente. Tali sofferenze ed umiliazioni dei condannati sono contrari al principio della dignità umana che Wilde riafferma come profonda esigenza morale della società. Lo scrittore afferma anche che tutti i processi sono processi per la propria vita e tutte le sentenze sono sentenze di morte; spesso anche una condanna alla prigione genera delle sofferenze che conducono alla morte e va rilevato che Wilde stesso morì pochi anni dopo il carcere nel 1900 in Francia  . Wilde scrisse anche <The Ballad of Reading Goal> nel 1897, l’anno del suo rilascio. in questa lunga ballata il poeta inglese descrive le  sofferenze e le crudeltà cui aveva assistito durante la prigionia e dalle sue considerazioni sulla triste sorte dei carcerati risulta un grande senso di pietà per i carcerati ed i condannati a morte. La poesia è pervasa da spirito religioso e Wilde mette in confronto il vero spirito cristiano, la pietà per i sofferenti ed i peccatori con l’atteggiamento chiuso, duro ed indifferente delle istituzioni religiose ufficiali e dei cappellani delle carceri  . Cattaneo rileva che la tragica esperienza personale ha portato Wilde ad affrontare il tema della riforma delle prigioni e del sistema penale del quale si era occupato nello scritto “The soul of man under socialism”  . Dalle riflessioni dello scrittore inglese redatte nelle opere dopo il carcere si ricava una denuncia della brutalità del trattamento carcerario e della inumanità nell’esecuzione della pena con critiche alla utilità sociale della stessa   Il capitolo XI è intitolato “André Gide e il non giudicare”  Il problema giuridico-penale è stato esaminato anche da un noto scrittore francese contemporaneo André Gide (1869-1951), che lo ha affrontato in tre stimolanti scritti “Souvenir de la Cour d’Assise” che racchiude la sua esperienza quale giurato in alcuni processi penali del 1912, “L’affaire Redureau” e “La sequestrée de Poitiers” che poi sono stati pubblicati insieme in una raccolta dal titolo ”Ne jugez pas”  Cattaneo rileva che di tale scritto non si sono occupati molto i critici ed i commentatori, come sempre avviene quando si tratta di problemi giuridici in veste letteraria . L’analisi del volume di Gide è interessante perché il libro è molto rilevante per lo studio di rapporti tra diritto  penale  e letteratura e costituisce delle precise prese di posizione dirette su temi giuridico-penali, desunti dalla realtà della vita. Cattaneo mette in luce l’attenzione, la precisione , la serietà e la preparazione dimostrate dallo scrittore francese nel trattare i temi giuridici , soprattutto per la precisione del linguaggio giuridico. Gide dimostra competenza nel trattare problemi giuridico-penali e probabilmente “l’ indagine di certi casi criminali lo induce all’analisi di talune zone inesplorate della psiche umana”    L’atteggiamento dominante di Gide  è il “favor rei”  che si esprime in due modi o a due livelli: da un lato sul piano processuale lo scrittore volge l’attenzione al rispetto delle garanzie dell’imputato, ad una equilibrata ed equa conduzione dell’interrogatorio, alla escussione di tutti i testimoni, specie quelli della difesa. Lo scrittore francese solleva anche  nei suoi scritti l’esigenza di una riforma del modo di porre le domande ai giurati e di chiarire il loro contenuto . Gide si mostra sempre umano e compassionevole verso i colpevoli, mostra l’esigenza che la pena sia in generale ridotta e che si tenga conto degli elementi che valgono a titolo di difesa, quali motivi di giustificazioni e scuse. Lo scrittore francese si preoccupa che la pena possa causare mali peggiori e cerca di evitare risultati negativi della stessa. Cattaneo evidenzia che in sostanza nel libro di Gide “è primaria l’attenzione per l’uomo, la sua complessità e la sua imperscrutabilità psicologica , che porta al dubbio e alla perplessità circa il fatto che alcuni uomini possano giudicare altri uomini, queste pagine sono dunque dominate dal monito evangelico, per cui particolarmente adatto risulta il titolo complessivo della raccolta: Ne jugez pas.”  Il capitolo XI  è intitolato “Franz Kafka, la legge e il totalitarismo”   Cattaneo ha discusso in molte opere il problema del totalitarismo che è stato analizzato soprattutto nel suo volume “Terrorismo ed arbitrio Il problema giuridico del totalitarismo”  Analizzando le opere di Kafka (1883-1924) Cattaneo premette che è particolarmente rilevante il pericolo di un forte divario fra la letteratura critica ed interpretativa ed il testo originario dello scrittore per cui ritiene che siano legittime molte diverse interpretazioni dell’opera di Kafka, e molte <chiavi di lettura>  . , certamente l’interpretazione più interessante dello scrittore ceco è quella data dall’amico Max Brod,  che evidenzia la religiosità ebraica presente nelle opere di Kafka ed in questa chiave interpreta i brani relativi al problema della legge, del processo e della colpa.  Una interpretazione giuridica delle opere di Kafka è stata compiuta da Pernthaler .Cattaneo intende esaminare alcune opere di Kafka dalle quali il problema della legge emerge anche dal punto di vista filosofico-giuridico  In tali opere di Kafka ricorre il tema del difficile rapporto dell’uomo con la legge, che è interpretato in chiave religiosa o in chiave psicologica o psicoanalitica ma che può essere analizzato anche dal punto di vista filosofico-giuridico. Cattaneo esamina alcuni temi che emergono da “Il Processo”  dall’apologo “Vor dem gesetz”, dallo scritto ”Zur Frage der Gesetze” e dalla novella “In der Strafkolonie” e dall’analisi complessiva di tali opere interpreta Kafka come profeta e critico del totalitarismo che fu instaurato in alcune nazioni dopo la sua morte, lo scrittore ceco delinea situazioni di angoscia, di incertezza, di impossibilità di comunicazione, di errore e di ferocia tipiche del totalitarismo . Kafka collega la burocrazia e l’oppressione del potere sugli uomini caratteristica del nascente totalitarismo  . Pietro Citati rileva che <Nel Processo , l’immenso Dio sconosciuto, di cui non ascoltiamo mai pronunciare il nome, ha invece una vita così intensa e un potere così illimitato, come forse non ha ma avuto nei tempi> L’interpretazione di Citati è più psicanalitica che religiosa ma è priva di prospettiva giuridico-politica. Di impronta psicoanalitica è l’interpretazione data da Sgorlon del <Processo> di Kafka  ma la prospettiva giuridico politica, trascurata da questi studiosi, è presente e Cattaneo evidenzia che proprio nel primo capitolo, in cui è narrato l’improvviso arresto mattutino di Joseph K esprime in modo preciso proprio la sensazione del passaggio graduale ed insensibile dallo Stato di diritto allo Stato totalitario  .Di seguito le indicazioni che Joseph K riesce a ricevere da parte di vari personaggi connessi al Tribunale concernenti il meccanismo, il funzionamento, l’andamento del processo mettono in luce la totale assenza di garanzie giuridiche e processuali, di tutela dell’imputato, elementi che costituiscono l’esatta antitesi dello Stato di diritto Il tema della inconoscibilità e irragiugibilità delle leggi è ripreso da Kafka nello scritto <Zur Frage der Gesetze> In tale scritto Kafka delle <nostre leggi> che non sono conosciute da tutti, ma sono un segreto del piccolo gruppo della nobiltà che ci domina. Kafka dichiara di non avere in mente tanto gli svantaggi derivanti dalle diverse possibilità di interpretazione, quando questa è riservata ad alcuni e non all’intero popolo, questi svantaggi non sono poi molto grandi. Le leggi sono antiche , secoli hanno lavorato alla loro interpretazione, l’interpretazione è diventata essa stessa legge, e sussistono sempre, benché limitate, alcune libertà di scelta dell’interpretazione  Il motivo dominane l’intero scritto è il carattere inconoscibile della legge, dato che la legge è misteriosa e nessun membro del popolo è in grado di conoscerla per cui è comprensibile che vi sia qualcuno che arriva a negare l’esistenza delle leggi e riconosce peraltro il diritto all’esistenza della nobiltà  La fredda descrizione di uno strumento di supplizio , nell’ambito di un sistema processuale completamente privo delle fondamentali garanzie è il messaggio del racconto <In der Strafkolonie> ( Nella colonia penale) e la conclusione della novella di Kafka riflette la logica del totalitarismo per cui quando il viaggiatore comunica all’ufficiale di essere avversario di questo sistema punitivo, l’ufficiale si rende conto di essere rimasto il solo difensore di tale sistema punitivo e libera il soldato dalla macchina del supplizio, si denuda e si pone lui stesso sul lettino al posto del condannato, la macchina del supplizio inizia a funzionare  e l’ufficiale muore senza aver capito il senso del supplizio   come ogni sistema totalitario si autodistrugge e divora i propri figli Cattaneo cita la fucilazione dei coniugi Ceausescu nel 1989  operata nell’ambito del totalitarismo comunista. L’Appendice del volume è intitolata “Vaclav Havel e la legge come <<alibi>> nel sistema post-totalitario”   Havel ( 1936-2011) ,noto scrittore contemporaneo, che è stato Presidente della repubblica cecoslovacca, è autore di numerose opere letterarie e teatrali. Cattaneo ritiene che se Kafka rappresenta il tempo del pre-totalitarismo, Havel rappresenta il post-totalitarismo ,al quale ha dedicato uno scritto bblicato nel 1978 che l’autore del volume esamina nella traduzione tedesca.    Havel delinea l’opposizione al comunismo, nel suo momento post-totalitario, come tentativo di vivere nella verità; la verità, intesa come opposizione ad un sistema che si fonda e si regge sulla menzogna. Lo scritto ha un carattere etico-politico ma contiene importanti pagine di natura giuridica e di critica dell’ordinamento giuridico proprio del regime totalitario e post-totalitario.  Tale sistema politico è caratterizzato,          secondo lo scrittore ceco,  come una dittatura della burocrazia politica su una società livellata. Lo scrittore ceco  elenca le caratteristiche del sistema <post-totalitario> che lo distinguono dalla dittatura tradizionale ed evidenzia che  A) tale sistema non è delimitato territorialmente ma domina in un ampio blocco di forze ed è retto da una superpotenza  B) mentre le dittature classiche non hanno una solida radice storica, la radice di tale sistema dono i movimenti operai e socialisti del XIX secolo.  C) Tale sistema dispone di una ideologia strutturata ed elastica che ha i caratteri di una religione secolarizzata ed offre una risposta ad ogni domanda dell’uomo in una epoca di crisi delle certezze esistenziali  D) Alle dittature tradizionali spettano elementi di improvvisazione per quanto attiene alla tecnica del potere mentre lo sviluppo di 60 anni nell’Unione sovietica e di 30 anni nei paesi dell’Est europeo ha dimostrato la creazione di un meccanismo perfetto , che permette la manipolazione diretta ed indiretta della società. La forza di tale sistema è incrementata dalla proprietà statuale  e dalla amministrazione centralizzata dei <mezzi di produzione>  E) Nella dittatura classica vi è una atmosfera di entusiasmo rivoluzionario, di eroismo , di spirito di sacrificio che sono scomparsi nel blocco sovietico. Tale blocco sovietico, che è un elemento solido del nostro mondo, è caratterizzato dalla stessa gerarchia di valori presenti nei paesi occidentali sviluppati e  sono una forma di società consumistica ed  industriale. Il sistema sopra descritto è designato da Havel come <post-totalitario> perché è un sistema totalitario con caratteristiche diverse dalle dittature classiche e , rispetto al totalitarismo classico, è caratterizzato da una misura più attenuata di terrore ed arbitrio  Havel considera il sistema post-totalitario come caratterizzato dalla menzogna, ciò è un effetto del dominio della ideologia; gli uomini non devono credere alle mistificazioni totalitarie ma tollerarle in silenzio ed accetta, ciò è un vivere nella menzogna  e  lo scrittore insiste sul valore e sul significato morale ed esistenziale della dissidenza. Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico nel sistema post-totalitario  lo scrittore rileva  che tale sistema sente la necessità di regolare tutto con una rete di prescrizioni, norme, istituzioni e regolamenti per cui gli uomini sono delle piccole viti di un meccanismo gigantesco.  Le professioni, le abitazioni ed i movimenti dei cittadini e le sue manifestazioni sociali e culturali sono controllate, ogni deviazione viene considerata un passo falso ed una manifestazione di egoismo ed anarchia. Havel rileva che non bisogna prendere alla lettera l’ordinamento giuridico e ciò che conta è< come è la vita> e se le leggi servono alla vita o la opprimono ¸la battaglia per la <legalità> deve vedere questa <legalità> sullo sfondo della vita come è realmente.  Analizzando il rapporto tra la società post-totalitaria e la moderna civiltà tecnologica, con riferimento anche agli scritti di Heidegger, Havel rileva che il sistema post-totalitario è solo un aspetto della generale incapacità dell’uomo contemporaneo di divenire <padrone della propria situazione> e la prospettiva giusta è quella di una <rivoluzione esistenziale> generalmente comprensiva  L’aspetto più interessane di Havel è la delineazione dei caratteri del sistema post-totalitario come fenomeno sorto dall’incontro della dittatura con la società industriale e consumistica.  Per quanto riguarda i problemi giuridici, Cattaneo rileva che Havel sottolinea il significato autentico del diritto, che deve avere coscienza dei propri limiti naturali, il diritto ha un significato esteriore, deve difendere alcune esigenze minime (tutela della convivenza civile dalla violenza e dalle invasioni nei diritti altrui ma non deve pretendere di adempiere a compiti per cui non è adatto  - In tal modo , sottolinea Cattaneo, il letterato ceco riprende la migliore lezione del liberalismo classico per cui il diritto non è al servizio del potere , ma può essere un valore solo in quanto esso sia un mezzo di difesa e la garanzia della libertà e della dignità dell’uomo   Il grande insegnamento del letterato Havel è la tutela del valore più calpestato dal totalitarismo , la dignità umana che è lo scopo fondamentale ed essenziale del diritto,  dato che diritto e libertà sono collegati ed il diritto ha valore se garantisce e protegge la libertà. Grice: “Cattaneo’s philosophical background is much stronger than Hart’s! Hart always doubted his philosophical abilities – as he kept comparing himself to me! When Cattaneo was at St. Antony’s, Hart found that he had to play brilliant, since a ‘continental’ was watching! Cattaneo is especially good in the study of Roman-Italian giurisprudenza, from Cicero, Goldoni, Carrrara, and Manzoni, onwards! They don’t need no stinking Hart!” -- M. A. Cattaneo. Mario A. Cattaneo. Mario Alessandro Cattaneo. Mario Cattaneo. Keywords: eidolon, autorita, autoritarismo, positivismo di H. L. A. Hart, il concetto della legge, filosofia del linguaggio ordinario, scuola oxoniense di filosofia del linguaggio ordinario, il gruppo di giocco di Austin, il primo o vecchio gruppo di giocco di Austin al All Souls, giovedi notte; il nuovo gruppo di giocco di Austin sabato alla mattina. Hart, Hampshire, Grice. Grice, neo-Trasimaco, giustizia, fairness, valore legale, valore morale, le legge e la morale, priorita della moralita sulla legalita, concetti di priorita, priorita evaluativa, neo-trasimaco, neo-socrate, platonismo giuridico, positivismo pre-Kelsen: hobbes, bentham, autin. I giuristi italiani. Storia della giurisprudenza italiana. Goldoni, Carrara, Manzoni, Collodi, Lorenzini, Pinocchio, Foscolo, Perini, Beccaria, Colonna infame, letteratura italiana, fizione italiana, prosa italiana, giurisprudenza italiana, avvocatura ed implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.

 

CATUCCI (Roma). Grice. Filosofo. “I love Catucci – Ogden and Richards, whom I’ve read profusely, expand on Husserl – and Catucci is “our man in Husserlian phenomenology of intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian philosopher, viz. eclectic, he has philosophised on Luckacs, and Foucault, too!” --  Grice: “Catucci’s approach to Lukacks is via ‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer the semantics the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was honest!”. Altre opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini & Associati); Beethoven Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica barocca, Roma, La Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La storia della musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di, con Umberto Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati Boringhieri); Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e Tertulian. Insegna a Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica di Husserl (ed. Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un periodo di ricerca presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il lavoro sui manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi saggi di carattere fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su un’autocritica trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi di testi husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault. Quindi è stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad ampio spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati Boringhieri). Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica curato per Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su Foucault (La linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica, in particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed. Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival Wired di Milano,  e al Congresso Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino, Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it di Firenze. 11573/1481990 - 2021 - L'arte è un progetto? Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Estetica Elementare - (9788891918345)  11573/1546600 - 2021 - L'esperienza del coro fra etica e tecnica Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto, relazione e musica in gruppo - (978-88-590-2554-2)  11573/1411530 - 2020 - La storia dell'estetica come critica e come filosofia Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) pp. 53-61 - issn: 0393-8522 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/1412191 - 2020 - Di cosa parliamo quando parliamo di teoria Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Cinque temi del moderno contemporaneo. Memoria, natura, energia, comunicazione, catastrofe - (978-88-229-0397-6)  11573/1465101 - 2020 - Bellezza Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Parole del XXI secolo - (978-88-12-00876-6)  11573/1466031 - 2020 - Il Kitsch: ieri, oggi, domani Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Riga - (9788822904584)  11573/1469956 - 2020 - Aesthetics and Architecture Facing a Changing Society Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: International Yearbook of Aesthetics (JP Službeni glasnik, ) pp. 107-118 - issn: 1402-2842 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/1263257 - 2019 - Introduzione a Foucault. Nuova edizione riveduta e ampliata Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico  11573/1350028 - 2019 - Imparare dalla Luna. Nuova edizione riveduta e ampliata Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico  11573/1411293 - 2019 - Il corpo e le forme. Note sul discorso spirituale nella filosofia e nell'arte Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Della materia spirituale dell'arte - On the spiritual matter of art - (978-88-229-0438-6)  11573/1504257 - 2019 - Perché gli artisti nei luoghi del disastro Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Terre in movimento - (978-88-229-0306-8)  11573/1083086 - 2018 - The Prison Beyond its Theory. Between Michel Foucault's Militancy and Thought Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Prison Architecture and Humans - (978-82-02-52967-3)  11573/1157274 - 2018 - Postfazione Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Qualcosa sull'architettura. Figure e pensieri nella composizione - (978-88-229-0186-6)  11573/1198338 - 2018 - Prefazione. Vite di architetture infami Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Incompiute, o dei ruderi della contemporaneità - (978-88-229-0261-0)  11573/1202778 - 2018 - Potere e visibilità. Studi su Michel Foucault Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico  11573/1411498 - 2018 - Prefazione a L. Romagni, Strutture della composizione Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Strutture della composizione. Architettura e musica - (9788822902481)  11573/1411558 - 2018 - Presentazione. Leo Popper: l'etica e le forme Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) pp. 7-25 - issn: 0393-8522 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/1084786 - 2017 - L'angelo della matematica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La vetrata artistica della Scuola di Matematica. Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana - (978-88-229-0151-4)  11573/928912 - 2016 - A roadmap toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro, Francesca; Mattoni, Benedetta; Gugliermetti, Franco; Bisegna, Fabio; Azzaro, Bartolomeo; Tomei, Francesco; Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: 16th International Conference on Environment and Electrical Engineering, EEEIC 2016 (Florence Italy) book: EEEIC 2016 - International Conference on Environment and Electrical Engineering - (978-150902319-6)  11573/951275 - 2016 - Luce, Illuminazione, Illuminismo Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani - (978-88-6822-434-9)  11573/951334 - 2016 - L'opera d'arte e la sua ombra Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L'estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe Di Giacomo - (978-88-5753-620-0)  11573/951355 - 2016 - La linea del crimine. Michel Foucault e la vita degli uomini infami Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AGALMA (-Roma: Meltemi -Roma : Castelvecchi, 2000-) pp. 75-88 - issn: 1723-0284 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/647595 - 2015 - Materia primordiale e Growing Design Catucci, Stefano; Lucibello, Sabrina - 01a Articolo in rivista paper: ANANKE (Firenze : Alinea, [1993]-) pp. - - issn: 1129-8219 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/798868 - 2015 - Preliminari a un'estetica della plastica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Plastic Days. Materiali e Design / Materials & Design - (9788836630721)  11573/1203740 - 2014 - Antropomorfismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1203747 - 2014 - Arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1203750 - 2014 - Einfühlung Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1203758 - 2014 - Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1203775 - 2014 - Sovrastruttura Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1203777 - 2014 - Strutturalismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1460811 - 2014 - Il nome del presente. The name of the present Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: DOMUS (Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus) pp. 46-48 - issn: 0012-5377 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/525663 - 2013 - Imparare dalla Luna Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Imparare dalla Luna - (9788874625819)  11573/526040 - 2013 - Filosofia dell'eccedenza sensibile Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Vice Versa - (9788867490158)  11573/530661 - 2013 - La Gaia estetica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Costellazioni estetiche: dalla storia alla neoestetica. Studi offerti in onore di Luigi Russo - (9788862504287)  11573/549891 - 2013 - Conversazione con Stefano Catucci Gregory, Paola; Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Progetto e Rifiuti. Design and Waste. No-Waste - (9788895623498)  11573/477665 - 2012 - La contingenza impossibile: note su alcuni modelli espositivi dell'opera d'arte. Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie, esperienze, competenze - (9788849223132)  11573/499160 - 2012 - Metamorfosi : un'architettura dopo il postmoderno Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli ultimi spazi del progetto - (9788889400906)  11573/500466 - 2012 - Mission to Mars- Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: HORTUS (Roma: Facoltà di Architettura "Valle Giulia" , universita' la "Sapienza" Direttore) pp. - - issn: 2038-6095 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/502652 - 2012 - Necessity and Beauty Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Parks and territory: new perspective in planning and organization - (9788895623788)  11573/503211 - 2012 - Eyes Wide Shut. Architecture without Philosophy Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education (Patrasso - Grecia - Dipartimento di Architettura dell'Università di Patrasso) book: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education - (9789607588340)  11573/379086 - 2011 - Estetica della speranza Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Teoria critica del desiderio - (9788872856659)  11573/411942 - 2011 - "Reimparare a sognare". Note su sogno, immaginazione e politica in Michel Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La coscienza e il sogno. A partire da Paul Valéry - (9788871865058)  11573/504705 - 2011 - Visione e dispersione. La regia architettonica di Luigi Moretti Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: Luigi Moretti architetto del Novecento (Facoltà di Architettura, Università di Roma "Sapienza") book: Luigi Moretti architetto del Novecento - (8849222009; 9788849222005)  11573/493982 - 2010 - Critica del contesto Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PIANO PROGETTO CITTÀ (-Avezzano (AQ) : LISt- Laboratorio Internazionale di Strategie editoriali, 2010 -Avezzano (AQ): Ed'A- Editoriale d'Architettura -Pescara: Sala Editore Pescara Pescara : Clua, 1984-) pp. 142-149 - issn: 2037-6820 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/495728 - 2010 - Essere giusti con Marx Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx: paralleli e paradossi - (9788878704763)  11573/127253 - 2009 - La terza dimensione Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: VEDUTE (Roma-Macerata : Quodlibet, [2009]-) pp. 47-57 - issn: 2239-6462 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127254 - 2009 - «Eine eigene fremde Welt»: le utopie terrestri di Karlheinz Stockhausen Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: ATENEO VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin 1897, 30124 Venice Italy:011 39 41 5224459) pp. 129-144 - issn: 0004-6558 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/170422 - 2009 - "Des moustiques domestiques”: Notes on the Tautology of Visual Writing Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume book: Beyond Media: Visions, catalogo della 9. Edizione dell’International Festival for Architecture and Media - (9788896531006)  11573/170451 - 2009 - Prolegomeni a un'architettura della relazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L'esplosione urbana - (9788888791180)  11573/170452 - 2009 - I generi musicali: una problematizzazione Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani Terzo Millennio), vol. II, Comunicare e rappresentare - (9788812000388)  11573/170697 - 2009 - Senso e progetto. Il contributo dell’estetica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di discipline - ()  11573/196017 - 2009 - Il progetto di architettura come sintesi di discipline Catucci, Stefano; Strappa, Giuseppe - 03a Saggio, Trattato Scientifico  11573/180207 - 2008 - Il lavoro della dispersione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - (9788849821468)  11573/180783 - 2008 - Introduzione a Foucault Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico  11573/353134 - 2008 - Tutto quello che "la musica può fare". Conversazione con Francesco e Max Gazzè. Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco; Giuriati, Giovanni; Catucci, Stefano; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone - 02a Capitolo o Articolo book: Parlare di musica - (9788883536656)  11573/378907 - 2008 - Costruire, abitare, patire Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Arte, Scienza, Tecnica del Costruire - (9788849214116)  11573/493930 - 2008 - Elogio del parlare obliquo: la musica classica alla radio Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Parlare di musica - (9788883536656)  11573/127320 - 2007 - La proprietà intellettuale come problema estetico Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma : DeriveApprodi) pp. 36-46 - issn: 1973-3607 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127321 - 2007 - L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 22-27 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127322 - 2007 - Per una critica delle narrazioni urbane Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PARAMETRO (Faenza Italy: Gruppo Editoriale Faenza Editrice) pp. 24-29 - issn: 0031-1731 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/176810 - 2007 - Michel Foucault filosofo dell’urbanismo Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Lo sguardo di Foucault - (9788883535727)  11573/177011 - 2007 - La cura di scrivere Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno - (9788884835246)  11573/207632 - 2007 - La via dialogica dell’arte: i nuovi linguaggi urbani Catucci, Stefano - 04a Atto di comunicazione a congresso conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana) book: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio, a cura di E. Scognamiglio e A. Trevisiol - (9788840160139)  11573/496481 - 2007 - Spartacus : i dilemmi della libertà Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Una strana rivista : «Gomorra» 1998-2007 - (9788883536021)  11573/502875 - 2007 - Dizionario di Estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (9788842058298)  11573/157929 - 2006 - Il colosso senza immaginazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Osservatorio Nomade: immaginare Corviale. Pratiche ed estetiche per la città contemporanea - (8842491799)  11573/176696 - 2006 - Il visibile e l’invisibile. Riflessioni sul potere in Michel Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza - (9788843039517)  11573/177761 - 2006 - Un passato che non passa. Bachelard e la fine dell’abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Simbolo, metafora, esistenza. Saggi in onore di Mario Trevi - (9788871863924)  11573/501672 - 2006 - Corridoi Transeuropei Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 22-27 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127044 - 2005 - La “natura” della natura umana Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Della Natura Umana. Invariante biologico e potere politico. - (8888738703)  11573/166395 - 2005 - Estetica e Architettura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Contaminazioni culturali. Materiali di studio del Dottorato di Ricerca in Riqualificazione e Recupero Insediativo - ()  11573/127045 - 2004 - Criticare l’estetica per criticare il presente Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 8-11 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127046 - 2004 - Le Corbusier a Pessac: un paradigma moderno Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) pp. 45-51 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127047 - 2004 - Michel Foucault: dalla novità storica all’estetica dell’esistenza Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma : DeriveApprodi) pp. 73-86 - issn: 1973-3607 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/166388 - 2004 - La pensée picturale Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: Colloque de Cerisy - Michel Foucault: La littérature et les arts (Cerisy - Francia) book: Michel Foucault, la littérature, les arts - (2841743470)  11573/166394 - 2004 - Attraverso Velázquez: Foucault, Las Meninas, la filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il classico violato. Per un museo letterario del ‘900 - (8875750041)  11573/127043 - 2003 - Tre versioni del misurare Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) pp. 92-99 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/180784 - 2003 - Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso ; a partire da Lukács Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso ; a partire da Lukács - (9788833914473)  11573/255955 - 2002 - L'angelo dei rifiuti Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 20-28 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/248424 - 2001 - Estetica dell'abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La nuova Estetica italiana - ()  11573/64920 - 2001 - Spazi e maschere Catucci, Stefano - 06a Curatela  11573/1203503 - 1999 - Ambiguità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203505 - 1999 - Poetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203507 - 1999 - Architettura, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203509 - 1999 - Censura Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203511 - 1999 - Distruzione delle opere d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203513 - 1999 - Fenomenologica, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203515 - 1999 - Fisiognomica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203517 - 1999 - Fotografia, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203519 - 1999 - Kitsch Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203521 - 1999 - Marxista, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203523 - 1999 - Musica, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203525 - 1999 - Opera d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203527 - 1999 - Originalità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203529 - 1999 - Particolarità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203531 - 1999 - Realismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203533 - 1999 - Retorica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203535 - 1999 - Rispecchiamento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203537 - 1999 - Ritmo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203539 - 1999 - Scientifica, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203541 - 1999 - Sociologia dell'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203543 - 1999 - Storicità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203545 - 1999 - Struttura Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203547 - 1999 - Strutturalista, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203549 - 1999 - Terapie artistiche Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203551 - 1999 - Tipico Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203553 - 1999 - Autenticità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203555 - 1999 - Oggetto estetico Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203557 - 1999 - Estetica e politica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/127040 - 1999 - Fra tempo e spazio: rassegna sul vuoto in musica Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 54-56 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/497947 - 1999 - Estetica della censura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La cortina invisibile - (888744501X)  11573/166387 - 1997 - Figures de l’art, figures de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune Lukács Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Life - (0792341260)  11573/166393 - 1997 - L'etica e le forme Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Scritti di estetica - ()  11573/223078 - 1997 - Saggi di Estetica Catucci, Stefano - 06a Curatela  11573/127039 - 1996 - Gli animali di Céline Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA (Rosenberg & Sellier:via Andrea Doria 14, I 10123 Turin Italy:011 39 011 8127820, EMAIL: tina.cesaro@rosenbergesellier.it, Fax: 011 39 011 8127808) pp. 87-108 - issn: 0035-6212 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/166392 - 1995 - Dall’estetica all’ontologia. Lukács lettore della «Critica del Giudizio» Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Senso e storia dell'estetica - (8873802362)  11573/180788 - 1995 - La filosofia critica di Husserl Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: La filosofia critica di Husserl - (9788881070053)  11573/162879 - 1994 - La fenomenologia negli Stati Uniti: metodo e fondazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Specchi americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - ()  11573/127038 - 1991 - La fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a F. Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis, 2014- Bologna: CLUEB) pp. 342-346 - issn: 0585-4733 - wos: (0) - scopus: (0). Stefano Catucci. Keywords: la via conversazionale, l’originarieta della conversazione; estetica della conversazione, filosofia dell’eccedenza sensibilie, rispecchiamento, parlare obliquo, Lukacks, filosofia povera, filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief, Leuven, Belgio, “la cosa stessa”, “la linea del crimine”, potere, la luna, musica, estetica della musica, estetica dell’archittetura, critica fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catucci” – The Swimming-Pool Library.

 

CAVALCANTI (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian, but he is surely Platonic – therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the Italians call it – Like Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but interesting!” Come del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne’ suo fiosofare non so che più degli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenze, copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste, sono adorne. Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno. Ritratto di Cavalcanti, in Rime. Figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque in una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua villa vicina a Orsanmichele e che e tra le più potenti della regione. Il padre fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento, padre e figlio riacquistarono la preminente posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i figli Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia, comunque, ne dà un'importante testimonianza attraverso un sonetto.  Alighieri, priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si reca allora a Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante l'esilio. La condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Muore a causa della malaria contratta durante l'esilio forzato d’Alighieri.È ricordato oltre che per i suoi componimentiper essere stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”. Alighieri, remmorso, lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron.  La sua personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti. Il gentile figlio di Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella di Alighieri, con la importante differenza del carattere laico.  Noto per il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio (Decameron VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua speculazione filosofica sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e. Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” -- certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di tutta la poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti radicali dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal Boccaccio di una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due fiorentini a cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da Italo Calvino in una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui compiuto, diventa un emblema della leggerezza.  L'episodio figura anche nell'omonimo testo di France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i fatti risalienti della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi mistica.  La opera di Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la ballata ed il sonetto, seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in una costruzione armoniosa. Peculiare di Cavalcanti è, nei sonetti, la presenza di rime retrogradate nelle terzine. Temi  Quadro di Johann Heinrich Füssli. Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato Guido Cavalcanti. I temi della sua opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua canzone manifesto “Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato sull’amante. La concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale che sostene l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e l'anima sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta, compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa – L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che, destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo dell'amante.  Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia ma senza comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei temi fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante.  Cavalcanti e un fine filosofo –  scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente scritte.  Il poetare di Cavalcanti, dal ritmo soave e leggero è di una grande sapienza retorica.  I versi di Cavalcanti possiedono una fluidità melodica, che nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato, dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni sintattiche.  Cavalcanti: la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza).  “Species intelligibilis”, Cavalcanti laico e le origini della poesia italiana, Alessandria: Edizioni dell'Orso); Cavalcanti auctoritas”; Cavalcanti laico; La felicità: Nuove prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); Cavalcanti (Torino, Einaudi); Cavalcanti: poesia e filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso); Cavalcanti: uno studio sul lessico lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti, Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro, . Guido Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli). Dizionario biografico degli italiani; Il controverso pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano); La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia al primo Novecento. La fama o, meglio, l’habitus di filosofo Cavalcanti lo deve essenzialmente ad una sua poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa, sia per la metrica che per i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta parlerà di “amore” con gli strumenti della filosofia naturale (“natural dimostramento”), conducendo un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e le cause. Una prima importante informazione circa l’essere dell’amore Cavalcanti ce l’ha già fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che l’amore è un accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa definizione, tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua dalla filosofia di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La sostanza, secondo il grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che cioè esiste autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di essa; in altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza, mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido, paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a Cavalcanti, egli afferma che l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come, ad esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso esiste piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità) dell’uomo (sostanza). Innanzitutto, Cavalcanti ci dice che l’amore si insedia nella memoria. Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia di Aristotele, poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta. Nel De anima, Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima riguarda le funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la riproduzione) degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda, invece, comprende i sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali, ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per Cavalcanti, appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o estensione della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo permette all’uomo di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette anche di avere di questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è creata da una sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che l’immagine di essa si imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una operazione dell’anima sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto, appartengono sia la funzione della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci dice che questa immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto possibile. Che cosa intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla psicologia aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue funzioni, può essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre riguarda il pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo. Secondo Aristotele, dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine di esso si è impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che modo? Una parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile, riceve l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di un’altra componente della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per fare un esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno ancora intonso e l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre i sensi producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente imprime nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine. Ricapitolando, nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso la vista della donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto questo avviene nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un concetto astratto e disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste, infatti, sono un prodotto della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una virtù sensibile, appartiene all’anima sensitiva. Cavalcanti ci dice che non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché essa attua tutte le potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta, infatti, seguendo l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo arabo Averroè, ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno separato dagli uomini, con il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva di ciascun essere umano entrano in contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero. In altre parole, egli, affermando l’esistenza di un intelletto unico ed eterno, separa l’anima intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive concrete e mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia che Cavalcanti mutua da Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso. La passione amorosa ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna amata, ormai insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto prevalere dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire, però, che l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le facoltà intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre, il poeta, seguendo Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è separata dalle anime sensitive degli uomini. Quello che Cavalcanti intende, dunque, è questo: la passione amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più distinguere il bene dal male (“discerne male”). Ciononostante, Cavalcanti ci dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non perché oppost’a naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione amorosa sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione apparentemente contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è felice quando realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non potrà certo essere quello di assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva; egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione; pertanto, secondo il filosofo greco, la felicità per l’uomo consiste nell’attività razionale, nella vita secondo ragione. Cavalcanti, dunque, seguendo Aristotele, ci dice che l’amore è deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo di vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima sensitiva è una non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa, l’amore che riesce ad essere temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla vita razionale, è espressione di un naturale bisogno della nostra sensualità. Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria dell’amore in Aristotele – amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante non mangia, l’amante non dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo perfetto – l’amore come incontro disastroso di due entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavalcanti” – The Swimming-Pool Library. 

 

 

CAVALLO (Napoli). Grice: “I love Cavallo, and so did most of the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t strictly onto mythology, but the Italians on the whole are: the Elettridi are a couple of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell – due to … electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we would call a ‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s very odd that it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that still sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the feminine abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!” -- Autore di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe anche studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla biologia. Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la possibilità di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo elettroscopio. Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio di un medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni suoi studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti, inventore e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali, anche su commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per chiarezza, sistematicità e completezza.  Si lo ricorda in particolare per i suoi studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come gas portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta riempito di gas. Cavallo, Tiberio. - Fisico (Napoli 1749 - Londra 1809); recatosi per commercio in Inghilterra nel 1771, ivi si dedicò a ricerche di fisica e di chimica. Già nel 1777 aveva intuito la possibilità del volo per via aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio.  Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi interessi includeno l’elettricità , lo sviluppo di strumenti scientifici, la natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico. Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso). Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto” (citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard . Storia e pratica dell'aerostazione , Tiberio Cavallo. La piastra I, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno La piastra II, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno Cavallo pubblicò anche sul temperamento musicale nel suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti musicali, in cui sono fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc . Il memoriale di Burdett Coutts, Old St. Pancras. Il nome di Cavallo è verso il basso, ma mancano le lettere B e C. Secondo quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras in una volta vicino a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel memoriale di Burdett Coutts alle molte persone importanti sepolte in essa. Altre opere: Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic , tra cui: “Trattato completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze: Gaetano Cambiagi); “Teoria e pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato completo sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia di Rees ha contribuito con articoli su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma gli argomenti non sono noti. Un resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici del Sig. Tiberio Cavallo comunicato dal Sig. Henley, FRS, Transazioni filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO COMPLETO D'ELETTRICITÀ TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI DEL SIGNORE TIBERIO CAVALLO TRADOTTO IN ITALIANO DALL'ORIGINALE INGLESE Con addizioni e cangiamenti fatti dall' Autore , 9 FIRENZE MDCCLXXIX . PER GAETANO CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON LICENZA DE SU PÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec . AVoi folo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio . Ella è d'uno della Voſtra Nazione , è ſtata intrapreſa per Voſtro comando , fatta ſotto i Voſtriocchi, e quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo ed elegante Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag gio di chi brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali . Proſeguite come fate in que queſta Voſtra generoſa in trapreſa ; mentre ſotto i Vo ftri fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa 26. Marzo 1779. Umiliſſimo Servo > IL TRADUTTORE  VII A VV 1 SO DEL TRADUTTORE. " Mi ſarei facilmente diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima , della ſtampa che meditavo fare della preſente verſione , anco per ſentire da ello ſe avea niente da aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig . Ma gellan alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta parte , e traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come èſtato eſeguito , accompagnati con una corteſe let tera del tenore ſeguente . Signore . Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune poche addizioni e cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella traduzione del mio Trattato ſull'E . lettricità . La prego fare intendere al Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto obbligato per aver mi dato parte di queſta intrapreſa , e che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che poſſo . Nov. 30. 1778. Suo Tiberio Cavallo , Sig. Magellan Nevils Court Ferter Lane . 1 NEL TRATTATO DI CAVALLO SULL' ELETTRICITA' . Pag. 2.8 . v. 6. In vece di è quaſi tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre prezioſe . Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e finiſce da un corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere . Pag. DEL TRADUTTORE } Pag. 99. Il paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono così intimamente, e termina nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione fi dee omettere affatto . Pag. 137. Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi poſſono aggiungere i fe guenti verſi : Il Dott. Higgins ha ultima mente inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello di ſtagno , perchè una piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro più potentemente , ma dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di fagno. Queſt' amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer . curio meſcolati inſieme. Pag. 279. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi , cioè dee dir così , non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag. 335.v.8 . Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di circoſtanze . Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig. PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità promoſſo queſto lavoro . In tanto vivi felice , e godi di queſta fatica . 1 . 1 i r 1 PRE 2 XI PREFAZIONE DELL'AUTORE. HL diſegno di queſto Trattato è di pre ſentare al pubblico un proſpetto che comprenda lo ſtato preſente dell'elettri cità ridotto in quei limiti più riſtretti che la natura della ſcienza può tollerare . Eſſo è diviſo in quattro parti, in ciaſcuna delle quali ſono contenute certe particolarità che avevano anche minor conneſſione col rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto , che poteſſe eſſere un mezzo da impedire la confuſione dell' idee nella mente di quei lettori che non fi erano prima refa molto familiare queſta materia . La prima parte tratta ſolamente delle leggi dell'elettricità ; cioè di quelle leggi naturali relative all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi ſono tro ) 1 XII PREFAZIONE il trovate coſtantemente vere , e che non dipendono da veruna ipoteſi. In queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità , la quale non foſſe chiaramente ſicura , o la quale foſſe di poca conſeguen za ; ma nel tempo medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante , o che ſembraſſe promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente ipote tica , non per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande improba bilità della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore a renderla più breve che foſſe poſſibile . La parte terza contiene la pratica dell' elettricità . Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di tutti i nuovi mi glioramenti fatti nell'apparato , i quali nel tempo medeſimo ſervono a minorare la fpefa , e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In riguardo agli eſperimenti mede 1 DELL' AUTORÉ . XIII medeſimi , egli ha principalmente inſiſtito ſu quei pochi primari che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare e confermare le leggi dell'elettricità , omettendo un gran numero d'altri che ha trovato non eflere altro che i primi in qualche coſa va rjati . Egli niente di meno ha dato un rag guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente neceſſari, gli parvero però meritare che ſene defle notizia . La quarta ed ultima parte contiene un breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti dall'autore medeſimo in conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi ſtudj in queſta parte di fi loſofia . Quì egli ha laſciato di far men zione non ſolo di quei tentativi che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to , maancora d'innumerabili congetture che ha formato intorno a' medeſimi , e intorno ad altri non ancora ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione . L'au XIV PREPAZIONE · L'autore prende queſt' opportunità di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per diverſe eſperienze comunicategli , e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il quale ha fatto quel che per lui ſi poteva per informarlo di ciaſcuna particolarità che ha creduto po teſſe arricchire e abbellire l'opera . Non è ſembrato neceffario il nominare quei ſoggetti, le di cui eſperienze e of fervazioni recate in queſt' opera erano avanti ben cognite al mondo ; per lo che l'autore ſi è riſtretto a far menzione di quelle perſone le cui eſperienze erano nuo ve , o non comunemente note agli ſcrit tori di queſta materia . Per rendere il trattato più intelligibile ed utile ſono ſtate aggiunte tre tavole in rame, e un copioſo indice delle materie che meritano maggiore attenzione . IN XV 1 INDI CE DEI CAPITOL I. Neroduzione pag. 1 . PARTE PRIMA.. Leggi fondamentali dell'elettricità . II . CA P. I. Contenente la spiegazione d ' alcuni termi ni che fono principalmente uſati nelle lettricità CA P. II. Degli elettrici , e dei conduttori .... 15 . CA P. III. Delle due elettricità 24 CA P. IV . Dei differenti metodi di eccitare gli elet trici . 37 . CAP. I XVI CAP. V. Dell elettricità comunicata 48. CA P. VI. Dell' elettricità comunicata agli elettri ci . 63 . CA P. VII. Degli elettrici caricati , ovvero della Boc cia di Leida ' . 71 . CA P. VIII. Dell elettricità atmosferica go. CA P. IX. Vantaggi derivati dall elettricità ....96 . CA P. X. Che contiene un proſpetto compendioſo del le proprietà principali dell elettrici tà . 119. PAR 4 XVII 1 PARTE SECONDA. Teoria dell'elettricità , CA P. I. Ipoteſi dell' elettricità poſitiva , e negati Va 126. CA P. II. Della natura del fluido elettrico 136 . CA P. III. Della natura degli elettrici , e dei con duttori... 149 CA P. IV . Del luogo occupato dal fluido elettrico . 153 . PARTE TERZA. Elettricità pratica . CA P. J. Dell'apparato elettrico in generale . 101 . CA P. II. Deſcrizione d' alcune particolari macchine elettriche 387 . CAP. XVIIL ze... CA P. III. Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti neceſſarie dell'apparato elettrico . 200. CA P. IV. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap parato elettrico , ed il fare l'eſperien 216. CA P. V. Sperimenti relativi all'attrazione , e re pulſione elettrica 226. CA P. VI. . . Sperimenti ſulla luce elettrica ... 262 CA P. VII . Sperimenti colla bottiglia di Leida . 289. CA P. VIII. Sperimenti con altri elettrici caricati. 3 34 . CA P. IX . Sperimenti ſull' influenza delle punte , e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per difendere gli edifizj dagli effetti del fulmine 345 CAP. 1 1 1 1 XIX са CA P. X. Elettricità medica .... .. 364 CA P. XI. Sperimenti fatti con la batteria elettri 369. CA P. XII. Sperimenti promiſcui 384. CA P. XIII. Ulteriori proprietà della boccia di Leida ovvero degli elettrici caricati. 409. PARTE QUARTA. Nuovi ſperimenti dell' elettricità .. 413. CA P. I. . Coſtruzione dell' aquilone elettrico , e di altri ſtrumenti uſati con ello 421 . CA P. II. Sperimenti fatti con l' aquilone elettri 435. co CAP. XX CA P. III. . . Sperimenti fatti coll.elettrometro atmosfe rico , e coll' elettrometro per la prog gia . 405. CA P. IV. Sperimenti fatti coll' elettroforo comune mente chiamato macchina per eſibire l'elettricità perpetua · 474 CA P. V. Sperimenti ſu i colori . 487 CA P. VI. Sperimenti promiſcui 494 . Indice 505. . . . . . . IN 1 INTRODUZIONE L E arti e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni fortunati periodi di gloria e di fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano l'umana attenzione , e fpandendo una luce più viva che in qualunque altro tempo divengono l'oga getto favorito e la moda del ſecolo ; ma queſti periodi terminan preſto , e pochi anni di luſtro e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi ſecoli d'oblivione . Da queſto faro infelice per altro alcune ſcien ze ſono riſervate ed elenti , le quali in grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del loro uſo e delle fruttuole produzioni che da loro ſi ricavano , ſono ſempre flo ride ; e ſebbene una volta ſiano ſtate in А CO INTRODUZIONE cognite , pure quando la fama ne ha fatto riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli , giammai dopo declina no , e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono . Di queſto ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra tutte le parti della Filoſofia naturale , che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo . Queſta ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua forza , dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura , è ſtata ſempre in voga , è ſtata col maſſimo profitto coltivata , e ſenza interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi , che ora è ridotta a uno ſtato in cui in vece di divenire ſterile , ſembra ulteriormente impegnare la generale at tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe. Gli Ottici è vero , moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà , ma ſempre rela. INTRODUZIONE 3 1 i relative alla ſola viſione : il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione , re pultione , e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama ca lamita ; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi : ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola eſibiſce gli effetti di molte ſcienze , combina in ſieme le diverſe energie e ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra , dà piacere ed è di grand'uſo all'igno rante ugualmente che al Filoſofo , all' opulento ugualmente che al povero . Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi , reſtiamo ſorpreſi dall'urto , atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria ; ma quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2 , CO 4 INTRODUZIONE come cauſa del tuono , del fulmine , dell' aurora boreale , e di altri fenomeni na turali , i cui terribili effetti poliamo in parte imitare , ſpiegare , ed anche allon tanare , allora sì che reſtiamo attoniti per la maraviglia , la quale non ci per mette di contemplare altro che l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e della ſorpreſa . Il più remoto rag guaglio a noi cognito , che abbiamo di qualche effetto elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto che fiori circa trecento anni avanti Cri ſto . Ei ci dice che l'ambra il cui nome greco è nextpor , e da cui il nome d'E lettricità è derivato , come pure il Lin curio ( 1 ) poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri . Queſto ſolamente era tutto cio ( 1 ) E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin curio di Teofraſto è la medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di cui avremo occae fione di parlare nel corſo di queſto trattato . 1 INTRODUZIONE 5 ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto , nel qual lungo periodo non troviamo nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna ſcoperta , e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia , eſſendo rimaſta queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert medico Ingleſe , che viveva ful principio del decimo fertimo ſecolo ; ed il quale a cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente chiamarſi il padre della preſente Elettricità . Offerva egli che la proprietà d'attrarre i corpi leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà particolare dell'ambra o del Lincurio , ma che molti altri corpi la poſſeggono egualmente . Rammenta un gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie particolarità , che conſide rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo 1 6 INTRODUZIONE colo poſſono ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando benchè con piccoli progrefli , paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità , a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte ope razioni . Tale fu Franceſco Bacone , Ro berto Boyle , Ottone Guericke , Iſacco Newton , e più di tutti il Sig. Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità . Il Sig. Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro , ſoſtanza che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in preferenza di qualunque altro elettrico . Egli fu il primo che notaſie le varie apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa , inſieme con una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica . Do INTRODUZIONE 7 Dopo il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata , rimaſe quaſi per venti anni in uno ſtato di quiete , eſſendo l'attenzione dei Filoſofi in quel tempo occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in riguardo alle nuove ſcoperte dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora grandemen. te in reputazione . Il Sig . Grey fu il pri-, mo dopo queſto periodo d' oblivione a portar la ſcienza di nuovo alla luce del mondo . Egli mediante le gran ſcoperte che fece la inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi può dire che prenda la ſua data la vera e florida epoca dell' Elettricità . Il numero degli elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig . Grey , le ſcoperte fatte , e gli uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente , fono materia realmente degna d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua lun 1 1 8 INTRODUZIONE 1 lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere . Chiunque vuole informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza , legga l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Prieſtley , opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto ſoggetto fino alla ſua pubblicazione . Io per me mi diſpenſerò dal farre un lungo dettaglio iſtorico ; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio dello ſtato preſente dell'Elettricità , e non a for marne un'iſtoria . Soltanto oſſerverò in generale , che quantunque la ſcienza ab bia , mediante l'indefella attenzione di molti ingegnoſi foggetti , e mediante le ſcoperte che furono giornalmente pro dotte , eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro attenzione ; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o grande , cognita o inco gnita , INTRODUZIONE gnita , di rado ſono oſſervate con at tenzione , ſe i loro effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi . La ſua attra zione può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita , la ſua luce dal fosforo , e in una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto della pubblica attenzione , e ad eccitare una generale curioſità , fin che non fu . accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza , in ciò che ſi chiama boccia di Leida in ventata dal Sig. Muſchenbroeck nel 1746. Allora lo ſtudio dell' Elettricità divenne generale , ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore , e invitò alla caſa degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello che avanti ſi foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico ſpe rimento . Dal perta del 1 5 INTRODUZIONE 1 Dal tempo di queſta ſcoperta il pro digioſo numero d'elettriciſti , di ſperi menti , e di fatti nuovi che ſono ſtati giornalmente prodotti da ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del mondo , è quafi incredibile . Le ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte , i megliora menti ſopra altri meglioramenti , e la ſcienza da quel tempo fece un così ra pido corſo , ed ora ſi eſtende con sì mi rabile velocità , che ſembra che il fog getto dovrebbe eſſere tutto eſaurito , e gli elettriciſti pervenuti al fine delle loro ricerche : per altro non è così . Il non plus ultra è con tutta probabilità ancora molto lontano , e il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un vaſto campo che mé rita altamente la ſua attenzione e che gli promette ulteriori ſcoperte forſe o d' uguale o di maggiore importanza di quelle che ſono ſtate già fatte .

 

 

Of Natural Philosophy ;—~its Name ;•—its Objeft —its Axioms ; —and the Rules of Philofophizing . T HE word Philofophy, though ufed by ancient authors in fenfes fomewhat different, does, however, in its moft ufual acceptation, mean the love of general knowledge. It is divided into moral and natural. Moral philofophy treats of the manners, the duties, and the condud of man, confidered as a rational and focial beings but the bufinefs of natural philofophy, is to colled the hiftory of the phenomena which take place amongft natural things, viz. among# the bodies of the Univerfes to inveftigate their caufes and effeds ; and thence to deduce fuch natural laws, as may afterwards be applied to a variety of ufeful purpofes*. Natural * The word philofophy is of Greek origin. Pitagoras, a learned Greek, feems to have been the firfl who called himfelf philofopher j viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom. 2 Of Philosophy in general. Natural things means all bodies ; and the aflemblage or fyftem of them all is called the univerfe. The word phenomenon fignifies an appearance, or, in a more enlarged acceptation, whatever is perceived by our fenfes*. Thus the fall of a ftone, the evaporation of water, the folution of fait in water, a tlafh of lightning, and fo on ; are all phenomena. As all phenomena depend on properties peculiar to different bodies ; for it is a property of a ftone to fall towards the earth, of the water to be cvaporable, of the fait to be foluble in water, &c. therefore v/e fay that the bufinefs of natural philofophy is to examine the properties of the various bodies of the univerfe, to inveftigate their caufes, and thence to infer ufeful deductions. Agreeably dom, from the words piaoj, a lover or friend , and croplxi, of knowledge or wifdom. Moral philofophy is derived from the latin mos , or its plural mores , fignifying manners or behiyiour. It has been likewife called ethics, from the Greek r,ccs, mos, manner, behaviour. Natural philofophy has alfj been called p hylics , phyfology, and experimental phi Ifophy: The ftrft of thofe names is derived from nature, or gv-T.hr., natural ; the fecond is derived from pvair, nature , and >. a dijeourfe ; the laft deno nination, which was introduced not many years ego, is obvioufly derived from the juft method of experiment. ' inveftigation, which has been univerfally adopted ftnee the r P.vul of learnin-"- 'n Europe. * Phenomenon, whofe plural is phenomena, owes its origin to the Greek word pf.-.ai, to appear. and the Rules of Philofophizing. 3 Agreeably to this, the reader will find in the courfe of this work, an account of the principal properties of natural bodies, arranged under diftincft heads, with an explanation of their efFefts, and of the caufes on which they depend, as far as has been afeertained by means of reafoning and experience; he will be informed of the principal hypothefes that have been offered for the explanation of faffs, whofe caufes have not yet been demonflratively proved; he will find a flatement of the laws of nature, or of fuch rules as have been deduced from the concurrence of fimilar facts ; and, laftly, he will be inftrudted in the management of philofophical inflruments, and in the mode of performing the experiments that may be thought neceffary either for the llluftration of what has been already afeertained, or for the farther inveftigation of the properties of natural bodies. We need not fay much with refpect to the end 01 defign of natural philofophy.—Its application and its ufes, or the advantages which mankind may deuve therefrom, will be eafily fuggefted by a very fuperficial examination of whatever takes place about us. The properties of the air we breathe ; the action and power of our limbs ; the light, the found, and other perceptions of our fenfes ; the adcions of the engines that are ufed in hufoandry, navigation, &c. ; the viciffitudes of the feafons, the movements of the celeflial bodies, and io forth ; do all fall under the con fideration of b 2 the 4 Of Philosophy in general ; the philofophcr. Our welfare, our very exiftenee-. depends upon them. A very flight acquaintance with the political ftate of the world, will be fufficient to fhew, that the cultivation of the various branches of natural philofophy has actually placed the Europeans and their colonies above the reft of mankind. Their . difcoveries and improvements in aftronomy, optics, navigation, chemiftry, magnetifm, mineralogy, and in the numerous arts which depend on thofe and other branches of philofophy, have fupplied them with innumerable articles of ufe and luxury, have multiplied their riches, and have extended their powers to a degree even beyond the expectations of our predeceffors. The various properties of matter may be divided into two claffes, viz. the general properties, which belong to all bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to certain bodies only, exclufively of others. In the firft part of this work we fhall examine the general properties of matter. Thofe which belong to certain bodies only, will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall examine the properties of fuch fubftances as may be called hypothetical ; their exiftenee having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall extend our views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number, the movements, and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules of Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached articles, fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines, &c. which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The axioms of philofophy, or the axioms which have been deduced from common and conftant experience, are fo evident and fo generally known> that it will be fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence, JI. No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot be annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily admit, the propriety of this axiom ; feeing that a great many things appear to be utterly deftroyed by the action of fire ; alfo that water may be caufed to difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that in thofe cafes the lubftances are not annihilated ; but they are only difperfed, or removed from one place to another, or they are divided into particles fo minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed upon the fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain, the weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of the original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into b 3 its 6 O/Philosophy in general ; its component fubdances, which the atdion of the fire drives different ways : the fluid part, for inftance, becomes fleam, the light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed through the air, &c. And if, after the combuftion, the fcattered materials were collecded together, (which may in great meafure be done), the fum of their weights would equal the weight of the original piece of wood. IV. Every effect has, or is produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general be obferved with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has been conflantly (hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled either by reafon, or by any experiment. But we do not mean to affert that they are as evident as the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to preferibe limits to the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe power and whofe ends are too far re- moved from the reach of our underBandings. Having dated the principal axioms of philolophy, it is in the next place neceffary to mention the rules of philofophizing, which have been formed after mature confideration, for the purpofe of preventing errors as much as poffible, and in order to lead the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to the attainment of true and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than four; viz. I. We and the Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more caufes of natural things, than fuch as are both true and fufHcient to e:g in the appearances. II. Therefore to the fame natural effects we muft, as far as poffible, affign the fame caufes. III. Such qualities of bodies as are not capable of increafe or decreafe, and which are found to belong to all bodies within the reach of our experiments, are to be efteemed the univerfal qualities ol all bodies whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon propofitions colledted by general induction from phenomena, as accurately or very nearly true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined, till fuch time as other phenomena occur, by which they either may be corrected, or may be fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of evidence which ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to remark, that phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute certainty as the branches of mathematics.—The propofitions of the latter fcience are clearly deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as to convey perfect convi&ion to the mind ; nor can any of them be denied without a manifeft: abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that becaufe lome particular effects have been conflantly produced under certain circumftances ; therefore they will moft likely continue to bV produced as long E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl ; and likewife that they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And this is what vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined in the next chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies, and by reafoning upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain confequences. But as the demonftration goes no farther than to prove that luch confequences muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned, the conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable, according as the principles upon which they depend are true, or faife, or probable. It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty, does always direct itfelf to certain parrs of the world ; upon which property the mariner’s compafs has been conftructed ; and it has been likewife obferved, that this directive property of a natural or artificial magnet, is not obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or, in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain as a geometrical one ; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly probable ; for though all the bodies that have been tried with this view, iron excepted, have been found not to afifefl the directive property of the magnet or magnetic needle , yet we are not certain that a body, or fome combination of bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property. Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm ; my only objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which ought to be annexed tophyfical knowledge ; fo that the ftudent of this fcience may become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various branches of mathematics , at leaft with the elements of geometry, arithmetic, trigonometry, and the principal properties of the conic * Scepticifm or fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers, whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible ; and that the mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute date of hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. 10 A General Idea of Matter , conic fedions ; for fincc almoft every phyfical effed depends upon motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities, powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical knowledge ; which fcience may in truth be called the language of nature.

 

Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: filosofia naturale, filosofia trans-naturale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool Library.

 

CAZZANIGA (Torino). Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity is not a myth! He has researched on Cocconato – and he has seriously spoken of the ‘catene d’unione’ – the handshake – which is crosses the longitudinal and latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s no such thing as societies; only individuals! The ‘catene d’unione’ is represented most easily by a handshake, but this is in a catena usually a circle – need it be a close circle? It should be! Perhaps Austin and the Play Group formed such a circle!” -- Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa con Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli, Liguori); La religione dei moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità: fra stati nazionali e ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica italiana, Roma, Pisa, ETS); La democrazia come sistema simbolico "Belfagor" (LV); Le Muse in loggia. Massoneria e letteratura nel Settecento (Milano, UNICOPLI); Storia d'Italia. Annali 21: La Massoneria, Torino, Einaudi) Storia d'Italia. Annali 25: Esoterismo, Torino, Einaudi). Gian Mario Cazzaniga, “Massoneria e letteratura: Dalla 'République des lettres' alla lettera- tura nazionale,” in Le muse in Loggia, ed. Gian Mario Cazzaniga et al. (Milan: Unicopli, 2002),  Gian Mario Cazzaniga, “Origine ed evoluzione dei rituali carbonari italiani,” in Cazzaniga, La Massoneria,  Chi anche in questa fine di millennio continua a nutrire interesse per la storia delle vicende umane, per la storia delle idee e dei tentativi messi in atto per concretarle - soprattutto se le idee in questione sono quelle di libertà, fraternità, uguaglianza - trova in libreria un testo di sicuro interesse: “La religione dei moderni”. Convinto con Eraclito che per trovare oro è necessario scavare molta terra, Cazzaniga ha dissodato a fondo un terreno a prima vista assai ingrato: l'arcipelago multiforme e delirante della massoneria e delle sue sette. Il risultato è però la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa tornare con un bottino non solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra stessa auto-comprensione spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane isole e penisole culturali in cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti, U.S.D. (leggasi: Uomini Senza Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si sono ribattezzati i mille e mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere per il vizio e un templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra i massimi intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau, Condorcet, Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di confondere massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai più nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e nato praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana, comunismo... - risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si chiedesse cosa e chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un intellettuale lucido, raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio come Cazzaniga, il saggui non manca di rispondere. Da esso emerge netta l'opzione per una filosofia curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di generare il nuovo e attenta ai valori della differenza, nutrita da quella passione per le radici culturali del nostro mondo che già aveva indotto Cazzaniga a esplorare "Fin'amors e cortezia nella poesia trabadorica" quali matrici dello "spirito laico". Nel caso attuale si aggiunge un'indicazione di Marx che, in compagnia di Engels, criticava i "critici-critici" tedeschi alla luce delle esperienze realizzate della critica pratica del cervello sociale messo in moto dalla Rivoluzione Francese. Cazzaniga stesso segnala il debito con i dioscuri fondatori del moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità citando a conclusione del commento su Nicolas de Bonneville le parole che hanno costituito l'input decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle social indicato dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e le due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale dalle guerre di religione del Cinquecento-Seicento. Per molti cittadini della République des Lettres la massoneria più che società segreta è infatti una società che tratta segreti, terreno embrionale di una nuova possibile convivenza inter-umana, progetto e luogo possibile di rifondazione di quel legame sociale posto in crisi dalla nascita dell'individuo come nuovo protagonista spirituale della storia europea e dalla distinzione tra religione naturale e religioni positive. Con le sue radici giusnaturalistiche e neo-stoiche, dal mondo classico il progetto massonico recupera anzitutto l'idea di cittadinanza, primo grande esperimento riuscito di costruzione artificiale di un legame sociale ispirandosene per costruire, nella situazione di crisi dell'ancien régime, un progetto analogo. Collocandosi da questa prospettiva la ricerca di Cazzaniga trascende ampiamente la storiografia auto-celebrativa intra-massonica e illumina di nuova luce origine e natura della politica, identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una “religione”. L'elezione del mondo delle logge massoniche quale oggetto di analisi avviene cioè in base alla convinzione storica-teorica circa il loro carattere di "laboratorio" di nuove forme del vivere associato, anzitutto a proposito del vero opus magnum ch'esse hanno contribuito ad edificare, ovvero la costruzione di quella forma politica, sostenuta da partiti di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che poi la nottola filosofica spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente ideali, al tramonto dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti politici di massa, per oltre un secolo protagonisti della democrazia rappresentativa e di una vita politica basata sulla cittadinanza, insieme al tempismo di Cazzaniga è dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo intelligente non abbia spedito in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme a Heine, ottiene il tributo di due splendidi saggi. Oggi la storia ha cominciato un capitolo nuovo e l'autore non ha dubbi che si stia voltando pagina. Non condivide però la convinzione che ciò significhi fine della modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati nazionali pongono in crisi partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali artificiali sui cui la modernità ha costruito la propria storia", la transizione in atto "lungi dall'essere una negazione dei principi costitutivi della modernità, è in realtà "un'affermazione radicale di essa". E la prospettiva indicata da Marx non è affatto radiata in secula seculorum dalla storia. Il comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se ne riprospetti il nucleo vivo e fondamentale non costituito né dall'eguaglianza, né dalla giustizia sociale, né tantomeno dal recupero di una dimensione comunitaria solidaristica, ma dalla capacità progettuale collettiva, dal controllo consapevole del ricambio con l'ambiente naturale, dalla possibilità storica che si apre per la società e per i singoli, in rapporto alla rivoluzione scientifica e tecnologica, di essere finalmente padroni del proprio destino. Nessun dubbio per noi che qui l'impeccabile storico di questa religione  riveli la sua personale cifra ideologica e la passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa, peraltro sobria, cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una espressione, questa, inerente, più che alla politica, a un ambito filosofico-esistenziale, a tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse ancora imparare a cimentarsi.  Mario Cazzaniga. Gian Mario Cazzaniga. Keywords: massoneria, esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita, stato nazionale, conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library. 

 

CECCATO (Montecchio Maggiore). Filosofo. Grice: “I like Ceccato – like other Italian philosophers, he has an obsession with geometrical conjunctions  and my favoruite of his tracts is “La linea e la strischia’ – but he has also philosophised on other issues – notably on ‘cybernetics,’ where he purports to give a ‘mechanical explanation’ of language – he has also talked about the ‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian philosophers hardly use as they see it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ – “He has rather boldly philosophised on ‘eudaimonia,’ without taking into account J. L. Ackrill’s etymological findings – but then the Italians use ‘felicita’! – ‘the ingeneering of happiness’ – and also of the ‘fabrica del bello’ --. Grice: “How to, and how not to” “Are all ‘how not to’ ironic? Ceccato thinks not – he has philosophised on sophistry in ‘how NOT to philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to be ‘imperfect,’ (i. e. ever unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the perfect philosophy – ‘il perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver proposto una definizione del termine "filosofia" e un'analisi dello sviluppo storico di questa disciplina ha preferito prenderne le distanze e perseguire la costruzione di un'opzione alternativa, denominata inizialmente "metodologia operativa" e in seguito "cibernetica". Filosofo prolifico, ha numerosi saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica. Pur ottenendo notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso successo nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad interessarsi alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in collaborazione con il Gruppo V di Rimini.  Studioso della psicologia filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale. Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della successione di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua adamica) da lui chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a Immanuele Kant. Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche a Milano. Incontró, durante una cena di gala, il Professore di Sistemi di controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo incontro ispiratore decise di partecipare come attore nel film "32 dicembre" di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del folle Cavalier Sanfilippo che si crede Socrate.  Un tecnico tra i filosofi, così intitolò il saggio apparso nelle Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli: "Come filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il linguaggio con la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et Industrielles, Éditions Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale dell'Automatismo, Milano); “Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica per tutti, Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi, Milano); “Il gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista da un cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa e responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed.  Priuli&Verlucca, Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia” (Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e attualità della logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova, Universitas Studiorum. 2.00 PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE MACCHINE , di Silvio Ceccato. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione delle Attivita ...  L ' Anatomica methodus , di Andrés Laguna ( 1499 - 1560 ) . Pisa , Giardini , 1968 . Ceccato , Silvio , comp : Corso di linguistica operativa . A cura di Silvio Ceccato . Centoventotto illustrazioni nel testo . Milano , Longanesi , 1969 . 321 p . lllus. Language and Behavior ( 1946 ) was published in Italian translation in 1949 , thanks to Silvio Ceccato ( cf . Petrilli 1992a ) . Silvio Ceccato , padre della cibernetica italiana , che in quegli anni stava mettendo a punto insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “ intelligente ” , di cui si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle macchine. Studi in memoria di Silvio Ceccato - Page 5books.google.com › books· Translate this page 1999 · ‎Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio Ceccato Felice Accame Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte , i giornali hanno dedicato pochi , imbarazzati e , a volte , imbarazzanti articoli alla figura di Silvio Ceccato . Se qualcuno , tramite questi articoli ... Silvio Ceccato's little volume Corso di linguistica operativa ( Ceccato 1969 ) sits on a quiet shelf in Lauinger library , the work of a semantic pioneer. Silvio Ceccato . Silvio Ceccato . ( Civilta delle Macchine , Nos . 1-2 , 1956 ) This monograph presents a discussion of the problems encountered by members of the Italian Operational School in their attempts to develop techniques to be used in ...  Foundations of Language - Volumes 1-2 - Page 171books.google.com › books 1965 · ‎Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 171 ... with his hand , when he moves the pieces , he performs a manual , a physical activity . Foundations of Language 1 ( 1965 ) 171-188. All rights reserved . The two types of activity can be distinguished in a 171 SILVIO CECCATO CECCATO. I use an operational approach to mental activity based on Silvio Ceccato ' s " TECNICA OPERATIVA " ( Ceccato - 1953 , 1961 ) , one of the earliest approaches implemented on a computer ( University of Milan , 1961 ) . 2 - I look at the. Debbo la spinta a studiare processi di questo tipo alla ' tecnica operativa ' di Silvio Ceccato , di cui un primo abbozzo in Language with the Table of Ceccatieff . Paris : Herman & Cie . 1951 . Die Ceccato si verdano anche articoli in Methodos ... Silvio Ceccato , the Italian pioneer in the analysis of mental operations and construction , told me that once , after a public discussion of his theory , he overheard a philosopher say : " If Ceccato were right , the rest of us would be fools ! Silvio Ceccato's group exploited semantic pattern matching using semantic categories and semantic case frames , and Ceccato's approach ( 1967 ) also involved the use of world knowled. Grice: “Ceccato developed a theory very similar to mine – Like myself, he is an unusual philosopher!” -- Silvio Ceccato. Keywords: logonia – logonico, tabella di Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria della felicita, il genitore come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di Bridgman, influenza di Gentile, modelo cibernetico della communicazione, adattazione, soprevivenza, organo ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale, modello mentale, psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library. 

 

CELLUCCI (Santa Maria Caputa Vetere). Filosofo. Grice: “I love Cellucci; for one, he wrote on Cantor’s paradise, which is an extremely interesting tract and figure! There’s earthly paradise and heavenly paradise and Cellucci knows it!” – Grice: “Cellucci, like me, also philosophised on ‘logic,’ in my case because of Strawson; in his, because of me!” Si laurea a Milano. Insegna a Siena, Calabria, e Roma. Si occupa soprattutto di logica e teoria della dimostrazione, filosofia della matematica, filosofia della logica, ed epistemologia. Altre opere: “Breve storia della logica italiana: dall'Umanesimo al primo Novecento” (Lulu, Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza, Roma) – perche no? “La filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza, Roma); “Filosofia e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza, Roma); “Teoria della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti salienti della storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo, Syzetesis); “La logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone. Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi,  Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo Novecento  [Lulu Press, Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza, Rome, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e matematica, Laterza, Rome, Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della dimostrazione, Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti di filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo,  La Cultura. La logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo del nous  nella conoscenza scientifica”, In  Il Nous di Aristotele , ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In  La guerra dei mondi. Scienzae senso comune , ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In  I modi della razionalità , ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria della logica polivalente nell'antichità o la storia antica,  Bollettino della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica , Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di Antonio Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la filosofia. Un colloquio con (e su) Carlo Cellucci; La spiegazione in matematica. Periodicodi Matematiche  (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 = 12” has zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le scienze , Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”, in Logica ediritto: argomentazione e scoperta , Lateran University Press, Vaticano); Ragione, mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta , Bruno Mondadori, Milano); Filosofia della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi. L’ideale della purezza dei metodi, I fondamenti della matematica e connessi sviluppi interdisciplinari  Pisa-Tirrenia, Mathesis, Rome); Per l'insegnamento della logica.  Nuova Secondaria. La logica della macchina, in Le macchine per pensare ,La Nuova Italia, Firenze); Logica e filosofia della matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia della scienza in Italia nel ‘900 , Franco Angeli, Milano; Bolzano,  Del metodo matematico, Boringhieri, Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in matematica; in C. Mangione (Ed.), Scienza e filosofia ,Garzanti, Milano; Storia della logica, Laterza, Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva, Teoria. La complessità delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo ordine, Logica Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di Parmenide nelle teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’ adaequatio?” Scienza e storia , Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà di coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica , Editori Riuniti, Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità , Bologna (il Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche. Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia. Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o non meccanico? In  L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La filosofia della matematica. Laterza, Roma.  C . Cellucci ha illustrato gli scopi della logica matematica di Peano . Anche se con motivazioni diverse , tali scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege , e consistono principalmente nell ' ottenere. Carlo Cellucci. Keywords: Peano, logico filosofico, philosophical logic, logica filosofica, il paradiso di Peano, la rinascita della logica in italia, storia della logica in italia, formalismo, platonismo, teoria dell’adequazione, calcolo di predicato di primo ordine, regole d’inferenza, spiegazione matematica, logica antica, la logica nella storia antica, connetivo, connetivo russelliano, connetivo intuizionista, prova, dimostrazione, Aristotele e la mente, il nous, l’anima. Concetto di nomero, definizione splicita, implicita, gradual del numero, peano, frege, logica della scoperta, revivirla? il paradiso di Rota, il paradiso di Cantor, parmenide, non-contradizzione, il significato, il problema de significato, il problema del significato in Hintikka, Grice divergenza connetivo logico e connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’ ‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno uno)’, ‘il,’.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cellucci” – The Swimming-Pool Library.

 

CENTI – (Segni). Filosofo. Grice: “I like Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his life to Aquinas, o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he also philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed the expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“ Grice: “According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti della filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottorò presso l'Angelicum di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino, Maestro in Sacra Teologia dal maestro generale dell'Ordine domenicano Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il Timone”. Noto soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato per i tipi di Adriano Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma Teologica”. Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di san Giovanni ( Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli (Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae etc.) e varie Questiones Disputatae.  Oltre al commento d’Aquino, si occupa anche di altre importanti figure storiche come Savonarola e Beato Angelico. È stato membro della commissione storico-teologica incaricata di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha difeso l'ortodossia, dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui attribuite che avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo che la scomunica inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua condanna fosse la sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro VI.  Altre opere: “La omma teologica, testo latino dell'edizione leonina, commento a cura dei Domenicani italiani, T.S. Centi, Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, UTET, Torino); Catechismo Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal Papa Pio V per Decreto del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola. Il frate che sconvolse Firenze, Città Nuova, Roma); “La scomunica di Girolamo Savonarola. Santo e ribelle? Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano); “Aquino Compendio di Teologia e altri scritti); Agostino Selva, UTET, Torino); “Il Beato Angelico. Fra Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, Inos Biffi); Le altre due Somme teologiche Edizioni Studio Domenicano. Nel segno del sole. San Tommaso d'Aquino, Ares, Milano. Speranza, “Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano intenzionalista (grammatico speculativo) – l’intenzione del segnante. Il problema del segno (segnante, segnato, segnare, segnazione, segnatura). Un segno e monosemico. La figura retorica della metaforia permesse interpretare un sengno de maniera allegorica, ma e rigorosamente referenziale. Un segno che e presente rinviano ad una segnatura – segnato/segnatura -- un evento che ha la realta come punto di riferimento. Un segno particolare  o particolarizato è quello del sacramento, o segno efficace, che testi-monia la presenza della grazia divina e fa quel che dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo essere ‘ad placitum’ – ‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno e dal segnante legato no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un concetto. Un segno naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita (efficace) e per iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione del segno e del segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno naturale), o arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De interpretation” (cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei opere di logica contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la relazione che intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il rapporto fra le otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla combinazione di queste parti. Aquino, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa un commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata interpretata e commentata durante il corso di Logica tenuto da Gimigliano presso l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso tutee elabora un’interpretazione su un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione sono ad opera di Gimigliano.  Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur.  Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum.  Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.  His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.  Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis.  Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera.  Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae.  Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum significationem exponere.  Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno.  Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.  Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.  Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud omnes.  Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione.  Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.  Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.  Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus.  Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso.  Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima.  Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem.  Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.  Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.  Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis.  Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum.  Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.  Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter.  Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum.  Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio, licet non explicita.  Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Postquam philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.  Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat.  Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox significativa.  Sed cum vox sit quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas artificiales in abstracto.  Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.  Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi.  Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus.  Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit , manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae.  Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet.  Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter.  Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.  Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.  Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.  Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem.  Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera.  Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat.  Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari.  Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati.  Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.  Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum.  Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo.  Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto.  Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.  Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis.  Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum.  Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid.  Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens.  Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.  Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit.  Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem.  Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse.  Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis.  Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum.  Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum.  Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio.  Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae.  Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.  Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.  Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter.  Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.  Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.  Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est.  Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum.  Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam.  Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera.  Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam.  Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.  Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae.  Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium.  Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est.  Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.  Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa.  Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter.  Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis.  Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.  Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit.  Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans.  Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.  Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum.  Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti.  Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus.  Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera.  Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa.  Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam.  Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera.  Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto.  Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem.  Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.  De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis.  Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.  Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera.  Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem.  Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae.  Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici.  Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum.  Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal.  Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali.  Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.  Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera.  Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa.  Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae.  Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa.  Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria.  Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.  Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus.  In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur.  Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.  Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera.  Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis.  Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio.  [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus.  [80426] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria.  Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi.  Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen.  Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.  Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est.  Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis.  Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa.  Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur.  Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur.  Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte.  Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit.  Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.  Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis.  Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt.  Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.  Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant.  Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.  Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus.  Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.  Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo.  Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt.  Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio.  Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est.  Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur.  Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.  Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant.  Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.   Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.  Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant.  Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae.  Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.  Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera.  Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.  Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.  Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa.  Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera.  Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum.  Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum.  Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.  Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens.  Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres.  Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis.  Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.  Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur.  Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit.  [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae.  His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.  Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.  Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.  Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.  Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice: “You tell me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call him a philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus, Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando infirmus signat infirmitas -- tomismo, Aquino, why Aquino is hated at Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool Library.

 

CENTOFANTI (Calci). Filosofo. Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in the rus of Tuscany – dedicated all his life to the philosophy of Tuscani – notable are his philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the Cole Porter mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” – how much he hated the Etrurians, he made them second-class! – and most importantly, the Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration on ‘Italian philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee for his history of English philosophy, but in a typical Italian manner, Centofanti dedicates his history of Italian philosophy to a member of the nobility! – the duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si laurea a Pisa. Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore secondo Mamiani”; “La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana, Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa); “Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri” (Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia – noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia” (Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano” (Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli; “Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degli italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a Crotone che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e vinti dall’autorità del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine liberale e giusto. Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma i romani (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re Numa escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l’obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d’Abari, il mistico viaggio all’inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia alle congetture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl’interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando surgeno gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore. Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae, I, 9) e uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto. Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa, la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di Bruckero (Hist. crit. phil., II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips.). Chi recalcitra ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso di una cosa esteriore immoderatamente desiderata. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la comunione del bene, ordinata a felicità più certa della setta. Quei che appartene ad un pitagorico e a disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale della setta pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”, dice Diodoro Siculo, “si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum *fratre* dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón te medėn fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito a Pitagora da Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των φίλων”. Anche la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si dirama la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato con profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di ogni procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità. Nell’età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero dell’*obbedienza* e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si lascia dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma all’uomo e la presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della cognizione radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara, finchè non ne ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata non basta, chi non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo e sapientissimo testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere intese pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di quelche la insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per anche iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro senza discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso e simbolica; e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che così ha detto e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse dixit” credo di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè nota Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone, Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo attribui ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione valeret auctoritas” (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal quale riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) rifiuta il titolo di *sapiente* e adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel precetto alla vita e dai buoni effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo dove conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per due, tre, o cinque anni, e proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la baldanza dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E allora passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante, discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla, ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento quanto e bisogno alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso ponesi il monumento siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto, non lo nega neppure Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere religioso e grande. Ma il degno di rimanere nella setta, e che passa alla classe superiore, comincia e segue una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata la misteriosa cortina, il discepoli divene college, compagno di giocco, condizionato a non più giurare sulla parola del maestro, puo francamente ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. La aritmetica e la geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta idea del mondo intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al necessario attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del numero l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia; gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’ pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc . Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico, probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane, miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str., 1. 15). Questo e l’ordine, questo il vivere della Società Pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella civiltà della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina. Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale conclusione ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente un’idea storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il paese dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembra essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora (o Grice) sia insieme un filosofo e una filosofia perenne. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno che non lasciandosi andare l’agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un filosofo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla filosofia, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un filosofo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per rispetto alla filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione del filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e alla ricupera della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale. Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto, II, 81.; IV, 95 — Isocrate reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων TTPŪTOS ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E Cicerone lo fa viaggiare per la Liguria (De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina -- Laerzio, VIII , 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio, VIII, 21). E noi qui alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio, pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana (“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis” -- zúov; che è notabile differenza: perchè , laddove le tre vite razionali nella traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1). A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit. , 19) ci lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα παρά πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica) tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato. L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici: l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna.  Alcuni videro in questa tetratti il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali riguardavamo toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento pitagorico – “Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν” – “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem perennis naturae radicemque habentem” (Porph., V. P., 20). Il Moshemio sull’autorità di Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell’anima. Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s. 20). Noi dovevamo governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o filosofo, ma a Pitagora qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi , fa cendo raccolta di dottrine , apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera ; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo , che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti ; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola . Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona , questo lume ideale , si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui , non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto : ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica , o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi , non si muove mai da . un concetto pienamente sintetico , il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare ; non si ha un criterio , che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni . Si va per ipotesi più o meno arbitrarie , più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito , non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato , che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino , pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare , come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere , o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso , che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori , non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto , l'idea divina , im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano , e in diversa forma attestano una verità identica : e qui è il criterio giusto ai ragionamenti , che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta , e il principio organico della sua istituzione , e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati , è cosa naturalissima a intervenire , e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia , né indusse il bove tarentino , di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini , a non più devastare le campagne : ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli , tutte le cose apparentemente incre dibili , che furono di lui raccontate, all'idea , e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi , nume e legislatore dei Geti , ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora : poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria , e vede i costumi rozzi , il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde , valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri , alla tolleranza delle fatiche , alla costanza della virtù , Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo , ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce , è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno ; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche : e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti , e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti , incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima ; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici , e della medicina pitagorica ; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime , ma anche qual si fosse la sua forma primitiva : e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica , accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito , ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo , discorriamo rapidamente la storia , secondo la parti . zione che ne abbiamo fatto . Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica , e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo , città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse : questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero , e che noi ancora , senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso ; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie , le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola ; cosi Caronda , Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici . Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio , di Cicerone , di Varrone , di Dionigi di Alicarnasso ,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon , contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven. , I , pag. 53; Niebuhr , Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima . mente introdusse fra i Greci e pesi e misure ( μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal) , congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure , e quello della confinazione agra ria , e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico , V. P. , VII , XXX ; Porfirio , id . , 21 , dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica , ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci : e Creta, come fu osservato dall' Heeren , è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento . In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria , tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv . fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote , History, ec., tomo II , p . 530 e segg. -- del comune , i possedimenti : le mense, pubbliche: punita l'avarizia , e forse l'ingratitudine; -- Seneca , De benef., III, 6 ; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII ; Valerio Massimo, I , 7 ; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico : e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos , de. gnato alla familiarità di Giove , vede questa eterna ragione dell ' ordine , e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese , come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX , 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min . ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta : dorica anch' ella , an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città : tutta la vita , una disciplina ; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica : e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono . Pre domina l'aristocrazia , ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore : le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi , e in certi tempi pubblico il sindacato ; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero , e son comuni i banchetti : e la donna (cosa notabilissima) , non casereccia schiava , ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane . A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi ? Ad Apollo Pitio . Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo , era figliuolo di questo medesimo Apollo . Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici : onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica . Che diremo delle instituzioni jeratiche ? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro , ma non richiesto al nostro bisogno . Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri , il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni . Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea , fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea ; finalmente , dopo molte lotte, la concordia loro : ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica , che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia , e Platone ce lo attesta , che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano : non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora , nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi . Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque ( Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum , sed orationis illustran . dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph ., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi , i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse , la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica , e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia , eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade , recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia . Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù , e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica . Veniamo ora all' Italia ; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre ; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine , per arti , per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca . Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo : ed Aristo tele , che testimonia questi fatti , ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche , anteriori a tutte le altre , duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit. , V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata ; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche , forse avrebbe potuto avvi . sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura , e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile , le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P., XXX. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas ... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit : quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria , et homo in deae religione cultus fuit . VIII , 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi , Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare ( Plut. , in Num .) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno ; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater ; isque parentem Te, Saturne , refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito , disciplinato , secondo chè ce lo rappresenta Euripide , alla vita orfica . At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat ; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII , 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato , e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio , giudicando romanamente il mito , lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche , operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei , il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone , la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia , il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica , di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze , e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica . Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva , dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo , e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata . Dodici erano gl'Id dii consenti , e dodici i popoli dell'Etruria . Pei quali con giungimenti della terra col cielo , la civiltà divenne una religione ; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante , e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico . Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che , l'etrusco Lucio , introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci , diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C. , VIII , 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica . Antichità Ilal., vol . III , pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica , e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici , scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane , e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri , più di me amico delle congetture , potrebbe , se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe : la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione , che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa , sembra essere cosi confermata dalle cose , ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti , il tempio rotondo di Vesta , ia sapienza arcana , le leggi , i precetti , i libri sepolti , i pro verbi stessi del popolo . Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita , e la dignità fastosa di Numa ; il Flamine Diale , a cui è vietato cibarsi di fave ; il vino proibito alle donne , ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana , ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà , dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo , come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela , dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale , dalla suprema indipendenza del ponti ficato , simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta , dagli ordini conducenti a comune concordia , dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale , da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni , ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio , e ne argomenta nazionalità necessaria . E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico , e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento , col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole , ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa , e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi ( il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse , ec . Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male , è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie , e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse ; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè , senza più oltre distenderci in questi cenni istorici , concluderemo , che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni , e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze ; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società ? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria , per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero , e divenissero altra cosa in quella sua instituzione ? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora . E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche , abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni , o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima : e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie . Vedi Cesare, De Bell . Gall. , VI , 5 ; Diodoro Siculo , VIII , 29; Valerio Massimo, II , 10 ; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi : Hi terrae, mundique magnitudinem et formam , molus coeli et siderum , ac quid Dii velint , scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu , aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt , in vulgus effluit , videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III , 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos , scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato , nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit . Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson , la teoria dei numeri e della musica . Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1 , pag. 296. Ma il grand' uomo , del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà , nelle scuole jeratiche , nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente , che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia ; ma anche generalmente alle terre greche e italiane , e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana ; che era l ' idea scientifica . Procedimento pieno di sapienza , e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c . V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore , chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca . E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse . Trovò genti calcidiche , dori che , achee , e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza , e nelle terre opiche i tirreni . Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute , repubbliche in guerra , go verni abusati ; ma e necessità di rimedi , e ingegni pronti , e volontà non ritrose , e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti , quante fatiche tollerate , pensata preparazione di mezzi , e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima , e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli .... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti , e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva , indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile , è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età , e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee , ma tutte , e secondo i gradi della loro dignità nativa : non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione : con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni , e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali , e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum , qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo , VII, 15 . Non ferma le sue instituzioni a Cro tone , a Metaponto , nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno , e fa invito a tutti i magnanimi , e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco , nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia , destinata ad esser la patria della civiltà universale . Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva , i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei , quasi in fecondo seme : tanto è profonda , e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate , osservando , dall'educazione fisica delle indi vidue persone ; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche . La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine , ma è mezzo, e dee preparare , secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali . E la musica , onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore , è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale , e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui ; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle , e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona . La quale , inte ramente abituata a virtù ed a scienza , era una unità par ziale , che rendeva immagine dell'Unità assoluta , come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo , che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea , non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec . , De Senect. , XX ; Tuscul., 1 , 30) , ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo , i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione , siccome a Sparta , e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza . Aristosseno ap. Stobeo , Serm . XCIX. – Dicearco , ap. Giamblico, V. P. , XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo ( Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila : ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere : ai giovani , che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani , gli uomini giovenilmente vivere , e i vecchi non aver senno , repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza , e di utilità ; di vanità e di bruttezza , la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo , di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole : e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età , anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto , che, per nativa attitudine , potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica , e conti nua ; e tutte le potenze , secondochè comportasse la natura di ciascuno , venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv, .... oportere hominem quoque fieri unum (Str. , IV , 23.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia , a questa bella unità , cioè perfezione dell'uomo intero , più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė : l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà , al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo ; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli : 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano , dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano , mise in guerra le sue idee con le cose , e preparò la futura ipocrisia di Sparta , e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo , venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale . Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile , o di quello almeno italo-greco , era , non può negarsi , una specie di stato nello Stato ; ma essendo composta di elettissimi uomini , e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane , esercitava in ogni terra , o avrebbe dovuto esercitare , con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice , e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune . Im perocchè Pitagora , infondendovi il fuoco divino dell'amore , onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia , applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini , e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali , desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene ; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari . Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra , nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora , racco glitore storico della sapienza altrui : ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia . E diciamo , che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no , e la speculazione era libera , tutte queste dottrine do . veano dipendere da un supremo principio , che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria , nell'aritmetica , nella musica , nell'astronomia , nella fisica , nella psicologia, nella morale , nella politica , ec . , non si potrebbe se non a frammenti , e per supposizioni e argomentazioni storiche ; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori . Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale , alla Monade teocosmica , come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile , non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év . De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice , v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono : e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto , indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale , non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche , ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose ; e il libero arbitrio dell'uomo , anziché esser di strutto , ha preparazione , e coordinazione , e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia , nelle cui con figurazioni si determina , e si divide , e si somma , e si moltiplica , e si congiunge con quella geometrica , e misura tutte le cose tra loro e con sè , e sè con se stessa , questa eterna ragione ci fa comprendere , che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo , sono ancora que’ medesimi , onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica , nella ginnastica , nella medi cina , nella morale , nella politica , in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile ; un'apparenza simbolica ai profani , e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati . Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio , nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia : nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia , fino dalla sua origine , fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero . E perocchè questo emanatismo è vita , indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1 , 5) sulla filosofia pitagorica , comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico ( Pyrrh. Hyp. , III , 18) , se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono ( των όντων ... οι αριθμοί φύσει πρώτοι) . Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche , ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa , se non fosse una , sarebbe nulla , indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione , ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta , senza la quale niuna cosa può essere , notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra , ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè , è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero , che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti , si risolve da ultimo in una unità sintetica , che è l'ordine ( xóquos) costante del mondo ; nome che dicesi primamente usato da Pitagora . Il quale se avesse detto ( Stobeo , p. 48) , che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo , ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine , ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee : γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea , e appartiene alla fisica generale dei pitagorici . Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque , inteso a combatterli , non valutò bene questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali , che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna , anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui , e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle , o raggi di una co mune sostanza eterea , debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela , e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose . Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica , che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà , la quale è l'ordinatrice di tutte le cose . Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo , ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui . Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne , non ci renderemmo difficili a dire : che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione ; e si può facilmente credere . Veggasi anche Plutarco , in Numa , ec . – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica , molto volentieri concesse , che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali , gl' in cantamenti mistici , la religione , e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura , o non facendone conto . Parlando poi dell'arcano di questa società , ne restrinse a certo suo arbi . trio la ragione , per non cangiare Pitagora in un impostore l ... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici ; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni , anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare , del quale facea sentire la stoltezza ; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice , dovea rispettare le religioni popolari , e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito , e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine , cioè una perfetta forma di vita , alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia . E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo , un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali , un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita , filosofia , religione suonavano a lui quasi una medesima cosa . I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole , il maestoso silenzio delle notti stellate , il giro delle stagioni , la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù , e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente , un concento dina mico, un consentimento di simpatie , un desiderio , un do cumento , una commemorazione di vita , una religione d'amo re . Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali , e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na , come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico , insegna , doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità ; ovvero astenersene , quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura : έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta . (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi ( doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno , dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato , e anche ripeteremo , che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza , che recava tutto all ' Unità , alla Monade teocosmica , non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare . Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi . Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam , a civitate seditionem , a fumilia discordiam dixooposúvnu) , a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno , allegato da Porfirio ( V. P. , 22 ) , suo . navano spesso in bocca a Pitagora ; cioè , questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli , come ci attesta forse lo stesso Aristosseno , tirannie distrusse , riordinò repubbliche sconrolle , rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine , le soverchianze e i prepotenti spense , e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P. , XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug . gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra , chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa , sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico . Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo , furono trovati libri pitagorici di questo genere , fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura -- ... quibus explicatis ad rationemque revocalis , rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1 , 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica ; di che non occorre qui ragionare . Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa , la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina , da Pisone , da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano , da Varrone , da Tito Livio , da Valerio Massimo , ( L. 1 , c . 1 , 4 , 12) e da Plinio il vecchio ; al quale rimando i miei leggito ri ; XIII , 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto . Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora : e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose , che sostanzialmente abbiamo considerato , è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata : e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità ; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose , mostrando , quanto fosse possibile , la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica , e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma , guarda sparsamente le cose , che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema , le avrebbe trovate più grandi , e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale , ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse , si vide posto , per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici , pitagorici e pitagorèi , son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio , ma che accennano sempre a due ordini di per sone , nei quali , per costante necessità di cause , dovesse esser partita la Società , e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche , e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti ; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni , fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà : e mentre durava la disciplina inferiore , che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine , quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano , quel silenzio , quelle pratiche religiose , tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà , che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo , e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico , potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi , e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque , che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone , di discipline , di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico , le une colle altre sapientemente contemperate : e l'ar cano , che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare , ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo ; e la perfezione dell'uomo individuo , indirizzata a miglioramento ge nerale della vita ; vale a dire , tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo . Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano , e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No , per fermo ! ma era una società - modello , la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica , coltivava ancora le scienze , aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga , quanta è la virtualità della umana natura . Or tutti questi elementi erano in essa , come già mostrammo, ordinati sistema : erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale . E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio , pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni , di capacità , di bontà morale e politica , che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza , non sentiamo noi che le prudenti arti , e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna , non con una parte sola de' suoi ordini organici , ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano , a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi , e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità , senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica , alla loro consociazione ? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari , quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle ? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita , e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche , e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto , e necessarissimo alla politica , di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto . Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose , ha valore . Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica . E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo ? da pochi motti satirici ? da una poesia filosofica ? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata , rigettata , internamente usata , e ciascuno l'intende a suo grado , e presto passa dimenticata dal maggior numero . Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee , ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale . Quindi , ancorchè non potessero tornargli cagione di danno , non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica ; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla : aspettare i tempi opportuni , e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea ; ma divenire un fatto. L'arcano adunque , gioya ripeterlo , dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti , tutto il patrimonio migliore , tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte , che se ne volesse far materia di severa disciplina . Non dico l'esilio assoluto della voce , come chiamollo Apuleio , per cinque anni ; esagerazione favolosa : parlo di quel silenzio , che secondo le varie occorrenze individuali , fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P. , 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica , non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte . Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici , forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore ? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso , quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici , e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi , che pur somigliano tanto a vita contemplativa , come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero ? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola , e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse . Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni , le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera . I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo , che ne scopre la falsità nascosta . Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza , quando non si convengono con le leggi della ragione : e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali , ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali . Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine ; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico : infaticabili nello stu dio , non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni ; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà , e massimamente i collegi jeratici , fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi , e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze , con lu strazioni sacre , con la giurata religione del segreto , ec. , celebravansi di primavera , quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura . I secondi , d'autunno; quando la natura , mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza , e l'arte dell'agricoltore , confidando i semi alla terra , ti fa pensare le origini della provvidenza civile . E il sesto giorno era il più solenne . Non più silenzio come nel precedente ; ma le festose e ri . petute grida ad Jacco , figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa , la notte misteriosa ed augusta , quello era il tempo della grande e seconda iniziazione , il tempo dell'eеро ptea . Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine , e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo . Abbiam toccato di queste cose , acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico , e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora . Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte , nè partecipante al sacramento della Società ; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito , secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto : e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del . l'umana eccellenza , che fu in lui simboleggiata . Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito , la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino , indi non venisse lume logicamente necessario , non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili , ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione , e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica , ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta . Già vedemmo , la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica ; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi , chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica , e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia , dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni , quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza . E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche , che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide , stimato figlio di Mercurio , e nei corpi di Euforbo , di Ermotimo e di Pirro pescatore delio , ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito , che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII , 4) ; il che , secondo la storia positiva , è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata ; perchè qui Pitagora non è l'uomo , ma l'idea , cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL , scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι , την ψυχήν , κύκλον ανάγκης αμείβου . oav , äraore än2015 évseifar C60! 5 , VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem , aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene , non si vuol credere ; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie . gato il sistema , non vuol dubitarsene . E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao , quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima , fossero appunto quelle di Pitagora : ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi , non considerata da sè , ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico , come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica , dovea mostrarsi a coloro , che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè , che tutto potesse per se medesima , ma che molto perdesse della sua purezza, libertà , e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee , etc. Queste idee son tanto connesse , che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon . dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente , a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare , che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà , essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni . Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento , i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi : e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche ; o quelli che separavansi dal centro nativo , non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali . Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario , e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri . La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso , esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità . Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione , cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie : e fino all'età di Filolao , quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati , tutto fu recato sempre al fondatore di essa , e nel nome di Pitagora conservato , aumentato , e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa , che è molto probabile congettura , fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh , e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, VIII , 15 , confermato da Giamblico, V. P. , XXXI , 199, da Porfirio , da Plutarco, e da altri , il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao , μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico , che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche , e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi , o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine , i principali intendimenti , il principio fondamentale certamente doveano conservarsi : le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo , che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici , indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche . Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere , una intera storia di Pitagora , ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero , quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato , e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri ; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno , nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo , quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine . In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica , e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali , scrittore di una storia generale dell'Italia antica , le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners , ma con servilità o con poca originalità di ricerche . Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo , e che , se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose . Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica : combatte il classico pregiudizio di quelle greche : non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia , non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi , o con quanta preparazione di studj , ma certo con divisamento generoso , e con dimo strazione di napoletani spiriti . Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico , che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza , che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare ; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine , dal quale ho incominciato questa menzione , noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi , già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo , le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca . Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd . allo studio della Relig. lib. II , SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali , nè speciali , nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico , per la conservatrice virtù della religione , per la mirabile diversità degl' ingegni , per la spezzatura degli stati , per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora , non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale , nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito : e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV , pag . 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia , nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri , nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti , ma per ogni qualità di leggitori , i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi , e troppo spesso , quanto meno lo posseggono , tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa , che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere ; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi . E peroc chè tutti , che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo , e poste alcune fondamenta salde , di qui mossi a rifare la storia . Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna , e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia , riman sempre alcun dubbio , via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere , senz'ombra nè lacune, la verità , ivi la moderazione è sapienza necessa ria , e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza . Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione . È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici , e che faccia un lavoro pieno, quanto possa , intorno a questo argo mento . Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie : forse nei primordi di Roma , anche pelasgica , quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti , che altri non creda : forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo ; quella cioè della consan . guinità semitica dei pelasgbi . Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica . Il corso trionfale dell ' Ercole greco , che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta , e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas . sando in Italia ; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l . Hist. , IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo , e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca , è da restituirsi all'Ercole Tiri , come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren ( De la politique, e du commerce, etc. II , sect . I , ch . 2) . E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni , volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo , e insegna le arti della vita ; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci , alle colonie , alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito , poi divenuto romano , intorno a Caco , e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra , e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri . E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio , e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora , non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva ; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere , che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole , ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti : furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea , di qualunque natura ella siasi , tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto ; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose , che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali , non basta più ai bisogni del secolo , e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento , allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi , e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano , da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda , l' immensità luni nosa , la libertà , la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici ; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita , onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni , nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli , i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede , nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era , o non sapeva di essere , e bisognava formarla . Il perchè una società , che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane , grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava , lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie , che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario , doveano passare molti secoli , e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione , a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi . L'indole e gli spiriti aristocratici , che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune : quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa , intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue , il vantaggio pubblico , gli effetti della buona educazione , la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi . E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono ; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali , e da altri ; ond'io , non potendo qui entrare in discussioni critiche , mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op . portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio , e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito : αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι , δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous ; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda ? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso , e miticamente , cið le più volte è argomento , non dell'uomo, ma dell'idea . Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza , che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita , che poi ne uscissero in luce , in luminis auras , qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole . Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo , quella espressione tę didew , ex inferis, non vale una provenienza , che , recata ad effetto una volta , indi sia asso . lutamente consumata ; ma una provenienza , che si continua finchè duri la presenza della mitica persona , di che si parla , fra gli uomini. Onde , finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente , lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche , cioè recondite e misteriose : ex inferis o più conformemente al greco , è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria , che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi , come in quello di Pita gora , che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero , ovvero , come nel caso nostro , quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo , dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità , o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente , è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica , ég aidéw. Adunque , se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero , noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico , da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè , secondo questa testimonianza mitica , dalla fondazione di esso alla età di Filolao , e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia , correrebbe lo spazio poco più di due secoli . E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno , d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui , e nel suo nome insegnata , avrebbe sempre parlato , come realmente fece, con un arcano linguaggio . – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet . tuale , chi ne facesse riferimento ai molti , talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi , cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna ; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco ; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla , e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina , professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie , gridando come uomini inspirati , e danzando: chi divoto fosse purificavano : inse gnavano ogni spirituale rimedio , e preparavano a felicità sicura . E intanto seducevano le mogli altrui , e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici ; testimoni sto rici , Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai , nè potevano , i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido , la religione in supersti zione , la virtù in apparenze vane ; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi , e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II , ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate ; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie , e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito , e nel culto esterno del corpo. Timaeus . . . . scriptum reliquit .... Diodoro ...diversum introducente or natum , Pythagoricisque rebus adhaerere simulante .. Sosicrales .... magnam barbam habuisse Diodorum narrat , palliumque gestasse , et tulisse comam , alque studium ipsorum Pythagoricorum , qui eum antecesserunt , for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis , lavacris , unguentis , lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV , 19 , ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog. , Laert. , VIII , 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni , o per infelicità di tempi . Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare , per altezza e copia di dottrine , per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione , per grandezza di sventure , per lunga e varia esistenza . Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia , già sparsamente stava , come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia , e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica . Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza : fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco : e se stava nelle prime istituzioni di Roma , poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore , e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi , come da fonte inesausta , quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita . Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa , tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana , poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie . Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine , perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico ; e il pitagorismo , che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni , lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune , e quasi preludere , vaticinando , alle dottrine di Copernico, di Galileo , di Keplero, del Leibnitz e del Newton . Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi . glio di Niccolò Puccini , il quale , tra le pitture , le statue ed altri ornamenti , che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero , volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica . Chè dove i nomi di Dante , di Michelan giolo , del Macchiavelli , di Galileo , del Vico , del Ferruccio , di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie , e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi . E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire , la ci viltà e la scienza , l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi , l ' Italia ; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti , di dottrine , di popoli ; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno , con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni , grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù , mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico , e i nostri : mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta , e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia , ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale : e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici , destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità . — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni , e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago . L'architettura è dorica antica , come domandava la ragione delle cose : le esterne parti , superiore e inferiore , sono coperte : quella che guarda a mezzogiorno , distrutta : e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre , e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati , i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia ; e in quella ruina , in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali , e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta . Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani , e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio , leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica : Αληθευειν και ευεργετείν : dir sempre il vero , e operar ciò che è bene . Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci ? Congiungi questo docu mento con gli altri , che altamente suonano dalle statue , dalle pitture , dalle scuole , da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa , sacra ai fasti e alle speranze della patria , e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda , e il re Numa escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi , la coscia d'oro, il telo d' Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell'invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane , e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita . Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impediva l'azione , e la moralità conduceva alla scienza;  e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora, come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai sacrifici generosi , chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo: semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose, questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i ingiusto , a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril. phil. Par, II , lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l'umana socievolezza , vincevasi con la comunione dei beni ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il resto , esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc. (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose, "κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide, i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e sapientissime testimonie della verità infinita . Poi non tutte le verità possono essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza, ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni , secondo chè scrive Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone, Quintiliano , Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat , ut eliam sine ralione valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida , l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" -- come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di *sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du , tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners. All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro, potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio , che meglio fosse inclinato: i più alti intelletti alle teorie scientifiche ; gli altri, a governar le città e a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc .; intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai gradi dell' in segnamento , notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII , etc.). Vivevasi a social vita , e la casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne' due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica , e fosse eccitamento all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le cose da fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei templi. I maestri insegnavano , gli alunni imparavano, tutti pigliavano argomenti a divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al corso , alla lotta , ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane, miele ed acqua si ristoravano : e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai civili negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle cose im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio, rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν , την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos ? ov diVÍTTETA!: et eam , quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini , questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione delle sue potenze , concordavasi di atti e di letizia col mondo , e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa , e quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio , onde la verità possa essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità degli oggetti , che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito , popolarmente nato , o scientificamente composto , quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti , pur dee avere una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia ; e quando le tradizioni rimango no , hanno un fondamento nel vero primitivo dal quale derivano , o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia moltiplicità loro , questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi con la storia . Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora , vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali : 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica , ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta, Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi  senz'ombra pure di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito , e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno , che , non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla patria , alla nascita, ai viaggi , alla sapienza , alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che venne fatto a molti . D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia , sarebbe timidezza soverchia il non farlo , o ritrosia irrazionale : potendosi conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole , pecche rebbe di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le orgie e le instituzioni pitagoriche , con quelle orfiche, dionisiache , egizie e con le getiche di Zamolcsi , attribuisce implicitamente al fi gliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle barbariche (Erodoto, II , 81 .; IV , 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani : φιλοσοφίας ( εκείνων ) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge ( in Busir. , 11 ) . E Cicerone lo fa viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed Eraclito , allegato da Laer zio , parla di lui come di uomo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio , VIII , 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice erudizione di Pitagora ; perché , a suo parere , tutte le verità sono nella mente , la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè , e bastare a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam praestantia doctus Plurima , mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque vestigans sapientum docta reperta . Nam quotiens animi vires intenderat omnes Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia secla . Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio , id. , 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo ; il quale scrisse che Pitagora fu con questo nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo , non per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con quello scientifico dell'uomo , ma per mostrare che prima degli Alessandrini il nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele , allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo. Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva , o molto antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchinano i moderni critici , ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era que sto : tre essere le forme o specie della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana ( èv toiS TAVT atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus , aliud homo, aliud quale Pythagoras . L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov ; che è notabile differenza: perchè , laddove le tre vite razionali nella traduzione latina sono obiettiva mente divise , nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune prin cipio . Il Ritter , seguitando altra via da quella da me tenuta , non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole , né la ragione del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco , il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit. , 19) ci lasciò scritto , che fra le cose pitagoriche conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche questa : και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire , che tutte le nature animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente Pitagora; la natura media tra quella puramente umana e quella divina: idea demonica, probabilmente congiunta con dottrine orientali, e fondamento organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente animati: l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza poteva essere divulgatissima , come quella che risguardava oggetti sensati ; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta , per ciò che risguardava agli oggetti intellettuali . Non ch'ella non po tesse esser nota nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non sapevano che si fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto riposto dei Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee , e con qual proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate quelle essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita , e Pitagora essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica , e coordinata col magistero che nel di lui nome vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo , e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio . Quindi non più ci sembrano strane , anzi rivelano il loro chiuso valore , e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de' Pitagorici : l'uomo esser bi pede , uccello , ed una terza cosa , cioè Pitagora. Pitagora esser simile ai Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che dice la verità : ei suoi detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano : e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Parlare di questa Tetratti misteriosa sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il tetragramma biblico , il nome sacro ed essenziale di Dio ; altri , a grado loro , altre cose . Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico ( Vita di Pit.. XXVIII , XXIX) e da Porfirio ( id ., 20) ai quali riguardavamo toccando della Tetratti , e che sono la formola del giuramento pitagorico : Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui animae nostrae tradidit Tetractym , Fontem perennis naturae radicemque habentem . (Porph . , V. P. , 20) Il Moshemio sull'autorità di Giamblico ( in Theol. Arith . ) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle , e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell'anima. Poco felicemente ! ( Ad Cudw. Syst . intell., cap. IV , $ 20, p . 581. ) Noi dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora - uomo , ma a Pitagora , idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito , e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia tro vato e determinato. Pitagora , nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato , è sempre uomo ed idea : un pe lasgo - tirreno , che dotato di un animo e di un ingegno al tissimi , acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini , capace di straordinarj divisamenti , e co stante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi , fa cendo raccolta di dottrine , apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera ; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo , che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti ; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola . Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona , questo lume ideale , si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui , non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto : ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica , o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi , non si muove mai da . un concetto pienamente sintetico , il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare ; non si ha un criterio , che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni . Si va per ipotesi più o meno arbitrarie , più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito , non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato , che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino , pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare , come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere , o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso , che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori , non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto , l'idea divina , im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano , e in diversa forma attestano una verità identica : e qui è il criterio giusto ai ragionamenti , che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta , e il principio organico della sua istituzione , e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati , è cosa naturalissima a intervenire , e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia , né indusse il bove tarentino , di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini , a non più devastare le campagne : ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli , tutte le cose apparentemente incre dibili , che furono di lui raccontate, all'idea , e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi , nume e legislatore dei Geti , ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora : poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria , e vede i costumi rozzi , il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde , valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri , alla tolleranza delle fatiche , alla costanza della virtù , Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo , ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce , è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno ; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche : e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti , e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti , incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima ; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici , e della medicina pitagorica ; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime , ma anche qual si fosse la sua forma primitiva : e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica , accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito , ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo , discorriamo rapidamente la storia , secondo la parti . zione che ne abbiamo fatto . Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica , e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo , città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse : questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero , e che noi ancora , senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso ; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie , le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola ; cosi Caronda , Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici . Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio , di Cicerone , di Varrone , di Dionigi di Alicarnasso ,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon , contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven. , I , pag. 53; Niebuhr , Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima . mente introdusse fra i Greci e pesi e misure ( μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal) , congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure , e quello della confinazione agra ria , e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico , V. P. , VII , XXX ; Porfirio , id . , 21 , dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica , ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci : e Creta, come fu osservato dall' Heeren , è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento . In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria , tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv . fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote , History, ec., tomo II , p . 530 e segg. -- del comune , i possedimenti : le mense, pubbliche: punita l'avarizia , e forse l'ingratitudine; -- Seneca , De benef., III, 6 ; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII ; Valerio Massimo, I , 7 ; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico : e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos , de. gnato alla familiarità di Giove , vede questa eterna ragione dell ' ordine , e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese , come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX , 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min . ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta : dorica anch' ella , an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città : tutta la vita , una disciplina ; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica : e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono . Pre domina l'aristocrazia , ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore : le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi , e in certi tempi pubblico il sindacato ; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero , e son comuni i banchetti : e la donna (cosa notabilissima) , non casereccia schiava , ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane . A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi ? Ad Apollo Pitio . Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo , era figliuolo di questo medesimo Apollo . Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici : onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica . Che diremo delle instituzioni jeratiche ? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro , ma non richiesto al nostro bisogno . Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri , il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni . Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea , fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea ; finalmente , dopo molte lotte, la concordia loro : ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica , che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia , e Platone ce lo attesta , che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano : non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora , nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi . Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque ( Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum , sed orationis illustran . dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph ., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi , i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse , la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica , e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia , eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade , recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia . Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù , e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica . Veniamo ora all' Italia ; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre ; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine , per arti , per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca . Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo : ed Aristo tele , che testimonia questi fatti , ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche , anteriori a tutte le altre , duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit. , V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata ; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche , forse avrebbe potuto avvi . sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura , e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile , le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P., XXX. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas ... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit : quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria , et homo in deae religione cultus fuit . VIII , 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi , Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare ( Plut. , in Num .) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno ; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater ; isque parentem Te, Saturne , refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito , disciplinato , secondo chè ce lo rappresenta Euripide , alla vita orfica . At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat ; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII , 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato , e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio , giudicando romanamente il mito , lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche , operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei , il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone , la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia , il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica , di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze , e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica . Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva , dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo , e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata . Dodici erano gl'Id dii consenti , e dodici i popoli dell'Etruria . Pei quali con giungimenti della terra col cielo , la civiltà divenne una religione ; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante , e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico . Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che , l'etrusco Lucio , introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci , diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C. , VIII , 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica . Antichità Ilal., vol . III , pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica , e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici , scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane , e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri , più di me amico delle congetture , potrebbe , se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe : la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione , che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa , sembra essere cosi confermata dalle cose , ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti , il tempio rotondo di Vesta , ia sapienza arcana , le leggi , i precetti , i libri sepolti , i pro verbi stessi del popolo . Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita , e la dignità fastosa di Numa ; il Flamine Diale , a cui è vietato cibarsi di fave ; il vino proibito alle donne , ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana , ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà , dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo , come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela , dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale , dalla suprema indipendenza del ponti ficato , simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta , dagli ordini conducenti a comune concordia , dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale , da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni , ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio , e ne argomenta nazionalità necessaria . E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico , e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento , col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole , ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa , e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi ( il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse , ec . Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male , è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie , e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse ; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè , senza più oltre distenderci in questi cenni istorici , concluderemo , che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni , e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze ; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società ? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria , per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero , e divenissero altra cosa in quella sua instituzione ? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora . E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche , abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni , o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima : e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie . Vedi Cesare, De Bell . Gall. , VI , 5 ; Diodoro Siculo , VIII , 29; Valerio Massimo, II , 10 ; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi : Hi terrae, mundique magnitudinem et formam , molus coeli et siderum , ac quid Dii velint , scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu , aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt , in vulgus effluit , videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III , 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos , scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato , nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit . Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson , la teoria dei numeri e della musica . Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1 , pag. 296. Ma il grand' uomo , del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà , nelle scuole jeratiche , nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente , che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia ; ma anche generalmente alle terre greche e italiane , e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana ; che era l ' idea scientifica . Procedimento pieno di sapienza , e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c . V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore , chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca . E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse . Trovò genti calcidiche , dori che , achee , e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza , e nelle terre opiche i tirreni . Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute , repubbliche in guerra , go verni abusati ; ma e necessità di rimedi , e ingegni pronti , e volontà non ritrose , e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti , quante fatiche tollerate , pensata preparazione di mezzi , e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima , e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli .... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti , e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva , indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile , è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età , e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee , ma tutte , e secondo i gradi della loro dignità nativa : non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione : con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni , e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali , e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum , qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo , VII, 15 . Non ferma le sue instituzioni a Cro tone , a Metaponto , nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno , e fa invito a tutti i magnanimi , e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco , nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia , destinata ad esser la patria della civiltà universale . Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva , i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei , quasi in fecondo seme : tanto è profonda , e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate , osservando , dall'educazione fisica delle indi vidue persone ; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche . La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine , ma è mezzo, e dee preparare , secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali . E la musica , onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore , è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale , e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui ; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle , e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona . La quale , inte ramente abituata a virtù ed a scienza , era una unità par ziale , che rendeva immagine dell'Unità assoluta , come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo , che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea , non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec . , De Senect. , XX ; Tuscul., 1 , 30) , ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo , i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione , siccome a Sparta , e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza . Aristosseno ap. Stobeo , Serm . XCIX. – Dicearco , ap. Giamblico, V. P. , XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo ( Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila : ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere : ai giovani , che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani , gli uomini giovenilmente vivere , e i vecchi non aver senno , repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza , e di utilità ; di vanità e di bruttezza , la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo , di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole : e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età , anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto , che, per nativa attitudine , potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica , e conti nua ; e tutte le potenze , secondochè comportasse la natura di ciascuno , venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv, .... oportere hominem quoque fieri unum (Str. , IV , 23.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia , a questa bella unità , cioè perfezione dell'uomo intero , più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė : l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà , al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo ; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli : 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano , dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano , mise in guerra le sue idee con le cose , e preparò la futura ipocrisia di Sparta , e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo , venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale . Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile , o di quello almeno italo-greco , era , non può negarsi , una specie di stato nello Stato ; ma essendo composta di elettissimi uomini , e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane , esercitava in ogni terra , o avrebbe dovuto esercitare , con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice , e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune . Im perocchè Pitagora , infondendovi il fuoco divino dell'amore , onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia , applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini , e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali , desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene ; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari . Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra , nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora , racco glitore storico della sapienza altrui : ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia . E diciamo , che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no , e la speculazione era libera , tutte queste dottrine do . veano dipendere da un supremo principio , che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria , nell'aritmetica , nella musica , nell'astronomia , nella fisica , nella psicologia, nella morale , nella politica , ec . , non si potrebbe se non a frammenti , e per supposizioni e argomentazioni storiche ; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori . Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale , alla Monade teocosmica , come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile , non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év . De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice , v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono : e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto , indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale , non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche , ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose ; e il libero arbitrio dell'uomo , anziché esser di strutto , ha preparazione , e coordinazione , e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia , nelle cui con figurazioni si determina , e si divide , e si somma , e si moltiplica , e si congiunge con quella geometrica , e misura tutte le cose tra loro e con sè , e sè con se stessa , questa eterna ragione ci fa comprendere , che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo , sono ancora que’ medesimi , onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica , nella ginnastica , nella medi cina , nella morale , nella politica , in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile ; un'apparenza simbolica ai profani , e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati . Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio , nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia : nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia , fino dalla sua origine , fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero . E perocchè questo emanatismo è vita , indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1 , 5) sulla filosofia pitagorica , comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico ( Pyrrh. Hyp. , III , 18) , se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono ( των όντων ... οι αριθμοί φύσει πρώτοι) . Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche , ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa , se non fosse una , sarebbe nulla , indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione , ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta , senza la quale niuna cosa può essere , notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra , ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè , è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero , che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti , si risolve da ultimo in una unità sintetica , che è l'ordine ( xóquos) costante del mondo ; nome che dicesi primamente usato da Pitagora . Il quale se avesse detto ( Stobeo , p. 48) , che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo , ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine , ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee : γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea , e appartiene alla fisica generale dei pitagorici . Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque , inteso a combatterli , non valutò bene questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali , che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna , anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui , e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle , o raggi di una co mune sostanza eterea , debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela , e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose . Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica , che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà , la quale è l'ordinatrice di tutte le cose . Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo , ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui . Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne , non ci renderemmo difficili a dire : che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione ; e si può facilmente credere . Veggasi anche Plutarco , in Numa , ec . – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica , molto volentieri concesse , che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali , gl' in cantamenti mistici , la religione , e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura , o non facendone conto . Parlando poi dell'arcano di questa società , ne restrinse a certo suo arbi . trio la ragione , per non cangiare Pitagora in un impostore l ... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici ; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni , anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare , del quale facea sentire la stoltezza ; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice , dovea rispettare le religioni popolari , e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito , e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine , cioè una perfetta forma di vita , alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia . E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo , un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali , un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita , filosofia , religione suonavano a lui quasi una medesima cosa . I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole , il maestoso silenzio delle notti stellate , il giro delle stagioni , la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù , e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente , un concento dina mico, un consentimento di simpatie , un desiderio , un do cumento , una commemorazione di vita , una religione d'amo re . Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali , e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na , come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico , insegna , doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità ; ovvero astenersene , quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura : έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta . (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi ( doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno , dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato , e anche ripeteremo , che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza , che recava tutto all ' Unità , alla Monade teocosmica , non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare . Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi . Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam , a civitate seditionem , a fumilia discordiam dixooposúvnu) , a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno , allegato da Porfirio ( V. P. , 22 ) , suo . navano spesso in bocca a Pitagora ; cioè , questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli , come ci attesta forse lo stesso Aristosseno , tirannie distrusse , riordinò repubbliche sconrolle , rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine , le soverchianze e i prepotenti spense , e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P. , XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug . gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra , chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa , sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico . Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo , furono trovati libri pitagorici di questo genere , fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura -- ... quibus explicatis ad rationemque revocalis , rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1 , 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica ; di che non occorre qui ragionare . Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa , la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina , da Pisone , da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano , da Varrone , da Tito Livio , da Valerio Massimo , ( L. 1 , c . 1 , 4 , 12) e da Plinio il vecchio ; al quale rimando i miei leggito ri ; XIII , 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto . Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora : e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose , che sostanzialmente abbiamo considerato , è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata : e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità ; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose , mostrando , quanto fosse possibile , la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica , e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma , guarda sparsamente le cose , che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema , le avrebbe trovate più grandi , e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale , ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse , si vide posto , per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici , pitagorici e pitagorèi , son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio , ma che accennano sempre a due ordini di per sone , nei quali , per costante necessità di cause , dovesse esser partita la Società , e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche , e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti ; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni , fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà : e mentre durava la disciplina inferiore , che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine , quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano , quel silenzio , quelle pratiche religiose , tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà , che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo , e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico , potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi , e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque , che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone , di discipline , di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico , le une colle altre sapientemente contemperate : e l'ar cano , che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare , ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo ; e la perfezione dell'uomo individuo , indirizzata a miglioramento ge nerale della vita ; vale a dire , tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo . Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano , e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No , per fermo ! ma era una società - modello , la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica , coltivava ancora le scienze , aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga , quanta è la virtualità della umana natura . Or tutti questi elementi erano in essa , come già mostrammo, ordinati sistema : erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale . E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio , pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni , di capacità , di bontà morale e politica , che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza , non sentiamo noi che le prudenti arti , e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna , non con una parte sola de' suoi ordini organici , ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano , a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi , e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità , senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica , alla loro consociazione ? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari , quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle ? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita , e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche , e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto , e necessarissimo alla politica , di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto . Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose , ha valore . Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica . E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo ? da pochi motti satirici ? da una poesia filosofica ? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata , rigettata , internamente usata , e ciascuno l'intende a suo grado , e presto passa dimenticata dal maggior numero . Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee , ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale . Quindi , ancorchè non potessero tornargli cagione di danno , non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica ; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla : aspettare i tempi opportuni , e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea ; ma divenire un fatto. L'arcano adunque , gioya ripeterlo , dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti , tutto il patrimonio migliore , tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte , che se ne volesse far materia di severa disciplina . Non dico l'esilio assoluto della voce , come chiamollo Apuleio , per cinque anni ; esagerazione favolosa : parlo di quel silenzio , che secondo le varie occorrenze individuali , fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P. , 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica , non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte . Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici , forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore ? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso , quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici , e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi , che pur somigliano tanto a vita contemplativa , come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero ? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola , e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse . Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni , le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera . I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo , che ne scopre la falsità nascosta . Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza , quando non si convengono con le leggi della ragione : e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali , ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali . Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine ; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico : infaticabili nello stu dio , non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni ; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà , e massimamente i collegi jeratici , fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi , e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze , con lu strazioni sacre , con la giurata religione del segreto , ec. , celebravansi di primavera , quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura . I secondi , d'autunno; quando la natura , mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza , e l'arte dell'agricoltore , confidando i semi alla terra , ti fa pensare le origini della provvidenza civile . E il sesto giorno era il più solenne . Non più silenzio come nel precedente ; ma le festose e ri . petute grida ad Jacco , figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa , la notte misteriosa ed augusta , quello era il tempo della grande e seconda iniziazione , il tempo dell'eеро ptea . Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine , e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo . Abbiam toccato di queste cose , acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico , e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora . Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte , nè partecipante al sacramento della Società ; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito , secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto : e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del . l'umana eccellenza , che fu in lui simboleggiata . Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito , la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino , indi non venisse lume logicamente necessario , non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili , ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione , e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica , ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta . Già vedemmo , la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica ; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi , chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica , e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia , dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni , quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza . E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche , che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide , stimato figlio di Mercurio , e nei corpi di Euforbo , di Ermotimo e di Pirro pescatore delio , ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito , che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII , 4) ; il che , secondo la storia positiva , è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata ; perchè qui Pitagora non è l'uomo , ma l'idea , cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL , scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι , την ψυχήν , κύκλον ανάγκης αμείβου . oav , äraore än2015 évseifar C60! 5 , VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem , aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene , non si vuol credere ; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie . gato il sistema , non vuol dubitarsene . E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao , quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima , fossero appunto quelle di Pitagora : ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi , non considerata da sè , ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico , come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica , dovea mostrarsi a coloro , che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè , che tutto potesse per se medesima , ma che molto perdesse della sua purezza, libertà , e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee , etc. Queste idee son tanto connesse , che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon . dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente , a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare , che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà , essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni . Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento , i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi : e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche ; o quelli che separavansi dal centro nativo , non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali . Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario , e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri . La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso , esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità . Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione , cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie : e fino all'età di Filolao , quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati , tutto fu recato sempre al fondatore di essa , e nel nome di Pitagora conservato , aumentato , e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa , che è molto probabile congettura , fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh , e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, VIII , 15 , confermato da Giamblico, V. P. , XXXI , 199, da Porfirio , da Plutarco, e da altri , il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao , μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico , che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche , e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi , o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine , i principali intendimenti , il principio fondamentale certamente doveano conservarsi : le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo , che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici , indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche . Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere , una intera storia di Pitagora , ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero , quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato , e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri ; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno , nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo , quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine . In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica , e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali , scrittore di una storia generale dell'Italia antica , le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners , ma con servilità o con poca originalità di ricerche . Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo , e che , se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose . Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica : combatte il classico pregiudizio di quelle greche : non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia , non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi , o con quanta preparazione di studj , ma certo con divisamento generoso , e con dimo strazione di napoletani spiriti . Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico , che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza , che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare ; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine , dal quale ho incominciato questa menzione , noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi , già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo , le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca . Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd . allo studio della Relig. lib. II , SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali , nè speciali , nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico , per la conservatrice virtù della religione , per la mirabile diversità degl' ingegni , per la spezzatura degli stati , per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora , non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale , nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito : e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV , pag . 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia , nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri , nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti , ma per ogni qualità di leggitori , i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi , e troppo spesso , quanto meno lo posseggono , tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa , che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere ; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi . E peroc chè tutti , che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo , e poste alcune fondamenta salde , di qui mossi a rifare la storia . Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna , e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia , riman sempre alcun dubbio , via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere , senz'ombra nè lacune, la verità , ivi la moderazione è sapienza necessa ria , e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza . Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione . È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici , e che faccia un lavoro pieno, quanto possa , intorno a questo argo mento . Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie : forse nei primordi di Roma , anche pelasgica , quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti , che altri non creda : forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo ; quella cioè della consan . guinità semitica dei pelasgbi . Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica . Il corso trionfale dell ' Ercole greco , che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta , e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas . sando in Italia ; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l . Hist. , IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo , e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca , è da restituirsi all'Ercole Tiri , come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren ( De la politique, e du commerce, etc. II , sect . I , ch . 2) . E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni , volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo , e insegna le arti della vita ; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci , alle colonie , alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito , poi divenuto romano , intorno a Caco , e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra , e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri . E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio , e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora , non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva ; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere , che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole , ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti : furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea , di qualunque natura ella siasi , tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto ; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose , che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali , non basta più ai bisogni del secolo , e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento , allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi , e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano , da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda , l' immensità luni nosa , la libertà , la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici ; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita , onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni , nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli , i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede , nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era , o non sapeva di essere , e bisognava formarla . Il perchè una società , che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane , grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava , lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie , che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario , doveano passare molti secoli , e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione , a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi . L'indole e gli spiriti aristocratici , che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune : quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa , intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue , il vantaggio pubblico , gli effetti della buona educazione , la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi . E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono ; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali , e da altri ; ond'io , non potendo qui entrare in discussioni critiche , mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op . portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio , e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito : αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι , δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous ; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda ? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso , e miticamente , cið le più volte è argomento , non dell'uomo, ma dell'idea . Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza , che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita , che poi ne uscissero in luce , in luminis auras , qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole . Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo , quella espressione tę didew , ex inferis, non vale una provenienza , che , recata ad effetto una volta , indi sia asso . lutamente consumata ; ma una provenienza , che si continua finchè duri la presenza della mitica persona , di che si parla , fra gli uomini. Onde , finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente , lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche , cioè recondite e misteriose : ex inferis o più conformemente al greco , è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria , che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi , come in quello di Pita gora , che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero , ovvero , come nel caso nostro , quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo , dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità , o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente , è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica , ég aidéw. Adunque , se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero , noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico , da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè , secondo questa testimonianza mitica , dalla fondazione di esso alla età di Filolao , e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia , correrebbe lo spazio poco più di due secoli . E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno , d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui , e nel suo nome insegnata , avrebbe sempre parlato , come realmente fece, con un arcano linguaggio . – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet . tuale , chi ne facesse riferimento ai molti , talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi , cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna ; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco ; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla , e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina , professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie , gridando come uomini inspirati , e danzando: chi divoto fosse purificavano : inse gnavano ogni spirituale rimedio , e preparavano a felicità sicura . E intanto seducevano le mogli altrui , e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici ; testimoni sto rici , Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai , nè potevano , i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido , la religione in supersti zione , la virtù in apparenze vane ; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi , e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II , ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate ; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie , e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito , e nel culto esterno del corpo. Timaeus . . . . scriptum reliquit .... Diodoro ...diversum introducente or natum , Pythagoricisque rebus adhaerere simulante .. Sosicrales .... magnam barbam habuisse Diodorum narrat , palliumque gestasse , et tulisse comam , alque studium ipsorum Pythagoricorum , qui eum antecesserunt , for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis , lavacris , unguentis , lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV , 19 , ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog. , Laert. , VIII , 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni , o per infelicità di tempi . Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare , per altezza e copia di dottrine , per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione , per grandezza di sventure , per lunga e varia esistenza . Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia , già sparsamente stava , come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia , e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica . Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza : fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco : e se stava nelle prime istituzioni di Roma , poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore , e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi , come da fonte inesausta , quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita . Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa , tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana , poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie . Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine , perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico ; e il pitagorismo , che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni , lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune , e quasi preludere , vaticinando , alle dottrine di Copernico, di Galileo , di Keplero, del Leibnitz e del Newton . Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi . glio di Niccolò Puccini , il quale , tra le pitture , le statue ed altri ornamenti , che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero , volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica . Chè dove i nomi di Dante , di Michelan giolo , del Macchiavelli , di Galileo , del Vico , del Ferruccio , di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie , e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi . E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire , la ci viltà e la scienza , l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi , l ' Italia ; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti , di dottrine , di popoli ; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno , con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni , grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù , mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico , e i nostri : mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta , e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia , ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale : e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici , destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità . — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni , e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago . L'architettura è dorica antica , come domandava la ragione delle cose : le esterne parti , superiore e inferiore , sono coperte : quella che guarda a mezzogiorno , distrutta : e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre , e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati , i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia ; e in quella ruina , in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali , e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta . Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani , e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio , leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica : Αληθευειν και ευεργετείν : dir sempre il vero , e operar ciò che è bene . Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci ? Congiungi questo docu mento con gli altri , che altamente suonano dalle statue , dalle pitture , dalle scuole , da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa , sacra ai fasti e alle speranze della patria , e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno della nascita di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII Olimpiade, 3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al primo anno della XVI Olimpiade , 3235 del mondo , 38 di Roma , 713 avanti G. C. Gli editori di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma . I. Intorno al gran nome di Roma , la gloria del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli scrittori in asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città. " * Fra le varie cagioni , alle quali si attribuisce dagli scrittori l'oscurità della prima storia romana , deve annoverarsi prima l'incendio de' Galli , nel quale fu rono distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il Beaufort, e a' di nostri più che mai , s'è disputato , se l'origini di Roma , quali le narrano Livio e Dionigi , sieno verità storica o favola poetica . Quello che può dirsi in generale si è , nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser favoloso né lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era uso cantare le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico , però , su questo argomento prima di quel d'Ennio non si conosce ; e che un solo carme sia stato fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi . Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti che scrissero intorno ad esse . Vi banno certo , e ognun se n'avvede , nelle lor narrazioni delle cose poetiche , ma ve d’ha di semplicissime e schiette , come quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione , i sacerdozj ; tratle , non possiam dire , se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali , i quali , al dir di Cicerone , risalivano almeno al tempo de' re . Uoa delle guide scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la storia , ma le origini solo , ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo , indi con allri ch'ei nomina in diversi luoghi . Il primo tra essi è il re Giubba , che avea PLUTARCO . - 1. 5 50 ROMOLO . Ma altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per la maggior parte del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini , si misero poi ad abitare ivi , e che dal lor valore nell'armi diedero il nome alla città. ? Altri vogliono 3 che essendo presa Troia , alcuni , che sen fuggirono, trovate a caso delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed approdassero alle foci del Tevere , dove , es sendo le donne loro già costernate e perplesse , e mal tolle rar potendo più il mare , una di esse , che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e di prudenza sembrava di gran lunga su perar tutte le altre , abbia suggerito alle sue compagne di abbruciare le navi. Ciò fatto, dicono che gli uomini da prima se ne crucciassero : ma poi , essendosi per necessità collocati d'intorno al Pallanzio , e riuscendo loro in breve tempo la cosa meglio assai che non avevano sperato , esperimentata avendo la fertilità del luogo , e bene accolti ritrovandosi dai vicini , oltre gli altri onori che fecero a Roma , denominarono la citlå pure da lei , ch' era stata cagione che si edificasse. E vogliono che fin da quel tempo siasi conservato il costu me che hanno le donne , di baciar nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti ; poichè anche quelle , quand' ebbero abbruciate le navi , questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano , Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di Roma dalla sua origine , e ch'egli chiama diligentissimo . Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne ; ma in troppi luoghi, ove bol no mina , s'accorda con lui . Costoro invasero la Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia . a Poichè fafen significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo , contemporaneo di Polibio . 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia e Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone , presso il fiume Neeto ( 1. VI ) . Ma il fatto che alla fondazione di Roma appartiene , e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso ( St. , l . I ) . Sennonchè egli dice che le navi erano greche , e le donne che le abbruciarono , prigioniere troiane . Specie di fortezza sul monte Palatino fabbricata dagli Aborigeni o primi abitanti del paese . ? Nondimeno Antioco siracusano , vissuto un secolo prima d’Aristotele , af. ferma che lungo tempo prima della guerra troiana eravi in Italia una città nomi nata Roma. 6 ROMOLO . 51 Leucaria , ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole , ad Enea spo sata , ed altri quella di Ascanio , figliuolo di Enea , aver po sto il nome alla città ; altri aver la città fondata Romano , figliuolo di Ulisse e di Circe ; altri Romo di Ematione , da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei Latini , il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia , da Lidia in Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu alla città questa denomina zione data da Romolo , concordi sono intorno alla di lui ori gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di Dessitea di Forbante , ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo fratello suo , e che , periti essendo . gli altri schifi per l'escrescenza del fiume, piegatosi placida mente sulla morbida riva quello , in cui erano i fanciulli, essi , fuor di speranza , restaron salvi , e da essi fu poi la città appellata Roma. Alcuni pretendono che Roma , figliuola di quella Troiana sposata a Latino di Telemaco , partorito abbia Romolo ; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia , fi gliuola di Enea e di Lavinia , congiuntasi con Marte ; " e al cuni finalmente raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione , dicendo che in casa di Tarchezio re degli Albani , uomo scelleratissimo e crudelissimo, si mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che , sollevandosi un membro genitale dal focolare , continuasse a farsi vedere per molti giorni , e , ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo recata risposta a Tarchezio , che una vergine si dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo , ed insigne per for tuna e per gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue figliuole , e comandatole di usar Seguendo l'ottima lezione , meglio Leucania. Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea . 3 Della venuta di questi Lidj in Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso , nel primo delle sue Storie , reca i nomi de' greci e de' romani autori , i quali tennero queste sentenze diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi Cefalone, Damaste , Aristotele , Calia , Senagora , Dionisio calcidese , Antioco siracusano , ed altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de' secoli oscuri . 6 Forse di Temide , chiamata da' Romani Carmente , a cagione appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare. 6 2 ROMOLO. con quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una fante ; che Tarchezio , come seppe la cosa , gravemente crucciatosi , le fece prender ambedue per farle morire ; ma che poi egli , avendo in sogno veduta Vesta , 4 che gliene vietò l'uccisione , diede a tessere alle fanciulle imprigionate una certa tela, con questa condizione di dar loro marito , quando avesser finito di tesserla ; che quelle però andavano tessendo di giorno , ma che altre per ordine di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte ; che , avendo la fante partoriti due gemelli , Tarchezio li diede ad un certo Terazio , comandandogli di toglier loro la vita ; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava poi frequentemente a porger loro le poppe , ed augelli d'ogni sorta , portando minuti cibi , ne imboccayano i bambini , fin tanto che cið veggendo un bifolco, e meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi , e ne levo i fanciulletti; e che finalmente essi , in tal maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo Promatione , che compild la Storia Italiana. II. Ma il racconto , che merita totalmente credenza e che ha moltissimi testimonj , è quello , le di cui particolarità principali furono la prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle Peparetio , seguito in moltissimi luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri ; ma , per ispe dir la cosa in poche parole , il racconto è in questa maniera.“ De’re , che nacquero in Alba discendenti da Epea , il regno " Vesta , perchè il portento erasi fallo vedere nel focolare . ? Storico sconosciuto . 3 Storico anteriore alla guerra di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli Annali di Roma , e , come già si accenno , ed è pur detto qui appresso , in moltissimi luoghi lo prese a guida. 4 Fabio , che segui Diocle in moltissimi luoghi, qui l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito Numitore , aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut reverentia ætatis ; pulso fralre , Amulius regnat. Due cose combattono adunque l'opinione da Plutarco adottata , cioè la testimonianza contraria degli altri storici , e il diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani alla paterna corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353 anni, vi furono tredici re d'Alba . Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio , sono 311 , seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio presso Roma. ROMOLO. 53 pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio. Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti , e contrapposto al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno. Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva Numitore, usurpó facilmente il regno ; e, temendo che nascessero figliuoli dalla figliuola di questo , la creò sacerdotessa di Vesta , onde viver dovesse mai sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia , altri Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge alle Vestali costituita ; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio , Anto , figliuola del re , intercedette per lei , pregando il padre. Fu però chiusa in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona , acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due bambini grandi e belli oltre misura ; onde , anche per questo vie più intimo ritosi Amulio , comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni dicono che questo servo nominavasi Fau stolo , ed alcuni , che non già costui , ma quegli , che da poi li raccolse , avea questo nome. Posti adunque i bambini in una culla , discese egli al fiume per gettarveli dentro , ma , veggendolo venir giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la riva , andò via. Quindi , crescendo il fiume, sollevossi dolcemente dall'inondazione la culla , e fu giù portata in un luogo assai molle , il quale ora chiaman Cermano, ma una volta , com'è probabile , chiamavan Germano , poichè chiamavan Germani i fratelli . III. Era quivi poco discosto un fico selvatico , il quale appellavano Ruminale , o dal nome di Romolo, come pensa la maggior parte , o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre Plutarco. • Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di Numitore per nome Egesto ( Dione , 1. 1 ) . 3 Trent'anni a quelle fanciulle sacre conveniva esser caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e Cermalus il dice Festo . Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa vita dell'anno lla fondazione di Roma e della nascita di Romolo , il quale calcolò l'uno e l'altro ( anzi calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu concetto ) coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito Livio l'afferma assolutamente . 5* 54 ROMOLO. zogiorno bestiami che ruminano , o piuttosto per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli antichi fu chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede abbia cura del nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino , º facendo libamenti di latte. A'due bambini, che quivi giacevano , scrivon gli storici , che stava a canto una lupa che gli allattava , ed un picchio , che unitamente ad essa era di loro nudritore e custode. Credesi che questi animali sieno sacri a Marte, e i Latini hanno distintamente in grande onore e ve nerazione il picchio; onde a colei , che quei bambini avea parto riti , fu prestata non poca fede mentr’ella affermava d'averli par toriti da Marte : quantunque dicano che ciò ella credesse per inganno fattole , stata essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere armato. Sonovi poi di quelli che vogliono che il nome della nutrice , per essere un vocabolo ambiguo , abbia dato motivo alla fama di degenerare in un racconto favoloso. Im perciocchè i Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale specie , ma le femmine ancora che si prostituiscono : e vo gliono che di tal carattere fosse la moglie di quel Faustolo , che allevó que’bambini, la qual per altro chiamavasi Acca Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel mese di aprile il sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella festa Larenziale. Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni Roma пе . n . 57. ? Ciò viene attestato anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina , cosi di Cuna si era fatta Cunina , divinità che proteggeva i fan ciulli in culla . 13 La conservazione prodigiosa e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E non è questa la sola favola straniera , con cui i Romani tentarono di nobilitare i primordi delle loro istorie . 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando la credulità di que' primi tempi copersero col velo della religione i loro errori . 5 Coloro che accagionano Amulio di questo fatto , dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di questo nome si celebravano a Roma : l'una nell'ultimo d’apri le , l'altra ai 23 di dicembre. Plutarco , nelle sue Quest. Rom. , pretende che in aprile si festeggiasse la nutrice di Romolo , e in dicembre la favorita di Ercole, Ma Ovidio afferma invece il contrario , e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor romano piuttosto che ad un greco. ROMOLO . 55NN zia , e, per tal cagione, il custode del tempio di Ercole, es sendo , com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care a’dadi con patto di ottenere , se egli vincesse , qualche buon presente dal Nume; e , se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa , e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò , geltati i dadi prima pel Nume, indi per se medesimo , vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti , e pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione , allesti al Nume una cena , e tolta a prezzo Larenzia , ch'era giovane e bella , ma non per anche pubblica , l'accolse a convilo nel tempio , ove disteso avea il letto : e dopo cena ve la rinserrò , come se il Nume fosse per aversela . Dicesi per verità che il Nume fu insieme colla donna , e che le impose di andarsene sull'alba alla piaz za , e , abbracciando il primo che ella avesse incontrato , sel facesse amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte ricchezze , che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli , ch'era senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene , e morendo la sciolla erede di molle e belle facoltà , la maggior parte delle quali essa lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già molto celebre , e tenuta come persona cara ad un Nume , disparve in quel medesimo luogo , dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si chiama ora Ve labro , perché , traboccando spesse volte il fiume, traghetta vano co' barchetti per quel sito alla piazza ; e questa maniera di trasporto chiamano velalura. ?. Alcuni vogliono che sia detto cosi , perchè coloro che davano qualche spettacolo , coprir facevano con tele quella strada che porta dalla piazza al cir co , incominciando di là ; 3 e la tela distesa a questa foggia nel linguaggio romano si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la seconda Larenzia appo i Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son descritte estesamente da Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in derisione da Aristofane. a Velabrum dicitur a vehendo : velaturam facere etiam nunc dicuntur qui id mercede faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il nome di Velabro molto prima che si pensase a coprir con tele la strada di cui qui si parla, usanza introdotta la prima volta da Quinto Catulo nella dedicazione del Campidoglio. Plin . , 1. XIX, c . 1 . 56 ROMOLO. IV. Faustolo pertanto , il quale era custode de'porci di Amulio , raccolse i bambini , senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più probabilmente ne dicono alcuni , ciò si fece con saputa di Numitore , ' il quale di nascosto som ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi pure che questi fanciulli , condotti a Gabio , apprendes sero le lettere e tutte l'altre cose che convengonsi alle persone ben nate : e scrivesi che furono chiamati Romolo e Remo 3 dalla poppa , poichè furon veduti poppare la fiera. La nobiltà che scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi , fin dall'infanzia diede subito a divedere nella grandezza e nell'aria , qual fosse la di loro indole. Crescendo poscia in età divenivano amendue animosi e virili , ed aveano un coraggio e un ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi . Romolo però mostrava d'essere più assennato e di aver discernimento politico nelle conferenze che intorno a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini , facendo nascere in altrui una grande estima zione di se , che già manifestavasi nato per comandare, assai più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano essi amabili e cari agli eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano de' soprantendenti ed inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami , considerandoli come uomini , che punto in virtù non erano più di loro eccellenti; né delle minacce loro curavano , nè del loro sdegno. Frequentavano gli eser cizj e i trattenimenti liberali , non pensando già cosa degna di un uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce , i corsi , lo scacciar gli assassini , l'ucci dere i ladri , il diſendere dalla violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati in ogni parte. V. Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli fondava le sue speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che diminuisce in gran parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso dice che i due fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere , nella musica , e nelle belle arti . Furono poi spediti a Gabio , città dei Latini e colonia d’Alba , distante circa dodici miglia da Roma , siccome a luogo di maggior sicurezza. 3 Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s ' appressa più a quello di Romolo . ROMOLO . 57 Amulio e que’di Numitore , e questi conducendo via de’be stiami agli altri rapiti , ciò non comportando i due garzoni , diedero loro delle percosse , li volsero in fuga e li privarono di una gran parte della preda , curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez za. Ora , essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ) , i pastori di Numitore, incontratisi con Remo , che se n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta tesi percosse e ferite dall' una parte e dall'altra , restarono finalmente vittoriosi quelli di Numitore , e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed accusato da loro innanzi a Numi tore : ma questi non lo puni per tema del fratello , ch'era uómo severo ; al quale però, andatosene egli stesso , chiedeva di ottenere soddisfazione , essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava , egli che pur gli era fratello ; e sdegnando sene insieme anche gli Albani, persuasi che Numitore fosse ingiustamente oltraggiato , Amulio s’indusse a rilasciargli Remo , perchè ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore ottenuto , se ne tornò a casa , e guardando con istupore il gio vanetto per la di lui corporatura , che di grandezza e di ga gliardia superava tutti , e veggendo nel di lui aspetto il co raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere , e si mostrava in sensibile nelle presenti sciagure ; in oltre sentendo che i fatti e le imprese di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava , e soprattutto , com'è probabile , coope- · randogli un qualche Nume , e dando unitamente direzione a principj di cose grandi , egli , locco per ispirazione od a caso da desiderio di sapere la verità , interrogollo chi fosse, e in torno alle condizioni della sua nascita , aggiungendogli fiducia e speranza , con voce mansueta e con amorevoli sguardi e benigni ; onde quegli vie più rinfrancatosi prese a dire : « Io » non ti nasconderò cosa alcuna ; imperciocchè mi sembri più » re tu , che Amulio ; mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire , e quegli rilascia al supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da prima esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia , servi del re ; e siamo due fratelli nati 58 ROMOLO. » ad un parto ; ma da che ci troviamo accusati e calunniati » appresso di te , ed in repentaglio della vita , gran cose dir » sentiamo di noi medesimi , le quali , se sien degne di ſede » sembra che abbia da farne giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento , per quel che si dice , è un » arcano : il nostro nutrimento poi e la maniera onde fummo » allattati , sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere , alle » quali fummo gittati , siamo noi stati nudriti , da una lupa » col latte , e da un picchio con altri cibi minuti , mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume. Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame , dove sono » incisi caratteri che appena più si rilevano , i quali un giorno » forse potrebbono essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento , quando noi morti fossimo. » Numi tore , udilo questo discorso , e veggendo che bene corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane , non iscacciò più da se quella speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola , che leneasi ancora strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto , avendo sentito ch'era preso Re mo e consegnato a Numitore , esortava Romolo ad arrecargli soccorso , e gli diede allora una piena informazione intorno alla loro nascita , della quale per lo addietro favellato non avea che in enigma , e fattone intender loro sol quanto basta va , perchè , badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero bassamente. Quindi egli , portando la culla , incamminavasi a Numitore , di sollecitudine pieno e di tema , per quella pres sante circostanza. Dando però sospetto alle guardie del re, ch'erano alle porte , ed osservato essendo da loro , e confon dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si , che quelle non si accorgessero della culla , che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar via , e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte della città ; però Dionisio di Alicarnasso nota , che , temendosi allora in Alba qualche sorpresa , facevansi dal re custodire le porte. ROMOLO . 59 presenti quando vennero esposti. Costui , veduta allora la culla , e ravvisatala dalla forma e da' caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito, fattala sapere al re , gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato , il quale , essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare , nè si tenne affatto saldo e costante , nė affatto si lasciò vincere : e confessò bensi ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar menti ; e che egli portava quella culla ad Ilia , che desiderato avea spesse volte di vederla e di toccarla , per aver più si cura speranza intorno a' suoi figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio : conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di Numitore , con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto: im perciocchè Romolo era omai presso , e non pochi cittadini correvano a lui fuori della città , per odio che portavano ad Amulio , e per timore che ne aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati distribuiti in centu rie , ad ognuna delle quali precedeva un uomo , che portava legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 * Plutarco oblia d'aver detto poco avanti , che ad un solo era stato com messo l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti . È egli verosimile ( chi qualche critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore ? Non è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a tutt'altr' uopo a Numitore un messo , e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò che sapeva aver Amulio deliberato ? 60 ROMOLO . sorpreso il tiranno , che scarso di partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione , nè a cosiglio veruno per sua sal vezza , perdè la vita. La maggior parte delle quali cose , quan tunque asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio ( che , per quello che appare , fu il primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche : ma in ciò non debbon esser punto increduli " coloro , che osservino di quai cose ar tefice sia la fortuna, e che considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal grado di possanza arrivato , se avuto non avesse un qualche principio divino , e da non essere riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio , e tranquillate le cose , non vollero i due fratelli nè abitare in Alba , senza aver essi il regno , nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go verno , e renduti i convenienti onori alla madre , delibera rono di abitare da se medesimi , edificando una città in quei luoghi , dove da prima furon essi nudriti , essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi ;? e , poichè unita erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur forse di necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere , sbandandosi questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi. Imperciocchè , che quelli che abitavano in Alba , non degnassero di ricevere in loro -com pagnia que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini , manife stamente si mostra , principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi le donne , prendendo cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado , mentre non potean far mari taggi in altra maniera , e non già per intenzione di recar onta , poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In appresso , gettati i primi fondamenti della città , avendo essi instituito a' fuggiaschi un certo sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo ,• vi ricevevano * Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un po' meno credulo. Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu motivo deco rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in que' luoghi. 3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata , poichè fra ROMOLO. 61 ogni persona , ' senza restituire né il servo a' padroni , né il debitore a' creditori, nè l'omicida a'magistrati , affermando che quel luogo, per oracolo d'Apollo , esser doveva inviola bile e di sicurezza ad ognuno , sicchè in questo modo fu ben tosto la città piena di uomini : imperciocchè dicono che ivi dapprincipio le abitazioni non fossero più di mille. Ma già queste cose addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla edificazione della città, vennero subitamente in discordia per la scelta del luogo. Romolo aveva fabbricato un luogo , che chiamavasi Roma quadrata per esser quadrangolare, e però volea ridur quello stesso a città : e Remo voleva che si edi ficasse in un certo sito assai forte dell'Aventino , il qual sito per cagion di lui fu chiamato Remonio , e Rignario presente mente si chiama. Quindi commettendo essi d'accordo la de cision della contesa al fausto augurio degli uccelli , e po stisi a sedere separatamente , dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo: alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti , ma che Romolo abbia mentito , e compariti non gli sien questi dodici, se non quando a lui venne Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli augurj specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico , che anche Ercole solea rallegrarsi veggendo un avoltoio , quando mettevasi a qualche impresa , conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali , non guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso degli uomini ; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto , nè uccide od offende animale alcuno che viva ; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza ch'egli ha con loro , quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie ; e però, secondo Eschilo , Come fia mondo augel che mangia augello ? gli antichi il solo che ne parli è Plutarco : sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri ; ma di ciò può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco , usando il presente , ne induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse. PLUTARCO , -1. 6 62 ROMOLO . Di più gli altri ci si volgono , per cosi dire , negli occhi , e continuamente si fanno sentire ; ma l'avoltoio veder si lascia di rado , e difficilmente ritrovar ne sappiamo i pulcini : ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto rari ed insoliti ; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce , non secondo l'ordine della natura e da se , ma per ispedizione divina. Accortosi Remo della frode , n'era molto crucciato ; e mentre Romolo sca vava la fossa per alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi : finalmente , saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di Romolo stesso , 3 come dicono alcuni, o , come altri vogliono , sotto quelli di un certo Celere , ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur morti Faustolo e Plistino suo fratello , il quale raccontano che aiutò Faustolo ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria ; e i Romani per cagion sua chiamano celeri * le persone pronte e veloci : e Celere chiamarono Quinto Metello , perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far quell'apparato. VIII. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in Remonia , si diede a fabbricar la città , avendo fatti chiamar dall'Etruria uomini, che con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano ogni cosa , come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir colare intorno a quel luogo , che ora si appella Comizio , e riposte vi furono le primizie ? di tutte quelle cose , le quali per legge erano usale come buone, e per natura come ne cessarie ; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità i Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia contro l'espresso di vieto di Romolo. 4 Vocabolo greco che significa cavallo veloce . 5 Sul monte Aventino . 6 Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli augurj e nelle cerimonie re ligiose , state loro insegnate , dicevasi , da Targete discepolo di Mercurio . 7 Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà . ROMOLO. 63 di terra dal paese d'ond' era venuto , ve la gittarono dentro e mescolarono insieme ogni cosa ? ( chiamano questa fossa col nome stesso , col quale chiaman anche l’ Olimpo , cioè mondo) : indi al dintorno di questo centro disegnarono la città in guisa di cerchio. Il fondatore , inserito avendo nel l'aratro un vomero di rame ed aggiogati un bue ed una vacca , tira egli stesso , facendoli andar in giro , un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli vanno dietro , s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva l'aratro , non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il muro con una linea , chiamata per sincope pomerio , quasi volendo dire : dopo o dietro il muro. Dove poi divisano di far porta , estraendo il vomero e alzando l'aratro , vi lasciano un intervallo non tocco : onde re putano sacro tutto il muro, eccetto le porte ; poichè se credes sero sacre anche queste , non potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia stata ai ventuno d'aprile :: e i Romani festeg giano questo giorno , chiamandolo il natal della patria. Da principio ( per quel che se ne dice ) non sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata : ma pensavano che d'uopo fosse conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita della lor patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano nel medesimo giorno una certa festa pastorale , che chiamavan Palilia : ma ora i principj dei mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza co’greci . Dicono ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno , in cui gettò Romolo le fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino ( et de vicino terra pelita solo ) , a significare che Roma soggiogando i paesi vicini , diverrebbe all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole. Meglio sarebbe : mescolarono le va rie quantità di terra . 3 Il testo dice : l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo l'an lica maniera di numerare i giorni. Del resto , dopo Dionigi d'Alicarnasso , Euse bio e Solino , i moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne fondata 754 anni prima di G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie agli Dei per la figliazione dei quadrupedi ( Dion . I. 1. ) 64 ROMOLO. . città , fu appresso i Greci il trentesimo del mese , e che fuvvi una congiunzione di luna , che ecclissò il sole , la quale cre dono essere stata veduta anche da Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno terzo della sesta olimpiade. ? Ne' tempi di Varrone filosofo , uomo fra tutti i Romani ver salissimo nella storia , eravi Tarruzio ? suo compagno , filo sofo anch'egli e matematico , il quale a motivo di specula zione applicavasi pure a quella scienza che spetta alla tavola astronomica , nella quale riputato era eccellente. A costui fu proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e de terminarne il giorno e l'ora , facendo intorno ad esso dagli effetti che si dicono cagionati dalle costellazioni, il suo ra ziocinio , siccome dichiarano le risoluzioni de' problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della speculazione medesima tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona, da tone il tempo della nascita , quanto l'indagar questo tempo , datane la maniera della vita. Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato : e avendo considerate le inclinazioni e le opere di quel personaggio , e lo spazio della vita e la qualità della morte , e tutte conferite insieme si fatte cose , tutto pieno di sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre il primo anno della seconda olimpia de , nel mese dagli Egizi chiamato Cheac , il giorno vigesimo terzo , nell'ora terza , nella quale il sole restò intieramente ecclissato , e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo , circa il levar del sole , e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora : imperciocchè stimano che anche la fortuna delle città , come quella degli uomini , abbia il suo proprio tempo che la prescriva , il qual si considera dalla prima origine , relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità , di quello che * Delle varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma , svollo con molto studio i volumi de' Greci e de' Romani . • Era egli pure amico di Cicerone , che parlandone nel II de Divinat. si esprime così : Lucius quidem Tarutius Firmanus, familiaris noster , in primis chaldaicis rationibus eruditus elc . ROMOLO . 63 possano riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la città , prima divise tutta la gioventù in ordini militari : ed ogni ordine era di tremila fanti e di trecento cavalli , ed era chiamato legione dall'essere questi bellicosi trascelti fra tutti gli altri . In altri officj poi distribui il restante della gente , e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj , e senato chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj, perchè , come vogliono alcuni , padri erano di figliuoli legittimi , o piuttosto , secondo altri , per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri , la qual cosa non poteva già farsi da molti di quei primi , che concorsi erano alla città ; o , secondo altri ancora , cosi chiamati fu rono dal patrocinio , col qual nome chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl' inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro , vi fosse un certo Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva , e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare. Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse , che Romolo cosi gli abbia appellati , pensando esser cosa ben giusta e conveniente , che i principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed amorevolezza paterna , ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i più grandi , e a non comportarne mal volentieri gli onori , ma anzi a portar loro affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri tempi ancora que’ cittadini, che son nel senato , chiamati son principi dagli stranieri , e padri coscritti dagli stessi Romani , usando questo nome di somma dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai , e lontanissimo dal poter muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri , ma poi , essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più , detti furono padri coscritti : e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di slinguer l'ordine senatorio dal popolare. Separò pure dalla 66 ROMOLO. moltitudine de' plebei gli altri uomini , che poderosi erano, chiamando questi patroni , cioè protettori , quelli clienti , cioè persone aderenti ; e insieme nascer fece reciprocamente fra loro una mirabile benevolenza , che per produr fosse grandi e scambievoli obbligazioni : perocché gli uni impiegavano se medesimi in favor de' suoi clienti , esponendone i diritti e pa trocinandoli ne' litigj, ed essendo loro consiglieri e procura tori in tuite le cose : gli altri poi coltivavano quei loro patroni, non solamente onorandoli , ma aiutandoli altresi , quando fos sero in povertà , a maritar le figliuole ed a pagare i loro debiti ; nė eravi legge o magistrato alcuno , che costringer potesse o i patroni a testimoniar contro i clienti , o i clienti contro i patroni. In progresso poi di tempo , durando tuttavia gli altri obblighi , fu riputata cosa vituperevole e vile , che i magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI. Ma di queste cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo l'edificazione , come scrive Fabio , fu fatta l'animosa impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni che Romolo stesso , essendo per natura bellicoso , ed inoltre per suaso da certi oracoli , esser determinato da’ fati , che Roma, nudrita e cresciuta fra le guerre , divenir dovesse grandis sima , siasi mosso ad usar violenza contro i Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle , ma trenta sole , siccome quegli , cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra , che ma ritaggi . Questa però non è cosa probabile : ma il fatto si è , che veggendo la città piena in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli , ed i più , essendo un mescuglio di persone povere ed oscure , venivano spregiati , nè sembra va che dovesse esser ferma la di loro unione , e sperando egli che l'ingiuria , ch'era per fare , fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne , diede mano all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui , che ritrovato avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso , o si fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza , essere ciò accaduto nel quarto anno . In fatti , come mai una città , per così dire , nascente , avrebbe fatta im. presa cotanto ardita , che doveva eccitarle contro un si pericoloso nemico ? ROMOLO . 67 chè i Romani anche presentemente chiamano consiglio il luogo dove si consulta , e consoli quelli che hanno la maggior dignità , quasi dir vogliano consultori ) , o si fosse Nettuno equestre : conciossiachè questo altare , ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta , è ben ragionevole che l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora , poichè fu scoperto , fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio , un giuoco di combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta gente : ed egli sedevasi innanzi agli altri , insieme cogli ottimati , in toga purpurea. Il segno , che indicato avrebbe il tempo del l'assalto , si era , quand'egli levatosi ripiegasse la toga , e poi se la gittasse novamente d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui ; e subito che fu dato il segno , sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole , lasciando andar liberi i Sabini stessi che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state rapite , dalle quali state sieno denominate le tribù ; ma Valerio Anziate dice , che furono cinquecento ventisette , e Giubba seicento ottantatrė vergini , la qual cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non essere stata presa altra donna maritata , che Ersilia sola , la quale servi poi loro per mediatrice di pace , si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina per far ingiuria o villania , ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol corpo le genti , ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio , uomo fra’ Romani sommamente cospicuo , ed altri con Romolo stesso , e ch'egli n'ebbe anche prole , una figliuola chiamata Prima , dall'essere stata appunto la prima per ordine di nascita , ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, ' alludendo alla raunanza de'cittadini sotto di ni , e i posteri lo nominarono Abilio. Ma Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta , ha molti contradditori. XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire aggregamento, dal verbo 6027.i6w , che significa raunare. 68 ROM OLO . alcuni di bassa condizione, ai quali avvenne di condurne via una , che per beltà e grandezza di persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni altri de' maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano , ma che quelli che la conducevano , gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane insigne e dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò , prorompessero in fauste acclamazioni , in applausi ed in lodi , e taluni ritornando addietro andassero ad accompa gnarla , per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio , di cui ad alta voce ripetevano il nome ; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio , come da'Greci Imeneo : conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese , uomo alle Muse accetto e alle Grazie , diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento ; e che quindi tutti , portando via le fanciulle , gridavan Talasio , e per questo mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono , fra ' quali è anche Giubba , che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al lavoro ed al lanificio , detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora confusi i vocaboli greci cogl' italiani . Intorno alla qual cosa , quando falsa non sia , ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia , come i Greci , potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè, quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani , si pattui circa le donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro , che nel lanificio . Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito , quanto quelli che accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze , gridassero per ischerzo Tulasio , testificando con ciò , che la moglie non era condotta ad altro lavoro , che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa , passando da se medesima sopra la soglia , vadasi nella casa dov'è condotta , ma ve la portano sollevandola , poichè anche quelle vi furono allora portate per forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni , che anche la consuetudine di separar la chioma alla sposa ROMOLO . 69 con punta di asta indica essere state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente , delle quali cose abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno decimo ottavo , all'incirca , del mese detto allora Sestilio , e presentemente Agosto , nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. XIIĮ. Erano i Sabini e numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura , siccome persone , alle quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto , veggendosi eglino astretti per si grandi ostaggi , e temendo per le loro figliuole , inviarono ambasciadori , che facessero a Romolo mansuete istanze e moderate , esortandolo a restituir loro le fanciulle , e ritrattarsi da quell'atto di violenza , ed a voler poi stringer amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle , e confortava pur i Sabini ad approvar quella società , andavano gli altri procrastinando nel consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite imprese di Romolo , e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per quello che fu da lui fatto intorno alle donne , e che non si potrebbe più tollerarlo , se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra , e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo , e Romolo contro di lui . Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si sfidarono l'un l'altro a combattere , stando fermi intanto su l'armi gli eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto , se vin cesse ed uccidesse il nemico , di appendere l'armi a Giove egli stesso , il vince in effetto e l'uccide, e , attaccata la bat taglia , ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese ; ma li obbligó solo ad atterrare le case ed a seguirlo in Roma , dove stali sarebbero alle medesime condizioni dei cittadini ; nè vi fu altra maniera , che più di questa facesse poi crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando , aggiungeva sempre a se stessa , e divenir faceva del suo corpo medesimo 70 ROMOLO. i soggiogati. Romolo intanto , per rendere il voto somma mente gradevole a Giove , e per farne pure un giocondo spet tacolo a'cittadini , veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste , e inghirlandatosi lo zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto fermo e di ritto , camminava cantando un inno di vittoria , seguendolo tutto l'esercito in arme , ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini . Una tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo ferire usato da'Romani : imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di atterrare quell'uomo : e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone , siccome chiamano essi opem le sostanze : ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno appellate per cagion del fatto eseguitosi ; perché appellano opus l'operazione. L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan dell'esercito , quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il capitan de' ne mici ; 4 la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani , il primo dei quali ſu Romolo , che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco ; e dopo questi Claudio Marcello , che uccisé Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però , portando essi i trofei, entrarono condotti in quadriga ; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si servisse di cocchio : imperciocchè si racconta che Tarqui nio , figliuolo di Demarato , fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i trionfi; quantunque altri vogliono che il primo , che trionfasse in cocchio , fosse Pu blicola : e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco s'inganna , poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie . Marcus Varro ait , dice Festo , opima spolia esse , etiamsi manipularis miles delraxerit , dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso , recato qui appresso , è a Plutarco patentemente contrario , essendo pro vato che Cosso , quando uccise Tolunnio , era appena tribuno militare , ed Emi. lio il generale. ROMOLO. XIV. Dopoche furono soggiogati i Ceninesi , stando tuttavia gli altri Sabini occupati in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia , furono costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo , a tra sportarsi eglino ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese , del quale distribui Romolo a'cittadini tutto il re sto , eccetto quella parte, ch'era posseduta da'padri delle fan ciulle rapite , lasciando che se l'avessero questi' medesimi. Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini , creato con dottiero Tazio, mossero l'esercito contro Roma ; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a motivo del forte, ch'era in quel luogo , dov'è ora il Campidoglio , ed eravicollocata una guar nigione , di cui era capo Tarpeio , non la vergine Tarpeia , come dicono alcuni , mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi Tarpeia , figliuola di questo comandante , che in vaghitasi dell'auree smaniglie , di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel luogo , chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi , aprendo ella di notte una porta , li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo ( come si può quindi vedere ) che disse di amar que' che tradivano , ma di odiarli dopo che avesser tradito ; nè il solo Cesare , che disse pure , sopra Rimitalca Trace , di amare il tradimento e di odiare il traditore : ma questo ė verso gli scellerati un, sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro , come bisogno avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro l'uso nel mentre che se ne servono , n'abbomi nano poi la malvagità , quando ottenuto abbian l'intento . Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia, co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei nulla di ciò , ch'aveano alle mani sinistre , e trattasi egli il primo la smaniglia , l'avventò ad essa , e le av ventò pur anche lo scudo , e , facendo tutti lo stesso , ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi , dalla quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome 72 ROMOLO. afferma Giubba raccontarsi da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia , men degni d'esser creduti sono certamente coloro , i quali scrivono , ch' essendo ella figliuola di Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo , operò quelle cose , e n'ebbe quel gastigo dal pa dre ; ed è pur Antigono uno di questi. Ma il poeta Simulo farnetica affatto , pensando che Tarpeia abbia dato per tradi mento il Campidoglio a' Galli , e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne parla in questa maniera : Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del Campidoglio , e già di Roma Fea le mura crollar : poichè bramando Co' Galli aver letto nuzial , de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo sopra la sua morte : Non però ad essa i Boj , non le cotante Genti de' Galli diedero sepolcro Di là dal Po ; ma da le mani , avvezze A infuriar ne le battaglie , l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane , E poser sovra lei fregi di morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei , finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove , ne furono trasportate le reliquie , e manco ad un tempo il nome di Tarpeia ; se non che appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio , giù dalla quale preci pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento , veggendo che , se anche venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura. Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo , nel quale doveasi venire alle mani , essendo circondato da molti colli , avrebbe ren duto per la cattiva situazione il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma cieca e profonda ne'siti piani , verso là , doye ora è la piazza ; la qual cosa ne si manifestava allo ROMOLO. 75 sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri colosa e ingannevole, verso la quale , portandosi inavveduta mente i Sabini, accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio , uomo illustre , e tutto pieno di coraggio e di brio , cavalcando veniva innanzi agli altri di molto , ed , en tratogli in quel profondo il cavallo , sforzossi per qualche tempo di cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce ; ma, come vide che ciò non era possibile , abbandono il cavallo , e salvò se medesimo : e per cagione sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini , schivato il pericolo , combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo , quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che fu marito di Ersi lia , ed avo di quell'Ostilio , che regnò dopo Numa. XV. Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie , com'è probabile , fanno principalmente menzione di una , che fu l'ultima, nella quale , essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo , e poco men che ucciso, ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo , e via cacciati dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però , riavutosi alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e , ad alta voce gridando che si fermassero , li confortava a combattere : ma, veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa , e non essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico , alzando egli le mani al cielo , prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle . Com'ebbe fatta la preghiera , molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re , e il timore di quelli che fuggi vano , cangiossi in coraggio. Primieramente durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore , che potrebbe interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo , e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia , rattenuti furono da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto . Concios siachè le figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da PLUTARCO . - 1 . 74 ROMOLO . diverse bande fra l'armi e fra i cadaveri , con alte voci e con urli , come fanatiche, a'loro padri e a'mariti ; altre con in braccio i piccioli infanti, altre colla chioma disciolta , e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar facendosi quando i Sa bini e quando i Romani. Si commossero pertanto non meno gli uni che gli altri , e diedero loro luogo in mezzo agli eser citi . Già i loro singulti venivano uditi da tutti , e molta com passione destavasi alla vista e alle parole di esse , e vie più allora che dalle giuste ragioni, ch' esposte aveano liberamen te , passarono in fine alle preghiere e alle suppliche. « Qual » mai cosa , diceano , fu da noi fatta di vostro danno o di vo » stra molestia , per la quale si infelici mali abbiamo noi già » sofferti e ne soffriam tuttavia ? Fummo rapite a viva forza, » e contro ogni diritto , da quelli che presentemente ci ten » gono ; e , dopo di essere state rapite , trascurate fummo dai » fratelli , da’ genitori e da'parenti per tanto tempo , quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con saldissimi vincoli » a persone che ci erano affatto nemiche , ci fa ora timorose » sopra que' medesimi rapitori e trasgressori delle leggi , i » quali combattono , e ci fa sparger lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi già venuti a vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia ; ma » ora voi strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi misere un soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel tradimento. In tal maniera » amate fummo da questi : in tal maniera compassionate siamo » da voi . Che se poi guerreggiaste per altra cagione , dovre » ste pure in grazia nostra acchetarvi , renduti essendo per » noi suoceri ed avoli , ed avendo contratta già parentela ; ma » se già per cagion nostra si fa questa guerra , menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e rendeteci i genitori » e i parenti , nè vogliate rapirci la prole e i mariti , ve ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si fatte cose , e mettendo suppliche pur anche l'altre , fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro . In que sto mentre le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a' fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi ne ROMOLO. 75 abbisognava, e medicavano i feriti, portandoli a casa , e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della casa il governo , come attenti erano ad esse i mariti , e come trattavanle con amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che ciò voleano , se ne stessero pure co'loro mariti , da ogni altra servitů libere e da ogni altro lavoro , ( siccome si è detto) fuorchè del lanificio : che la città fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini : ch'essa fosse bensi appellata Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di Tazio , e che regnassero amendue e go . vernasser la milizia unitamente. Il luogo , dove si fecero que ste convenzioni , si chiama sino al di d'oggi Comizio , poiché coire chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. XVI. Raddoppiatasi la città , furono aggiunti cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini ; e le legioni fatte furono di seimila fanti : e di seicento cavalli. Avendo poi divisa la gente in tre tribù , altri furono chiamati della tribů Ramnense da Romolo ; altri della Taziense da Tazio ; e quelli ch'erano nella terza , chiamati furono della Lucernese per cagion del bosco che fu d'asilo a molti che vi si ricovrarono , i quali furono poi a parte della cittadinanza , chiamando eglino lucos i boschi . Che poi tre appunto fossero quelle divisioni , il nome stesso lo prova , dette essendo anche presentemente tribú e tribuni quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci compa gnie , le quali dicono alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne ; il che però sembra esser falso , imperciocchè molte denominate sono da’luoghi. Ma molti altri onori bensi furono a queste donne conceduti , fra'quali sono anche que sti : il dar loro la strada , quando camminavano , il non dir nulla di turpe in presenza di alcuna di esse , il non mostrar * Dionigi dice : « ciascun cittadino dovea chiamarsi in particolare Romano , » e tutti insieme Quirili . » Ma la formola Ollus Quiris lætho datus est mostra che anche in privato si chiamavan Quiriti . Intorno all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre questioni di romana istoria vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una tal denominazione gli fu data molto tempo dopo Romolo . 3 Sono stati qui dotati due errori di Plutarco : a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti, nè di 600 cavalli , come potrebbesi agevolmente dimo. strare . 76 ROMOLO , sele ignudo , il non poter essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti capitali , e l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la bolla , ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo , cosi detto dalla figura simile a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima separatamente co'suoi cen to , e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta , 3 e Romolo presso il luogo , dove sono que' che si chiamano Gradi di bella riviera , e sono là , dove si discende dal Pallanzio al Circo Massimo ; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo sacro , favoleggiandosi che Romolo , per far prova di se , gittata avesse dall' Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo , la punta della quale si profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla , quantunque molti il tentassero ; e quella terra ben acconcia a produr piante , coprendo quel legno , pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco di corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono , come la cosa più sacrosanta che avessero , e lo cinser di muro : e se ad alcuno che vi si ap pressasse , paruto fosse non esser morbido e verde , ma in . tristire , quasi mancassegli il nutrimento , e venir meno, co stui con gran clamore il dicea subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua ; e insiemecorrevano da ogni parte , portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare ( per quello che se ne dice ) faceva fare scalee , gli artefici, scavando al d’intorno e da presso , ne maltratta rono senz' avvedersene le radici , e la pianta secco. I Sabini accettarono i mesi de'Romani ; e quanto fossevi su questo proposito che tornasse bene , l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli scudi de’Sabini e mutò l'ar . * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser giudicata dai soliti ma gistrati , ma si unicamente da' commissarj del senato . · Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale ; Romolo il Palatino ed il Celio . 3 Cioè Giunone Moneta. ROMOLO. 77 matura sua propria e quella de' Romani , che portavano prima scudi all'argolica. XVII. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste , non avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra nazione , ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo , siccome quelle delle Matronali , 4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra , e quella delle Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a presiedere alla generazione degli uomini , e perciò onorata ella sia dalle madri. Altri dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia , indovina ed inspirata da Febo , la quale sia stata denominata Carmenta , perchè dava gli oracoli in versi , mentre i versi da loro chiamati vengono carmina ; ma il suo vero nome era Nicostrata : e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di quelli che più probabil mente interpretano Carmenta , quasi priva di senno , per mo strarsi fuori di se negli entusiasmi ; poich'essi appellano carere l'esser privo , e mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra. E in quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si celebra , che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di nefasti del mese di febbraio , il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e quel giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali significa lo stesso che nell'idioma greco Licei : e quindi appare esser quella solennità molto antica , portata dagli Arcadi , che vennero con Evandro. Ma, comune essendo quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina , potrebb’essere che una tale appellazione dedotta fosse dalla lupa ; poichè noi veggiamo che i Luperci di lå comin ciano il giro del loro corso , dove si dice che fu Romolo esposto. Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste , che si celebravano il primo giorno d'aprile , le matrone sa grificavano a Marte ed a Giunone , e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla porta Carmentale. Carmenta , madre e non moglie di Evandro , come osserva Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom. , veniva adorata auche sotto il nome di Temi. 3 Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus , per che teneva lontani i lupi . 78 ROMOLO . che in quest'occasione si fanno ; conciossiache essi scannano delle capre; poi , condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono subitamente con lana bagnata nel latte : ed i giovanetti dopo che forbiti sono , convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie , discorrono ignudi , se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le percosse , credendo che conferiscano ad ingravidare , e a partorire felicemente; ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo Buta , che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate da'Romani , dice che avendo quelli , ch'erano con Romolo, superato Amulio , corsero con allegrezza a quel luogo , dove la lupa avea data la poppa a' bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso , e che vi corrono i nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro , Come in quel tempo con le spade in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo : e dice che il mettere il coltello insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora , e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento . Ma Caio Acilio2 scrive ,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami guardati da Romolo , e che , avendo egli fatte suppliche a Fauno , ne corse in traccia ignudo per non venir molestato dal sudore , e che per questo corrono d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie , se quel sa crifizio fosse una purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero , servendosi di un tal animale come atto ad uso di purificare ; imperciocchè anche i Greci nelle purificazioni si servono de'cagnuoli , e sovente usano quelle cerimonie che chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione , tribuno del popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da Cicerone e da Tito Livio , il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in latino da Claudio . 3 Vedi Plutarco , Quest. Rom. , n . 68. ROMOLO. 79 ? zia della lupa e in ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo , non fuor di ragione si sacrifica il cane , perchè egli è nemico dei lupi , quando per verità quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel mentre che vanno scorrendo. XVIII. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la consacrazione del fuoco ,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate Vestali ; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei , e raccontan di più , ch' egli fosse anche indovino , e che per cagion del vaticinare por tasse il lituo , ch'è una verga incurvata , ad uso di disegnarsi gli spazj del cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa verga , la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa da’Galli ; e che poscia , dopochè i Barbari furon discacciati , trovata fu illesa dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita era e distrutta . Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito , ma permette bensi che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso di parto supposto , e di aver commesso adulterio : e se taluno per qualche altro motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere ; e che quegli medesimo che ripudiata l'avea , sacrificasse agli Dei sotterranei , Cosa è poi particolare , ch'egli , il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio , ' come fosse questo cosa veramente esecranda , e quello impossibile. E ben per molte età parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità , " S'intende in Roma , poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le Vestali , da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii , sul monte Palatino , 3 Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo sciens morti ducil , parricida esto; la qual legge però viene da alcuni attribuita a Numa. 80 ROMOLO. 1 ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com messo in Roma verun delitto si fatto ; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale , Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però basti quanto si è detto sin qui . XIX. L'anno quinto del regno di Tazio , incontratisi alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari ; e , poichè essi resistenza faceano e difesa , gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria , Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori ; ma Tazio si andava scansando dall' aderire a ciò , e sorpassava la cosa ; e questo fu ad essi il solo motivo di un'aperta dissensione , portati essendosi con bella maniera in tutt' altre cose , affatto operando , per quanto mai è possibile , di comune con senso. Quindi gli attenenti agli uccisi , non potendo per cagion di Tazio in alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi , assalitolo in Lavinio , dov'egli sacrificava insieme con Romolo , gli tolser la vita , e si diedero ad ac compågnar Romolo , siccome uomo giusto , con fauste accla mazioni. Egli , trasportato il corpo di Tazio , onorevolmente lo seppelli nell'Aventino , presso al luogo chiamato Armilu strio : nė punto si curò poi di punire quell' uccisione. Scrivono però alcuni storici , che la città di Laurento intimorita gli consegnò gli uccisori di Tazio , e che Romolo gli lasciò an dare , dicendo che stata era scontata uccisione con uccisione : il che diede qualche ragione di sospettare , ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno nel regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno , nè si mos sero punto i Sabini a sedizione : ma altri per la benivoglienza che gli portavano , altri per la tema che aveano del di lui potere , ed altri perché il tenean come un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur * Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei della patria ; cioè ai Penati di Troia che v'erano rimasti . • Luogo dell'Aventino , dove le milizie andavano a purificarsi nel giorno 19 di ottobre. ROMOLO. 81 anche molt'altre genti straniere ; e gli antichi Latini , man datigli ambasciadori , fecero amicizia e lega con esso lui . Prese poi Fidena , città vicina a Roma , avendovi , come vogliono alcuni, repentinamente mandata la cavalleria , con ordine di recidere i cardini delle porte , ed essendovi soprag giunto poscia egli stesso all'improvviso : ma altri dicono che furono primi i Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in molte guise il territorio romano ed i borghi mede simi ; e che. Romolo , avendo loro teso un agguato , e uccisi avendone assai , s' impadroni della città. Non volle demolirla però , nè spianarla , ma la rendette colonia de' Romani , man dati avendovi duemila cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX. Insorse quindi una pestilenza , che perir facea gli uomini di morti repentine senza veruna malattia , e rendeva anche sterile la terra , ed infecondi i bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue ;: cosicchè s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma , da che le medesime cose avvenivano aạche a que' di Lau rento , già pareva ad ognuno , che , per essere stata violata la giustizia , tanto sopra la morte di Tazio , quanto sopra quella degli ambasciadori , l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra città. Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli uccisori , si videro manifestamente cessar quei malanni : e Romolo purificò poi la città con que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla porta Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza , vennero i Camerj ad assalire i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse tosto l'esercito contro di loro , e , superalili in battaglia , ne uccise seimila. Presane poi la città , trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi anche Livio ; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie che i Romani traevano da Crustomerio . dice soltanto 300 ; da quel che segue in Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di sangue , tanto terribili agli anticbi , compongonsi molto naturalmente da insetti o da esalazioni tinte in rosso ; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj. 2 3 82 ROMOLO. ch'erano restati vivi ; e da Roma passar fece un numero di gente , il doppio maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto , coll'altra metà che vi aveva lasciata . Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini , sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da Cameria anche una quadriga di rame : questa fu appesa da lui al tempio di Vulcano col simulacro di se medesimo , che veniva incoronato dalla Vittoria. Rinfrancalesi in questo modo le cose , i vicini più deboli si sottomisero alla di lui si gnoria , e , trovandosi in sicurezza , se ne stavano paghi e contenti. Ma quelli che aveano possanza , da timore presi ad un tempo e da invidia , non pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati ; ma bensi opporsi a' pro gressi di Romolo , e cercar di reprimerlo. I Vei ^ pertanto , i quali possedevano un vasto paese , ed abitavano in una grande città , furono i primi fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena , siccome cosa di loro ragione : il che però non pure era ingiusto , ma ben anche ridicolo ; perocchè , non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo ed oppressi erano dalla guerra , ma aven doli lasciati perire , ne pretendevano poi le abitazioni e 'l terreno , mentr' era già in mano d' altri . Essi adunque aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e sprezzanti , si divisero in due parti : coll’una assalirono l'esercito dei Fide nati , coll'altra se n'andarono contro di Romolo. A Fidena , rimasti superiori , uccisero duemila Romani , ma dall'altro canto superati da Romolo , vi perdettero sopra ottomila dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a Fidena : e si confessa da tutti , che la massima parte di quell'impresa fu opera di Romolo stesso , avendo ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita all'ardire , e sembrato essendo gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion non conviensi. Ciò per altro che vien riferito da alcuni , è del tutto favoloso e interamen te incredibile , che di quattordicimila che morirono in quella battaglia , più della metà ne fosse morta per man di Romodo ; + Abitanti di Veio capitale della Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di vittoria . Cosi anche ROMOLO . 83 come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad Aristomene , che tre volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re stati vivi , e avean già date le spalle , s' inviava alla di loro città. Ma quelli che v'eran dentro , per una tale calamità , non fecero più resistenza , anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento , rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese , da essi chiamato Sette magio , cioè la settima parte ; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri prigioni il capitano stesso de' Vei , uomo vecchio , ma che sembrava che in quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente , quando sacrificano per avere otte nuta vittoria , conducono un vecchio colla pretesta per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il banditore va gridando: Sardi messi all' incanto ;? imper ciocchè dicesi che i Toscani sieno colonia de' Sardi , e la città de' Vei è in Toscana. XXI. Questa fu l'ultima guerra fatta da Romolo . In ap presso schivar egli non seppe ciò che a molti , o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire , quando dal favore di grandi e straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però di baldanza per le cose da lui operate , e portandosi con più grave fasto , già si toglieva da quella sua affabilità popolare , e la cangiava in un molesto contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia dell'abito col quale si vestiva ; conciossiachè egli mettevasi in le donne d'Israele , precedendo a Davide , che ritornava dalla vittoria dei Fili stei , cantavano : Saulle uccise mille , e Davidde diecimila . Settemagio o Seltempagio spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non procedono dai Lidii , cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della costumanza qui parrata ; la quale , per testimonio di Sinnio Capi. tone, s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la Sardegoa. 84 ROMOLO. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta , e teneva ra gione standosi agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli poi sempre d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano ne' ministerj. Ed avea altri che , quando andava in pubblico, lo precedevano risospingendo con verghe la calca , e portavan cinture di cuoio , onde legar prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare , che ora da’ Latini dicesi alli gare , anticamente era detto ligare, Liclores sono da essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi , dal servirsene che facevano allora , come di bastoncelli. Pure è probabile che questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c , fossero nominati prima Lito res , essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i Greci chiamano ancora añitov il popolo , e lady la plebe. Morto che fu in Alba l'avolo suo Numitore , quan tunque a lui toccasse regnare , ciò nullostante , per far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati. Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica ; i quali , raunandosi in consi glio , piuttosto per costume che per esporvi il loro parere , stavano tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare , che d'essere stati essi i primi ad inten dere quello che si era fatto . Ogni altra cosa però era di mi nor importanza , rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte di terra acquistata coll'armi , e restituiti gli ostaggi a' Vei , senzachè que' patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini , e il Dacier non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli considera qui due atti diversi di Ro. molo ; uno che si riferiva agli Albani, l'altro ai Sabini. ROMOLO. 85 suasi ne fossero : nel che sembrò ch' ei recasse grande con tumelia al senato , il quale per questo fu poi tenuto in sospetto , e diede luogo alle calunnie , quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista degli uomini ; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio , ed allora Quintile , non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e d'incontrastabile , fnorchè il tempo già detto : imperciocchè anche presentemente si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento di allora . XXII. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza , quando , morto essendo Scipione Affricano ? dopo cena , in casa propria , non v'ha modo onde poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte : 3 ma alcuni dicono che , essendo egli per natura cagionevole , si morisse da per se stesso ; altri ch'egli medesimo si avvelenasse ; ed altri che i suoi nemici , avendolo assalito di notte , lo soffocassero : eppure Scipione , quando fu morto , giaceva esposto alla vista di tutti , ed il suo corpo , da tutti essendo osservato , potea dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte . Ma, essendo Romolo mancato in un subito , non fu vista più parte alcuna del di lui corpo , nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i senatori , assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no , smembrato n'avessero il corpo , e ripostasene ognuno una parte in seno , portato l'avesser via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano , nè dove fossero i soli sena tori , foss' egli svanito , ma ch' essendo per avventura fuori in un'assemblea presso la palude chiamata di Capra , o sia di Cavriola , si fecero subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni incredibili, oscurandosi il lume del sole , e venendo una notte non già placida e quieta , * Il Calendario romano segna in questo Populifugium , None Caprolineæ , e Festum ancillarum , cose tutte , che possono aver relazione al fatto , come si vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece per altro nessuna indagine per conoscerne il vero , onde Valerio Massimo disse : Raptorem spiritus domi invenit , mortis punitorem in foro non reperit. PLUTARCO , 1 . 8 86 ROMOLO . ma con tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta ; onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo , dicono che fu allora cercato e desiderato il re ; e che i primati non permisero che se ne facesse più esatta ricerca , nè che venisse presa gran cura ; ma che esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli Dei, e come , da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno. Affermano però che la mol titudine , udendo questo , se n'andava allegra , è lo adorava piena di buone speranze : ma che vi furono pur anche laluni, i quali , aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne' patrizj, e li calunniavano , come cercassero di dar ad intendere al popolo cose vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. XXIII. Essendo adunque essi cosi costernati , si racconta che Giulio Procolo ( uomo fra' patrizj principale per nobiltà , e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni costumi , fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba ) andatosi nella piazza , e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto , disse alla presenza di tutti , che , camminando egli per via , apparso eragli Romolo , che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che per lo addietro , adornato d'armi lucide e sfavillanti ; e ch'ei però sorpreso ad una tal vista : « O re gli aveva » detto , per qual mai offesa da noi riportata , o per qual tuo » pensamento , hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e malvagie , e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore ? » E che quegli risposto aveagli : « È piaciuto, o » Procolo , agli Dei , che essendo io per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini , e fondata avendo città di gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo , » donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo , e » fa sapere a' Romani che colla temperanza e colla fortezza * Per opera , dicevasi , del Dio Marte padre dello stesso Romolo. ROMOLO . 87 » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere : ed io » sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava , come pel giuramento che fatto egli aveva : ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi alcuno che contraddicesse , ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia , si diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo Proconnesio , ' e Cleomede d’Aslipalea . Imperciocchè dicono che Aristeo morto sia in una certa officina da tintore , e che, andati essendo gli amici suoi per dar sepoltura al di lui cor po , fosse svanito ; e che alcuni, i quali tornavano da un loro viaggio , dicessero di averlo incontrato che camminava per quella strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono , che essendo grande e gagliardo di corpo oltre misura , ma stolido in quanto alle sue maniere e furioso , facesse molte violenze , e che finalmente in una certa scuola di fanciulli , percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta , la rompesse nel mezzo , precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli, raccontano che , venendo egli inse guito , se ne fuggisse in una grand’arca, e , avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu possibile alzarlo , quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che , spezzata poscia quell' arca , non ve lo ritrovassero nè vivo , nè morto ; onde stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello , e risposto fosse dalla Pitia : L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche svanito il corpo di Alcmena , mentre portavasi a seppellire, ed essersi in iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide , storico , poeta e grau ciarlatano , visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta . 3 Nel tempio di Minerva ove Cleomede si riparó . 4 Plutarco cita una sola parte della risposta , la quale cosi Gniva : Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non appartiene ai mortali. 88 ROMOLO . d' di tali favole lontane dal verisimile , divinizzando le persone che son di natura mortali , e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità , ell ' è cosa empia e villana ; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando , secondo Pin daro , si ha già sicurezza , Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo ognun , ma resta salvo Lo spirto ancor , d'eternitade immago . Conciossiaché questo solo è quello che abbiam dagli Dei , e che di lassú viene e lassù pur sen ritorna , non già in com pagnia del corpo , ma quando sia più che mai dal corpo al lontanato e diviso , sgombralo della carne , e mondo e puro del tutto. Imperciocchè l'anima , quando è secca ed inaridita , secondo il parere di Eraclito , ” è allora nella sua maggiore eccellenza , volando fuori del corpo, come baleno fuor di una nuvola ; dove quella , ch'è mista col corpo e dal corpo cir condata , è come un vapore grave ed oscuro , che difficilmente si accende e s ' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli uomini dabbene insieme cogli spiriti , ma tener per fermo che le virtù e l'anime per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di uomini in eroi , di eroi in Genj , e se perfettamente, come nelle sacre espiazioni , purificate e santificate sieno , schive da quanto v ' ha di mortale e soggetto alle passioni , tener si vuole non per legge di città , ma per verità e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi , ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine .? .XXV. In quanto poi al soprannome di Quirino dato a Romolo , altri vogliono che significhi Marte ; altri dicono che cosi fu egli chiamato , perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti ; ed altri pretendono che ciò sia , perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l ' asta ; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso , vissuto poco dopo Pittagora , riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi , i genj, e gli Dei. ROMOLO. 89 Giunone , messo in cima d'una punta , detto era di Giunone Quirilide; e Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia : ed onorayan quelli che valorosamente portati si fossero in guerra , col donar loro un'asta : onde affermano essere stato Romolo appellato Quirino , per dinotarlo un certo Nume bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto Quirino dal nome di lui . Il giorno , in cui egli svani , si chiama fuga di volgo , e None capraline: perché in quel giorno , discesi dalla città , sacrificano alla palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio , imitando la fuga ed il chiamarsi vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che questa non è già imitazione di fuga , ma bensi di fretta e di sollecitudine, riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo , e la città , spossata ed indebolita , mal potea per anche riaversi , mossero l'arme contro di essa molti de' La tini , avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco lontano da Roma , inviò un araldo , il quale dicesse ai Romani che i Latini suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela , coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che però , se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne senza marito , pace n'avrebbero ed amicizia , siccome da prima per un egual modo l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani , temeano in parte la guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi , una serva nomi nata Filotide , oppur Tutola , come altri vogliono , li consi gliava di non fare nè l'una cosa nè l'altra , ma di schivare per via di frode tanto l'incontrar guerra , quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide medesima , e con lei altre serve avvenenti e ben adornate , fossero , come persone li bere , mandate a' nemici ; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola , ed allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno , e li trucidassero, Cosi 8* 90 ROMOLO. per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini. Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico , tenendola al di dietro ben riparata e coperta con tappeti e cortine , acciocchè lo splendore non fosse da' nemici veduto , e chiaro si mostrasse a' Romani , i quali , come il videro , subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte ; ed essendosi avven tati allora improvvisamente sopra i nemici , e superati aven doli , celebrano una tal festa in grazia di quella vittoria ; ed un tal giorno è chiamato le None capraline , per cagion del fico salvatico , detto da’ Romani caprificus. Fanno poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico ; e si portano quivi le serve con ostentazione , raggiran dosi intorno , e facendo giuochi ; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre , come allora che diedero soccorso a’ Romani , e combatterono insieme con essi in quel conflitto . Queste cose sono ammesse da pochi storici : ma intorno all'uso di chiamarsi a nome in quel giorno , e intorno all'andare alla palude della Capra , come ad un sa crifizio , sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima ragione , se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel giorno medesimo , l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo , e ne aggiugne uno al suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37.

Silvestro Centofanti. Keywords: platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco, la prova della relata steriore e la oggettivita della cognizione, storia della filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia, formula logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta. Refs.: “Grice e Centofanti” – The Swimming-Pool Library.

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