The Grice Club

Welcome

The Grice Club

The club for all those whose members have no (other) club.

Is Grice the greatest philosopher that ever lived?

Search This Blog

Wednesday, October 20, 2021

GRICE ITALICVS II/X

 

 

allievo: Grice: “I love Allievo; of course he reminds me of all those scholars back in the day that I relied on for my philosophising on ‘intending’ – since isn’t this an act of the ‘soul’ – I mean Stout, and the rest – I once was a Stoutian, and then for better or worse, I became a Prichardian!” --  Grice: “Now Oxford never knew what to do with people like Stout – surely ‘the Wilde’ readership was a possibility, but Lit. Hum. and the Sub-Faculty of Philosophy always considered ‘mind’ – (as in the journal, ‘a journal of psychology and philosophy’) secondary to metaphysics! We thought The Aristotelian Society had more prestige than the Mind Association, and we still do!” – Grice: “So Allievo, like myself, was fascinated by Stout and Spencer and Bain and – in the continent, closer to Allievo, and always having more prestige than the barbiarian islanders! – Grice: “Add to that the charm of his italinanness versus the Germanic coldness of a Wundt – his name is unpronounceable to Allievo – and you get to the heart of his philosphising on ‘psicofisiologia’ – where the ‘io’ meets the ‘tu’ – and his focus, having studied the philosophical tradition in Rome – to ‘educatio fisica’ – which obviously needs to be psicofisica!” -- Wundtan d Flechner!” – Giuseppe Allievo (San Germano Vercellese) filosofo.  Frequentò la facoltà di filosofia dell'Torino e seguì l'insegnamento di Giovanni Antonio Rayneri, sacerdote e filosofo di matrice rosminiana.  Laureatosi il 18 luglio 1853 insegnò pedagogia a Novara, a Domodossola, dove conobbe Rosmini, e a Ivrea e nel Collegio di Ceva. A Domodossola pubblicò i suoi primi saggi e scrisse articoli per la Rivista contemporanea di Luigi Chiala.  Arrivò alla cattedra di pedagogia a Torino (1869). Cattolico spiritualista, fu propugnatore del cosiddetto sintesismo degli esseri, principio secondo il quale «nessuna parte di un ente può sussistere divisa dal tutto dell'ente stesso, e nessun essere può sussistere né operare diviso dagli enti che costituiscono l'universo».  Il 13 gennaio 1895 divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino.  Pensiero Critico dell'hegelismo, soprattutto per motivi religiosi, Allievo sosteneva doversi rifare alla tradizione filosofica spiritualista italiana per combattere sia la dottrina hegeliana che quella positivista che nella pedagogia si stava in quegli anni diffondendo in Italia.  Rimase fino al 1912 nell'Torino insegnando pedagogia e dedicandosi a ricerche di antropologia e pedagogia. Fu autore anche di un'opera di vaste proporzioni dedicata a Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia, dalla scuola ionica a Giordano Bruno (Torino 1877).  Opere principali: “Saggi filosofici”; “Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia”; “Studi antropologici”; “L’uomo e il cosmo”; Si espone e si disamina l'opinione del Brothier. Si espone e si giudica la teoria di G. A. Hirn. Segue l'esposizione critica della teoria di G. A. Hirn -- Luigi Büchner -- Si pone la questione e si accenna il come risolverla -- Si accenna la differenza tra l'uomo ed il bruto. Concetto definitivo dell'antropologia. Valore ed importanza dell'antropologia -- Del metodo in antropologia Divisione dell'antropologia -- Concetto della persona umana -- Analisi della persona umana -- La virtù intellettiva -- Della coscienza personale -- La coscienza di sè e la conoscenza esteriore -- Individualità soggettiva della conoscenza esteriore -- Universalità oggettiva della conoscenza esteriore -- Il potere animatore ed affettivo -- Del corpo umano in sè e nelle sue attinenze col potere animatore -- L'organismo esanime ed il potere animatore -- Unità sintetica della persona umana TEORICA DELLA VITA UMANA -- La vita latente anteriore alla nascita -- L'infanzia -- Le prime origini dei problemi psico-fisiologici. L'attività volontaria -- La suprema libertà dello spirito -- Varie forme della personalità umana derivanti dall'attività volontaria -- Attinenze tra la facoltà conoscitiva e l'attività volontaria -- Corrispondenza dell'organismo col potere affettivo -- Trapasso dalla teorica dell'essenza umana alla teorica della vita umana -- Il corso della vita umana -- Della conoscenza esteriore -- Mente e corpo distinti ed uniti nella persona umana -- La gioventù -- La virilità -- I poteri della vita  -- Teorica della sensitività -- L'atteggiamento esteriore dell'organismo ed il potere animatore -- Concetto comprensivo della persona e dell'essenza umana La vita maschile -- La vecchiaia -- Delle potenze in riguardo all'oggetto -- Delle potenze in rapporto col soggetto umano -- Delle potenze umane in particolare -- Specie del potere affettivo -- Del potere animatore -- Distinzione essenziale tra la mente e l'organismo corporeo -- Unione personale della mente coll'organismo corporeo -- Del potere affettivo -- Carattere universale ed ufficio del sentimento -- Concetto e forme della vita umana -- La vita propria e la vita comune -- Divisione del corso temporaneo della vita ne'suoi periodi fondamentali -- Durata della vita umana -- Dei periodi della vita umana in particolare -- Considerazioni generali in torno i periodi della vita -- La vita oltremondana -- Delle potenze umane in generale -- Delle potenze considerate nel loro sviluppo -- La vita fisica e la vita mentale -- Del senso fisico e delle sensazioni -- Del senso spirituale e de' sentimenti -- Del sentimentalismo -- Dell'istinto -- Della percezione sensitiva -- Della fantasia sensitiva -- Teorica dell'intelligenza -- Della speculazione e della memoria. Dell'intelligenza in riguardo al soggetto conoscente -- Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto pensabile -- L'esperienza e -- L'intelligenza umana e LA PAROLA --  Dell'immaginazione. Concetto generale dell'immaginazione. Specie dell'immaginazione. Efficacia dell'immaginazione. Delle potenze estetiche. Teorica della volontà. Potere della volontà. L'operare della volontà. La libertà del volere. TEORICA DEL CARATTERE UMANO E DEL TEMPERAMENTO -- Ragione e genesi del carattere -- Concetto generale del carattere id . Dell'intuizione. Dell'attenzione intermedia tra l'intuizione e la riflessione -- Della riflessione -- Dell'istinto in ordine all'oggetto -- Trapasso dalla teorica della sensitività alla teorica dell'intelligenza -- Concetto generale dell'intelligenza -- Dell'intelligenza in riguardo al soggetto pensante -- La libertà del volere e la scuola positivistica -- Critica del determinismo positivistico -- La libera volontà e l'ambiente Art.7. Sintesismo dei poteri della vita -- Del senso -- Dell'istinto rispetto allo scopo la ragione -- Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto conosciuto -- Del carattere in ispecie -- Del carattere riguardato nella sua fonte -- Del carattere rispetto alle potenze ed alle forme dell'attività umana -- Del carattere morale -- Il carattere umano nella specie, nelle stirpi, nelle nazioni -- Del temperamento -- De'temperamentiinparticolare -- De'temperamenti in rapporto fra di loro “Studi pedagogici”; “Attinenze tra l'antropologia e la pedagogia”; Il linguaggio e la scrittura -- Dell'attenzione -- Dell'immaginazione sensitiva -- Dell'arguzia -- Della riflessione -- La memoria ed il ricordo -- Educazione del senso del bello -- La Levana di Giovanni Paolo Richter – Cenni biografici dell'autore --- Concetto generale -- Importanza ed efficacia dell'educazione -- La Levana o Scienza dell'educazione -- Appendice: Dell'educazione fisica infantile -- Dell'educazione della donna. “Esame dell'hegelianesimo”; “Il ritorno al principio della personalità”.  Note  Fonte: Francesco Corvino, Dizionario biografico degli Italiani alla voce corrispondente  in F. Corvino, Op. cit. ibidem  Giuseppe ALLIEVO, su accademia delle scienze. Giuseppe Allievo, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe Allievo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giuseppe Allievo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Giuseppe Allievo, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giuseppe Allievo,  Filosofia Filosofo del XIX secoloFilosofi iSan Germano Vercellese Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di Torino. L'intelligenza umana e la PAROLA (dal greco, parabola) sono due termini,che mostrano l'uno verso l'altro armonica corrispondenza e vicendevolmente si spiegano e s'illustrano, come lo spirito ed il corpo nell'uomo. Il conoscere ed il sapere umano ritrae dalla ‘parola’, che lo riveste, una peculiare impronta, che lo distingue dal conoscere proprio degli spiriti puri, e la lingua rivela la tempra mentale. L'intelligenza infantile si schinde dal suo germe in grazia della ‘parola’, con essa va via via sviluppandosi e progredendo, con essa ha comuni le vicende e le fasi. Infatti, la ‘parola’ torna necessaria all'effettivo pensare, all'effettivo conoscere. Finchè il pensiero non si concreta nella ‘parola’, ed in essa per così dire non s'incorpora, nès'incarna, è inconsistente, sfuggevole, vago, non per anco formato, ma solo rudimentale ed appena sbozzato. Le percezioni, che si hanno degli oggetti esterni mercè isensi, sono confuse, indistinte, e si dileguano col dileguarsi degli oggetti percepiti. Ben si possono in certo qual modo fissare colle immagini, le quali rimangono anche nell'assenza degli oggetti materiali. Ma le immagini sono pur sempre *individuali*, come gli oggetti, cui si riferiscono, e per di più sfuggevoli e vane.Veri pensieri e vere cognizioni propriamente dette non si hanno se non mercè la ‘parola’. E e questa torna tanto più necessaria, quanto più la idea da SIGNI-ficare (o segnare) e generale ed astratta, ed ecco ragione per cui I BRUTI NON ‘PARLANO’ (Monkeys can talk) siccome quelli, che sono destituiti della facoltà di generaleggiare e di astratteggiare. Che se ponga si mente non più alla percezione esteriore, ma alla ragione ed alle funzioni diverse della riflessione, la necessità della ‘parola’ si chiarisce ancora più evidente a segno che senza di essa tornerebbe impossibile la formazione di qualsi voglia specie dell'umano sapere. Se adunque la ‘parola’ è vincolo necessario, che lega la mente col mondo delle idee e mezzo es -- Vedi la nota g in fine del volume. Due altre ragioni si aggiungono a confermare vie meglio la necessità di siffatto studio, l'una sociale, pedagogica l'altra. La ‘parola’ non solo è mezzo alla formazione dei pensieri e delle idee, ma altre sì organo il più acconcio A MANIFERSTAR la proposizione ALTRUI, epperò vincolo necessario, che congiunge l'uomo co'suoi simili in comunanza di vita, condizione potissima della società umana. Gli spiriti umani, perchè ravvolti nell'involucro dell'organismo corporeo, non possono rivelarsi l'uno all'altro, nè intendersi, nè mutuamente rispondersi senza qualche MEZZO SENSIBILE riposto in qualche atto o movimento del corpo: quale è appunto la ‘parola’, la cui potenza ed efficacia sugli animi altrui è meravigliosa. Ancora, essa non solo è una necessità sociale, ma altre sì pedagogica, perchè è vincolo essenziale, che unisce in armonia di intendimenti e di voleri l'educatore coll'alunno, il maestro col discepolo, tanto chè senza di essa ogni educazione ed istruzione vera ed efficace rimane un vano e sterile desiderio. La ‘parola’ e l'immaginazione, quando vengono raffrontate l'una coll'altra, appariscono convenire insieme in ciò, che entrambe importano una dualità di elementi, sensibile ed intelligibile [[psico-fisico]] insieme accoppiati, e sono potenze individualizzatricie rappresentative dell'idea sotto forma sensibile. Ond'è che tal fiata l'immagine ridesta la ‘parola’, tal altra la ‘parola’ ri sveglia l'immagine, ed amendue rinvengono un punto di comune contatto nel linguaggio metaforico, figurato, immaginoso. Ciò nulla meno evvi tra queste due potenze siffatto divario, che l'immagine essenzialmente si di spaia dal semplice SEGNO, ed oltre di ciò la ‘parola’ è un sensibile tolto dall'organismo umano, l'immagine per contro è un sensibile attinto dalla natura esterna. Riguardata nella sua nativa essenza la ‘parola’ può venire definita un sensibile umano SEGNANTE (o significante) un intelligibile. Umano, dico, perchè riposto in qualche atto o movimento del nostro corporeo organismo, quale il gesto, la voce pronunciata ed udita. Rintracciando la ragione spiegativa dell'essenza della ‘parola’ noi la rinveniamo nell'essenza stessa dell'uomo. Infatti i due costitutivi della ‘parola’, quali sono IL SEGNO [o SEGNANTE]  sensibile e l'e lemento intelligibile [IL SEGNATO], ritrovano la ragione ed il fondamento loro nei due supremi costitutivi dell'essere umano, quali sono l'organismo corporeo [il segnante] e la mente [il segnato]; e come all'essenza dell'uomo torna tanto necessario lo spirito, quanto il corpo, così è tanto necessario alla ‘parola’ il SEGNO quanto l' idea significata [IL SEGNATO]. Onde si vede ragione, percui ai bruti, destituiti di mente, fallisce la ‘parola’. Inoltre a costituire la ‘parola’ non basta la dualità degli accennati elementi, ma occorre, che siano contemperati ad unità, essendochè il sensibile debbe essere SEGNO [segnante] di un intelligibile.  -- esenziale alla formazione de' pensieri ed all'acquisto delle conoscenze effettive, appare manifesto, che l'intelligenza umana, ad essere compiutamente compresa, va altresì studiata nelle sue attinenze colla ‘parola’. Ora quest'unità importa un primato dell'intelligibile sul sensibile, ed ha la sua ragione nel dominio della mente sull'organismo corporeo, ciò è dire nell'armonia stessa dei due supremi costitutivi dell'uomo. In fatti la mente nostra padroneggiando l'organismo, con cui è naturalmente congiunta, essa è che eleva i gesti, la voce, l'udito, il moto delle membra alla virtù di significare [O SEGNARE] una idea o un sentimento dell'animo, vincolando questi con quelli. Di qui la bella sentenza di Cicerone intorno l'origine della ‘parola’. Vox principium a mente ducens (De natura Deorum, lib.2). Nella parola adunque il segno O SEGNANTE sensibile e l'idea, o IL SEGNATO, sono due termini inseparabili tanto, quanto sono nell'uomo indisgiungibili lo spirito ed  il corpo. Da siffatto interiore e naturale compenetramento fluiscono alcuni corollarii, che reputo opportuno di accennare. Il pensiero progredisce di pari passo col linguaggio. La lingua corre le medesime sorti e segue le stesse fasi che il pensiero,tanto chè la ragion spiegativa delle origini, dei progressi, delle trasformazionie del corrompersi di un idioma va rintracciata nello studio delle vicende, a cui soggiace il pensiero di un popolo, che lo parla. Dichesi pare quanto vadano errati non pochi cultori della filologia, i quali la segregano onninamente d allo studio del pensiero umano, di cui il linguaggio è l'ESPRESSIONE esteriore, togliendole di tal modo il carattere di scienza, non solo, ma trasmutandola in un tessuto di errori. Lo stampo e l'indole peculiare di un idioma arguisce uno stampo o tempra singolare di mente in chi lo adopera. Epperò come gli è vero, che la lingua genericamente presa è nota specifica, che distingue l'umano pensare e conoscere da quello di altri esseri intelligenti, così è pur vero, che i differenti idiomi in particolare sono note altresì distintive, che differenziano le une dalle altre le menti umane individue e nazionali. Tuttavia in mezzo a questa tra grande varietà di lingue etnografiche apparisce un fondo comune, su cui tutte sono intessute, e, direi, uno spirito universale, che tutte le informa e le solleva ad una unità superiore, essendochè la mente umana, se si manifesta molteplice e varia nelle molteplici nazioni e nei varii individui, risguardata nella suas pecifica essenza è una ed identica, perchè, governata dalle medesime leggi logiche e rivolta all'universalità del vero. E quest’unità radicale delle lingue riverberata dall'unità specifica della mente umana arguisce logicamente l'unità originaria e specifica del genere umano, come la loro moltiplicità arguisce la varietà delle razze,in cui esso è distribuito sulla faccia della terra. Consegue ancora dal principio stabilito, che il tradizionalismo, il quale pronuncia, che l'uomo riceve dalla società insieme colla ‘parola’ anche le idee e la virtù dello intendimento, apparisce erroneo, siccome quello, che disconosce il primato dell'idea sul segno vocale, e l'ingenita virtù della mente di elevare la voce a dignità dinunzia del pensiero. Se l'uomo impara dalla società il linguaggio, ciò è dovuto alla virtù, che possiede la sua intelligenza, di intenderne il significato o SEGNATO. Infine discende quest'altro corollario, che non manca della sua importanza pedagogica. Vera istruzione non è, quando il discepolo riceva passive la parola del maestro, come se questa dia bell'e fatta all'alunno l'idea, la quale invece vuol essere un portato del suo lavoro mentale, e quindi si deve cooperare alla forma zione della ‘parola’. Poichè altro è ricevere la ‘parola e meccanicamente ripeterla, altro è FARLA NOI. IMPLICATURA. La’ parola’ ‘altrui ha sempre alcunchè di vago, di incerto e di oscuro per CHI LA RICEVE, mentre presenta un SENSO FERMO  e più o men definito per chi se la forma, come si avvera nella formazione di un neologismo come ‘implicatura’. Il linguaggio umano trae le sue prime origini da quell'impulso spontaneo della NATURA, che spinge l'infante a significare O SEGNARE mercè di una GRIDA INARTICOLATA il suo BISOGNO, il suo desiderio, la sua sensazione, e già abbiamo chiarito altrove, come a poco a poco egli ne abbia svolto il suo linguaggio ARTICOLATO. Ma la grida primitiva, onde si svolse il linguaggio articolato e convenzionale, non costituiscono tutto quanto il linguaggio naturale, spontaneo o di azione, il quale abbraccia altresì IL GESTO, il movimento, la fisionomia ed altri segni ed atteggiamenti esteriori della persona. Ora GESTO può anch'esso svolgersi e perfezionarsi, o come complemento del linguaggio o accompagnando e compiendo il linguaggio articolato, o da sè solo sotto forma di linguaggio mimico, quale lo scenico dei drammatici e lo educativo dei sordo-muti. Il linguaggio articolato primeggia sul naturale, perchè il suono articolato o l'organo vocale, accompagnato dall’organo auditivo ,è più pie ghevole, più facile, più svariato e perfettibile ,più acconcio ad esprimere le idee in tutte le loro articolazioni. Esso può essere o parlato, o scritto. La ‘parola’ parlata riesce più viva della scritta, più ESPRESSIVA, più animata, ma alla sua volta questa è stabile e permanente, quella sfugge vole e mobile. Il linguaggio articolato riveste forme diverse corrispondenti alle forme progressive dell'intelligenza nelle varie età degli individui. Quindi si distingue un linguaggio proprio dell'intuizione e del sentimento, un altro della riflessione e della coscienza, un altro della scienza e dell'arte. Il linguaggio dei popoli e degli individui fanciulli è povero, sintetico, metaforico e figurato. Quello dei popoli e degli individui adulti è più o meno concettoso, la grammatica ne è fissa, la prosa misurata. Quello dei popoli colti e dei pensatori è dotto, analitico e sintetico ad un tempo. Imparare a parlare è qualche cosa di più elevato che non imparare le lingue particolari; e noi impariamo a parlare apprendendo LA LINGUA MATERNA. Questa lingua, che abbiamo imparato da piccini, quando la nostra intelligenza cominciava a schiudersi, costituisce per noi il linguaggio per eccellenza. Ogni altra nuova lingua, che sia pprenda, si capisce soltanto mediante il suo paragone o rapporto colla lingua materna, ed a questa con maggior ragione convengono tutte le lodi, che noi attribuiamo alla lingua dei Romani come mezzo di coltura. Il bambino è sempre tanto desideroso di udirvi, che spesso vi interroga anche su cose conosciute, unicamente per aver occasione di ascoltarvi. Or bene tutto il mondo esteriore vien fatto comparire e brillare davanti alla fantasia del bambino mediante il nome, con cui vien designato ciascun oggetto. Tutto ciò, che è corporeo, venga analizzato sotto gli occhi del fanciullo durante i suoi due primi lustri, ma non gli si faccia analizzare affatto tutto ciò, che è solo spirituale. La lingua materna siccome e la più innocente delle filosofie pel fanciullo, siccome il più valido esercizio di riflessione. Parlategli molto e con precisione, ed anche da lui esigete la precisione.Una PROPOSIZIONE oscura, ma che diventa chiara se ripetuta una volta, provoca l'attenzione e rinforza l'intelligenza. Non temete mai di non essere intesi, e nemmeno se si tratta di intere proposizioni. La vostra faccia, il vostro accento, e il vivo bisogno che sente il fanciullo di comprendere, rendono chiara la cosa per metà. E questa prima metà farà col tempo capire anche l'altra. Pensate che I fanciulli. [SVILUPPO DELLA TENDENZA ALLA COLTURA DELLO SPIRITO] come facciamo noi per la lingua greca o per qualunque altra lingua straniera, imparano prima a CAPIRE la nostra lingua, che a ‘parlar’-la. Al bambino parlate sempre come se avesse qualche anno di più. L'educatore, il quale a torto attribuisce al suo insegnamento troppa parte di ciò, che impara l'alunno, ricordi che il bambino porta già pronto in se medesimo ed imparato tutto il suo mondo spirituale (cio è le idee morali e metafisiche), e che la lingua con tutte le sue immagini sensibili non serve che a rischiarare questo mondo interiore. Qui trova suo luogo la questione dello studio della lingua dei romani come mezzo di coltura mentale. Lo studio della lingua de romani e come una ginnastica dello spirito, che ne riceve una scossa ed eccitazione salutare.Esso studio, non tanto in virtù del mero vocabolario, quanto in forza della grammatica, che è la logica della lingua, costringe lo spirito a ripiegarsi sopra di sè, a riflettere sulla ‘parola’, considerandole come un riverbero della propria attività intuitiva. Dal linguaggio si passa a dire dello scrivere, ed anche su questo punto non sono meno assennati ed acuti I suoi accorgimenti. In sua sentenza, lo scrivere, ancora più che il ‘parlare’, separa e concentra le idee, perchè il suono meccanico della ‘parola’ parlata insegna a scosse e passa rapido, mentre i caratteri della scrittura ‘parlano’ in modo continuato e distinto. Lo scrivere facilita la produzione delle idee assai più che il suono rapido della ‘parola’, essendo esse una veduta interiore più che un'audizione esteriore. Sotto altri riguardi la ‘parola’ parlata assai sovrasta alla parola scritta, essendochè quella è ‘parola’viva, che esce animata dall'interiore organismo e discende potente nell'anima di chi la ascolta, mentre questa è parola morta, che esce dalla penna inanimata e non è che una debole eco della prima. Esercitate di buon’ora, e gli prosegue, il fanciullo a scriver e I pensieri suoi proprii piuttostochè ivostri. Risparmiategli i temi comunissimi, quali sarebbero le lodi della diligenza , del maestro di scuola,dei governanti ecc.Niente più nuoce a qual siasi componimento , quanto la mancanza di un oggetto proprio e di inspirazione. Una lettera, provocata unicamente dalla volontà del maestro, e non da un bisogno del cuore, diventa una  morta apparenza di pensiero,un inutile consumo di materia mentale. Se fate scrivere lettere, siano rivolte ad una persona determinata e sopra un determinato oggetto. Lo scrivere una pagina eccita e sveglia l'intelligenza assai più che il leggere un libro intiero. Vi è tanto poca gente,che sappia scrivere con un po'di garbo, quanto son pochi coloro, che sanno dire quattro periodi continuati  [2. Dell'attenzione. È avviso dell'autore,che l'attenzione,riguardata non in generale,ma specialeerivolta ad un particolare oggetto,non va raccomandata,nè suscitata o promossa con mezzi esteriori, quali sarebbero il premio od il castigo, poichè in tal caso il fanciullo più che all'oggetto proposto all'osservazione, terrebbe l'animo attento al premio, che lo attrae, od al castigo minacciato. Pongasi mente , che esso non è atto a sostenere un'atten zione prolungata e non mai interrotta;perciò non pretendete, che anche trattandosi d'un argomento, che possa interessarlo, vi presti la sua attenzione in qualunque ora e luogo e per tutto il tempo prescritto dai nostri regolamenti scolastici. La novità è pure una potente attrattiva per l'attenzione, m a per ciò stesso non va sciupata ripetendo troppo spesso le medesime cose sicchè diventino monotone e stucchevoli.  ]  .  Chi dovrà un giorno fare giustizia e scrivere veramente la storia del pensiero filosofico italiano nell’ultimo secolo, non potrà non dare una gran parte allo spiritualismo: del quale certo uno dei più illustri e combattivi rappresentanti è stato ed è»1. Le parole di Calò attestano una realtà difficilmente discutibile per chi si approcci anche alle vicende della pedagogia italiana nel mezzo secolo successivo all’Unità. Nato a San Germano Vercellese il 14 settembre 1830, Giuseppe Allievo2 compì gli studi secondari al seminario Arcivescovile di VGiuseppe Allievoercelli. Vinta una borsa al Collegio Carlo Alberto di Torino, si iscrisse nella Facoltà di filosofia della Regia Università. Si distinse per la preparazione e l’applicazione negli studi. In un articolo pubblicato sulla«Rassegna Nazionale», Giacomo Cottini riportò una lettera scritta da Aporti che comunicava al giovane Allievo la vincita di un premio che ammontava a trecento lire per i suoi meriti universitari3, segno premuni tore di una carriera accademica di primo piano. Laureato nel 1853, già lo stesso anno fu chiamato alla direzione di una scuola di metodo presso Novara, dove teneva anche il corso di pedagogia. Iniziò così una lunga serie di esperienze educative che lo portarono in diversi centri piemontesi: nel 1854 fu trasferito a Domodossola, poi per due anni ad Ivrea, quindi nel collegio di Ceva e successivamente a Casale Monferrato dal 1858 al 1860. L’anno seguente fu destinato sempre all’insegnamento di filosofia al Regio Liceo di Porta Nuova a Milano, l’attuale Liceo Parini, dove rimase per sei anni. Nel centro lombardo insegnò anche Filosofia teoretica, 1 G. Calò, Giuseppe Allievo Filosofo, in Vita e mente di Giuseppe Allievo, Torino, Scuola Tipografica Salesiana, 1913, p. 13. 2 G. B. Gerini, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo decimonono, Torino, Paravia, 1910, pp. 707- 708; P. Braido, Allievo Giuseppe, in Dizionario Enciclopedico di Pedagogia, Torino, S.A.I.E., 1958, vol. I, pp. 59-60; M. P. Biagini, Allievo Giuseppe, in Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La Scuola, 1989, vol. I, pp. 377-381.  3 G. Cottini, Giuseppe Allievo, «Rassegna Nazionale», I settembre 1913, p. 66. 22  logica e metafisica, all’Academia Scientifica – Letteraria. Ebbe modo di stringere rapporti con alcune delle personalità di spicco della cultura milanese: Pestalozza, Poli, Cantù, Tullio Dandolo. Continuò a tenere i rapporti con l’università torinese, dove nel 1857 aveva superato l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con giudizi molto positivi del Mamiani e del Rayneri4. Furono anni di intenso studio e anche segnati dalla sofferenza, dopo la morte di uno dei suoi figli5. Nel 1867 poté tornare a Torino poiché fu nominato insegnante di filosofia al Regio Liceo Cavour e incaricato del corso di pedagogia all’Università, dopo la morte del Rayneri. Continuò ad insegnare nella scuola sino al 1869, quando fu nominato titolare della cattedra di Pedagogia. Divenne ordinario solo nel 1878, ed insegnò ininterrottamente all’Università di Torino sino al 1912. La sua produzione pedagogica fu copiosa. Scrisse più di cento pubblicazioni tra monografie e saggi. Le sue opere più importanti furono: Saggi filosofici (1866), Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867), L’antropologia e l’hegelismo (1868), L’Hegelismo e la scienza, la vita (1868), L’educazione e la nazionalità (1875), L’educazione e la Scienza (1882), Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), Delle idee pedagogiche dei Greci (1887), Studi pedagogici (1889), Riforma 4 Cottini riportò un ricordo di Antonio Parato, risalente al giorno Allievo passò il concorso per l’aggregazione a Torino: «Antonino Parato, anch’esso decoro e vanto della scuola pedagogica italiana, disse nella sua Vita Magistrale, che avendo nel giorno stesso della pubblica prova incontrato Giovanni Antonio Rayneri, allora professore di Pedagogia nel Torinese Ateneo, gli venne dal medesimo annunciato con trasporto di gioia che il Collegio Universitario aveva allora allora accolto nel suo seno una sicura speranza della Filosofia italiana» G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 69. 5 Nel suo articoli, Cottini trascrive una lettera di Allievo indirizzata all’abate e professor Bernardo Raineri, rinvenuta dallo studioso e sacerdote Alessandro Roca tra le carte che il Raineri affidò agli archivi dei padri rosminiani. Si tratta di pagine molto significative, scritte poco dopo la morte del figlio Giulio, deceduto all’età di soli dieci anni: «Professore carissimo, Vi sonon grato e riconoscente della vostra lettera consolatoria. La profonda e grave ferita, che mi sta aperta nell’animo, è insanabile, ma pure ringrazio di cuore gli uomini del loro pietoso ufficio. L’immagine del mio povero Giulio mi accompagna dovunque, eppure so che vivo non lo rivedrò mai più sulla terra. La mia mente è con lui nel sepolcro, dove assisto col pensiero alla dissoluzione delle sue povere membra, che si confondono colla polvere della terra e in ogni passo che faccio, mi pare ci sentirmi dire: Padre, perché mi calpesti? Ah, se io avessi la sventura di essere materialista, vedendo che il mio Giulio è tutto finito in un pugno di polvere, non saprei resistere all’idea di rinunciare anch’io alla vita in modo violento. La fede, solo la fede cristiana, mi fa forte nella lotta tremenda, e rassegnato ai duri, eppur sempre adorabili voleri di Dio. La natura mi ha strappato dal seno il mio diletto per convertirmi il corpo in poca polvere; la fede miaddita il suo spirito sempre vivo in cielo e mi assicura che quella poca polvere si rifarà corpo vivo per mantenerla. Non ho voluto che la salma di mio figlio giacesse qui a Milano, dove non si pensa più ai poveri morti: l’ho fatto in quel campestre cimitero, accanto ai sepolcri, dove riposano lacrimate le ossa de’ miei genitori. E vorrei anch’io abbandonare per sempre Milano, ma non posso nulla per me. I molti miei amici vivamente mi solleticano di chiedere la cattedra di pedagogia vacante nell’Università di Torino, e ci andrei volentieri, ma io mi tengo forte nel mio proposito di non chiedere più nulla al Potere. Ieri mi è giunto notizia che è morto un mio fratello ammogliato, lasciando dietro di sé tre creature. E quasi tutto ciò non bastasse , ho il mio ultimo bimbo di quatto anni ammalato da 25 giorni di febbre miliare, in grave pericolo di vita ed ormai disperato dai medici. Sono infelice, ma l’infelicità non è così, quando si è con Dio, il quale ci addolora quaggiù per bearci in cielo. Ricambiate i mieri saluti a quall’anima di Iacopo Bernardi: ditegli che gli sono proprio riconoscente della parte che prese al mio dolore, e voi vogliatemi sempre bene» Ibid., pp. 67-68.  23  dell’educazione mediante la riforma dello Stato (1897), Esame dell’hegelismo (1897), La pedagogia antica e contemporanea (1901), Opuscoli pedagogici (1909), G. G. Rousseau filosofo e pedagogista (1910). Scrisse anche alcuni manuali per le scuole secondarie come il Breve compendio di filosofia elementare ad uso de’ licei (1862), Elementi di pedagogia ad uso delle Scuole normali del Regno (1885) e il Compendio di Etica ad uso dei Licei (1899), con più edizioni e ampiamente adottati nelle scuole italiane. Allievo collaborò attivamente alla pubblicistica pedagogica e filosofica del tempo6. Nel 1867 con Carlo Passaglia fu il principale animatore del «Gerdil», organo dei giobertiani e spiritualisti torinesi, che ebbe però breve durata non riuscendo a superare l’anno. Vi scrissero, tra gli altri, Giovanni Maria Bertini e Francesco Bertinaria. Dal 1868 al 1873, Allievo diresse «Il campo dei filosofi», un periodico fondato a Napoli nel 1863 da Gaetano Milone, poi trasferito a Torino nel 1867. Si tratta di un’esperienza pubblicistica che ebbe una certa rilevanza nel dibattito filosofico e pedagogico italiano, come ha già sottolineato Eugenio Garin7. Vi collaborarono autori come Di Giovanni, Toscano, Morgott, Peyretti, Rayneri, Tagliaferri, Bonatelli, Marsella, Tiberghien, Bosia, 6 Cfr. G. Chiosso (ed.), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), Brescia, La Scuola, 1997, pp. 340, 347-348, 378, 398-399, 438, 563-564, 573, 586, 611-612, 705. 7 Dopo aver citato alcuni brani della rivista, Garin osserva: «“Il Campo dei Filosofi Italiani”, la rivista vissuta a Napoli dal 1864 al ’67, e poi passata a Torino (1868-1872) sotto la direzione dell’Allievo, si proponeva di combattere soprattutto “l’idealismo dell’Hegel e il positivismo del Comte” – come scriveva l’Allievo nel programma del ’68, continuando del resto l’attività iniziata a Napoli dal barnabita Gaetano Milone. Oltre i saggi di critica all’hegelismo già citati, altri ve ne comparvero, dell’Allievo nel ’72, del Di Giovanni nel ’64, del Donati nel ’66, del Selvaggi nel ’67, del Tagliaferri nel ’70. E l’attività della rivista in questo settore meriterebbe di essere studiata, tanto più che non è privo d’interesse il legame subito stabilito fra hegelismo e positivismo, quasi gemelli nemici». Dopo aver ricordato la facilità con cui diversi idealisti si «convertirono» al positivismo negli anni seguente all’Unità, Garin spiega questo fenomeno riprendendo e valorizzando l’analisi dell’Allievo che vedeva in queste due teorie apparentemente distanti, un comune denominatore: «Quell’onesto studioso che fu Giuseppe Allievo, professore di antropologia e pedagogia a Torino, che aveva alimentato una vivace ma seria discussione intorno all’hegelismo sul “Campo dei Filosofi Italiani”, che nel ’68 aveva messo insieme un onesto libretto su L’hegelismo, la scienza e la vita, pubblicando quasi trent’anni dopo, nel ’97, a Torino, un Esame dell’hegelianismo, che voleva essere un bilancio, credeva di poter individuare una convergenza profonda fra positivismo e hegelismo. “L’Hegelianismo – scriveva – e il positivismo, che a tutta prima hanno sembianza di due dottrine diametralmente opposte e riluttanti, in realtà sono fra loro congiunti da un punto di contatto intimo e profondo.” Assoluta immanenza, realtà come processo e sviluppo, celebrazione della ‘scienza’ (Wissenschaft): ecco alcuni dei punti su cui insisteva l’Allievo, pur avverso a entrambe le concezioni. Ma comunque si valuti la sua disamina, e al di là dei ‘casi’ degli hegeliani passati al positivismo, una cosa certa l’Allievo coglieva esattamente: l’esistenza di una ‘riforma’ in atto della dialettica del senso dell’evoluzionismo, con tutto quello che una veduta del genere implicava, “in metafisica, in politica, in diritto, in morale, in religione” – per usare le sue parole. Proprio dentro questo processo, già avviato nell’ambito dell’eredità feurbachiana, si muoverà fra tensioni e polemiche Antonio Labriola: contro l’evoluzionismo spenceriano al posto del moto dialettico della storia, contro il socialismo neokantiano-positivistico al posto del marxismo, per una rinnovata filosofia della prassi, ma anche – lo dichiarerà a Engels – per una sostituzione del metodo genetico a quello dialettico, il che non era solo ‘questione di parole’» E. Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, Bari, De Donato, 1983, pp. 56-57.  24  Bertini, Polla, Leonardi, Naville, Passaglia e altri. In seguito pubblicò una serie di articoli sulla «Rivista filosofica». Nel 1883, quando era ormai divenuto uno tra i principali protagonisti del dibattito pedagogico nazionale, Allievo assunse la direzione de «Il Baretti»8, un foglio dedicato a questioni scolastiche e pedagogiche, che guidò sino al 1885. Qui vi apparvero perlopiù una serie di articoli utili a lumeggiare le sue posizioni in merito alla libertà d’insegnamento e, più in generale, alla politica ministeriale. Nella sua lunga carriera, Allievo rappresentò una delle personalità di primo piano della pedagogia spiritualista italiana. Le sue opere e il suo pensiero divennero un punto di riferimento per la riflessione e il mondo educativo cattolico9, trovando una considerevole «circolazione pedagogica», per riprendere una categoria riproposta da Prellezo10. La Bertoni Jovine ne parlò come il maggiore esponente del «neospiritualismo»11, sino a considerarlo, esagerando, come la guida della corrente cattolica12. Il ruolo assunto nella discussione pedagogica del tempo è senza dubbio legato alla posizione privilegiata avuta per quasi mezzo secolo in ambito accademico. Va tenuto conto che allora i docenti di pedagogia incardinati nelle Università italiane erano relativamente pochi. Serafini, riprendendo un brano di Cesca, rileva come nel 1890 si contassero solo cinque professori di pedagogia nelle tredici facoltà italiane di Lettere e Filosofia, e di questi solo tre erano gli ordinari13. Allievo era uno di loro, ed insegnava in un Ateneo come quello torinese che oltre ad avere con quello napoletano il primato per il numero di studenti iscritti, rappresentava in quei decenni uno dei poli principali del dibattito pedagogico italiano, sia in campo accademico, che in quello pubblicistico e scolastico. 8 Cfr. G. Chiosso (ed.), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., pp. 90-91. 9 G. Chiosso, I giornali scolastici torinesi dopo l’Unità, in Id. (ed.) Scuola e Stampa nell’Italia liberale. Giornali e riviste per l’educazione dall’Unità a fine secolo, cit., p. 17. 10 In uno studio dedicato a Rayneri, a cui ne seguì uno analogo su Allievo, Prellezo invita ad approfondire la capacità di influenza dei pedagogisti più impegnati teoreticamente con la realtà educativa. Egli parla della «necessità di promuovere ricerche puntuali allo scopo di definire limiti e portata dell’incidenza delle dottrine pedagogiche, non solo nell’ambito delle riforme dell’insegnamento pubblico, ma anche, ad esempio, in quello dell’azione educativa dei fondatori e primi membri delle congregazioni religiose dedicate all’insegnamento» J. M. Prellezo, Pensiero pedagogico e politica scolastica. Il caso di G. A. Rayneri (1810- 1867), in «Annali di Storia dell’Educazione e delle Istituzioni scolastiche», n. 1, 1994, Brescia, La Scuola, p. 149. 11 D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, Roma, Editori riuniti, 1961, p. 25. 12 «Il neo spiritualismo dell’Allievo se riuscì a creare una corrente alla quale aderirono studiosi come il Conti e l’Alfani e tutto il gruppo della Rassegna Nazionale non ebbe la capacità intrinseca di operare un capovolgimento della pedagogia e neanche quella di combattere efficacemente il positivismo che, benché debole dal punto di vista speculativo, era portatore di vivissime esigenze socali, sostenute dai partiti democratici» D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 a nostri giorni, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 63. 13 G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana dell’Ottocento, Roma, Bulzoni Editore, 1999, p. 83.  25  Riguardo alla «circolarità» di Allievo nella corrente cattolica, merita di essere accennata la collaborazione con i salesiani14. Il docente vercellese poté conoscere presumibilmente l’esperienza educativa della congregazione già negli anni dell’Università, prima come studente della città di Torino, e poi quando divenne professore. Diversi collaboratori di Don Bosco frequentarono infatti l’ateneo subalpino. In seguito, uno dei suoi figli studiò al collegio salesiano di Mirabello. Il docente vercellese si avvicinò sempre più alla congregazione: collaborò nel collegio salesiano di Valsalice, partecipò alle numerose manifestazioni scolastiche e culturali dei salesiani in città15, fece spesso visita in qualità di «esperto» alle scuole del santo piemontese. Alcuni studiosi salesiani hanno parlato di una vera e propria amicizia tra Don Bosco e il pedagogista vercellese16. Un episodio risulta significativo nella ricostruzione di questo rapporto. Quando alla fine degli anni ’70 l’oratorio di Valdocco rischiò di essere chiuso per dei provvedimenti voluti dal Ministro Correnti, Allievo si offrì per cercare di salvare l’istituto. Aiutò don Bosco nella compilazione dell’istanza da inviare al Ministero e si impegnò per inoltrare un ricorso al Consiglio di Stato. Negli anni seguenti mantenne stretti i rapporti con gli altri salesiani più giovani, soprattutto con don Durando, direttore generale degli studi delle scuole salesiani. Il pensiero dello studioso vercellese ispirò anche alcune opere dei primi pedagogisti salesiani17. Prellezo documenta l’influenza della pedagogia di Allievo sulla Storia della pedagogia (1883) di Cerruti e sugli Appunti di pedagogia (1897) di Barberis18. Una certa influenza è anche rilevabile nelle Lezioni di pedagogia di don Vincenzo Cimatti19. In 14 Sul tema si rinvia al documentato e approfondito studio di: J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani, «Orientamenti pedagogici», n.3, maggio-giugno 1998, pp. 393-419. 15 Proverbio ricorda la presenza dell’Allievo alla seconda rappresentazione del Phasmatonices di Rosini nel 1868. «Le insistenza per la replica furono tali che il sipario si riaprì l’otto giugno: vi accorsero molti torinesi, tra cui il professor G. Allievo, docente di pedagogia alla Università di Torino, il quale “andava per la sala del teatro a trarre innanzi persone ragguardevoli”, mentre negli intervalli venivano eseguite le romanze verdiane di G. Cagliero» G. Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento del latino (1850-1900), in F. Traniello (ed.), Don Bosco nella storia della cultura popolare, Torino, Sei, 1987, p. 172. 16 Trat tando del santo piemontese, Braido ha osservato: «reali furono le relazioni, perfino di cordialità e di amicizia, con alcuni teorici della pedagogia contemporanei, come A. Rosmini, G. A. Rayneri, G. Allievo» P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella storia, cit., p. 313. Si veda anche: J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani, cit., p. 413. 17 Su tale legame Pietro Braido ha rilevato: «Giannantonio Rayneri e Giuseppe Allievo esercitarono un palese influsso diretto su due note figure di studiosi salesiani di pedagogia, rispettivamente D. Francesco Cerruti e D. Giulio Barberis; gli inediti Appunti di Pedagogia sacra di quest’ultimo rivelano un’evidente dipendenza. Allievo, benefattore e sostenitore di Don Bosco, si batté strenuamente per la sopravvivenza delle scuole di Valdocco, mettendo a disposizione, in difesa della libertà educativa, la sua energica contrarietà al centralismo burocratico del Ministero della P.I.» in P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella storia, cit., p. 313. 18 J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani, cit., pp. 406-412. 19 Ibid., p. 413.  26  verità, anche altri manuali pedagogici del tempo si ispirarono alla riflessione dell’Allievo20. Se l’opera del vercellese fu accolta subito con favore dal circuito cattolico liberale e da quello salesiano, il gruppo intransigente non sembrò accorgersi del suo contributo. Solo all’inizio del Novecento, quando la dialettica interna nel mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La Civiltà cattolica» lo menzionò per le sue posizioni a favore della libertà d’insegnamento21. Sebbene l’opera di Allievo mantenne una dimensione prevalentemente nazionale, egli attirò l’attenzione di alcuni studiosi stranieri come Naville, Daguet, Blum. Dopo una lunga esistenza spesa interamente alle riflessione educativa si spense a Torino il 24 giugno 1913. I. 1. Influenze rosminiane e dimensione europea Alla costruzione del sistema pedagogico e filosofico dell’Allievo, contribuirono molteplici scuole e sollecitazioni. Gran parte degli studi dedicati al pedagogista vercellese hanno rilevato un’«evidente traccia della riflessione rosminiana»22, come già aveva sottolineato nelle sue ricerche Gentile23. Per cogliere le ragioni di tale influenza, occorre in primo luogo considerare il peso del rosminianesimo nella cultura pedagogica e filosofica piemontese della prima metà dell’Ottocento. L’Ateneo torinese rappresentò con i seminari lombardi uno dei maggiori centri di influenza e propagazione della filosofia del roveretano24. Si tratta di un afflato radicato, che si conservò ancora a lungo nella cultura subalpina25. Allievo trascorse, pertanto, gli anni della sua formazione universitaria in un contesto permeato dal pensiero rosminiano. Diversi dei suoi professori erano discepoli rigorosi del roveretano. Grazie ad un suo docente, Allievo poté avere un primo contatto con Rosmini: Pier Antonio Corte inviò al pensatore roveretano un breve scritto dello studente vercellese per averne un parere. Poco tempo dopo, Rosmini rispose all’invito del professore e 20 Tra gli altri, Arcomano, sottolinea come il saggio di Costanzo Malacarne, Sunti di pedagogia, un classico della manualitstica pedagogica del tempo, appaia fortemente influenzato dalla pedagogia di Allievo. Cfr. A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed educazione in Italia (1860-1873), cit., p. 118. 21 G. Chiosso, Editoria e stampa scolastica tra otto e novecento, in L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio – culturali in Italia tra Otto e Novecento, cit., p. 505. 22 G. Chiosso, Novecento pedagogico, Brescia, La Scuola, 2012, p. 151. 23 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, Messina, Principato, 1917, pp. 363-376. 24 Cfr. A. Gambaro, Antonio Rosmini nella cultura del suo tempo, «Il Saggiatore», n.2, 1955, pp. 143- 157; F. Traniello, Cattolicesimo conciliarista, cit., p. 74. 25 Si veda: Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, Stresa, Edizioni rosminiane, 1994. 27   apprezzò il lavoro pur sottolineando i limiti dello scritto di Allievo, allora solo ventiduenne26. Pochi anni dopo, nel 1854, il pedagogista vercellese ebbe anche l’occasione di conoscere personalmente il Rosmini, poichè allora dirigeva un corso di Metodica a Domodossola, frequentato da alcuni allievi dell’Istituto di Carità. Del roveretano ebbe una impressione eccezionale. Ricordando quella circostanza, ne parlò come di una persona dotata di una «modestia pari alla sua grandezza»27, ma anche di una profonda serenità, probabilmente legata, in quel periodo, al recente Dimmitantur per le sue opere. Il legame con il rosminianesimo fu corroborato da Giovanni Antonio Rayneri, da cui Allievo ereditò la cattedra all’Università di Torino. Professore e sacerdote, il Rayneri rappresentò un protagonista nel fermento educativo e pedagogico piemontese tra gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento. Il suo sistema pedagogico si innestava sull’impianto filosofico del roveretano, di cui offrì un’organica riproposizione in chiave educativa. L’elaborazione di Rayneri fu di vitale importanza per la circolazione della pedagogia rosminiana28. La lezione del suo predecessore rimase un costante punto di riferimento per l’Allievo. Lo studioso vercellese curò nel 1869 la pubblicazione postuma del saggio Della pedagogica, una summa in cinque volumi del pensiero del Rayneri, «supplendo il libro e mezzo, che mancava, con pochi appunti rinvenuti fra le carte dell’autore»29. Si tratta di un’opera considerata da Allievo come una delle maggiori confutazioni agli errori della pedagogia moderna30. In una delle sue prime opere più importanti, : L’Hegelismo e la scienza, la vita (1868) si trova una dedica molto significativa al suo maestro31. 26 In una lettera datata 17 febbraio 1852, il Rosmini scrisse al Corte: «La ringrazio d’avermi comunicato lo scritto del signor Giuseppe Allievo. L’ho letto con piacere e confermo pienamente il giudizio favorevole da lei portato e mi congratulo colla R. Università se fa di tali allievi, mi congratulo con Lei e coll’autore del detto scritto, che mi par l’ugna del leone. Quello che può mancare alla proprietà del linguaggio verrà in appresso, essendo cosa che solo s’impara cogli anni... Queste sottili osservazioni però non impediscono che il lavoro favoritomi sia degnissimo di lode» Citata in G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, Torino, Tipografia S. Giuseppe degli artigianelli, 1904, p. 8. 27 G. Allievo, Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, Milano, Cogliati, 1897, vol. II, p. 523. 28 G. Chiosso, Rosmini e i rosminiani nel dibattito pedagogico e scolastico in Piemonte (1832-1855) in Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, cit., p. 102. 29 G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 71. 30 Nella commemorazione già citata scrive: «La Pedagogica mi apparisce una spiccata antitesi dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau; in quella tutto è semplice, connesso, lucido, ordinato e preciso: in questo tutto è sconnesso, incoerente, saltuario; il nostro Pedagogista ha la coscienza del suo pensiero, misura i suoi conoscimenti, non trascorre mai gli estremi; il ginevrino scatta fuori con grandi paradossi che colpiscono, con pensieri sublimi, grandi originali, dove la verità è in lotta continua con l’errore; [...] Un’altra idea della vita, un giusto sentimento della natura umana, un vivo ed operoso concetto del dovere, sono questi i principi filosofici, che informano la Pedagogica del RAYNERI, principi diamentralmente opposti a quelli dell’umanismo contemporaneo, che fa dell’uomo Dio a se stesso» G. Allievo, Commemorazione del primo Centenario della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola, Asti, Tipografia Popolare Astigiana, 1910, pp. 14-15. 31 La dedica recita: «Alla cara e venerata memoria di Gioanni Antonio Rayneri, Che primo fra gl'italiani tentò elevare all'unità sistematica della scienza la. Pedagogica da lui per un ventennio professata all'Università di Torino questo tenue lavoro con riverenza di discepolo piamente consacro».  28  Nel 1910, il vercellese fu invitato a tenere un discorso in occasione del centenario dalla nascita di Rayneri32. Ormai prossimo alla pensione, ripercorrendo quasi cinquant’anni di insegnamento universitario, ricordò con queste parole il maestro: «Gran parte della mia vita pedagogica sta collegata col nome di lui, essendochè negli anni miei giovanili, sedendo sui banchi dell’Università io ascoltava la sua magistrale parola, e che egli ha illustrato per poco più di un ventennio quella cattedra, che io tengo da quasi mezzo secolo»33. Durante gli anni del suo magistero, Allievo rimase sempre in contatto con gli ambienti rosminiani, collaborando anche ad alcune riviste ad esso legato34. Diversi concetti e posizioni del sistema del vercellese sono chiaramente mutuati dall’alveo rosminiano. Un primo elemento è l’idea della personalità, che Allievo pone al centro della sua pedagogia35. In questo campo, accolse gran parte dell’impianto psicologico e antropologico del roveretano, riproponendo la tripartizione delle facoltà: senso, volontà e intelletto, largamente utilizzate e approfondite dal professore piemontese. Al Rosmini lo legano anche ragioni e argomenti di critica alla filosofia moderna. Al pari del roveretano, ma anche di altri autori spiritualisti, Allievo riunì Kant e i pensatori idealisti sotto la stessa etichetta di «scettici». Un altro elemento riguarda l’unità di filosofia e pedagogia, di cui Allievo si fece araldo di fronte agli eccessi di metodologismo cui erano tentati anche alcuni studiosi cattolici36. All’idea di unità, è collegato un altro concetto rosminiano accolto da Allievo, vale a dire quello del «sintetismo»37, strettamente connesso a quello di «armonia», considerato nodale per comprendere la sua idea di educazione38. Non senza motivo, Berardi riassunse la teoria della personalità dell’Allievo come una «traduzione del sintetismo di origine 32 G. Allievo, Commemorazione del primo Centenario della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola, cit. 33 Ibid., p. 4-5. 34 Tra le altre, offrì la sua collaborazione alla rivista La Sapienza, Rivista di filosofia e di Lettere, diretta da don Vincenzo Papa e pubblicata dal 1879 al 1886. Cfr. Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, cit., p. 65. 35 Giovanni Calò sostenne come, in fondo, «Quella del Rosmini è una pedagogia della personalità» G. Calò, Pedagogia del Risorgimento, Sansoni, Firenze, 1965, p. 679. 36 Commentando un breve intervento dello studioso vercellese sulla pedagogia del Rosmini, Cavallera ho osservato come «l’Allievo individua nel concetto di unità la forza del pensiero pedagogico rosminiano uscendo dai consueti schemi della illustrazione della metodica, ma non va oltre tale precisazione» H. A. Cavallera, Rosmini nella Pedagogia dell’Ottocento, cit., p. 117. 37 Come conferma Mazzantini: «Rimasero sempre per lui fari di orientamento, nella sua vita di studioso, le dottrine ontologiche (già in gioventù manifestateglisi evidenti) della gradualità e del sintetismo degli esseri» C. Mazzantini, I capisaldi del sistema filosofico pedagogico di G. Allievo, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 702. 38 In merito la Quarello, che ha dato alle stampe uno dei lavori più precisi ed elaborati sull’Allievo, ha osservato: «Nella dottrina pedagogica dell’Allievo la legge fondamentale è dunque l’armonia, legge che necessariamente deriva da quella suprema filosofica: “Il sintetismo universale”» V. Quarello, G. Allievo, studio critico, Lanciano, Carabba, 1936, p. 121.  29  rosminiana»39. Sebbene il vercellese, ad esempio nei Saggi filosofici, sul tema si rifaccia alle opere del Krug, le tracce del discorso rosminiano sono evidenti. Se tali elementi mostrano un chiaro ancoraggio all’opera rosminiana, da una lettura più attenta delle opere di Allievo emerge tuutavia anche una serie di differenze con il roveretano che non permettono di ascrivere in toto l’opera del professore piemontese tra quello del circuito rosminiano vero e proprio, rispetto al quale, al contrario, manifestò l’esplicita intenzione di differenziarsi. Si tratta di una posizione che, secondo uno dei più importanti pedagogisti di scuola rosminiana, poteva tuttavia essere letto in modo positivo40. Già Francesco Paoli, curatore di alcune delle più importanti opere postume del Rosmini e suo ultimo segretario, nel saggio Della scuola di Antonio Rosmini, recentemente ripubblicato, nel disegnare la geografia del rosminianesimo in Italia sottolineava la dissonanza tra l’Allievo e il roveretano41. Questa precisazione di Paoli, peraltro in un libro con toni marcatamente apologetici, denota come tra i seguaci «osservanti» del roveretano, l’Allievo non fosse considerato un rosminiano «ortodosso», nonostante la riconosciuta prossimità. La distanza tra i due pensatori è documentata dal fatto che nelle opere del vercellese i richiami e le influenze dell’opera rosminiana si diradano. La maggior parte dei espliciti riferimenti al roveretano, infatti, si riscontrano nei primi lavori dell’Allievo, in specie nei Saggi filosofici (1866), con chiari rinvii all’ontologia, alla metafisica e alla logica. Ma già in un’opera dell’anno seguente, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, il legame con il sistema del roveretano appare più distaccato. In particolare, si coglie un certo ridimensionamento dell’apporto del Rosmini. Delineando l’itinerario della pedagogia italiana del primo Ottocento, sebbene non manchino apprezzamenti positivi, Allievo sottolinea come il vero innovatore della pedagogia italiana fu il Rayneri. Si tratta, senza dubbio, di un’interpretazione impensabile per qualsiasi studioso rosminiano42. 39 R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di G. Allievo, «Quaderni di cultura e storia sociale», febbraio 1953, p. 62. 40 Cottini rileva come: «Circa la discordia fra l’Allievo e il sommo Roveretano, osservò giustamente il mio quondam condiscepolo Prof. Giuseppe Morando, che il dissenso aperto e leale dell’Allievo porge maggiore rilievo alla riverenza sconfinata che questi gli professò, ed all’omaggio, ch’egli gli rese in ogni occasione» G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 67. 41 Scrive il pedagogista di Pergine: «Di presente l’onore della Filosofia e della Pedagogia è sostenuto nell’Università di Torino dal Prof. Giuseppe Allievo, che se non professa del tutto la filosofia del Rosmini, l’accetta in gran parte e la onora colla esemplarità della vita e colle molte gravi sue pubblicazioni pedagogiche» F. Paoli, Della scuola di Antonio Rosmini (a cura di P.P. Ottonello), cit., p. 38. 42 Scrive: «Del Rosmini, per quel che spetta alla pedagogia rigorosamente intesa, non si aveva che il Saggio sull’unità dell’educazione, opuscoletto di poche pagine. I lavori del Tommaseo sono studi serii, monografie peregrine, pensieri, desiderii, come egli stesso li intitola, sono preziosi elementi scientifici, ma un organico sistema di scienza non fanno; egli stesso si tiene in guardia dalla mania de’ sistemi anche in  30  In alcune opere degli anni ’70, quando il sistema dell’Allievo si consolidò, il vercellese si discostò esplicitamente da elementi non secondari della filosofia rosminiana. Nell’opera in cui sistematizza con più rigore le sue teorie ontologiche, vale a dire Il problema della metafisica (1877), si affranca dal roveretano in merito alla dottrina dell’essere. Mentre Rosmini crede che l’oggetto primo della metafisica sia l’essere categorico, astratto e comunissimo, egli lo identifica nella realtà infinita e finita considerate nel loro insieme e nelle «vicendevoli loro attinenze»43. Nello stesso saggio, riconoscendo nel fatto di pensare il primo noto della metafisica, si preoccupa di sottolineare l’assenza di tale idea in Rosmini44. Sempre in campo gnoseologico, Allievo contesta inoltre la teoria secondo cui dall’intuito si arrivi alla visione dell’essere ideale universalissimo. Stando al pedagogista vercellese, l’intuito percepisce la realtà confusa ed indeterminata45, opponendosi così ad uno degli elementi caratterizzanti la gnoseologia del roveretano, oltre che oggetto di aspre contese con la filosofia neoscolastica. Pare ancora più netta la posizione esposta negli Studi psicofisiologici in merito alla psicologia e al rapporto tra anima e corpo: «In che ripone il Rosmini l’essenza dell’anima umana? È assai malagevole impresa il cogliere su questo punto della psicologia capitalissimo il suo pensiero; tanto parmi intricato, inconsistente, incerto!»46. E poi motiva: «Il concetto psicologico del Rosmini oscilla incerto tra questi tre pronunciati: 1° l’anima umana è sentimento dell’Io e niente di più: il sentire animale sta all’infuori di essa, ossia non è contenuto nella sua essenza; 2° l’anima possiede di fatto, siccome suoi essenziali costitutivi, il principio sensitivo animale ed il principio intellettivo; 3° il principio sensitivo è virtualmente contenuto nelle intellettivo»47. Contrario a tali posizioni considerate equivoche, proporrà un duo dinamismo coordinato su cui avremo modo di trattare in seguito. La valenza delle critiche mosse al pensatore roveretano dall’Allievo, è confermata dalle dure repliche di alcuni dei più «fedeli» epigoni di Rosmini. A questo proposito, sono molto significativi due scritti di Pietro De Nardi, rosminiano ortodosso, che stampò due severi pamphlet contro l’Allievo. pedagogia, e crede che addestrando in maniera variata il pensiero si serva , meglio che con severe teoriche, all’unità dell’idea. Il Rayneri seppe far tesoro de’ profondi e svariati lavori parziali de’ pedagogisti, che lo precedettero, coll’intendimento di ricondurli all’unità della scienza» G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1901, pp. 148-149. 43 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, Torino, Stamperia reale, 1877, pp. 35, 46. 44 Ibid., p. 47. 45 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, Torino, Tipografia Subalpina, 1891, p. 298. 46 G. Allievo, Studi psicofisiologici, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1911, p. 60; 47 Ibid., 62;  31  Nel 1883, pubblicò La teorica rosminiana dello sviluppo graduato della ragione umana difesa da P. De Nardi contro la traccia di contradditoria che ad essa ha dato G. Allievo. In questo saggio lo studioso rosminiano considerava «gravissima nella sostanza»48 la critica mossa da Allievo riguardo lo sviluppo della mente nell’opera del roveretano, esposta ne Il positivismo in sé e nell’ordine pedagogico. L’anno seguente De Nardi pubblicò Due sillogismi di Giuseppe Allievo contro la percezione intellettiva come viene percepita da A. Rosmini49, nel quale contestava al pedagogista vercellese prima il merito di un appunto sulla filosofia del roveretano riguardanti i rapporti tra l’anima sensitiva e intellettiva, e poi criticò un presunto pensiero del vercellese secondo il quale «oggetti» di natura diversa non possano comunicare fra loro. Una prima risposta alle accuse del De Nardi appare ne L’uomo e il cosmo (1891), dove Allievo confuta i pamphlet e una recensione apparsa su Il Rosmini del marzo 1887, sostenendo che fossero state travisate le sue parole. Dopo aver mostrato l’infondatezza delle critiche fattegli, muove una critica molto significativa a certi epigoni del Rosmini i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto, bisogna dire che cammina nella via dell’errore»50. Per lumeggiare più chiaramente il rapporto tra Allievo e Rosmini, è inoltre indispensabile citare i due testi in cui l’Allievo trattò specificatamente dell’opera del roveretano: il brevissimo saggio, Il concetto pedagogico di A. Rosmini51 e il più sostanzioso articolo dal titolo Antonio Rosmini uscito prima nella rivista universitaria «Studium», e poi pubblicato nel 191252. Il primo lavoro, seppure breve, appare tuttavia molto significativo. Tale saggio fa parte del già citato Per Antonio Rosmini, un’opera che raccolse in due volumi gli interventi al congresso commemorativo per il centenario dalla nascita del filosofo, organizzato dall’Accademia degli Agiati di Rovereto nel Maggio del 1897. 48 P. De Nardi, La teorica rosminiana dello Sviluppo Generale della Ragione umana difesa da Pietro De Nardi contro la taccia di contradditoria che ad essa ha dato Giuseppe Allievo, professore all’Università di Torino, Intra, Bertolotti, 1883, p. 3. 49 P. De Nardi, Due sillogismi di Giuseppe Allievo, Professore all’Università di Torino, contro la percezione intellettiva come viene concepita da Antonio Rosmini esaminati da Pietro De Nardi, Professore di Filosofia nel Collegio Internazionale Italiano di Torino, con appendice del medesimo in risposta a T. Mamiani, Modena, Vincenzi, 1884. 50 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., pp. 417-418. 51 G. Allievo, Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, cit., vol. II, pp. 521- 523.  52 G. Allievo, Antonio Rosmini, Pavia, Tipografia Fratelli Fusi, 1912. 32  Nel suo intervento Allievo riconobbe in prima istanza le virtù filosofiche di Rosmini53, attestando l’importanza di lavori come il Saggio sull’unità dell’educazione e Del supremo principio della metodica per lo studio della filosofia e della pedagogia. Tra i principali meriti, individuò l’aver difeso l’idea che l’educazione è vera, efficace e perfetta solo quando è «schiettamente cristiana». Un concetto che, secondo Allievo, intuirono in tanti ma «niuno meglio del Rosmini seppe farla risplendere di quella lucentezza ideale, che scaturisce dalla ragione speculativa»54. Nella stessa sede, tuttavia, Allievo volle sottolineare le differenze tra il suo sistema e quello di Rosmini55. Questa precisazione in un consesso con chiari intenti apologetici a pochi anni dal Post obitum, conferma con limpidità la volontà di Allievo di smarcarsi dalla discendenza rosminiana. Il secondo saggio citato, Antonio Rosmini, è molto più consistente e permette di approfondire le idee di Allievo circa il roveretano. Introducendo il lavoro, fa notare la grande risonanza che ebbe il pensiero di Rosmini, e cita tra i suoi discepoli Tommaseo, Cantù, Sciolla, Berti, Cavour, Bonghi, Pestalozza, Corte, Rayneri. Conduce poi un’analisi particolareggiata dell’opera filosofica e pedagogica del Rosmini, muovendo una serie di critiche e «correzioni» al pensiero del roveretano. Riguardo l’articolazione delle scienze nel sistema del roveretano, parla di un’ambiguità del Rosmini circa il legame tra la psicologia e l’antropologia56. In seguito contesta la seguente definizione di uomo tratta dall’Antropologia di Rosmini: «l’uomo è un soggetto animale, dotato dell’intuizione dell’essere ideale indeterminato e operante secondo l’animalità e l’intelligenza». Allievo trova in questo enunciato un eccessivo risalto per la parte «naturale» dell’uomo. Nel definire la persona, Allievo preferisce mettere l’accento sulla natura spirituale dell’uomo, poiché in esso l’animalità «è subordinata alla spiritualità, che la informa e la governa»57. Tale critica è poi smussata tenendo conto del modo in cui Rosmini affronta e suddivide la scienza antropologica. Riprende inoltre la critica al concetto dell’intuizione primaria dell’uomo dell’essere ideale indeterminato: «Questo - dice Allievo - è un pronunciato fondamentale del sistema di Rosmini, ma è impugnato da molti, e non è una verità dimostrata con tanto rigore, che debba essere accettata da tutti»58. Sempre in campo gnoseologico corregge l’espressione rosminiana di «sentimento corporeo» che secondo 53 «È virtù propria del genio speculativo risalire ai supremi principi dell’essere e del sapere, e nella loro unità comprensiva raccogliere tutto un intero ordine di idee organate da questo sistema» G. Allievo, Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, cit., vol. II, p. 521. 54 Ibid., vol. II, p. 521. 55 «Ed io, sebbene da lui discorde in alcuni punti delle sue dottrine filosofiche, mando questo mio lavoruccio in attestato della mia scienza sincera e profonda ammirazione verso tant’Uomo» Ibid, vol. II, p. 523. 56 G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p. 8. 57 Ibid., 9-10. 58 Ibid., p. 10.  33  Allievo dovrebbe essere «senso corporeo», e poi aggiunge: «Come pure io non so capire come mai il senso intellettivo, la cui esistenza è innegabile, possa essere compreso come parte nel tutto, nella sensitività animale, come fece l’autore»59. Anche in campo pedagogico, fa degli appunti alquanto critici. Trattando dell’unità dell’educazione sostenuta dal Rosmini, lamenta l’assenza di un adeguato approfondimento del concetto di varietà60. Un'altra definizione contestata riguarda il rapporto tra le affezioni casuali e l’ordine interiore. Allievo riporta senza rinvii al testo originale: «si conduca l’uomo ad assimilare il suo spirito all’ordine delle cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo». E poi ne prende le distanze, «correggendo» le posizioni del Rosmini»61. Sullo stesso argomento, commentando poco dopo la parte del Saggio sull’unità dell’educazione relativa all’«Unità degli oggetti» sostiene che è «alquanto sconnessa». Allievo fa notare come il Rosmini abbia dedicato molto spazio all’analisi dell’apprendimento e dell’educazione durante l’infanzia, soffermandosi sullo sviluppo delle facoltà del bambino. Il pensatore vercellese, tuttavia, fa notare come un corretto sistema pedagogico debba tener conto dell’intervento educativo, e del fatto che spesso si insegnino cose che il bambino non sa ancora, e che quindi lo studio delle naturali facoltà del bambino non sia sufficiente ma debba essere integrato dai metodi educativi esterni62. Anche se riconosce al Rosmini il contributo sulla libertà d’insegnamento, a dispetto per esempio di un Gioberti giudicato eccessivamente statalista, l’Allievo contesta al Rosmini l’affermazione secondo cui la scuola dovrebbe «guardarsi dallo spirito individuale siccome 59 Ibid., p. 12. 60 «L’autore ripone nell’unità la legge suprema dell’educazione; nel che io non convengo pienamente con lui. L’unità vera, effettiva, feconda non può andare disgiunta dalla varietà, né questa può andare scissa da quella. Unità senza varietà è arida, sterile, priva di moto e di vita; varietà senza unità è sparpagliata, dissipata, che si sciupa nel vuoto. L’uno nel vario, il vario nell’uno, ossia l’armonia è la legge suprema della vita in ogni ordine di cose. Epperò all’umana educazione l’unità e la varietà tornano essenziali amendue ad un modo. Certamente l’autore non esclude, né perde di vista la varietà, giacché riconosce la molteplicità delle dottrine, che si insegnano, e delle potenze, che vanno educate; ma occorreva che avesse in modo esplicito riconosciuta e formulata la varietà accanto all’unità, siccome egualmente necessaria» G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p. 17. 61 «Però in riguardo alla dottrina del Rosmini, a me par giusto l’osservare, che se per una parte sonvi nel nostro spirito affezioni casuali, le quali vanno acconciate e conformate all’ordine oggettivo delle cose fuori di noi, per l’altro anche nell’ordine esteriore vi hanno accidentalità e turbamenti casuali e fortuiti, a cui lo spirito nostro non che adattarsi, deve seguire una reazione, conservando intatta la sua indipendenza. Anche nel nostro spirito esiste un ordine oggettivo posto dalla nostra natura, sicché la formula del Rosmini sembra bisognevole di essere corretta e parmi più conforme a verità l’affermazione che il supremo principio pedagogico dimora nel mantenere in perfetta armonia l’ordine oggettivo dello spirito dell’alunno coll’ordine oggettivo delle cose fuori di lui. S’intende da sé, che quest’armonia importa il riconoscimento di un principio superiore divino, ed inoltre supremo, in cui l’ordine oggettivo esteriore e l’ordine oggettivo interiore hanno il loro centro di unità e la loro cagione efficiente» Ibid., p. 19. 62 «Il Rosmini, intento, alla legge suprema direttiva dell’umano pensiero descrive per filo e per segno i momenti successivi, per cui progredisce e per cui va condotta la mente infantile, il Pestalozzi in iscuola tracciava sulla lavagna a’ suoi fanciulli una proposizione, che di presente essi non comprendevano, ma avrebbero compreso col tempo» Ibid., p. 29.  34  da suo capitale difetto», e osserva: «Questa opinione dell’autore parmi bisognevole di essere ritoccata. Sta bene che l’educazione pubblica non debba tener conto delle singole famiglie e de’ singoli individui, ma se non vuole incorrere nel dispotismo e trasmodare, occorre che essa rispetti mai sempre lo spirito informatore della famiglia e la personalità individuale di ciascun uomo, essendochè lo stato è fatto per le famiglie e per le persone singolari, non questo per quello»63. Oltre alle critiche, emergono anche una serie di considerazioni positive. Allievo considera di vitale importanza il contributo di Rosmini nell’aver mostrato la conciliabilità tra lo spiritualismo e la realtà naturale dell’uomo64, di aver riportato la pedagogia ad un metodo realista65, il richiamo all’armonia come principio educativo, valorizza il tentativo di salvare l’unità della persona, l’idea di sviluppo armonico delle facoltà umane ed elogia il merito di aver unito didattica ed l’educazione. Vivo apprezzamento egli esprime circa il legame tra pensiero e nazionalità. Allievo scrive che «è meritevole di nota il rapporto, che il Rosmini istituisce fra il metodo filosofico e la diversa tempra degli ingegni proprii delle singole nazioni». Lontano da tentazioni sciovinistiche e da forme di autarchia culturale, il vercellese sostenne l’importanza di conservare le tradizioni della filosofia italiana. In questo senso cita la lezione III Del metodo filosofico in cui Rosmini scrive «Il vero metodo è indigeno all’Italia: il carattere dell’ingegno italiano consiste nella chiarezza» e ne sottolinea l’importanza66. Altri autori spiritualisti influenzarono Allievo. Tra questi esercitò un considerevole ascendente il Bertini67, almeno «quello» precedente alla conversione razionalista. Lo studio della sua opera, l’Idea d’una filosofia della vita, rappresentò un momento importante nello sviluppo del pensiero di Allievo. Il pensiero di Bertini lo convinse ad affermare il Primo teologico, vale a dire Dio inteso come potenza, sapienza, amore infinito, il Primo cosmologico e cioè che il creato è l’essere che partecipa della potenza, amore di Dio, e 63 Ibid., p. 21. 64 «Come la sua filosofia è essenzialmente spiritualistica, così il carattere, che informa la sua dottrina pedagogica, è lo spiritualismo, non però lo spiritualismo gretto ed esclusivo, che sacrifica la materia allo spirito, bensì lo spiritualismo largo e comprensivo, che riconosce come parte anch’essa essenziale dell’umano composto l’organismo corporeo, ma lo vuole subordinato all’impero dell’anima razionale» Ibid., p. 41. 65 Trattando del contributo pedagogico e scolastico dell’impostazione rosmininana osserva: «Un secondo punto di capitalissima importanza per la scuola normale è questo: “prima regola del metodo filosofico (scrive l’autore) è che l’osservazione precede il ragionamento”. Questa norma riguarda propriamente il procedimento, che deve tenere il pensiero nella costruzione della scienza» Ibid., p. 32. 66 Ibid., p. 33. 67 Sull’influenza del Bertini sull’Allievo, Virginia Quarello che pubblicò nel 1936 uno dei lavori più completi e attenti sulla filosofia dell’Allievo scrisse: «L’influenza del Bertini sull’Allievo, specie nel campo religioso, è stata fortissima tanto che il pensiero dell’uno non solo si connette, ma perfettamente aderisce a quello dell’altro» V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 62.  35  quindi il Primo enciclopedico per cui «l’infinito s’intria nel finito»68. Secondo Vidari oltre che il Rosmini, proprio al Bertini, Allievo dovrebbe la fondazione del suo sistema filosofico69. Stretti rapporti ebbe anche con Augusto Conti. Nei Saggi filosofici (1866) riportò tre scritti sull’opera del samminiatese: uno riguardante la Storia della filosofia, una recensione di un libro scritto sul toscano da Pietro Dotti, e un lavoro sui legami tra il pensiero di Naville e quello di Conti, con particolare attenzione alle considerazioni espresse dal filosofo ginevrino nel testo La vie éternelle. Allievo condivide una serie di concetti del Conti, come la critica al principio moderno secondo cui la filosofia nasca dal dubbio e non dalla sorpresa dell’essere70, l’analisi dei criteri della filosofia e il legame con il senso comune, il concetto di errore e di distinzione. Nel commento alla Storia della filosofia si possono riconoscere diverse analogie tra le concezioni dei due pensatori. Del testo citato, Allievo sottolinea diversi elementi positivi: l’idea che la storia della filosofia debba essere un confronto tra le teorie filosofiche e la filosofia perenne, l’importanza attribuita alla biografia e al contesto culturale per cogliere la filosofia, e il criterio «cronologico» con cui il Conti conduce la narrazione della storia della filosofia guidati da cause di relazione e connessione. L’unico appunto mosso dall’Allievo al Conti riguarda la questione degli universali71. Allievo fu anche un buon conoscitore del panorama culturale europeo e dei maggiori pedagogisti e filosofi stranieri. Si tratta di un elemento non così comune tra gli autori della seconda metà dell’Ottocento. Nonostante diffidasse di una certa esterofilia, che contestava 68 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, «La Cultura filosofica», n. 5, Sett-Ott. 1910, p. 447. 69 «Movendo dalla formula giobertiana «l’ente crea l’esistente», che non lo soddisfaceva del tutto, e passando attraverso all’Idea di una filosofia della vita del Bertini, che all’ALLIEVO era parsa un’opera provvidenziale per la filosofia italiana dopo i traviamenti a cui l’aveva esposta il Gioberti, Egli si arresta al concetto cristiano – cattolico della creazione, per cui da una parte è Dio infinito creatore libero, dall’altra gli enti finiti e reali che trovano in quella la loro causa prima» G. Vidari, Giuseppe Allievo, Torino, Stamperia Reale Paravia, 1914, p. 6. 70 «Ripudiando il criticismo come propedeutica della filosofia, egli vuole che il conoscere sia fin dalle prime tenuto per vero, e come tale riconosciuto ed esaminato dappoi, e non già posto in problema. La natura umana, perché ragionevole, è nella verità, opperò il conoscere naturale è di per sè evidènte, non già problematico nè bisognevol di prova. In questa evidenza del vero o del conoscere ci ripone il supremo ed intrinseco criterio della filosofia, dal quale fluiscono poi e nel quale si appuntano come criterii secondarii ed estrinseci l'affetto della verità, il senso comune, la tradizione scientifica e la rivelazione» G. Allievo, Saggi filosofici, Milano, Gareffi, 1866, p. 384. 71 Osserva il pedagogista: «Quanto è poi al concetto filosofico del nostro Autore, sebbene mi paja più comprensivo assai e più conforme a verità che non altri parecchi, durerei tuttavia non poca fatica ad accoglierlo come definitivo e perfetto. E veramente (per tacere qui di altri argomenti in contrario ) io non so fare buon viso a quella ontologia scolastiso-wolfiana non ancora abbandonata a' di nostri, che egli pone come parte integrale, anzi sublimissima della filosofia; giacché l'essere astrattissimo e onninamente indeterminato, in cui si vogliono concentrati i sommi universali di essa ontologia, ove si pigli da sè, disgiuntamente da Dio e dalle realtà finite, convertasi in un aereo ed inconsistente fantasma, che mal reggendosi di per sè è quindi impotente ad ammanire un saldo fondamento alla protologia, cardine di tutto il sapere» Ibid., pp. 359-360.  36  soprattutto ai positivisti e agli hegeliani, accolse nel suo sistema diversi elementi di autori stranieri: «Dello spiritualismo tedesco accetta e il sintetismo trascendentale del Krug (l’io riflette sui “fatti della conoscenza” anzi nella coscienza, per l’originaria armonia di pensiero e realtà, ideale e reale si sintetizzano) e in concetto del Krause della personalità ed essenza divina (“l’essere Dio è il principio personale del mondo”) e il suo Panenteismo, conciliante in sintesi sia la ragione con l’esperienza, sia il processo analitico (dall’io e dal finito a Dio) con il processo sintetico (da Dio all’io ed al finito.)»72. Nel Krug apprezzò la capacità di conciliare il realismo con l’idealismo73. Dello studioso riprese nei Saggi filosofici (1866)74 il principio della sintesi a priori, nel tentativo di spiegare l’origine dell’unità tra oggetto e soggetto. Si tratta di un concetto facilmente accostabile all’idea primaria di Rosmini. Allievo raccolse così soprattutto le tesi di quanti cercarono di superare le antinomie dell’idealismo75. Un altro autore molto importante nella biografia intellettuale di Allievo fu Lotze76, il successore di Herbart all’Università di Gottinga. Del filosofo sassone cita i Principes généraux de psychologie physiologique77 che definisce un «lavoro magistrale»78. Allievo lo cita nell’elaborazione della sua psicofisiologia, nel tentativo di sostenere con il suo «duodinamismo coordinato» un approccio che coniugasse gli studi sperimentali con la struttura spirituale della persona. Importante anche il legame con Maine de Biran di cui accoglie le idee circa il legame tra la persona umana e la persona divina, Allievo oltre che il principio de «l’autocoscienza della personalità vivente»79. Spesso citato fu anche Heinrich Pestalozzi. Il pedagogista vercellese fu quasi «devoto» all’esempio e alla pedagogia dell’educatore svizzero. Non senza ragioni Calò lo definì un «pestalozziano». L’unica critica che gli mosse riguardò l’utilizzo del termine «organismo», al quale Allievo preferisce quello di persona. 72 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 28. 73 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, Milano, Agnelli, 1868, p. 42. 74 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 30. 75 «E dirò che, con il Krause e con il Jacobi, proprio lo Stahl fu sempre presente all’Allievo, nella sua opposizione decisa all’idealismo post-Kantiano» V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 83. 76 A riguardo, la Quarello ha osservato: «Più forte, certamente, fu l’influsso di Lotze specie nel campo psicologico, benché, a mio credere, si possa pure far risalire al Lotze il concetto di Dio come suprema realtà personale, che crea il mondo degli spiriti personali» Ibid., p. 82. 77 H. Lotze Principes généraux de psychologie physiologique, nouvelle edition, traduite de l'allemand par A. Penjon, Paris, Bailliere, 1881. Si  tratta di una traduzione del primo capitolo del testo H. Lotze, Medizinische Psychologie oder Physiologie der Seele, Leipzig, Weidmann’sche bucchandlung, 1852. 78 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit. 79 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 29.  37  Altri autori hanno sottolineato il ruolo del vercellese nella ricezione dell’herbartismo in Italia80. Sempre Calò lo giudicò «più herbartiano di quello ch’egli stesso non creda»81, un giudizio che fu in seguito emendato82. L’opera dell’Allievo è anche segnata dall’opera del Naville, a cui lo accomuna la convinzione che alla base della pedagogia ci debba essere l’antropologia e non l’etica come per Herbart o la psicologia scientifica come per molti positivisti. Nella voce sull’Allievo, presente nell’Enciclopedia Filosofica di Sansoni83 e riportata in quella Bompiani84, Pozzo accosta Allievo perfino a Plotino, riprendendo la valutazione del Gentile, sostenendo che il vercellese aveva una concezione teistica di «tipo plotiniano (l’ente uno infinito pone fuori di sé il molteplice e a sé lo richiama) da cui deriva il concetto di armonia dell’universo, come “coesistenza” (o “sintetismo”) di esseri che cooperano sotto l’imperio dell’inesauribile atto di Dio». In sintesi, ci sembra di poter ragionevolmente sostenere che nonostante i diversi apporti e «contaminazioni» con diversi autori, il professore piemontese abbia preferito smarcarsi da discendenze unidirezionali. Più che di Rosmini, di Pestalozzi, di Rayneri, egli si sentiva un rappresentante dello «spiritualismo italiano». Egli considerava questa corrente come la più genuina tradizione nazionale85, oltre che in linea con la più autentica pedagogia e 80 In merito alla crisi del positivismo iniziata già negli anni ’80 dell’Ottocento, Malatesta e la Bertoni Jovine commentarono: «Il Labriola prima, il Fornelli e l’Allievo poi e in ultimo il Credaro, avevano prodotto una svolta molto sensibile negli studi introducendo nella pedagogia i princìpi più validi dell’herbartismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, cit., p. 43. 81 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, Prato, Tipografua Carlo Collini, 1910, pp. 34-35. 82 G. Calò, Dottrine e Opere, Lanciano, Carabba, 1932, p. 262. 83 Enciclopedia Filosofica, Firenze, Sansoni, 1967, vol. I, pp. 192-193. 84 Enciclopedia Filosofica, Milano, Bompiani, 2006, vol. I, p. 297. 85 Nel testo già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867) ripercorre la storia della pedagogia italiana e chiosa: «Le opere pedagogiche chiamate fin qui a rassegna rivelano un carattere comune, che tutte le segna di una medesima impronta: lo spiritualismo. È questo il carattere dominante e tradizionale di tutta la pedagogia italiana da Vittorino da Feltre al Rayneri. Essa riconosce nel perfezionamento dell’uomo la preccelenza del principio spirituale sull’organismo corporeo, l’immortalità personale dello spirito umano e la dipendenza di esso da Dio risguardato come spirito conscio di sé, distinto sostanzialmente dal mondo, causa creatrice e finale di quanto sussiste. Essa considera la nostra temporanea esistenza siccome tirocinio e preludio di una esistenza oltremondana, e conseguentemente vuol preparare il fanciullo alla sua duplice destinazione, vuol educare in lui l’uomo temporaneo che passa quaggiù soffrendo, e lo spirito immortale fatto per una seconda vita. Essa ripudia siccome offensiva della dignità della persona umana la dottrina che vuole il fanciullo esclusivamente allevato per la patria e pel reggimento politico dominante, facendolo così, di essere avente ragione di fine, un semplice mezzo agli arbitrii del Governo e della società. L’ideale dell’uomo perfetto che la natura ha preformato nell’infante, essa lo addita vivente in Cristo, assegnando per iscopo all’opera educativa la virtù cristiana, non la virtù naturale, né la civile, né lo sterile misticismo. Per lei non si da istruzione vera ed efficace senza l’educazione dell’animo; non vera educazione morale senza religiosità; non religiosità vera senza Cristianesimo cattolico, sicché l’educazione ha da abbracciare tutto l’uomo e con tale universalità ed armonia, che i sensi vengano subordinati alla ragione, il corpo allo spirito, la libertà a Dio, la vita temporanea alla oltremondana. Mercé questo carattere dello spiritualismo la pedagogia italiana contemporanea mantiensi fedele alle sue tradizioni secolari e si ricongiunge colla scuola spiritualistica platonica di Firenze, perché discepolo ed amico di Giovanni di Ravenna, il grande scuolaro del Petrarca» G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 158.  38  filosofia greca86. Allievo era convinto che fosse una tradizione che andasse difesa87, soprattutto dall’idealismo e dal positivismo, considerate teorie di «importazione» aliene allo spirito filosofico italiano. I. 2. Gnoseologia e metafisica I testi in cui Allievo affronta i problemi più specificatamente metafisici e gnoseologici sono i Saggi filosofici (1866), Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola Jonica a Giordano Bruno (1877) e Studi antropologici: l’uomo e il cosmo (1891). Non si può affermare che su tali questioni il contributo di Allievo abbia avuto una reale originalità. Lo studioso si è limitato piuttosto alla ricerca di alcune basi teoretiche che gli permettessero di fondare la sua pedagogia su una prospettiva «realistica», com’è stata definita la sua filosofia88. La carenza di approfondimenti è stata oggetto delle critiche di alcuni studiosi dell’Allievo come la Quarello89 e Mazzantini90. Sebbene il contributo di Allievo non abbia apportato novità rilevanti nel discorso gnoseologico e metafisico del tempo, espose comunque il suo pensiero in modo organico e coerente. Egli considera la Metafisica come il momento fondamentale della ricerca filosofica, caratterizzata dall’universalità e dalla trascendenza. La definisce come «scienza del Primitivo»91 o «Scienza de’ supremi principii del sapere e dell’essere»92. Contro gli orientamenti antimetafisici di marca positivista e scettica, considerava l’abrogazione del problema del senso e del «tutto» come un tradimento della filosofia. Essa trovava la sua ragion d’essere in quel mandato della persona umana, che strutturalmente e spontaneamente interroga l’Universo e ne pretende un significato. In questo senso la metafisica collocava la sua origine nel desiderio dell’uomo di «rendersi ragione di questo 86 G. Allievo, Studi pedagogici, Torino, Tipografia Subalpina, 1889, p. 33. 87 Accusato di nazionalismo, Allievo si difese: «Noi siam lontanissimi dall'assumere il nazionalismo per sommo ed infallibil criterio del Vero; che anzi arditamente sosteniamo, che nel principio di nazionalità qual è universalmente ammesso v'è del troppo e del vano assai da tor via, e gli bisogna essere ricondotto entro a più ragionevoli e modesti confini. Noi invece propugniamo l'italiana filosofia non per ciò solo che è italiana, ma primamente e precipuamente perché fondata sulla verità del Teismo cristiano, siccome ripudiamo l'Idealismo di Hegel ed il Positivismo di A. Comte perché disformi entrambi dal Vero, e non già perché l'uno di tedesca, l'altro di francese origine» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 14. 88 V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, «Educare», maggio - giugno 1952, p. 151. 89 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 21. 90 C. Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec. XIX, «Archivio di Filosofia, organo del R. Istituto di Studi Filosofici», Roma, 1942, n. 1-2, pp. 35-36. 91 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 284. 92 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 5.  39  gran tutto, che dicesi universo»93, un’esigenza che non può essere soppressa, pena la negazione dell’identità umana. Sulla scorta del rosminianesimo e di molta filosofia cristiana, Allievo rileva come la crisi della metafisica fu prima inaugurata dal soggettivismo di Cartesio e poi consacrata dal criticismo di Kant. La gnoseologia moderna era soggiogata, a suo giudizio, da un equivoco legato alla volontà di condurre in dubbio il valore veritativo e orientativo dei criteri dell’evidenza e del senso comune insiti nell’uomo. Si tratterebbe di un cortocircuito conoscitivo dai corollari disparati. Se, infatti, da un lato si svaluta la ragione riducendone il dominio (kantismo), dall’altra si arriva a «divinizzare» l’Io (idealismo), attribuendo alla razionalità umane quasi gli stessi attribuiti che i teologi avevano sino ad allora riservato al Creatore. Per superare l’impasse, Allievo sollecitò in coro con il resto degli spiritualisti una correzione radicale della prospettiva. La filosofia non poteva uscire dalla palude dello scetticismo, se non «attestando» e «accettando» dei criteri conoscitivi immanenti all’uomo. Questa soluzione era considerata l’unica possibilità per uscire dall’equivoco gnoseologico moderno. Le sue posizioni gli costarono la critica del Gentile, che nel saggio sulle origini della filosofia contemporanea, inserisce l’Allievo tra i «mistici», cioè tra quei filosofi che continuavano a «credere» nell’esistenza di una realtà «esterna» all’Io pensante. Non potendo «dimostrare» l’esistenza del mondo e spiegare il suo rapporto con lo spirito, secondo Gentile, i realisti accettano in modo fideistico il senso comune. Per questa ragione, ossrvò che quella di Allievo è «una filosofia fondata sul mistero dell’evidenza»94, una critica poi ripresa e approfondita dalla Quarello95. Il sintetismo, cioè un’interpretazione della relazione intima tra l’essere e il pensiero in un’ottica realista, era considerato da Gentile come una soluzione non fondata per motivare la relazione tra la mente e il «supporto» mondo esteriore96. Questa visione armonica dell’essere, è anzi letta da Gentile, nella sua tipica riduzione della storia della filosofia a preambolo di un compiuto Io spirituale, come delle tesi idealiste «mancate». 93 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., pp. 2-3. 94 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, cit., p. 366. 95 V. Quarello, G. Allievo, sudio critico, cit., p. 20. 96 «Il sintetismo dell’Allievo, dunque, non vale più dell’ordine del Conti. Anche per l’Allievo basta il sintetismo ad aprire tutte le porte e svelare tutti gli enimmi. Così il gran problema gnoseologico del rapporto del pensiero con l’essere, per l’Allievo è prima risoluto che formulato. Criticismo o scetticismo? Separazione dell’essere dal pensiero, o identità dell’uno con l’altro? Ma il sintetismo c’insegna che tutto è unito e distinto in natura, e ciascuna forza opera consociata con tutte le altre! Anche il soggetto e l’oggetto vorranno essere insieme connessi, ma non confusi: conciliati in un armonia, che non sia per altro la negazione delle loro differenze» G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, cit., p. 366.  40  Il filosofo siciliano riconobbe in ogni caso nell’Allievo «una certa inquietudine circa la saldezza del suo principio filosofico»97, originata dal confronto con la logica hegeliana, che gli avrebbe «turbato i sonni» nel corso della sua opera. Di fronte alla tesi idealista, Allievo reputava l’accettazione dell’essere come l’atto più consono alla natura razionale dell’uomo98. Si tratta di un’attestazione «misteriosa», ma non per questo irrazionale99. Il primo dato della coscienza è la percezione di un mondo fuori di noi, tale dato si può o accettare o rifiutare, non si può dimostrare. Secondo l’Allievo la filosofia trova il suo fondamento nella constatazione dell’esistenza dell’essere. Il pedagogista sollecita perciò a tornare ad un sano realismo, a ripartire dal mondo delle cose, dal dato semplice della sua esistenza, dal mistero del sé, per giungere solo dopo all’Eterno. Ciò ha conseguenze gnoseologiche importanti, tra le quali il fatto che stando all’Allievo il ruolo iniziale nel ragionamento risiede nell’intuito che si muove verso la comprensione. Nel saggio Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, egli traccia una serie di stadi, o passaggi, con cui si sviluppa un pensiero filosofico compiuto. Un primo livello della riflessione riguarda la constatazione dell’esistenza di un senso comune e di criteri con i quali di norma si valuta e si giudica, in un secondo momento vi è un pensiero critico che si interroga sulla veridicità di quanto pensato, nell’ultimo passaggio il pensiero speculativo indaga e verifica con criteri validi e veritativi. Per l’Allievo, la riflessione speculativa non è la negazione del senso comune, ma ad esso è strettamente legato, poiché i criteri veritativi emergono spontaneamente nella persona, e non sono la costruzione dell’impegno filosofico. Il compito della metafisica è dunque proprio quello di riconoscere la «realtà della vita, pur mentre la spiega e si solleva al di sopra di essa per dominarla dall’alto: essa rispetta le credenze universali del genere umano, conformasi alle esigenze della natura umana, tien conto de’ suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose aspirazioni, e non disconosce veruno degli elementi integrali dell’umanità»100. 97 Ibid, p. 368. 98 Osserva a proposito «Nel fatto della cognizione il soggetto e l’oggetto si compenetrano misteriosamente l’un l’altro senza però smettere ciascuno la sua la propria ed individua natura» G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 14. 99 In un brano molto significativo, quasi replicando a tale obbiezione, Allievo enuclea la sua concezione del mistero: «La ragione ha certamente il diritto di respingere l’assurdo, perché l’assurdo ripugna, ma non ha diritto di respingere il mistero, perché il mistero è una proposizione, di cui si conoscono i singoli termini, che la compongono e non si comprende bene il nesso, che collega il soggetto col predicato. Quindi possiamo affermare che in ogni mistero dogmatico vi è sempre alcunché di conosciuto accessibile alla ragione, come in fondo di ogni verità conosciuta dalla ragione umana vi è sempre alcunché di ignoto, di tenebroso, un’ombra del mistero» G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, Torino, Carlo Clausen, 1906, pp. 33-34. 100 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 38.  41  Allievo identifica nel «primo noto», evidente e concreto, la base della sua speculazione metafisica. Si tratta di quanto il vercellese chiama anche Io penso, da cui nasce la constatazione che l’essere esista e che possa essere riconosciuto nella sua realtà e verità. Sulla relazione tra il pensiero e il reale, si pone in continuità con il concetto di sintetismo esposto da Rosmini. Allievo ammetteva un Universale ontologico assoluto a cui erano subordinati i singoli universali ontologici, attraverso la legge del sintetismo e dell’armonia101. Il suo realismo gli impedisce di ammettere sia tesi che vorrebbero la causa del reale come qualcosa di non reale, sia quelle le forme di spiritualismo che identificano Dio con qualsiasi essere ideale. Secondo Allievo sebbene Dio sia l’origine dell’uomo e di tutte le cose non si identifica con esse. E anche qui applica una delle regole classiche della sua filosofia, il «Distinguere per unire», enunciato già nei primi libri, e posto alla base della sua gnoseologia102. In questo senso, avversa sia l’identificazione del pensiero con l’essere di origine idealista, sia il monismo materialista. La Quarello ha considerato insufficiente la spiegazione della relazione tra l’Io e il non Io nel pensiero del Vercellese: «Il punto debole del sistema dell’Allievo è proprio qui, in sede gnoseologica, nell’avere, cioè, posto a base della speculazione puramente filosofica l’evidenza dei dati della realtà, nell’avere voluto che il sapere filosofico non fosse che elaborazione del sapere naturale (oggettività della conoscenza) ammettendo poi, senza spiegarla, un’intima “conciliazione” fra ragione ed esperienza»103. E ribadisce «L’Allievo non ci spiega il come dell’atto conoscitivo anche se ampiamente ha tentato di svolgere la sua tesi di una corrispondenza tra pensiero e realtà, tra soggetto ed oggetto, tale da essere considerata una unione stabilita da natura, secondo la legge dell’ordine universale per la quale tutti gli esseri armonizzano in unità una molteplicità di parti e cooperano e sono uniti fra loro, pur rimanendo distinti, sì da formare una totalità armonica»104. I. 3. Il principio della personalità 101 Suraci spiega con le seguenti parole il «percorso» che va dal primo nota alla vera conoscenza: «L’Allievo nota che il pensiero, nel suo movimento dialettico, descrive un circolo non vizioso, ma solido per cui dall’uno gnoseologico, l’universale oggetto dell’intuito primitivo, si passa al molteplice della cognizione determinata, distinta, oggetto della riflessione: dal molteplice si passa poi alla visione comprensiva delle cose e quindi alla visione mentale dell’Uno ideale. Dialetticamente la mente umana, secondo l’Allevo, non fa che “discorrere dalla cognizione intuitiva o virtuale dell’Uno gnoseologico alla cognizione riflessa o attuale del suo molteplice ideale, e dalla cognizione attuale del molteplice ideale alla cognizione attuale dell’Uno gnoseologico”. Questa formula del movimento del pensiero somiglia molto da vicino a quella enunciata dal Rosmini nel n. 701 della sua Logica, al quale l’Allievo si attiene, citandolo spesso nel corso di questi “Saggi” e, potremo dire, in tutte le sue Opere» V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 158. 102 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 3. 103 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 21. 104 Ibid., p. 23.  42  Il 18 novembre 1903 Giuseppe Allievo lesse all’Università di Torino una prolusione dal titolo, Il ritorno al principio della personalità105. In quella occasione, ripercorse l’itinerario delle sue opere identificando in questo concetto il punto cardine di tutto il suo pensiero106. Questa considerazione fu poi ribadita qualche anno dopo nella prefazione degli Opuscoli pedagogici107. Oltre a riprendere il contenuto di questo principio e a mettere in luce la rilevanza nell’economia del suo pensiero, diversi autori hanno considerato l’elaborazione del principio della personalità come il più importante contributo di Allievo alla storia del pensiero pedagogico e filosofico108. Calò ne ha ricordato la valenza pedagogica, osservando come «nessuno con tanta consapevolezza e chiarezza aveva prima di lui messo in luce quel principio e mostratane la fecondità e illuminatane vivamente tutta quanta l’opera educativa»109. Con questo principio, Allievo affronta la più profonda questione antropologica, vale a dire la specificità dell’uomo rispetto al resto della natura. Di fronte alla domanda «chi è l’uomo?» Allievo parla della persona come «una mente informante un organismo corporeo»110. Egli individua due piani strettamente connessi: «nell’uomo la mente ed il corpo sono due sostanze diverse, eppur fatte l’una per l’altra il corpo è animato, l’anima è 105 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, Torino, Tipografia degli Artigianelli, 1904. 106 Citò la prima prolusione letta all’Università nel 1870, in cui già enucleò tale principio. Scrisse: «Questo nuovo concetto, che allora mi era balenato alla mente, fece la sua prima apparizione nella mia Prolusione universitaria del 1870, intitolata appunto Il principio della personalità, base della scienza e della vita. “Questo principio (io scriveva allora) è quel centro ideale, che vale a comporre le antinomie tra le dissidenti scuole filosofiche nel mondo del sapere, ed i dissidi tra gli elementi sociali nel mondo dell’operare, e questi due mondi della scienza e della vita insieme composti solleva ad una unità superiore, che è il punto di contatto e di armonia di entrambi. Enunciando in una breve e chiara formola questo concetto, poniamo che, senza il riconoscimento speculativo e pratico della personalità, non si dà né vera scienza, né vera vita per l’uomo.” Da quel punto questo principio diventò il pensiero dominante della mia mente, il tema perpetuo delle mie meditazioni, lo spirito animatore de’ miei lavori e delle mie lezioni, la mia credenza filosofica rimasta incrollabile e costante in tanto volgere di anni, in mezzo a tante rivolture e volteggiamenti d’ingegni e di dottrine, l’arma della mia critica contro tutte quelle teoriche e quei sistemi che inchiodarono la scienza e la vita sul nudo calvario dei fenomeni sensibili, senza uno spirito che li animi e li illumini» Ibid., p. 4. 107 «Tutti i miei lavori pedagogici, a qualunque punto della umana educazione si riferiscano, sono informati da una idea unica e suprema, il concetto della personalità umana: da esso si vanno logicamente esplicando, in esso si ritrovano il loro principio di armonia, in esso si compongono ad una comprensiva e potente unità» G. Allievo, Opuscoli pedagogici, Torino, Tipografia del Collegio degli Artigianelli, 1909, p. 5. 108 Cannella, che peraltro afferma come il pedagogista piemontese non sia stato «in Italia conosciuto ed apprezzato abbastanza» scrive sul principio di personalità: «Lasciando da parte le sue critiche storiche, acute, precise, e bene spesso pregevolissime, io credo, per esempio, che la sua idea fondamentale pedagogica dell’educazione della personalità meriti molta considerazione e racchiuda in sé il nucleo vero, intorno a cui si deve aggirare una dottrina pedagogica. E così si può dire di molte sue opinioni sui problemi pratici, dove tanta confusione regna oggi, e dove l’Allievo ha già disegnato soluzioni assai giuste» G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe Allievo, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», n. 2, 20 aprile 1910, p. 209. 109 G. Calò, Dottrine e Opere, cit., pp. 261-262. 110 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, Torino, Tipografia Subalpina, 1904, p. 3.  43  incorporata»111. L’uomo è definito «sintesi vivente di un’anima razionale e di un corpo organico, insieme composti ad unità di essere; o meglio ancora è una mente informante un organismo corporeo, prendendo qui il vocabolo mente come sinonimo di spirito, ossia di anima razionale»112. Questo primo antropologico scaturisce dalla sua profonda origine: «Lo spirito umano, ossia la mente sostanziale è persona per essenza, il corpo umano con essa congiunto in unità di essere è personale per derivazione e partecipazione, ossia è della nostra personalità complemento estrinseco, non già principio intrinseco»113. Si tratta di una prospettiva che ha implicazioni teologiche. Trattando di questo principio Mazzantini ha osservato: «non è, dico, d’importanza suprema solo in quanto rivela l’uomo a se stesso, ma in quanto altresì offre un principio supremo interpretativo della realtà universale, compresa la stessa realtà divina»114. Su questo versante, è stato osservato come il principio della personalità sia imprescindibile dal teismo di Allievo115. Per il vercellese, infatti, il concetto di persona trova la sua ragion d’essere e il suo compimento nella relazione con la Persona infinita116. In una radicale e metafisica indagine antropologica, Allievo individuava la questione nodale della scienza pedagogica: «Ora l’idea fra tutte la più comprensiva, la più feconda, la generatrice di tutto il sapere speculativo, è, se io ben veggo, l’idea della personalità. Il moto riformatore della scienza debbe esordire da lei»117. Il destino della pedagogia era legato al rispetto di questo principio, che invece considerava minacciato dalle teorie coeve. Nel saggio già citato Sulla personalità umana, elenca una serie di orientamenti che 111 Ibid., pp. 49-50. 112 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Piscologia, cit., p. 3. 113 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 78. 114 C. Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec. XIX, cit., p. 33. 115 Ha scritto in merito Suraci: «Il principio “personalistico” serve all'Allievo per affermare senz'altro in sede pedagogica, che, “la personalità finita dell'educatore e quella dell'educando si reggono sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione di essere la loro causa efficiente”. Ebbene, bisogna porsi da questo punto di vista ontologico ed essenzialmente religioso per intendere a pieno il valore e il vero significato della pedagogia dell'Allievo, nella quale convergono con ricchezza di argomenti e di ampia e, spesso, di esauriente trattazione scientifica, tutti i temi relativi all'essenza e allo svolgimento della natura umana e della educazione dell'uomo. La religiosità, la credenza di Dio e nella immortalità dell'anima, rimane, per il nostro autore, il punto di partenza e di arrivo dell'azione educativa, il cardine essenziale in cui si radica e gira la pedagogia; è luce inoffuscabile che deve rischiare l'idea e il fatto dell'educazione: “l'uomo si muove in Dio, principio della sua vita, fine supremo della sua esistenza”» V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 9. 116 «La coscienza personale è il primo, fondamentale pronunciato da cui esordisce la scienza. La persona umana sovrasta per eccellenza e nobiltà di natura su tutto il corporeo universo; ma finito qual è sottostà alla personalità infinita divina. Non bisogna mai perdere di vista questa dualità di essere personali, che si richiamano e si corrispondono; poiché, tolta la prima, l’uomo rimane oltraggiato nella sua dignità personale e diventa una cosa; tolta la seconda, si apre il varco al più ignobile egoismo, alla libertà più sfrenata, alla più selvaggia indipendenza . L’uomo riconosce l’esistenza di un essere personale infinito, dacchè egli stesso è una persona finita, e con esso si congiunge con un vincolo d’intelligenza e di amore. Questo vincolo costituisce la religione, la quale forma l’oggetto della disciplina religiosa» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 11.  117 G. Allievo, Sulla personalità umana, Torino, Fina, 1884, p. 4. 44  reputava nocivi a tale principio118. Divide queste teorie in due gruppi. Nel primo inserisce i sistemi che disconoscono la persona nella vita speculativa: il panteismo, il calvinismo, il fatalismo, il materialismo e l’ipermisticismo. Si tratta di teorie accomunate dalla svalutazione dell’apporto dell’individualità nella storia e nella vita. Nel secondo raggruppa gli orientamenti che menomano il ruolo della persona nella vita pratica: il socialismo, la statolatria, il dispotismo del costume. Si tratta di teorie che riducono la persona ad un «mezzo» per il raggiungimento del progresso della società. Nell’ultimo sistema citato, il dispotismo del costume, Allievo si schiera contro certa sociologia «per cui ciascuno vien tratto a conformare il proprio vivere e pensare, al vivere ed al pensare altrui come a norma suprema»119. Oltre alle teorie citate, il pedagogista vercellese denunciava il rischio di ingigantire il ruolo di un aspetto della persona a discapito della sua totalità. Il professore vercellese riconosce questa tendenza in due grandi sistemi che allora si contendevano il campo della filosofia: il positivismo e l’idealismo. Secondo Allievo la mente non è quella degli idealisti, staccata dal corpo e superiore ad esso, ma non è neanche quello dei positivisti e di certi psicologi sperimentali che riducevano il pensiero ad un’espressione materiale. Anche se non si confonde con essa, la vita della mente e dello spirito è intimante connessa con quella carnale120. La loro relazione non deve condurre all’assimilazione di una delle due nature che compongono l’uomo121. Entrambi i livelli sono distinti in una stretta «collaborazione»: «l’essere umano possedendo un corpo organato alla vita materiale non può essere spiegato tutto quanto senza la materia, ma neanco può essere spiegato colla sola materia, dacchè il suo organismo è informato di una sostanza spirituale»122. Sebbene il rapporto tra materia e spirito nell’uomo rimanga un «mistero»123, non è ammissibile assimilare su questo presupposto la persona al resto della natura determinata. Nella vita dell’uomo, infatti, emergono proprietà irriducibili alle dinamiche delle entità 118 Ibid., pp. 54-57. 119 Ibid., p. 57. 120 «L’uomo è siffattamente costituito, che non vi ha parte del suo essere, la quale non viva congiunta coll’universo corporeo esteriore. Sentire, pensare, volere, sono i tre supremi attributi costitutivi dell’umano soggetto; e tutti e tre si svolgono in intima ed operosa corrispondenza colla natura, fuor della quale rimarrebbero atrofizzati» G. Allievo, L’uomo e la natura, Torino, Carlo Clausen, 1906, p. 4. 121 La natura e lo spirito sono uniti «ma sarebbe gravissimo errore il credere, che siffatta unione si converta in una identità, negando così ogni sostanziale distinzione fra l’uno e l’altra, e confondendoli in una comune essenza. La distinzione esiste e non distrugge l’unione. Poiché nel mondo esteriore le sostanze sono corporee, e quindi i fenomeni e le forze sono fisici; nel mondo interiore la sostanza è l’anima, i fenomeni sono psichici, le forze sono facoltà o potenze. Ma il punto più spiccato, che distingue questi due mondi, malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze; e questa coscienza di sé, questo dominio di sé manca alla natura» Ibid., p. 6. 122 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 4.  123 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 11. 45  fisiche. Come osserva Allievo: «il punto più spiccato che distingue questi due mondi malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’ suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze»124. Negando la natura spirituale dell’uomo, la realtà effettiva della persona sfugge alla comprensione: «È un dogma del senso comune ed un pronunciato della sapienza filosofica tradizionale, che l’uomo non è tutto quanto materia organata, come non è neppure uno spirito puro, bensì una sintesi stupenda, un’armonia vivente di questi due distinti principii insieme composti ad unità di persona: ponete che tutto il suo essere si risolva in un composto di molecole organate a vita materiale, e voi non capirete più nulla dei solenni problemi, che agitano la coscienza dell’umanità, più nulla delle sublimi aspirazioni, che fervono indomabili nei penetrati dello spirito umano»125. Per il vercellese, è lo spirito che dà dignità all’uomo, sollevandolo dal resto della natura. La persona esprime il grado sommo dell’essere e lega l’individuo all’eterno. La coscienza dell’esistere colloca la persona in una dimensione irraggiungibile per qualsiasi altro essere della natura. L’esigenza di sottolineare il primato spirituale lo portò il docente piemontese a criticare in una serie di lavori la definizione aristotelica dell’uomo come animale politico126, che reputava ambigua. Data la confusione antropologica coeva, Allievo non reputava conveniente indicare primariamente nell’uomo la natura animale. Si rischiava di avallare le tesi dei materialisti positivisti e di un certo evoluzionismo127, che volevano ridotto l’uomo ad un «bruto», per usare le parole di Allievo128. Il pedagogista avvertiva il rischio di ridurre lo studio della persona, al solo aspetto materiale: «Per conseguente l’antropologia, anziché scienza distinta e superiore, apparirà niente più che una parte della zoologia, parte la più sublime, se vuolsi, ma pur sempre una parte»129. 124 Ibid., p. 15. 125 Ibid., p. 9. 126 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 80. 127 Osserva: «La tristissima definizione, l’uomo è animal ragionevole, non solo capovolge l’ordine naturale, che regna tra questi due elementi, ma soppianta ben anco la stessa personalità umana, la quale ha la sua propria sede e radice nella mente imperante sull’organismo corporeo e fornita di una perenne sussistenza, mentre essa pone l’animalità siccome soggetto, di cui la ragionevolezza apparisce un mero e semplice predicato, tantochè venendo meno la prima, cessa issofatto la seconda, né questa può spiegare altra virtù, che non sia compresa nella cerchia di quella»127. In seguito ribadisce che accoppiare «all’animalità la ragionevolezza come ad un soggetto un attributo suo è un disconoscere il primato dello spirito sulla materia e della mente sull’organismo corporeo nell’uomo, ed un aggiudicarlo alla materia sullo spirito, al corporeo organismo sul principio pensante» G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, Genova, Tipografia del R. Istituto dei sordo – muti, 1874, p. 7. 128 «Mentre il bruto opera per impulso irresistibile di cieco istinto, l’uomo opera consapevole di sé e del fine a cui mira, ed è arbitro delle sue azioni. Questa potenza, per cui l’umano soggetto si determina da sé ad operare per un fine conosciuto, è la volontà» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 46.  129 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 6. 46  Per riscoprire l’autentica alterità umana, era invece compito dell’antropologia evidenziare nello sviluppo della persona quegli aspetti irriducibili al divenire determinato. Allievo richiama all’osservazione dell’uomo, delle sue facoltà, e della sua azione. Egli afferma che in ogni uomo inizia, prima o dopo, la «vita spirituale» che consiste nella coscienza del sé e del mondo: «Io sono: con questo pronunciamento un essere personale si desta alla vita, annunzia la propria esistenza, afferma se stesso, rivela sé a se medesimo, e specificamente si differenzia dagli esseri impersonali che esistono, pur non sapendo di esistere. Questa coscienza di sé può essere più o meno viva, più o meno ampia e potente, ma è pur sempre necessaria all’io, poiché una incoscienza assoluta ripugna alla natura di un essere intelligente, qual è la persona»130. Nella visione di Allievo, l’affiorare dell’Io, diviene così la prova della natura spirituale della persona: «Il vocabolo io chiude esso solo in sé la più decisiva confutazione del materialismo, essendochè il ripiegarsi che fa l’io sopra di sé ed il riconoscersi siccome sostanzialmente identico nella dualità del soggetto riflettente e dell’oggetto riflettuto è dote propria dello spirito ed affatto ripugnante all’essenza medesima della materia, che è di sua natura impenetrabile, cioè tale da non poter compenetrare interiormente sé stessa e tutta riconcentratasi siccome in semplicissimo punto: chè in tal caso cesserebbe di essere materia»131. L’emergere della individualità personale all’interno del mondo, indica anche lo sviluppo della coscienza alla scoperta della propria esistenza132. L’Io emerge primariamente in due connotati propri, vale a dire l’intelligenza e l’attività volontaria133. In questo senso definisce la persona come «sostanza dotata di intelligenza, mercé cui ha coscienza di sé affermandosi quale unità vivente di vita sua propria distinta dalla realtà esteriore e pur con questa unità, e di attività volontaria, per cui possiede sé stessa e dispiega liberamente la virtualità sua in ordine al fine universale segnato dalla personalità infinita di Dio»134. Questi due attributi sono l’espressione della coscienza, in 130 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., pp. 4-5. 131 G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p. 17. 132 «La coscienza personale è l’io, che rivela sé a se medesimo. Ora quali sono le rivelazioni della coscienza interiore? L’io sente di essere uno od identico con se medesimo, di possedere un’esistenza effettiva e reale, si riconosce e si afferma una sostanza sussistente, attiva, semovente, operosa, che svolge la sua intima virtù in una molteplicità di pensieri, di affetti, di voleri, ed in sé li raccoglie ad unità» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 6. 133 «Lo studio della personalità umana è lo studio dela mente contemplata primariamente in sé medesima, poi nelle attinenze su coll’organismo corporeo. La mente, sede della personalità, emerge da due supremi costitutivi, che sono l’intelligenza conoscitiva e l’attività volontaria» G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p. 16.  134 Ibid., p. 55. 47  cui l’uomo trova la sua indipendenza, alterità e potenza rispetto al resto della natura135. Con altre parole, Allievo osserva: «Dovunque c’è la persona, cioè un soggetto dotato di intelligenza ed attività volontaria, là vi è lo spirito. La persona è una energia, un’attività, una forza, non cieca, ma intelligente e conscia di sé, non fatale e necessitata, ma libera e signora di sé, lo domina e lo trasforma informandolo giusta il suo ideale: ma la materia non conosce né se stessa, né lo spirito, non domina sé medesima, ma è irrepugnabilmente dominata dalle forze, che la investono»136. Nell’uomo, infatti, la volontà è radicata nell’intelligenza137. Solo una prospettiva simile, per Allievo, è capace di comprendere la vita della persona, e salvare la sua unità138. Commentando una parte del celebre libro di Smiles, Self – help, tradotto in Italia con il titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, Allievo scrive che ognuno: «sente di essere un’attività consapevole di sé ed arbitra del proprio operare, una forza morale, che si muove all’atto non per esteriore costringimento, ma per intrinseco impulso intelligente e libero. “Se ciò non fosse (scrive lo Smiles nel capitolo VIII della sua opera Chi si aiuta Dio l’aiuta), dove sarebbe la responsabilità? A che gioverebbe lo insegnare, l’ammonire, il consigliare, il correggere? A che servirebbero le leggi, ove non fosse la credenza universale, come è un fatto universale, che gli uomini obbediscono o no ad esse, secondo che deliberarono individualmente?”»139. 135 «La persona è un tutto individuo e sostanziale, che afferma sé come distinto dalla realtà universa; un soggetto, che possiede sé stesso mercè il pensiero e la volontà; una monade, che è conscia sui et compos sui, è presente a sé ed è tutta in ciascuna delle molteplici sue forme, determinazioni, momenti e stati, sicché il secreto de’ grandi caratteri dimora nel conservare la propria individualità personale in mezzo alle forze contrarie padroneggiandole; una sostanza dispiegantesi per intrinseca sua virtù da un centro o principio supremo di vita suo proprio e che nello esplicamento del suo contenuto compenetra tutta sé stessa in una viva ed attuosa unità di intendere e di volere» Ibid., p. 54. 136 G. Allievo, Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, Torino, Carlo Clausen, 1903, p. 15. 137 Secondo Allievo l’attività volontaria è «la fonte secreta, inesauribile, da cui prorompe tutta la corrente della vita umana, ed a cui rifluisce con perpetuo circolar movimento. Il voglio pronunciato dall’io attesta l’atto di una coscienza personale ed annuncia il lavoro. S’intende da sé che questa forza, quest’attività interiore dell’io non è una volontà cieca, inconsapevole di sé, bensì illuminata dall’intelligenza, essendochè chi dice coscienza, dice conoscenza, e propriamente conoscenza di sé» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 8. 138 «La coscienza è la rivelazione dell’anima a sè stessa nella sua natura e ne’ suoi fenomeni, nella sua sostanza e ne’ suoi modi, nella sua essenza e nella sua attività, nel suo essere e nelle sue manifestazioni. Così il concetto della personalità umana, vale a dire di un soggetto sostanziale fornito di intelligenza e di libera volontà, è il solo, che concilii la molteplicità dei fenomeni coll’unità del loro comune soggetto, sicché questi due termini nello sviluppo della vita umana si mantengano indisgiungibili, e si rischiarano l’un l’altro» G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 74. 139 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 47.  48  L’esistenza nella persona di una unità tra mente e corpo, rappresenta una premessa incontrovertibile su cui dipanare il discorso antropologico e pedagogico140. Negare questa dualità nell’uomo, significherebbe disconoscere un dato di realtà. Stando al pedagogista, la stessa idea di scienza appare contenere implicitamente l’affermazione dell’esistenza della coscienza141. Allievo dedicò ampio spazio al rapporto tra la dimensione spirituale e quella corporale. Com’è già stato osservato, l’uomo è sintesi tra persona e corpo, due nature che si mantengono in una relazione di armonia nell’uomo. In questo senso egli definisce l’uomo come «persona organata»142 o «persona incorporata». Questa relazione, pone il problema di come i due livelli siano coordinati tra loro. Come premessa a questo problema, Allievo scrive che «nell’uomo non vi sono due esseri, ma uno solo; quindi in lui le potenze mentali dell’anima e le funzioni animali del corpo si svolgono complicate insieme, sicché non si può tracciare una linea di separazione tra i fenomeni psichici ed i fisiologici»143. Contro i positivismi chiarisce in più di un’occasione che la vita della mente va distinta da quella materiale. Osserva: «L’anima non trae la sua origine dagli organi del corpo, ma (dicevano i pitagorici) vien dal di fuori nel corpo è un’emanazione dell’etere, simbolo dell’anima universale, ossia di Dio animatore supremo»144. Nel testo Studi psicofisiologici, si occupa in specie della relazione tra la natura spirituale e quella fisiologica, citando diverse opere di studiosi tra cui Marat, Lèlut, Lotze, Cerisem, Cabanis, Broussais ed Herzen. Polemico contro il monismo scientista, propone una teoria chiamata duodinamismo, che spiega in questo modo: «Mentre il monodinamismo concentra la vita umana tutta quanta in una sostanza, cioè o nel solo spirito o nella sola materia componente l’organismo corporeo, il duodinamismo riconosce nell’uomo due centri di vita sostanzialmente distinti, cioè l’anima razionale e la forza vitale, e da quella fa rampollare i fenomeni mentali, da questa i fenomeni fisiologici ed animali»145. La teoria si 140 Per Allievo l’uomo è «La persona, sostanza individua, sussistente in sé, volontariamente attiva; l’unità è l’identità dell’io nella molteplicità e varietà dei suoi modi e dei suoi fenomeni; la vita intima ed individuale intrecciata colla vita esterna e comune; la vita mentale svolgentesi insieme colla vita organica. Ecco le rivelazioni della coscienza personale, rivelazioni, che costituiscono le prime, spontanee intuizioni dello spirito umano, salde, inconcusse, irrepugnabili. Ora da ciascuna di queste rivelazioni la ragione vede spuntare una serie ordinata di problemi, che ammaniscano la materia, su cui la scienza ordisce le sue trame e compie il suo lavoro speculativo» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 10. 141 «Così coscienza e scienza sono i due poli, fra cui si muove il mondo della speculazione: la coscienza ci rivela la personalità dell’essere, ed alla luce di questo principio la ragione costruisce la scienza» Ibid., p. 10. 142 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 14. 143 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 26. 144 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, Cuneo, Tipografia Subalpina di Pietro Oggero e C., 1887, p. 18. 145 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 69.  49  rifà ad autori come Barthez, Montpellier, Lordat. Essa «concilia insieme la molteplicità della natura umana coll’unità dell’Io individuale. Infatti l’anima razionale non essendo uno spirito puro, ma congiunto colla materia, è essa che informa ed avvia il corpo, è il suo principio ed animatore: così il principio corporeo produce i fenomeni della vita fisica ed animale, ma in grazia della forza vitale ricevuta dall’anima, la quale in tal modo produce direttamente e per se stessa i fenomeni della vita mentale, ed indirettamente, ossia per mezzo del corpo i fenomeni della vita corporea»146. Al naturalismo e al positivismo contestò, come già accennato, la riduzione dell’antropologia a un «capitolo della fisiologia, ad un ramo della zoologia»147. Allievo chiarisce è che non è contrario alla fisiologia, ma al «fisiologismo». Negli Studi pedagogici cita il caso dei fisiologi come Salvatore Tommasi, che sostengono come la disciplina non porti necessariamente al materialismo148. Inoltre osserva come anche alcuni positivisti abbiano ammesso una serie di difficoltà nello spiegare la vita mentale con la sola fisiologia. Per suffragare la sua tesi rinvia al saggio Herzen, Il cervello e l’attività celebrale, nel quale lo studioso riconosce quanto sia ancora lontana la possibilità di chiarire aspetti fondamentali del funzionamento della mente umana. Allievo trae queste conclusioni: «Così i più grandi rappresentanti del positivismo contemporaneo riconoscono l’ignoto, che giace in fondo al problema dell’unione tra la vita fisica e la vita mentale dell’uomo. Certamente la fisiologia moderna co’suoi luminosi ed incontestabili progressi ha sparso molta luce su questo problema, ma non ha svelato il mistero che lo avvolge»149. Allievo si poneva come obiettivo di salvare insieme le esigenze spirituali e i dati fisiologici. Osserva: «Il principio antropologico da me propugnato è antico quanto l’uomo, il quale intuisce per natura la personalità del suo essere, ma è pur fecondo di novità e di progressivo sviluppamento, perché ammette insieme armonizzati i due supremi fattori della scienza, voglio dire l’esperienza, che apprende la fenomenalità delle cose, e la ragione, che coglie il loro essere sostanziale»150. Nel principio della personalità si palesa lo spiritualismo di Allievo, che viene spiegato così dalla Quarello: «Realismo spiritualistico e spiritualismo teistico: tale è la filosofia dell’Allievo. È realismo in quanto il pensiero è l’ “attività” di un essere reale (io = persona); è spiritualismo in quanto la persona è essere uno, sostanziale cosciente di sé (“lo 146 Ibid., p. 72 147 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., pp. 13-14. 148 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 42-43. 149 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 12. 150 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18  novembre 1903, cit., p. 14. 50  spiritualismo, egli scrive, proclama la personalità umana”); è teismo in quanto Dio è pensato come persona (“il teismo proclama la personalità infinita di Dio”)»151. Lo spiritualismo dell’Allievo trae alimento dal principio della personalità. Se da una parte, infatti, si afferma una dimensione irriducibile alle dinamiche nell’uomo, e dall’altra l’attestazione di questa «natura» dell’uomo conferma il suo spiritualismo. «Preso nel suo ampio senso – osserva il pedagogista vercellese - lo spiritualismo risiede nell’ammettere l’esistenza di sostanze immateriali, che cioè non cadono sotto i sensi e non hanno le proprietà della materia, quali sono la figura, la grandezza, l’estensione, la divisibilità, il movimento locale, bensì sono fornite di intelligenza e di libera volontà»152. In questa duplice difesa dello spirito e della realtà materiale, sembra di poter affiancare Allievo al personalismo nato in Francia diversi decenni dopo, a cui lo accomunò la volontà di «evitare che la persona umana fosse schiacciata dal materialismo positivistico o assorbita nel vortice del monismo idealistico»153. I. 4. Antropologia e pedagogia Secondo Allievo, la pedagogia deve fare i conti con la realtà educativa e le sue dinamiche154. La riflessione teorica e la vita formativa rappresentano due poli indispensabili l’uno all’altro155. Allievo prospetta, in questo senso, un metodo di ricerca pedagogico sia empirico che razionale. Egli lo definisce «dialettico» in quanto «contempera insieme l’esperienza e la ragione, i fatti e i principi»156. La storia della pedagogia documenta come qualsiasi riflessione sistematica sull’educazione, abbia sempre fondato le sue posizioni su una concezione dell’uomo e del suo ideale. Anche per Allievo, l’antropologia come «scienza dell’essere umano»157 si 151 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 79. 152 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 8. 153 Pedagogie personalistiche e/o della Pedagogie della persona, Brescia, La Scuola, 1994, p. 15. 154 «Siccome l’educazione è ad un tempo un’idea ed un fatto, così la Pedagogia, che ne rampolla, assume il duplice carattere di scienza e di arte. Essa è scienza perché l’esplicazione razionale di quell’idea; è arte, perché ideale tipico di quel fatto. Come scienza è un sistema di cognizioni, una teoria speculativa intorno l’educazione umana, epperò potrebbe appellarsi pedagogia pratica» G. Allievo, Studi pedagogici, cit., 1889, p. 25. 155 «Così la scienza pedagogica è la teoria dell’educazione, l’arte pedagogica è la pratica dell’educazione; scienza ed arte, teoria e pratica bisognevoli l’una dell’altra. Poiché la mera pratica dell’educazione, non illuminata dalla scienza pedagogica, non è vera arte, bensì cieco empirismo; la scienza pedagogica alla sua volta, non tradotta in pratica, né fecondata dal magistero dell’arte, rimane una vana e sterile teoria» G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, Pavia, Bizzoni, 1901, p. 2. 156 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 55. 157 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 1.  51  prospetta come uno studio di fondamentale importanza tanto per la teoria quanto per la pratica educativa158. Allievo colloca l’antropologia al centro dell’organigramma di tutte le scienze. Egli individua il suo obiettivo nella conoscenza dell’essenza unitaria della persona159. L’Allievo non pensa all’antropologia come ad una etnografia, ma come «scienza generale sull’uomo» connotata da un orizzonte metafisico. Dallo studio generale sull’uomo, discendono due gruppi di discipline, quelle che lo studiano nella sua accezione individuale, e quante ne approfondiscono l’aspetto sociale160. Le scienze che studiano l’uomo sotto l’aspetto individuale si dividono a loro volta in altri due gruppi. Del primo fanno parte tutte le discipline che si occupano della mente: logica, estetica, etica, eudemonologia, filologia, pedagogia. Al secondo gruppo afferiscono le scienze che riguardano l’organismo corporeo: fisiologia, anatomia umana, patologia, terapeutica, igiene, ginnastica. Le scienze che riguardano l’uomo sociale sono secondo l’Allievo la politica, la giuridica, l’economia pubblica colle scienze industriali e commerciali, la storia, l’etnografia, la filosofia della storia. Tutte queste discipline sono legate all’antropologia, che permea e fonda qualsiasi aspetto dello scibile umano. Secondo Allievo, la prospettiva sulla natura e il senso della persona, permea le possibili soluzioni avanzate riguardo la vita della società, le sue leggi, le sue prospettive, il suo sviluppo. Osserva: «Ogni problema sociale, vuoi politico, vuoi artistico, vuoi religioso, cova in sé un problema antropologico»161. Questa relazione è ancora più evidente per quanto concerne la scienza pedagogica, con la quale l’antropologia ha un «vincolo indissolubile»162. Lo studioso piemontese, infatti, pur riconoscendo un proprium alla pedagogia nell’affrontare dei problemi fondativi e generali sull’educazione, considerava necessario il contributo delle altre scienze, indispensabili per completare e integrare la ricerca pedagogica163. Tra queste primeggia l’antropologia filosofica poiché necessaria per chiarire 158 «L’educazione dell’uomo presuppone la conoscenza dell’uomo stesso, epperò la pedagogia o scienza dell’educare e la didattica o scienza dell’istruire, hanno il loro fondamento nell’antropologia, o scienza che studia l’essere umano» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 3. 159 Allievo sostiene che l’antropologia studia «l’uomo nella sua intima e generalissima essenza, ossia nell’integrità e pienezza complessiva del suo essere» G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 6. 160 Cfr. G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 8. 161 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 4. 162 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 39. 163 Nel seguente brano elenca le discipline ausiliarie alla pedagogia, che sono: «1° L’antropologia generale, che studia l’uomo nella dualità di anima e di corpo e nella unità della sua persona; 2° la psicologia, che studia l’anima umana nelle proprietà della sua natura e nella varietà delle sue potenze; 3° la logica riguardata siccome la teorica della verità e della scienza; 4° l’etica, che studia il Buono, norma ed oggetto della libertà morale umana; 5° la cosmologia, che è una spiegazione scientifica del mondo; 6° la metafisica,  52  la natura e il fine dell’educando, e quindi dell’educazione. Nonostante i diversi ambiti di ricerca «tra l’antropologia e la pedagogia intercedono le due fondamentali attinenze della distinzione e dell’unione»164. Se il principio della personalità è il fulcro dell’opera di Giuseppe Allievo, l’antropologia è il centro della pedagogia. Non a caso, quando il professore vercellese sostituì Rayneri sulla cattedra di pedagogia all’Università di Torino, cambiò il nome dell’insegnamento da «Metodica» in «Antropologia e Pedagogia». Il carattere di ciascun sistema pedagogico dipende dalla prospettiva antropologica: «le diverse e contrarie teorie pedagogiche professate dai cultori di questa disciplina traggono appunto la loro ragione e origine dai diversi e contrari concetti antropologici, da cui essi hanno preso le mosse, e su cui hanno costrutto il sistema»165. Per capire e pensare l’educazione occorre una chiara idea su cosa sia l’uomo, se ci sia e quale debba essere il suo compito nel mondo: «Ogni dottrina pedagogica ritrae dai principi antropologici su cui si regge, la virtù peculiare, che la informa, e lo stampo singolare, che la individua»166 . Non si possono slegare questi due aspetti nella riflessione: «L’uomo e la sua educazione sono due termini insieme compenetrati, come un principio e la conseguenza sua, e che li disgiunge, è mente piccina che né l’uno, né l’altra intende. L’uomo spiega se stesso nell’educazione e l’educazione riflette se stessa nell’uomo; e sempre il concetto antropologico ed il concetto pedagogico serbano l’uno coll’altro rispondenza esatta o veri o fallaci che siano entrambi»167. La correlazione è necessaria. In un altro brano chiarisce gli scopi delle due discipline: «La distinzione delle singole scienze origina dalla distinzione dei loro oggetti: l’una non è l’altra, perché versa sopra un oggetto suo proprio, che non è quello dell’altra. Per conseguente la scienza antropologica dalla pedagogica si differenzia essendochè quella ha per oggetto suo l’essere umano, questa l’educazione umana, l’una studia l’uomo nell’integrità e compitezza dell’esser suo, l’altra sotto il peculiare riguardo della sua educabilità; la prima si propone di rispondere alla domanda: Che cosa è l’uomo; la seconda ha per ufficio di soddisfare all’inchiesta: Che l’educazione e come l’uomo va educato. Ecco il rapporto di distinzione, ma da questo stesso già si rileva il vincolo unitivo, che stringe l’una all’altra le due discipline, essendochè l’uomo e la educazione sua sono due termini inseparabili. La pedagogia ha coll’antropologia un vincolo così intimo e necessario, che trova in questa il fondamento e che studia l’Essere primitivo in sé e ne’ suoi rapporti col mondo e coll’uomo» G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, Torino,Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1883, p. 246. 164 G. Allievo, Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, p. 308. 165 Ibid., p. 310. 166 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 31. 167 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., 1909, p. 10.  53  la ragion sua ed in ogni punto del suo processo si regge sui principii supremi della scienza antropologica»168. Per fare pedagogia occorre dunque possedere una «conoscenza scientifica dell’origine, della natura, del fine dell’uomo»169. Bisogna tenere conto del fatto che nella temperie culturale in cui Allievo sosteneva queste posizioni, porre l’antropologia filosofica a fondamento della pedagogia, non era un’ovvietà, soprattutto quando essa era collocata entro un contesto metafisico. Porre il baricentro del discorso pedagogico sulla questione antropologica, era considerato da Allievo come la risposta emergente ad una problematica educativa reale. Si trattava di un problema radicale che faceva da discriminante tra le varie teorie. Le risposte alla questione circa la natura dell’uomo, non erano infatti da considerare secondarie per la qualità della relazione pedagogica: «Educare è sviluppare le virtù insite dell’uomo fanciullo. Ma che cosa e quale è mai l’uomo che si vuol educare? Forse l’uomo di Molescott, un mero giuoco di elementi chimici colla predominanza del fosforo pensiero, e niente più? O l’uomo-scimmia de’ moderni naturalisti? O l’uomo de’ panteisti tedeschi fatto una cosa sola con Dio? O l’uomo de’ razionalisti trasformato in libero pensiero? O l’uomo de’ mistici che lo spiritualeggiano per intero, mentre i materialisti lo abbruttiscono?»170. Per l’Allievo, si trattava di domande impellenti. La pedagogia esigeva nuova chiarezza sull’idea di persona: «Oggi più che mai essa reclama un supremo principio vitale, che risponda al suo altissimo compito, ricomponga ad unità di organismo potente la sua squilibrata compagine e le additi l’ideale suo, verso cui cammina franca e sicura»171. Secondo il pedagogista, la domanda circa la natura dell’uomo non poteva essere affrontata con gli strumenti epistemologici delle scienze esatte, incapaci di cogliere l’essenza della persona. Tale compito spetta alla filosofia, che diviene la prima interlocutrice della pedagogia. In più di una occasione chiarì che la sua era una «pedagogia filosofica»172 poiché si «fonda sopra un principio essenzialmente vero ed inconcusso, quale è quello della natura umana riposta nella personalità dell’io, e nel suo procedimento adopera non la sola esperienza disgiunta dalla ragione, né la sola ragione astratta, che disdegna la realtà dei fatti, bensì entrambe queste due potenze conoscitive, e l’una in armonia coll’altra»173. 168 G. Allievo, Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, cit., pp. 308-309. 169 Ibid., p. 309. 170 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 125. 171 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 12. 172 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Torino, Carlo Clausen, 1905, p. 3. 173 Ibid., p. 8.  54  Stando a Calò, uno dei punti centrali nell’opera dell’Allievo è questo: «Non trascurare le esigenze dell’esperienza né quelle della ragione; ecco, secondo l’Allievo, il primo canone del metodo filosofico»174. Ciò è confermato anche dall’esigenza di rompere le catene del misurabile, e allargare la pedagogia alla profondità e al mistero della persona. Solo «La pedagogia filosofica riconosce nell’alunno un’anima razionale non già separata dal corpo, ma con esso vitalmente congiunta in unità di persona, sebbene da esso distinta, un’anima, che sviluppa di continuo le sue energie in una successione di fenomeni, che formano la sua vita, epperò vuole un’educazione, che si estenda a tutto quanto l’uomo nella dualità delle sue sostanze e nell’unità della sua persona, alla vita temporanea e alla futura»175. La natura delle domande che l’esigenza dell’educazione ci pone, non si possono risolvere con il metodo scientifico176. Allievo non portò sostanziali novità nella riflessione epistemologica, ma difese la prospettiva pedagogica spiritualista, confutando i detrattori della metafisica in campo antropologico. Secondo Serafini, nonostante «il modello disciplinare intorno al quale egli lavora è ancora, in larga misura quello di una pedagogia come scienza pratica (quantunque punti particolarmente sulla figura d’una disciplina complessa) che si differenzia dal modello elaborato in ambito positivistico particolarmente per gli effetti che su questo ha il suo personalismo»177. Un altro carattere distintivo della pedagogia di Allievo è l’idea della specificità nazionale della pedagogia. Occorre secondo il pedagogista pensare in continuità con la storia del proprio popolo e con le proprie attitudini. Su questo tema trovò una consonanza con il saggio di Antonino Parato dal titolo «La scuola pedagogica nazionale», non senza motivo diverse volte citato dall’Allievo. I. 5. L’educazione 174 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 175 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 10. 176 Spiega Allievo: «La pedagogia è la scienza dell’educazione umana; e siccome l’uomo non può essere convenientemente educato se prima non è conosciuto secondo verità, quindi è che la pedagogia dipende ed attinge da tutte quelle scienze, che hanno per oggetto la conoscenza ragionata dell’uomo riguardato in sé ed in rapporto colla realtà universale. Ciò posto, che cosa è l’uomo, donde esso viene e dove va? Come si congiungono in lui ad unità di vita il corpo e la mente? I suoi destini si compiono quaggiù o in una vita ultramondana? Esiste la verità e la scienza, a cui aspira la sua intelligenza? Esiste una legge morale, norma della sua libera volontà? Che cos’è questo mondo esteriore, che lo circonda, ed in cui è posto a vivere? Qual concetto dobbiamo formarci di quell’essere assoluto ed infinito, che è l’oggetto della moralità e religiosità umana, origine prima e fine ultimo di lui?» G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., pp. 245-246.  177 G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana dell’Ottocento, cit., p. 130. 55  In più di un’opera, il pedagogista vercellese denunciò una grave crisi educativa, che egli imputava alla confusione imperante circa i caratteri di una formazione adeguata178. Sulla base del principio della personalità, egli considerava l’efficacia educativa legata alla previa soluzione data al senso della perfettibilità dell’uomo179. Mancando, come già si è accennato, una concezione adeguata sulla natura dalla persona, anche la pratica educativa ne veniva fuori menomata. Tra i fondamenti pedagogici di Allievo si colloca questa massima: «Sul sentimento e sul rispetto della dignità della persona si fonda l’arte dell’educare»180. Al pari di un ampio stuolo di pedagogisti ed educatori, il docente vercellese era convinto che non si dà autentico sviluppo della persona senza un intervento formativo181. La natura esteriore, infatti, «non è per se stessa educativa nel senso rigoroso della parola, bensì tale diventa allorquando il fanciullo in sé accogliendola l’accompagna e la feconda colla coscienza del suo sviluppo»182. Per tratteggiare i caratteri precipui dell’educazione, Allievo si rifà alla lezione di Rayneri, che nella Pedagogica enumerò cinque attributi imprescindibili: Unità rispetto al fine, Universalità rispetto a tutte le facoltà umane che devono essere medesimamente sviluppate, Armonia tra le potenze umane, Gradazione, Convenienza, cioè – oggi diremmo – personalizzazione dell’intervento educativo183. Mentre il suo maestro considerava la «convenienza» come la più importante di queste leggi, Allievo sostiene il primato dell’armonia184, quale condizione necessaria per un’educazione efficace185. 178 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 21-22. 179 «L’opera educativa si modella sul concetto dell’uomo: quale noi lo conosciamo, tale lo educhiamo, e per conseguente ogni dottrina pedagogica si informa e si esempla sopra una dottrina antropologica.(...) L’educazione muove dalla natura originaria dell’uomo, come da suo fondamento, lo segue nel corso progressivo della sua vita governando lo sviluppo delle sue potenze, mira ad un ideale di perfezione, a cui intende sollevarlo» G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, Tipografia Subalpina, Torino, 1910, pp. 81-82. 180 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit. p. 185. 181 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 67-68. 182 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 68. 183 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 106. 184 Ibid., pp. 109-112; 185 L’educazione deve essere armonica rispetto a tutte le facoltà della persona «Che l’alunno debba essere educato in armonico accordo colla natura fisica circostante, colla famiglia e colla nazione, a cui appartiene, coll’organamento sociale, in cui vive, col grado di civiltà e collo spirito proprio del tempo, è una verità già riconosciuta e proclamata dalla pedagogia filosofica. Poiché l’alunno non è una monade solitaria ed isolata, chiusa ad ogni comunicazione esteriore, bensì abbisogna della convivenza di altri esseri, a fine di espandere la sua vitalità interiore e compiere il suo esplicamento. Ma egli possiede una personalità sua, che non può essere sacrificata al mondo fisico sociale; è fornito di una libertà interiore, che gli conferisce il dominio di sé medesimo, sicché egli è quale vuole essere, non quale lo fa la necessità insuperabile dell’ambiente; non potrebbe vivere una vita comune nel consorzio con altri esseri se anzi tutto non vivesse in se medesimo di una vita tutta sua propria; non potrebbe mettersi in conformità di accordo coll’ambiente, se da prima non fosse in concorde armonia con sé stesso; non potrebbe acconciarsi alle impressioni del grande organismo  56  Sebbene guidata da un criterio unitario, l’educazione può essere analizzata nella sua molteplicità. Allievo parla di un’educazione fisica, intellettuale, estetica, morale, religiosa. Distingue tra quella naturale, che segue lo sviluppo delle facoltà della persona, e quella esterna, guidata da modelli valoriali, culturali e intellettuali dal discente. Il perno dell’educazione della persona è la sua razionalità ed intelligenza. Riprendendo la tripartizione rosminiana delle facoltà umane186, Allievo ricorda come l’interiorità della persona sia il vero oggetto dell’educazione, mistero non materiale187, ed eccedente i meccanismi fisiologici188. I fenomeni dell’interiorità sono governati da leggi come quella di associazione, simultaneità, successione, e si fondano sulla dinamica delle potenze umane, tratto tipico della pedagogia rosminiana, che si dividono in corporee o fisiche e in spirituali o mentali189. Compito dell’educazione è di sviluppare le potenze umane, in cui l’intelligenza umana si esprime come desiderio spirituale190. Se l’educazione è il mezzo attraverso cui l’uomo può essere se stesso, questa va rivolta a chiunque. Allievo considerava necessario offrire a qualsiasi persona l’educazione e l’istruzione, senza discriminazioni per le condizioni economiche, sociali, o di genere. In questo senso contesta i positivisti che negavano la possibilità e l’utilità di occuparsi dell’educazione e dell’istruzione dei diversamente abili. Negli Opuscoli Pedagogici191 sostiene la necessità di educare i sordomuti, i nevrastenici, i balbuzienti, i ciechi, ed esorta ad approfondire gli studi sui mezzi con i quali sia meglio educarli, richiamando a prendere esempio da altre nazioni europee come la Francia. Nel saggio su Rousseau, contesta l’idea difesa nell’Emilio, secondo cui i della natura, se anzi tutto non sentisse il vitale influsso dell’organismo corporeo suo proprio; infine egli aspira ad un ideale della vita futura, il quale non può trovar luogo nella cerchia dell’ambiente della natura tutto circoscritto ad un punto del tempo e dello spazio» G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., pp. 19-20. 186 «Sentire, intendere e volere, in questa triplice classe di fenomeni psicologici si raccoglie tutto lo sviluppo del nostro essere spirituale» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 6. 187 «I fenomeni interni o psicologici non si veggono cogli occhi del corpo, non si toccano, non si odono, non si odorano: un pensiero, un affetto, un volere non hanno forma o figura, non divisione o dimensione, non grandezza o misura: essi soltanto alla coscienza si mostrano e sono oggetti di osservazione interiore» Ibid., p. 7. 188 «I fenomeni interni sono di loro natura superiori all’organismo; i sentimenti, i pensieri, i propositi deliberati sono manifestazioni esclusivamente proprie dello spirito, al cui compiuto sviluppo i fenomeni dell’organismo corporeo intervengono bensì, ma come condizione soltanto, non some causa» Ibid., pp. 7-8. 189 «Ciò posto, siccome i fenomeni interni ci vennero superiormente distribuiti in tre classi supreme, affettivi cioè, intellettivi e volitivi, così siamo condotti ad ammettere tre supreme potenze umane corrispondenti, la sensitività, l’intelligenza e la volontà, intendendole con tale larghezza, che la sensitività comprende tanto la sensazione animale, quanto il sentimento spirituale, l’intelligenza abbracci tanto la percezione o fantasia sensitiva quanto la ragione, e similmente la facoltà spirituale della volontà si mostri preceduta dagli appetiti inferiori e con essi collegata» Ibid., p. 12. 190 «Come l’istinto animale provvede alle esigenze della nostra vita fisica, così l’istinto spirituale fornisce alla vita mentale i beni, che le sono proprii. Ora lo spirito vive del Vero, del Bello, del Buono, e vi si sente portato da naturale istinto, il quale viene così a distinguersi in intellettivo, estetico e morale» Ibid., p. 29.  191 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 94-97. 57  diversamente abili, Allievo parla di «storpi», non abbiano diritto all’istruzione e all’educazione192, ribadendo la convinzione che l’educazione sia un diritto per tutti. Tutti gli uomini sono persone, qualunque sia la loro condizione, e ognuno merita di essere educato e istruito, anche se ciò deve essere fatto secondo le inclinazioni e le potenzialità di ciascuno. Analogamente contestò Platone quando estromette i «malconformati di corpo» dalla cerchia degli educabili. Inoltre fa notare come «anche lo Spencer a’ di nostri muove rimprovero alla società che si prende cure dei miserabili, dei poveri, degli infermi, fino a dichiarare una grande crudeltà il nutrire gli inetti a spese dei capaci degli operosi»193. Allievo considera questa prospettiva come una diretta conseguenza del materialismo: disconoscendo il valore assoluto dell’uomo, non ha più senso la cura di quanti non «funzionano», non «producono», quanti insomma sarebbero solo un peso per il sistema economico. Secondo Allievo solo il riconoscimento della dignità suprema dell’individuo permette il rispetto di ciascuno e la sua valorizzazione. Dimenticata la persona nell’uomo, si elimina la ragione dell’eguaglianza degli esseri umani e dunque il diritto all’educazione per tutti. Sulla base del principio della personalità, il pedagogista vercellese fu altresì un difensore dell’istruzione e dell’educazione delle donne. Anche per l’Allievo, come per molti altri studiosi della seconda metà dell’Ottocento, era necessario concepire l’educazione della donna in armonia con l’ufficio della maternità e la cura della famiglia, compiti a cui secondo il pedagogista la donna era naturalmente destinata. Dopo aver difeso il ruolo della donna nella famiglia, spiega: «Né altri di qui inferisca, che la donna circoscrivendo nel recinto della casa il suo genere peculiare di vita debba crescervi e passarvi i suoi giorni solitari, ignorante, incolta, spregiata e negletta. Anch’essa possiede per natura tutte le facoltà costitutive della specie umana, a cui appartiene; epperò ha, quanto l’uomo, diritto alla verità, alla felicità, alla virtù, al rispetto della dignità umana, che in lei rifulge, al perfezionamento suo proprio. E se abbia da natura sortito qualche raro pregio di mente e di spirito, qualche felice attitudine al culto di qualche disciplina, od arte, o nobile professione sociale, chè non venga mai meno alla sua prima e natural missione, alla quale è chiamata nel santuario domestico»194. Allievo reputa che sia necessario offrire un percorso educativo e di istruzione anche alle donne meno abbienti. Dopo aver analizzato le opere della Saussure, contesta il fatto che si parli dell’educazione solo per i ceti sociali più alti: «Però io non posso passare sotto 192 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 160. 193 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 113. 194 Ibid., pp. 117-118.  58  silenzio, che in questo eletto lavoro pedagogico della Saussure è tutto rivolto alla coltura della donna di agiata e civil condizione, come lo sono altresì le opere pubblicate dalle due egregie donne italiane, la Colombini e la Ferrucci intorno l’educazione femminile. Eppure anche l’educazione della donna popolana ed operaia può e deve fornire al cultore della pedagogia bello e grande argomento di studio e di meditazione, per quantunque debba essere discorso sott’altra forma ed in proporzioni più modeste»195. Nonostante l’inciso finale, il discorso dell’Allievo sembra innovativo rispetto alle comuni pratiche e teorie pedagogiche. La donna inoltre, in quanto persona, non poteva essere considerata proprietà di alcuno. Per questo motivo critica Rousseau che aveva fatto di Sofia una moglie totalmente asservita al marito. Al contrario: «La donna non è nata per essere la schiava né dello Stato, né dell’uomo»196. L’attività dell’educatore e della scuola deve anche essere in armonia con quella familiare. La famiglia è l’inizio e il paradigma dell’educazione. Chi si occupa di educazione deve avere come modello l’istituzione familiare. Allievo sostiene la necessità di una famiglia generosa, laboriosa e aperta. Contesta la famiglia rappresentata nell’Emilio, considerata isolata ed egoista. Invero, persistono nella sua opera ancora alcuni stereotipi sul sesso femminile. Allievo parla di un’inferiorità fisica197, e sostiene che «nella donna il sentimento e l’affetto predominano sull’intelligenza e sulla volontà», e sebbene sottolinei i vantaggi di questa caratterustica femminile198, considera l’uomo maggiormente capace di sottomettere la volontà alla ragione199. Secondo Allievo la durata dell’educazione abbraccia tutta la vita. L’uomo ha sempre da essere perfezionato. Il suo cammino verso il compimento di se stesso è costante200. È tuttavia vero che la vita è composta da diverse fasi, ognuna ha delle particolari esigenze educative. Allievo contesta cesure nette nella teorizzazione dello sviluppo della persona. 195 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, Torino, Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1884, p. 222. 196 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 159. 197 «Insegna la fisiologia, che l’organismo corporeo è più gagliardo e più robusto nell’uomo, più esiguo e più delicato nella donna; questa diversità di struttura deve naturalmente riuscire ad una differenza tra le potenze fisiche del sentire e del muoversi corporeo» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., pp. 16-17. 198 «Essa pensa più col cuore, che col cervello. La verità la sente più che non la mediti, la intuisce più che non la ragioni, la crede senza avvolgerla fra le tortuose spire del dubbio, la accoglie tutta quanta viva ed intiera senza dissolverla e notomizzarla col coltello dell’analisi; pensa e riconosce Dio come un bisogno del cuore, anziché come un principio della ragione; posa il suo pensiero sulla realtà concreta e vivente e mal si rivolge alle aride astrattezze, alle generalità trascendetali» Ibid., p. 17. 199 «Venendo alla volontà, anch’essa nella donna soggiace alla influenza del sentimento, nell’uomo procede a tenore della ragione» Ibid., p. 18. 200 «L’educazione comincia colla vita e mai non cessa, perché la nostra perfettibilità dura quanto la nostra mortale esistenza; però essa muta tenore ed ufficio ed indirizzo secondo il mutare delle diverse età» G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 33.  59  La vita non può essere divisa in tappe con demarcazioni rigide, dato che la crescita è graduale e soggettiva. A tal proposito critica Rousseau, il quale «ha rotto l’uomo (e con esso l’educazione) in tre pezzi, che spuntano non si sa come, l’un dopo l’altro, il fanciullo, l’adolescente, il giovinetto: e sotto il taglio della sua anatomia psicologica la personalità è finita»201. Tale istanza è legata ad uno dei principi cardine dell’educazione in Allievo, vale a dire l’armonia. «Se la virtù e l’anima e l’universo e Dio medesimo e tutto quanto esiste è armonia, appar manifesto , che anche essa l’educazione deve posare e reggersi tutta quanta sull’armonia, come suo fondamentale principio, val quanto dire essenzialmente ed integralmente ordinata all’armonico sviluppo delle forze del corpo e delle facoltà dell’anima»202. Importanti appaiono alcune annotazioni sul rapporto educatore-educando. Se la persona è libera e tende alla sua libertà, l’educatore non può agire sull’educando non tenendo conto di questo aspetto proprio della persona. Dato che l’uomo è libero, non si potrà ridurre l’educazione ad un meccanismo, l’educatore non costringe, non forza, non chiude, ma mostra, fa ammirare, interroga, sollecita, suscita. Su tale principio l’Allievo riprende fortemente il modello della paideia greca, contrapposto alla modernità che confusa sulla natura spirituale della persona e dunque sulla sua libertà, ha costretto l’insegnamento in un procedimento vuoto e disumano. Non c’è libertà senza l’autorità. La pedagogia moderna, di cui Rousseau è il più alto rappresentante, ha disconosciuto tale evidenza. Nonostante sia giusto assecondare la crescita naturale del bambino, non lo si può privare dell’intervento esterno: «Mai non ci deve cadere di mente, che nell’educazione umana suolsi seguire come infallibil maestra la natura medesima, sicché nulla mai si tenti, né si faccia, che contraddica a’ suoi principii, nulla si dimentichi, né si trascuri , che torni opportuno o necessario a secondarlo nel suo spontaneo sviluppo. Ai dì nostri vide questa potenza educatrice della natura Gian Giacomo Rousseau, ma di troppo la esaltò fino a bandire siccome inutile e nocivo il magistero dell’arte. Aristotele non disconobbe la virtù educatrice, che giace nella consuetudine o costume, e nella coltura della ragione o disciplina. Poiché i germi del Bello e del Buono deposti in noi da natura non crescono già né maturano mercé l’opera dei beni esterni, né il caso e la sorte fa sì che noi diventiamo onesti; bensì richiedesi a tanto fine l’esercizio della facoltà del volere e del sapere»203. 201 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 117. 202 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 34. 203 Ibid., p. 155.  60  Per questo stesso motivo mette in guardia da una sopravvalutazione dell’autodidattica: «L’io umano è un soggetto personale, e quindi fornito di una energia pensante sua propria, per cui aspira scientemente e liberamente alla conoscenza della verità, siccome suo naturale obbietto; ecco l’origine ed il fondamento dell’autodidattica. Ma la personalità umana individua è limitata per natura, e quindi bisognevole di un intervento esteriore: ecco la ragione dei limiti, che circoscrivono l’autodidattica»204. La persona ha bisogno di altre persone per essere introdotta nell’esistenza. In un altro brano, Allievo individua nella «nuova psicologia» l’origine dell’equivoco: «L’autodidattica si regge tutta quanta sulla personalità dell’io, riguardato come un soggetto sostanziale fornito di una individualità singolare, per cui è consapevole che l’energia pensante, di cui è fornito, è tutta sua propria, e che gli atti intellettivi, in cui si svolge, vengono da lui ed a lui appartengono come loro principio originario e comune soggetto. Ora i fautori della nuova psicologia rinnegano apertamente la libera attività e la personalità dell’io umano riducendolo ad un insieme complessivo di fenomeni mentali, che non appartengono a nessun soggetto e si succedono a tenore di leggi ineluttabili, facendo dell’anima umana una mera funzione dell’organismo corporeo»205. La prima regola del maestro è il rispetto per il discente, che è l’attore principale dell’atto educativo. Una vera educazione è contraddistinta dal rispetto e dalla pazienza. L’educatore è chiamato a essere umile, non c’è inoltre insegnamento quando l’insegnante non impara a sua volta: «Il maestro deve di sicuro sovrastare al discepolo per ampiezza di dottrina, per coltura e sviluppo mentale, ma non dimentichi mai, che in faccia all’immensità dello scibile quel tanto, che egli sa, è poco meno che nulla, e gli bisogna perciò imparare sempre, ed imparare nell’atto medesimo, che istruisce gli altri»206. Allievo riprende la celebre frase di Plutarco che critica l’insegnamento come «riempimento», e sostiene che «Il vero imparare è un lavorare colla propria mente ed avere consapevolezza della verità scoperta e del come siamo giunti a scoprirla; il vero insegnare è un accendere la scintilla del pensiero e mantener viva la fiamma della riflessione. La parola del maestro riesce all’alunno necessaria in quella guisa, che ad un seme l’aria e la luce esteriore del sole, il quale destando la virtù sopita in esso lo schiude dal suo germe e lo tien vivo ed atto a spiegare le sue forme. L’acquisto della scienza è un martirio per uno spirito giovanile abbandonato alle solitarie ed isolate sue forze, come il possesso materiale 204 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 16. 205 Ibid., p. 17. 206 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 83.  61  della scienza non conquistata colla nostra meditazione somiglia a splendido patrimonio avito, eredato da nepoti degeneri e dappoco»207. Educare è dunque far cresce armonicamente le capacità dell’alunno, è un atto della vita che fa entrare nella vita, sviluppa e forma il carattere, ma soprattutto tende a far essere se stessi, e cioè autocoscienza del mondo. Educare significa formare le capacità umane, ma soprattutto interrogare il discente, contagiare l’esigenza di conoscersi e di capire se stessi. Nel suo studio, la Quarello riporta una frase della Marchesa di Lambert citata dall’Allievo nello Studio Storico critico di pedagogia femminile (1896), in cui la pedagogista sostiene che: «La più grande scienza sta nel sapere essere in sé»208. L’educatore è chiamato a condurre l’educando a questa vetta. L’azione formativa risulta dunque una continua interrogazione ed esortazione. È molto interessante la considerazione di Calò, secondo cui l’Allievo puntava ad un’azione educativa che «correggesse con un movimento centripeto verso il nucleo più profondo dell’io il movimento centrifugo verso l’esterno, che sapesse fare procedere l’educazione dal di dentro, non dal di fuori». 209. In questo «stare in sé» l’uomo scopre una dimensione infinita che lo interroga, lo spiazza. La persona sente in sé il richiamo di un’alterità misteriosa ma a cui si sente inesorabilmente legato: «Dovunque si muova l’educazione trovasi in faccia all’infinito sempre, perché l’educando è persona finita sì, ma che pur si muove e gravita verso l’infinito». Su questi presupposti, Allievo è convinto che non si possa negare l’educazione religiosa ai giovani: «La coltura impertanto dell’intelligenza, e dell’attività volontaria va ordinata a Dio. Così la personalità finita dell’educatore e dell’educando si regge sulla personalità infinita di Dio, e trova in questa la sua ragion di essere, del pari che la sua cagione efficiente. Educazione vera non è, che non sia personale sotto entrambi questi riguardi. Il materialismo, che spegne nel fango la personalità dell’uomo, l’ateismo, che nega a Dio la sua personalità infinita, il panteismo, che nega all’uomo ed a Dio una personalità loro propria per confonderli in una medesima sostanza, conducono ad un’educazione disumana, omicida, perché è negazione della persona. La formazione del carattere, intorno alla quale si travaglia tutta l’arte educativa, torna opera impossibile, ove non si regga sulla personalità dell’essere infinito»210. Strettamente legato alla questione della vocazione umana ed educativa, è il concetto di «carattere», con cui Allievo riprende un tema caro ad altri pedagogisti cattolici e non. Il carattere è definito come «quello stampo, o quell’impronta speciale, che configura 207 Ibid., pp. 84-85. 208 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 106. 209 G. Calò, Dottrine e Opere, cit., p. 25. 210 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 31.  62  ciascuna natura umana»211. Con questo concetto intende l’universalità dell’essere persona nella particolarità del singolo. «L’alunno accoppia in sé l’umanità comune a tutti i suoi simili, e l’individualità propria di lui solo»212. Un altro passo chiarisce tale relazione: «il genere (umano) vive nell’individuo sotto forma del carattere»213. È compito dell’ufficio educativo riconoscere e far fruttare l’individualità della persona214. Secondo l’Allievo: «l’uomo di carattere è colui, che pensa con verità e colla propria testa, è arbitro del suo operare e conforma le sue azioni esterne coi suoi interiori convincimenti, sempre mirando all’ideale divino della perfezione»215. Ma per condurre al vero carattere bisogna educare, non basta istruire. Allievo definisce l’educazione del carattere come il «punto di gravitazione» e l’ «apogeo»216 dell’educazione. All’educatore spetta il riconoscere il carattere dell’alunno, la sua coltivazione, e l’aiuto verso la vocazione personale di ciascuno. Così «Il fanciullo è persona, cioè sostanza individua, che in sé armonizza la virtù conoscitiva, fonte della vita operativa, congiunta con un organismo corporeo, sede della vita fisica e ministro della vita spirituale. La vita speculativa si sviluppa mercé l’acquisto del sapere, oggetto dell’educazione intellettuale, la vita operativa mercé la formazione del carattere, compito dell’educazione civile, morale, religiosa, la vita fisica mercé il rinvigorimento, la salute e la destrezza del corpo, termine dell’educazione fisica; e tutte e tre queste forme di educazione deggiono armonizzare insieme, come armonizzano dell’unità dell’umano soggetto le tre forme di vita umana»217. Il carattere va educato sin dalla prima infanzia, e in esso l’esempio è il principale fattore218. L’apice della formazione è il carattere morale, vale a dire la libertà dell’uomo di obbedire esclusivamente alla legge morale insita nell’uomo. Allievo considerava il rispetto e obbedienza a questa legge, come il compimento della libertà, che certo non riteneva essere un arbitrio assoluto del 211 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 357. 212 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 336. 213 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 357. 214 «La formazione del carattere è opera nostra, sebbene abbia suo fondamento in natura, e le occorra il sussidio dell’arte educativa» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 50. 215 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 4. 216 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 322. 217 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 31. 218 «Il carattere morale non forma lì per lì come per incanto nell’età virile; ma, come ogni opera grande e duratura, che sorge da piccoli inizii, esso fa le sue prime prove nella puerizia, e progredisce con lento lavorio sino alla compiuta sua forma mediante l’opera concorde dell’alunno, del maestro, dei genitori, durante tutto quel lungo periodo educativo, che dalla prima puerizia si stende sino al termine della gioventù» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 91.  63  soggetto219. Il pedagogista vercellese è, infatti, convinto che «Volere liberamente il dovere, ecco, secondo me, la formula di tutto l’ordine morale»220. Per un’educazione efficace è imprescindibile lo sviluppo della capacità di volere e seguire ciò che è bene. «La dignità umana rifulge nel carattere. Plasmare nel fanciullo il carattere dell’uomo, che esprime la santità della vita in sé, nella famiglia, nella patria, questo è dell’arte educativa il supremo, altissimo ufficio»221. Parlando dell’insegnamento in classe dice che «ogni atto educativo dev’essere un’affermazione, un’impronta della sua individualità personale. Così si forma il carattere, così l’alunno impara a diventare uomo maturo di senno, esperto della vita, arbitro delle sue sorti»222. L’ultima opera dell’Allievo, datata 1913, è dedicata allo studio comparato tra Giobbe e Schopenhauer. Contrapposto al nichilismo, al pessimismo, e al disimpegno del secondo, Giobbe rappresenta la vera statura umana, colui che nonostante le circostanza si spende per la verità. Osserva Allievo: «L’operosità della vita, perché si compia con efficacia, con dignità e decoro, richiede in noi la coscienza della nostra libertà personale rivolta ad un ideale supremo, il sentimento della nostra propria vigoria, il voglio imperioso dello spirito pronto a lottare contro le difficoltà, gli ostacoli, con imperturbabile costanza sino al sacrificio, riverente a quanto si presenta di grande, di nobile, di sacro, di divino»223. L’Allievo critica la riduzione dell’intervento educativo all’istruzione, riprendendo una battaglia tipica della pedagogia spiritualista. Sulla base dell’antimetafisica e del relativismo etico di certo positivismo, più di un pedagogista ridusse il compito dell’educazione all’istruzione, estromettendo dai suoi compiti la formazione del carattere, e quindi dell’autocoscienza e della libera volontà. Tale approccio ha come premessa fondamentale la convinzione che non ci sia nulla di vero, e quindi di insegnabile, fuori dalle asserzioni scientificamente dimostrabili. A questo proposito può essere utile richiamare un aneddoto raccontato da Allievo riferito ad una visita di Padre Girard all’Istituto del Pestalozzi: «Nell’atto che il Padre Girard stava visitando l’Istituto di lui, egli uscì fuori con queste parole: “È mio intendimento, che i miei 219 Per queste posizioni fu criticato da Santoni Rugiu: «L’Allievo ha della moderna pedagogia una concezione normativa (come sempre, d’altronde, nella concezione cattolica), la vede cioè non come un’indagine libera e obiettiva sulla natura e sulle condizioni reali in cui si svolge la formazione dei soggetti, ma come l’elaborazione di un insieme di indiscusse norme, appunto, che guidino alla perfezione morale e spirituale. Guai a lasciarsi travolgere dal «gran movimento sociale» e ritenere che esso indichi sempre la via del progresso e della civiltà» A. Santoni Rugiu, Storia sociale dell’educazione, Milano, Principiato, 1987, p. 528. 220 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico,cit., p. 89. 221 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 18. 222 G. Allievo, Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, in «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 687. 223 G. Allievo, Giobbe e Schopenhauer, Torino, Tipografia Subalpina, 1912, p. 41.  64  alunni non tengano per vero, tranne ciò solo, che possa essere loro dimostrato come due e due fan quattro”. Al che il Girard rispose: “Se io fossi padre di trenta figli, nemmeno un solo ve ne affiderei ad essere ammaestrato, perché non vi verrà mai fatto di dimostrargli come due e due fan quattro, che io sono suo padre, e che egli è tenuto di amarmi»224. Le parole di Padre Girard erano utili a spiegare quali fossero i rischi dell’ipertrofia della ragione scientifica e matematica. Limitando il veritativo al «misurabile», infatti, si escludevano dall’educazione tutta una serie di apprendimenti e principi morali indispensabili alla vita e alla formazione del carattere. Anche su questo punto Allievo esorta a distinguere ma senza dividere. L’educatore deve far crescere tutte le capacità umane, sia quelle del «cuore» che quelle della «mente». Era convinto che «la natura non si riforma, bensì va riconosciuta e rispettata»225. E la natura della persona non può essere ridotta alla pura istruzione, ma ha bisogno della certezza morale, dei principi, dei criteri per distinguere bene e male. I. 6. Critica all’idealismo e al positivismo Una parte considerevole delle opere di Allievo è destinata alla critica dell’idealismo e del positivismo. A tali correnti, sin dai primi lavori, Allievo addossò le responsabilità della profonda «crisi»226 e confusione che ammorbava la filosofia italiana. Oltre ad una lunga serie di studi dedicati a questi sistemi, anche negli altri saggi di Allievo appaiono frequenti incisi polemici contro queste teorie. Calò ha rilevato come questa ricorrente confutazione e polemica del positivismo e dell’idealismo, rappresentò un tratto specifico del pensiero del pedagogista vercellese «L’atteggiamento critico contro le due correnti suddette forma la preoccupazione costante e costituisce, insieme con il principio della personalità, svolto dall’Allievo in tutti i suoi aspetti, il motivo fondamentale e la sostanza del suo pensiero filosofico»227. Secondo alcuni studiosi Allievo avrebbe avuto nei confronti delle teorie coeve un atteggiamento difensivo ed eccessivamente «polemista»228. Caramella, un gentiliano che certo non concordava con le critiche dell’Allievo all’hegelismo e ai suoi epigoni, fu molto severo con il pedagogista, e ne sminuì il contributo, riducendolo ad una lamentela sterile e arretrata: «Ma venendo ai risultati effettivi della sua vasta opera di più che mezzo secolo, 224 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 89. 225 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 261. 226 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 6. 227 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 4. 228 S. Caramella, Lo spiritualismo pedagogico in Italia, «La nostra scuola», n 13-14, 1921, p. 9.  65  qual è il significato storico dell’Allievo? Niente di meno ma niente di più che un’ostinata battaglia cattolica contro lo scientifismo, senza che dal cozzo si generasse mai una scintilla nuova»229. Una critica analoga gli venne mossa da Vidari230. È facile riscontrare nell’opera di Allievo toni duri, se non apocalittici, nei confronti di teorie giudicate dannose non solo alla pedagogia, ma anche alla vita educativa e sociale del paese. In molti saggi mancano aperture concilianti, mentre le posizioni espresse sono spesso risolute e poco inclini ad aperture. Ma, a onor del vero, va riconosciuto che le critiche portate dal pedagogista sono sempre articolate e suffragate da una conoscenza precisa degli autori e delle scuole esaminate. «L’Allievo non fa mai la critica per la critica: il suo scopo è sempre molto preciso, quello di dimostrare e di salvare certi principi e certe verità filosofiche»231. All’interno del lungo itinerario delle opere dell’Allievo possiamo distinguere due momenti. Sino agli anni ’70 dell’Ottocento, si concentrò in particolare sull’idealismo, mentre in seguito si occupò quasi esclusivamente del positivismo, data l’incipiente influenza che iniziava ad avere sulla pedagogia e filosofia italiana. Già alla fine degli anni ’60, Allievo notava come il positivismo si accingesse a dominare il clima nelle Università italiane e negli studi filosofici e pedagogici, mentre l’idealismo era destinato a restare ai margini del dibattito. Nel 1903, ricordando quel tornante storico, commentò: «Il campo filosofico era in allora combattuto da due scuole di tutto punto opposte, l’idealismo hegeliano, che andava declinando dal suo apogeo, ed il positivismo anglo-francese, che si annunziava ristauratore sovrano della scienza e della vita»232. In quegli anni, la scuola idealistica era viva quasi esclusivamente a Napoli grazie a Spaventa e Vera. Allievo, peraltro docente in una sede dove l’idealismo era quasi inesistente, si misurò criticamente soprattutto con i positivisti. Come accennato, i lavori di critica all’idealismo si concentrano in larga parte nelle opere giovanili, in particolare nei Saggi filosofici (1866) ne L’hegelismo, la scienza e la vita, (1868) e nell’ Esame dell’hegelismo (1897), un saggio più breve di quello precedente dove riprende pressappoco le stesse tematiche. 229 Ibid., p. 9-10. 230 «In tutti questi lavori la mente dell’ALLIEVO si presenta sempre nell’atteggiamento di chi, incrollabilmente fermo e sicuro nelle proprie convinzioni maturate in uno studio severo e diuturno, vede nell’avversario e nelle dottrine da lui rappresentate un pericolo esiziale per la società e per la scuola, in cui esse si diffondano. Onde non tanto Egli mira a penetrare ed esporre l’idea dell’avversario nella sua genesi e nelle sue eventuali giustificazioni, quanto a metterne in rilievo le deficienze o le contraddizioni o le inaccettabili conseguenze» G. Vidari, Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 231 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 447. 232 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 3.  66  Alcuni cenni polemici contro l’idealismo sono presenti anche in altri testi, tra cui L’antropologia e l’umanesimo (1868), Della vecchia e della nuova pedagogia (1873), L’Antropologia ed il movimento filosofico sociale (1869); La pedagogia e lo spirito del tempo (1878), Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia (1877) Studi filosofici sul carattere delle nazioni (1878) Sulla personalità (1878). Il testo in cui espone in modo più articolato le sue tesi contro l’idealismo è L’hegelianismo la scienza e la vita, un lavoro giudicato da Eugenio Garin «onestamente espositivo»233. L’opera fu scritta in occasione del concorso Ravizza del 1865-1866, che chiedeva agli scrittori di cimentarsi con questo tema: «Quali pratiche conseguenze derivino dall’idealismo assoluto di G. Hegel nella morale, nel diritto, nella politica e nella religione?». Il testo, che vinse il premio, fu poi rivisto e pubblicato. Nell’opera, l’Allievo delinea l’origine dell’hegelismo, mettendo in luce l’humus kantiano da cui nacque l’idealismo. Il pedagogista enuclea i passaggi che portarono dalle posizioni del filosofo di Königsberg ad Hegel. Allievo ricorda come Kant fosse allora considerato il nuovo «Socrate» per aver salvato la scienza dallo scetticismo, mentre egli pensava che il kantismo fosse stato la «tomba» della scienza e della filosofia234. L’errore di Kant fu quello di disconoscere il primo dato filosofico, vale a dire l’evidenza dell’essere. Egli perpetuò quella torsione prospettiva cartesiana che si piegò sull’affidabilità della ragione, dimenticando lo stupore e l’attestazione del mondo. Allievo osserva che l’uomo neanche penserebbe se non ci fosse quel «fuori». Così Kant aveva «condannato il soggetto ad un perpetuo e violento celibato segregandolo dalla realtà oggettiva»235. Osserva Allievo: «Scienza assoluta intorno il pensiero umano, ignoranza assoluta intorno la realtà universale, ecco i due poli del Criticismo di Kant, la finale risposta che egli diede alla sua prima domanda. Con questo suo sistema originale Kant reputava di avere ricostrutto su salda base il sapere speculativo, e quetati una volta i dissidii che da secoli sconvolgevano il regno della metafisica: Ubi solitudinem faciunt (direbbe qui Tacito), pacem appellant»236. Ma se lo scopo di Kant era quello di salvare la scienza, egli superò lo scetticismo di Hume, in quanto non riuscì a riconoscere il senso e i motivi della scienza metafisica. E ciò fu confermato dagli sviluppi successivi della filosofia. Nei cinquant’anni trascorsi tra la pubblicazione della Critica della Ragion Pura, 1781, e la morte di Hegel, 1831, la Germania visse un radicale cambiamento culturale. Dallo scetticismo di Kant si arrivò attraverso Fichte e Schelling, all’affermazione dell’idealismo 233 E. Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, cit., p. 56. 234 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 22. 235 Ibid., p. 31. 236 Ibid., p. 29.  67  assoluto di Hegel, che secondo Allievo non fa altro che trarre le nefande conseguenze di quel divorzio tra l’io e il mondo, che se aveva portato Kant allo scetticismo, conduceva Fichte alla tesi dell’Io assoluto, origine e creatore del mondo. Si trattò di una deriva di quelli che chiamò in un altro testo i «trascendetalisti tedeschi», i quali «estendendo fuor di misura il potere dell’io umano, lo posero creatore dell’essere e del sapere, e finirono collo spogliarlo della soggettività ed individualità sua, confondendolo col massimo degli universali»237. Nel saggio Allievo dedica diversi capitoli a questi passaggi, concentrandosi dopo Kant, su Fichte e Schelling. In ultimo affronta in modo analitico la figura e la filosofia di Hegel, introducendo il suo pensiero con un’accurata esposizione della vita, oltre che un’analisi degli apporti e delle influenze che ne condizionarono il pensiero. Successivamente, ne enuclea il sistema filosofico, con un’analisi articolata. Allievo parte dal concetto generale di filosofia, quindi affronta il metodo dialettico, il concetto dell’Idea e il suo sviluppo nel Sistema. Poi tratta della Logica, della filosofia della Natura e infine della filosofia dello Spirito. In conclusione sintetizza i motivi della critica all’idealismo. Il seguente brano compendia la critica di Allievo: «Il nome di Idealismo assoluto con cui viene designata la dottrina di Hegel, ne rivela tutto lo spirito e ne compendia il contenuto. Il suo sistema è tutto in queste due parole: Idea assoluta, od in altri termini Idea e sviluppo, giacché l'essenza dell'Assoluto è un esplicamento universale, un moto continuo e senza fine. Come per Condillac tutto è sensazion trasformata, così per Hegel tutto è Idea trasformante. L'idea essendo assoluta si fa tutte le cose, e con questo suo diventare universale spiega successivamente tutto l'essere, perché riproducendolo rivela le intime essenze delle singole cose, sicché l'Idea assoluta si manifesta ad un tempo siccome il sistema della scienza e l'insieme della realtà, identità universale delle idee e delle cose, del pensiero e dell'essere. Datemi materia e moto, diceva Cartesio, ed io creerò l'universo. Hegel pigliando in senso trascendentale il motto cartesiano avrebbe potuto ripeterlo dicendo: Datemi Idea e sviluppo, ed io vi ridarò rifatta e spiegata la realtà universale»238. L’identificazione dell’essere con l’idea conduceva l’idealismo a numerose antinomie ed epicicli, elencati dall’Allievo. Il pedagogista fa notare come Hegel, mentre tacciava di misticismo i realisti, chiedeva un atto di fede nel riconoscimento dell’Io assoluto. In conclusione, Allievo ripropone la ragionevolezza del realismo. Secondo il pedagogista vercellese, il reale anticipa, sporge e supera il razionale. Una frase dell’Amleto di 237 G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p. 18. 238 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 59.  68  Shakespeare è ripresa dall’Allievo come legge della filosofia, «v'hanno cose e in cielo e in terra di cui le nostre filosofie non si sognano neppure»239. La diaspora degli hegeliani e le numerose critiche fattegli dai suoi discepoli evidenziano tanto il fascino della prospettiva hegeliana, quanto la sua fragilità. L’errore cruciale dell’idealismo è la negazione della validità di quella serie di evidenze e strumenti che l’uomo ha nel suo naturale rapporto con il mondo: «il sistema dell’identità assoluta contraddice ai pronunciati della coscienza e si oppone ai dati del senso comune e del sapere naturale; dunque è insussistente»240. Per questa ragione, Allievo definisce Hegel come uno «spietato Torquemada del senso comune»241. Il pedagogista riprende l’analisi rosminiana e considera gli idealisti fondamentalmente degli scettici. Osserva: «La scienza è la spiegazione razionale della realtà sussistente: ora la realtà va anzitutto schiettamente osservata quale si presenta alla nostra percezione, e non già indovinata a priori e ricercata attraverso le pieghe del nostro cervello. Una teoria della realtà, costrutta col puro ragionamento e non fondata sull’osservazione, non è scienza seria e verace, ma un tessuto di astruserie, che potrà tutt’al più dimostrare la potenza immaginativa di chi l’ha costrutta. L’idealismo trascendentale germanico de’ tempi nostri ha sacrificato l’osservazione della realtà al puro ragionamento. Esso ha preso le mosse dal concetto più astratto, a cui si possa giungere ragionando, e colla virtù di quel concetto vuoto ed indeterminato pretese di costruire la realtà universale»242. Prima Gentile243 e poi la Quarello244, criticarono all’Allievo una conoscenza poco approfondita di Hegel. Se non si può considerare il pedagogista vercellese tra i massimi studiosi di Hegel, dai suoi lavori emerge un confronto nel merito con il cuore delle posizioni idealiste. Altri autori, come il Suraci, parlarono dell’opere sull’Hegelismo come «una critica quanto mai acuta e serrata»245. Anche per altre teorie, Allievo non bada ad una erudizione pedante sulle vicende di una corrente, ma al cuore e al significato delle sue principali direttrici filosofiche. Come è già stato accennato, dopo alcuni lavori dedicati all’idealismo, Allievo diede largo spazio alla critica del positivismo, che occupò gran parte della sua attenzione nella sua carriera seguente. Il pedagogista si accorse della rapida diffusione del positivismo nelle Università. Uno degli atenei in cui tali teorie presero piede e si diffusero era proprio quello 239 Ibid., p. 143. 240 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 6. 241 Ibid., p. 372. 242 G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p. 33. 243 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, cit., p. 370. 244 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., pp. 128-129. 245 V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 84.  69  di Torino, che era stata sino a pochi anni prima una roccaforte del rosminianesimo e dello spiritualismo cristiano. Come ha ricordato Giorgio Chiosso: «Proprio a Torino la cultura positivista stava compiendo il massimo sforzo con Moleschott, Lessona, Lombroso, Mosso per tracciare una antropologia incentrata su esclusivi tratti fisio – psichici e fortemente condizionata dalla cultura evoluzionista»246. Come ebbe a scrivere Norberto Bobbio, Torino rappresentava sul finire dell’Ottocento «la citta più positivista d’Italia»247. Allievo individuava come ragione della diffusione di tale corrente un forte appoggio politico, che era diventato come abbiamo già rilevato, il braccio ideologico dei gruppi anticlericali che spesso sedevano nelle poltrone più importanti del neonato Stato italiano. Il pedagogista aveva una chiara percezione di tale egemonia e non mancò di denunciarla. Scrisse a proposito «Il partito iperdemocratico, che nei lontani sfondi della rivoluzione italiana del 47 appena s’intravvede indistinto e sfumato, prese a poco a poco forme più spiccate e concrete, e fattosi potente tende oggidì a tenere esso solo il campo. Esso novera potenti ingegni fra i suoi numerosi seguaci, che ne bandiscono i principii dalle cattedre universitarie, dalle tribune parlamentari, dalle officine della pubblica stampa. La sua arma è la critica, il suo dogma supremo è l’umanesimo sociale, ossia il naturalismo pagano razionalizzato. E la critica, dacché fu inaugurato il Regno dell’Italia una, si spiegò con forze maggiori che mai. Essa si pose ad abbattere il principio di autorità nell’ordine del pensiero e della vita, a dissolvere le credenze morali e religiose dell’universale, a minare le fondamenta di tutta la dommatica del cristianesimo, a snaturare l’indole nativa e tradizionale della filosofia italiana»248. Nonostante il peso del positivismo fosse riscontrabile già nei citati dibattiti del ’47, fu solo con l’Unità che ai positivisti fu concesso quello spazio privilegiato col quale poterono diffondere le loro teorie e avere una inaspettata diffusione. Come denunciò Allievo: «Ai seguaci e promotori della nuova scuola pedagogica il Governo prodiga la pienezza de’ suoi favori, e sotto la potente sua egida assicura il trionfo»249. Se i capi scuola europei del positivismo meritarono, da parte dell’Allievo, delle analisi approfondite e alcuni, rari, apprezzamenti, la valutazione degli epigoni italiani fu molto severa. Essi vennero ridotti al rango di semplici ripetitori di autori più organici come Spencer, Comte, Bain. Allievo si limitò ad affrontarne in modo sbrigativo la produzione positivistica italiana nel saggio La pedagogia italiana antica e contemporanea (1901). In 246 G. Chiosso, L'interpretazione rosminiana di Giuseppe Allievo, «Pedagogia e vita», n. 6, 1997, p. 152. 247 N. Bobbio, Introduzione, in E. R. Papa (ed.), Il positivismo e la cultura italiana, Milano, Angeli, 1985, p. 13. 248 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., pp. 161-162. 249 Ibid., p. 168.  70  esse il pedagogista si lasciò andare a valutazione in parte ingenerose e tranchant. Affrontò le teorie di Angiulli, Siciliani, Gabelli, e di altri pedagogisti minori. Il primo è considerato il «principe» fra i cultori del positivismo in Italia. Viene definito come un «pensatore robusto e profondo, ma non originale»250 che ricalca fondamentalmente le posizioni di Spencer, e dunque tutti i suoi errori. La riduzione spencieriana dell’uomo ad un animale, mina le basi del pensiero di Angiulli: «Lottando contro la realtà dell’io, che egli ha negato e che s’impone inesorabile al suo pensiero, si vede costretto a ricorrere ad una novità di linguaggio, ad una dicitura attortigliata ed involuta, ad un ritornello di espressioni stereotipate, che spargono una nebulosa caligine sul tutt’insieme della sua dottrina»251. Un altro errore a cui lo conduce la negazione del principio della personalità è la statolatria nel campo dell’istruzione pubblica. Pietro Siciliani è invece accusato di eclettismo e di aver mal combinato istanze inconciliabili, producendo un sistema contradditorio e instabile. In una prelazione risalente al 1882, rammentò il cambio di opinione sul positivismo, prima criticato e poi elogiato252. Del sistema del Siciliani l’Allievo denunciò l’incapacità di giustificare sui presupposti positivisti l’esistenza della libertà e i fondamenti della morale. Negli Opuscoli lo accusa di trasformismo e scrive che «muta di dosso i panni a tenor della moda»253. Stando ad Allievo, questa «accozzaglia» di principi spuri condanna alla mediocrità la pedagogia del Siciliani: «Egli non si afferma né spiritualista, né materialista, né idealista, né ontologista, né trasformista, né positivista, e lascia capire che vuol essere qualche cosa di più e di meglio di tutto ciò; ma non ci presenta un principio superiore a tutti questi sistemi, che impronti il suo pensiero e lo determini per quello che è»254. Si occupò anche di altri autori come Emanuele Latino, Aristide Gabelli, Edoardo Fusco in cui rileva sostanzialmente gli stessi errori di Siciliani e dell’Angiulli. Saluta invece con soddisfazione il ritorno allo spiritualismo di Ausonio Franchi, al secolo Cristiano 250 Ibid., p. 169. 251 Ibid., p. 174. 252 Nel saggio cita direttamente le parole di Siciliani e poi le commenta: «“Troppo scettici, noi Italiani abbiamo bisogno di fede: troppo anneghittiti dal positivismo, abbiamo bisogno di sacro entusiasmo nella scienza, nell’onestà, nell’onore, nei principii di giustizia, nell’attività del lavoro, nell’autorità creata da noi stessi, nell’Italia. Possiamo dunque accettare il Positivismo? No. Inteso come sistema, il Positivismo è dottrina assolutamente negattiva, non ha storia, non ha principii; è contrario allo spirito filosofico di nostra età, è dannevole nelle sue applicazioni morali, estetiche, politiche, religiose, storiche. Nol possiamo accettare come sistema, perché contrario alla nostra istoria, alla mente dei nostri padri, all’indole nostra, al nostro genio, alle nostre tendenze, contrario ai nostri bisogni fisici e intellettuali [in nota: P. Siciliani, Critica del positivismo]”. Chi pubblicava or non è molto queste righe contro il sistema positivistico, è quegli stesso, che oggi ha inalberato il vessillo del positivismo dlla sua cattedra di pedagogia in una celebratissima Università italiana, mutando dottrine con quella leggerezza medesima, con cui altri muta di dosso i panni a tenor della moda» G. Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, Torino, Marino, 1882, pp. 14-15. 253 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 122. 254 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 177.  71  Bonavino, di cui esalta le Lezioni di pedagogia che viene indicato come un testo fondamentale per la pedagogia spiritualista. Le considerazioni dell’Allievo restarono severe. Valuto le teorie positiviste «disumane e liberticide»255. Inoltre avversò una certa indifferenza degli epigoni di Comte che sembravano sordi agli appunti delle altre correnti pedagogiche. In più d’una occasione Allievo lamentò la loro indifferenza alle critiche, oltre alla poca onestà intellettuale256 Come già accennato, i suoi studi si concentrarono soprattutto sui fondatori del positivismo europeo: Comte, Spencer, e Bain. Le sue numerose opere dedicate a questa corrente, rappresentano una prima sistematica reazione dello spiritualismo italiano al positivismo europeo. Il lavoro più preciso e sistematico su tale corrente è Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), definito dalla «Civiltà Cattolica» come una «splendida e serrata critica di questo sistema»257. Nella prelazione tenuta per l’anno accademico 1881-1882, Allievo annunciò che durante il corso sarebbe sceso «nell’arringo a combattere il positivismo riguardandolo siccome una larva ingannevole della scienza, siccome un pericolo esiziale della pedagogica»258. Nel solco di quelle lezioni pubblicò poi il lavoro. L’opera si divide in due parti principali: nella prima tratta delle origini del positivismo e ne mette in discussione i fondamenti filosofici, nella seconda critica le conseguenze pedagogiche ed educative. Allievo identifica come causa prima del positivismo, la stessa dell’idealismo, vale a dire la crisi della metafisica avvenuta con la modernità, che Kant sancì nella Critica della ragion pura, sostenendo la sostanziale inconoscibilità del non sperimentalmente. Il metodo scientifico si dogmatizzò, pretendendo di estromettere dalla conoscenza e dalla vita privata e pubblica tutto ciò che non è misurabile. Il positivismo si configurò come una nuova prospettiva epistemologica, metodologica e antropologica, fondata sulla negazione di tutte le conoscenze non verificabili sperimentalmente. In questo senso, si oppone a qualsiasi 255 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. I. 256 Nel saggio su La scuola educativa, Allievo riporta una critica fattagli da Fornelli che nel testo La pedagogia e l’insegnamento classico, accusò il professore vercellese di aver travisato le posizioni di Comte. Dopo essersi difeso, critica anche una evidente storture delle sue posizioni, avendolo assimilato all’idealismo: «Ma il più grosso abbaglio del mio critico è questo: io non sono punto quell’idealista, che egli s’immagina mostrando di non aver letti i miei lavori filosofici, o di averne frainteso il significato malgrado la loro conveniente chiarezza. Mi additi un solo passo, da cui risulti che io ripongo le origini prime del pensiero in concetti astrattissimi, anteriori e superiori ad ogni realtà concreta e sussistente, ed io mi do’ per vinto» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 218. 257 Linee di pedagogia moderna, «La Civiltà Cattolica», quaderno 1565, 1915, vol. III, p. 542. 258 G. Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, cit., p. 15.  72  considerazione metafisica, di cui è «la sua negazione assoluta ed esclusiva»259. In questo rifiuto consiste, per il pedagogista vercellese, anche «il carattere direi negativo del positivismo»260. Va tenuto conto, che Allievo riconosce l’apporto positivo delle scienze sperimentali e della metodologia scientifica. Senza alcun timore verso gli esiti della ricerca empirica, il pedagogista attribuisce alla scienza (non al positivismo) il merito di aver accresciuto notevolmente la conoscenza del mondo e il benessere materiale. Tuttavia, Allievo individua proprio nell’euforia per gli esiti della tecnologia la presunzione di certo positivismo. Galvanizzata dalle scoperte scientifiche: «esaltò l’esperienza sensibile siccome l’unica e suprema ed assoluta fonte di tutto lo scibile umano, rigettò tra le illusioni tutto ciò, che trascende i suoi confini, assegnò unico oggetto della scienza i fenomeni disgiunti dalle sostanze e respinse la ragione siccome facoltà trascendente che contempla la sostanzialità delle cose»261. Allievo ricorda come il metodo sperimentale non possa racchiudere tutto il campo dello scibile, pena l’esclusione di ambiti conoscitivi fondamentali per la vita umana. Rivolgendosi ai positivisti Allievo scrive: «No, la mente umana non può fermarsi ai confini dell’esperienza, come alle colonne di Ercole: i grandi problemi dell’esistenza, soffocati dalla vostra dottrina, risorgono davanti alla ragione e le si impongono irremovibili. Voi non riuscirete mai a cancellare dalla coscienza del genere umano questo indestruttibile sentimento, che noi non siamo sfuggevoli fenomeni, quasi ombre erranti alla ventura nel deserto, bensì persone vive, forniti di una ragione che trascende la cerchia dell’esperienza sensibile e si innalza alle supreme idealità della vita. Gli ingegnosi apparecchi meccanici, di cui avete forniti i vostri laboratori di psicologia sperimentale, potranno procacciarsi nuove ed interessanti notizie intorno la vita sensitiva dell’uomo esteriore, ma non ci sapranno dir nulla intorno i misteri dell’anima, il secreto lavorio della sua vita intima, le sue sublimi aspirazioni»262. La scienza esatta e sperimentale non può esaurire tutto il campo della conoscenza dell’uomo. Inoltre, secondo Allievo, l’esautorazione della metafisica dal campo dello scibile danneggia la stessa scienza. Essa, infatti, nasce da domande metafisiche, si nutre di concetti e di una logica che non può essere rinvenuta nella esperienza materiale, ma solo in quella spirituale. L’antimetafisica getta il positivismo in un paradosso: lo scientismo, 259 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 13. 260 Ibid., p. 10. 261 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 14. 262 Ibid., pp. 14-15.  73  infatti, nega le premesse della scienza. Con l’affermazione «non esistono che fatti» si esprime un giudizio generale e veritativo sul mondo, portando avanti un discorso propriamente metafisico. Scrive Allievo: «Dicono infine che, seguendo la dottrina evoluzionistica, le teorie non sono più campate in aria quali sono foggiate dall’apriorismo, ma riescono l’interpretazione oggettiva dei fatti. Sta bene: i fatti vanno adunque interpretati; ma con quale criterio? Certamente con qualche concetto o principio ideale, superiore ai fatti stessi, perché questi per sé sono lettera morta, bisognevole dello spirito, che la vivifichi e la illustri. Eccon quindi chiarita l’insufficienza dell’esperienza alla formazione della psicologia e della pedagogia»263. Il positivismo si autodefinisce teoria delle scienze positive, ma secondo Allievo, la costruzione di un sistema filosofico accede già ad una dimensione della riflessione che travalica i confini dell’esperienza empirica. Si tratta di una «astrazione» che si serve della logica, del giudizio, dell’argomento. In questo senso, se i positivisti volessero essere coerenti con le loro posizioni, dovrebbero «liberarsi da concetti «metafisici» come quelli di causalità, identità, o di non contraddizione. In questo senso, per il pedagogista vercellese, l’assoluta antimetafisica del positivismo, si traduce in un suicidio della scienza stessa: «Dacchè dunque l’antropologia studia l’uomo pensante, il quale sovrasta alla materia e possiede in sé i principi ideali necessarii alla costruzione del sapere, consegue che essa è lo spirito informatore delle discipline positive e naturali, e che il naturalismo, che la impugna, distrugge le stesse scienze della natura e contraddicendo a se medesimo fa della metafisica col proclamare che la materia è l’essenza universale di tutto, che è infinita, eterna, mentre tutto questo trascende i limiti dell’esperienza e dell’osservazione sensibile»264. Allievo giudica la posizione gnoseologica dei positivisti fondamentalmente scettica, in quanto le loro premesse conducono all’inevitabile dissoluzione della conoscenza: «Una critica priva di principii universali ed assoluti, che la rischiarino, è una critica, che pretende di essere fine a se stessa, anziché mezzo potente per giungere al Vero, ossia è criticismo scettico. Il positivismo contemporaneo ha menato un gran guasto nel campo della critica odierna, la quale è insorta a dissolvere e disfare quelle medesime verità universali, che è tenuta a rispettare siccome fondamento della sua esistenza»265. A proposito di tali nefande conseguenze, Allievo ebbe modo di criticare il Romagnosi, che vicino a posizioni simili 263 G. Allievo, Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, pp. 305-306. 264 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., p. 17. 265 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 9.  74  sosteneva che è sano solo colui che la pensa come la maggior parte dei suoi concittadini, non avendo più un riferimento metafisico su cui fondare la validità delle posizioni266. Inoltre il materialismo non può che portare ad una confusione nella scienza, in quanto se la conoscenza è un prodotto necessario dell’esperienza personale, e nasce da questa in modo spontaneo e incontrollabile, perde di significato la valutazione delle teorie che non sono né vere né false, ma unicamente frutto della determinazione. Scrive a proposito: «Ora se il pensiero è sempre di necessità quale lo forma l’esperienza, ossia quale lo esige la condizione fisiologica, in cui versiamo, allora cessa ogni distinzione tra un vero ed un falso pensiero, e così il pensiero a priori, o sarà vero anch’esso, oppure dovrebbe negarsene l’esistenza, siccome di un fatto impossibile, mentre l’evoluzionista lo piglia ad oggetto della sua critica»267. Invece l’esistenza della scienza conferma la presenza di una natura non materiale nell’uomo, solo la persona ha coscienza del mondo e cerca la verità. Un altro nodo insolubile per il positivismo è l’esistenza della libertà. La scienza esatta, come ha insegnato Kant, non può attestare la sua esistenza, e il materialismo e determinismo di certi positivisti la negano. Se l’uomo non è più libero, si chiede Allievo, come lo potrà essere la scienza? Inoltre ad Allievo pare pretestuoso l’uso della scienza contro la metafisica e la religione. Le scienze naturali «anziché escludere di loro natura la metafisica, rinvengono in questa sola la loro suprema ragione, sì che non lasciano più luogo alla filosofia positiva. Infatti, un fisico, un chimico, un astronomo, può ammettere i pronunciati del teismo e dello spiritualismo, senza punto rinunciare ad un solo dei teoremi della propria scienza (valga l’esempio di Newton, del Galilei, del Padre Secchi, del Pasteur)»268. Un'altra «vittima» del positivismo è l’antropologia, che da tale corrente viene snaturata. La negazione della metafisica ha notevoli ripercussioni sulla scienza dell’uomo, poiché getta nell’indecifrabile la sua essenza personale. Il positivista non può conoscere la vera essenza dell’uomo, in quanto la persona non può essere raggiunta e compresa nell’esprit del finesse. Scrive Allievo «Colla loro antropometria non giungeranno mai a misurare le profondità dell’anima, a scandagliare gli immensi problemi, che si agitano nelle intimità dello spirito umano»269. La persona non è rilevabile nell’esperienza come se fosse un fenomeno fisico, è riscontrabile solo nella riflessione oltre il sensibile. Occorre, stando ad Allievo, sollevarsi dal fatto, per constatare l’Io: «Il positivista vuol fatti, nient’altro che fatti, né vuol saperne di esseri individui, di sostanze permanenti. Ma il factum (e chi nol 266 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 29. 267 G. Allievo, Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia, cit., pp. 304-305. 268 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 16. 269 G. Allievo, Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, cit., p. 6.  75  sa?) è un sostantivo verbale derivante dal verbo facere, è un participio che presuppone l’ego facio, tu facis, ille facit: importa l’essere, che fa, il soggetto operante, e rompe in una contraddizione il positivista separando l’un termine dall’altro»270. Ma tale agnosticismo si trasformò presto in una negazione. Infatti, per i positivisti, «L’uomo non è una sintesi vivente di due sostanze, spirito e corpo essenzialmente distinte, eppur composte ad unità di persona, bensì un complesso di fenomeni fisiologici e psicologici, diversi di grado soltanto, ma non di essenza da quelli animali»271. Osserva nei già citati Opuscoli pedagogici: «Negli intimi recessi dell’anima, dove non penetra coltello di anatomico, dove non giunge lente microscopica di fisiologo e naturalista, si nascondono secreti che accennano all’Infinito, si destano aspirazioni, che vengono dall’alto e nell’alto ritornano. Quei secreti, quelle aspirazioni il positivista riguarda quali vani fantasmi, e lo spirito umano quale un fantasma multiforme errante fuori del mondo della realtà. Duri tempi per questi tempi»272. Così la prospettiva epistemologica dei positivisti mette in discussione la scienza dell’uomo e sfigura la persona. Osserva Allievo: «il sistema antropologico dei materialisti non è la scienza nuova, che cerchiamo, ma la negazione della scienza»273. La loro antropologia risulta dunque un grande «equivoco»274. Per questo chi approccia l’antropologia positivistica è «trascinato entro una selva intricata di osservazioni senza un’idea suprema dominante, che lo sorregga e le dia unità, anima e vita a quel tritume di particolari»275. Il miglior esponente di questa prospettiva è Spencer che enuclea tali concetti nel Primi Prinicipii, così commentati dall’Allievo: «Per quantunque la credenza nella realtà dello spirito individuale sia inevitabile, e benché sia riaffermata non solo dall’unanime consenso del genere umano, ed adottata da tanti filosofi, ma ben anco dal suicidio dell’argomento scettico, pur tuttavia non può venire per nulla giustificata dalla ragione: havvi ancora di più; allorquando la ragione è messa alle strette di pronunciare un giudizio formale, essa condanna tale credenza... di guisa che la personalità di ciascuno ha coscienza, e la cui esistenza è da tutti avuta per un fatto certissimo sopra ogni altro, è tal cosa che non può in veruna guisa essere conosciuta; la conoscenza della personalità è vietata dalla natura medesima del pensiero»276. 270 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 87. 271 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 243. 272 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 13. 273 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 13. 274 Ibid., p. 12. 275 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 58. 276 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 315.  76  Il filosofo britannico non può che giungere ad un riduzionismo antropologico. Scrive ancora Allievo: «Lo Spencer fa sua (né vi ha di che stupirne) l’osservazione di uno scrittore, che cioè a riuscire nella vita occorre primamente essere un buon animale»277. Tale prospettiva è inaccettabile per l’Allievo, secondo cui l’uomo è strutturalmente differente dal resto della natura: «L’umano soggetto, insino dal primissimo istante della sua mortale esistenza, è non solo di grado, ma di specie differente dal bruto, perché la mente, ossia l’anima razionale, che lo costituisce uomo, ei la possiede per natura, e non l’acquista punto col tempo, non la vede allo sviluppo progressivo dell’organismo corporeo. Questo giustissimo concetto pitagorico, che tanto bene risponde al sentimento naturale della dignità umana, sta diametralmente opposto alla moderna dottrina del positivismo evoluzionistico, il quale sentenzia che nel neonato l’animalità si viene a poco a poco trasformando in unità in virtù delle leggi fisiologiche dell’organismo animale, il quale, mentre nella prima infanzia della vita si manifesta mercé le sole funzioni inferiori del senso fisico e del cieco istinto, proseguendo nel suo sviluppamento, acquista la virtù di esercitare esso stesso la facoltà superiore dell’intendere, del ragionare e del volere, sicché la mente, lo spirito, l’anima razionale, che tanto ci sublima e ci differenzia dal bruto, non sarebbe già una sostanza diversa dall’organismo corporeo, bensì rimarrebbe pur sempre in fondo l’animalità stessa che funziona sott’altra forma più elevata»278. L’uomo è ontologicamente differente rispetto al resto della natura. Il positivismo al contrario «afferma che l’io umano non è un’energia vivente, un’attività libera e conscia della sua personalità sostanziale, bensì un mero complesso di fenomeni che non appartengono a nessuno»279. Queste posizioni antropologiche, denuncia Allievo, portano ad inevitabili corollari pedagogici: «ai giorni nostri e nella nostra Italia in fatto di pubblica educazione si trascorre agli estremi, sicché questa gran legge dell’armonia rimane offesa. All’educazione fisica si attribuisce una importanza esorbitante, e assai più di quanto le convenga ed in suo servizio si lavora in tutti i rami ed in tutte le guise, mentre la formazione del carattere che è di tutta l’umana educazione la parte più nobile e più prestante, giace pressoché dimenticata e negletta. Lo Spencer esaltando sopra misura la cultura dell’organismo corporeo ha asserito che l’uomo debb’essere anzi tutto e soprattutto un buon animale, ma ha dimenticato che si può essere un buon animale ed un pessimo soggetto ad un tempo»280. 277 Ibid., p. 322. 278 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., pp. 28-29. 279 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 5-6. 280 G. Allievo, Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, cit., p. 680.  77  Invece la persona è quella briciola dell’Universo che appartiene a se stessa, e a ciò deve essere educata. La persona sente, capisce e vuole. La riduzione dell’uomo ad animale compromette la morale, e cioè l’immanenza dei criteri di bene e di male e la responsabilità personale. Allievo individua le conclusioni di queste premesse nell’opera di Spencer, il quale negando la libertà, «nella sua psicologia riguarda la volontà quale una evoluzione dell’istinto fisico ed assoggetta perciò l’opera umana ad un fatale e necessario determinismo, in cui i fenomeni psichici si succedono gli uni agli altri con un intreccio indissolubile. Torna quindi inutile, anzi contrario a ragione, il pronunciare, che siamo moralmente tenuti a compiere le azioni per noi vantaggiose ed astenerci dalle dannose se esse non dipendono dal nostro libero volere, ma sono per insuperabile necessità predeterminate le une alle altre»281. Si tratta di una posizione con nefandi corollari morali e pedagogiche. «Rigettando la libertà – infatti - viene per ciò stesso a mancare ogni ragione di responsabilità morale, in quella guisa che, rovesciato un principio, cadono tutte le conseguenze sue»282. Si tratta di una corollario spesso negato dai positivisti. Allievo ben evidenzia questa contraddizione e osserva «parlano della necessità imperiosa di formare il carattere dell’alunno, di promuovere lo sviluppo spontaneo della sua attività mentale, di educarlo alla libertà di pensiero; ma in tal caso la logica li costringe ad accogliere il concetto filosofico dell’uomo, da cui discendono tutte queste conseguenze pedagogiche, e rigettare il concetto antropologico positivistico da cui fioriscono conseguenze pedagogiche diametralmente opposte»283. Si tratta di un’aporia che emerge con chiarezza nella «retorica» sull’autodidattica284. Privato della libertà e del fine, l’uomo si rifugia nell’accidia: «Vivere adunque alla giornata secondochè porta il caso fino a che venga l’unus interitus hominum et iumentorum, ecco l’unica morale a cui possa logicamente far luogo il positivismo»285. Allievo critica ancora lo Spencer quando nella sua Educazione morale, intellettuale e fisica riduce la morale a «conservazione propria diretta», una considerazione che se è 281 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 309. 282 Ibid., p. 109. 283 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 5. 284 Scrive sull’argomento: «I propugnatori della nuova scuola positivistica vanno proclamando la somma importanza dell’autodidattica e dell’educazione del carattere, e se ne fanno banditori come di una loro scoperta; ma con ciò non si avvedono, che danno una smentita alla loro dottrina, la quale facendo dell’io umano un mero fenomeno senza sostanza, e rigettando fra le illusioni la libertà dello spirito, toglie di mezzo quella personalità, per cui l’alunno colla sua interiore energia conquista le conoscenze e vi attinge la fermezza incrollabile del volere» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 13.  285 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 262. 78  spiegabile col suo darwinismo non è accettabile ai fini di una convivenza e di una prassi educativa. La vita diviene adattamento e sopravvivenza. Senza un fine ultimo non può esistere educazione, ma solo adattamento, e cioè in qualche modo abbruttimento e alienazione. Il positivismo è la negazione della vera educazione e «non ha ragione di usurpare il posto della scienza, così compromette fatalmente le sorti dell’educazione umana»286. In questo senso, non sconsacra solo la fede e la metafisica, ma anche la vita umana, la fiducia, l’amore, la morale, gli ideali. La nuova antropologia dei positivisti ha conseguenze nefaste sull’educazione. Negato il principio della personalità e il valore della libertà, l’educazione è declassata ad adattamento. Il fine della formazione si riduce all’ «allevamento» di un buon animale, il suo unico interesse e scopo dovrà essere quello di collaborare al benessere dell’Umanità. Nella prospettiva positivistica perde di significato quella formazione del carattere, della volontà, e di emancipazione dalle funzioni biologiche, in cui risiede secondo Allievo lo scopo dell’educazione umana. Anche l’istruzione, come contesta Allievo al Bain, è ridotta a comunicazione di nozioni, sempre funzionali alla produzione o alle condizioni sociali, e senza nessun riferimento all’educazione, agli ideali, ai valori. Non si bada più alla formazione del carattere, ma alle capacità cognitive, privandole però del fine e della direzione. L’educazione cessa di essere esortazione per divenire condizionamento. Il suo senso nella pedagogia positivistica viene svilito in quanto «manca il pensare grandioso, elevato, che raccoglie una molteplicità svariatissima di idee particolari in una potente ed organica unità; manca quel soffio di idealità, che innalza lo spirito dell’educatore al sentimento del suo arduo e sublime magistero»287. Oltre all’idea di libertà, di morale, e di educazione sono le stesse scienze umane che vengono ribaltate sulla base dei principi antimetafisici, materialisti e naturalisti. Allievo denuncia che «Le scienze della natura hanno usurpato il posto delle scienze dello spirito: la psicologia, la morale, la filosofia in genere non hanno più una esistenza loro propria e distinta, ma sono trasformate in altrettanti rami delle scienze naturali»288. La pedagogia vede messi in discussioni i suoi principi fondamentali: «Una scienza pedagogica senza verità universali e necessarie, un’educazione senza ideale, ecco le conseguenze, che derivano dal principio, che l’esperienza è la norma unica e suprema della disciplina pedagogica»289. 286 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 183. 287 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 27. 288 G. Allievo, Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, cit., p. 4. 289 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 8.  79  Il primo dato necessario alla pedagogia che il positivismo confonde è la natura non materiale della persona: «La nuova scuola, mentre proclama di non voler accogliere nella cerchia della scienza altro che fatti, inconseguente a se medesima rinnega alcuni fatti di singolarissima importanza. Giacché è un fatto irrepugnabile, che l’educatore e l’alunno, l’uno di fronte all’altro, sentono di essere non già meri fenomeni insieme implicati, bensì due persone vive e reali, che hanno ciascuna affetti, intendimenti e voleri suoi propri, ed affermano la loro individualità col vocabolo io; sentono di essere attività libere, consapevoli di sé, arbitre del proprio operare. Ora la nuova scuola proclama illusorii questi due solennissimi fatti, che sono il fondamento primo dell’opera educativa». L’antimetafisica mette in discussione un altro elemento necessario per la pedagogia, vale a dire l’evidenza che «L’uomo è un soggetto educabile. Questo concetto semplicissimo ed elementare trascende la sfera dell’esperienza»290, e non può dunque essere incastonato nell’architettura positivista. La persona inoltre ha bisogno di un ideale, di un fine a cui piegare la sua esistenza. «Senza ideale non si vive da uomo, non si vive personalmente; e l’ideale vero non ci viene da una scuola, la quale insegni che la vita umana si risolve tutta quanta in un gabinetto di fisiologia, non ci viene dalla nuda esperienza. Essa mi dirà quello che io sono di fatto, o integro o corrotto che io mi sia; l’ideale invece mi rivela quello che io debbo essere; quello dell’esperienza è l’ideale del momento che passa, del punto che scompare; il vero ideale abbraccia l’universalità del tempo e dello spazio»291. In un altro saggio osserva: «L’esperienza mi dice quello, che è di fatto, non quel che debb’essere; mi apprende cioè che l’uomo viene realmente educato, ma non già che lo debba essere; è dessa la ragione, che muovendo dal concetto della persona umana ne argomenta che l’educazione le è necessaria ed essenziale. Così la sola esperienza non vale a somministrarci la verità universale e necessaria dell’educabilità»292 L’educazione ha bisogno di un ideale. Questo brano sintetizza chiaramente i concetti suaccennati: «Che se il soggetto educando de’ positivisti, conscia ed arbitra di sé e cagione efficiente degli atti suoi, è niente più che una mera successione de’ fenomeni, i quali non appartengono a nessuno, ognun vede, 1° che voi farete del vostro alunno non già una libera individualità, che pensi da sé e si regga per virtù interiore, bensì un meccanismo di fenomeni insieme raccostati dalla forza dell’abitudine; 2° che la santità del dovere è sfatata e l’educazione morale torna impossibile, perché i fenomeni passano senza lasciar traccia di sé, e le nostre risoluzioni 290 Ibid., p. 6. 291 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 15.  292 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 6. 80  volontarie sarebbero una risultante di fenomeni ossia di forze meccaniche cooperanti; 3° che anch’essa l’educazione religiosa non ha più ragione di essere, perché il positivismo è la negazione della metafisica, come scienza dell’Essere assoluto, e la negazione della religione, come amore intelligente ed operoso dell’Essere divino»293. La pedagogia positivista viene inoltre criticata in quanto si fregia di aver portato fondamentali novità per la pratica educativa. Allievo chiarisce che: «I positivisti s’immaginano di avere dato alla scienza dell’uomo e della sua educazione un impulso affatto nuovo e potente, di averle impresso il suo vero indirizzo, di averla ricostruita sulle sue giuste fondamenta come se tutti i grandi pensatori, che meditarono prima di essi intorno a queste due discipline, avessero brancolato alla cieca; e tutta la riforma, della quale vanno altieri, sta nell’aver circoscritto tutto il compito dell’antropologia e della pedagogia allo studio de’ fatti umani ed alla ricerca delle loro leggi, indipendentemente da ogni considerazione relativa alla sostanzialità del me, in cui essi fatti hanno il loro comune principio, il loro punto centrale ed armonizzatore»294. Ne La nuova scuola pedagogica analizza le novità che i positivisti si prendono il merito di aver apportato alla pedagogia: metodo intuitivo, autodidattica e adattamento. Allievo fa notare come siano tutte intuizioni e nozioni assai note prima della nascita del positivismo e prima ancora della comparsa della pedagogia. Per quanto riguarda le scienze umane, Allievo contesta la trasformazione positivistica della psicologia in una branca della fisiologia. Tale critica è legata alla battaglia per la difesa della personalità umana e della sua libertà. Ciò che Allievo intendeva difendere era l’idea che i fatti psicologici non fossero solo fisici, ma fondamentalmente spirituali. Il mentale non può essere trattato come il biologico, per cui l’oggetto della psicologia deve essere l’io sostanziale e non la sua espressione fisiologica o fenomenica. Per tale motivo la psicologia deve seguire, a detta di Allievo, un metodo filosofico e non scientifico, con cui invece si può indagare l’uomo da un punto di vista anatomico o fisiologico. Così per l’Allievo «la psicologia è quella parte di filosofia, che ha per oggetto l’anima umana studiata ne’ suoi fenomeni e nel suo essere sostanziale mediante la coscienza perfezionata dalla riflessione al ragionamento»295. Tale concezione deve essere contestualizzata in un periodo in cui la scienza italiana era parecchio lontana dagli approcci e dai risultati dei laboratori psicologici svizzeri, tedeschi e francesi. Questa difesa del collocamento della psicologia nella filosofia da quanti la volevano ridotta a pura fisiologia, nacque dalla paura 293 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 409. 294 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 87. 295 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 24.  81  che tale prospettiva avallasse la riduzione dell’essere umano a un mero meccanismo biologico. Occorre inoltre far notare che Allievo tenne in grande considerazione le scienze sperimentali, anche se denunciò l’alto rischio dello scadimento della scienza in scientismo. Osserva «Non vi è amatore del vero sapere, che non riconosca e non ammiri i grandi progressi fatti dalle scienze naturali, e lo splendido avvenire, a cui sono chiamate, proseguendo per la retta via dell’osservazione sincera e compiuta dei fatti fisici, fecondata da una lenta e prudente induzione verificata mediante la prova e riprova di ben condotto esperimento. Questo successo e sicuro progredire del pensiero nella scoperta delle leggi e delle forze della natura avvantaggia le sorti dell’umanità e conferisce potentemente alla civiltà ed al perfezionamento sociale, essendochè l’uomo la fa sua rivolgendola al compimento del suo ideale. Se non che mentre per una parte il progresso delle scienze naturali conforta l’animo di liete speranze, per l’altra si nota con rincrescimento la tendenza di alcuni illustri ingegneri contemporanei a trascendere i confini proprii di esse scienze e riguardarle siccome la vera e sola scienza, a cui tutte le altre vanno sacrificate, come se in esse sole fosse incarnato lo spirito scientifico»296. Appare dunque poco fondato l’appunto mosso dalla Bertoni Jovine all’Allievo, che criticò al vercellese una presunta ostilità nei confronti della scienza e del suo valore educativo. Secondo la studiosa emiliana, per Allievo: «Tutte le scienze che si valgano di questo metodo e che inducono l’educando all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che rafforzano la fede»297. In un lavoro successivo provò a giustificare la supposta contrarietà all’insegnamento della scienza, con l’esigenza di difendere il «dogmatismo» in funzione dell’ostruzionismo al progresso sociale e civile298. 296 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., pp. 12-13. 297 D. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino, Einaudi, 1954, p. 387. 298 «Ad ogni modo, pur attraverso una prosa gonfia e nello stesso tempo reticente, è opportuno districare il filo delle argomentazioni del pedagogista torinese. Il punto sostanziale della sua polemica è la critica del valore educativo della scienza. La scuola moderna si fa un feticcio della scienza sottovalutando altri elementi formativi dello spirito umano. Ma di quale scienza parla Allievo? Lo chiarirà in una nota inviata alla Reale Accademia di Scienze di Torino. Si tratta soprattutto si quel complesso di problemi e di studi che si raggruppa sotto il nome di “sociologia” e che interessa tutti i problemi della vita moderna, compresi quelli educativi. Egli non avrebbe probabilmente trovato tanto rivoluzionarie le teorie del positivismo, dello scientificismo, dello storicismo, se tutte insieme queste nuove teorie non avessero giusitificata l’esigenza di dare un nuovo sviluppo e un nuovo orientamento alla scuola; se in altri settori della vita pubblica quell’esigenza non si fosse collegata con necessità fatte sull’analfabetismo non avessero messo l’accento sull’influsso che una struttura economica arretrata aveva sulla scarsa efficienza della scuola. In questo legame l’Allievo trova il punto più pericoloso delle nuove dottrine pedagogiche che segnavano il tramonto di quello spiritualismo al quale egli si richiamava con nostalgia. Ad esse attribuisce il fallimento scolastico italiano, richiamando gli educatori ad una maggiore prudenza nell’accettare quel metodo positivistico che  82  Nel testo Studi Psico fisiologici (1896) riprese diverse scoperte fatte in ambito sperimentale e ne valorizzò i meriti e la valenza pedagogica. In più d’una occasione dovette difenderne l’importanza per la pedagogia da quanti, come gli idealisti, ne contestavano il senso e l’utilità299. Tale avvicinamento alla psicologia sperimentale gli costò la critica dell’idealista Santamaria Formiggini che avversando l’ilemorifismo dell’Allievo vide nell’apertura alla psicologia sperimentale un tradimento della realtà spirituale:300 D’altra parte pare chiaramente inesatto il giudizio di Vidari che fa dell’Allievo un osteggiatore della psicologia, sostenendo che il principio della personalità è «anti-sperimentalista» e «anti – sociologico»301. Invece l’armonia tra il materiale e lo spirituale, il loro “accordo”, era proprio ciò a cui Allievo puntava. Le due discipline, psicologia e fisiologia, non dovevano essere confuse ma ben distinte nel comune studio sull’uomo. Scrive a proposito: «La psicologia si trova in intimo contatto colla fisiologia, ma ciascuna di queste due scienze va distinta dall’altra, perché la prima ha per oggetto suo proprio la mente co’ suoi fenomeni psichici, la seconda l’organismo corporeo colle sue funzioni vitali; e tuttavia sono unite insieme da quel medesimo vincolo, che congiunge nell’uomo l’anima razionale ed il corpo organico, e così unite costituiscono l’antropologia»302. A causa di ciò Allievo non può essere considerato come un nemico della psicologia sperimentale, ma contro quella che esclude la «natura personale» nell’uomo. La critica del positivismo e del materialismo è connessa a quella sull’evoluzionismo. Allievo fa notare come il darwinismo non sia una necessaria conseguenza del positivismo, ciò è confermato dal fatto che non fosse condivisa da autori come Auguste Comte o Stuart Mill. Nella Nuova scuola pedagogica (1905) Allievo osserva: «La nuova scuola pedagogica annovera nel suo seno alcuni seguaci dell’evoluzionismo darviniano, i quali accusano la distruggerà il metodo dogmatico [in nota: G. Allievo, L’indirizzo storico e sociologico della pedagogia contemporanea, Torino, 1908]. Tutte le scienze che si valgono di questo metodo e che inducono il fanciullo all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che rafforzano la fede» D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 221-223. 299 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 14. 300 «Forse l’Allievo si lasciò trascinare nella sua vita dal desiderio di porre la sua psicologia in maggiore armonia con le teorie scientifiche sull’emozione che allora si diffondevano in seguito all’indirizzo di studi del Wundt; volle dimostrare la possibilità di coordinare il suo sistema coi risultati della scienza più moderna; ma naturalmente non poté riuscire bene nel suo intento, perché l’eclettismo è il più difficile di tutti i sistemi» E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, Roma, A. F. Formiggini, 1920, p. 281. 301 Vidari sostiene che l’Allievo è contrario alla «psicologia fenomenistica, che è per la Pedagogia rovinosa, negando essa il principio fondamentale della sostanzialità e unità della Persona» G. Vidari, Giuseppe Allievo, cit., pp. 8-9.  302 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 26. 83  vecchia pedagogia di posare sopra una psicologia astratta e dualistica, per cui mancava di salde basi scientifiche, adoprava un metodo puramente soggettivo ed astratto e toglieva di mezzo ogni raffronto tra i fenomeni psichici dell’uomo e quelli degli animali. Tutte queste accuse presuppongono che l’evoluzionismo, a cui si appoggiano, sia una verità scientifica rigorosamente dimostrata, ma cadono l’una dopo l’altra, dacché il Darwinismo è una mera ipotesi sostenuta da pochi pensatori, che lo scambiano per un teorema scientifico dimostrato. Anche riguardato come una pura ipotesi bisognevole di conferma, l’evoluzionismo è ben lontano dallo adempiere i difetti ingiustamente attribuiti alla pedagogia filosofica e rinnovare di sana pianta la scienza educativa nelle sue basi, nel suo metodo, nelle sue attinenze sociali»303. In tale testo conferma una considerazione fatta già nel 1874: «L’alterazione della specie sostenuta da Darwin è una mera ipotesi, che va ogni di più perdendo valore e seguaci»304. Di certo la previsione è risultata sbagliata. Tuttavia, il fatto che Allievo considerasse la teoria dell’evoluzionismo come una probabilità appare giustificabile sulla base delle conoscenze scientifiche e delle prove addotte dal darwinismo alla fine dell’Ottocento. Va peraltro tenuto conto che la critica dell’Allievo fu abbastanza superficiale e incentrata su questioni filosofiche più che scientifiche (non ne aveva gli strumenti). L’idea che il pedagogista vercellese difendeva era comunque la stessa, l’irriducibilità dell’uomo alla natura. Nel testo L’uomo e la natura (1906) si interroga: «possiamo noi ammettere che la specie umana abbia avuto origine dalla materia universale diffusa nello spazio per via di una lenta e progressiva trasformazione degli organismi viventi? Lo asseriscono i seguaci dell’evoluzionismo materialistico, ma non lo hanno mai dimostrato seriamente né punto, né poco; né dimostrare lo possono perché nemo dat, quod non habet, e la materia bruta primitiva non racchiudeva certamente in sé il germe di quella sublime razionalità, che è il carattere costitutivo della specie umana. Carlo Vogt nelle sue Lezioni sull’uomo si sbraccia a dimostrare, che le diverse razze umane originarono dalle differenti famiglie di scimmie, ma ristrinse tutto il suo esame alla morfologia del cranio umano raffrontato con quello scimmiesco, e non disse verbo delle facoltà mentali proprie dell’umanità: che veramente avrebbe avuto un disperato partito per le mani, se avesse preteso che la mentalità dell’uomo è sbocciata dalla brutalità della scimmia»305 Stando all’Allievo il positivismo non è perdente solo sul piano teoretico. È la vita a condannare questo sistema. Nell’introduzione degli Studi Pedagogici, Allievo riprende il 303 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 12. 304 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 10. 305 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., p. 10.  84  romanzo di Dickens, Duri tempi per questi tempi, e cita diversi brani al fine di mostrare la confusione a cui porta il positivismo nella vita reale, infatti è inevitabile che venga svilito il compito dell’educatore, svalutata l’immaginazione, sminuito il sentimento e l’amore. Il positivismo soffoca l’esistenza. Anche se Allievo ricorda che «il cuore è tal forza che più di ogni altra della natura scoppia irresistibile quanto più lungamente e violentemente repressa»306, il positivismo conduce inevitabilmente alla «ruina e lo sfacelo della vita domestica e sociale»307. Allievo contesta anche le posizioni positivistiche sulla scuola. Critica Comte che impone alle prime classi un quadro orario composto quasi esclusivamente con materie matematico scientifiche, sminuendo quelle umanistiche. Nonostante le critiche Allievo riconosce alla nuova pedagogia anche dei meriti308. Uno degli apporti importanti del positivismo è stato quello di riavvicinare la scienza pedagogica all’analisi e all’osservazione degli aspetti empirici dell’educazione.309 Comunque se Allievo dopo gli anni ’70 risultava preoccupato per l’avanzata del positivismo, alla fine della sua carriera ebbe occasione di esultare per la sua decadenza. Nel 1909 Allievo poteva scrivere che «Il positivismo pedagogico attraversa una grandissima crisi e va via via smarrendosi in mezzo a diversi e contrari indirizzi. La mancanza assoluta di critica, la cieca fidanza si sé, il dogmatismo sostituito al ragionamento ed alla discussione, la noncuranza delle dottrine contrarie, il disprezzo della tradizione, tolgono a questo sistema ogni efficacia scientifica e segnano il suo decadimento»310. 306 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 8-9. 307 Ibid., p. 12. 308 «Nessuno mai, che abbia fior di senno, rigetterà siccome sciupato, fallito e contrario al vero tutto il lavoro della nuova scuola pedagogica. Anch’essa ha le sue parti buone e commendevoli accanto alle malsane e morbose; ha messo in bella luce alcuni punti, che non erano stati sufficientemente lumeggiati; ha posto in rilievo alcuni fatti educativi mediante un’analisi sottile ed accurata; ha dato un nuovo impulso all’educazione fisica ed alla coltura del pensiero; ma il principio fondamentale, su cui essa posa, è radicalmente sbagliato; epperò tutte le verità, che essa contiene nella sua dottrina, non le può logicamente ammettere, se non a condizione di rigettare il suo principio supremo, mentre la pedagogia filosofica le può accogliere tutte quante, perché rientrano nel principio che le è proprio» G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 9. 309 «Il positivismo (sarebbe ingiustizia il disconoscerlo) ha recato non poco giovamento agli studi antropologici coll’averli ritirati dalla via dell’incompiuto ed esclusivo metodo trascendentale dell’antica scuola e condotti su quella dell’osservazione e della storia; ma è solenne errore quel suo fermarsi alla nuda osservazione dei fatti e delle loro leggi senza punto assorgere allo studio delle origini, della natura e della destinazione dell’uomo che è causa efficiente e ragione spiegativa di quei medesimi fatti.”309 Osserva ancora: “Certamente dimostrerebbe ingiusto verso la nuova scuola chi le negasse il merito di avere efficacemente contribuito all’incremento della scienza pedagogica; ma dall’altro lato è giuoco – forza riconoscere, che nel corso delle sue indagini ha passato sotto silenzio argomenti e problemi pedagogici di altissimo rilievo» Ibid., p. 27.  310 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 6. 85  Concludendo, si può rilevare come Allievo abbia scovato nelle critiche al positivismo e all’idealismo un errore comune. Entrambe mancano infatti di realismo, e riducono sia il campo dello scibile che quello dell’esistente311. I. 7. Il contributo alla storia della pedagogia Gli studi di storia della pedagogia costituiscono una parte cospicua nella produzione di Allievo, che nella sua lunga carriera si è occupato di diversi periodi, che vanno dalla pedagogia antica greca e romana, all’itinerario della riflessione europea tra il XVIII e il XIX secolo, alla storia dello spiritualismo italiano. L’importanza data agli studi storici è inoltre confermata dal fatto che i testi in cui Allievo espone il “suo” sistema pedagogico e filosofico sono lavori di storia della pedagogia, vale a dire i Saggi filosofici, gli Opuscoli e Il problema metafisico. Tra le opere più importanti vi è il già citato Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), che non si limita ad una critica sui contenuti ma riprende con precisione lo sviluppo delle teorie pedagogiche di Comte, Spencer, Bain. Sulla stessa corrente, è particolarmente significativo il testo La psicologia di Herbert Spencer: studio espositivo-critico (1898). Al contributo della pedagogia svizzera dedica il libro: Delle dottrine pedagogiche di E. Pestalozzi, A. Necker de Saussure, F. Naville e G. Girard (1884). Un altro testo importante è Delle idee pedagogiche presso i Greci (1887). Nel 1901 pubblicò La pedagogia italiana antica e contemporanea in cui in un capitolo è riportato un testo pubblicato quaranta anni prima: Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867). Negli Opuscoli pedagogici (1909) presenta saggi su l’Helvetius, Gerdil, Jacotot, Kant, Herbart, Blackie ed altri. Importante anche lo studio sul fondatore della pedagogia moderna, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista (1910) e l’ultima opera che rappresenta il testamento pedagogico dell’Allievo: Giobbe e Schopenhauer (1912). Un altro importante contributo fu la traduzione e l’introduzione della Levana di Richter, e lo studio su Maine de Biran e la sua dottrina antropologica (1895). 311 Sui punti in comune delle due teorie scrive: «Queste due specie di umanismo filosofico hanno due punti comuni in cui convengono, ai quali corrispondono due punti di discrepanza, in cui esse differiscono. Anzi tutto entrambe concordano nel proclamare l'autonomia illimitata del pensiero umano, che nulla più riconosce oltre di sè: da ciò poi che l'attività del pensiero si spiega e come ragione avente per oggetto il mondo soprasensibile, immutabile ed assoluto delle essenze, e come esperienza la quale coglie il mondo sensibile, mutabile e relativo de' fenomeni, ne viene una ragion soggettiva per cui l'umanismo filosofico si specifica in razionalismo assoluto ed in empirismo universale. Ancora, esse convengono nel proclamare il moto indefinito delle cose e delle idee, mercè il quale l’uomo, disertando il posto segnatogli dalla propria natura, o si faccia identico con Dio, che gli sovrasta, trasumanando, o si confonda colla materia che gli soggiace. disumanandosi; e di qui una ragione oggettiva, per cui l'umanismo differenziasi in antropoteismo ed in naturalismo» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., pp. 9-10.  86  Uno dei periodi più studiati dall’Allievo fu la pedagogia del XIX secolo. Nel testo Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, (1884), innalza la scuola svizzera come un momento importante per l’intera scienza e storia della pedagogia, una scuola che seppe integrare le spinte della modernità con una prospettiva antropologica spiritualista. Un altro testo molto significativo è il già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867). Questo saggio ripercorre con precisione lo sviluppo della cultura pedagogica e della legislazione scolastica in Piemonte e in Italia, in un decennio decisivo per la costruzione della scuola italiana. Commentando questo saggio Gerini ha scritto: «La monografia, composta per incarico del Ministro della P.I., è il primo saggio di storia pedagogica scritto in Italia, che sarà sempre consultato da quanti vorranno conoscere il nostro risorgimento educativo»312. Dello stesso avviso anche Arcomano, che commenta: «È una rassegna delle situazioni, delle attività e delle opere del ventennio 1846-1866, in fatto di istruzione ed educazione, e si può considerare un capolavoro di chiarezza nella interpretazione degli avvenimenti e nella presentazione delle idee che circolavano»313, anche se poi rileva come il testo è forse troppo concentrato sulla realtà subalpina. Il testo ebbe vasta eco nel dibattito pedagogico, lo troviamo spesso citato in opere di altri autori314, abbastanza rare sono le critiche315. In questo saggio Allievo esalta i protagonisti di quella stagione come Vincenzo Troya, Agostino Fecia, Vincenza Garelli, Carlo Boncompagni. Riprende poi tutte le discussioni sulla riforma della scuola, e trova nell’esperienza pedagogica del Piemonte e della Toscana nella metà dell’Ottocento i due laboratori della nuova scuola e della nuova pedagogia. È molto significativo il peso dato dall’Allievo alla «Società pedagogica» e anche alle riviste del tempo. Questo testo, contribuì a dimostrare come fosse solo un mito l’idea propagandata dai positivisti secondo la quale la pedagogia precedente alla loro non avesse avuto nulla da dire. Allievo fa risaltare la pedagogia spiritualista risorgimentale e quel clima di liberalismo educativo che sarà tradito e defraudato dalla statolatria e dal positivismo. 312 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., p. 44. 313 A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed educazione in Italia (1860-1873), cit., p. 56. 314 Cfr. C. Uttini, Nuovo compendio di pedagogia e didattica : ad uso delle scuole e delle famiglie, Torino, Libreria scolastica di Grato-Scioldo, 1884, p. XIV. 315 Si vedano per esempio gli appunti negativi di Vidari: «Abbastanza buono per la parte della pedagogia contemporanea è il Saggio dell’Allievo, il quale porta in esso il contributo delle sue proprie memorie e impressioni; ma anche qui il senso della vita storica, cioè della interiore unità onde si collegano nel loro svolgimento le dottrine, è quasi del tutto assente, e invece prevalgono le preoccupazioni personali dell’autore» G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, cit., p. 4.  87  Senza dubbio lo studioso può essere considerato uno tra i primi storici della pedagogia italiana, e non solo per il numero dei lavori pubblicati, ma anche per la teorizzazione dell’ambito disciplinare e delle metodologie di ricerca. Allievo espone il suo pensiero circa il fine e il metodo della Storia della pedagogia nel breve opuscolo Concetto generale della storia e della pedagogia (1901), anche se accenna a tale questione in diversi altri saggi. Nel lavoro citato, parte dalla considerazione dell’educazione come fatto e concetto comune. La pratica e la teorizzazione educativa sono imprescindibili, e la scienza pedagogica si sviluppò sotto la spinta di voler vedere perfezionata l’arte educativa. In questo senso continua: «La necessità di una scienza pedagogica emerge dal difetto inerente all’inconscia educazione naturale, e quindi dall’insufficienza del suo concetto»316. Egli rivendica uno statuto epistemologico propria alla storia della pedagogia, che distingue tanto dalla pedagogia in sé, che dalla storia dell’educazione. In questa direzione critica Paroz che nella Histoire universelle de la Pédagogie non separa le due discipline317. Allievo distingue anche la storia dell’educazione in generale, vale a dire i tratti tipici dell’educazione e la sua storia universale, dalla storia dell’educazione di una particolare tradizione o società318. Nei suoi studi richiama l’importanza della precisione storiografica ed uno studio approfondito delle fonti. In particolare rimarca come la storia dell’educazione debba essere: ordinata, veridica, ragionata, compiuta. Chiede di riferirsi sempre a «fonti accurate e sicure»319. Uno degli aspetti innovativi dei lavori dell’Allievo è il peso dato allo studio del contesto e della personalità dell’autore320. 316 G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit., p. 1. 317 «La storia dell’educazione ha per ufficio suo proprio di esporre le diverse forme, che prese l’educazione presso i diversi popoli antichi e moderni; per contro la storia della pedagogia espone le origini e lo sviluppo di questa scienza attraverso le dottrine, i sistemi, le teorie de’ pensatori, che la coltivarono. [...] Per certo queste due specie di storie sono fra di loro congiunte da intime attinenze e si lumeggiano a vicenda, ma la loro distinzione va tenuta in conto per non confondere due ordini di cose affatto diversi, quali sono le idee pedagogiche de’ pensatori e le azioni educative degli istitutori» Ibid., p. 3. 318 «La storia dell’educazione, riguardata rispetto alla sua estensione, viene a diversi in universale, particolare e singolare. La storia universale si estende all’educazione di tutti i tempi dai più remoti ai contemporanei, di tutti i popoli e barbari e civili, e antichi e moderni. La particolare comprende un periodo storico generale, quale sarebbe la storia dell’educazione antica, o parte di un periodo storico, come ad esempio la storia dell’educazione dal 1500 a noi. In entrambi i casi abbraccia l’educazione presso tutti i popoli ristretti però ad un tempo determinato. È altresì particolare quella, che espone l’educazione di una nazione considerata o in tutta la durata della sua esistenza (quale l’educazione presso i romani) o in uno de’ suoi periodi storici (quale l’educazione dei romani nel periodo repubblicano). Infine è singolare, se si restringe o ad un dato secolo (come la storia dell’educazione ai tempi della rivoluzione francese), o ad un Istituto educativo, quale l’Istituto pitagorico o l’Istituto educativo di Vittorino da Feltre; ed allora piglia più propriamente nome di monografia storica» Ibid., p. 3-4; 319 Ibid., p. 4. 320 Già in uno dei primi saggi esponeva con chiarezza tale principio: «La critica ha da descrivere la genealogia del genio speculativo; ha da seguirlo in tutto il suo periodo evolutivo ricordando i sentieri e le vie riposte per cui è passato prima di giungere al suo ideale definitivo; ha da studiare il movimento speculativo dell'epoca in mezzo al quale si svolse; ha da sceverare nelle pagine della storia le idee di cui ha elementato il proprio sistema e significare come queste nel proprio sistema s'intrecciarono e vi ricevettero un'impronta peculiare e sistematica. Tale è l'ufficio narrativo della critica. Oltre a tutto questo, apprezzare nel suo giusto  88  Come la storia dell’educazione, anche la storia della pedagogia si può dividere in generale e particolare. Il suo fine non si limita ad una narrazione asettica della riflessione educativa, ma trova il suo senso nella valutazione delle teorie pedagogiche rispetto all’autentica scienza pedagogica. Scrive Allievo: «Da queste generali considerazioni intorno al come si forma e si va svolgendo la pedagogia emerge da sé il concetto della sua storia, la quale apparisce una ordinata e razionale narrazione dello svolgimento progressivo della scienza pedagogica attraverso i tentativi fatti dai pensatori di tutti i tempi e luoghi a fine di determinare l’ideale tipico dell’umana scienza»321. In particolare, sono significativi alcuni brani presenti negli Studi pedagogici (1889)322 e ne La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti (1905)323, in cui mostra come lo scopo dell’approfondimento storico è strettamente connesso al fine della scienza pedagogica. L’Allievo sostiene che l’educazione possa essere studiata o nel suo svolgimento pratico o da un punto di vista speculativo. La pratica educativa può essere di tre tipi: quella che normalmente le persone attuano, quella di una determinata società, e la vera arte di educare. Come l’educazione, anche la teoria pedagogica sembra connaturale alla vita umana. Per tale motivo in ogni epoca l’uomo si è fatto un’idea circa il miglior modo di educare. Così, secondo Allievo, esistono tre tipi di teorie pedagogiche: la pedagogia volgare, quella del singolo pensatore, e la scienza pedagogica. Il compito della storia della pedagogia quello di individuare il differenziale tra quanto pensato in passato e la scienza pedagogica. La storia ha così un valore fondamentale della riflessione pedagogica, poiché propone agli studiosi interlocutori di vaglia, anche sé Allievo ricorda di distinguere la scienza dalla storia324. Il seguente brano ben lumeggia la distanza tra ciò che si è pensato e la scienza: «Fu detto che la storia universale è tutta una congiura contro la verità: nell’ipotesi che stiamo valore il punto iniziale da cui un sistema piglia le mosse, il processo a cui s'informa il suo sviluppamento, il termine finale in cui si è chiuso; pronunziare se nella storia del pensiero speculativo esso segni un periodo di sosta o di progresso; giudicare se il problema filosofico sia stato concepito in tutta la sua integrità e giustezza, e risoluto a dovere; epperò se siano state convenientemente satisfatte le esigenze del pensiero spéculativo senza punto disconoscere i pronunziati universali della sapienza comune, anzi armonizzandoli colle conclusioni della ragion filosofica : ecco l'altro ufficio della critica che discute» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 18. 321 G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit., p. 6. 322 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 28-31. 323 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 7. 324 «I cultori della pedagogia trovano nella storia una saggia maestra, che additando gli errori dei pensatori che li precedettero, da un lato, e dall’altro le verità da essi scoperte e lumeggiate, li consiglia a procedere ammisurati e guardinghi nei loro tentativi, li anima e li sorregge all’amore ed alla conquista del vero, ed allarga l’orizzonte del loro pensiero. Riconoscendo l’utilità e l’importanza della storia della pedagogia, guardiamoci però dall’ingrandirla oltre il convenevole.» G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit., p. 8.  89  discutendo, bisognerebbe ripetere, che anch’essa la storia della pedagogia è tutta una congiura contro la scienza pedagogica»325. Nel stesso saggio critica il Siciliani e il suo testo Storia critica delle teorie pedagogiche nel quale sostiene che la scienza pedagogica si fonda sulla esperienza storica dell’educazione326. Se per Siciliani la scienza pedagogica è frutto di evoluzione, per lo spiritualista Allievo la «vera» scienza pedagogica è una, e ad essa ci si può avvicinare o allontanare. Entra poi in merito a come si fa la storia della pedagogia. Spesso si è costretti a raccogliere le «idee slegate e frammentate» in opere non propriamente pedagogiche, scovando le «teorie particolari intorno a qualche punto di educazione, o sia che esse formino un tutto da sé distinto da ogni altro, o sia che giacciano implicata ed involte in opere di altra natura», ma anche «i trattati che abbracciano un compiuto sistema pedagogico, dove l’educazione è contemplata in tutta l’integrità del suo organismo, quali ce ne porge in copia moderna». Bisogna quindi studiare le opere dell’autore, i frammenti della sua opera presente in altri autori, la tradizione su di lui. «Gli scritti originali di un pedagogista sono essi soli le vere fonti, da cui si attinge limpida e netta la sua dottrina, mentre i frammenti registrati nelle opere di altri scrittori, e la tradizione scritta od orale, anziché fonti, sono rivi più o meno puri». Dai suoi scritti occorre innanzitutto cogliere in concetto centrale di un autore, cercandone poi le cause. Occorre comunque valutare la pedagogia degli autori studiati: «Ma il compito più elevato, più grave e ad un tempo più arduo della critica storica risiede nel cernere nelle esposte dottrine la parte vera dalla erronea, la certa dall’incerta ed opinabile, l’elemento soggettivo, particolare, relativo, dall’oggettivo, universale, assoluto, che solo può passare nel dominio della scienza pedagogica»327. Lo storico dovrà stare attento ad ancorarsi sempre alla scienza pedagogica328. In conclusione sintetizza così il compito dello storico della pedagogia: «Ai quattro uffici propri della storia pedagogica ora accennati fanno natural corrispondenza quattro distinte e successive forme speciali, che essa può rivestire nel suo progressivo sviluppo. La storia della pedagogia rintraccia primamente i materiali, che entrano a comporla, ed in questo suo primo studio riveste la forma di memorie e frammenti. Poi si accinge ad esporre e descrivere le raccolte dottrine, e qui assume la forma di cronaca, alla quale succede la forma di storia propriamente detta, 325 Ibid., p. 9. 326 Ibid., p. 10. 327 Ibid., p. 15. 328 «Lo storico deve scansare due estremi; da un lato la troppa fidanza di sé ed il cieco immobilismo nelle proprie idee, dall’altro l’incostanza e la volubilità del pensiero, a cui potrebbe essere trascinato dallo spettacolo di tanti sistemi diversi e contrari» Ibid., p. 16.  90  che corrisponde all’ufficio etiologico od inquisitivo, finché s’innalza alla sua più perfetta forma, quale è la filosofia della storia, che risponde all’ufficio critico e speculativo»329. Il senso della Storia della pedagogia ha appunto lo scopo di rilevare il differenziale presente sia tra i modi che le popolazioni che ci hanno preceduto avevano di educare in confronto con la vera arte di educare, sia il confronto tra le varie teorie pedagogiche e la vera scienza pedagogica. Osserva Allievo: «Quindi ancora ne consegue, che introno al medesimo oggetto conoscibile (ad esempio intorno l’essenza dell’educazione, od al suo fine, od alle sue leggi) possono darsi e si danno di fatto molte teoriche, e quel che è più le une dalle altri discordi ed avverse, mentre una sola è la scienza e sempre a se stessa concorde, perché una sola è la verità, in quella guisa che nell’ordine geometrico tra due punti dati non può correre che una sola linea retta, mentre di linee curve se ne possono condur chi sa quante». Il senso della Storia della pedagogia è analizzare i sistemi pedagogici confrontandoli con la vera scienza pedagogica. Dunque: «La storia de’ sistemi pedagogici è sostanzialmente la storia de’ tentativi felici od infelici, retti o traviati, fatti dai cultori dell’arte educativa per giungere al Vero siccome fondamento di essa; per lo contrario la storia della scienza pedagogica è la storia della Verità educativa riguardata nel suo progressivo esplicamento»330. Sulla base di questa prospettiva, i numerosi studi di storia della pedagogia di Allievo, sono un dialogo rispetto a determinati principi pedagogici con gli autori trattati, più che un’esposizione oggettiva del loro pensiero. Lo studio della storia della pedagogia secondo Allievo può condurre a una migliore comprensione dell’educazione e a quei tratti unici e particolari che la caratterizzano. Per tale ragione nelle sue ricerche spesso trova degli spunti per confermare alcune delle sue tesi o muove critiche agli altri sistemi pedagogici, in primis ai già citati positivisti. I testi sono dunque ripetutamente accompagnati da valutazioni personali, commenti, paragoni, e non pochi giudizi sferzanti. Ha scritto puntualmente Vidari «Si comprende da tutto questo come l’Allievo nei suoi studii di storia delle dottrine antropologiche e pedagogiche fosse guidato e mosso più che dal proposito di comprenderle nel loro processo di formazione, di inquadrarle nel momento storico a cui appartennero, di seguirle nei loro sviluppi, nelle loro irradiazioni e conseguenze, da quello piuttosto di saggiarle e 329 Ibid., p. 16. 330 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 6.  91  giudicarle in rapporto a quei principi fondamentali di scienza dell’educazione, che egli andò illustrando in tutto il resto della sua produzione filosofica»331. Dalle posizioni prese di fronte al «laboratorio della storia della pedagogia» si precisa ancora meglio il sistema pedagogico di Allievo. Forse anche per questo la lettura di questi testi aiuta a cogliere il cuore e le preoccupazioni pedagogiche dell’Allievo. Il tema principale su cui Allievo si confronta è per la maggior parte legato a prospettive antropologiche e alle loro conseguenze in campo educativo e scolastico. Giustamente Valdarnini osserva: «qual criterio adotta l’Allievo per giudicare della verità o della falsità delle dottrine di cui è intessuta la storia della Pedagogia? Questo: il sentimento e il concetto della dignità propria della specie umana»332. Da Seneca a Rousseau ciò che l’Allievo valuta è quale l’idea di uomo essi comunicano e difendono. Ma tale prospettiva ha secondo alcuni studiosi portato a esiti negativi. La Quarello, ad esempio, critica il fatto che certi giudizi storici siano «troppo soggettivi»333 e fa notare che alcune valutazioni dell’Allievo partono «talora da “presupposti dommatici” più che da dimostrazioni convincenti»334. Tra le altre, critica la scarsa considerazione data al Kant della Critica della ragion pratica. Di un’idea contraria è Vidari quando osserva che «alcune delle osservazioni critiche che l’Allievo muove alla dottrina morale di Kant, per quanto non nuove, sono giuste e fondate»335. Come già accennato, sempre stando alla Quarello, Allievo non avrebbe colto il contenuto della filosofia di Hegel, riducendo la portata dello Spirito e dell’Assoluto hegeliano336. Tra gli altri, il principio della libertà d’insegnamento è uno dei criteri con cui valuta le teorie pedagogiche. Nel testo Delle idee pedagogiche presso i greci la questione della libertà d’insegnamento decide della divisione degli autori. Allievo affronta prima Pitagora e Socrate, che sono considerati i difensori di un’educazione libera, e poi Senofonte, Platone e Aristotele, che considera difensori di una visione spartana e statolatrica dell’educazione. Affrontando tali autori esprime la sua idea di educazione e di libertà. Scrive: «Plutarco non separa la famiglia dallo Stato, né la confonde con esso. Per lui la famiglia non è solo un grado della gerarchia dello Stato, ma un centro, che ha uno sviluppo suo proprio. 331 G. Vidari, Il contributo di G. Allievo alla Storia della Pedagogia, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 689. 332 A. Valdarnini, Giuseppe Allievo storico della pedagogia, in Vita e mente di Giuseppe Allievo, cit., 1913, p. 56. 333 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 124. 334 Ibid., p. 124. 335 G. Vidari, Il contributo di G. Allievo alla Storia della Pedagogia, cit., p. 692. 336 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., pp. 128-129.  92  L’educazione, senza punto dimenticare di preparare il fanciullo a divenire buon cittadino, ha sovra tutto per compito suo di formare in lui l’uomo mercè il culto della famiglia»337. Sugli «avversari» della libertà scrive invece: «Platone aveva confuso la famiglia collo Stato fino ad introdurre il Governo nei penetrali del santuario domestico, e colla famiglia anch’esso l’individuo veniva assorbito nella comanza politica. Aristotele giunse a distinguere la famiglia dallo Stato, ma il suo pensiero su questo grave argomento mostrasi perplesso ed oscuro, tant’è che l’uomo in sua sentenza non è tale, perché persona individua, perché padre o marito, o figlio, ma perché cittadino»338. Un altro brano su Platone mostra la pertinenza tra il concetto di persona e quello della libertà d’insegnamento, e come la perdita del primo faccia necessariamente scivolare nello statalismo: «Il massimo e capitale errore, che falsa la politica e conseguentemente la pedagogia di Platone e scorre e s’inviscera in tutte le parti della sua teoria, questo è di avere sacrificato l’attività personale dell’individuo all’onnipotenza dello Stato, di avere assorbito l’uomo nel cittadino. La dottrina politica di Platone è un esplicito socialismo governativo: l’individuo esiste e vive in servigio esclusivo dello Stato, è niente più che una molla, un ordigno del gran meccanismo sociale, giacché nell’assoluta ed oppressiva unità della comunanza politica si perde ogni libertà personale. Epperò l’educazione riesce essenzialmente ed onninamente politica, mentre dovrebb’essere primamente e sostanzialmente personale: l’umana persona, spogliata della sua dignità finale, viene educata come semplice mezzo e strumento della civil società»339 . Concludendo la parentesi greca scrive: «Lo Stato adunque non prevale sull’individuo, bensì gli sottostà come effetto della sua cagione; e quando Aristotele a sostenere la supremazia naturale dello Stato sulla famiglia e sui singoli uomini osserva, che il tutto trionfa sulla parte, perché distrutto quello, anche questa vien meno, possiamo ritorcere il suo argomento contro di lui avvertendo che la parte congregandosi con altre parti, forma essa il tutto, e se quella scompare, anche questo ruina. In una parola non l’individuo è fatto per lo Stato, bensì lo Stato è fatto per tutti e per ciascuno, epperò l’educazione debb’essere umana e personale, prima che politica e civile»340 In alcuni punti le valutazioni dell’Allievo sono decisamente esagerate. Nel testo su Giobbe e Schopenauer apre una parentesi molto sommaria contro il popolo ebraico341, rasentando il razzismo. In altre occasioni il suo giudizio è palesemente sproporzionato. 337 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 163. 338 Ibid., p. 162. 339 Ibid., pp. 131-132. 340 Ibid., p. 148. 341 G. Allievo, Giobbe e Schopenhauer, cit., pp. 36-37.  93  Come quando nell’introduzione al lavoro su Delle idee pedagogiche presso i greci (1887) osserva «Pitagora e Socrate ci appariscono gloriosi campioni di una pedagogica, che si muove libera di sé, franca da ogni ressura governativa, sorretta da un ideale divino, che consacra la persona, santifica il dovere, suggella l’immortalità della vita personale. Platone ed Aristotele ci si mostrano fautori dello Stato educatore, che disconoscendo ne’ singoli uomini la dignità della persona individua, trae con sé a perdimento tutta la Grecia»342. Anche Santamaria Formiggini contesta all’Allievo la scarsa precisione su taluni lavori, in particolare fa riferimento agli studi su Rousseau ed Herbart. Inoltre sostiene che l’Allievo non riuscì a «penetrare oggettivamente nel pensiero degli autori che studia e che critica»343. Però poi ammette che «Come pedagogista egli lascia a grande distanza gli altri per la larga informazione storica, che è uno degli elementi essenziali per la trattazione ponderata ed illuminata delle questioni educative, è condizione per un vero progresso delle teorie. Egli può considerarsi veramente uno dei primi pedagogisti che abbiano indirizzato gli studiosi italiani a mettere in raffronto e in rapporto i loro studi con i risultati del pensiero pedagogico straniero, perché dai confronti scaturisca più viva e più nuova la verità, perché si evitino ripetizioni di teorie discusse e superate»344. Oltre ad imprecisioni, i lavori dell’Allievo risultano approfonditi e curati. Lo studio su Rousseau criticato dalla Formiggini, è ricco di riferimenti bibliografici ma soprattutto offre una chiave di lettura molto interessante del pensatore ginevrino non temendo di evidenziarne i pregi, ma anche le contraddizioni, le ambiguità e i rischi. Non pensiamo di essere lontani dal vero affermando che nonostante la sterminata bibliografia sull’autore dell’Emilio, il libro di Allievo risulta ancora oggi ricco di spunti e di considerazioni. Il merito di Allievo come storico della pedagogia emerge ulteriormente se paragonato ai lavori coevi di storia della pedagogia, dai quali si distanzia per riferimento alle fonti e immedesimazione. Senza dubbio si può affermare che Allievo può essere considerato uno tra i primi storici della pedagogia italiani. I. 8. La scuola educativa 342 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. II. 343 E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, cit., p. 12.  344 Ibid., pp. 322-323. 94  Nel corso della sua carriera, Allievo diede ampio spazio alla riflessione sulla scuola, cui attribuiva un ruolo decisivo per il destino delle nazioni345. Se riferimenti e accenni su questioni scolastiche sono disseminati in molti dei suoi libri, in un saggio del 1904, La scuola educativa, è presente una sistematizzazione più articolata e completa delle sue posizioni. Riflettendo sulla funzione di questo istituto, Allievo racchiude le questioni più importanti del problema in quattro semplici domande: «1° in servizio di chi è ordinata la scuola? 2° a chi spetta il diritto di governarla? 3° in quale giusto rapporto deve serbarsi colla famiglia e colla società? 4° come debb’essere organata l’educazione e l’istruzione nella scuola?»346. Allievo è convinto che l’autentico e principale scopo della scuola sia lo sviluppo perfettivo della persona nella sua totalità. Caratterizzata da una appassionata ricerca della verità e del bene dell’alunno347, auspicava fosse animata da un vero «culto della personalità dell’alunno»348. Contro il determinismo di certa didattica, sosteneva l’idea di una scuola in cui il rispetto della vera libertà potesse divenire il fine e lo stile della vita educativa349. Su queste prospettive invocò una convergenza dell’istruzione e dell’educazione, che dovevano coabitare e collaborare in vista di uno sviluppo integrale della personale350. La conoscenza e l’educazione, dovevano potenziarsi a vicenda. In questo senso considerava l’istruzione anche come un aspetto necessario per la formazione solida del carattere351. 345 «La casa dunque, il tempio, la scuola sono i tre grandi centri dell’umana coltura, i tre solenni convegni sacri alla comune educazione. La scuola segnatamente apparisce il santuario del sapere, il tirocinio della vita sociale, il vivaio della civiltà; epperò essa racchiude nelle sue modeste pareti le sorti di un popolo e collo splendore o coll’oscuramento del suo ideale segna i giorni di grandezza o di decadenza di una nazione. Dall’importanza massima della scuola agevolmente si misura la necessità di formarcene un concetto adeguato e verace, che risponda al suo intimo organismo ed al suo ideale» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 68. 346 Ibid., p. 69. 347 «La scuola è luogo sacro al culto del Vero e del Buono, ciò è dire è il santuario della sapienza, essendochè questa congiunge in sé il lume speculativo della scienza e la pratica onestà della vita. Oggidì il carattere educativo della scuola è misconosciuto. La scienza ha cacciato fuor della scuola la virtù e la divinità. Si è consumato un divorzio tra l’istruzione della mente e l’educazione del cuore. Istruzione in iscuola, educazione in casa. Si aprono ogni dì nuovi edifizi scolastici per piantarvi l’albero della scienza, senza badar più che tanto, se all’ombra dell’albero germogli e si spieghi il fiore delle virtù domestiche, civili e religiose. Quest’eresia pedagogica va ogni di più propagandosi, e minaccia giorni luttuosi alla famiglia ed alla patria. La scuola (ripeto col Tommaseo) se non è tempio, è tana; e quando mai fosse tana, dovrei ripetere col Rousseau: L’uomo che pensa, è animal depravato. Gli è allora che la scuola diventa davvero un semenzaio di socialismo, perché i giovani ne escono poi gonfi di borra enciclopedica, quanto vuoti di ogni principio morale e religioso, e riversandosi nella gran società diffondono la corruzione, che portano in seno, pretensioni, sprezzanti, spostati, scontenti di tutti e di tutto, gittando qua e là il disordine e lo scompiglio» Ibid., p. 78. 348 Ibid., p. 70. 349 «Se l’alunno non è lui il primo educatore di se medesimo, che spiega la personalità sua e la afferma spiegandola, gli altri educatori persona la vera loro ragione di essere, perché non formano più una persona, ma foggiano una macchina» Ibid., p. 67. 350 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 65-67. 351 «Lo studio è un dovere, e dall’idea del dovere sorge appunto il carattere» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 92.  95  Uno degli errori maggiori individuati da Allievo era quanto chiamava «enciclopedismo», vale a dire la riduzione del ruolo della scuola a veicolo di nozioni da sommare nelle menti degli allievi: «L’enciclopedismo (perché tacerlo?) è il verme roditore delle nostre scuole, il cancro dell’educazione moderna»352. Allievo auspica che l’accumulo di conoscenze si coniughi con lo sviluppo di uno spirito libero e creativo: «L’enciclopedismo violenta, tortura, conquide, le potenze mentali del giovine: la virtù intellettiva, che concepisce l’ideale, il sentimento, che lo accalora, l’immaginazione , che lo colorisce, giacciono spossate»353. Il pedagogista osservò come la scuola somigliasse sempre più «all’aria morta di una biblioteca»354. Mancava quella spinta ideale che è invece propria dell’educazione. A questa stortura del compito educativo, concorse un traviamento del ruolo dell’insegnante: «Pur troppo si è ormai perduta di vista questa gran verità pedagogica, che il maestro, segnatamente delle scuole elementari e secondarie, debb’essere non solo l’insegnante, ma ben anco l’educatore de’ suoi alunni, interessandosi delle loro persone, vegliando sulle loro sorti, vivendo con essi la vita del cuore, come fa un padre, una madre co’ figli suoi»355. Da queste premesse, era convinto che il “cuore” degli educatori fosse il ganglio vitale della pratica educativa e al contempo il discriminante della sua efficacia356. Allievo si sofferma a considerare come l’insegnamento sia un’azione propria della persona, ed espressione della sua specificità. Si impara e si insegna con le parole, suoni che uniscono nel significato le coscienze e le conoscenze dell’educatore e dell’educando. Poter capire costituisce la superiorità dell’uomo sulle cose357. In questo senso, Allievo sottolinea come: «Lo sviluppo dell’intelligenza è intimamente connesso colla parola, la quale è un segno sensibile esteriore, che esprime un’idea»358. La parola si impone così come 352 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 14. 353 Ibid., p. 425. 354 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 250. 355 Ibid., p. 249. 356«Pestalozzi, Girard, De la Salle furono grandi istitutori, perché furono grandi cuori, che sentirono la santità del loro apostolato, e fecero di sé nobile sacrificio per loro alunni. Senza cuore non si educa con dignità, non si ammaestra con verità, non si impara con senno; e la scuola diventa essa stessa corpo senz’anima. Ed in quella guisa che le istituzioni politiche anche ottime declinano, si disfanno e finiscono, quando sono guaste dallo spirito settario, dall’ambizione sfrenata dei reggitori, dal dispotismo sotto maschera di libertà, così gli istituti scolastici anche meglio organati languiscono e cadono giù, quando nei governanti che li dirigono e nei maestri che professano, sottentra l’indifferenza e l’apatia, il mestierismo e la cupidigia del guadagno, la vanità pretensiosa e lo scetticismo demolitore» in G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., pp. 182-183. 357 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 102-107. 358 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 44.  96  «necessità pedagogica», da indirizzare verso l’educazione della persona359. Per tali motivi il fulcro della scuola è la spiegazione360. La sua importanza è attestata, secondo Allievo, anche dalle difficoltà di relazione e di formazione dei sordo - muti361. Considerava un grave errore pensare che la mera istruzione potesse bastare all’educazione: «Che l’istruzione faccia colla educazione un’adequazione perfetta e si converta con essa, è fatale errore, il quale trascina la società a distrette più deplorande, che non quelle medesime dell’ignoranza e della rozzezza. L’uomo non vive di sola conoscenza, ma ben anco di virtù e d’amore, perché alla potenza dell’intendere accoppia la libertà del volere e la facoltà del sentire. Laonde la scienza è sibbene una splendida manifestazione dell’umana essenza, ma non è punto l’umanità tutta quanta: nell’immensa sfera dello svolgimento umano essa tiene un posto luminoso, ma non il solo, né il più elevato, sottostando alla vita morale e religiosa»362. Questa mancanza, era colta da Allievo soprattutto nella scuola secondaria, dove lo sviluppo razionale e il prossimo approccio alla vita, meritavano una relazione educativa e valoriale piena, e non solo limitata all’istruzione: «La nostra scuola secondaria non educa, perché è tutta nell’istruire: le materie di studio sono tenute estranee allo sviluppo del sentimento morale e religioso. La cattedra non è un apostolato di civile e morale insegnamento, ma di puro sapere: rilassati e pressochè spezzati i vincoli tra la scuola e la famiglia, e maestri ed i discepoli». L’assenza di un’educazione morale e religiosa, senza la quale lo sviluppo integrale della persona era reputato da Allievo impossibile, fu variamente ripresa: «Questa idolatria della scienza fa le sue tristissime prove nel campo della pubblica istruzione; l’istruzione è come una gran fiumana che allarga il santuario della scuola e caccia via la coltura morale e religiosa, come se vi fossero soltanto teste da riempire, e non anco anime da ispirare, cuori da educare. Questa specie di fanatismo per il culto del sapere è la piaga precipua, che vizia oggidì l’organismo della pubblica educazione.»363 Due delle sue citazioni preferite erano la celebre frase di Tommaseo: «La scuola se non è tempio, è tana» e il motto socratico Non scholae sed vitae discendum. Oltre che culto 359 «La parola è pur anco una necessità pedagogica, perché vincolo essenziale, che unisce le intelligenze e le volontà del maestro e del discepolo, dell’educatore e dell’alunno, ma a tale riguardo occorre, che la parola del maestro sia luce intellettuale piena d’amore, e che il discente non la riceva passivo, ma la faccia ripensandola. Un insegnamento parolaio sciupa se stesso in un’intrinseca contraddizione, essendochè appartiene all’essenza medesima della parola l’ufficio di significare un’idea» Ibid., p. 45. 360 «Il programma governativo è, per così dire, l’embrione della materia d’insegnamento, il didattico ne mostra le giunture, le articolazioni in forma di compagine, il libro di testo porge l’organismo in carne ed ossa e polpa e sangue, la spiegazione del testo è la vita, che circola per entro l’organismo» Ibid., p. 103. 361 Ibid., p. 98. 362 G. Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, cit., p. 6.  363 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 59. 97  della verità, la scuola doveva infatti divenire tirocinio alla vita, e non doveva essere staccata da essa364. Ciò implicava anche un assetto didattico in cui era prevista la formazione professionale e la ginnastica. Sotto questo profilo critica la proposta educativa di Platone365, considerata eccessivamente spiritualista. La scuola deve preparare soprattutto alla partecipazione alla società, della quale essa può diventare importante fermento di progresso e umanizzazione. In questo senso, contestò posizioni come quelle di Rousseau, che mettevano in evidenza le ingiustizie perpetuate nella socialità scolastica, invece che i suoi aspetti formativi366. Allievo sottolinea il rapporto virtuoso tra educazione e società. Solo se cresce il singolo, progredisce la comunità. Giustamente Allievo ricorda che «La personalità umana giustamente intesa ed educata a dovere porta la floridezza sociale»367. La scuola non poteva, tuttavia, essere vista come funzione della società, e soprattutto del suo potere politico368. Il controllo sociale esercitato mediante la scuola rischiava di tradire il principio della personalità369. Il legame con la vita e l’unità dell’educazione, doveva essere corroborato da una stretta collaborazione tra gli istituti scolastici e la famiglia. Per questa ragione propone l’abolizione dei convitti, preferendo che gli allievi restassero nella loro famiglia370. In caso di necessaria lontananza dalla propria casa, Allievo indica come modello le pensioni libere inglesi in cui gli alunni seppur lontano dalla propria casa vivono con un’altra famiglia, a 364 «Quest’armonia tra la scuola e la società esige che nell’ordinamento delle discipline scolastiche si abbia speciale riguardo a quelle che sono peculiarmente reclamate dallo spirito del tempo, dai bisogni sociali, dall’indole della nazione. Però anche qui non va dimenticato, che la scuola, pur mentre si attempera alle condizioni della società, non debbe servire alle medesime, come se fossero l’ideale supremo e definitivo di ogni umano consorzio» G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 37. 365 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 103. 366 «Il mio concetto della persona umana, in servigio della quale dico ordinata la scuola, è ben altro dal concetto della natura umana, in cui Rousseau vuole riposto il fine supremo della educazione. Nell’essenza medesima della persona umana, che è intelligenza ed attività volontaria, io scorgo la fonte medesima della socievolezza, ossia la virtù di stringersi in comunanza di intendimenti e di voleri con altre persone, mentre l’autore dell’Emilio reputa le istituzioni sociali natefatte a snaturar l’uomo, spogliandolo dell’unità sua per assorbirlo come parte nel tutto» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 71. 367 Ibid., p. 71. 368 «La scuola non può, non debb’essere una funzione della società, perché ne verrebbe essenzialmente snaturata. Infatti, la scuola è un santuario di persone, ossia di creature intelligenti e libere, e non già una agglomerazione di bruti o di cose. Ora la persona non è uno strumento ai voleri altrui, ma è una creatura sacra, fornita di diritti, che vanno rispettati da qualunque potere sociale, da qualunque autorità umana, il diritto all’esistenza, alla verità, alla felicità, alla virtù, sicché se ad esempio la prosperità di un popolo intiero costasse la schiavitù o la distruzione di una sola creatura umana, già per ciò stesso dovrebb’essere detestata come un delitto. Orbene, ponete che la scuola sia una funzione,una proprietà, un’appartenenza della società e soggiaccia al suo assoluto dominio, e allora gli alunni non verranno più educati siccome persone, che appartengono a sé stesse, ed ordinate ad un fine, da cui hanno diritto di non essere deviate, bensì come mancipii del volere sociale, come cose o strumenti in servizio della società» G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 23. 369 «L’individualismo egoistico ed il socialismo oppressivo sono due estremi, che contraddicono agli intendimenti della natura, la quale mentre chiama gli uomini alla convivenza sociale, vuole ad un tempo salva la personalità di ciascuno». G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 99.  370 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 333-335. 98  volte la stessa dei propri insegnanti. Ciò aiuta a supplire la funzione dei genitori, che deve rimanere un paradigma. Non è un caso che parlò della scuola come «seconda famiglia»371. In merito all’organizzazione della scuola avanzò una serie di proposte. Sosteneva il primato degli asili italiani rispetto a quelli fröbeliani372, auspicava una scuola elementare unica senza distinzione di censo373, mostrandosi fortemente preoccupato per una divisione della scuola classista374. Propose la fusione del ginnasio con la scuola tecnica per rimandare la scelta della scuola superiore di tre anni, ipotizzando così la nascita di una scuola media unica. Sostenne il valore dell’educazione classica, un insegnamento della filosofia armonico con le altre discipline, un più ampio spazio alla storia italiana. Della scuola superiore critica l’eccessivo numero di materie, e il quadro orario troppo lungo. Inoltre contestò i criteri di valutazione negli esami, nei quali si preferisce la quantità alla qualità degli apprendimenti, inducendo ad una mentalità enciclopedica e non critica. Anche per questo motivo propone di eliminare la Giunta centrale per gli esami di licenza liceale. Per quanto riguarda le scuole normali prospetta un quadro orario in cui si affermi il 371 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 86. 372 «I nostri asili infantili sono una creazione del genio nazionale e per un trentennio conservarono la loro originale impronta. Verso il 1860 entrarono in lotta coi seguaci della scuola germanica, che insorsero coll’intendimento di atterrarli e sulle loro rovine costrurre i giardini fröbeliani. I novatori lottarono e lottano tutt’ora coll’opera e colla parola, nelle Conferenze pedagogiche e nei privati convegni, con ardore sempre vivo, invocando ben anco in loro aiuto la potenza ministeriale (Vedi l’opuscolo Società dei giardini d’infanzia di Udine, ecc. Udine, 1981, pag. 24). Ed il Ministero non nascose la sua simpatia pel fröebelismo. Già nel regolamento del 188°, all’art. 28, esso sostituiva alla denominazione asili d’infanzia il vocabolo giardini; poi impose ai professori di pedagogia presso le scuole normali l’obbligo di insegnare alle allieve maestre in teoria ed in pratica il metodo di Fröebel, prescrivendo lo stesso metodo alle scuole italiane aperte all’estero, e nella sua Circolare del 27 gennaio 1889 manifestava l’intendimento di «trasformare man mano i numerosi asiloi, secondo vecchi metodi governativi, in istituti educativi informati a una dottrina che prenda il nome dal Pestalozzi o da Fröebel, o meglio da entrambi; tal fine si può ben dire ci abbia segnata la via, nella quale dobbiamo metterci». Nel fervore della lotta non mancarono valenti istitutori, che, come l’Uttini a Piacenza, il Colomiatti a Verona, la Goretti – Veruda a Venezia, si adopravano con saggio accorgimento a riparare gli abusi ingenerati nelle scuole aportiane da sbagliate applicazioni pratiche, ad adempiere i difetti ed introdurvi le ragionevoli migliorìe, pur conservando intatto il principio interiore della loro origine» Ibid., pp. 127-128. 373 Attacca quanti volevano fare una scuola per il popolo e una per la classi agiate e scrive: «Quindi si fa necessaria una scuola, la quale abbia appunto per iscopo di fornire quella coltura, la quale occorre a tutte le classi sociali senza riguardo ed eccezione di sorta. La scuola che risponde a questo fine universale è appunto la scuola elementare, così denominata, perché ha per oggetto gli elementi della coltura umana. Da questo suo concetto si scorge che essa non ammette disparità tra i figli dell’operaio e i figli del facoltoso, perché la coltura primordiale è la stessa per tutti: non deve mirare agli uni piuttosto che agli altri, ma va ordinata in servigio di ambedue: essa è ad un tempo democratica ed aristocratica, rurale ed urbana, popolare e borghese» Ibid., pp. 139-140. 374 «Alle corte, intendete voi che la scuola elementare accolga a comune ammaestramento i figli di tutte le classi sociali, o quelle soltanto della classe operaia? Nel primo caso, la trasformazione, che propugnate, non più ragione di essere: nel secondo caso, create un dualismo irragionevole» Ibid., p. 140.  99  «primato» alla pedagogia , mentre nei licei, legandosi ad una battaglia tipica di quegli anni, fu fautore della centralità della filosofia375. Da un punto di vista metodologico richiama alla necessità di conoscere le facoltà psicologiche dell’allievo e denuncia l’ignoranza della classe magistrale su tali tematiche. Gli insegnanti sembrano essere più preoccupati di offrire agli alunni conoscenze precise e copiose, rispetto a capire quanto i loro alunni possano imparare. Un altro aspetto avversato dall’Allievo è un’idea caporalesca della disciplina, che dimentica l’importanza della libertà e del consenso per un’educazione efficace. Voleva che la scuola educasse al patriottismo. Ciò non deve far pensare ad un Allievo nazionalista e sciovinista, il pedagogista era però convinto che la scuola dovesse difendere la tradizione, la cultura e la filosofia italiana376, di cui i giovani avrebbero dovuto acquisire consapevolezza e orgoglio. Inoltre considerava importante l’assimilazione dell’idea di nazione, intesa come comunità a cui appartenere e da servire. Per questo propose di sostituire all’ «educazione civile», la materia di «educazione italiana». Riguardo al tema dell’obbligo scolastico, che coinvolse il dibattito pedagogico durante la costruzione del sistema scolastico nazionale, Allievo si oppose alla sua applicazione, perché lo considerava illiberale. Il pedagogista non intendeva restringere il diritto all’educazione ad un’élite, ma riteneva che l’obbligo non fosse un mezzo adatto per la diffusione dell’istruzione e dell’educazione377. Egli era altresì convinto che bisognasse convincere alla scuola e non costringere378. Come non si possono obbligare le persone ad essere virtuose o a lavorare, così non le si può costringere ad istruirsi, mentre può moltiplicare le scuole e formare bravi insegnanti che attirino le famiglie ad iscrivere i figli nelle scuole379. Dove c’è costrizione, secondo l’Allievo, non può esserci una vera educazione. I. 9. La libertà d’insegnamento e la riforma della scuola 375 «Nelle scuole normali spetta alla pedagogia il posto supremo ed intorno ad essa vanno coordinate tutte le altre materie. Nei licei la filosofia deve tenere il campo, siccome quella, che in virtù del suo carattere universale è atta a collegare in armonico accordo tutte le altre discipline» Ibid., p. 116. 376 Cfr. G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 36. 377 G. Allievo, Dell’istruzione obbligatoria, Torino, Tipografia Subalpina, 1893, p. 5. 378 Sull’argomento, in un saggio cita Lambruschini, che in una relazione presentata al Ministro Berti scrisse »L’istruzione e l’educazione son cosa di sì alto ordine, e così degna di essere desiderata e cercata per se medesima, che la violenza nell’imporle ne scema il pregio agli occhi si chi deve riceverle, e ne spegne l’amore. Da un altro canto, comechè si adoperi il Comune acciocchè l’istruzione sia ricevuta da tutte le famiglie, non riuscirà mai nell’intelletto, se nelle famiglie non nasce l’amore dell’istruzione”, dopo di ciò commenta “In Prussia erasi organizzato un sistema di polizia, per cui allorquando un fanciullo si rifiutava di recarsi a scuola, né il padre ve lo mandava egli stesso, un poliziotto lo pigliava a casa e lo trascinava a scuola come un pubblico malfattore» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 137.  379 G. Allievo, Dell’istruzione obbligatoria, cit., p. 12. 100  Le posizioni di Allievo sulla scuola e sulla libertà d’insegnamento sono state in parte già oggetto di studio380. Si tratta, infatti, di un contributo di rilevante importanza nell’economia delle vicende scolastiche del secondo Ottocento. Le opere più importanti in cui affronta tali questioni sono: L’educazione e la nazionalità (1875)381, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario (1879)382, Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbeliani (1888)383, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, (1889)384, Della istruzione obbligatoria (1893)385 e La scuola educativa (1893)386, poi rivisto e pubblicato nel 1904387. A questi vanno aggiunti altri come: La Riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato (1879)388, Il Classicismo nelle scuole (1891)389, Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica (1898)390 Delle condizioni presenti della pubblica educazione (1886)391, raccolti negli Opuscoli pedagogici (1909). In realtà, l’intera produzione dell’Allievo è disseminata di richiami e rilievi su tali questioni392. 380 I lavori sinora pubblicati lasciano spazio per ulteriori studi e considerazioni. Il testo di R. Bonghi, Idee di G. Allievo circa la libertà d’insegnamento, «Cultura», n. 19-20, 1889, p. 603, è scritto nel vivo delle polemiche scolastiche del tempo e manca di una necessaria distanza critica e storica; il lavoro di R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di G. Allievo, cit., pp. 60-74, prende in esame una sola opera del pedagogista, vale a dire Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867), e soffre di una conoscenza parziale dell’opera del pedagogista; il saggio di A. Consorte, Scuola e Stato in Giovanni Allievo, «Ricerche Pedagogiche», n. 12, 1969, pp. 52–65, seppur significativo, approfondisce soprattutto le polemiche tra lo studioso piemontese e l’apparato ministeriale, tenendo peraltro conto solo di alcune sue opere. 381 G. Allievo, L’educazione e la nazionalità, Torino, Tip. del giornale Il Conte Cavour, 1875. 382 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, Torino, Tip. Salesiana, 1879. 383 G. Allievo, Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbelliani, Torino, Tip. Subalpina,1888. 384 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1889. 385 G. Allievo, Della istruzione obbligatoria, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 386 G. Allievo, La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 387 G. Allievo, La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., 1904. 388 G. Allievo, La Riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato, Torino, Tip. Subalpina, 1879. 389 G. Allievo, Il classicismo nelle scuole, Torino, Tip. M. Artale, 1891. 390 G. Allievo, Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica, «Rivista pedagogica italiana», 1-2, 1898. 391 G. Allievo, Delle condizioni presenti della pubblica educazione. Prolusione letta nella R. Università di Torino il 25 novembre 1886, Torino, Tip. Subalpina, 1886. 392 In tutte le opere dell’Allievo sono ricorrenti degli incisi nei quali lo studioso propone parallelismi con le condizioni scolastiche coeve. Il seguente brano pare particolarmente paradigmatico. Dopo aver esposto i caratteri della pedagogia romana, ad esempio, Allievo riporta un passo di una lettera scritta da Plinio il giovane ed indirizzata a Corellia Ispulla, nel quale le suggerisce di scegliere con oculatezza l’insegnante di retorica per il figlio. Subito dopo, Allievo chiosa: «Qual profondo divario tra i tempi di Plinio ed i nostri in riguardo ai pubblici studi! Allora la scuola si muoveva libera da ogni potere governativo, epperò la scelta dei maestri spettava ai genitori come un sacro e coscienzioso dovere. Ora invece lo Stato impone alle famiglie i maestri da lui solo fabbricati ad immagine e somiglianza sua. Una radicale riforma intorno a questo rilevantissimo punto della vita civile e sociale è una necessità pedagogica. La libera attività dei cittadini, su cui posa in gran parte la civiltà moderna, non consente che essi vengano trattati come fanciulli, i quali hanno nel governo il loro supremo educatore ed assoluto maestro. La libertà non è privilegio esclusivo di nessuno.  101  Il problema della libertà d’insegnamento occupa un posto privilegiato nell’opera di Allievo. Quest’attenzione è indubbiamente legata all’evoluzione del sistema scolastico italiano, di cui il pedagogista vercellese denunciò la deriva monopolistica ed un assetto contrario alla libertà d’insegnamento. Stando allo studioso, tali politiche avevano profonde radici filosofiche e pedagogiche. In particolare, erano la conseguenza da una parte della crisi del concetto di libertà, e dall’altra, del «mito» dello Stato nato con la modernità. Lo sbriciolamento della metafisica, inaugurato nel ‘600, condusse alla confusione circa l’esistenza e il ruolo della libertà personale. Ciò portò ad una certa sfiducia verso l’iniziativa privata, preferendo al rischio educativo la gestione del processo formativo. D’altra parte con la modernità si impose il profilo di uno Stato simile al «Leviatano» prospettato da Hobbes, nel quale il governo di pochi si arrogava il diritto di fagocitare e sacrificare le singole individualità in nome del bene della collettività. Un «mostro», come lo definì Allievo, ingombrante, fatto di meccanismi politici e burocratici. Da ciò la scuola e l’educazione non erano più considerate una responsabilità della famiglia, ma dello Stato393. Il vercellese definiva questo statalismo anche «socialismo governativo». In una sua opera spiega: «socialismo dico ogni istituzione che la santa autonomia della persona e della famiglia disconosca in qualsiasi modo, rimestando ad arbitrio quella convivenza sociale che ha da posare sicura sulle leggi eterne dell’umanità»394. In un altro saggio commenta: «Socialismo governativo è lo Stato moderno; socialismo pedagogico è l’educazione moderna. Lo vuole la logica, lo proclamano i fatti. Onnipotente è lo Stato? Dunque onnisciente. Creazione sua la società? Dunque suo feudo la scuola. Esso, che si reputa l’umanità, ben può dire di sé: l’educatore sono io»395. Secondo Allievo, da tale pretesa nacque il controllo sul sistema scolastico, sui programmi, sul reclutamento degli insegnanti, sull’organizzazione degli esami, sui libri di testo. La monopolizzazione della scuola era sentita dall’Allievo in modo catastrofico: «Là dove l’educazione propria della famiglia viene sacrificata all’educazione dello Stato, vano è lo sperar bene delle sorti di una nazione»396. Scrive: «Non si dà libero cittadino senza il governo di sé, né si da governo Governi lo Stato le sue pubbliche scuole; ma siano libere le famiglie di associarsi insieme per fondare istituti educativi ed imprimere ad essi un indirizzo rispondente alle loro aspirazioni egualmente che allo spirito del tempo. Così sorgerebbe una nobile gara, da cui la pubblica educazione trarrebbe singolare e felice incremento», in G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 40. 393 Commentando il progetto di legge di Baccelli sul riordinamento degli studi universitari, lo studioso vercellese scrive: «Il Ministro, che l'ha proposto, sente che nella coscienza universale ferve irrefrenabile l'aspirazione alla libertà; ma ad un tempo è imbevuto del dominante pregiudizio, che il Governo è lui il primo e sovrano motore di tutta la vita pubblica e civile, è lui l'unico ed assoluto maestro ed educatore della nazione, che la legge è lui, come Luigi XIV proclamava sé lo Stato» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, Torino, Tip. Subalpina, 1899, p. 5. 394 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 11. 395 Ibid., pp. 11-12. 396 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 89.  102  di sé quando lo Stato siede arbitro e donno di tutte le attività umane. Tolta di mezzo l’autonomia personale de’ singoli cittadini anche l’indipendenza della nazione diventa ingannevol menzogna; e verrà giorno in cui suprema battaglia per un popolo quella sarà che esso combatterà non per l’indipendenza dalla straniero, ma dalla statolatria»397. Va notato che nella prospettiva di Allievo, il concetto di Stato è ben separato da quello di Nazione, come giustamente ha rilevato polemicamente la Bertoni Jovine398. Per il pedagogista la Nazione è espressione della civiltà, di valori, di tradizioni, di una storia, mentre lo Stato non necessariamente ne rappresenta e asseconda gli interessi. La famiglia rappresenta il punto di congiunzione tra l’individuo e la Nazione, e ad essa lo Stato deve rispondere nell’organizzazione della scuola. Lo stato è nato per servire la famiglia, e suo compito è garantirne la libertà. Secondo Allievo: «È necessario far penetrare nella coscienza sociale questa gran verità, che principio, cardine e ragion d’essere dello Stato è la famiglia, che fondamento e centro unificatore della vita pubblica e civile è la vita domestica, e che perciò i primi educatori per diritto e per natura sono i genitori, che lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia»399. Per queste ragioni: «Il Governo non può avere altro diritto scolastico, se non quello, che gli venga implicitamente o esplicitamente consentito dalla famiglia, ciò è a dire un diritto relativo, non assoluto, secondario e non supremo, partecipato e non originario»400. Non sembrano dunque fondate le critiche mosse ad Allievo, circa la connessione tra l’antistatalismo e un presunto individualismo scaturigine del principio della personalità, segnalato da Vidari401. Il pedagogista non professava una totale anarchia in campo educativo, ma esautorava lo Stato dal diritto assoluto sull’educazione. 397 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 18. 398 «Uno dei più forti oppositori della preminenza dello Stato nell’educazione fu Giuseppe Allievo, dell’università di Torino, che svolse il concetto di “nazione” distinguendolo da quello di Stato. Lo Stato non ha alcun diritto ad educare, mentre la nazione che “è lo stesso uomo collettivo”, influisce con tutti i suoi elementi sullo sviluppo dell’individuo; onde nazionalità ed educazione sono due fatti inseparabili. È naturale che fra i più importanti elementi della nazione l’Allievo collochi la religione e la Chiesa pur accettando dagli avversari alcuni elementi più moderni diventati realtà con le vittorie liberali. Con l’esigenza di uscire dal ristretto cerchio della famiglia, si assimila infatti, in questa ideologia, il concetto basilare di patria. Si supera così il punto critico che divideva i liberali dai clericali: “Dio, patria e famiglia” divengono i tre pilastri fondamentali dell’educazione sui quali i cattolici più avanzati e i liberali moderati vi ritrovano la concordia; ma se i clericali assimilavano l’educazione patriottica, esigevano che i liberali accettassero l’educazione religiosa. E questo era possibile perché nonostante la vittoria laicista ottenuta con la legge Coppino, non era mai stata definita la questione dell’insegnamento del catechismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, cit., p. 25. 399 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 43. 400 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 73. 401 «In fondo l’impronta fortemente individualistica, un po’ derivata dal principio della persona, ma molto anche da una deficienza del senso della continuità e unità storica nella vita dello spirito , è prevalente in tutta la pedagogia dell’Allievo; e si presenta poi in forma estrema là dove, applicando alla politica e al diritto i  103  Sulla paternità della responsabilità educativa, famiglia o stato, si giocò il dibattito pedagogico sul tema, considerato tale non solo in ambito spiritualista402. Allievo attribuisce alla famiglia la responsabilità educativa. La famiglia è il nucleo che solo può permettere il futuro della Nazione e una vera educazione delle giovani generazioni. Sugli stessi principi, critica aspramente anche Fröbel per non aver riconosciuto il primato della famiglia sulla società.403 Sotto questo profilo sono evidenti i richiami alla tradizione del cattolicesimo liberale, che attribuiva alla famiglia un valore educativo centrale, nelle opere di autori come Berti, Gustavo di Cavour e Rosmini, i quali fondavano la libertà d’insegnamento proprio sul principio della libertà e sul protagonismo educativo della famiglia . Attacca in più di un’occasione gli hegeliani come Spaventa e i positivisti come Siciliani, Angiulli, De Dominicis, considerati fiancheggiatori della statolatria. Il seguente brano lumeggia le sue idee: «Riponendo nella famiglia la suprema autorità scolastica noi ci troviamo collocati nel giusto punto di mezzo tra i due opposti sistemi, dei quali l’uno attribuisce al Governo un assoluto e supremo diritto sopra la scuola, l’altro gli niega ogni e qualunque siasi ingerimento pedagogico. Se lo Stato possiede bensì un’autorità nell’ordine scolastico, ma subordinata a quella della famiglia e de’ privati cittadini, ne consegue che esso deve lasciare luogo alla libertà della scuola, e potersi con questa conciliare. E qui si vede la ragione di ammettere, oltre le scuole pubbliche governative, anche le scuole private, le quali però non devono essere una storpiatura, una copia forzata e stereotipata delle scuole governative, ma hanno diritto di muoversi libere e spontanee dentro un’orbita loro propria. Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che informa la scuola moderna»404. Egli non teorizzava l’anarchia in campo educativo, ma uno Stato meno opprimente e più rispettoso della libertà. Come ha fatto notare Giorgio Chiosso, egli preferiva allo «Stato educatore» uno «Stato regolatore»405. Egli, infatti, non escludeva il controllo dello Stato suoi concetti, arriva a concepire la libertà d’insegnamento in modo essenzialmente antistatale, così da affermare che “lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia”» G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, cit., pp. 86-87. 402 Non è un caso che la voce “Libertà d’istruzione” curata da Fornari nel Dizionario Illustrato di pedagogia di Credaro e Martinazzoli, che rappresenta uno spaccato della pedagogia italiana di fine Ottocento, introduca il tema con la domanda «A chi appartengono i figlioli?» Cfr. P. Fornari, Libertà d’istruzione, in A. Martinazzoli e L. Credaro (ed.), Dizionario illustrato di Pedagogia, Milano, Vallardi, 1895, vol. II, p. 62. 403 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 117. 404 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit., pp. 24-25. 405 G. Chiosso, Alfabeti d’Italia, Torino, Sei, 2011, p. 93.  104  sull’istruzione406. Nonostante la comune rivendicazione della libertà di insegnamento, le tesi dell’Allievo si discostavano da quelle allora prevalenti nel mondo cattolico, in particolare negli ambienti dell’intransigentismo. In questo caso il principio della libertà d’insegnamento era alquanto strumentale e sostenuto più per ragioni pragmatiche che per la sua validità pedagogica. La vera scuola era quella «cristiana» e in nome di questa si avvertì l’esigenza di creare una scuola cristiana parallela a quella statale, in linea con quella logica «separatista» dal “paese legale” che ebbe largo corso dopo Porta Pia. Per questo motivo era chiaro che una rivendicazione simile sarebbe stata immotivata in uno Stato rispettoso dell’educazione religiosa e cristiana407. Per Allievo invece, la libertà rappresentava un valore effettivo per la scuola. In questo senso contestava la contraddizione di molti sedicenti liberali, che in molti paesi europei negavano la «lotta»408, cioè la concorrenza, proprio in campo educativo. Secondo il pedagogista il concorso di soggetti privati all’istruzione del popolo, il confronto e il «gareggiamento» tra le diverse realtà, rappresentava un volano per il miglioramento della scuola. Per mostrare i vantaggi dell’applicazione di tale principio, Allievo approfondì con appositi studi i sistemi di istruzione di Gran Bretagna e degli Stati Uniti, dove i principali liberali avevano forgiato anche le istituzioni scolastiche. Un altro stato indicato come modello da Allievo per quanto riguarda l’autonomia scolastica è il Belgio, di cui cita ed elogia gli articoli della Costituzione concernenti la libertà d’insegnamento409. Alla realtà educativa degli Stati Uniti dedicò un saggio dettagliato intitolato Dell’educazione pubblica negli Stati Uniti D’America410. In esso sostiene come la peculiarità del sistema scolastico americano fosse la libertà dei cittadini di fondare e 406 Sempre criticando il citato progetto di legge Baccelli sull’Università scrive: «Ecco il primo articolo della sua proposta: “Alle regie Università e a tutti gli altri Istituti d'istruzione superiore è concessa personalità giuridica ed autonomia didattica, amministrativa, disciplinare sotto la vigilanza dello Stato”. È cosa manifesta, che autonomia e vigilanza sono i due concetti supremi, a cui s'informa questo disegno di legge; ma è pur evidente, che il giusto significalo dell'autonomia dipende dai limiti, che vengono segnati alla vigilanza. Che lo Stato vegli, bene sta: ma la vigilanza sua va circoscritta entro determinati confini, sicché non trasmodi in un illimitato ingerimento e soppianti la libertà» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 5. 407Luciano Pazzaglia ha rilevato come, soprattutto dopo l’Unità, più che la difesa del principio della libertà d’insegnamento in quanto tale, prevalse nella Chiesa la rivendicazione della sua prerogativa educativa. Commentando la significativa allocuzione di Pio IX alla Gioventù italiana del 6 gennaio 1875, lo studioso della Cattolica osserva: «Pur continuando a sostenere la tesi del monopolio educativo della Chiesa e a condannare, parallelamente, la libertà d’insegnamento come principio che mal si conciliava con i diritti della verità di cui solo il magistero sarebbe l’autentico interprete, concedeva che in certe condizioni la libertà d’insegnamento potesse diventare per i cattolici uno strumento essenziale al raggiungimento dei loro obiettivi» in L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in Cultura e società in Italia nell’età umbertina, cit., p. 426. 408 G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 409 G. Allievo, Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, cit., pp. 68-69. 410 Il saggio è inserito negli Opuscoli pedagogici, cit., pp. 380-406.  105  mantenere delle scuole. Secondo Allievo ciò permise di far sorgere tantissime scuole pubbliche non statali che hanno accresciuto la vita scientifica e sociale della giovane nazione, che seppur fondata da poco, aveva di gran lunga superato nella libertà e nella preparazione le scuole del vecchio continente. Sostiene inoltre che l’Università americana fosse molto più democratica di quella italiana. Seppur finanziata dalle tasse di tutti i cittadini le Università italiane erano frequentate quasi solo da persone benestanti, a causa delle alte tasse che venivano chieste alle famiglie di studenti. Negli Stati Uniti invece anche se le Università si mantengono quasi esclusivamente sulle tasse degli studenti gravando relativamente poco sui bilanci statali, esistevano numerose borse di studio che permettevano agli studenti capaci, ma con pochi mezzi, di poter frequentare prestigiose Università. Nel testo valorizza anche le «Scuole di scienza» e cioè le Università scientifiche di medicina e ingegneria che si diffondevano nel paese. Gli Stati Uniti erano un chiaro esempio del fatto che il monopolio dell’istruzione fosse in contraddizione con i principi dello stesso liberalismo. Allievo sostiene che «Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che informa la società moderna»411, i liberali italiani erano incoerenti con i loro stessi principi. Scrive su tale contraddizione: «La libertà delle scuole è la suprema necessità del momento, se già non fosse un principio sacrosanto scritto nel codice della civiltà vera; è l’unica tavola di salvamento nel presente naufragio della nostra istruzione. Ma qual è l’opinione dominante su questo vitale argomento? Anche qui dissidio di menti e lotta di idee. Propugnatori del libero insegnamento non mancano, ma ad esso non sanno fare buon viso i novatori e gli iperdemocratici, i quali lo vogliono angustiato in tale strettoie governative da farne un monopolio per sé e per i loro seguaci. Ingrato spettacolo di gente che vela con una mano la statua della libertà dopo di averla coll’altra levata alla pubblica venerazione»412. Ma le posizioni dell’Allievo erano in controtendenza rispetto agli indirizzi del Ministero. La lobby massonico liberale che tenne le fila della Minerva nei decenni successivi all’Unità contrastava la battaglia per la libertà d’insegnamento dietro la quale vedeva la mano della Chiesa preoccupata di non perdere l’egemonia sull’istruzione e sull’educazione, messa in seria discussione dopo l’Unità. L’istruzione pubblica e l’Università resteranno sotto il totale controllo del Ministero, le scuole libere saranno tollerate, ma discriminate sotto il profilo giuridico ed economico. Niente fu fatto per una vera parità nell’erogazione dei titoli di studio, una delle questioni da 411 G. Allievo, Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, cit., p. 68. 412 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., pp. 164-165.  106  cui dipende l’effettiva libertà d’insegnamento. Lo statalismo scolastico, infatti, è primariamente un monopolio di «abilitazioni», controllando le quali il governo «obbliga» e i giovani a frequentare le sue scuole. D’altra parte, costringeva le scuole libere ad adeguarsi ai dettami governativi. In un testo osserva: «Bella concorrenza davvero sarebbe quella di Istituti privati ridotti ad una storpiatura o miserevole copia dei governativi! Bella libertà scolastica quella di chi fosse legato mani e piedi ai ceppi dell'Autorità ufficiale»413. Paradossalmente il percorso di statalizzazione della scuola e di riduzione degli spazi di autonomia per le iniziative educative libere iniziò in un periodo in cui la pedagogia sembrava andare in una direzione opposta. La libertà d’insegnamento fu, infatti, un tema largamente sviluppato nella riflessione cattolico liberale che aveva caratterizzato la stagione risorgimentale. Lambruschini, Rosmini, Tommaseo, Gioberti, con le dovute differenze, auspicavano per lo Stato un ruolo da supervisore nell’educazione pubblica, non quello di gestore e macchinatore dell’istruzione e dell’educazione. Il percorso di statalizzazione tradiva quei principi di libertà caratteristici del clima culturale del ’48. Allievo denunciò questa inversione di tendenza, riprendendo i temi della Società pedagogica: «Il primo Congresso generale tenuto dalla Società in Torino nell’ottobre del ‘49 rivelava in modo solenne l’unità di disegno e l’universalità del concetto che la governava: senatori del Regno e deputati del Parlamento, autorità ministeriali e scolastiche, membri di Accademie scientifiche e reggitori di istituti educativi, professori e dottori di Università e maestri elementari, sacerdoti e laici, esuli degli altri Stati della patria comune illustri per sapere, intelligenti promotori della pubblica educazione, là convenivano a pubblica discussione, e nella arena del dibattimento discendevano insieme affratellati i cultori degli studi classici e speculativi coi maestri dell’istruzione tecnica e professionale, i reggitori di pubblici e governativi istituti scolastici ed i favoreggiatori del privato e libero insegnamento. Così il Piemonte, appena sorto a nuova vita, adoperava in servigio di nobilissima causa il diritto di libera associazione allora sancito nel nuovo Statuto Carlalbertino, ma, prima che negli stati politici, scritto a caratteri indelebili nel gran codice della natura; così esso porgeva uno splendido esempio di attività cittadina e di privata entratura, che sole sanno a tenere a modo la podestà del governo così lesta ad invadere diritti non suoi. E si fosse mantenuta costante quell’attività e quell’entratura privata, e propagatasi più rigogliosa e compatta in tutte le regioni d’Italia! Chè ora la pubblica istruzione del nostro paese non gemerebbe soffocata da alcuni anni sotto lo strettoio del potere esecutivo»414. Già nel saggio sull’hegelismo del 1868 attribuì a 413 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit., p. 8. 414 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 90.  107  Cavour e al «cavourinismo» la colpa per il profilo illiberale della scuola italiana415. Una simile lettura del pensiero e delle responsabilità dello statista piemontese sembra essere confermata dall’iter della legge Lanza416. Esso quindi vedeva nei principi della legge Casati degli aspetti positivi, poi traditi dalle politiche successive417. I. 10. Le polemiche con la Minerva Il docente dell’ateneo subalpino non si limitò a teorizzare i princìpi intorno a cui si sarebbe dovuta realizzare la libertà scolastica, ma entrò in diretta polemica con gli esponenti politici più o meno «statolatri» che, tra la sua giovinezza e la maturità, governarono il Dicastero dell’Istruzione Pubblica. Qualche anno dopo la laurea, già noto per alcune pubblicazioni, Allievo fu incaricato dal Ministro Berti di scrivere un saggio sulla scuola e la pedagogia italiana in occasione della mostra universale della Arti e delle industrie a Parigi del 1867. Ne uscì il saggio Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866418 (1867), che, tuttavia, non incontrò il parere positivo del ministero, motivo per il quale il libro non fu presentato alla fiera419. Commentando quell’episodio Gerini osservò come mentre il positivismo fosse una dottrina «protetta in alto», «agli avversari della pedagogia spiritualistica furono prodigati tutti i favori del Ministero, a lui l’oblio»420. Le posizioni espresse dall’Allievo, considerando le quali non desta meraviglia la censura ministeriale, sono utili per introdurre le sue critiche alla politica scolastica post unitaria. Già nello scritto del 1867, l’Allievo nel ripercorrere gli anni del riformismo 415 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 7. 416 M. C. Morandini, Da Boncompagni a Casati: l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema scolastico preunitario (1848 – 1859), in F. Pruneri (ed.), Il cerchio e l’ellisse, centralismo e autonomia nella storia della scuola dal XIX al XXI secolo, cit., p. 50. 417 Tale lettura è confermata in un opera della fine del secolo. Scrive: «Or mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., 1899, p. 3. 418G. Allievo, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit.; poi in G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., pp. 84-168. 419 Lo stesso pedagogista racconta la vicenda in G. Allievo, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit., pp. 99-100.  420 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., p. 126. 108  pedagogico subalpino all’origine della riforma Boncompagni del 1848421, lamentava che gli ideali originari – ispirati al principio della libertà scolastica – fossero stati in seguito gravemente compromessi dalle iniziative successive che avevano invece rafforzato il ruolo dello Stato422. Secondo Gerini, l’ostilità del ministero ebbe delle conseguenza nella progressione di carriera dell’Allievo: Straordinario nel 1871, ottenne la promozione ad Ordinario solo nel 1878423. In un’altra occasione sembrò al pedagogista vercellese di aver subito un torto dalle autorità politiche, quando cioè, eletto consigliere comunale, fu volutamente escluso dall’assessorato all’istruzione424. La lettura di Allievo sull’evoluzione del sistema scolastico italiano fu ripresa nel già citato La Legge Casati e l'insegnamento privato secondario apparso nel 1879. In questo scritto l’Allievo denunciava la contraddizione tra le norme a tutela della libertà scolastica prevista dal testo del 1859 e la loro attuazione pratica, sulla base del principio politico secondo cui il Governo «sopravveglia il privato a tutela della morale, dell'igiene, delle istituzioni dello Stato e dell'ordine pubblico»425. Per quanto la Casati riconoscesse l’utilità di una proficua «concorrenza degli insegnamenti privati con quelli ufficiali»426, le norme e gli atti successivi andarono contro questo principio. Per Allievo era evidente che politiche simili fossero dettate dal timore del Clero e della sua presenza educativa, ma ciò non poteva minimamente giustificare la soppressione della libertà427. 421Va sottolineato come il principale redattore del testo legislativo, fu il sacerdote Giovanni Antonio Rayneri. Cfr. M.C. Morandini, Da Boncompagni a Casati: l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema scolastico preunitario (1848- 1859), cit., p. 42. 422G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 90. 423Secondo Gerini, genero dell’Allievo (ne aveva sposato la figlia), curatore di numerosi saggi sul pedagogista, il ritardo non fu casuale. Citando una lettera dello stesso Allievo al ministro De Sanctis e alcune considerazioni di Parato, egli sostiene che ci fu una ostruzione ministeriale alla carriera del vercellese, motivata dal suo credo spiritualista e dalle sue posizioni critiche nei confronti delle politiche ministeriali. Cfr. G.B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., pp. 10-12. 424 Come racconta Gerini: «Dopo le elezioni amministrative del 1895, essendo riuscito con bella votazione consigliere (il 20° su 80), l’Allievo venne chiamato a far parte della Giunta. Costituita la quale “l’opinione generale e più favorevole, specie nel corpo insegnante di tutti i gradi d’istruzione, dalla elementare alla universitaria, era che nella distribuzione dei varii rami di amministrazione fra gli assessori, al prof. Allievo sarebbe toccato il governo dell’istruzione, essendo egli la persona meglio indicata, per attitudini particolari ben note, a tenerlo: invece venne destinato dal sindaco alla direzione della Biblioteca dei Musei”. Naturalmente l’Allievo con sua lettera in data 5 luglio rinunziava all’assessorato. Il sindaco Rignon, cui non menziono in questo luogo a titolo d’onore, non gli affidava l’ufficio dell’istruzione perché non si conoscevano ancora abbastanza le sue idee intorno al governo delle scuole, pur essendo disposto a commetteglielo quanto avesse avuto campo di far conoscere il suo modo di pensare (Osservatore scolastico di Torino, 13 luglio 1895). Il fatto non abbisogna di commenti. Basti il dire, che qualche tempo dopo il Rignon chiamava all’assessorato dell’istruzione un avvocato, il quale non aveva mai dimostrato d’intendersi d’amministrazione scolastica. – Nelle successive elezioni l’Allievo declinò in modo irremovibile la candidatura» Ibid., pp. 11-13. 425 R. D. 13 novembre 1859, n. 3725, art. 3. 426 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit., p. 12. 427 “La potenza che voi paventate nel clero; non la distruggerete colla forza dei divieti, ma la fortificate colla mostra della persecuzione e colla vostra sfiducia nella libertà. Voi la volete la libertà, ma per voi e per 109   Nell'appendice l’Allievo dimostra tale tesi, analizzando nel dettaglio i diversi provvedimenti elaborati dai successori di Casati, tra cui Natoli, Coppino e Correnti, criticandone lo scarto rispetto ai principi della legge fondativa del ’59. E così icasticamente conclude: «Da vent'anni e più anni la legge riconobbe e sancì il principio del libero insegnamento: da quasi venti anni il Governo continua a misconoscerlo, la burocrazia a manometterlo»428. La stessa lettura dell'evoluzione dell'ordinamento scolastico italiano è confermata in un altro testo di vent’anni dopo429. Un caso esemplare del «tradimento della Casati» riguarda la figura dell’istitutore libero. Come spiega Allievo, secondo la legge: «L’istitutore è governativo o libero, secondochè la scuola, in cui esercita il suo magistero educativo, è retta dallo Stato o da privati cittadini. All’uno il governo prescrive la sostanza e la forma del suo insegnamento, la misura, il procedimento, il criterio direttivo. Dall’altro la vigente legge 13 novembre 1859 esige i titoli, che lo autorizzano, ed il rispetto dell’igiene, della morale e delle patrie istituzioni, epperò la sua libertà non è assoluta; ma non concede al Governo di sindacare, se e quanto, e come egli educhi e insegni; chè altramente la libertà dell’istitutore si risolverebbe in una vana parola»430. Ma alla libertà riconosciuta dalla Casati, conclude l’Allievo, corrisposero norme restrittive che di fatto compromisero l’iniziativa dei liberi insegnanti. Non meno severa era la denuncia dei rischi dell’ingerenza statale sull’identità delle scuole private: «Dalle recenti statistiche – così scriveva nel 1879 – si rileva come gli istituti secondari liberi affidati alle provincie, ai comuni alle corporazioni religiose, ai privati, gareggino per numero con quelli del Governo; il che è splendido argomento del grande amore, che nutrono i cittadini, per l’incremento degli studi e lo sviluppo della coltura sociale; ma non si può non provare ad un tempo un sentimento increscevole e doloroso in veggendo come tanti nobili sforzi vengano in gran parte sciupati dallo smodato ingerimento del Governo, il quale introduce la monotona e rigida uniformità de’ suoi gli amici vostri; a siffatta guisa di libertà anche i vostri avversarii potrebbero fare buon viso, anche la Czar delle Russie: di una veneranda matrona ne avete fatto una brutta ed intollerabile Megera.” G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit., p. 28. 428 Ibid, p. 26. 429 Un passo di un saggio del 1899 conferma la lettura di Allievo: «Or fa mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 3. 430G. Allievo, La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica : pedagogia elementare, cit., p. 86.   110  metodi, de’ suoi programmi, de’ suoi studi là dove dovrebbe lasciare, che si svolga libera, varia e feconda la vita scolastica»431. Ciò dipendeva, a giudizio del pedagogista piemontese, dal monopolio statale dei titoli di studio, mediante il quale il Governo disincentivava l’iscrizione negli istituti liberi. Inoltre il «pareggiamento» delle scuole libere, condizione per erogare titoli equiparati a quelli statali, era regolamentato da norme restrittive e obbligava all’omologazione con il sistema statale. Come denunciò il vercellese: «A chiunque si muova fuori dell’orbita degli studi segnata dal Governo, è chiuso irrevocabilmente l’adito alle professioni liberali; potrà procacciarsi una coltura scientifica e letteraria ampia ed eletta per quanto si voglia, ma prima pur sempre di un carattere pubblico e legale, e ridotta ad un puro ornamento dell’animo e nulla più»432. Allievo leggeva bene la situazione della concorrenza tra scuole statali e non statali. La Talamanca, riprendendo il dibattito parlamentare su tali argomenti, fa notare come le scuole private cattoliche avessero un numero maggiore di studenti rispetto a quelle statali. Cita il senatore Menabrea che nel maggio del 1872 fa notare come sui 4136 studenti che avevano sostenuto la licenza liceale, ben 2670 provenivano da scuole private e seminari433. Ma come dimostrano le vicende successive, il sistema nato dalla Casati avrebbe portato, come denunciato dall’Allievo, all’assottigliamento delle scuole private. Sulla volontà del governo di attuare la libertà d’insegnamento è particolarmente significativo un breve saggio dal titolo: L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo434. Il testo non riporta la data di pubblicazione, ma si può desumere da alcuni brani che sia stato dato alle stampe nel 1899. Allievo critica nel testo della legge una profonda ipocrisia. Da una parte si affermava il principio dell’autonomia, ma nei fatti esso rimaneva un flatus vocis, in quanto veniva contraddetto dal resto della legge. Infatti il progetto non segnava i limiti della “vigilanza” governativa; sanciva che i confini dell’autonomia sarebbero stati in seguito definiti dal Consiglio Superiore e dal Consiglio di Stato (senza contrattazione con gli atenei); affermava che la nascita di nuove Università, Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di Facoltà poteva avvenire esclusivamente per decreto; attribuiva al Ministero il potere di respingere le 431 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 25. 432 Ibid., p. 25. 433 A. Talamanca, La scuola tra Stato e Chiesa dopo l’Unità, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), cit., vol. I, p. 365. 434G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 3.  111  proposte di nomina o di conferma dei professi ordinari e straordinari avanzate dalle Università. In questo modo, ironizza Allievo, «il Governo lascia alle Università il governarsi da sé, purché si governino a modo suo»435. Il pedagogista guarda così al modello medioevale, tornando a contestare l’idea secondo cui gli istituti nascano per legge e non dalla libera associazione436. Conclude citando Villari, correlando la mancanza di autonomia con la crisi dell’Università437. Un altro aspetto che Allievo considerava illiberale e nefasto era il controllo dei libri di testo, con cui il Ministero poteva indirizzare politicamente e culturalmente l’insegnamento. Lo stesso pedagogista pubblicò un pamphlet nel quale difese un saggio di un professore siciliano438 che, stando alla sua narrazione, incorse ingiustamente nella censura ministeriale439 a motivo del suo orientamento filo cattolico440. 435 Ibid., p. 7. 436 «Seguendo l'ordine numerico del disegno di legge, passiamo all'art. 3 che suona cosi: “La creazione di nuove Università, Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di loro Facoltà o sezioni, non potrà avvenire se non per legge”. Anche qui abbiamo un segno del tempo. Sentendo proclamare l'autonomia degli Istituti scolastici superiori, il nostro pensiero corre spontaneo alle gloriose Università medioevali, che sorsero e fiorirono non per decreti di Stato, ma per libero valore di insigni maestri, di studiosi discepoli, di privali cittadini, fervidi amatori della scienza, e ci immaginiamo di essere ritornati a quo' felici tempi di scolastica libertà. Illusione! A nessuno si concede di creare nuove Università, o facoltà universitarie, o Scuole d'istruzione superiore senza il placet regio o parlamentare. Non si osa proclamare francamente e incisamente il principio, già sancito dal Belgio coll'articolo 17 della sua Costituzione: “L'insegnamento è libero; ogni misura preventiva è vietata”» Ibid., p. 7. 437 «Io potrei proseguire più oltre la mia critica, ma dalle poche considerazioni, clic sono venuto fin qui esponendo, emerge, per quel che a me ne pare, la conclusione, clic la proposta autonomia è irretita fra tali e tante strettoie da essere ridotta ad una vana parvenza, mentre la vigilanza dello Stato non ha confini, che la circoscrivano, non ha norme, da cui sia vincolata. 11 segnare i giusti limiti della vigilanza governativa, non è qui luogo da ciò: questo solo panni di potere ragionevolmente affermare, che questo disegno di legge conferisce al Governo poteri assolutamente inconciliabili colla autonomia universitaria veramente intera. Qualche anno fa Pasquale Villari scriveva: “Dal 1850 fino ad oggi, colle libertà, eolie nuove leggi, regolamenti e mutamenti, con nuovi professori italiani e stranieri, noi non siamo ancora riusciti a far nascere nelle nostre Università una vera vita scientifica : esse non rispondono all'aspettazione giustissima del paese. E perché, dimando io? Perché il Ministero arrogandosi il diritto supremo ed assoluto della pubblica istruzione ed educazione, ha governato a sua posta le Università invece di mostrarsi ossequente alla legge del 1850 non mai abolita, informata ai più larghi o giusti principii di libertà /in nota cita il libro di Martelli, La decadenza dell’Università italiana”» Ibid., p. 10. 438Si tratta del libro di G.B. Santangelo, La Famiglia e la Scuola, letture proposte alle allieve delle classi femminili, esercizi fondamentali di lettura, scrittura e calcolo per le bambine, Palermo, Tip. M. Amenta, 1887. 439 G. Allievo, Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da Giuseppe Allievo, Palermo, Tip. delle letture domenicali, 1888. 440 Nella relazione del Ministro in cui si valutava negativamente il testo difeso dall’Allievo, si accusava il libro di un certo «odore di sagrestia». A tale accusa, lo studioso piemontese replicò: «Ah finalmente ecco qui la chiave omerica, che apre l’arcano di una critica spigolistra, permalosa, assassina! L’Autore per ragione pedagogica e per debito di programma ha qua e là nei suoi libri (e non dalla prima all’ultima parola, come, bugiardamente asserisce il Relatore) parlato di Dio e delle cose sante: dunque giù botte da orbo sulla sua mal battezzata cervice! In verità addolora il vedere il Ministero suggellare coll’autorità sua il giudizio di chi parla un linguaggio tanto plateale e lacera il primo articolo dello Statuto fondamentale del Regno e l’articolo 315 della vigente legge organica della pubblica istruzione! Ma già il sentimento religioso è puzza di sagrestia, che ammorba e va proscritto in nome della nuova Igiene! L’Ermenegarda morente del Manzoni sclamava: “Parlatemi di Dio, sento ch’ei giunge”: il moderno epicureo grida: Non parlatemi di Dio, sento che mi si guasta la digestione. Se il Santangelo fosse stato un prete spretato, che avesse gettato il tricorno alle ortiche, o  112  L’unico momento in cui sembrò potersi fermare la parabola monopolistica, fu la nomina a Ministro dell’istruzione del senatore palermitano Perez nel luglio 1879. Il neoministro mostrò la volontà di mettere mano ad una riforma della scuola volta a difendere il principio della libertà d’insegnamento. L’Allievo prese subito le difese del Ministro in un articolo pubblicato nella Gazzetta piemontese del 20 agosto e stese il saggio La riforma dell’educazione moderna mediante la Riforma dello Stato, che trovò l’apprezzamento del neoministro441. Gerini documenta come Perez avesse l'intenzione di chiamare Allievo stabilmente al Ministero, con lo scopo di redigere una riforma della scuola e dell’Università incentrata sulla libertà d’insegnamento e contraria alla deriva monopolistica intrapresa dai suoi predecessori442. L’Allievo fu infatti presto coinvolto nella compilazione di un nuovo Regolamento per la licenza liceale in sostituzione di quello precedente definito dal ministero Correnti nell’aprile 1870. Il nuovo regolamento, nel quale Allievo ebbe «non poca e vivissima parte»443, intendeva ricondurre gli esami di licenza liceale alla loro «primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio»444. Il suo scopo era quello di restituire più ampia libertà agli studenti delle scuole non statali445. Il pedagogista documentò nel saggio sulla legge Casati come il testo trovò il consenso della maggior parte dei provveditori e dei presidi sui quali era stato fatto un sondaggio preliminare446. Ma il progetto suscitò anche numerose polemiche447. Accusato dagli ambienti liberal-democratici di voler favorire la scuola libera (e quella cattolica in specie), a pochi mesi dal suo insediamento, già nel novembre 1879, il Perez dovette abbandonare il un frate sfratato, che avesse bruciato il convento per andare a godersi la vita, i suoi libri avrebbero incontrato ben altro giudice ed altro mecenate» in G. Allievo, Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo, cit., p. 19. 441 In un autografo del 9 agosto 1879 il Ministro scrisse ad Allievo «...m’accorgo come Ella sia fra quei pochi cui non travolge la mente l’idolatria dello Stato onnipotente e onnisciente» in A. Consorte, Scuola e Stato in Giovanni Allievo, cit., p. 53. 442 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., pp. 11-12. 443 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit, p. 36. 444 Ibid., p. 35. 445 Così il professore piemontese sintetizza i punti salienti del Regolamento: «Gli articoli più sostanziali di esso Regolamento, che avrebbero radicalmente mutato l'attuale sistema degli esami di licenza, sono: il quinto, che restringe l'esame sulle materie nei limiti, in cui esse furono svolte nel terzo anno, quando si siano superati gli esami di promozione dei due primi anni; il settimo, che lascia libero il candidato privato di iscriversi presso qualunque pubblico liceo del Regno; il nono, che lo proscioglie dall'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio; il dodicesimo, che incarica i professori liceali della preparazione di temi per le prove scritte, ed inchiude l'abolizione della Giunta centrale» Ibid., p. 36. 446 Ibid., pp. 36-37. 447 «Eppure quel regolamento era un semplice richiamo alla legge Casati: si intendeva di ricondurre gli esami d licenza liceale alla loro primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio. E se ne fece una questione di clericalismo, mentre era una questione di legalità» Ibid., p. 35.  113  dicastero448. Il caso sembra confermare quanto annotato da Giuliana Limiti: «Il problema della scuola privata sembra essere fatale per la sorte di taluni ministri della Pubblica Istruzione e qualche volta per la sorte degli stessi governi!»449. Sebbene impossibilitato ad incidere effettivamente negli indirizzi della scuola, la sua collaborazione con il Ministero continuò negli anni seguenti. Come ricorda Prellezo: «nel 1884 esprime il suo parere sui programmi delle Scuole normali; nel 1885 viene incaricato dal Ministro Coppino dell’ispezione delle Scuole normali del Piemonte e della Liguria; nel 1887 lo stesso Ministro Coppino lo chiama a far parte della Commissione reale per il riordinamento della scuola popolare»450. Molto più duro fu il rapporto con il Ministro Paolo Boselli, che guidò la Minerva dal 17 febbraio 1888 al 6 febbraio 1891, durante i due primi governi Crispi. Qualche mese dopo il suo insediamento, Allievo criticò il Boselli a motivo della censura di un testo già citato451. Questo iniziale contrasto probabilmente convinse il pedagogista piemontese, chiamato a far parte della commissione presieduta da Pasquale Villari per stendere i nuovi programmi delle scuole elementari, a non partecipare a buona parte delle sedute. Pesò probabilmente la convinzione di rappresentare un’esigua minoranza all’interno della commissione, formata in larga maggioranza da studiosi di area laicista e positivista. Qualche tempo dopo l’Allievo attaccò più severamente il Ministro con il pamphlet dal titolo Lo Stato educatore ed il ministro Boselli452. Si tratta di un saggio con toni molto 448Così commentò l’Allievo: «Il Ministro Perez, rara avis, ritornando al concetto della legge arditamente si accingeva a spastoiare le scuole private ed a redimere gli istituti governativi da quel formalismo artifiziato e da quel enciclopedismo, che insieme congiuravano a sciupare gl’intelletti giovanili e sfibrare i caratteri. Ma il dio Stato colpiva a mezzo del lavoro la mano ribelle del suo Ministro. La genìa burocratica con ignobili e subdole manovre, la stampa liberalesca con una critica sleale ed assassina lo precipitarono ben presto di seggio miterandolo da clericale! Come avevano adoprato alcuni anni prima verso il Ministro Berti, propugnatore sincero di libertà» in G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit., p. 4. 449G. Limiti, Momenti e motivi della legislazione sulla scuola non statale in Italia, in S. Valitutti (ed.), Scuola pubblica e scuola privata, Bari, Laterza, 1965, p. 133. 450 J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani, cit., p. 396. 451Introducendo il lavoro Allievo denuncia: «Questa turba liberalesca altro non vede e non adora che se medesima, e va gridando: l’Italia siamo noi, noi siamo il patriottismo, la libertà, la Costituzione, lo Stato: chiunque non ci appartiene è nemico della patria, chi non è con noi, è contro di noi. Sì, i clericali sono contro di voi, perché i nemici della patria siete voi, voi i demolitori delle franchigie costituzionali e della indipendenza politica, gli oppressori della libera attività dei privati cittadini. Oh benedette rimembranze del 1848, allorchè si vagheggiava, anelando, un ideale di unità e di floridezza sociale, di dignità e di indipendenza nazionale, di vera e larga libertà politica e civile, sorretta dalla religiosità e dall’integrità del costume! In omaggio a quell’ideale languivano nelle carceri del dispotismo austriaco o cadevano decapitati sul palco i martiri italiani; cimentavano sui campi lombardi la vita contro gli stranieri i prodi. Orta quel santo ideale conquistato con inauditi sacrifici di sangue e di danaro, è buttato nel fango da una turba di affamati, di ambiziosi e di settarii» in G. Allievo, Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da Giuseppe Allievo, cit. 452 Solo la prima parte del saggio, intitolata Lo Stato educatore, è stata ripubblicata in G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 50-70.  114  aspri, ma composto da critiche precise e circostanziate come è stato notato da Bonghi453. Nel saggio ribadì le accuse al sistema statolatrico italiano e stigmatizzò una serie di provvedimenti emanati dal Ministro: criticò il decreto 9 maggio 1889 il quale prescriveva che, per le sole scuole statali, la licenza elementare fosse titolo sufficiente per l’ammissione alla prima classe del ginnasio e della scuola tecnica; contestò la circolare dell’8 agosto 1889 con cui, in mancanza di maestri legalmente abilitati, dava la possibilità ai militari congedati che avevano superato l'esame prescritto per gli aspiranti sergenti, di insegnare nelle scuole assicurando la metà della copertura con fondi ministeriale, al contrario di quanto avveniva per gli altri insegnanti; protestò contro una circolare ministeriale nella quale, a dispetto dell’art. 325 della legge Casati, s’impediva ai parroci di presiedere gli esami di istruzione religiosa; recriminò che il corso di pedagogia non risultasse tra i corsi obbligatori per il conseguimento della laurea in Lettere e Filosofia454. Criticò, inoltre, i toni di una circolare del 20 febbraio 1889 finalizzata al riordino degli Orfanotrofi e dei Conservatorii e stigmatizzò la «faziosità» con cui il Ministro gestì i trasferimenti tra le diverse Università per influenzare le vicende concorsuali. Questi elementi condussero Allievo a tacciare Boselli di «cesarismo scolastico». In conclusione avanzò una proposta provocatoria e risoluta: «Delenda Carthago. Il ministero della pubblica istruzione va annullato»455. La proposta dell'abolizione del dicastero, peraltro avanzata già in Parlamento il 18 giugno 1867 dal deputato libertario e socialista Salvatore Morelli, non rappresentava in effetti agli occhi di Allievo la condizione ideale per il governo dell’istruzione pubblica, ma costituiva la fatale soluzione alla «metastasi statalista» che soffocava la scuola italiana456. Confermò le stesse posizioni in un 453 Commentando il saggio, il Bonghi osserva: «L’Allievo è professore di pedagogia come tutti sanno, e tanto ha scritto della scienza che professa, e posto molta cura a’ problemi, che vi si trattano, da meritare, di certo, che un suo studio sulla materia dell’educazione, teorica e pratica, non passi inosservato. Quello che annunciamo, è diviso in due parti. Nella prima tratta la questione se e quale parte spetti allo Stato nell’educazione; e viene alla conclusione media e vera, che la suprema autorità scolastica risiede nella famiglia, e allo Stato spetta un ufficio complementare e di vigilanza. La seconda è una critica minuta – e talvolta, il che non è bene, acre – della condotta dell’attuale ministro di Pubblica Istruzione. Né si può negare che una buona parte dele osservazioni sia giusta, e a ogni modo consigliamo il ministro di darvi peso, e non immaginarsi, che, prima o dopo, non ne avranno. Soprattutto le considerazioni intorno al concetto e alla condizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, come appaiono nelle più recenti circolari del ministro, ci paion degne ch’egli vi rivolga la sua attenzione» R. Bonghi, Idee di G. Allievo circa la libertà d’insegnamento, cit., p. 603. 454 Sullo stesso tema il pedagogista aveva già scritto un pamphlet: G. Allievo, Il ministro Coppino e la pedagogia, Torino, Borgarelli, 1878. 455 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit., p. 44. 456 Concludendo il saggio Allievo ricorda la sua fedeltà alle istituzioni dello Stato Italiano: «Pubblicando questo lavoro io non ho inteso di venir meno ala ragionevole riverenza dovuta all'autorità ministeriale; e ne fa prova manifesta il rispetto, che io professo sincero per le leggi dello Stato, per le patrie istituzioni, per le franchigie costituzionali, per la nazionale indipendenza. Ho censurato gli atti governativi adoperando quella crudezza di forma, che risponde alla gravità del male, esercitando un diritto, che lo Statuto conferisce ad ogni libero cittadino, adempiendo un dovere impostomi dalla carità del loco natio e dalla coscienza del mio mandato. Ho parlato il linguaggio dei fatti; ed i fatti li smentisca chi può, li riconosca chi deve.  115  articolo del 1910, intitolato Salviamo la scuola!, nel quale dopo essersi soffermato sulle storture della scuola statale e sul suo ordinamento illiberale ritornò a prospettare la soppressione del Ministero457. Un attacco così diretto non restò senza conseguenze. All’opuscolo del pedagogista replicò infatti un libretto anonimo intitolato Lo Stato educatore – botte di un educatore – risposte di un educato458 che, stando al Gerini, sarebbe stato redatto negli uffici del ministero. La risposta alle critiche è non solo pungente quanto, del resto, le denunce dell’Allievo, ma scade a livello di attacco personale. Oltre a difendere ogni singolo provvedimento annotato dallo studioso vercellese, l’autore si abbandona alla denigrazione della sua attività didattica e scientifica: «Ha una famiglia pedagogica l’Allievo? No. E la ragione è una sola, ed è naturale e chiara, non si può dar famiglia senza amore. Omnia vincit amor. Ma l’Allievo non ha amore, se non verso sé medesimo»459 [...] «Il sentimento che noi scorgiamo nel prof. Allievo non è, no, mal volere; è piuttosto un affetto immoderato che lo muove a far troppo di sé centro a sé stesso; talmente che egli rende, senza forse accorgersene, l’immagine dantesca di cosa che sé in sé rigiri; e rigirandosi, egli nella sua vaga visione si esalta così, che gli par di poggiare su, ad un punto superiore a quello di chi nella scala sociale e nella realtà dei fatti è più alto di lui»460. L’acida polemica continuò con un ulteriore passaggio in una replica dell’Allievo nel breve saggio: Risposte di un educato: un educato. Fin dalla prima pagina lo scritto era poco conciliativo, sia nel difendere le sue tesi sia nel contestare le accuse, così chiosando ironicamente lo statalismo ministeriale: «Beati i popoli (ripiglio io), retti da un governo così raccolto ne’ suoi giusti confini, così ossequiante alle leggi ed ordinato in ogni atto suo, così alieno dallo esclusivismo e tanto rispettoso della libera attività de’ cittadini All'educazione nazionale peggior ventura che quella del Ministero di Paolo Boselli non è toccata mai» Ibid., p. 45 457 «Il dilemma si affaccia irrevocabile. Delenda Carthago! L’abolizione del Ministero di pubblica istruzione si impone imperioso, urgente, indeclinabile. La salute della nostra grande ammalata, che è la scuola, è a questo prezzo. Per questa via sola si giunge a smantellare la roccia della vastissima setta, che impera sovrana alla Minerva. Dacchè il parlamentarismo rasenta la bancarotta, può ben far senza di un Ministero, liberandoci da quella smania di legiferare, da quel subisso di leggi e regolamenti e decreti e circolari scolastiche , che intralciano il regolare processo della pubblica istruzione e comprimono la libertà degli studi» Salviamo la scuola! in «La libertà d’insegnamento. Bollettino trimestrale della “Unione pro Schola Libera”», Torino, Tip. S.A.I.D, n. 2, 1910, pp. 14-15. 458Lo Stato educatore – botte di un educatore – risposte di un educato, Roma, Stabilimento Giuseppe Civelli, 1890. 459 Ibid., p. 54. 460 Ibid., p. 55.  116  segnatamente nel campo pedagogico, che alla famiglia non venga impedito di comporsi nell’ordine suo ed adempiere la sua missione educatrice»461. L’anno seguente tornò a criticare il Ministro Boselli sulle pagine de Il nuovo Risorgimento462. Alle accuse precedenti ne aggiunse altre come quelle circa l’ingerenza della Minerva sulla scuola dell’infanzia, la nomina di un impiegato di biblioteca ad ispettore scolastico di prima classe, e il fatto che «il ministro Boselli con una sua ordinanza deferiva l’anno scorso alle singole Commissioni esaminatrici la proposta dei temi per le prove scritte della licenza liceale, offendendo l’articolo 38 del R. regolamento 23 ottobre 1884 allora vigente»463. Si trattava secondo l’Allievo della persistenza di una serie di «abusi del potere esecutivo», in cui scorgeva il tradimento dello Stato di diritto e della libertà: «L’Italia è tutta infesta da una turba di pseudo-liberali, che la libertà fanno strumento di servitù, e della patria, delle franchigie costituzionali, delle leggi dello Stato si fanno sgabello per salire in alto sitisbondo di dominio e di oro, corrompendo il pubblico costume e le istituzioni politiche e civili della nazione»464. Un altro episodio che segnò lo scontro con la Minerva, risale al pensionamento di Allievo, quando il dicastero era guidato dall’onorevole Credaro. Nel corso del 1912 il pedagogista, ormai anziano e con poche forze, chiese al Ministero che gli affidasse un sostituto. La Facoltà nominò il pedagogista Romano, «ex» spiritualista e cattolico convertito al positivismo. Lo studioso era già stato bocciato in una serie di concorsi per conseguire la libera docenza a Torino, Milano, Palermo e Bologna. A Catania addirittura tutti e cinque membri della commissione esaminatrice diedero esito negativo. La nomina di un candidato simile come suo supplente, peraltro agli antipodi rispetto alla sua linea pedagogica, portò l’Allievo a prendere dura posizione contro la Facoltà e il preside Vidari, e poi a chiedere di andare definitivamente in pensione, per impedire al Romano di insegnare sulla sua cattedra. Raccogliendo una serie di articoli apparsi su giornali e riviste come Italia Reale, L’Unione di Vercelli, Il Momento, Il Corriere d’Italia, I diritti della scuola Studium, fu pubblicato un pamphlet sulla vicenda465. Furono inserite anche due lettere inviate da Allievo a due di queste riviste come ringraziamento della solidarietà dimostrata, e un piccolo scritto dallo stesso pedagogista in cui chiariva ulteriormente i contorni della vicenda. La posizione di Allievo sulla vicenda è molto significativa: 461G. Allievo, Un educato anonimo, Torino, Tip. Subalpina, 1890, p. 7. 462 G. Allievo, Il Ministro Boselli e la legge, «Il nuovo Risorgimento», 1890-1891, pp. 165-172. 463 Ibid., p. 168. 464 Ibid., p. 171. 465 Giuseppe Allievo e la sua cattedra, Torino, Tip. S, Giuseppe degli artigianelli, 1912.  117  emergono sia un vivo attaccamento all’impegno pedagogico e magistrale466, ma anche forti dissidi con l’ambiente universitario. Nelle sue ricostruzioni Allievo attribuì a Giovanni Vidari, allora preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, la responsabilità dello smacco subito467, collegando l’appoggio da parte del preside del Romano e un generale poco rispetto dimostrato anche con altri episodi, in virtù della sua aderenza ai principi spiritualisti e alla sua fede468. Un altro testo in cui attacca il Ministero è il testo Del realismo in pedagogia469, nel quale contesta le posizioni espresse da De Sanctis in uno scritto del 1878 pubblicato ne la «Gazzetta letteraria di Torino», in cui lo statista napoletano sosteneva come la classe magistrale dovesse ispirarsi ad un realismo di impronta pragmatista. L’Allievo era invece convinto che l’anima della scuola poteva essere un solido ideale umano. Senza valori certi, 466 Si tratta di una lettera inviata a l’Unione di Vercelli, per ringraziare delle parole in sua difesa. Scrisse: «Io non sono più maestro. Non è la morte, che mi abbia rapito alla cattedra, ma è qualche cosa di peggio. In questi ultimi anni la mia vita universitaria fu amareggiata da grandi dolori. Pur tuttavia avrei continuato nel mio insegnamento; ma quando mi si volle imposto per supplente un rifiuto di tutti i concorsi universitari, a cui egli si è presentato, esclamai: Basta così; e mi ritirai nel santuario della vita privata, abbandonando alla dimenticanza ed all’oblio quei tra infelici che malignavano sulla mia persona. [...] Abbandono con certo qual rammarico la cattedra, che per più di cinquant’anni mi fu cara compagna di lotta del pensiero, nella conquista della verità, e vedendo scomparire a me d’intorno quella folla sempre nuova di giovani studiosi che nel volgere degi anni veniva ad ascoltare la mia povera parola, mi pare quasi che la mia vita si spenga nell’isolamento. No, non si spegne, ma semplicemente si trasforma. [...] Veggo che la mia più che attuagenaria esistenza volge al tramonto, ma io mi esalto pensando al Divino Maestro, al Pedagogo eterno, al Verbo vivente, al Redentore dell’umanità» Ibid., pp. 6-7. 467 Dopo aver accennato i concorsi falliti da Romano, Allievo commenta l’ultimo a Catania «quest’ultimo poi gli fu veramente disastroso, non avendo riportato nemmeno un voto favorevole. Tanto è che coloro stessi fra i miei colleghi che per lo passato lo avevano sempre protetto e difeso a spada tratta, in faccia a quel disastro esclamarono: È un uomo liquidato! Ma che? Questi medesimi lo proposero per mio supplente e poi riuscirono ad insediarlo sulla Cattedra di Pedagogia da me lasciata vacante. Viva la libertà del dire e del disdire! Il Romano deve il presente suo splendido successo al Presidente Vidari, il quale rifiutando di interpellarmi intorno la scelta del mio supplente, sostenne in Consiglio di Facoltà insieme con sei altri professori presenti all’adunanza (senza contare tre altri, che diedero voto contrario) che fosse proposto il libero docente, fallito in tutti i concorsi universitari di pedagogia specie in quel disastroso di Catania» Ibid., cit., p.12. 468 Allievo riporta nello scritto un brano di una lettera uffficiale scritta da Vidari in occasione delle sue dimissioni, e così la lo commenta: «Egli mi rivolse un saluto perché abbandoni l’Università, ma non aggiunge sillaba, che esprima il menomo rincrescimento di aver perduto in me un collega, e quando presentai le mie dimissioni non mi ha significato il menomono desiderio che fossero ritirate. L’augurio anche’esso mi sa di forte agrume. Che nel placido riposo io possa lungamente deliziarmi nei prediletti miei studi? – Ma questi cari miei studi prendono forma e vita dalla pedagogia italiana tradizionale fondata sul teismo cristiano. Ora questa pedagogia l’avete cacciata via dalla mia Cattedra per fare luogo alla dottrina razionalistica del mio supplente, sicché l’augurio a me rivolto viene a tradursi in questi termini: Deliziati senza fine negli studi tuoi, ma non qui in queste aule universitarie in mezzo a noi e nella realtà della vita sociale, ma in mezzo alle mi- stiche regioni del soprannaturale, nelle sedi beate dei Campo elisi conversando cogli spiriti magni di Ferrante Aporti e di Giovanni Antonio Rayneri. Sì, io serberà sempre viva la mia ragione filosofica sorretta dalla fede religiosa in Cristo; ma voi vi vantate razionalisti e calpestate la scienza collocando sulla cattedra chi non la possiede; voi esaltate la libertà del pensiero, e v’inchinate a tutte le dottrine, fossero pur dissolventi e scettiche: soltanto il pensiero cristiano non trova grazia presso di voi.» Ibid., p. 21. 469 G. Allievo, Del realismo in pedagogia, Torino, Roux e Favale, 1878 inserito in Id., Opuscoli pedagogici, cit., pp. 422-426.  118  si sarebbero abbandonate le giovani generazioni a progetti e prospettive volgarmente materiali e pragmatiste, condannandole all’alienazione. All’inizio del Novecento la battaglia dell’Allievo in favore della libertà d’insegnamento si tradusse – per quanto egli fosse già avanti negli anni – nel sostegno alla fondazione, nel 1907, dell’associazione «Unione pro schola libera. Società nazionale per la libertà d’insegnamento», fermamente voluta da don Giuseppe Piovano e dal prof. Rodolfo Bettazzi, finalizzata diffondere le ragioni della libertà scolastica, contro lo statalismo e i suoi fautori. Allievo fu scelto come «presidente generale effettivo», carica che ricoprì solo per un anno, dopo il quale si allontanò progressivamente dal nucleo direttivo e organizzativo dell’associazione, a cui continuarono a legarlo comunque lo spirito e le motivazioni di fondo. Nel 1910 iniziò ad essere pubblicato anche il Bollettino dell’associazione, La libertà d’insegnamento470, un trimestrale a diffusione nazionale pubblicato inizialmente in circa tremila copie. La nascita e l’attività del sodalizio ebbero notevole risonanza contribuendo a vivificare il dibattito sulla libertà scolastica che stava registrando in quegli anni una notevole ripresa471. In un convegno svoltosi a Genova tra il 28 e il 30 marzo 1908, dal titolo Istruzione ed educazione cristiana del popolo italiano gli eredi dell’Opera dei Congressi, confluiti nelle Unioni Cattoliche, lodarono l’iniziativa dell’Allievo e nella seconda delle tre risoluzioni fu sancito uno stretto rapporto con l’Unione torinese. «La Civiltà Cattolica» – che a lungo aveva praticamente ignorato le tesi dell’Allievo – dedicò al Convegno un articolo, riportando le conclusioni dell’assise cattolica ed encomiando l’operato dell’Allievo e dell’«Unione pro schola libera»472. Appaiono significative le affermazioni conclusive dell’articolo, nel quale si celebrano affianco agli allievi i più importanti rappresentanti del cattolicesimo liberale francese473. 470 G. Chiosso (ed.), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., p. 398. 471 G. Chiosso, Gentile, i cattolici e la libertà di insegnamento nei primi anni del Novecento, in G. Spadafora (ed.), Giovanni Gentile. La pedagogia, la scuola, Roma, Armando, 1997, pp. 309-315. 472 Nella seconda delle tre risoluzioni fu scritto che il Congresso «Plaude all’Unione pro schola libera sorta in Torino sotto gli auspici del venerando prof. Allievo, e a tutte le altre istituzioni aventi lo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero; Fa voti che l’azione in favore della scuola libera sia efficacemente coadiuvata dai padri di famiglia, dagli insegnanti degli istituti privati e specialmente dall’azione illuminatrice della stampa quotidiana; Delibera di affidare all’Unione stessa l’incarico di studiare ed attuare quei mezzi pratici, che valgano a salvare quanto resta ancora di libertà d’insegnamento nella vigente legislazione e di ottenere dai pubblici poteri quegli immediati temperamenti, che servano a sopprimere le più odiose disposizioni regolamentari contro l’insegnamento privato» Il congresso cattolico di Genova, «La Civiltà Cattolica», quaderno 1388, 1908, vol. II. pp. 140-150. 473 Scrive l’autore dell’articolo: «Dopo queste semplici osservazioni intorno alla prima risoluzione, lasciamo ai lettori di apprezzare l’importanza della seconda risoluzione del congresso; in cui si traggono con un senno pratico degno di ogni encomio, le conseguenze legittime del principio fissato nella prima. Quale campo fecondo di attività, non meno benefica che urgente nelle singole deliberazioni di questa seconda  119  Fu a partire da questo periodo che il pensiero pedagogico del pedagogista vercellese iniziò a essere apprezzato e diffuso anche al di fuori del circuito del cattolicesimo liberale. Lo confermano una serie di articoli pubblicati sulla «Civiltà Cattolica»474, l’attenzione delle «Rivista di Filosofia neoscolastica»475, i meriti riconosciutigli da Filippo Meda476, e un celebre saggio di Giuseppe Monti, La libertà della scuola (1928) in cui si trovano citati gli scritti di Allievo e si ricordano le sue battaglie scolastiche477. Nel frattempo Giuseppe Allievo aveva lasciato questo mondo, il 24 giugno 1913.  risoluzione! Le ponderino attentamente i cattolici italiani; i giornalisti, i conferenzieri e gli stessi sacerdoti, in Chiesa e fuori di Chiesa, ne facciano il soggetto del loro apostolato, finché il popolo se ne impossessi e ne sappia fare buon uso specialmente in tempo di elezioni: da ciò dipende la salvezza della gioventù e della patria! Noi ne siamo sì profondamente persuasi, che non possiamo fare a meno di mandare da queste pagine un saluto e un augurio solenne all’Unione pro schola libera di Torino e al suo venerando presidente prof. Giuseppe Allievo, il più illustre pedagogista che oggi vanti l’Italia, degno rappresentante delle tradizioni filosofiche ed educative veramente italiane; la cui fama è pur troppo assai inferiore al merito, perché ingiustamente eclissata dal predominio del positivismo anglo – sassone e teutonico negli atenei e nelle scuole normali del regno. Possa il suo nome tramandarsi ai posteri con quelli del Montalembert, del Falloux e del Dupanloup per la Francia, come simbolo della conquistata libertà d’insegnamento per l’Italia!” Il congresso cattolico di Genova, cit.. pp. 147-148. 474In tre articoli pubblicati nel 1915 sulla pedagogia contemporanea sono citate le opere di Allievo e le sue critiche al positivismo. Cfr: Linee di pedagogia moderna, cit., pp. 530-543; Finalità educative, quaderno 1568, 1915, vol. IV, pp. 129-146; L’opera educativa positivista, quaderno 1570, 1915, vol. IV, pp. 397-411. 475 G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe Allievo, cit., pp. 208-209. 476 F. Meda, Universitari cattolici italiani, cit., pp. 197-214. 477 G. Monti, La libertà della scuola, principi, storia, legislazione comparata, Milano, Vita e Pensiero, 1928, pp. 4, 7, 206.  Antropologia e di pedagogia nell'Università di Torino Torino,Carlo,Clausen 1896. In un'opera assai importante pubblicata nel 1891 (1) dall'illustre prof. Allievo, della quale ho a suo tempo discorso in questa autorevole Rivista,leggeşi un capitolo inscritto: Prime origini dei problemi psico. fisiologici,checontieneingermelamateria della presente memoria, la quale richiama a sè l'attenzione di tutti coloro che s'interessano dei più gravi problemi della scienza antropologica. Pigliando le mosse dall'origine storica e psicologica dell'Antropo logia,dellaqualedeterminapurei limiti,l’A.poneinsodo ilVero, l'incerto e l'ignoto di questa disciplina, per dichiarare quindi l'ana. logia tra il mondo esteriore della natura ed il mondo interiore del l ' a n i m a . M a s e il m o n d o e s t e r n o e d il m o n d o p s i c o l o g i c o i n t e r i o r e si rispecchiano e si rassomigliano sotto certi riguardi, tra l'anima ed il corpo nell'uomo, intercedono analogie assai più intime, spiccate e na• turali, intorno alle quali si trattiene a lungo l'Allievo. Ora uno dei più cospicui punti di corrispondenza tra l'anima ed il corpo si manifesta nel parallelismo di sviluppo attraverso le successive età della vita umana : parallelismo però, che non è nè assoluto, nè continuato,tanto meno poi un'identità. Un'altra corrispondenza è quella che intercede tra la mente sada edilcorposano,tralemalattiedell'anima oquelledel corpo.L'A. (1)Studiantropologici– L'uomoedilCosmo Unvol.in8gr.dipag.450circa Torino Tipogr.Subalpina editrice.  Psicologia. Studi psico-fisiologici. Memoria di GiusePPE ALLIEVO, professore   BOLLETTINO PEDAGOGICO E FILOSOFico. 89 ripone la sanità della mente nell'armonico e regolare sviluppo della medesima,elasanitàdelcorpo,nell'equilibriooperosodelle funzioni fisiologiche. Conseguentemente distingue una duplice specie d'igiene, di patologia e di terapeutica,corrispondenti alle due sostanze componenti l'essere umano.Anche iduestati dellavegliae delsonno sicorrispon dono fra di loro, essendochè su ciascuno di essi le potenze dell'anima elefunzionidell'organismosimostranosottoforme specialiedana. loghe.Lo spiritopoiedilcorpointuttoilcorsoascensivodelloro perfezionamento si prestano vicendevoli uffici, poichè lo spirito deve ai sensi esterni la prima conoscenza del mondo sensibile corporeo ; alla parola, che è un segno sensibile ordinato ad esprimere un intel ligibile,losvilnppodelsuopensiero;alla mano (nellacuistruttura Elvezio non dubitava di riporre la superiorità dell'uomo sul bruto) lo strumento della sua attività artistica e morale. Lo spirito alla sua volta ricambia dei suoi servigi ilcorpo,inpalzandolo alla dignità prco pria della persona umana,e conferendogli virtù singolari,assai supe jiori alla sua costitutiva essenza. Iofatti il corpo umano, informato dalla mente che lo governa, è reso capace di compiere azioni a cui non arrivano i corpi dei bruti, sia che venga riguardato nell'intiera compagine del suo organismo, sia che lo si consideri nella speciale struttura delle sue parti e nelle funzioni de'suoi sensi particolari.A questo punto l'A. richiama ad un'ordinata rassegna la molteplice varietà dei fenomeni, che si svol gono nell'interiorità del nostro essere, e che forniscono argomento di una specialedisciplina,lapsico-fisiologia,dellaqualetraccialelinee generali,nonsenzaavvertirechediessaainostri tempitrovansicenai nelSaggio sui'principiiedilimitidellascienzadeirapportidelfisico e del morale del Cerice, e più ancora nei Principi generali di psico login fisiologica di Ermannu Lotze. La scienza psico-fisiologica, dice l'A.,suppone come sua condizione la psicologia e la fisiologia e facendo tesoro delle cognizioni che le ammannisce l'unaintorno all'anima umana,l'altra intornoall'organismo corporeo,s'innalza a studiare ilsupremo principio generatore di tutti i fenomeni della vita umana che forma il problema fondamentale di tale disciplina.Ilquale può ricevere due soluzioni principali, secondo che ilprincipio generatore di tutti ifenomeni riponsi in una sostanza o n e i f e n o m e n i s t e s s i : n e l p r i m o c a s o a b b i a m o il d i n a m i s m o , n e l s e condo ilfenomenismo.Iiprimo può essere monodinamismo,se ricon duce tutti i fenomeni umani ad una sola sostanza, la quale potendo essere o l'anima od ilcorpo, bipartisce il monodinamismo in animismo e materialismo : duodinamismo se pone una differenza essenziale tra ifenomeni mentali ed ifisiologici.    Il fenomenismo si bipartisce pure, potendo essere dualistico od e voluzionistico,secondo che riconosce una linea di distinzione traidue ordini di fenomeni, ovvero sostiene che sitrasformano gli uni ne gli altri. L'Allievo esamina con siogolare lucidezza di pensiero e grande chiarezza d'esposizione queste diverse classi di sistemi psico-fisiologici, considerandoli nei loro più noti rappresentanti ; ed è degno di consi derazione l'esame della dottrina di Rosmini su questo punto. Venendo allo scioglimento del problema,vuolsi distinguere il duodinamismo e s c l u s i v o d a l t e m p e r a t o . O r a s e il p r i m o n o n r i s o l v e il p r o b l e m a p e r c h è separa l'uno dall'altro idue principii costitutivi dell'uomo, per guisa chel'animarazionaleècausaunicaessasoladituttiesoliifenomeni mentali e non interviene per nulla nella produzione dei fenomeni fisio logiciedanimali,ilprincipiovitalepoièessosolo ilgeneratore dei fenomeni della vita corporea e mantiensi affatto estraneo ai fenomeni mentali ; il secondo pel contrario siccome quello che mantiene distinti i due principii costuitutivi dell'uomo, e riconosce ad un tempo la loro vicendevoleinfluenza,talchèifenomenimentalisicompenetrano coi fenomeni animali e si condizionano a vicenda, dà un'equa soluzione al problema. a C o s i , c o n c h l u d e l ’ A ., il c o n c e t t o d e l l a p e r s o n a l i t à u m e n a , v a l e a dire di un soggetto sostanziale fornito d'intelligenza e di libera volontà, èilsolo,checonciliila'molteplicitàdei fenomoni coll'unitàdelloro umano soggetto, sicchè questi due termini nello sviluppo della vita umana, si mantengono indiegiungibili, e si rischiarano l'un l'altro. Su questo concetto si fonda appunto la notissima divisione della psi cologia in empirica e razionale.» Tale è nelle sue linee generali lo studio dell'insigne filosofo subal pino che mostra un ingegno vigoroso sempre ed acutissimo:e siamo certi che l'accoglienza fatta alle altre opere di lai, sarà rinnovata per questa memoria,nella quale si scrutano ipiù ardui problemi della scienza dell'uomo.Giuseppe Allievo. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Allievo” – The Swimming-Pool Library.

 

Allmayer (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Allmeyer; especially his rambles on Roman philosophy when he taught at Rome – ‘La filosofia romana’ has a very datable beginning: that infamous embassy that terrified the old Romans but charmed the younger ones, such as Scipione!” --  Grice: “Due to Gentile, Allmaayer was forced to focus on Italian philosophy, and Gentile allowed him to call Galileo a ‘filosofo’! – Grice: “Allmayer’s pragmatics is Griceian: there is a colloquium, when a ‘soggeto’ empirico recognises another soggesto empirco (il tu del’io) – and they shape a ‘noi’ – for this he appeals to concepts of objectivity as intersubjectivity – If I imply, it is the UTTERE’s expression and implication that is primary, but I INTEND my implicature to be reccognised by the ‘tu’ – and this does not ‘alienate’ my concrete subjectivity – it does not vanish – it is merely re-invoked by the other – ‘invoke’ being a linguistic term – vox –: this is what the ‘assoluto’ stands for, that terrified Bradley!” --  Grice: “I love the fact that Allmayer taught the history of logic, with a focus on ‘stoic’ logic – and it’s only natural that ‘stoicismo’ was his favourite stage in Roman philosophy!” – Grice: “Oddly, Allmayer has a genial commentary on my favourite of Arisotlte’s treatises and the foundation of my method in philosophical psychology – “De Anima””! Fu insieme a Gentile, e altri filosofi, uno degli esponenti di spicco della corrente filosofica detta attualismo. Nacque a Palermo da Giuseppe Emanuele Fazio, originario di Alcamo (ex garibaldino e in servizio presso il Museo nazionale di Palermo) e da Felicina Allmayer, di origine tedesca, ma residente in Italia. Fin da ragazzo si interessò alla storia dell'arte; a 23 anni si laureò in giurisprudenza ma poiché era appassionato alla filosofia, iniziò subito gli studi filosofici e a frequentare la Biblioteca filosofica di Palermo, dove ebbe modo di conoscere Giovanni Gentile.  Nel 1910 l'Allmayer si laureò in filosofia e iniziò la carriera come professore: nel 1914 passò al liceo "Umberto I" di Palermo, dove cominciò la sua ricca produzione saggistica che lo rese famoso in Italia.  La sua carriera continuò a Roma; subito dopo la caduta del fascismo, nel novembre 1943, il Fazio Allmayer fu sospeso dall'insegnamento; per essere reintegrato dopo la fine della guerra.  Dopo un periodo travagliato della sua vita, negli anni Cinquanta riprese la molteplice attività di saggista e critico, oltre che di docente.  Nel 1915 si era sposato con Concettina Carta, con cui ebbe tre figli. Nel 1953, rimasto vedovo, si sposò in seconde nozze con Bruna Boldrini che, conosciuta col cognome acquisito, è stata tra i maggiori critici del Fazio e ne ha promosso un'edizione completa delle Opere (I-XXII, Firenze 1969-1991).  L'Allmayer, colpito da infarto tre anni prima, morì a Pisa nel 1958.  In memoria di questo insigne filosofo e pedagogista di origine alcamese, il Liceo Statale delle Scienze Umane, Economico Sociale, Linguistico, Musicale (ed autorizzato per le Arti coreutiche) è stato intitolato al suo nome.  Carriera 1910: Professore presso il liceo di Matera 1911: professore al liceo di Agrigento, vinse nello stesso anno una borsa di studio per perfezionamento presso l'Roma 1914 docente presso il liceo "Umberto I" di Palermo 1918: libero docente di storia della filosofia a Roma 1919: trasferito a Palermo, fu condirettore del Giornale critico della filosofia italiana, fondato da Gentile e diretto dallo stesso prima di essere ministro. 1921-1922: docente di filosofia presso l'Palermo 1922-1924: docente di storia della filosofia (con corsi su Bacone e sui sofisti e Platone) presso l'Roma, in sostituzione di Gentile e incaricato di pedagogia al magistero di Roma. 1924: collaboratore di Gentile per la riforma scolastica e, con l'incarico di ispettore centrale degli istituti medi di istruzione, ebbe affidata la redazione dei programmi della scuola media. 1925: professore non stabile di storia della filosofia medievale e moderna 1929: ebbe la cattedra di filosofia teoretica in sostituzione di Pantaleo Carabellese 1939: preside della facoltà di lettere 1925-1931: commissario per l'amministrazione straordinaria della sezione arti decorative, annessa alla Scuola artistica e industriale di Palermo dal 1931 in poi: commissario governativo per l'Accademia di Belle Arti. 1943: sospeso dall'insegnamento e reintegrato dopo la fine della guerra 1951: cattedra di storia della filosofia dell'Pisa 1954: direttore dell'istituto di filosofia. Pensiero filosofico Il tramonto del Positivismo e l'amicizia con Gentile lo portarono a un impegno ideologico a favore dell'attualismo che sembrava poter portare a un rinnovamento culturale e civile; secondo l'attualismo, era l'atto del pensare in quanto percezione, e non il pensiero creativo in quanto immaginazione, a definire la realtà.  Assieme a Gentile e Guido De Ruggiero, fu uno dei sostenitori di quell'attualismo che "aveva tutta la seduzione romantica e tutta la fiducia ottimistica a trarre a sé... i migliori dei giovani scontenti, quelli che non si muovevano verso D'Annunzio o Marinetti", e nel 1914-15 appoggiò apertamente, anche con conferenze, l'intervento dell'Italia nel conflitto mondiale, ma venne riformato alla visita militare.  Nelle parole di Bruna Boldrini, moglie del filosofo, che tendeva a sottolineare la sostanziale autonomia della ricerca del Fazio dalla metafisica di Gentile, il Fazio-Allmayer giunge a giustificare l'esperienza storica come vita concreta, in cui le molteplici e diverse forme confluiscono in un rapporto intersoggettivo, sintesi etico-estetica, nella specificità di ciascuna (p. 35).  D'altronde, anche Benedetto Croce, fin dal 1922, in una recensione del saggio Contributo alla teoria della storia dell'arte (poi in Opere, IV,  103-113), metteva in dubbio che si potesse parlare ancora di idealismo attuale per il Fazio.  Nel secondo dopoguerra, in un momento denigratorio dell'idealismo, e maggiormente dell'attualismo, che era accusato di connivenza col fascismo, la posizione del Fazio fu di aperta difesa dell'attualismo e di un fedele sviluppo del proprio pensiero.  Insegnare è non morire Insegnare vuol dire non morire, ma entrare in un processo di vita che ci precede e ci prosegue nel tempo: su questa certezza di Vito e Bruna Fazio-Allmayer, si basa una spinta pedagogica di tipo socratico, per cui il maestro si sente un uomo tra uomini, lui più esperto, e loro più giovani, ma protesi verso il nuovo.  L'educatore, nel suo farsi persona, diventa storico di se stesso, nel rapporto con i propri alunni li deve riconoscere nella loro singolarità, piuttosto che livellarli. Aprirsi agli altri è il contributo al vivere: allorché viene meno questo senso di solidarietà col tutto, si crea in noi il disagio dell'angoscia.  Quindi il senso della vita è quello della speranza e dell'amore: gli altri individui non sono antitetici al proprio io, ma un indispensabile sbocco del proprio io. Ognuno di noi si fa compossibile agli altri per ciò che dà e per quello che ripiglia dagli altri, così il particolare si risolve nell'universale e quest'ultimo nel particolare.  Per Vito Fazio-Allmayer la speranza è nella certezza che il futuro è nel presente: sono vecchi, quindi, gli insegnanti che, presi dal passato, trovano disprezzabile tutto ciò che si produce nel presente, e sciocchi i giovani, e sbagliato ogni nuovo pensiero. La scuola è vecchia se non riesce a vedere il mondo nuovo e in rinnovamento; l'insegnante che si racchiude nelle memorie del passato, manifesta la malattia mortale che si chiama vecchiaia.  Fondazione La Fondazione Nazionale "Vito Fazio-Allmayer” è sorta a Palermo nel 1975, creata da Fanny Giambalvo e Bruna Fazio-Allmayer, che venne in Sicilia dalla Toscana per insegnare Filosofia morale e Storia della Pedagogia; tale istituzione è stata fondata per onorare il ricordo del marito e per suscitare nelle giovani generazioni l'interesse per la filosofia.  Opere Su: La Sicile illustrée, articoli e saggi (1905-1908) Su: Rassegna d'arte, articoli e saggi (1905-1908) Studi sul pensiero antico; Sansoni, 1974 Galileo Galilei; R. Sandron, 1911 Galileo Galilei, Palermo 1912, poi in Opere, X,  51-209; Galileo Galilei; Sansoni, 1975 Novum organum: Bacon, Francis; Laterza & Figli, Dell'anima Aristoteles; Laterza,  la formazione del problema kantiano, in Annali della Bibl. filosofica di Palermo, fasc. I,  43-89, poi in Opere, IV,  191-235) La scuola popolare e altri discorsi ai maestri: 1912 e 1913; Francesco Battiato, 1914 Introduzione allo studio della storia della filosofia; Zanichelli; 1921 Materia e sensazione (Sandron, Palermo 1913, poi in Opere, II) Materia e sensazione; Sansoni, 1969 Introduzione alla filosofia; Sansoni, 1970 La teoria della libertà nella filosofia di Hegel (Messina 1920, poi in Opere, XIV) Saggio su Francesco Bacone (Palermo 1928, poi in Opere, XI) Saggio su Francesco Bacone; 1979 Il problema morale come problema della costituzione del soggetto, e altri saggi (Firenze, Le Monnier, 1942, poi in Opere, IV,  952) Il problema morale come problema della costituzione del soggetto e altri saggi; Sansoni, 1971 Il significato della vita; Sansoni, 1955 Il significato della vita; 1988 Divagazioni e capricci su Pinocchio; G.C. Sansoni, 1958 Divagazioni e capricci su Pinocchio; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1989 Ricerche hegeliane; G. C. Sansoni, 1959 Ricerche hegeliane; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1991 Storia della filosofia; G.B. Palumbo, 1942 Storia della filosofia; Sansoni, 1981 I vigenti programmi della scuola elementare: Commento e interpretazione; Firenze, F. Le Monnier, 1954 Morale e diritto; Sansoni, 1955 Discorsi, lezioni; Sansoni, 1983 Saggi e problemi; Sansoni, 1984 Recensioni e varie, 1986 La Pinacoteca del Museo di Palermo e altri saggi; notizie dei pittori palermitani, Palermo 1908 Prolusioni e discorsi inaugurali; Sansoni, 1969 Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni, 1982 Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni, 1983 Spunti di storia della pedagogia Moralita dell'arte: rievocazione estetica e rievocazione suggestiva (con 53 postille); Sansoni, 1953 Moralita dell'arte e altri saggi; Sansoni. 1972 Logica e metafisica; Sansoni, 1973 La storia; Sansoni, 1973 Lettere a Bruna; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1992 Lettere a Gentile; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1993 Introduzione allo studio della storia della filosofia e della pedagogia; Sansoni, 1979 La teoria della liberta' nella filosofia di Hegel; Giuseppe Principato, 1920 Opere; Sansoni, 1969 Commento a Pinocchio; G. C. Sansoni, 1945 Il problema Pirandello; Firenze, Belfagor, 1957 Note //treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/  E. Garin, Cronache di filosofia italiana..., I-II, Bari 1966, ad Indicem; //fazio-allmayer/index//  treccani,//treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/. fazio-allmayer,//fazio-allmayer/index//. Vita e pensiero di V. F., Firenze 1960; 2 ediz., Palermo 1975, con  degli scritti del e sul F., alle  205-224; A. Massolo: Fazio e la logica della compossibilità, in Giornale critico della filosofia italiana, XXXVI (1957),  478-487; C. Luporini, Ricordo di V. F., in Belfagor, XIII (1958),  360 s.; Giardina Francesco: Intenzionalità ermeneutica e compossibilità nell'attualismo comunicazionale di Vito Fazio-Allmayer: implicazioni pedagogiche; Edizioni della Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer1996 A. Guzzo, V. F. e Guido Rossi, in Filosofia, IX (1958),  494-499; Giornale critico della filosofia italiana, (scritti di G. Saitta, A. Massolo, S. Caramella, F. Albeggiani, M. F. Mineo Fazio, B. Fazio-Allmayer Boldrini); A. Santucci: Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna 1959,  169 s.; A. Negri, In ricordo di V. F., in Filosofia, XIII (1962),  527-530; E. Garin, Cronache di filosofia italiana..., I-II, Bari 1966, ad Indicem; B. Fazio-Allmayer: Esistenza e realtà nella fenomenologia di V. F., Bologna 1968; L. Sichirollo, Filosofia e storia nella più recente evoluzione di F., in Per una storiografia filosofica, II, Urbino 1970,  461-484; E. Giambalvo, La metafisica come esigenza in Bergson e l'esigenza della metafisica in V. F., Palermo 1972; Carlo Sini: Studi e prospettive sul pensiero di V.F. Allmayer; estratto da "il Pensiero" ist. editoriale Cisalpino, Milano-Varese Atti del 1º Congresso nazionale di filosofia "V. F., oggi", Palermo 1975. Atti del Convegno nazionale su l'estetica come ricerca e l'impegno dell'artista nel suo mondo, Palermo 1984 (con interventi di L. Lugarini, U. Mirabelli, L. Russo  Attualismo (filosofia) Giovanni Gentile Guido De Ruggiero Alcamo  treccani, http://treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloPedagogisti italianiInsegnanti italiani del XX secoloInsegnanti italiani Professore. Vito Fazio Allmayer. Allmayer. Keywords: hegel – fascism – he was forced to retire after the fall of fascism, altmeyer wurd allmeier Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Allmayer” – The Swimming-Pool Library.

 

Altan (San Vito al Tagliamento). Filosofo. Grice: “I like Altan; he is of course an anthropologist and not a philosopher, although his first rambles were on Croce and philosophy as synthesis of history! – but then I lectured on Peirce’s misuse of ‘symbol,’ and Altan, not a philosopher, just like Peirce was not – repeats the mistake – Welby should possibly know better – Grice: “Altan fails to explain why the Romans felt the need to borrow ‘symbolum’ from the Greeks, and never return it!” Grice: “The examples in Short and Lewis for the Roman use of ‘symbol’ are extravagant – Peirceian almost!” – Grice: “Altan’s point is that a ‘soggeto,’ to communicate via ‘logos’ with another ‘soggeto’ in a colloquium, must rely on this or that symbol, which means that he must rely on this or that ‘valore’ – and unless you share those values, you don’t quite grasp the implicatum in the use of the symbol.” Nato da un'antica famiglia friulana di San Vito al Tagliamento, Carlo Tullio-Altan è stato uno dei massimi esperti di antropologia culturale in Italia.  Destinato dalla famiglia alla carriera diplomatica, si laurea nel 1940 in giurisprudenza a La Sapienza di Roma con una tesi in diritto internazionale.  Inviato in Albania durante la seconda guerra mondiale, partecipa successivamente alla Resistenza, militando nel Partito d'Azione.  Dopo le vicende belliche, conosce Benedetto Croce grazie a cui fa il suo ingresso nel panorama culturale italiano.  L'incontro con Croce, avvicina il suo pensiero all'idealismo crociano ed allo spiritualismo etico, come testimoniano le sue prime opere di questo periodo. Trascorre quindi, a partire dai primi anni '50, dei periodi di studio e di ricerca a Vienna, Parigi e Londra, dove si accosta pure all'antropologia e all'etnologia.  Dal 1953, grazie all'influsso di Ernesto De Martino, di Remo Cantoni (di cui sarà anche assistente volontario, a partire dal 1958) e di Tullio Tentori, si dedica all'antropologia, secondo un approccio che non si basi esclusivamente sulla ricerca sul campo e l'etnografia ma che faccia soprattutto ricorso al pensiero filosofico, alla storia delle religioni, all'epistemologia, alla sociologia, alla psicologia. Inoltre, influenzato pure dall'opera di Bronisław Malinowski, si oppone allo strutturalismo, aderendo successivamente al funzionalismo nonché a un marxismo mediato dalla scuola francese degli Annales.  Nel 1961, gli viene assegnato, per la prima volta in Italia, l'incarico di insegnamento di Antropologia culturale alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Pavia, successivamente ricoperto alla Facoltà di Sociologia dell'Trento. Poi, come ordinario della stessa disciplina, ha lavorato alla Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" dell'Firenze e, dal 1978 fino al collocamento a riposo (nel 1991), nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Trieste, della quale è stato poi nominato professore emerito.  Nel 1987, organizza a Roma, insieme ai maggiori antropologi italiani di allora, il primo "Convegno nazionale di antropologia delle società complesse", che, negli anni, verrà riorganizzato più volte.  Negli ultimi anni, ha vissuto tra Milano e un'antica casa rurale tra Aquileia e Grado, la stessa dove lavora il figlio Francesco Tullio-Altan.  Sulla base della sua iniziale formazione universitaria in discipline storico-giuridiche nonché della sua vasta conoscenza filosofica e culturale, dopo una prima fase di originali ricerche sulla fenomenologia religiosa ed il simbolismo, volge la sua attenzione verso i metodi antropologici applicati all'analisi sociologica, quindi si dedica allo studio dei comportamenti e dei valori della gioventù italiana negli anni '60-'70, che lo hanno poi condotto ad approfondire, da una prospettiva storico-culturale e con una visione alquanto critica, la dimensione identitaria degli italiani.  Altan ha poi cercato di far capire sia all'opinione pubblica che ai politici italiani l'importanza e la necessità di dare al loro paese una "religione civile". In questo progetto, vanno inserite alcune fra le sue opere più recenti come La coscienza civile degli italiani e il manuale di Educazione civica.  L'ultimo periodo della sua attività di ricerca, lo dedicò allo studio delle basilari componenti simboliche dell'identità etnica, concentrandosi, a tale scopo, sulla categoria dell'ethnos, individuandone ed analizzandone le sue cinque principali componenti, ovvero l'"epos" (cioè, la memoria storica collettiva), l'"ethos" (cioè, la sacralizzazione delle norme e delle regole in valori), il "logos" (cioè, il linguaggio interpersonale), il "genos" (cioè, l'idea di una comune discendenza) ed il "topos" (cioè, il simbolo di una identità collettiva comunitaria stanziata su un dato territorio), allo scopo di trovare una possibile soluzione razionale, dal punto di vista dell'antropologia, ai conflitti tra i vari etnocentrismi.  Altre opere: “La filosofia come sintesi esplicativa della storia. Spunti critici sul pensiero di B. Croce e lineamenti di una concezione moderna dell'Umanesimo” (Longo & Zoppelli, Treviso); “Pensiero d'Umanità. Sommario breve d'una moderna concezione speculativa dell'Umanesimo” (D. Del Bianco e Fratelli, Udine); “Parmenide in Eraclito, o della personalità individuale come assoluto nello storicismo moderno, Udine); “Lo spirito religioso del mondo primitivo” (Il Saggiatore, Milano); “Proposte per una ricerca antropologico-culturale sui problemi della gioventù” (Società editrice il Mulino, Bologna); “Antropologia funzionale, Bompiani, Milano); “La sagra degl’ossessi: il patrimonio delle tradizioni popolari italiane nella società settentrionale” (Sansoni, Firenze); “Personalità giovanile e rapporto inter-personale” (ISVET, Roma); “Le origini storiche della scienza delle tradizioni popolari” (Sansoni, Firenze); “Atteggiamenti politici e sociali dei giovani in Italia” (Società editrice il Mulino, Bologna); “I valori difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche dei giovani in Italia” (Bompiani, Milano); “Comunismo e società” (Società editrice il Mulino, Bologna); “Valori, classi sociali, scelte politiche. Indagine sulla gioventù” (Bompiani, Milano); Manuale di antropologia culturale. Storia e metodo” (Bompiani, Milano); “Modi di produzione e lotta di classe in Italia” (Arnoldo Mondadori Editore-Isedi, Milano); “Tradizione e modernizzazione: proposte per un programma di ricerca sulla realtà del Friuli, Editrice cooperativa Il Campo, Udine); “Antropologia. Storia e problemi” (Feltrinelli, Milano); “La nostra Italia: arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall'Unità ad oggi” (Feltrinelli, Milano); “Populismo e trasformismo. Saggio sull’ideologie politiche italiane” (Feltrinelli, Milano); “Per una storia dell'Italia arretrata” (Le Monnier, Firenze);  “Una modernizzazione difficile. Aspetti critici della società italiana” Liguori Editore, Napoli); “Soggetto, simbolo e valore. Per un'ermeneutica antropologica, Feltrinelli, Milano); “Un processo di pensiero, Lanfranchi, Milano); “Ethnos e Civiltà. Identità etniche e valori democratici” (Feltrinelli, Milano. Italia: una nazione senza religione civile. Le ragioni di una democrazia incompiuta, IEVF-Istituto editoriale veneto friulano, Udine); “La coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori nella storia nazionale, Gaspari Editore, Udine); “Religioni, simboli, società: sul fondamento umano dell'esperienza religiosa” (Feltrinelli, Milano); “Gl’italiani in Europa. Profilo storico comparato delle identità nazionali europee, Il Mulino, Bologna); “Per un dialogo fra la ragione e la fede, Leo S. Olschki, Firenze); “Le grandi religioni a confronto. L'età della globalizzazione, Feltrinelli, Milano); Identità etniche, web.archive.org/ web/20091004210216/http:// emsf.rai/biografie/ anagrafico.asp?d=328  Una religione civile per l'Italia d'oggi, web.archive.org/web/2 0091004210216/http:// emsf.rai/biografie/ anagrafico.asp?d=328 Il crogiolo, web. archive.org/web/20091004210216/http://emsf.rai/biografie/anagrafico.asp?d=328; “L'esperienza dei valori” web.archive. org/web/ 20091004210216/ http://emsf.rai/ biografie/anagrafico.asp?d=328, “Identità etniche e valori universali” web.archive.org/ web/20091004210216/http://emsf.rai/ biografie/anagrafico.asp?d=328 Modelli concettuali antropologici per un discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in: Psicoterapia e scienze umane, polser.wordpress.com/2009/02/25/carlo-tullio-%e2%80%93-altan-modelli-concettuali-antropologici-per-un-discorso-interdisciplinare-tra-psichiatria-e-scienze-sociali-in-psicoterapia-e-scienze-umane-n-1-Citazioni «Per la destra l'antropologia è roba per selvaggi; la sinistra pensa solo all'economia; altri sono ancorati a schemi anglosassoni, che vedono le strutture politiche come realtà a sé», da un'intervista rilasciata a Paolo Rumiz e pubblicata in La secessione leggera, Roma, Editori Riuniti, 1997202. Note  Cfr. il saggio autobiografico: C. Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero", Belfagor. Rivista di varia umanità,  nonché il testo autobiografico Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano,  Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, Dizionario di Antropologia. Etnologia, Antropologia Culturale, Antropologia Sociale, Zanichelli Editore, Bologna, 1997, voce "Tullio-Altan, Carlo"772.  Cfr.//controluce/notizie-old-html/giornali/a14n03/18-culturaecostume-altan.htm  Cfr.//segnalo/TRACCE/NONPIU/tullio-altan.htm  Frutto di questo nuovo programma di ricerca, fu peraltro la monografia Lo spirito religioso nel mondo primitivo (1960).  Cfr. A. Rigoli, Lezioni di etnologia, II edizione, Renzo e Reau Mazzone editori/Ila Palma, Palermo (IT)/San Paolo (BRA), 1988, Parte III, Cap. 1,  65-71.  Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, cit.  Fra cui Armando Catemario, Giorgio Raimondo Cardona, Matilde Callari Galli, Vittorio Lanternari, Gavino Musio, Francesco Remotti, Aurelio Rigoli, Luigi Lombardi Satriani, Tullio Tentori.  Cfr. Tullio Tentori , Antropologia delle società complesse, A. Armando Editore, Roma, 1999.  Da un punto di vista storico, è da ricordare come l'antropologia culturale abbia avuto origini giuridiche. Invero, molti dei maggiori antropologi della seconda metà Professoreerano giuristi o, quantomeno, avevano una formazione giuridica. Ciò fondamentalmente è dovuto al fatto basilare per cui nessuna società umana è priva di una qualche forma di diritto, anzi tutte le istituzioni sociali hanno una imprescindibile dimensione giuridica; cfr. U. Fabietti, F. Remotti, cit., voce "Antropologia giuridica".  Cfr. I. Ignazi, "Populismo e trasformismo nell'analisi di Carlo Tullio-Altan", il Mulino. Rivista di cultura e politica fondata nel 1951, 5 (1989)  864-870.  Cfr. Giulio Angioni, "Obituary. Carlo Tullio-Altan: un antropologo "anti-italiano". Familismo amorale e clientelismo tra i mali del Paese", in: Il Sole 24 Ore, 20/02/2005   Cfr. Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche  Archiviato il 4 ottobre 2009 in .  Cfr. C. Tullio-Altan, "La dimensione simbolica dell'identità etnica", in: G. De Finis, R. Scartezzini , Universalità e differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità e culture, Franco Angeli Editore, Milano, 1996,  318-339.  Qui, per regola, si intende una norma, in genere non necessariamente codificata, suggerita dall'esperienza o stabilita per convenzione o consuetudine, spesso in riferimento al modo usuale di vivere e di comportarsi, sia individualmente che collettivamente; cfr.   Cfr. C. Tullio-Altan, Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1995, nonché i ricordi di Umberto Galimberti e di Marcello Massenzio comparsi su La Repubblica del 16 febbraio 2005 e reperibili all'indirizzo  Archiviato il 1º marzo  in . Cfr. pure A. Rigoli, cit., Parte I, Cap. 1,  11-12.  C. Tullio-Altan, Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano, 1992 (testo autobiografico). C. Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero", Belfagor. Rassegna di varia umanità, 51 (3) (1996)  303-319. G. Ferigo, " di Carlo Tullio-Altan", Metodi & Ricerche. Rivista di studi regionali,  24, Fasc. 2, Luglio-Dicembre 2005. Atti del Convegno Storia comparata, antropologia e impegno civile. Una riflessione su Carlo Tullio Altan, Udine-Aquileia, 17-19 maggio 2006, i cui sunti sono stati pubblicati, Liza Candidi, sulla rivista Italia Contemporanea,  243, giugno 2006 (cfr., per esempio, ). Fascicolo speciale dedicato a Tullio-Altan:  16, N. 1, Anno 2005 della rivista Metodi & Ricerche. Rivista di studi regionali.  L'antropologia italiana. Un secolo di storia, Editori Laterza, Roma-Bari, 1985. E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia e storiografia 1869-1975, SEID Editori, Firenze, . C. Tullio-Altan, C. Signorelli, "A proposito di alcune critiche: dibattito Tullio Altan-Signorelli", in Rivista della Fondazione Italiana dei Centri Sociali, Roma,  A. Forniz, "Il Palazzo Tullio-Altan in S. Vito al Tagliamento: dimore illustri nel Friuli occidentale", in Itinerari, Numero IV, Fascicolo 3, settembre 1970. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Carlo Tullio-Altan  Carlo Tullio-Altan, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Carlo Tullio-Altan, in Dizionario biografico dei friulani. Nuovo Liruti online, Istituto Pio Paschini per la storia della Chiesa in Friuli.  Biografia [collegamento interrotto], su feltrinellieditore. Biografia, su blog.graphe. Convegno in memoriam, su qui.uniud. Ricordo biografico, su controluce. Filosofia Sociologia  Sociologia Categorie: Antropologi italianiSociologi italianiFilosofi italiani Professore1916 2005 30 marzo 15 febbraio San Vito al Tagliamento PalmanovaAccademici italiani del XX secoloStudenti della SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università degli Studi di Trento. Carlo Tullio-Altan. Altan. Keywords: Croce, filosofia come sintesi, Velia, la porta rossa di Velia, fascismo, ideologia politica italiana, ideologie politiche italiane, simbologia, simbolismo, ermeneutica, mercurio, ermete, mercurio, humano, uomo, umanesimo, Altan e Passolini, Palazzo Altan – Altan nobile friulese, il conte Carlo Tullio-Altan – la etnia friulese, ‘friulese, non italiano’ – dizionario biografico dei friulesi – friul – la lingua friulese – la base romana – la occupazione romana 221 a. C. – Aquileia – i friulesi durante il fascismo – contro il friulese, italisazzione – Altan e la resisenza – etnia e italianita, -- romanita ed italianita – friulesita  --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Altan” – The Swimming-Pool Library.

 

Amaduzzi (Savignano di Romagna). Filosofo. Grice: “Oddly, I had an occasion to refer to Amaduzzi’s birthplace in my little thing on Caesar crossing the Rubicon!” -- “I love Amaduzzi: he writes about the academy of Paris, and the academy of Berlin, but nothing about the English Acadeemy! He notes that the warrior – against the Trojans, was Echademos – and ‘it is naturally that the first important Accademy was founded in Tuscany, -- since a Tuscan hates a Roman!” –Grice: “Amaduzzi’s hobby was to collect references to ‘accademies,’ – “which are all nonsensical, since only ONE has a ‘rigid’ designation link to EchEdemos!”. Discepolo a Rimini di Giovanni Bianchi (Iano Planco), si trasferì dal 1762 a Roma, dove iniziò la sua attività di ricerca ed erudizione, sia pure tra numerose ristrettezze. Un assestamento nella sua vita si registrerà alla fine degli anni Sessanta del XVIII secolo, come rilevano i diari dei suoi primi "diporti" (gli Odeporici autunnali eruditi), le brevi perlustrazioni compiute nei dintorni della città eterna o comunque entro lo Stato della Chiesa, emblema di un genere letterario di viaggio che mostra chiaramente la sua versatilità di interessi.  Grazie alla protezione del papa Clemente XIV, anch'egli ex allievo di Bianchi, dal 1769 fu professore di lettere greche presso La Sapienza, mentre dal  insegnò al Collegio Urbano. Nel frattempo era anche diventato ispettore della Congregazione di Propaganda Fide, ottenendo da Clemente XIV la carica di soprintendente della relativa stamperia. Con la quale curò la pubblicazione, scrivendone le prefazioni, in particolare di importanti trattati di grammatica di lingue orientali, fra cui l'ebraico, il persiano, l'armeno, il tibetano e perfino il malayalam.  Per i suoi studi ottenne ottima reputazione presso i principali esponenti del panorama culturale settecentesco, entrando in contatto e in corrispondenza, tra gli altri, con Pietro Metastasio, Vincenzo Monti, Carlo Denina, Ippolito Pindemonte, Girolamo Tiraboschi, nonché con Lazzaro Spallanzani.  Fra le sue pubblicazioni spiccano anche dissertazioni di ordine filosofico, che s'innestavano nell'alveo di un illuminismo moderato : infatti, con i «discorsi» su La filosofia alleata della religione e sull'Indole della verità e delle opinioni del 1786 (per i quali fu denunciato all'Inquisizione), i cui temi di fondo erano ispirati al filosofo inglese John Locke, egli cercava di coniugare il sensismo con il cattolicesimo, poiché vedeva nel sensismo un valido approccio alla conoscenza dell'uomo . Vicino alle istanze del giansenismo regalistico, come emerge dalla ultradecennale corrispondenza con Scipione de' Ricci, ebbe parte significativa nella discussione che portò al decreto di soppressione della Compagnia del Gesù.  Si occupa anche di archeologia, curando fra l'altro i “Fragmenta vestigii veteris Romae” -- e la “Raccolta di antichità agrigentine”. In questo ambito s'inscrive l'ampia corrispondenza con l'aquilano Anton Ludovico Antinori. Compose, inoltre, canzoni e rime, e poco prima di morire pubblica anche per la Stamperia del Bodoni a Parma un commentario su Anacreonte.  Fu tra gli accademici dell'Arcadia, con lo pseudonimo di Biante Didimeo.  Opere principali: Dissertazioni – “Dissertazione canonico-filologica sopra il titolo delle instituzioni canoniche De officio archidiaconi, s.e., s.i.l.”; “Donaria duo graece loquentia quorum unum in tabula argentea apud moniales Saxoferratenses S. Clarae, s.e., Roma); “Discorso filosofico sul fine ed utilità dell'Accademie, per i torchi dell'Enciclopedia, Livorno); “La filosofia alleata della religione. Discorso filosofico-politico, per i torchi dell'Enciclopedia, Livorno); “Discorso filosofico dell'indole della verità e delle opinioni, dai torchj Pazzini, Siena); “Carteggi Ad virum clarissimum Janum Plancum archiatrum, et patricium Ariminensem epistola, typis J. Rocchii, Lucae); “De veteri inscriptione Ursi Togati ludi pilae vitreae inventoris epistola, apud B. Francesium, Romae); “Epistola ad Iohannem Baptistam Bodonium qua emendatur et suppletur commentarium de Anacreontis genere eiusque bibliotheca, in aedibus Palatinis typis Bodonianis, Parmae). Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, L. Morelli, Leo S. Olschki, Firenze, Lettere familiari, G. Donati, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone); Carteggio, M. F. Turchetti, Edizioni di storia e letteratura, Roma); “Curatele Leges novellae 5. anecdotae imperatorum Theodosii junioris et Valentiniani, Typ. Zempelianis, Romae); “Alphabetum Brammhanicum seu Indostanum Universitatis Kasi, (a J. Ch. Amadutio editum), Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae); “Alphabetum Hebraicum addito Samaritano et Rabbinico, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum veterum Etruscorum et nonnulla eorundem monumenta, Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae);  Alphabetum Graecum, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae Alphabetum grandonico-malabaricum sive samscrudonicum, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Tangutanum sive Tibetanum, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); Anecdota litteraria ex mss. codicibus eruta, apud G. Settarium, Romae); “Catalogus librorum qui ex tipographio sacrae congreg. de propaganda fide variis linguis prodierunt et in eo adhuc asservantur, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Barmanum seu Bomanum regni Avae finitimarumque regionum, typis Sacrae Congregationis de Propaganda Fide, Roma); “Alphabetum Persicum, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum Armenum], Sac. Cong. De Propaganda Fide, Romae); “Characterum ethicorum Theophrasti Eresii capita duo hactenus anecdota quae ex cod. ms. Vaticano saeculi 11, Typ. Regia, Parmae); “Alphabetum Aethiopicum sive Gheez et Amhharicum, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); Intitolazioni L'Accademia dei Filopatridi di Savignano ha creato nel 1999 il Centro di studi amaduzziani, su proposta di Antonio Montanari, autore di vari testi su Amaduzzi. Tra le principali iniziative del centro:  «Giornate amaduzziane»: una giornata di studi annuale su G. Amaduzzi; «Biblioteca amaduzziana»: la pubblicazione di opere (biografiche e non) su Amaduzzi. Il primo volume è Elogio dell'abate Giovanni Cristofano Amaduzzi di Isidoro Bianchi, la prima biografia scritta sull'abate savignanese. Note  T. Scappaticci,Gli Odeporici di Amaduzzi, in Fra Lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Cosenza  G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica,  Venezia, Cfr.Metastasio, Opere,  V, Firenze, A. Cappelli, Del carteggio inedito tra Ludovico Antonio Antinori e Giovanni Cristoforo Amaduzzi. Studi archeologici, Tip. Perfilia, Aquila, L. Spallanzani, Diciassette lettere di Lazzaro Spallanzani all'abate Gio. Cristoforo Amaduzzi per la prima volta stampate, Ditta tip. Conti, Faenza, L'espressione è di Antonio Piromalli.  A. Piromalli, La letteratura calabrese,  I, Pellegrini, Cosenza, G.C. Amaduzzi, Raccolta di antichita agrigentine alle quali si uniscono i disegni del tempio di Teseo in Atene e di quello di Pesto il tutto espresso in 53. rami, Zempel, Roma, A. Cappelli, V. Lancetti, Pseudonimia. Ovvero tavole alfabetiche de' nomi finti o supposti degli scrittori con la contrapposizione de' veri, Milano  G. C. Amaduzzi, Odeporici autunnali eruditi, ovvero diario di un viaggiatore curioso ed erudito,  I, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, G. C. Amaduzzi, Rime, G. Donati, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, Verucchio, A. Fabi, «Amaduzzi, Giovanni Cristofano», in Dizionario Biografico degli Italiani,  II, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, A. Montanari, Giovanni Cristofano Amaduzzi e la scuola di Jano Planco, Accademia dei Filopatridi, Studi Amaduzziani, III, Viserba di Rimini, A. Montanari, Amaduzzi, illuminista cristiano, «Romagna arte e storia», A. Montanari, Appendice storico-critica in G. C. Amaduzzi, La Filosofia alleata della Religione, rist. an. Il Ponte, Rimini, A. Montanari, Amaduzzi editore a Roma delle Notti di Bertòla. Storia inedita dei Canti clementini, Quaderno, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, A. Montanari, Amaduzzi, Scipione De' Ricci ed il ‘giansenismo' italiano, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, Olschki, Firenze, T. Scappaticci, Fra lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Pellegrini, Cosenza 2006. M. Trincia Caffiero, Cultura e religione nel '700 italiano: Giovanni Cristofano Amaduzzi e Scipione de' Ricci, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Cristofano Amaduzzi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Giovanni Cristofano Amaduzzi / Giovanni Cristofano Amaduzzi (altra versione) /Giovanni Cristofano Amaduzzi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giovanni Cristofano Amaduzzi, Documenti sui fratelli Amaduzzi sul web. Filosofi italiani Professore1740 1792 18 agosto 21 gennaio Savignano sul Rubicone RomaScrittori italiani del XVIII secoloLinguisti italianiPoeti italiani del XVIII secoloOrientalisti italianiAccademici dell'Arcadia.  Giraian Cristofano Amaduzzi di Savignano fu una delle țeste più filosofiche e veramente erudite delsecolotraq scorso. Nacque di Michele Amaduzzi, e di Caterina Gasperoni. La sua famiglia traeva origine da Longiano, com'egli stesso nella pre fazione del libro intitolato DEVOLUTIO AD S. R. E. afferma = Grato enim animo me ab hoc solo (Longiani) ad Sabinianense traductum recordor, quinimirum exeagenteprogpatussim,cujussintab ipso saeculi XIV initio certissima inter vos incolatus monumenta etc. = Giovinetto amò tanto,oltre l'età, lostudioelafatica,cheilpadrene vennefind'alloraa buonesperanze; e però fu posto fraglialunnidel Seminario di Rimini, ove prese gli ordini clericali. Furono sì rapidi i progressi ch'egli fece, da destare ammirazione grande disè.Compiutalacarrieradegli studii,ed ap presa assai bene lingụa Jatina!eloquenza, eragion poetica uscì del Seminario, e fu nel 1955, e sidiede tutto alla filosofia, fidato alla scorta del famoso dottor Gio. Bianchi, il quale della propria casa, aveva fatto una scuola per chi volesse usarne, ricca di biblioteca, dimuseo,digiornali;ediquantoerada luiprivato LONCIANI DI 1 ...  procurare a bene del pubblico. Nè solo filosofia, ma lingua greca imparò dal Bianchi, e sì bene da uscirne solenne maestro. Gli piacque anche conoscere le leggi, e però si fece ad udire lezioni dell'avvocato Lelio Pasolini che era pubblico professore di giurisprudenza nella stessa città.Nell'anno 1761 l’abbate Amaduzzi non più discepolo, ma amico e fratello del Bianchi si cessò dalla sua scuola , e poco appresso recossi a Roma; efuappuntonelmaggiodel1762. Appena ebbe preso stanzanella metropoli del m o n do cattolico non è a dire come prestamente desse a conoscere di quale ingegnoera fornito,e come entras se nella grazia dei più distinti personaggi che al lora quivi mostravansi. E a ciò gli valse specialmente la benevolenza e la protezione del magnifico Gaetano Fantuzzi, cui non so se la porpora de cardinali desse o ricevesse più splendore: perocchè egli nella sua vita. fututtoinproteggere gliuominidotti,e,fattanerac colta presso di sè,giovarli d'ogni maniera conforti, e quel che più è,senza pompa di fasto in mezzo ad una vitaillibataemodesta.E perchèiomivogliadimol tialtri tacere,non passerò sotto silenzio i cardinali Boschi, Torrigiani, Borgia, Garampi, Doria, Antonelli,Mare foschi,Zelada,Giovanetti,ilcardinaleduca diYorch, einfineilGanganellichefupoiPapagloriosissimo e de gnodi piùlungo pontificato. Che anziquest'ultimol'eb be fra suoi più cari, e levato alla cattedra di Pietro se ne valse in molte e gravi bisogne. E s'egli avesse più a lungo vivuto, all?abaté Amaduzzi non sarebbeforso mancata eminenzadicaricaparial suo ingegno e dal suo'merito. Ma perrendermial'filodella narrazione dirò che, poichè 14Amaduzzi a più tornate 'ebbe letti discorsi profondamente filosofici e nobilissimi in Arca dia,tuttaRoma fupienadellesuelodi.Egli perassecon dare idesiderii de'suoi genitori, che avrianó voluto far di lui un giureconsulto,poichè non erano giunti adaverlo sacerdote,diemano alla giurisprudenza;ma essendo d'animo sehietto, e nemico di cavilli, e d'in sidieforensi,piùchealfôrositenne,ailibridei gius pubblicisti,esimisea svolgereleoperedel Cujaccio, dell'Alciati,del Gottofredo, del Gravina e di somiglianti, sdegnoso di quell'ammasso informedi leggi,di prati  6   che, di consuetudini sotto cui sovente venivano artata mente sepolte la verità e la giustizia. A prova del profitto che egli fe’in questaragione di studii pub blicò prima d'ogni altra cosa nel 1767 le cinque novelle inedite degli imperatori Teodosio juniore, e Valenti niano terzo, (di cui più appresso avremo a riparlare), nella quale opera non so qualpiùsimostriobuon legista, o critico acuto o profondo archeologo. Nè la sciò aparte gli studii teologici,(perocchè a'suoi pia ceva che ei si guadagnasse alcun impiego ecclesiastico) ecome simanifestaper alcunesueerudite disserta zioni, in breve in questa scienza pure entrò molto i n nanzi. Gli fu maestro il celebre P. Marcelli agosti niano; e tanto s'internò nelle dottrine del gran de dottore s. Agostino, che a difesa delle medesime ebbepiùvoltea combattere.Siconobbepurediquel la parte di diritto, che io dirò sacro perché riguar. da la canonizzazione dei Santi , e si esercitò in più cause, essendo promotori dellaFede monsignor Forti prima, e monsignor Pisani dappoi. M a dove più di forza intese fu nella cognizione de'sacri canoni, indispensabile a chi voglia penetrare nelle ecolesiastiche antichità con sicurezza digiudizio. Belledissertazioni,lequalicomprovanoconoscenza som ma che egli aveva dei canoni,lesse egli nell'accade mia che il sullodato cardinal Fantuzzi aveva formata in Roma de'più chiari personaggi, di cui era protet tore come è detto. Non acquetossi a questi studii la mente dell'Amaduzzi,laquale sentiva d'averforzada stendersi a più largo campo, e però si fece ad ap prendere lalingua ebraica e molte altre orientali,e n’eb be amaestriilTeoli,  l'Eva, ilGiorgi, l'Assemani,cime d'uomini,anzidisapere.Non èmaravigliadopoque sto, seappena scorso un'anno dalla sua venuta in Roma, il cardinal Torrigiani con onorevolissima lette ra dell' 11 novembre 1963 raccomandò l' Amaduzzi al principe di Francavilla, a cui spettava provvedere di custode labiblioteca Imperiali; officioche ben con venivagli,echeavrebbeottenuto,selamorte delmar chese Imperiali non avesse rese vane le premure del V ottimo porporato. In questa occasione ebbe pure una raccomandazionedelducadiParma.Intantol'Amaduzzi  7   In questo mezzo essendo accordatalagiubilazio ne aGio.BattistaGautier,professoreche fudilingua greca nell'Archiginnasioromano,Clemente XIV.di moto proprio glinominòsuccessore1'Amaduzzi,ed egli n'ebbe il diploma il 25. giugno del 1769. Il 10. febbrajo dell'anno seguente poi essendo passato di vi ta l'abbate Barcubaldo Bicci, che aveva la direzione della tipografiadiPropaganda,l'Amaduzziconviglietto, della segreteria di Stato fu nominato a quell?uffizio inluogodel defunto.Equìmipiacenotareunabel lissima lode a,lui doyuta, qual è di aver meritato i primi pensieridelsuoprincipe,edi non averli com perati con viltà di adulazione, o tristo mercimonio di corte. Anche,un altra lode si ebbe l’Amaduzzi, e fu del mostrarsigrato alsuo maestro Jano Planco; peroc che si adoperò onde,avesse grado di Archiatro del Pontefice, e gli siaumentasse l'onorario che aveva in patria, e quel che è più rimarchevole scampasse dal 1'umiliazione di soggiacereallefave annualmente; co sadi rilievoassai,perchè troppo spesso avviene, che nei municipii prevalga il privato risentimento dei yo-  8 non si cessando mai dalle sue erudite occupazioni, ac-. cresceva ad un tempo in sapere, ed in fama. E seb bene avesse a sostenere fin dai primi anni la guer ra degl'invidi, e dei tempi, nimicizie perpetue dei buoni ingegni,pure non ristette perquesto. In una lettera al dottor Giovanni Lami scritta li si luglio 1.768 si legge cosi: = Non godono le nostremuse quella tranquillità, che loro invidia l' infelicità dei tempi che corrono. Pure non ostanteio,che mi pre servo per quei tempi più lieti che spero,non inter metto lemieletterarie occupazioni(Nov. Lett.di Firenze1768).Elettonel15.maggiodel1769.a.Pon teficeMassimo LorenzoGanganelli,tuttaRoma,che benediluisiconosceva,seneallegro,e piùchemail'A maduzzi,ilqualeebbeascriverepocoappresso= sotto questopontificatocomincianoarisorgerelelettere= .E perchèquellagranmentecheeraPapa Ganganellivede va che il ravvivare gli studii,e gli uomini, che per quelli hanno grido,ristorare, è opera disavio e buon prin cipea questo sivolse,e cercavamodo diprovvederel'A maduzzi per cui aveva speziale stima, e benevolenza. 1.  tanti al bene del pubblico. Quanto poi studiasse por gersi r i conoscent e a l l' immortal suo benefattore Pontefice lo danno a vedere le opere che egli pubblico, e che vanno sì onorateper lomondo,chenon è permes 80 ignorarle a chi abbia pure attinto a prime labbra glistudiidiantichitàsacrae profana.Lasacracon gregazione diPropaganda volendo dar segno di aggra dimento alle tante fatiche dell'Amaduzzi, gliconferì la cattedra di lingua greca nel collegio Urbano,la qualeera rimastavacante per la morte del celebre. Raffaele Vernazza.Ciò funel:1780 il 27  9 salito, e la grazia dei grandi, bre.Ilgridoincheera ,loa parola del vero captivavasi cui egli collasevera avesse per poco posto sì in alto, c h e , se egli vevano , avría posto la mano per piegato alle artidi corte che nome; non letterato che non volesse fortuna.Nonviera accademia trooicapeglidella ne ricercasse,il averloa socio,enon non si onorasse commercio di let ;non giornale che non si riputasse tere.coll’Amaduzzi dotti pensieri. Fu ascritto a vanto pubblicare i suoi 6. febbra alla società letteraria de'.Volsci di Velletri Etrusca di Cortona il 5. jo del 1769., all'accademia del 1773, del 1771 , alla Fulginea li 29. gennajo aprile col nome diNestore.1 8. a quella dei Forti in Roma del 1774,e ne scrisse a modo delle dodici ta ottobre col nome di Biante Didimeo voleleleggi;all'Arcadia il 7. febbraro 1775 ; all'accademia dei Placidi di Re del 1775; alla società georgica dei canati1'8. aprile 1779: all'acca Sollevati di Montecchio il 31. ottobre demiarealediScienze,eLetteredi Napoliil5.agosto diVerona il4. giugno del del1779: alla Filarmonica il 7 settem Colombaria diFirenze 1782:alla società degliAffidatidi Pavia il bre del 1785., all'accademia di Dublino li del 1786;alla reale Ibernese 4. giugno anno;alla reale di Scienze 21. novembre dello stesso il30. agostodel 1789. eamolte al eLetteredi Mantova letterarjdi quei giorni. tre.Scriyeva nei migliori giornali Pressocchè tutti gli articoli provegnenti da R o m a senza me d'autore del Lami,le quali furonopoi continuate n o , che leggonsi dal 1760. al 1791. nelle Novel le Letterarie ,sono cosa dell’Åmaduzzi . Ebbe anche mole dal Lastri di Palermo,nell'Ef ta mano nelle notizie de’Letterati di novem e n   femeridi letterarie,enell'Antología di Roma,neglian nali ecclesiastici di Firenze. Carteggiava in Italia con tuttiipiùdistinti uominidiqueltempo,fraiquali siami lecito nominare Lami, Bandini, Lastri, Passeri, Olivieri,Mandelli, Vettori,Ferri,Mingarelli,Giovenaz zi,Bianchi,PietroBorghesi,ePasqualeAmati suoi con cittadini. Fuor d'Italia poi aveva corrispondenza di lettere estesa più che mai, come si può vedere da mol ti volumi che esistono manoscritti nella pubblica li brería di Savignano., Chi potesse, dice ildottissimo Isidoro Bianchi in una nota (36) all'elogio ch'egli scris şe dell'Amaduzzi, raccogliere e regalare al pubblico tutte le lettere famigliari, che il nostro Cristofano ha nel corso della vita iscritte a tanti e così dotti amici d'ognirango,d'ognicondizione,siavrebbecertamen te un'opera di moltissimi volumi, che nel merito su pererebbe forse molte altre, che egli ha vivendo rese pubbliche collestampe;un'opera pienadianeddoti interessantissimi, la quale ci presente rebbela più veridica e genuina storia de'più grandiosi fatti e singola ri avvenimenti, che nel giro di non molti anni si 80 no nel nostro secolorapidamente succeduti.Gli ogget ți di politica, e le grandi notizie del giorno formaro no una parte essenziale del suo erudito carteggio. Egli ben conosceva le corti, e i ministri di gabinetto, e di stato, e in particolar modo i principi, ei loro rispetativi interessi.E certo benchè egli nulla ambisse, pure aveva voce in corte,e ilPapa volentieri l'udiva, eglifidavacosed'importanzaassai.Ma poichèquel grande Pontefice ebbe a cedere a fato immaturo, la fortuna si volse contro l'Amaduzzi , il quale dovette sentirne i colpi più avversi eduri a sostenere.Alcuni glidavano tacciadimalfilosofo,altrialtrimentiil'mor devano.Ilmondo parteggiava avarie fazioni,e tutte erano contro l'Amaduzzi, perchè egli non istudiava ad alcuna, anzi combattevale tutte per seguire la verità, Non mancavano forse le gare degl'invidi, e di quegli che volevano fargli scontare a caro prezzo labenevos lenza che aveva goduta di Papa Ganganelli. Nel 1790. usci un libello famoso contro di lui senza data di luo. go, Aveva per titolo Lettera di un viaggiatore istruito, ad un amico di Rama risguardante principalmente la  ! 10   dottrina dell abbate Cristoforo Amaduzzi. Era quel libro una catena di calunnie e d'infamie; non più che sedicipaginesistendeva,ma insedicipagine chiude vaquantopuòlarabbiastemperareinmoltivolumi.Ven devasi inRoma,ma senza luogo enome di stampato re. L'autore non è a richiedere, che si stette e starà sempreocculto:elomerita.L'Amaduzzi,comecchèsu periore fosse alle male arti dell'invidia e della calun nia, pure tenne dell'onor suo rispondere e scolparsi; e dettò uno scritto intitolato Rimostranza al Trono Pontificio,emanifestoalPubblico= Equestofino dal 1790. era in punto per le stampe. M a consigliato dagliamici a presentarne prima il Papa, alloraPio VI, anzichèmandarlo allaluce, eglicondiscese. L'ebbe (1) infattoilPontefice,lolesse,conobbe lacalunnia,eren dendolo con molta benignità all'autore gli fe'travede re, che egli avrebbe punito i calunniatori col trionfo delcalunniato.Ma lavitanonbastòall'Amaduzzi.Sa rebbe assai desiderevole che questa Rimostranza fosse data a luce, perocchè oltre allo scoprire fino al fondo l' animo dell'autore, mostra la condizione dei suoi tempi, e di molte cose incerte rende pienissima fede. Ivi egli parla di sè con libertà di filosofo, e fa il ca rattere suo qual era in fatto, ed i suoi stessi difetti non nasconde. Si confessa amatore della filosofia, non di quella che in barbaro gerga di voci più barbare non dà che frasche, e sofismi, m a di quella nerboruta e vigorosa che prese spirito dal Galilei, da Bacone, da Cartesio, da Newton e dagli altri di tale schiera, i quali, abbattute le vecchie superstizioni e le matte fre nesie, rimisero al suo seggio la ragione,e in quello stesso che la innalzavano la mostrarono più riverente, ed ossequiosa alla Religione.E apertamente dichiara solo quella filosofia piacergli, che è guida e conforto degli uomini, maestra di costumi, e di civiltà, e che nasce dalla carità cristiana, che è la sola per cui la società ha fermezza, e innanzi cui scompare ogni fel lonia ed ogni pubblica sventura.E non disconfessa il suosentirsidisoverchiotrasportatoadireilveronu do e calzante,e l'essere sdegnoso de tristi, e insofa (1) Vedi rimostravza al Trono Pontifieio] ferente di oltraggi.Insomma io non credo che altri possa ritrarre lụimeglio, di quello che egli stesso in quella scrittura si ritrasse. L'abate Francesco Gusta nella sua Vita di:Co stantino, oltre il pụngere sovente ! Amaduzzi, e tal volta inveire contriesso, lo tratteggia come soverchia menteamicodinovità,elomandadelparicolPe reira,colTamburini,colNatali,ecolZola.Ma cheil Gusta parlasse per invidia, e per bassissima vendetta, sitravede in leggendo quella vita; e l'Amaduzzi ben fe? a punirlo collo sprezzo dell'opera, e dell'autore. Egli il 16. maggio del 1791. ottenne di essere giu bilato dalla cattedra di lingua greca nel collegioUre bano, e il decreto n'è molto onorevole. Nel dicem bre dello stesso anno cadde malato, e giudicarono che egli avesse pericolosa ostruzione alla milza, ed al fe gato.Siposeinletto,e arigorosacura;ma ilmale anzi che cessare rincrudì, e lo mise fuori d'ogni spe ranza di riaversi. Anima nobilissima come era,accettò l'annunzio del pericolo suo con serenità di volto, e tranquillità, e adoperò in quello stremo da quel filo sofo cristiano, che per tutta la vita aveva mostrato. Sia qui debita lode ai cardinali Antonelli, Borgia, G a rampi, che luisoccorsero generosamente in ogni gui sa; perocchè egli non aveva modo da sè di sostenere lunghe spese di malattia; non avendo mai voluto far denaro,anche potendolo.Ne glimancarono buoni ami ci in quell'estremità,che ben n'aveva di tali; sebbe ne egli fuor del mondo col cuore solo fidava in Dio, e però presi i conforti della chiesa, dispose delle poche cose sue,etranquillamentepassòil21.gennaro del1792. in età di soli 51. anni. Morendo lego alla patria la sua ricca biblioteca che era il meglio dell'eredità sua; legato preziosissimo specialmente peisuoi scritti,e pel carteggio. Fu pore țato al sepolcro in abito clericale suo principale o r n a mento edecoro,come,egli primadimoriredichiarò; poichè egli aveya ricevuti, come siè detto, gli ordini minori. Tutti i giornali d'Italia piansero laperdita di tantuomo.L'abbateOssuna ex-gesuitamaestrodirettori: pa in Savignano ne inserì un bell'elogio nella gazzetta di Cesena;unaltronemiseilP.Pujatinegliannali eça clesiastici di Firenze.Anche il Mazzuchelli nella sua grand'opera degliScrittoriitalianinefeceun bell'elogio: ma il più ricco di tuttifu letto nella reale accademia delle scienze e belle lettere di Mantova il 29. novembre del 1793. dall'abate don Isidoro Bianchi,con appresso il catalogo delle opere dell'illustretrapassato; catalogo â cui rimetto i miei lettori, perchè penso che di m e glio non si possa fare. Basti sapere che ilnumero delle opere dell'Amaduzzi tra le edite, e quelle che inedite rimangono nella biblioteca savignanese vanno oltre à cento venti, é ve ne ha alcuni di gran mole. Non possoperò quipassarmidall'accennarneuna per oni 1 Amaduzzi si ebbe grandi amarezze, e fu = Lege'snovellaeV.anecdotaeImperatorum Theodosiiju nioris,etValentiniani111.etc.= Intornolaqualeil dotto Bianchi dice così = Ai colti bibliografi non è ignoto, che in tempo che l'abate Amaduzzi era in R o ma occupato per la pubblicazione di quest'opera in signe,inRavennapure sitravagliava dal dott. Anto nio Žirardini per lo stesso oggetto. Or la morte dello stampatore,cheincominciò l'edizione romana,é ledue malattie di quello che la prosegui (vedi Nov. Lett. del Lami del 1766. a col. 822. ) ritardò la medesima più oltre del tempo assegnato nel manifesto, che usci ai 21. di giugno del 1766; é nel quale si promettevä il libro nel prossimo agosto, quando per le suddette c a gioni realmente non uscì che nel 1767. L'edizione in tanto del Zirardini si rese pubblica nello stesso mese di giugno dell'anno sumentovato, e dal Lami ne fu subitoriportato un lungoestratto,chesiè creduto di mano dello stesso Zirardini, o di qualche altro suo intimo amico dimorante in Roma (Gaetano Marini): Un altro breve annuncio della stessa edizione faentina fadatodaigiornalistid'Yverdon (tom.I.1768)av vilendola forse un po'troppo in confronto della roma na.Questoannunziounpo'vibratomisedimoltomal amore il Zirardini, e stuzzicò un letterato romano (it prelodato Marini)molto amicodel medesimo ad inse rire nel tomo 3. del giornale di Pisa un lungo estrat to dell'edizione delle cinque Novelle fatte in Faeriza dal dott.Zirardini, attaccando l'abbate Amaduzzi d'im postore e di plagiario, come se egli nella sua edizione] La cosa era in sè semplicissima. Due dottiquali eranoilZirardini,el'Amaduzziavevano estratta00 pia delle cinqueNovelle quasi inpari tempo;amendue vi ponevano studio intorno per illustrarle;l' uno in sciente l'altro le pubblicava. Or che male è qui? lo avviso che se i giornalisti d'Yverdon avessero con più lode trattata l'edizione faentina non si sarebbe mossa querela alcuna nè dallo Zirardini, nè da alcun altro. M a il Zirardini punto dalle parole dei giornalisti d ' Y verdon, e rinfocato dal Marini, che vedeva forse di mal'occhiosalitoinfama1'Amaduzzi,chealloraa lui non era amico più che d'apparenza (cosa che si pro va benissimo per molti fatti,ma piùper le lettere del Marini al dottissimo pesarese Olivieri le quali nella p u b blica biblioteca di Pesaro si conservano )cominciò a fare lagnanze, ed avventarsi contro l'Amaduzzi.Sebbene sa rebbe piùveroildire, cheilZirardini,chemodestoepaci fico era di natura, si lasciò reggere in tutto dal Marini stesso; il quale si fe' innanzi al pubblico co'suoi scritti a c cusatore dell'Amaduzzi,più presto che buon difenso redelZirardini.Egliè fuordubbiochemolto inge nuamente l'Amaduzzi, nel S, X. della prefazione dopo aver mostrata nel suo vero essere la cosa, diè le più belle lodi che mai al Zirardini, sino a confessare che ove avessepotuto,sisarebbeegliastenuto dalpubblica re l'opera sua, dopo avere conosciuta quella dell'illu stre ravignano. Eccone le parole = Neque hic nunc silentiopraetereundum dum opus hoc nostrum praelo traderetur, has ipsas Novellas ex eodem Othoboniano Codice depromptas faventinisArchiitypisprodiisselu culentissimo commentario illustratas Antonii Zirar dini ravennatis viri consultissimi, qui eundem codi cem insciis nobis ab ipso Ruggerio jampridem obti , nuerat, qui sane longe effusiori doctiorum adnota tionum segete,ulteriorique rerum doctissimarum ap  999 » 14 romana si fosse approfittato dei lumi, e della erudizio ne sparsa nell'edizione faentina. L'abbate Amaduzzi però,cheebbe sempre a cuoreilproprio onore,esem pre si fece un dovere di vendicare igravitorti, che la malignità congiunta all'invidia avesse saputo recare alladi lui onestà,e buona fama,non tardòapubblica re sotto il finto n o m e di Evisio Erotilo la sua apología. 92 99  jypáratu rem perfecit;quod sane sinobis, antequam hanc spartam curandam susciperemus , innotuisset, w cîtrapublicaefidei,quajamobstringebamurinjuriam; eademfortedimittianobispoterat.= (Ginanni t. 2. Memorie storico-critiche degli scrittori ravennati ): Dopo questo io non posso credere per conto alcuno a ciò che francamente il Marini afferma nella sua im . mortaleoperadeipapiridiplomatici.- L'Amaduzzi volle far credere di non aver lettö il libro del giures consulto ravennate,chepur aveva tutto coraggiosamento te espilato و Parole che bene consuonano alle acers bissime che scriveva all'Olivieri, dalle quali si pare, che per buon viso che mostrasse all'Amaduzzi pure vi avesse mal'animo contro.Tanto possono le passioni nel cuore degliuomini piùsapienti,etale èlasciagura perpetua delle lettere italiane! L'Amaduzzi fu uomo pio, caritatevole,generoso; bocca di verità.Cogli amici affabile,con tutti umano; socievole. Consultato dai primi dotti volentieri lorð sinceramente si prestò. Sappiamo infatto che fu inters pellato dal famoso Pasquale Amati per la sua col lezione dei Poeti latini,come si legge nel tomo I. pax gina 6. della prefazione; dal dottorFantini per le an tichità di Sarsina, che ristampò in Faenza nel 1969: in cui si trovano varie aggiunte dell'Amaduzzi; dal Ferri; dal Bianconi,dalcardinalRiminaldi,aiqualidièmoltis sima mano.Faceva volentiericopiaaltruidelsuo vasto sapere, e spesso scrisse per altri donando la fatica e la gloria che ne verrebbe. Grato oltre ogni credere tramandò ai posteri le lodi di quanti a lui premoriro no amici, e benefattori. Se qualcuno a lui caro o sti mato veniva offeso nell'onor letterario o in altro, e gli si levava a difesa, e acerrimamente ripugnava le accuse. Intraprese viaggi per diversi luoghi d'Italia onde meglio erudirsi, visitando biblioteche e codici, e molti ne trasse dalle tenebre.Usava ogni di notare in un libro le cose vedute, o fatte. Amò lapoesía, e giovine dettòversiitaliani,iquali,comecchèritraggano assai del secolo in che visse, sono degni di essere letti. Si piacque oltremodo delle artibelle, e ne rendono fede i'elogioche egliscrisse di RaffaeleMengs, e l'amici xia che lo lego al Winckelman , al Bianconi, al Bottari;  16 'e ai primi artisti di Roma. Non 'cercò, anzi rifiutò ca riche offertegli. Dalle lettere a lui dirette da varii m i nistri sirileva cheegli fuinvitato dalla real corte di Napoli allacarica di CustodedellaBiblioteca regiae delmuseofarnesiano,'edi coadjutoreperpetuo della reáleaccadèmia il 2. settembre del 1780. con onora rio di 300 a 400 ducati, ed altre buone condizioni. Ed essendosene scusato 'fu di nuovo invitato con più vive istanzel'8. gennajo del 1782 con più largheof ferte.Nè unsecondorifiutobastòacessarel'inchieste: poichè il 24. luglio del 1784. gli furono offerti mille d u cati,equelch'egli volesse,solochesirecasseadac cettare l'invito.Altrecariche purericusò,perchèa tutto anteponeva lo starsi fra 'suoi libri in R o m a. La patria accettando ilgeneroso legato fattoglidi oltre 4000 volumi gli ordinò solenniesequie nella chie sa maggiore a spese pubbliche, a cui intervennero il magistrato, e i principali cittadini di ogni ordine. Fu posta sullaporta della chiesa una 'onorevole iscrizione dettatadall'eruditissimoPietroBorghesi,laquale andò pure'alle'stampe.Appresso nell'atrio dellecasedel municipiofuincisala seguente iscrizione scritta dal chiarissimo suoconcittadinocavaliereBartolomeoBor ghesi figlio di Pietro, la quale dice così. Jano · Christophoro · Mich · F · Amadutio Philologo : Eruditissimo Ordo • Sabinianensium Civi . Bene ·Mer. ·Altro onore vole titolo puresarà in breveposto entrolabiblioteca, ovecongrandesennoe gloriadei trapassati, a stimolo dei viventi 'concittadinisono in marmo descritti gli elogidiquantireseroillustrelapa tria dell'Annaduzzi, che fu pur quella del Barbaro, dei Borghesi, degli Amati, è del Perticari. N.B.Ilritrattoèstatorica- miglia Amaduzziin Savignano. mpato da quello esistente nella fa MONTANARI PROF. G. I.DI BAGNACAVALLO = SCRIS. EA est temporis ed acitas, ut cum ftapaul- latim diflolvat, nullaque res fit vel pre¬ tio,velfoliditate,velquocumquealio nomine praeftans, quae eius imperium detreftare (e poffc confidat. Si Roma¬ norummonumentaadaeternitatemcon- ftru&a perpendamus, quae nunc vel diruta, vel male confi- ftentia oculis nofiris obverfiantur , intimo quodam doloie percellimur , & aegre licet, indubie tamen fluxam rerum hu¬ manarum conditionem agnofeimus. Ceterum is eft de animi noftriimmortalitatenobisindituslenius,atqueitaaltede¬ fixus , ut veluti tacite ab eo profe&um intelligamus tum de- fiderium,quotangimur,veterummonumentorumanxieper¬ quirendorum , tum lolertiam , quam in lifdem vel reipfia con¬ fervandis,velinlongiusduraturamateriaexcipiendisimpen¬ dimus. Haec peragentes videmur quodammodo inanimatis re¬ busnoftramtribuereimmortalitatem,qui&eafdempofteritati commendemus,&earumdempraefidiovelutinosipfosadtranf- acftas remotiffimas aetates, ad quas pertinent, transferamus , atque I   II atque ita exiguam nimis vitae noltrae brevitatem vel produ¬ cendo , vel compenfando nobis libentiffime blandiamur . Quae ergo veterum artes , & profeffiones condiderunt, Signa , Pro- tomas , Hermas , Anaglypha , Sarcophagos , Titulos , cetera- quemonumentacolligeretumprimumfategitFrancifcusPe- trarcha , quem Tuae aetatis perpauci, plures fequiorum tem¬ porumimitati,tumMulca,&Villasiifdemlucupletantesa litu,Iquallore, quin& interituprovidilTime vindicarunt.Sed in irritum cefolTet haec ipfa follicitudo , nili typorum etiam accefliffet luccenturiata fedulitas. Quot enim diffracta Mufoa, quot iam Villae labefactatae, & quot vel avulfa , vel rurfus obruta, atque etiam foede difrupta, quae ibidem exfiftebant, monumentavelutiaboculisnollrisaufugerunt1Quarelae¬ tandum nobis elt, eo pervenille humanae mentis acumen, utiplistemporum,&rerumvicilTitudinibusoblittere,&vim inferre non dubitaverit, & curas curis addendo nova excogita¬ veritpraelidia,quibusdiuturniorihuiufmodimonumentorum confervationi prolpiceret. Hmc ergo elf, ut quae in unum col¬ lecta monumenta perierunt, perenniter vivant in eruditorum Voluminibus vel typis aeneis contignata, vel doctis illultrata adnotationibus, quibus nunc autographorum deliderium nobis reparari quodammodo videatur. Quare non aliam ob cauffam, neque etiam abfimili ratione quae olim laudabili providentia Cyriaci, &: Afdrubalis ex Matthaeia gente Procerum, & lovii Marchionum tum in Hortis Caelimontanis, tum in Aedibus ad Circum Flaminium coafta, & collocata fuerunt omnis generis monumenta , nunc primum aereis formis infoulpta , nollris il¬ ludi ationibus ditata , in unum collecta, rite dilpolita , ac tribus comprehenfa Voluminibus preli beneficio in publicam lucem emittuntur.Licetenim,utfuolocomonuimus,&deinceps etiam monebimus, multa eorum a prioribus hilce domiciliis pro-   III profectainceleberrimumilludMufarumSacrarium,Mufeum nempe Clementinum Vaticanum, conceffierint aevo quam lon- giffimo fruitura , tamen non omnia illuc fe receperunt, multa quinimmoproculiamabiere,acmultaetiamindiesfatifcunt. Videt, credo, porro unufquifque, ereomninofuifle, utquae olimfuerittantamonumentorumcongeries,unooculiiftu perluftretur,tumdomi,&foris,tumpraefenti,acfuturo tempore innotefcat. Deliderandum quidem erat, Hortos , & Aedes Matthaeiorum tantis confpicuas monumentis litterato¬ rum obtutibus exhiberi, ne tot aliis, numquam cum iis com¬ parandis, quae hoc beneficium nactaefuerant, veluti quodam¬ modo inferiores & haberentur, & effient • II.Poftquamlitterarum,&veterumfcriptorum,rnonu- mentorumque ftudium adolevit, tum artes ipfae, quibus ab honeftate nomen efi , barbariem a Gothis , Langobardis , ce- terifque feptentrionalibus populis inaufpicato invectam Italia exfulare iulfierunt, homines conformare fe urbanitati, cultui, & magnificentiae Romanorum veluti quadam concertatione facta coeperunt. Inter cetera Romanae magnificentiae opera, quibus luxus impenfius excreverat, &.ipfe Perfarum faftus, & opulentia obfcurata omnium iudicio cenfebatur, Villae pro¬ fecto fuerunt, quibus nihil pulchrius, nihil amoenius, nihil praeftantius&fpatiiamplitudine,&ftruHuraeexcellentia, & aedificii decore , &: operum copia haberi poterat . Exftant nunc etiam Tibure Hadrianeae Villae veltigia, quae fupra re¬ liquas plane excellebat, & ex qua tam infignia & Graecorum, & Aegyptiorum monumenta prodierunt, ut iis Mufeum Ca¬ pitolinumtamquamcimeliisomninolingularibus,omnium- que praefiantiffimis inclaruerit (0. Scatebat porro Tiburtinus ager (i) Pyrrhi Ligorii Defcriptio Villae Tiburtinae Hadriani Caefaris. Romae 1551. in fol. eum Ji- guris • Vide lofephum Roccum Vulpium Vet.Lat. Tom. X. y Sc omnes Tiburtinos Hifloricos, Ioh. Franc. Martium, & Antoninum Regium, tum_, Idyllium Fabii Crucii, inferius citandum - Omnium   IV ager multis aliis privatorum civium fecedibus longe clegan- tiffimis , inter quos omnium deliciarum genere conferta emi¬ nebat Maecenatis Villa, aderantque aliae, quae ad Manlium Vopifcum(0,MunatiumPlancum,SalludiumCrifpum,C. Caffium , Quintilium Varum , Marcum Lepidum , & Cyn¬ thiam Propertii amicam, aliofque pertinebant. Praetereo Ci¬ ceronis Tufculanum (2) , quod fuerat antea Syllae , tum For¬ mianum , Cumanum , Puteolanum, & quod omnibus celebrius, porticu , & nemore infigne, atque Academicis quaedionibus facrum , Pompeianum. Celebre & Horatii diverforium in Sa¬ binis (?) , Catulli extra Portam Valeriam ad ripam Anienis (4) , Senecae in via Nomentana 5) , Martialis ibidem C6), & longo laniculi ingo (V , aliorumque. III.Horumigiturimitatiexempla(aeculiXVI.magnates opulentia, luxu , & litteris praedantes fuburbana condere coe¬ perunt amoenidima, quorum primum illud cd, quod in oppido Bagnaiae anno coidxi. inchoatum tandem perfecit Ioh. Franci- fcus Gambara Card., & Viterbiends Eccleliae Epifcopus, cuius fata & Francifcus Marianius (s) , & Felicianus Buldus (9) late alienigenarumfrequentiacelebraturhaecVilla,nec caruic praefentia IOSHPFII II. Imp. Pii Felicis Aug. 3 cuius rei memoria marmore infculpta haec Imp. Caef. lofepho . II Petro . Leopoldo . M. Etruriae . Duci Archiducibus . Andriae . Germanis . Fratribus PP. FF. AA Hadrianae . Villae . vedigia In. hoc . fundo, ac. vicinia, confpicua Huius . Villae. Dominus, demondravit Iofephus . Eqiles . de . Fide Aulae. Caefareae . Confiliarius XIII. Kal. Apr. A. MDCCLXIX pro- lianaeVillaeexidimat;tumGregoriumPlacenti- nium de Tafculano Ciceronis 3 nunc Crypta Fer- rata; Romae 1758. (3) Vide Differtazione di Domenico de Sanctis tra oli Arcadi Falcifco Carijliofopra la Villa di Orazio Flacco; Roma pel Salomoni 1761., 8c De- cuoverte de la Maifon de Campagne d'Horaee par PAbbe Bertrand C.ap Martin-Chaupy ; d Rome 1769. vol. III. (4) Hendecafyll. XLII. (5) Epiff 104. , & 110. (6) Lib. I. Epig. 106. (7) Lib. IV. Fpig. 64. (8) In Parergo de Fpifcop. Viterbien. pojl Dif- fertationem de Etruria Metropoli; Romae 1728. (9) Ifloria della Cittd di Viterbo; in fine del- (2) Vid. Ioh.LucamZuzzcrium(D'unaanti- laCronologiade'Vefcovi;Roma1742.Condito¬ ca Villa [coperta fui dojfo dei Tufalo ; Venezia rum nomina hifce Verfibus Petri Magni ibidem (0 Vid. Statium Sifa. Lib. I. 3. 17 47- 9 qui Ruifincllac delicium Jocum fuiffe Tui- exaratis innuuntur: Nec   V profequuntur . Tum prodierunt, ac longe lateque inclaruerunt Horti Tiburtini , quos poft Card. Bartholomaeum Quevam, qui aluliolll. obtinuerat, Card. Hippolytus Eflenfis exftruxit, permagnifico praetorio auxit, & antiquis ftatuis , picturis regiaque prorfus fupelleftile locupletavit . Hi dein in Card. Aloyfium Eflenfem translati funt, quo vita funbto, ex, Hip¬ polytite ftamentaria voluntate, & iudicialifententia, eorumdem usura XII. annorum spatio cedit Sacri Collegii Decano, donec purpura donato Alexandro Eftenfi, eorumdem ius in ipfa familia'inftauratum cft, novafque a legitimis dominis & additiones, & reparationes poftea habuerunt(0 . Tiburtinum hoc delicium carminibus celebravit M. Ant. Muretus, ac praedicarunt infuper Libertus Folietius (2) , Ioh. Francifcus Martius (s), Antoninus Regius(4), Fabius Crucius W , Ferdinandus Ughellius 05) , Francifcus Scottius») , Rodulphinus Ve- Nec placuifle tibi laus ultima3 magne Riari, A quo primus honos 3 nobilitafque loci. Quod fi longa tuae ncvifTct flamina vitae Invida Parca, nihil quod quereremur erat. Saltem magnanimi virtus praeclara Rodulphi Serius ad fuperos hinc abiifTet heros. Nunc j o Dive loci praefes , tibi Gambara poft hos Contigit haud opibus } fed pietate pari. (0TeflesfuntfequentesInfcriptiones’: I. Regios . Eftenfium . Principum Hortos . iinmenfo . Card. Hippolyti Sumptu . praeruptae . rupis Afperrimis. cautibus In . mollilTimi . clivi . penfiles Ambulationes . converfis Ac . terebrati. per . montis . vifcera Duffcis . ex . Anniene . innumeris Fontibus . admirandos . ab . Aloyfio nutius Magnificentiori . forma . conftru&i Et . venuftati . quam . vides Reftituti Anno. Salutis . MDCLXXXV (2) Tyburtinum Hippolyti Card. Ferrarien. ad Flavium Vrfinum Card. ampliff. 3 inter Opera fub- Jiciva Vberti Folieti Genuen. Romae apud Franc. Zanettum 1S’79- j & In 1'om. I. Part. II. Thefaur. antiq. bijtor.ltalic.Ioh.Georg.Graevii.Lugd. Batav. 1704. (2) Hiflor. Tibure. Lib. V. num. 174. Thef. . Graev. Vol. III. pag. 4. (4) Antichitd di Tivoli di Antonino dei Re ; Tom. eod. Thef. Graev. (5) Ville di Tivoli deferitte dall'Arc/prete Fa¬ bio Croce di detta Citta; ldilio divifo in due rac- conti 5 nei quali fedelmente Ji narratio non meno le Ville , che anticaraente v'ebbero , e frequenta- rono gl*Imperatori , Re con altri infigniperfonag- Et.Alexandro.Cardinalibus pi,ecelebrivirtuofi,raalamedefimadellaSere- Magna . fplendidi . cultus Acceflione. nobilitatos II. Serenifiimi.Francifci. II. Mutinae . Regii. &c. Ducis Vel . abfentis . munificentia Fontes . ifli . temporis . iniuria . collabentes nijjima Cafa d*EJle &c. 1» Roma per it Mancini 1664. in 8. (6) In additionibus ad Alpbonfum Ciacconium de Fontiff. Rora. 3 S.R.E. Cardd., ad ann. 1539. ubi de Hippolyto Card. Eftenfi . (7) In Itinerario Italiae Lib. III. pag. 631.   nutius(0,IohannesPetroskiusO),IolephusRoccusVulpius (3) , Ioh. Andreas Barottius (4), aliique. Picturam vero aeneis typis Romae publicavit Corona Pighius. In hos oculos Ilios potiflimum intendit, & horum exemplo incenius eit Cy- riacusMatthaeius,quodeinluosinCaelimontioexcitaret, quoslatedeferibemus,poftquamceteros,quideinRomae, vel in eius vicinia conditi funt, levi calamo attigerimus. IV7. Fere eodem tempore excitari coepit ab Alexandro Farnefio Card. , Paulli III. fatris filio, Caprarolae delicium , infigni praclertim architectura lacobi Barotii a Vignola , St praeclaris Thaddaei, Friderici, St Octaviani fratrum Zucca- riorum, Antoniique Tempeftii picturis celebratiflimum b) . Heicetiam laudandinunc veniuntHorti,quiprimumexiuflu Card.IuliiMedicei, qui fuit poflea Clemens VII. P. M., for¬ mam praebente Raphaele Sanctio , conftructi funt ad Clivum Cinnae (nunc Montem Marium dicunt ), picturilque Iulii Ro¬ mani, StIoh.Utinenfisornatifunt,actandeminFarnefiam gentem , quae cultu fplendidiores, St opere ampliores fecit, devenerunt W Recenlenda infuper eft Villa Philonardia, quam EnniusPhilonardiusS.R.E.Card.Tiburefibicomparavit, quaeque nunc fquallet, St rimarum plena undique fatifeit, atque dilabiturb) . Quid vero memorem Hortos a Iulio III. extra Portam Flaminiam dein mire exftruStos, a Faufto Sa¬ (1) Defcrizione topografica 3 ed iflorica di Ro¬ ma moderna Tom. II. pag. 925. bae- prarola &c. Opera de' pih celebri Arebitetti 3 di- fegnata da diverfi . Libro in 8$. fol. 3 c mezzi fol. Imper. Parte III. Tum Deferizione 3 e rela- zione iflorica dei nobilijftmo real palazzo di Ca- prarola&c.daLeopoldoSebafliani;Romapergli (2) Trigonometrica Dioecefls, & Agri Tiburti- tii Topograpbia 3 ‘veteribus 1viis 3 'villis 3 ceterifque antiquismonumentisexculta&c.RomaetypisGe¬ nercflSalamoni3pag.XIII. eredideiFerri1741.inS.VideEpigrammaAu¬ ($) Vet. Lat. Tom. X. (4) Memorie Ifloriche de’ Letterati Ferrareft; opera pofluma . In Ferrara nella Stamperia Came- rale 1777. Vol. I. pag. 336. CS) Vide Studio d’Arcbitettura civile fopra va¬ rie Cbiefe , Cappelle di Roma 3 e Palazzo da Ca- relii Urfii Romani de Caprarolae deferiptione ad Card. Farnefium Lib. III. Epigr. 21. pag. 75- utriufque editionis Parmen. 1589. 3 & Bonon. 1594* (6) Nunc Villa Madama vulgo audit \ (7) Vid.‘Iofephum Roccum Vulpium Vet. Lat. Tom. X. Lib. XVIII. Cap. X. pag. 379-   baeio(*)&FrancifcoCommendonio.C2)carminibuslaudatos, tum a Scottio Cd , BoifTardio 3 CiacconioW 3Panvinio (6), aliifque fufe defcriptos ? Ii namque a Clemente XIV., & PIO VI. Summis Pontificibus nuper reparati eruditorum o- mnium oculos in fe converterunt, & aeneis formis expreffi, noftnfque illuftrationibus audi in publicam lucem ad Archi- tedonicae artis praefertim adiumentum propediem prodibunt. Laudari vero lure poftulant Horti Medicei in Colle Hortulo- lum exfiflentes , a Card. Ioh. Puccio Politiano inchoati, & dein ab altero, eoque eximio Romanae purpurae ornamen¬ to , tum Magno Etruriae Duce Ferdinando Mediceo multis eruditae vetuftatis praeclaris reliquiis, & exoticarum lingua¬ rum typographia longe celeberrima magnificentiffime ampli¬ ficati . Commemoratio faltem defiderium reparet Hortorum Carpendum, quos in Quirinali olim aedificaverat, atque adeo praeclaris ornamentis infigniverat Rodulphus Pius S. R. E. Card., ut CXXXVI. amplius ftatuae in iis numerarentur, quarumpraeffantioresrecenfetLJlyffesAldrovandiusV)3eas infuper referens, quas & ipfius Palatium in Campo Martio fervabat.Hisiungantur&Hortiilli,quioliminSuburra prope Amphitheatrum Flavium, & Templum Pacis a Card. Lanfranco conditi, Carpenfes dein fadfi funt. Prodierunt & hoc tempore Horti Farnefiani Tranftiberini (8J , aliique Palati- nifV,ubinuncvineae,&;vepres.Necreticendifuntmodo ma¬ to Epigrammatam Lib.I. pag.Sj., fi7., ,33., 138., 144.3 148., i;i., ij6., ij7., 161, (2) Ex Mf. Cod. Epiflolar, Cornelii Muflii Epifc. Bituntini apud CI. Praefulem Stephanum Borgiam a Secretis Sac. Congr. de Propaganda Fide . (3) Itiner. Ital. pag. 483. (4) Topograpbia Vr.bis Romae Tora. I. pag. Jo. & feqq. (3) In vitis Ptmtif., 'ubi de Iulio III. (fi) ln vita Ia/ii III. poli vitas Barth. Platinae . Hortis Carpenfibus legendus Boiflardius loc. cit. pag.46.jScottiusloc.cit.Lib.II.Cap.VII[. pag.476.j Francifcus Swertius Lib. II. Itiner. Italiae 3 Andreas Victorellius, ae Ferdinandus U- ghellius apud Ciacconium in Rodulphi Pii Card. vita3&FloravantesMartinelliusRomaexethni¬ ca facra pag. $y. Vide Portae eCtypum inter o- pera Architectonica Iacobi Barotii a Vignola^ Tab. XXXXV. (8) Vid. Scottium loc. cit. pag. 416., Boif Tardium (7) D elieStatue antiche, cbepertutta Roma, loc.cit.pag.11.,&UrfiumLib.I.epigr.12.pag.52. fiveggono 3 pag. 29J. Vid. fuperius pag. 201. De (9) Vid. Scottium pag. 444.   VIII ma*nificentiffitni Horti Quirinales Card. Guidonis Bentivoh Ferrarienfis, quibus nulli Romae erant arboribus fplendidiores, ut & lilvae lpeciem praeberent, & labyrinthi b) .Succedant dein HortiCaelii,qui,defcribenteloh.BaptiftaFonteio-, ad dexteram laniculum habent, ad laevam Vaticanos montes , ante fe Tiberim , SancTi Spiritus Fanum , & Xenodo¬ chium, pojlfe Prata Neroniana , fornaces lateribus exco¬ quendis infimaas, edito in colle,fecundum aedes Cacfias re- fertiffimas ipfis antiquitatibus. Horum Hortorum Inlcripuones multas refert ipfe Fonteius, lulius Iacobonius, cetenque, ac nonnulla eorumdem vetera monumenta iamdiu inde avufa ad augendam Capitolii maieftatem praecipue emigrarunt b . NonnullisantiquitatisexuviisditatiquoqueerantHortiAven¬ tini Maximorum H) . Nec fua careat laude Blofianae Villae amoenitas, & Hortorum Coloccianorum apud veteres Sallu ftianosO123) tumobveterummonumentorumcopiam,tumob litteratorum conventum celebritas. Infuper memoretui Augu- ftiniChifiiSuburbanumTranftiberinum,inFarnefiamgentem translatum, magniRaphaelis picturis , multifque antiquitatibus IpedlatiffimumV; 5 Marcelli Ccrvinii Card., & dein Pontificis Max. Villula elegantiffimaV), ac Petri Melinii altera V), in qua Poe- (1) Vid. Scottium pag. 479.} & BoifTardiurrL. pag. 47. (2) DeprifeaGaeftorumgenteLib.Il.Cap.XIII. pag. 154. Vid. Urfium Epigr. 19. Lib. III. pag. 72., ubi de fimulacro Veftae in Hortos O&avii Caefii translato. (3) In Capitolio: Clemens.XI.P.M Romae. de . Dacia. Triumphantis Captivorumq. Numidarum . Regum . Statuas Ex . Hortis . Caefiis Addito . Aegyptiorum. Signorum . ornatu Porticuque . a . fundamentis . excitata Ad . augendam . Capitolii . maieftatem Tranftulit Anno. Salut. M. D. CC. XX "4) Vid. lulium Iacobonium appendice ad Fon- umdeprifeaGaeftorumgenteCap.XIX.pag.229. (5) Vid. Fauftum Sabaeium Lib. 111. Epigram. , 525., 524., & 5*5- edic- Romae isj6- (6) Vid. Virum Cl. loh. Francilc. Lancellot- ,m in vita Angeli Coloccii praemilta operi , cui ulus:PoefieItaliane,eLatinediMtuifg.'i»' IoColocci&c.hfi.772-PUires''"rcriP‘ionesCo- rcianae migrarunt in Palatium Caid. Carpine!: Le Smetio in Praef. Infer. (7) Suburbanum Aitgitfini Chifi per Blofum illadium . Romae per lacobum Mazocbium Re- jn. Academiae Bibliopolam 1J12. (8) Vid. Sabaeium loc. cit. pag. 568. (9) Vid. Benedi&i Lampridii Cremon. Odem in eliciis Poetar. halor. Tom. I. pag. 1311«   IX Poetas de more familiae coena excipere ipfe folebat. Accedat Villa Lantia in laniculenfi calle fita, quam Iulii Romani ar- chiteftura, & piHurae celebrem praefertim fecerunt. Acci¬ pe nunc & veteres Hortos Vaticanos (0 , quibus Hortus Bo- tanicus quinetiam Nicolai V. iufiu olim conditus adnecleba- tur(2),quofqueamoenioresfecithoctemporePiusIV.,ex- flxufto 'ibidem delicio fane elegantiffimo, ufus opere Pyrrhi Ligorii, qui formam dedit, & perficiendam curavit. Huc e- tiam revocanda Villa ampliffima, quam ad Tufculanum aedi¬ ficavit Card. Marcus Siticus Altempfius Pii IV. fbroris filius, quaeMondragonisdiflaeft,quaequedeinfaftaeitCard. ScipionisBurghefii,aquomultaetiamhabuitincrementa. Sed iam properemus ad celebres Hortos Viminales , five Ex- quilinos , quos Sixtus V. condidit, infignibufque ornavit ve¬ terummonumentis,quiproinde&Perettii,&Montaltini dicti funt, quos Aurelius Urfius Romanus (d praefertim car¬ minibus celebravit, quofque dein fuos fecit Ioh. Francifcus Nigronius Genuenfis S. R. E. Cardinalis O . Tum his iungan- turproximitate,&eiufdemPontificisbeneficentia,&aufpi- ciis affines Horti Viminales Martii Frangipanii0) , qui nunc adStrotiamgentempertinent;atqueitafinisimponaturprae¬ cipuis , quae tulit ruralia delicia faeculum XVI. IV.Necminoricelebritate,magnificentia,acveterum monumentorum congerie praeftiterunt huiufmodi Suburbana, quae (i) Belvedere vulgo audiunt. Vid. Delie. Poetar, halor. Iani Gruteri Tom. i. pag. 638. (2)Vid.HortiRomanibrevemHiJloriamGeorgu. Bonellii CI. Medicinae Profefloris in Archigymna- fio Romanae Sapientiae ad Tom. I. Horti Botani¬ ci Romani pag. 1. (;) Carminum tib.II. pag. :8. Peretthm , fm Sixti V. Pontif. M. Horti Exquilim, & Lib.IU- Epigr. 24. pag. 73, de Perettina Sixti V. P. M VUlq carmine deferipta, mittit nempe verfus fu- perius indicatos . (4) In inuro Hortor, prope Bafilicam Tiberianam: Sub . praefidio . Deiparae I.F.tit.S.M.in.Ara.Caeli.Card.Nigronus Se . fuos . fuaque . conflituit Die . V. Aug. ann. Domini . MDCCVII (5) In fronte Aedium: Sixto . V. Pont. Max Ob . collata In c‘. fe . beneficia Hortofque . Viminales Au Flos Martius . Frangipanius Grati . animi . ergo b   X quae dein faeculo XVII. exftru&a funt. Tufculum quidem amoe¬ nitate loci multos ad fe rapuit, & ad deliciarum feceffus ibi dem aedificandos invitavit. Talis eft , quem Petrus Aldobran- dinius Clementis VIII. fratris filius regiis prorfus impenfis , & apparatibusexfiruxit0),& cuiabipfograto prospectu nomen inditum est. Eidem etiam accepti referendi funt, qui in Quiri¬ nali colle eius Aedibus iunguntur , & veterum nuptiarum pi¬ cturis , ex Titi thermis addu&is , Horti potiftimum celebrantur. Romae in Ianiculi vertice prope Portam Aureliam delicium fibi comparavit InnocentiusMalvafiaV)AnnonaePraefectus, eumlocum occupans, quemibi Horti Martialis olimobtinuerant (r). Quis vero pro dignitate referat Hortos Pincianos fplendidiftimos , quos condidit Card. Scipio Caffarellius in Burghefiamgentemadfeitus,quoiquetot,actantiselegan- tiorisantiquitatiscimeliis,tum&picturislocupletavit?Manillius, Montelaticus, Leporeus, Brigentius , aliique C) latis fuperque eofdem celebrarunt. Nec iple Paullus V. Burghe- (1) Infcriptlo ibi legitur: Petrus . Aldobrandinius Clem.VIII.Fratris.Filius Redacta . in . poteflatem . Sanftae . Sedis . Ferraria Reipublicae . Cbriftianae . fallite . reflituta Villam. hanc Deducta . ex . Algido . aqua . extruxit Vid. Villa Aldobrandina Ttefculana , & varii il¬ ($) Vid. Epigr. LXIV. Lib. IV : Hinc Jeptem dominos videre montes, Et totam licet aejlimare Romam. litisHortorumi&Fontiumprofpettus;infol.E- pitifingolari.IuRomaperGio.FrancefcoBuagni didit Dominicus Barriere ann. 1647. Tabulis XV. , & dicavit Ludovico XIV. Galliarum Regi. (2) Perfecit anno 1604., ut docet Infcriptio , quae fic fe habet: in S. 3 Aufctorem habet Dominicum Montelaticum. Defcrizione della Villa di Borgbefe di Lodovico Leporeo in 4. Vide Apes Urbanas Leonis Allatii pag. 185. Poetica deferiptio Villae Burghefiae vul¬ go Pineianae Andreae Brigentii . Romae 1716. fius. (4) Villa Borgbefe fuori di Porta Pineiana di Giacomo Manilii Romano,hiRomaperLodovico Grignani 1650. , in S. Villa Borgbefe fuori di PortaPincianaconPornamenti3chefioffervano nel di lei palazzo, e con le figttre delle Statue In . hoc . Colle . lani . Bifrontis . memoria Et.Martialis.Poetae.Hortis.celebri in8.DeorumConciliuminPinciisBurgbeftanis Suburbanum.hunc.fecefium Domo . clauftro . flatuis . picturis Fonte . aviario . pomario . vinea Inftruftum . ornatum Innocentius . Malvafia . Cam. Apo/t. Clericus Annonae . Praefe£tus . fibi. amicis Animi . caufa . comparavit Anno.Sal. MDCCIIII HortisabEr/.Iob.Lanfrancoimaginibus,mono- crornatibus} & ornamentis exprejfum. Delineavit, & infculpfit Petrus Aquila, fol. IX. imper. Fpi- Jlola Francifci Blancbinii de nobilijjimo hofpite Co¬ mitis de Traufnitz nomen profejjo, & in Villa Pinciana Burgbefiorum Principum excepto die 27. Maii 1716. Romae 1716 .   'XI fius, qui Quirinale Mutatorium Pontificum excitavit, Hortos ibidem defiderari, neque eofdem & veterum monumentis-, &. ceteris honeftae voluptatis deliciis carere voluit. Celebres & antiquis monumentis referti funt Horti Ludovifiani, quibus locuscumvetuftisSalluffianisHortiscommunisaliquainparte efi, quique Cardinalem Ludovicum Ludovifium praecipuum auftorem habent. His neftantur Horti alii Ludovifia¬ ni iucundifiimi, quos dein fuos fecit gens nobilillima de Co¬ mitibus , in Tufculo politi. Non elegantia folum, fed etiam Ioh.TomciMarnavitiiBofnenfisEpifcopidefcriptiocelebrem fecit Villam Sacchettiam Oftienfem. Quis omnes recenfeat Barberiniae gentis delicias & in Vaticano ubi olim Horti Neronis, & in Ianiculenli, & in Quirinali colle (ri , & ad Ca- llrum Candulphi etiam magnifice conditas ? En Rufina Villa in veitice Tufculi , ubi Tulculanutn Ciceronis aliqui ftatue- runt, ut & fuperiusinnuimus, quam Alexander Rufinus Roma¬ nusMelphienfiumEpifcopusexftruxit.Prodeat&nunclani- culenlis Nobilia Villa , cui nunc Spadiae a gente, quae eam poftea obtinuit, nomen efi, quamque inter Aureliam Portam, & Hortum publicum Botanicum Vincendus Nobilius excita¬ vit ri) . Sed Ianiculenfem collem nulla magis confpicuum fecit, quam Pamphilia Villa, cuius pi-oPpedum , delineationem, & praeftantiora monumenta typisaeneisper Ioh. Bapt. Faldam inlcuiptisexhibuitIoh.IacobusRubeus,quiopusinfcribens Principi Ioh. Bapt. Pamphilio perperam Alexandri Algardii C0 Villa Sacchetta OJlienfis cofmograpbicis ta¬ bulis , & notis illuftrata > rujlicanis legibus , officinarumque infcriptionibus adnotata &c. Romae apud Ludov. Gngnanum 16jo.i,; 4. vid. Leonem Allatium in Apib. Vrban. pag. 166. (2) Vid.Tetium in Aedib. Barberin. p.37o& feqq. G)Haecibidemlegiturlnfcriptio: Villa . Nobilia Viator Hic. ubi. Aedes., ad. animos archi- Inter . amoena . exhilarandos A. Vincentio. Nobilio. excitatas Adfpicis Aug. Caesarem. aquae. de. fuo. nomine. vocitatae Ex. Lacu. Alfiatino . milliario. XIV Conceptae Et.in.rranfliberinam.Regionem.perduftae Emiffarium .exftruxifle. ne. fis. nefcius Dixi. abi. felix . &. vale An. Sal. MDCXXXIX b2   XII architecturam fecit, cum ad Ioh. Franc. Grimaldium Bono- nienfem pertineat (0. Exquilinum vero collem tenet, atque ornatVillaAlteria,inquaStatuae,Frotomae,Infcriptiones, & sepulcri Nafonum Picturae nonnullae veteres adfervantur. Iuftinianea Villa, quae extra Portam Flaminiam & veterum ci- meliis, & recenti cultu conlpicua olim erat, nunc omnino fquallet, eiufque ornamenta praecipua iam ad alteram iuxta Lateranum fitam amplificandam proceflerunt (2) . Dies me de¬ ficeret, ficeterasminores Villas, Cofiagutiam, Caipineam, Caeferiniam, Urfiniam ad Arcus Neronianos, Gilliam via Portuenfi , Cafaliam in Caelimontio , Gymnafiam in Aventino, Sannefiam via Flaminia, Nariam via Salaria , Cinquiniam viaNomentana,aliaiquefingillatimpercenfere,acdefcribe- re nunc vellem. V. Quare memorentur nunc tandem Villae praeftantiores, quas tulit noltra aetas. Praeftat extra Portam Nomen¬ tanam splendidecx ftructa PatritiaVilla (fi, quamimmortalis memoriae Pontifex Clemens XIV. honeltum oblectamentum capturus quotidie fere adire confueverat. 1 ranitiberinas Aedes Corfiniae gentis, olim Riariae, ubi iam degerat Chrifti- na Succorum Regina, ornatiores facit Viridarium amplum, amoenumque, quod iifdem coniungitur. Fluic proximum elt aliud eiufdem Corfiniae gentis Delicium extra Portam Aure¬ liam,exSimonisSalviiarchitecturaconltructum,lofephiPaf- feriipicturisinfignitum,pomarioauctum,&veterumcolum¬ bariis , quae Petrus Sanctes Bartholius illuftravit W , & quo¬ (0VillaPamphilia3eiufquePalatiumcumfuh Ioannes profpeUibus } Jlatua^ fontes } vivaria , theatra > Card areolae3plantarum3viarumqueordinescumeiuf¬ dem ahfoluta delineatione . Romae formis loh. Ia- cobi de Rubeis in fol. Dicitur haec Villa Re/re- Patritius Anno MDCCXVII fpiro. (4)Vid.Praef.adlibrum,cuititulusde'Sepol- (2) Anno 1715. (5) In fronte Aedium haec leguntur : cri degli antichi; & opus alterum eiufdem poftu- mum editum Parifiis a CU. Viris Caylufio9 & Ma- rietteio 3 quod infcribitur Peintures antiques. rum   XIII rum unum eft libertorum Verginiae gentis, noftra aetate de- te£him(') , refertifiimum; quod licet exafto faeculo ortum, no- ftro tamen maxima ex parte eft amplificatum. Ad Portairu. Nomentanam , contra Coflagutiam Villam, novam excitavit ColbertiiaemulusSilviusValentiusGonzagaMantuanus,S. R. E. Cardinalis, Sc fapientiffimi Pontificis Benedicti XIV. a fecretioribus confiliis , quam doctis omnibus patere iubebat, Sc antiquis infcriptionibus , exoticis plantis, pluribufque ex India , & America adveftis cimeliis abunde ditaverat , quae¬ que dein a Card. Prolpero Columna Sciarra comparata Bar- beriniae genti nunc acceflit. Extra eamdern Portam aliam fibi paravit Villam, nonnullis antiquis monumentis ornatam , Car¬ dinalis Hieronymus Columna Aerarii Pontificii Quaeftor, Ca¬ merarius vulgo nuncupatus . SecefTum quoque via Aurelia libi fecit iucundiflimum Card. Iofephus M. Feronius Florentinus, qui primus docuit hortos topiario opere ex malis medicis instruere, ne voluptas, Semagnificentia folo fiimptu ,Stfterilitate diftingueretur , quin potius ex ipfo luxu , & oblectamento non mediocris gigneretur proventus. Deliciis, & elegantia fpectatif {imam Villam infuper aedificavit extra Portam Salariam non longe ab Aniene, & ponte Narfetis Flavius Chifius Iunior S.R. E.Cardinalis,quemmoxdirafatiforsperemit.Verumceteris fupereminet,&iamomniummaximefamacelebraturfplen- didiffimaVilla,quamextraPortamSalariamaedificavit,St quotidie etiam amplificat Eminentiffimus S. R. E. Cardinalis Alexander Albanius , qui regio plane cultu , Sc exquifita ele¬ gantia ipfam perfecit. Aegyptiaca , Graeca, Sc Romana eiu- ditae antiquitatis monumenta ubique fe produnt, quorumple¬ raque anecdota typis aeneis expreflit, doctifque illuflravit ex¬ pli¬ co Vid. EphemerideslitterariasFlorentinasCl. O) Vid. Elogio dei Card. Silvio Vale,ni Go«- Ioh.Lamiianni1765.n.21.3 &feqq.coi.jai.j zaga (deiCh.Monfig.ClaudioTodefchi). « &peqq. Roma dalle Jlawpe dei Salomoni 177^*PaS-34*   plicationibus Vir Cl., idemquc infeliciflimus Ioliannes Win- ckelmannius Saxo, olim Nethnicii in Agro Drefdenti Buna- vianae Bibliothecae, quae in Electoralcm pottea migravit, Cu¬ ltos alter, tum Romanae Ecclefiae facra profefTus, Romanarum antiquitatum praefe&ura ornatus, Bibliothecae Vaticanae Scriptor Graecus renunciatus, & Albaniae iplius Bibliothecae curandae praepofitus (0 . Cetera , quae ipfe intafta reliquit, eadem plane ratione expofuit Vir alter eruditiffimus Stephanus Raffeius C2); utceterospraeteream,quifparfimipfavelexplanantes , vel laudantes celebratiffimam hanc Villam undique praeftiterunt. Tanto apparatui refpondent & picturae , quae au- btorem habent Antonium Raphaelem Mengfium , cuius prae¬ dantia eo pervenit, ut Urbinatenfis virtuti proxime acceflifie omnium iudicio exiltimetur. Vere quidem dixeris & Gratias, & Mutas heic habere domicilium, ac veterum Confulum, & Au- guftorum tamquam redivivam exfurgere maieftatem. Non igitur mirum , ti fplendiditTimum huius Villae atrium patuerit Ca- moenis Dardani Aluntini, Iotephi II. Caefaris (3) , & Herme- lindae Thalaeae, Mariae Antoniae Walburgae Bavarenfis, Sa- xonicae Electricis viduae (4) laudes concinentibus, ipfum- que Augultitlimum Principem , &: Romanorum Imp. electum, Romae degentem , anno cididcclxix. a. d. XIV., & V. Kal. Aprilis & invifentem, & admirantem tantarum rerum copiam, (0Monumentiautlchiineditifpiegati,ei‘tl- lujtrati da G:o. Winckelmann &c. Torni II. Ro¬ ma 1767. in fol. (2) Ricerche fopra uti Apolline della Villa.j dellEmoSig.Card.AlejjandroAlbani.IuRoma 1772. Saggio di ojfervazioni fopra ttn Bafforilisvo della Villa fuddetta ( efprimente il voto di Bere¬ nice ) In Roma 1773. Ojfervaziom fopra un altro BafforilievodellameiefmaVillaAlbani(elpri- mente Ercole domatore d’Echidna Scitica ) . Dif- fertazione fopra uh fmgolar combattimento efpreffo in Bajforiliem , efflente nelta Villa fuddetta , c cioe Ja monomachia di Mennone con Achille) . & prae- Filottete addolorato 3 altro Bafforilievo tiella Vil¬ la JleJfa ; in fol. (3) Adunanza tenuta dagli Arcadi per Velezio- ne della Sacra Reni Maefla di Giufeppe II. Re de’ Romani. In Roma 1764.3 cui adne&itur Ta¬ bula aenea exprimens frontem Aedium } & Atrii ornatiHimi . (4) Adunanza tenuta dagli Arcadi nella Villa AlbaniadouorediS.A.R.MariaAntoniaWal- burga di Baviera Elettrice Vedova di Saffonia, fra le Pajlorelle acclamate Ermclinda Talea .• In Roma 1772.XV &praeftantiam,ibidemmirecoaddam,&concinnedilpofi- tam confpexerimus (0 . VI. Recenfitis Hortis omnibus, aut faltem celebriori¬ bus,quivelpraeceflerunt,velfubfequutifuntMatthaeianos noftros,reflatmodo,utdeiplispreflius,&latiusdicamus. Locum nunc perpendimus. Iidem fiti funt in ea Pomoerii parte,quamAurelianusintraUrbemcomplexuseft(2),quae¬ que in Regione II. Caelimontana comprehendebatur. Man- flones Albanas antiquitus hunc locum potiflimum tenuifle , cenfueruntBoiflardiusCj),MarlianiusW,&DonatiusD,fed nullam,quaniterentur,rationemattulerunt.Quareincertus, fiNardinio0)credimus,adhuceftharumManfionumlocus, neque nos quidquam etiam hac de re ftatuere aufimus ali¬ bi de iildem loquentes (7) . Proxima huic Caelimontii parti fuifle, immo iplam occupafle aliquando Caftra Peregrinorum ab Augufto inftituta, alii cenfuerunt, atque inter ceteros Pan- vinius W , & Vignolius (?) , innixi potiflimum veterum infcri- ptionibus,inquibuseorummentio,quaequevelinareaAedi¬ culae Sanctae Mariae in Domnica, vel prope Aedem rotundam S. Stephani inventae funt; ut nunc praeteream, quaeetiamin laudata area erutae fuerunt Benedi&i Aegii Spoletini aetate, quasipfeedidit(IO),quibufqueadduddus&eademCaftraibi¬ dem agnovit, & eos , qui ponunt ad Templum SS. IV. Coro¬ (i) Huius rei accipe monumentum ibidem po- fitum : lofepho. II Pio. Felici . Augufto Quod . has . Aedes . praefentia . fua Maximus . hofpes. impleverit Alexander . Card. Albanus M . P nato- ($) Lib. III. cap. XII. (6) Rom. vet. Lib. III. cap. 7. (7) Append. ad Fragmenta 'vejligii 'veteris Ro¬ mae lob. Petri Bellorii Tab. XXVI. pag. 95. (3) Defer. Vrbis Romae } TheJ\ Antiq. Romau. Graevii Tom. III. pag. 286. (9) lnfcript.felecl. pojl Differt, de Columna Imp. Antonini Pii pag. 183. j e feq. (10) In adnotationibus ad Apollodori Atbenien. (2) Vid. Fabrettium de aquis 3 & aquaeducti¬ busn.45.ad53. Bibliotb.,fivedeDeor.origine&c.Romaeinae¬ (3) Topograpb. Vrb. Romae Tom. I. pag. 34. dibus Antonii Bladi 1555. Vid. apud Gruter. pag. (4) Topograpb. Vrb. Romae Lib. IV. cap. 9. 22. n. 3. & pag. $93. n. 2.3 & 3.   XVI natorum(0, impugnavit.Muripars feptentrionalis, quaHorti Matthaeianicinguntur, licetadvetusMonafterium,dequo mox dicemus , potiflimum fpectct, pertinebat olim ad ductum aquae Claudiae , cuius ibidem divortia erant; pars enim in An- toninianasThermas,utteltanturlitteraeadhucconfpicuae ... NTONIANA, magnis laterum tabulis e muro paullulum prominentibus confectae W; pars in Palatium Caefarum tendebat , ut produnt veftigia aquaeductus interdum occurrentia . His adneftitur arcus adhuc exftans ex lapide Tiburtino, fuper c]uo aqua ad Aventinum procedebat, & in quo legitur inlcri- ptio fatis nota (s) : P. CORNEUVS . P. r.DOLABELlA C. 1VN1VS . C. F. SILANVS. FLAMEN. MARTIALIS COS LX.S.C FACIVNDVM . CVRAVERVNT . IDEMQVE . PROBAVERVN.T Via , quae ad Clivum Scauri per Curiam Hoftiliam ante Hor¬ tosnoftrosprocedit,eacenfetur,quaolimperTabernolam, antiquaeUrbisvicum,attendebaturinCaeliumU).Prope etiamaderatrotundumTemplumvelFauni(j),velBacchi) velClaudii,autetiamVefpafianiImpp.,utaliicenfuerunt, quodnuncNicolaiCirciniani,vulgoPomerancii,&Anto¬ nii Tempeltii picturis , veterum Martyrum diros cruciatus ex- Pri- (1) Inter ceteros Boijfard. Topograpb. Vrb. Rora. Tom. I. pag. His nunc accedit Hora¬ tius Orlandius Ragionamento fopra ut?Ara antica (dedicataaVulcano).Roma1772.art.ult.pag.95. Suppiem-adJVuv.T*hef.Muratoriipag.So.n.5., (2) Vid: Epiftolam Flaminii Vaccae latinitate' fed mutilam, aliique. Fornicis typum habes apud donatam a Montfauconro in Diario Italico Cap. X. pag. 14S. Gudius pag. 81. n. 10. refert tabulas in¬ ventas c regione vineae S. Sixti, «Sc Thermarum Antoninianarum ad radicem Montis Aventini ver- fus regionem dictam Pifcinam publicam 3 in quit, bus haec legebantur: A^VA . CLAVDIA . ANTONIANA . NOVA VIRIAE . ALCESTE . ET. L. VIR1I . ANTIQ FORTVNATI (5) Refert Gruterius pag. 176. n. 2.3 Panvi- nius de Civ. Rora. Cap. XXIV. coi. 217. Tom. I. Ioh. Bapt. Piranefium Tom. I. Airtiq. Koman. Tabula XXV. Fig. I. (4) Nardin. Rora, •veter. Lib. IIL cap. V. 3 Bor- richius de antiqua Vrbis facie Cap. IV., Rondi- ninius de SS. Ioh. 3 & Paullo , eoruraq. Bajilica in ‘Drbe Roma vetera monumenta Cap. VI. §. I. pag. 59.3 & 60. (5) In inferiptione hoc loco detefta , quam re¬ fert lulius lacobonius Append. ad Fonteium de prifeaCaejiorumgenteCap.IV.pag.38.3memo¬ ratur AED1CVLA GENIO AGRESTI dicata.primentibus (*), ornatum, duplicique columnarum ordine fu- ftentatumDivoStephanoMartyrifacrumeft(12**).Heicetiam- numconfpicuifuntarcusNeronianiaquaeClaudiae,quibus aquaipfaadPalatinumdeferebatur.ProximaetiameratCu¬ ria Hoftilia, a Tullo Hoflilio III. Romanorum Rege magnifi¬ ce aedificata, cuius adhuc haberi reliquias, hafque cenfendas efle ingentes arcus ex Tiburtino lapide, quibus fuperftat nunc turriscampanaria,longainfuperfubftrudioneinhortumpor- redos , recentiores plures, praeeunte Flavio Blondio 0) , Con- fenferunt; idque eo magis, quod ibidem quatuor Pulvinaria marmoiea eruta fuerint, quae dein ad fcalas Aedium Matthaeiarum in Circo Flaminio translata fuerunt, quaeque nos fuo loco(T adduximus. Ceterum Pompeius Ugonius d) , alii¬ que aedificium aliquod Caefarum aetate excitatum in hilce ruderibusagnofcendumpotiusexiftimant,quodparumcredi¬ bile videatur pofl tot faeculorum lapfum , poft tot Urbis exci¬ dia , atque poft tot imperii viciftitudines hactenus antiquiflimi aedificii reliquias, annorum edacitatis, & direptionum furoris vidrices,fupereflepotuifie.Montfauconius(5)hacdere_» etiam dubitavit, quod aegre in animum libi induceret, im¬ manemillamaedificiimolem,caftrorummoremunitam,unicam fuifle Curiam ; quin potius hinc coniedafie nonnullos refert,exftitiflehoclocoCaftraPeregrinorum.Heicquidem fuifle aedes Sandorum fratrum Iqhannis, & Paulli , in quorum honorem dicata eft proxima Bafilica , ambigi non po- teft; quarum quidem veftigia haberi putat Philippus Rondi- nini- (1) Ecclefiae militantis triumphi) five Deo ama- (3) Romae inflaur. Lib. I. hilium Martyrumg/oriofapro Chrijlifidecerta- (4)Vol.II.horumMonumentor.ClafT.X.Tab. mina ) prout in Ecclefia S. Stephani Rotundi Romae vifuntur depicia , a Vincentio Billy aeneis Tab. expreffa. Romae 1714. (2) Interioris huius Templi profpe&um habes apud Ioh. Bapt. Piranefium Tom. I. Antiq. Ro- man. Tab. XXV. Fig. II. ' LXXII. Fig. I., & II. , Tab. LXXIII. Fig. I., & II., & Tab. LXXIV. Fig. I., & II. pag. 93. , & feqq. Vid. Ficoronium Vejligia di Roma antica Lib. I. ,cap. XIV. pag. 87. (5) Eibro de Stationibus Vrbis. (6) Git. Diar. Ital. Gap. X. pag. 148-   XVIII ninius CO in quibufdam arcubus , & ruderibus prope laudatam Bafilicam exfiftentibus, quorum nemo Scriptorum meminit. Sub Hortis noftris vetus aliquod etiam fuille aedificium , arguere licet ex marmore reperto eo loci, quod refert Fabret- tius (2) , & in quo habetur fimulacrum Veftae, & artis pilto- riae inffrumenta , modium, spicae, & mola verfatilis , cum hac epigraphe: VESTAE. SACRVM C. PVPIVS. FIRMINVS. ET MVDASENA .TROPH IME VII. Veterum aedificiis. Hortos Matthaeianos ambien¬ tibus, ufque dum recenfitis, accedant Chriftiana Templa, quae iifdem ita adhaerent, ut ipforum pars effe videantur . Nihil amplius dicemus de Templo S. Stephani, & de Balilica SS. lob., & Paulli, quae titulus Pammachii dicitur , cum de his,utpotepaulloremotioribus,fatisiamactumvideripoffit. Omnium quidem proximior Matthaeianis Hortis eft Eccleha S.Mariaein Cyriaca, livein Dominica ,quae&in Domni- ca ,&in Navicula h)?anaviculamarmorea,caudavotilo¬ cata, quae ante Templum cernitur, dicta eft. Haec navis m- fignita eft roftro apri caput referente, quam ex voto Marti, vel alio Numini politam aliqui putant a milite in Caftris pe¬ regrinis degente . At Ficoronius (4) Cybeli potius dicatamu» fufpicatur , quod aliud viderit anaglyphum , ab ipfo etiam vul¬ gatum b) 5 in Mufeum Veronenfe profectum , ubi navis cernitur, in qua vehitur Dea Cybele, quamque Matrona velata , funis ope, cui adligata eft , extra aquas ad fe trahere dextera manu nititur , hac fubiecta infcriptione: (0 &e SS. Martyribus lobanne 3dr Paullo, Seft.I. n.3. pag.94. eorumqueRafilicainVrbeRoma‘veterarnonumen- (3) VulgoNavicella. MA- ta &c. Romae 1707. Cap. VII. §. I. pag. 69. (2) Ai Tabulam Iliadis poftColumnam Tra- ian.pag.339.3SiInfer. Cap.VIII.n.277.Pag-632. Attulimus&nosTom.III.Clafs.X.Syllog. Infer. (4) Le ve/ligia, e rarita di Roma antica Lib. I.Cap.XIV.pag.90. (5)Ibid.Cap.XXII.pag.148.   MATRI.DEVM.ET.NAVI.SAI.VIAE SALVIAE . VOTO . SVSCEPTO CLAVDIA.SYNTHYCHE D.D Nomen Cyriacae, vel Dominicae Ecclefiae inditum videtur acelebriMatronaRomana,quaeibidemaedeshabuerit('), ut & praedium habuit in Agro Verano. Forte fandae huius Ma¬ tronae imaginem habes in antiqua pidtura ex ipfius Coemeterio ad S. Laurentii extra muros iam eruta, quam Cl. Ioh. Botta- rius 00 ex Arringhio adduxit. Ceterum Sanctae Domnicae no¬ men , & natale Bollandius affert (2) ex Menaeis Graecorum ad d. VIII. Ianuarii; fed haec Virgo Africana, quae floruit fub TheodofioM.ufque adLeonem,&Zenonem Augg.,anoftra differt.VualafridiStrabonisG)fententiam,aDomino,cuicul¬ tus in illa aede redditur, nomen repetentem, quia omnibus ae¬ dibusfacriscommunem,acceterasetiamhuicquidemnonabfi- milesfententiashaudmorabimur.EcclefiahaecaPafchaleI. a fundamentis ampliata, & renovata fuit, cuius exftat ver¬ miculataabfisaduabusporphyreticiscolumnisfuffentataG); quibusacceduntXVIII.infuperexGraecomarmore,nigro, & viridi, columnae aliae nihilo inferiores. Sanctae Balbinae corpus ibidem reconditur, atque heic Sixtum I. per Levitam Laurentium ecclefiae thefauros pauperibus diffribui mandafle, funt qui tradant. Vetuftiflima quidem haberi debet haec Ec- clefia , cuius mentio eft in veteri Defcriptione Regionum Ur¬ iis,editaaMabillonioG),ubiagensdefeptemviisufque.> porta Ajinaria, ftatim fubditur Sancta Alaria Dominica . AdfaeculumfaltemXI.pertinerevideturArchipresbyterRe- ncdillus Diaconus Sanctae Alariae , quae Domnica dicitur, (1) Roma fotterranea Tom. II. Tav. CXXX. pag. 17S. cu- (5)V id. Floravantem Martinellium Roma ex ethnica facra pag. 214. (6) Vetera Analecta pag. 365. fecund. edit. (2) Aci. Santf. lanuar. pag. 4S3. (3)Viet.Franc.VifloriiDiffert.Philolog.pag.$1. Parif.1725. (4) De rebus ecclejiajlic. Cap. VII. c2 XIX   JiX cuius monumentum in Divi Stephani in Monte fitum , & a Doniod) adductumheicfiltimus: HIC . REQVIESCIT . CORPVS . DEVOTVS . XPI FAMVLVS . ARCH1PBR . BENEDICTAS . DIAC. SCI . MA RIF, . QA . DOMICA. Q. OMS. Q. AD . HANC . BASILICA . IN GREDITIS . DIGNEMINI . ORARE . PRO. ME. PECCATORE. AC. P. XPI . NOMEN. OMS. CONIVRANS. VT NVLLVS. HOC. TVMVLO. VIOLARE. AVDEAT. 3 SI. QVIS <0 AVTEM . VIOLARE : P : SVPSERIT : i A . PATRE . ET . FILIO . E . SPS SCI . ANATHEMATE. IM . P. . P. DANATVS . EXISTAT Certe quidem, ut innumeris exemplis o(tendi pofTet, ab VIII. ufque laeculo ad. XI. ufus obtinuit has malas precationes , a Chriftiana pietate, & manfuetudine alienas , & a fola tempo¬ rumbarbarie,&infcitiaquoquomodoexcubitasadhibere(3>; quidquid contra Reinefium (j) Fabrettius M reponat. Cum Benedictus dicatur Diaconus huius Eccleliae, apparet nondum ad Archidiaconum pertinuifie, ut dcin factum videbimus. Iam in noftra Diflercatione in tit. Canonicum de officio Archi- diaconiWadduximusChartamanecdotamannidcccclxxxii., inquamemoratumcernimuslohannemArchidiaconumfum- viac Santiae Apojlolicac Sedis, & praepojitum venerabili Diaconiae Santlae Dei Genitricis Alariae, quae appellatur No- ha;incuiusnimirumArchivohaecipfaChartafervatur. Quarearguerelicet,pofterioritemporehocfactumeffe; nec fane documenta, quae id adltruant, occurrunt faeculo XII. maiora. Commode in Chronico Ricardi Cluniacenfis, quod abanno Chriltidccc. Usquead annum mclxii. pertingit,quod¬ (0 Jnfcrip. antiq. C!afT. XX. n. 71. pag. 539. ex fchedis Nic. Alemanni . que (5) D iffertazione Canonico-Filologica fopra il ti- tolo delle IJlituzioni Canonicbe de Officio Arcbidia¬ coni, recitata dali’Abate Giovanni Criflofano Arna- dtizzi la fera de’ 17. d'Agoflo deiPanno 1767. in (2) Vid. Hieron. Fabrium Ravenna antiqua pag. 116 ., Mabillonium ile re Diplornat. Lib. II. Cap.VIII.§.XVII.pag.ioi.,ArringhiumRora- RomanelPAccademiadelPEmin.3eRev.Sig.Car¬ fubterran. Lib. IV. Cap. XXVII., aliofque. dinale Gaetano Fantuzzi &c. adnot. $. pag. 57. (3) Syntag. veter. Infcript. Clafl*. XX. n. 440. Tom. XVII. Nova Raccolta d'Qpufcolifcientifici3 (4) Infcript. Cap. II. pag. no. e flologici. In Venezia 1768.   XXi queaMuratoriorelatumeft(0,recenfenturDiaconiaeCardi¬ nalium S.R.E. decem, & odo , quarum princeps Sundae Ala¬ riaeinDomnica,ubiejiArchidiaconus.Huicacceditteftimo- nium Petri Manlii apud Mabillonium (12) , ubi legitur: S.Ala¬ ria in Domnica , ubi debet ejje Archidiaconus; & Leonis Ur- bevetaniapud Cl. loh. Lamium (A , ubi haec habentur: S. Ala¬ ria in Domnica, ipfe eji Archidiaconus altorum; quorum primus ad laeculumXII., alter ad XIV. pertinet. At vero hanc Ecclefiam haud Cardinali Archidiacono adfignatam, nili laben- te ipfo faecula XII., credere licet, cum certum fit, triginta, vel viginti ad fummum annos ante eius exitum ipfam Diaco¬ num , non Archidiaconum obtinuiffe . Docet id Bulla Inno¬ centi!II.annimcxlii.apudHarduinium(4),cuifubfcripfitGe- rardus Diaconus Card. S. Alariae in Dominica. Id etiam ad- firueret D. lacobus tit. X. Alariae in Navicella, qui a Bollan- diftisV) recenleturex Marchefiointereos Cardinales,qui interfuerunt canonizationi S.Brunonis Epifcopi Signini, quam Signiae anno mclxxxi. peregit Lucius III. Summus Pontifex , nili critices regulae obliderent, Bollandiflae ipli hanc Cardi¬ nalium recenfionem affumentum iudicarunt, & iure merito; neque enim fi lincera lubnotatio fuiflet, Ecclefia ipfa titulus dicta efiet, quo vocabulo numquam Diaconias appellatas aut antiquitus, aut recenter inveniemus. Quo tempore vero haec effedefieritiurisArchidiaconiCardinalis,incertum;verofi- mile tamen eft, id accidifte , cum , translata Avenionem Apoftolica Sede, Romanae dignitates mutationem aliquam fubierunt, & Gallicos mores induerunt , & ipfa Archidiaconi iurifdiftio, & munus magna ex parte ad Camerarium delata eft. Honorii III. aetate Ecclefiam hanc pertinuifle ad Ec- (1) Antiq. med. aevi Tom. IV. coi. 1113. (4) Concil. Tom. VI. Par. II. coi. 1170. (2) Ord. Roma». XII. n. II. pag. $6y. (j) In Comment. praevio ad A£ta S. Brunonis ($)Delie,erudii.Toni.II.pag.28. Epifc. SigninidieXVIII.Iuliiqum.24.   XXII EcclefiamalteramS.Thomae,StS.MichaelisArchangelide de Formis ( de qua mox dicemus ) , innuit laudati Pontificis Bullaannimccxvii.,quainterceteraspoffeffiones,quaseidem confirmat,refertabjidam,&inclaujirumEcclefiaeB.vlla- riae in Donnica (0 . Parochialem vero curam eidem adnexam etiam fuilPe , docent Litterae Apoftolicae SixtilV. C), quibus Apollonius de Valentinis & Canonicatibus Lateranenfis Eccle- fiae , St S. Mariae in Via lata , St Parochia S. Mariae Navicellae interdicitur . Honor , quo , Archidiaconali dignitate deleta , Eccleliahaecdecidit,integratusquodammodovifuseft,cum Card.IohannesMcdiceusPontifex Max. Leonis X. nominere- nunciatus eft. Ipfe enim inftaurari illam iullit, atque ut id pro dignitate fieret, Raphaelis Sanclii opera ufus eft quoad Ar¬ chitectonicae artis concinnitatem , lulium vero Romanum, St Perinum Bonacurfium Vagae difcipulum pro pibturae or¬ namento adhibuit. Tum eadem obtigit Card. Iulio -Mediceo, Leonis X. patrueli, Archiepifcopo Florentino, Sc S. R. E. Vi- ce-Cancellario , qui poftea fuit Clemens VII. , licet & Eccle- fiam S. Clementis, & alteram S. Laurentii in Damafo dein fibi adfeiverit. Eadem Diaconia potitus eft poftea Iohannes Mediceus Cofmi I. Magni Florentiae Ducis filius, qui a_. Pio IV. Cardinalis eft renunciatus, & cuius exftant tres epilholae de ipfius Ecclefiae cultu, Sc famulatu (0 , quem appri¬ me (0 Collect. Bullar. Sacrofantlae Bafilicae Va¬ gliare } perche rifeda in la Cbiefa della Navicella ticanae&c.Romae1747.Tom.I.pag.100. aujfiziare,&dipiu3perchefattovederlecofe3 (2) Ex Tom. 96. Regeft. Brev. Sixti IV. pag. 74. in Archivo fecr. Vaticano. CS) LetteredeiCard.G:o.de’Aledicifigitodi Cofano 1. Grati Duca di Tofeana, efiratte da un nifi Roma 1752. Fib. Ili. pag. 505. Lettera ferit- ta dal Poggio 25. Settemb. 1561. al Podefta di Grofleto , a cui dice di voler pariare a M. Porzio Fanuzio Canonico della Navicella 3 che capitava coli j o a Monte Fano. Ivi pag. 506. Lettera ferit- ta dal Poggio 26. Settemb. 1561. al Vefcovo Ce- farino, a cui dice > che manda D. Gio. luo fami- che di prefente occorrono farfi per riparazioni di quelluogo,meloavvifiparticolarmente3acciofi pojfadaropportunoriparo&c.Homandatoper quel medefimo Porzio Fanuzio per aver da lui in- formazione di quel3 che fiara a fiua notizia delle cofe di quella Cbiefa. Ivi pag. 507. Lettera ferit- ta dal Poggio a di detto al Babbi in Roma: Noi mandiamo il prefente D. Gio. nojlro famigliare 3per- cbe rifeda a ujfiziare vella Cbiefa della Navicel¬ la j non volendo noi filia 'fenza un Cappellauo 3 fimo a tanto, cbe fi verranno ritrovando 3 e riordtnan- do   XXIII me curaffie conflat. Huic vita fundo in eamdem fucceffit Cardinalis Ferdinandus Mediceus , marmoribufque ornavit, ac refecit, antequam ampliffima dignitate abdicaret, & Magni Ducis Etruriae , denato Francifco eius fratre , infignia recipe¬ ret.Habuit&Card.CarolusMediceus,cuiusmemoriamar¬ moreaibidemcerniturfuprafacrariiportam.Tandeminitio huius faeculi tenuit etiam ex eadem regia domo Card. Franci- fcus M. , de quo nihil eft aliud, quod moneamus. Presbyte¬ rum Beneficiatum , qui Ecclefiae inferviret, facrumque face¬ retdiebusfeffis,PaullusV.inftituit(0,idquemunerispri¬ mus obivit Vir Cl. Leo Allatius, antequam ad maiora fibi viam faceret in Urbe officia. Ex Diaconia in titulum presbytera- lem convertit Benedidus XIII 0) ;ac tandem Monachis Grae- co-Melchitis Congregationis S. Ioh. Baptiflae in Soairo OrdinisS.BafiliiMagni,poflulanteSacraCongregationedePro¬ paganda Fide, Templum cuftodiendum, & aedes incolendas Benedidus XIV. conceffit. Vili. Huic proxime fuccedit Templum S. Thomae in Caelio, quod& S. Thomae, & S. MichaelisinFormisdi- dumeft,cuiquehofpitaleadnexumerat.DudusaquaeClau¬ diae,quieidemadhaerebant,nomendeFormisinduxe¬ runt G) . Ecclefia haec fuit olim Abbatia in Urbe non igno¬ bilis;cumeiusAntiftes,teftePanvinioG),intervigintiAb¬ bates , qui Romano Pontifici celebranti adeffe confueverant, decimus tertius accenferetur . Eamdem pollea Innocentius III. conceffit Fratribus Ordinis Sandifs. Trinitatis Redemptionis captivorum , quam proinde, dum vixit, incolatu , corporis veroexuviispoflobituminfignivitS.IohannesdeMatha, licet dolealtrecofe.Vedrete3cbeabbiaqualcbepo- toprefente30fiarelazionedellaCortediRoma&c. In Roma 1765. Tom. I. Cap. I. pag. 8. fa 3 cbe ci pare impojjibile , cbe non ve ne Jia. (3) Fabrett. de aquis 3 & aquaedtM* DifTert. IX- (1) Vid. Martinellium loc. cit. pag. 215. (4) Lib. de VU• 'Urbis EccleJ'. pag. 142. (2) Vid. Equitem Hieronymum Lunadorium Staco di Jlanza 3fe ve n’’ealcuna pertinente alia Chie-   XXIV licet dein in Hifpanias translatae fuerint. Interea Honorius III. Bullam emifitd) , qua Ordinem praedictum commendat, Ec- claliameidemconcetfamfubApoltolicaeSedistutelalufcipit, privilegiis ornat, facras aedes, ac bona quamplurima eidem lubditarecenfet,&confirmat.Quareibidemmemoratfor¬ mam , fcilicet aquae Claudiae ductum , fuper ditia Ecclejia S. Tbomag cum aedificiis, cimitcrio, crucibus , & aliis per¬ tinentiisfuis:montemcumformis,fi?aliisaedificiispojitum interclaufiramClodei(CaftellumnempeaquaeClaudiae, quod forma quadratum, & magna ex parte integrum Fabri¬ cius W vidit) , fi? inter duas vias, unam videlicet, qua a praeditia Ecclejia S. Thomae itur ad Colifcum , fi? aliam, qua itur ad SS. lobannem , fi? Vaulum fi?c. Exftat adhuc fupra fores hofpitalis, five coenobii tigillum ex mutivo Or¬ dinis , quem diximus, Redemptionis captivorum , & arcui marmoreo forium haec inferipta leguntur: MAGISTER.1ACOBVS.CVM.FILIO.SVO.COSMATO.FECIT. HOC.OPVS Dein Poncellio EJrfinio Cardinali commendatam Ecclefiam ipfam fuiffe infuper patet, donec Urbano VI. iubente anno mccclxxxvii. menfae capitulari Vaticanae Bafilicae adnexa fuit, ipfaque unio ex Bonifacii IX. Diplomate dat. V. Idus Novem¬ bris confirmata eft. Ceteras Apoltolicas Bullas lohannis XXI., five XXII. 0) , Bonifacii IX. O , & Eugenii IV. W iam editas in Bullario Vaticano, & ad hanc Ecclefiam pertinentes fciens praetereo. IX. Defcripfimus locum , quem tenent nunc Horti Mat- thaeiani,tumediticia&vetera,&fubfequentia,quaeipfisob- iacent.Rcftatmodo,utdeeorumaubtore,forma,&prae- ftantia dicamus. Ii fiquidem auctorem habent nobiliffimum, toAnn- '2'7-vii-ColleU. Bullar. SacrofanU. Baftl.Vatie.&c.Romae1747.Tom.I.pag.iod. (2) D efcript. Vrb. Romae cap. 17. & ma¬ (3) Cit.Collecl. fttillar.Bafil.Vatic.Tovn.l.p.28J. (4) Ibid. Tom. II. pag. 31. (5) Ibid. Tom. II. pag. 3y.   XXV &magnificentiflimumVirumCyriacumMatthaeium,Alexan¬ dri filium, Cyriaci nepotem, qui fane avitam gentis fuae am¬ plitudinemho copere explicandam fiulcepifievifusefi. Non noftrumheicefi;,MatthaeiaegentisoriginemaPaparefchia, quae genuit Gregorium, poftea Innocentium II., deducere , quodvifuminprimisefi:OnuphrioPanvinioCO,AlbertoCaf fio G) , Felici M. Nerino (3) , aliifque; non enim id ipfius vel vetuftati,velnobilitatiacceflionisplurimumfaceret.Monu¬ mentum fiquidem faeculiXIII., quodcontinetSenatuscon- fultumhabituminTemploS.MariaedeCapitolio,quodque ex apographo Perufino edidit Cl. praefui lofephus Garampius nunc apud Aulam Vindobonenfetfi Apofiolicus Nuntius me- ritifiimus G) , gentis huius praefiantiam fatis prodit, cum in¬ ter ceteros nobiles Romanos viros recenfeatur etiam ibidem lohannes Matthaei, quemGarampiusipfenoftrisadferibere non dubitat G). Ceteros ex hac gente illufires viros recenfe- re quinetiam non iuvat, quorum monumenta praefertim con- fulere facile quifque poflit apud Cafimirum Romanum, Fran- cifcanae familiae Alumnum, ubi de Templo Aracaelitano G) . Quare circa annum mdlxxxi. Villae huius confiruftionem ag- grelfus efi: Cyriacus nofier, & ad annum mdlxxxvi. perfecit, utdocentmonumenta,quaeibidemmarmoreinfculpcnda curavit,quaequenemoadhucedidit.Siquidemfuprapor¬ tam Villae parte interiori haec leguntur: CY- (1)Cod.Mf.dcGenteMatthaeiainBibliothe¬ ria alcultodellaR.ChiaradiRhnino&c.In caFrangipania. Roma175:5- Differt.VIII.pag.244.jefegg. (2)MemorieijlorichedellavitadiS.Silvia&c. (5)Vid.Indicemvoc.Matteipag.52J. Cap.XIII.§.I.pag.89. (6)Memorieijlorichedellacbiefajeconvento (3) Detemplo,& coenobioSS.Bonifaciij& Ale- di $. Maria in Araceli di Roma &c. In Roma i73j5. Cap. IV. pag. 29., Cap. V. pag. 43. 3 44., 394. Ad not. 54. 71. ;, & 72. 3 e Cap. XVII. pag. 451. (4) Memorie ecclefiajliche appartenenti all'ijlo- xiihijloricamonumentainAppend.n.VIII.pag.   XXVf Tum inferne: CYRIACVS . MATTHAEIvs . HORTOS GENTILICIOS .CVLTV .AEDIFICIO VETERVM.SIGNORVM .COPIA INLVSTRIORES . ET . AMOENIORES REDDIDIT A. S. M. D. LXXXI CYRIACVS.MATTHAEIVS HORTOS . CAELIMONTANOS A . IACOBO . MATTHAEIO . SOCERO . SVO SIBI . POSTER ISQ__. SVIS . DONO . DATOS . MVLTIS • ORNAMENTIS MAGNIFICENTIVS . EXCVLTOS . SVAE . ET . AMICORVM OBLECTATIONI.DICAVIT M.D.LXXXVI Quae ille praeftiterit, ut ampliffimos undequaque Hortos hof- ce efficeret, prodit etiam epigraphe , quam affixit parieti Aedium ad meridiem , quae ita fe habet: CYRIACVS . MATTHAEIVS ALEX F. CYRIACI.NEP HORTOS.CAELIOS GENTILICIOS . POMARIIS AVIARIIS . NF.MOR1BVS OBELISCO .AEDIFICIIS IAM.INSTRVCTOS AD . MAIOREM . POSTEROR SVORVM.AMICORVMQ_ OBLECTATIONEM VETERIBVS ETIAM .SIGNIS EXORNAVIT Huic etiam infcriptioni confbna eft altera, quam edidit Petrus Leo Cafella (0 , quae forte Hortorum domini, & conditoris fuffragium non tulit, cum nullibi ipfam infculptam viderim. En ipfam: CY- (0 Elogia illufirium Artificum;, Epigrammata, Ionis, de Tufcorum origine, & Republica Florett- &foferiptiones,poliLibrumdeprimisItaliaeco-tina,pag.186.edit.Lugdun.1606.   CYRIACVS.MATTHAEIVS.ALEXANDRI.F CYRIACI.N GENIO . CAELIMONTANAE . SALVBRIORIS . AMOENITATIS HORTOS . GENTILICIOS . SIBI . ET . SVIS . AEDIBVS . ET AQVIS . IRRIGVIS . EXCOLVIT . FONTANIS . EXHILARAVIT QVAE . PRO . GRADVVM . CORONA . EX . EPISTYLIIS . ALTE SVBSILIENTES . FLORVM . IN . CIRCIS . FLORVM LVDVNT.LVDICRA TVM. ET . AREAM . ET. AREOLAS TOPIARIIS .SEPSIT .POMARIIS VALLAVIT AMBITVM.MVRO.CINXIT VETVSTEIS .MONVMEN TEIS .SIGNIS .DISPOSITIS ET .MVNIPICENTISSIM A.S.P.Q R INDVLGENTI.A OBELISCO. EXORNAVIT X. Quare Hortos nortros vel hilce infcriptionibus ita iamamplos,excultos,elegantes,&locupletesdefcriptos habes , ut vix nobis , quae infuper adnotentur, relinquantur. Innuemus tamen. Aedes, quae in medio Hortorum adfur- gunt, ex lacobi Ducae architeilura conditas fuilTe, quarum vertibulum porticu ornatur , columnis, lignis, ac protomis infignita; quemadmodum aula , & cetera , quae fequuntur , cubicula undique & lignis, & protomis , & columnis , & ana¬ glyphis, & cippis, & aliis rarirtimis cimeliis, inter quae men- faexviridiporphyreticomarmore,miruminmodumpraecellunt . Porticum enim in primis ornant Statuae ex alaba- rtro Pomonae, & Midae Phrygiae Regis, aliaeque Bacchi, Faunorum,&Caracallae.Tumauladirtinguebaturpraefer- tim Simulacro colofleo M. Aurelii Antonini, & Statua eque- ftri L.Aurelii Commodi, qui Antoninus alter, vel Hadrianus antea cenfebatur , quae dein in Mufeum Clementinum Vaticanumtranslataeft.Inadiacentibuscubiculisreconde¬ batur d2 XXVII   XXVIII batur inter cetera caput Ciceronis, quod nunc in Aedibus adCircumFlaminium,caputalterumIovisSerapidisexba- falte , tum caput Plotinae Traiani uxoris, & Signa Dianae, &.Herculis,Graecifculptorisopera,aliaque,quaeiamVa¬ ticanoMufeo,utinfradicemus,infuperaccefierunt,Fauni cum utre iacentis , & alterius a Satyri pede fpinam extrahen¬ tis,actandemStatuaAmicitiae,opusPetriPaulliOlivem, quamCyriacoMatthaeiodonodederatVirginiusUrlinius, ut patet ex epigraphe , quam exhibet lamella aenea ibidem appoiita: VIRGINIVS . VRSINIVS CYRIACO . MATTHAEIO AMICITIAE .MONVMENTVM STATVERE ILLVSTRIVS. ME . IPSA AMICITIA NON.POTVIT MDCV Aditus ex foribus Hortorum recda ad Aedes ducit per ambu¬ lacrum , utraque parte ornatum urnulis fepulcralibus elegan- tiffimis, ut nufquam tot ullibi fe vidiffe affirmaverit Montfau- coniusb) . Aedium vero externus paries meridionalis multis etiamdiffinguiturSignis,acpraefertimImpp.IuliiCaelaris, Octaviani Aug. , Cl. Domitii Neronis facrificantis habitu , Liviae Aug. Coniugis, tum etiam Cereris, ac Bacchantum . In medio autem pariete tollitur (lemma Matthaeiae gentis, pileo ornatum , cui haec subscribuntur: HIERONYMO.CARD MATTHAEIO HicenimfuitCard.tituliS.Pancratii,Cyriaci,&Afdruba- lis frater, cui iidem titulum etiam pofuerunt in Templo Ara- caelitano (2^>. Area dein panditur, in qua celebris Urna IX. Mu- (0 Diar. Italie. Cap. X. pag. 148. dal P. F. Cajimiro Romano &c. Cap. V. pag. 72. (2) Vid. Memorie ijloriche della chiefa, e con¬ Vid. aliud monumentum ibid. Cap. XVII. pag. 451. vento di S. Alaria in Araceli di Roma raccolte /•-rr.   XXIX Mufarum proflat, & in cuius medio cernitur Obelifcus Ae¬ gyptius variis infcriptus hieroglyphicis litteris, quas haud mo¬ ramur , cum neque Hermapionis perlonam geramus , qui Obelifcorum inlcriptiones olim interpretatus Auguftum dece¬ pit, neque etiam Kircherium imitari lubeat, qui eamdem_. provinciamornansdecepitfeipfum.CeterumMarchioSci¬ pio MafFeius (0 in ea fuit fententia , ut putaret , fculpturas Obelifcorum nullam fcripturam praefeferre, notafque illas nul¬ liusgeneris efle litteras. Quare id dumtaxat innuemus, Matthaeianum Obelifcumaltumefle XXXVI.palmos,latumvero ad baflm palmos IV. Caret vero litteris, five notis X. a bafi palmis,livequodilledataoperafieftusfuerit,fiveignecafu confumptus. Verumtamen novem primae, quae in cufpide conlpicuaefuntnotaeadquatuorlingulalatera,omninocon¬ veniuntcumiis, quasexhibet Obelifcus, olimIpinaeimpolitus CirciFloraeinvicoPatriciointerViminalemcollem,& Exquilias, nunc in Hortis Mediceis ereftus. Nofter vero ex- ftabatolim ante fores minores Templi Aracaelitani, e quibus in plateam Capitolinam delcendcbatur, five in eius Caeme- terio, ut placet Boiflardio (2) , in cuius bafe , tefte lacobo Ma- zochio G) , haec legebatur inlcriptio, quam Gruterius (+) ipfe adducit: deo.CAVTE FLAVIVS.ANTISTIANVS V.E.DE.DECEM.PRIMIS PATER.PATRVM TandempetentiCyriacoMatthaeioexSenatusconfultoa.d. III.IdusSeptembrisannimdlxxxii.concefluseftObelifcus,quem fuisin Hortiscollocavit,acdeinduplexmonumentumineius (1) Art. erit, lapid. Lib. I. coi. 3. (3) Epigramm. Vrb. pag. 21. a ter. (2) Topograpb. Vrb. Romae Tom. I. pag. 24. (4) lnfcript. pag. 99. n. 4. ba-   XXX bafe infcripfit , quo fuum gratum animum Populo Romano lar¬ gitori tortaretur, Primum , quod meridiem relpicit, hoc eft: CYRIACVS.MATTHAEIVS OBELIS CVM . HVNC . A . POPVLO ROMANO.SIBI.DATVM.A CAPITOLIO. IN . HORTOS SVOS .CAELIMONTANOS TRANSTVLIT.VT. PVBLICAE ERGA. SE. BENEVOLENTIAE MONVMENTVM. EXSTARET ANNO.M.D. LXXXII Alterum vero boream verfus ita fe habet: S. P. Q_. R CYRIACO.MATTHAEIo OBELISCVM . HVNC . SVMMO CONSENSV.DARI.DECREVIT VT. IIORTORVM. EIVS PVLCIIRITVDO. PVBLICO ETIAM . ORNAMENTO AVGERETVR Huius Obelifci typum non dedimus, quod aere incifus olim non fuerit, neque id nunc Librario luberet, neque nos etiam apprime necertarium cenferemus. Si quis velit eumdem con- fulere,facilecomperietapudMontfauconium0),Iohannem Barbaultium (2) , ac Bonaventuram , & Michaelem Overbe- keiosL) . Ipfum etiam defcripferunt, ac laudarunt Scottius (A } (0 Antiq. explic. Tom. II. Par. II. Lib. II. Cap. VII. Tab. CXL1I1. n. 5. pag. 332. (2) Les plus beaux Alonumeuts de Rome ancien- tie3 ou Recueil des plus beaux morceaux de Pan¬ tiquite' Romaine qui exijleut encore, dejjines par Monfieur Barbault Peintre ancien Petijtonaire du Roy a Rome 3 & grave eu 12S. plancbes avec leur explication ; fol. max. a Rome cbez Boucbard de Pimprhnerie de Komareb 1761. Pl. 30. n. i.p. 47. Ca- O)LesreflesdePancienneRomerecherchez&c. & gravez par feu Bonaventure d'Overbeke &c. , imprimesauxdepensdeMicbeld'0-verbeke.Ala Haye cbez Pierre Gojje 1763. Tom. II. Pl. 14. pag. 21. Vide etim Degli avanzi delPantica Ro¬ ma 3 opera pofluma di Bonaventura Overbeke Pit- toreInglefe&e.3accrefciutadaPaoloRolliPa- trizio Todino . Iu Londra 1739. §. JLVIII. pag. 177. (4) Itiner. ltal. Lib. II. Cap. VII. pag. 401.   XXXI Cafimirus Romanus 0), Marangonius , qui fingulos etiam Romanos Obelifcos enumerat 0) , tum Ficoronius, Venutius, Titius , ceteriquc , qui Romanas antiquitates , &c magnificen¬ tias defcribendas fumpferunt. Reflat nunc caput coloflale Alexandii Magni , quod plateam hanc ornat parte meridio¬ nali , quoque nullum in Urbe maius. Siquidem a mento ad ladicem capillorum mensura eflfex pedum pariliorum , totum vero caput odio pedum, ut proinde fexagintaquatuor pedibus conflaret eius Statua , fi integra fuperelTet. Sane ca¬ put marmoreum Domitiani in impluvio Aedium Capitolina¬ rumeflquinquepedum,acproindeintegraStatuaquadra¬ ginta dumtaxat pedum fuiflet; nec aliter fuadent pes, & alia membrorum frufla, quae ibidem exllant. Tum in Villa Lu- dovifiaefl'caputcoloflalequatuorcirciterpedum;&inIu- flinianeaextraPortamFlaminiamhabebaturolimcolofluslu- flinianiImp.,neccle’funtinaliisvillis,acaedibusRomae Statuaealiaeproceritatevulgariduplo,auttriplomaiores. Caput vero noflrum, quod Alexandro M. tribuitur, quodque nos fuoloco (Villuftravimus, ex Aventini ruini serutumfuit, ut prodit infcriptio , quae ibidem legitur: CYRIACVS. MATTHAEIVS ALEXANDRI. MAGNI. CAPVT. EX. AVENTINI RVINIS. EFEOSSVM . INIVRIA . TEMPORVM NONNIHIL .CORRVPTVM .ANTIQ_VAE FORMAE. ET. NITORI. RESTITVIT VETVSTATIS .AMATORIBVS SPECTAN DVM . PROPOSVIT Ipfum vero accurate descripflt MontfauconiusW,aflad quem pertineat, incertum elfe afferuit. Hinc Ficoronius M mul- (0 Cit. Memor, ijloricbe della chiefa, e con¬ fino alia pag. 36$. ventodiS.MariainAraceli&c. Cap.V.§.V. (3)Tom.II. ClafT.II.Tab. VII.pag.9.  pag.71. (4) Diar.Ital.Cap.X.pag.148. (2) Delie cofe gentilefchej eprofane trafportate (5) Offervazioni contro il Diario dei P. Mont• ad ufo, ed ornamento delle Cbiefe 3 dalla pag. 555. faucon pag. 3 1.   XXXII multas eidem gemmas, & numifmata obiecit, quibus ex for¬ mae fimilitudine fidem huic etiam monumento conciliaret. Sed contra repofiuit Romualdus Riccobaldius (0 , qui Plutar- chifi) teftimoniumurgens,incertamAlexandriM.effigiem etiam tunc temporis exlfitifie contendit, ac magis dubiam fa¬ ciam fuifie deinceps , cum Caracallam lubido incefiit adfcri- bendi fibi Alexandri nomen , praecipiendique quinetiam, ut ipfius vultum quifque fibi pararet, fervaretque . XI. Praeftat vero haec leviter attingere , ut ceteras Hortorum Matthaeiorum partes perluftrando defcribamus . Areola hinc occurrit, cui ab amoeno afipeclu fi) quaefitum nomen eft, & ex qua moenia ab Aureliano producta ufque ad Portam Capenam , & Latinam, & Thermarum Antoniniana- rum ingentia rudera intueri praefertim licet. Statuae, & in- fcriptiones heic ordine difpofitae habebantur, quarum prio¬ res referebant Apollinem Citharoedum, Martem , Mercurium, Dianam, Herculem, Poetam cum cycno, Feminam velatam cum puero, Gladiatorem , & Pudicitiam. Ambulacris hinc in¬ de recurrentibus ad oppofitam partem area altera occurrit, inquapraefertimHermaeconfpiciuntur,quibusPlatonem, Heraclitum, Ariftotelem , Ifocratem, Epicurum, Diogenem, Ariftomachum, Pindarum, Anacreontem , Euripidem , Ari- flophanem , Hefiodum , Apollonium Tyanaeum, Pofidonium, Apuleium, L. Iunium Rufiicum, Archimedem, aliofque re¬ ferre vulgo cenfetur. Quid iuvat conclavia, quae fex prae¬ fertimnumerantur, nemora, topiaria, aliaqueloculamenta fingillatim defcribere, eaque fignis , anaglyphis, aliifque monumentis fere undique diffincla Labyrinthum tamen innue¬ mus,licetvixnuncinveftigandum,ecuiusregioneaffingit co Apologia dei Diario Juddetto Cap.LX.pag.48. (3) Belvedere vulgo audit. (2) In vita Alexand. M. pro XXXIII procera columna porphyretica viridis coloris, quae ob minu- tiffimas, ex quibus coalefcit, materiae partes lingularis merito cenfetur. Nec aliae defunt hinc, & illinc difperfae co¬ lumnae , quarum pleraeque multi aedimandae funt, quaeque XXVII. fummatim numerantur. Nodrum vero non ed fon¬ tes, pomaria, viridaria, ceteralqueHortorumpartesvillicis commendatas defcriptione profequi . Innuemus tamen fub Aedibus haberi hortulum malis aureis confitum, ac fupra eius odium hoc didichon legi: HAVRI . OCVLIS . ET . NARE . LICET . TIBI . VIVA . VOLVPTAS SIC . ALITVR . TANTVM . CARPERE . PARCE . MANV Plures funt in Hortos ingrefius; fed duo infigniores, quorum unum, idque princeps, prope Templum S. Mariae in Do- mnica;alterumveroadCuriamHodiliam,quiconditoris nomen gerit, cum longa linea infcriptum habeatur : HIER. MATTHAEIVS . DVX . IOVII . AN. IVBILAEI . MDCL XII. Habes, quae fuerit Hortorum Matthaeiorum amplitudo, amoenitas, & praedantia. Hinc nil mirum , d advena somnes infui admirationem rapuerint, tumcivesad se ipsos sive describendos, live illudrandos invitaverint. Quare Scottius('),Mabillonius(12345),Montfauconiusb),Addifo- nius (d , Richardius b) , aliique inter exteros tum ipfos expen¬ derunt, tum in fuis hodoeporicis praedantioreseorumdem partes defcribere fatagerunt. Inter nodros vero illos potidimum quoquo modo illudrarunt Pinarolius (6), FicoroniusW , Ve- (1) hin. Ital. Lib. II. Cap. VII. pag. 401. (2) Itin. Ital. pag. 88. (3) Dior. Ital. Cap. X. pag. 148. (4) The Works of the right honourable lofeph Addifon EJ'q., Beingh remarks onfeveral parts of Jtaly &c. in the Tears 1701. 3 1702.3 1J03. Du¬ bii» 1735* Vol. III. pag. 16 3. (5) Defcription hiflorique} & critique de Phalle; a Dijon 1766. Tom. VI. Par. II. Cap. 17. pag. 169. (6) Trattato delle cofe piri memorabili di Roma, opera di Gio. P. Piuaroli; Roma 1725. Tom. II. pag. 274. , e fegg. (7) Le •vejligia 3 e rarita di Roma antica ; Roma 1744. Lib. I. Cap. XIV. pag. 90. 3 e Lib. II. Le Jingolarita di Roma moderna Cap.VIII. pag-68.   XXXIV VenutiusCO , Vafius W , & Titius^) ; Celebrarunt vero inter Poetas Aurelius Urfius Romanus (4) , & Ludovicus Lepo- reus C). Tum monumenta ipfa , quae in illis adfervantur, nacta funt qui & typis exprelTerint, & explanaverint, ut luo loco monuimus. Si Signa lpectes, eorum praeflantiora adducta habes a Paullo Alexandro MafFeio, & Bernardo Mont- fauconio.SiAnaglypha,eorumpleraqueeditaviderelicet apud Sponium, Bellorium, & ipfum JVIontfauconium. Si In- fcriptiones , noftris pleni funt celebres thefauri, live colle¬ ctionesiameditaeab Apiano, Mazochio, Smetio, Urlinio, Gruterio, Reineho , Sponio, Malvafia, Gudio, Donio, Fabrettio, Muratorio, Maffeio,Donatio,aliifque.At,quae lane elt rerum humanarum infelix conditio, ita paucis ab heincannisimmutataeltHortorumnoltrorumfacies,utqui cosintueaturpraeltantioribusmonumentisIpoliatos,atque undique collabentes , dicere fimiliter poffit: Iam fcgcs cjt, ubi 'Troiafuit. Sanenon nullas marmoreas Infcriptiones in Caeliis Hortis exltantes conceflcrat iam Alexander Matthaeius Iovii Dux Cl. Praefuli Raphaeli Fabrettio, ut ipfe grati ani¬ mi caufla faepe commemorat, in fua domelticarum Inlcriptio- num fylloge , & nos quinetiam fuis locis advertimus. Tum ex iis profectum eft in Mufeum Capitolinum, poftulante Bene- diftoXIV.PontificeMax.,marmorAebutianum,iamanobis adductum (D , & antiqui Romani pedis, aliorumque Archite¬ cto- (0Accurata,efuccintadefcrizionetopografi¬ nuovofinoalTannoprefente.InRoma1763.pag. ca , e tjlarica di Roma moderna , opera pofiuma di Ridolfino Venuti &c. Roma 1766. prejfio Carlo Bar- biellini Tom. I. pag. 4. (2) Itinerario iflruttivo divifo in otto fiazioni 3 0 giornaie per ritrovare con facilitd tutte le an- tiche 3 e moderne magnificenze di Roma, di Giu- feppeVafiInRoma1765.11.58.pag.62. (3) Defcrizione delle pitture , fcalture, e ar- cbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co- minciata dati'Abate Filippo Titi da C.itta di Ca- fielk,conPaggiuntadiquantoeflatofattodi 208., e 475. (4) Carminum Tib. III. Epigr. 32. pag. 74. edit. Parmen.,&Bonon.3ubihaechabentur: ln Hortos Mattbaeiorum: Komae fepultae hinc intueri imaginem , Arcus,theatra,Scimperiivireslicet. Urbis , & Orbis lumina, & miracula. (5) Poefie; ln Roma 1682. pag. 88. Sonetto. (6) Tom.III.ClalT.X.Sect.VI.n.<;.Tab.LXII. Fig. I. pag. 118.   XXXV flonicac artis inftrumentorum forma infculptum; cuius rei memoria exftat in titulo marmoreo , qui ibidem appofitus ell f ^. Sed noftra aetate maximum palTi lunt detrimentum , cum novi Vaticani Mufei condendi neceflitatem peperit erum¬ pens quotidie veterum monumentorum copia , & eorumdem alportationis impediendae providentia. Poftquam igitur San- dlillimus , ac fapientilTimus Pontifex Clemens XIV., quem utpoteprimumlitterariaemeaefortunaeparentem,&publi¬ caetranquillitatis,quafruimur,fundatoremfempergratoani¬ mi fenfu , & laudum praeconiis profequar, Ambulacrum Va¬ ticani Palatii, quo iter eft ad Bibliothecam, veteribus Infcri- ptionibus in clalfes naviter diftinefis V) ornandum fufeepit; tum Chriftianum Mufeum, quod aeternae memoriae Pontifex Benediftus XIV. iam excitaverat, & gemma affabre Iculpta, (i) Editus eft a CI. Praefule Ioh. Bottario in opufculo , cui titulus: Indice delle antichita 3 cbe fi cujiodiscono nel Palazzo di Campidogltc &c. pag. 8., poft Philippi Titii librum de Pi&uris , Scul¬ pturis j & Architecturis Romanis ab eo amplifica¬ tum3 quoddeinfeorfimbisetiameditumfuit: Mo- ('b) Grut. Tom. II. pag. 167 (c) Fabrett. de Aquis , & aquaedu6tib. Differt.II. pag. 73., & 74. n. 129. j & feqq. (2)HucconfluxeruntpraeterMatthaeianas, veteres Infcriptiones domus Porciorum 3 tum plures Paflioneii Eremi apud Camaldulenfes in Tufculo. Ceterum vide varias antiquas Infcriptiones ex iis 3 quae pro hac ingenti colleftione coa6tae fuerunt 3 vel memoratas , vel addu6tas in Epiftola noltra edita in Ephemeridibus litterariis Florentinis anni 1772. n. 10. coi. 14S. , & n. feq. coi. 170, um in aliis n. 45. j & feqq- coi. 6yy. 3 & feqq., dein n. 48. coi. 7$S.3 ac tandem n. 1. earumdem Anecdotorum noftrorum . De Feriis Latinis huc addu&is vid. quae adnotavimus hoc I. Vol. Clafs. VII. pag. 73. e2 00 (&) (0 Ephemeridumanni1775.coi.4.3tumn.2.coi.10. Confuleetiam Opufculum, cuititulus: Adlnfcri- ptionemM.luniiPudentishocipjoannoRomae deteffam adverfus anonymi convicia curae pojlerio- Dono.Hieronymi.Principis.Alterii res(CaietaniMelioris).Romae177$.Vid.Ephe¬ Aebutianum merides Romanas eiufdem anni 3 ubi de eadem In- Ex.Matthaeiorum.Villa feriptioneEpiftolaCl.viriMatthiaeZarilliin.XXI. pag. 161. Habes etiam aliquas Infcriptiones Va¬ ticanas editas a CI. Viro Caietano Marinio Tom. IX. 3 & feq. Diarii Pifani litteratorum 3 & in Syl- loge veter. Infer. 3 qua claufimus III. Volumina Marmora. omnia . antiqui . pedis Modulo . infculpta Scriptorumq. teftimoniis . commendata Benedictus . XIV. P. O. M In . Mufeum . Capitol. tranftulit Anno . Pontif. III Dono . Hieronymi . Ducis . Matthaei Capponianum Non . ita . pridem . Via . Aurelia . reper Ex . Aedibus . Capponianis Dono . Alexandri . Gregorii Marchion . Capponii Eiufdem . Mufei . Curatores . perpetui Statilianum In . Ianiculo . alias. effofium Ex . Hortis. Vaticanis Colfutianum . feu . Collotianum Ex . Marii . Delphini . Aedibus (a) Aldrovand. pag. 121.   XXXVI Mofaici ferpentis emblema referente (0 , & Carfagnanae fi- gillo(*), testimonio sane luculentissimo antiquae eiufdemfi¬ delitatisergaBeatumPetrum,&RomanamEcclefiam,pro¬ vide ditavit, novique cubiculi elegantifiime picti a temporum noftrorum Apelle, Antonio Raphaele Mengfio, accefiione auxit, ut Papyris omnibus per Bibliothecam , & fecretum Ta¬ bularium olim difperfis, in unum colleblis, aliifque Vibloriae gentiscomparatiscertuslocuseffiet(?);acinfiuperEtrufco- rum Vafculorum, quibus Bibliothecae Vaticanae fcrinia 01- nantur , fupcllecfilem mire amplificavit M ; ipfumque tandem aeneorum monumentorum Mufeum a Clemente XIII. fplen- dide exftrucfum, praeter recentia ad fe dono mifia Vindobo- nenfis , Parifienfis , Taurinenfis , Palatinae, aliarumque lega¬ liumfamiliarumaureanumilmata,argenteisnummisquine- tiarn FerettiaeE) , & Palfioneiae EI gentis, tum & ballarinii Mufei Wfanerariffimis, Herodis AntipaeE)lingulariaeneo (1) Offervazioni di varia erudizione fopra un carneo antico rapprefentante il ferpente di bronzo, efpojle da Orazio Orlandi Romano &c. In Roma 1773. per Arcangelo Cafaletti . Vide cenfuram_, noftram in Ephmerid. Litter. Romanis eiufdem an¬ ni num. XLI., 8c XLIE (2) Vid. Ephemerides litterar. Florentinas anifl' 1771- n. 12*43- c°l* 194- j & feqq. Articulum nos ipfi fuppeditavimus Donum Cl. Praefulis Ste- phani Borgiae. llluftratum pridem fuerat a Cl. alio Praefule Iofepho Garampio edito opere , cui titulus:IlluflrazionediunanticoSigillodellaGar- fagnana. In Roma 1759. per Niccolb , e Marco Pagitarini. Anonymi Lucenfis cenfuris refponfio nunc paratur. (5)^ rid. in cit. Ephem. Flor. ann. 1771. n. 1. num- gubiui de tribus Vasculis Etruscis encaatice piclis a Clemente XIV• P O. M. in Mufeum Vaticanum inlatis Differtatio . Florentiae 1772. in Typogra- pbia Mouckiana - Ex Mufeo Anfideiano Perufino . Alia plura Vafcula in Vaticanam Bibliothecam mi¬ grarunt ex munere Antonii Raphaclis Mengfii eximiiPi&oris, & Raphaelis Simonettii PatritiiAu- ximatis,CanoniciBafilicaeVaticanae3&SS.D. N. a cubiculo. (5) Vid. articulum noftrum in Ephem. litter. Flor, anni 1771. n. 14. coi. 210. (6) Vid. ibid. n. 31. coi. 482. (7) Nempe Simonis Ballarinii Praefe&i Biblio¬ thecae Barberiniae j & a cubiculo Pontificio, qui obiit V. Idus Martii anni 1772. Hic donavit aliquot rariora, & vetuftiora numifinata Pontificia, feu potius nummos ; cetera empta poft eius obitum. coi. 5.3 ubi alter articulus nofter de huiufmodi Papyris . Adde Papyrum alteram dono datam ab Equite Marchione Carlo Mufca Bartio Pifaurenfe, dequaconfuleEpiftolamnoftraminfertamEphe¬ mo3inNummophylacioClementisXIV.P-O.M. meridibus Florent, anni 1775., & praefertim n. 49. coi. 774., & n. 51. coi. 811. Vid. & Praefatio¬ nem noftram ad Fragmentum Papyri faecali V. 3 velVI.&c.inTom.II.Anecdotor.litterar.p.437. (4) Iobannis Bapt. Pajferii Pifaurenfis Nob. Eu- affervato, demonflratur, Cbrijhrm natum ejfe anno VIII- ante aeram vulgarent contra veteres 0- mnes , & recentiores Cbranologos, auBore P Do¬ minico MagnanOrd. Minirn. Presb.&c. Romae 1772. typis Arcbangeli Cafaletti. Vid. 8c Epifsolamnummo, aerae Chriftianae inchoandae documento, Bruti, Sc Numoniae confularis familiae aureis nummis Plancani Mu- fei('),quorumunuspretiofiffimus,alteranecdotus,Titi,Sc Traiani argenteis Graecis nummis rarioribus maximi modulis vigintiduobusinM.Antoniinummislegionibus,&binisine¬ ditis Lucretiae, & Minutiae gentis, a Traiano reftitutis nu- mifmatibus Mufei Zarilliani (2) , veterum Beneventi Ducum ab Arigilio ad Georgium Patricium aureis, argenteifque nummis bene multis 0) , Etrufci pueri in Tarquinienli agro eruti prae- clariffimohmulacroexaereG),TabulisaeneisOftranorum,& SentinatiumveterumUmbriaepopulorumG),tumpaterisG), fiftrisG) , inauribus (s) , vitris vetuftilTimis C9) , ac ceteris hu- iufmodi monumentis munificentiffime locupletavit; id infuper conlilii cepit, ut novum omnino Muleum in ipfis Innocen- tii VIII. cubiculis, infigni porticu, adytifque ornatiffimum ad excipiendumfigna , protomas, anaglypha, ceteraque mar¬ morea monumenta excitaret . Inlatum fuit quapropter in ipfum , ut primum licuit, Iovis Verofpiae gentis marmoreum Signum praeclarissimum (IO), tum aliud omnino integrum, rarum- ]ara noftram in Ephem. litter. Florent, anni 1771. n. 35. coi. 517*) & feqq. Donavit Henricus San- clementius Monachus Camaldulenlis } nunc Gregorianii Coenobiiad Clivum Scauri Abbas. (1) De his vid. Epiftolae noftrae partem 3 quae eft in Ephem. litter. Florent, anni 1773* n* 47* coi. 745.3 & n. 49. coi. 772.3 & feqq. De nummo Bruti vide etiam 3 quae adnotavimus Tom. II. ho¬ rum Monumentor. ClalT.II. Tab.XII. Fig.I. pag.29. (2) Vid. Epiftolam noftram in cit. Ephcmcrid. ann. 1774- n- 43* c0,‘- 67S. & feq. (3) Vid. camdem ibid. coi.68 1. Donum Cl. Praef. Steph. Borgiae . (4) Vid. articulum noftrum in cit. Ephcmer. anni 1771- n. 49. coi. 774. 3 & Praefationem nostram ad Alphabetum veterum Etruscorum pag. 29. Videndaetiamloh.Bapt.PajferiiPifaur.JVob.Eu- gubini de pueri Etrufci aeneo firnulacro a demen¬ te XIV. P- O. M. in Mufeum Vaticanum inlato Dijfertatio . Romae in Aedibus Palladis 1771* Con- fule tandem 3 quae nos adnotavimus hoc I. Vol. Clalf. X. pag. 108. Donum praeclarifiimi Praefu- Jis Francifci Carrarii Bergomatis} qui etiam pate¬ ras j & numifmata aliquot argentea donavit 3 de quibus vide Epiftolae noftrae partem 3 quae eft ad n. 40. coi. 628. Ephem. Flor. ann. 177 1. (5) Vid. articulum noftrum in laud. Ephem. e- iufdem anni n. 1. coi. 4. Retulit Muratorius Thef. Infer, pag. 563. n. 2. 3 & pag. 164. n. 1. (6) Vid. Epiftolae noftrae partem in Ephem. Flor, ann. 177^. n. 47. coi. 745. Adde pateras Carra- rianas , de quibus fuperius adnot. 4. (7) Vid. ibidem . (8) Vid. eiufdem Epiftolae partem, quae eft ibid. n. 49. coi. 772.3 8c feqq. (9) Vid. Ephemerides litter. Romanas anni 1774. n. VI. pag.41. DonumCl.PraefulisMariiGuar- naccii Volaterrani. (10) Vid. articulum noftrum in Ephem. Flor, an¬ ni 1771. n. 49. coi. 777.3 quaeque adnotavimus hoc   XXXVIII rumque Ottaviani Augufti (0 , Meleagri alterum longe cele¬ berrimum Aedium Pighinianarum 0) , lunonis, & Narciffi (s) non deterioris artis, & famae gentis Barberiniae, Sardanapali fuo nomine inferipti (4) , Paridis Aedium Altempliarum (j) , Dianaeftolatae(6),&fervibalneatorisV)HortorumPam- philiorum , Dilcobuli laudatiffimi in agro Romano non ita_» pridem eruti, aliorumque; Tum Borgiae gentis Helvii Perti¬ nacis rariffima Protome (8) , aliaque Antinoum referens, Card. I tidetici Marcelli Lantis munus (9), Antifthenis Athenienfis I hilofophi Herma Tiburtinus 0°), Ara Vulcani Hortorum Ca- falium('05BigacircenfisadDiviMarciBalilicamiacens<12), hoc Tom. I. ad Tab. I. pag. 2. Vid. typum apud £q. Paullum Alexand. MafFeium in ColleEtionc ve¬ terum Signorum Romae Tab. CXXXV. pag. 127. (0 Vid. quae adnotavimus hoc Tom. 1. ClalT. VIII. Tab. LXXVL pag. 77. (2) Vid. EpiRolae noftrae fragmentum in Ephcm. Flor, anni 1770. n. 15. coi. 231. , quaeque ad¬ notavimus Tom. III. horum Monument. ClalT. V. lab. XYX. pag. 59. Vid. apud eumdem MafFeium ibid. Tab. CXLI. pag. 131. C$) Laudantur haec Signa ab omnibus Romana¬ Can- Vid. typum Tab. 36. cit. Villae Pamphiliae . (S) Typum aeneum habes apud lof. Roccum Vulpium Vet. Lat. profati. Tom. IV. Cap. VI. Tab. VII. Vid. Fpiftolae noftrae fragmentum in Ephem. Flor, anni 1773. n. 34. coi. 551., quae¬ que adnotavimus Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXVI. Fig. II. pag. 42. (9) Meminimus hoc ipfo Vol. ClalT. VIII. Tab. LXXXVIII. pag. SS. (10) Vid. Epiftolam noftram in laud. Ephemer. eiufd. anni num. 45. coi. 715. 3 & n. 47. coi. 742. rumAntiquitatumferiptoribus,alterumveroad¬ OORagiotiamentodiOrazioOrlandiRomam ducitur a Hier. Tetio in Aedib. Barbariniis litt. N. a Cl. Ioh. Winckelmannio Monum. antiq. inedi V°l. F n. 207. , Protomen porphyreticam Philip pi Imp. , & duos Sarcophagos, de quibus omn bus vide Epiftolae noflrae partem in Hphcin. Flo; ann. 1772. n. 45. coi. 711. (4) Vid. eius typum apud Winckeimanniur loc. cit. Vol. I. n. 163. , cuius illuftrationem ha b_s \ ol. II. Par. III. Cap. I. pag. 219. (5) Apud Maffeium cit. Colle#. Tab. CXXIV pag. 116 . (6) De Dianae Signo Winckelmannius loc. cit. X° l U' Par’ L CaP- VII. n. III. pag. 27. Vid. t)pum T„b. 5-3. in y t/la Pamphilia, eiufque pa¬ latiocumfuisprofpeclibus,fatuis,fastibus&c. Romae formis Iacobi de Rubeis . (7) De Servi balneatoris Signo, quod Senecae falfo tribuitur , vide eumdem Winckelmannium Jbid. Par. IV. Cap. IX. n. II. Jitt. C. pag. 256. fopra un’Ara antica pojjeduta da Monfig. Antonio Cajali Governatore di Roma . Iu Roma per Ar- cangelo Cafiletti 1772. Vide, quae nos adnota. vimus Tom. III. horum Monument. ClalT. VII. Tab. XXXVII. Fig. II. pag. 73. Adde vas cine¬ rarium elegantilTimuin , quod fimul dono datum cft,&abOrlandioilluftratum.PraecelTeratan¬ tea donum Capitis aenei Balbini Imp. , de quo nos in iudicio , quod de hoc Opufculo emifimus in Ephemerid. Roman. anni 1772. n. XXXV. pag. 276., & in Epiftolae fragmento, inferto Epheme¬ rid. Florent, anni 1771. coi. S21. (12) Eius fchema exhibuit Tab.III.fub n.XLVIII. ad Cap. XXIII. coi. 2111. Valerius Chimentcllius illuftrans Marmor Pifanum de honoreBijfelli(Tom. VII. Antiq. Rom. Graevii') qui balnearem feliam putat, & rurfus alferit Cap. XXVII. coi. 2130. Vid., quae adnotavimus Tom. III. ClalT. VIII. Tab. XJLVII. Fig. II. pag. 87.   XXXIX Candelabra BarberiniaCO , Zeladianum C2> , aliaque ad Divae Agnetis extra Portam Nomentanam adfervata OJ , Sarcophagus Veliternus quantivis pretii Sex. Varii Marcelli V) , Urna Tudertina (A egregii Etrufci operis, & altera Perufina V) ar¬ canis ethnicorum fculpturis infignita , aliaque permulta , quae fciens praetereo, quaeque iam eruditorum fcriptis lon¬ ge , lateque inclaruerunt. His omnibus accedunt praeftan- tiora Hortorum Matthaeiorum Signa, quorum pleraque fupe- rius etiam pro re nata defignavimus, Cereris nempe Peden¬ tis (7) , & ftantis (8) , Fauni dormientis (9) , & a Satyri pede (pinam extrahentis 0°) , armatae Amazonis (‘0 , velatae.» Pudicitiae 02) , OHaviani facrificands C'3) , Traiani Pe¬ dentis ('4), Commodi equo vecti (**), duo Hiftrionum (igil- (1) Vid. Epiflolae noftrae fragmentum in Ephem. Flor, anni 1770. n. 15. coi. 230. Alterius ex his Candelabris fchema habet Winckelmannius loc. cit. Vol. I. n. 30., agitque de eo Vol. II. Par. I. Cap. XII. n. i» pag. 36. , & alibi. Vid. adnot. feq. (2) Vid. articulum noftrum in Ephem. Florent, eiud. anni n. 45. coi. 71 5. , & feqq. Vid. Opuf- eulum , cui titulus : Difcorfo deW Abate Gaetano MarinifopratreCandelabriacquijlatidalS.P. demente XIV- b> ftfa *77*• PreJF° Aaoftino Piz- zorno. Tab. III. aeneae. Ex Diarii Pifani Tom. III. art. V. pag. 177. (3) Ex V. 3 quae exftabant y IV. in Mufeum Clementinum Vaticanum adfportata , quintum fuo loco reli&um ed:. De his multi Romanarum anti¬ quitatum Scriptores verba faciunt. (4) De hoc Sarcophago s qui a pluribus editus, & illuftratus effc, vide Ephemerides Romanas ann. 1775. n. III. pag. 17. (5) Vid. Epiftolam noftram in Ephem. Flor, an¬ ni 1771- n* 45h coi. 712.3 & feq. De hac Urna verba fecimus etiam in hoc I. Vol. ClalT. X. ad¬ not. ad Tab. CII. pag. 107.3 & Vol. III. ClalT. V.Tab.XXIV.Fig.I.pag.5-7. la corum fculpturis in/ignito 3 in quibus fymbolice fa- cra quaedam revelatae Religionis mvfieria adum¬ brantur 3 & Clementi XIV. P. O. M. , ac fapien- tijfimo ad incrementum Mufei Pontificii Vaticani ab Emerico Bologninio Ferufiae , e?* Vmbriae Praefide humillime oblato Coniecturae loh. Bapt. FaJJerii Pifaur. Regiae Academiae Londinenfis 3 Infii- tuti Bononienfis Socii. Romae 1773. apud Benedi- Bum Francefium. (7) Matthaeiana monumenta ad Mufeum Vatica¬ num ornandum comparata innuimus in EpiHolae no- ftrae articulo, inferto Ephem. Flor, anni 1771.0.1- col. 6. Singula vero in his Voluminibus defignavi. mus. Vide ergo Signum Cereris fedentis Tom. I. ClalT. II. Tab. Tab. XXXVI. pag. 21. (8) Vid. ibid. Tab. XXX. pag. 24. , & feq., & apud Maffeium Tab. CVIII. coi. 100. (9) Ibid. ClalT. III. Tab. XXXIV. pag. 28. (10) Ibid. Tab. XL. pag. 32. (11) Ibid. ClalT. IV. Tab. TX. pag. 53., apud Maffeium Tab. CIX. pag. 202., 8c apud Montfau- conium Antiq. explic. Tom. IV. Par. I. Tab. XIV. n. 2. pag. 2. (12)Ibid.ClalT.V.Tab.LXII.pag.$6.3 & apud Maffeium Tab. CV1I. pag. 99. (6) Vid. eamdem Epiftolam noftram in cit. Ephem. Flor.n.47.coi.741.3&feqq.3tumea,quae (13)Ibid.ClalT.VIII.Tab.LXXVII.pag.77* innuimus Tom. III. horum Monum. ClalT. II. Tab. XII. Fig. II. pag. 22. Exftant etiam De marmoreo fepulcrali Cinerario Ferufiae effoffo3 arcanis ethni¬ (14) Ibid. Tab. LXXXV. pag. 84. (15) Ibid. Tab. XCIII. pag. 92. , & apud Maf¬ feium Tab. CIV. pag. 96. Notae funt Ficoronii ex- po«   XL la (0 , ac truncus militis gladio cincti, galeamque pede dex- tero prementis W ; tum Protomae Iovis Serapidis G) Sile¬ ni (P, Plotinae W , & L. Veri(6) ; infuper aenea capita Ne¬ ronis (7) , & Treboniam Cg) , lymplegma vel Ariae, & Poeti, vel Portiae, & Bruti (9) , St animalium collectioni accenfiti Aries arae impolitus P°), Leo, St Aquila PO; praeterea ba- fes pompam Iliacam referentes ('V, & anaglypha Coniuges IfidifacrilicantesC'S), VeturiamalloquentemCoriolanumP4), natale Romuli, St Remi C‘j), & Nymphas fontium praeli- des (l6) exhibentia; ac tandem Cippi, Urnae , & Infcriptio- nes bene multae , quas fuis locis delignare fategimus C17). Cetera vero aliter diftracta , & praefertim Marci Aur. Anto¬ nini praetextati Protomen a Gavino Hamiltonio Anglo comparatam (,s) haud perfequi vacat , quum iam tantus Vatica¬ narum divitiarum fplendor in fui nos modo rapuerit admira¬ tionem . Quare li tantae rerum antiquarum fupcllectili ibi¬ demcoadtaeaddasceleberrima,iamtumibidemadfervata, marmoreaSignaiacentiaCleopatrae,liveNymphaeadfon¬ tem dormientis ('A, Nili C*°), St Tiberis amnium, tum cete- pofhdationes adverbiis Maffeium 3 & Montfauco- (ii) Leo3& Aquila defiderantur in noltra hac nium,quodhocSignumHadrianotribuerint. collectione. (1)Ibid.Claff.X.Tab.XCIX.pag.100.3& (12)Tom.III.Claff.IV.Tab.XXV.Fig.I. apudSponiumMifcell.erud.antiq.Se6t.IX.n.1. (2) Nunc reftauratur 3 ut in integrum Signum evadat . Quare mirum videri non debet apud nos defiderari. (3) Tom. II. Claff. I. Tab. I. Fig. II. pag. 3. (4) Ibid. Tab. VI. Fig. II. pag. 8. (5) Ibid. ClafT. III. Tab. XV. Fig. II. pag. 34. (6) Ibid. Tab. XXIV. Fig. I. pag. 40. (7) Ibid. Tab. XIII. Fig. II. pag. 32. (8) Ibid. Tab. XXXI. Fig. I. pag. 46. Vid. Epi- ftolae noltrae fragmentum in Ephem. Flor. 1771. n. 52. coi. 822. (9) Ibid. Claff. V. Tab. XXXIV. Fig. I. pag.48. (10) Ibid. ClafT. X. Tab. LXIX. pag. 92. , & apudMontfauconiumAntiq.explic.Tom.II.Lib. III. Cap. I. n. 2. pag. 49. Tab. IX. n. 1. &II.pag.44. (13) Ibid. Tab. XXIV. pag. 41. (14) Ibid. Claff.VII. Tab.XXXVII.Fig.I. pag.7 r (15) Ibid. Tab. ead. Fig. II. pag. 73* f 16} Ibid. Claff.X.SeCt.I. Tab.LIII. Fig.I.pag.95*. (18) Vid. Tom. II. Claff. III. Tab. XXII. Fig. I. pag. 38. (19)Vid.Ioh.WinckelmanniumTraCtatuprac- liminariadMonumentaantiquaanccdotaCap.IV. pag. XC. Vol. I. (20) Vid. Epiftolam noltramin Ephemeridibus Jit- ter.Florent,anni1775".n.2.coi.22.3&feqq., ubi de huius Statuae reltauratione 3 & lingua per¬ peram crocodilo affi£ta.   XLI ra longe praeclariflima Apollinis Pythii, Laocoontis, Anti¬ noi, Herculis cum Aiace (0 , Antinoi, & Veneris, truncus Herculeus, quod opus erat Apollonii Athenienfis, & Michae- lisAngeliBonarotiifpedaculum,actandemvasingenspor¬ phyreticum,larvasfcenicas, arasfacrificiales ab Agrippae Pantheo avedas, aliaque nonnulla , nae tu dixeris, erudite Ledor, praeftantiora quaeque artis miracula heic Graecae, & Roma¬ nae magnificentiae Genio templum parafTe , fibique aeternam afieruifle incolumitatem. Sed quid non infuper Iperandum aPIOVI.Pont.Opt.Max.,cuiusprovidentianuncregimur, & cuius dudu, confilioque, dum Aerario Pontificio praeeflet, tantumopusinchoatum,acperfectumeft?Ipfeenimlibera¬ lium artium amore incenfus iam tantum opus amplificandum regio plane animo , & magnifico fumptu fufcepit, iamque multa plane egregia antiquitatis cimelia , quae in lucem aufpi- cato nunc e terrae finu prodierunt, fedulo conquilivit, atque paravit,quibusauguftumhocMufarumdomiciliumprodigni¬ tate exornet. Huc nimirum confluet Fauni Signum celeberri¬ mum ex rubro Aegyptio marmore , Hermae Bacchandum, & Herculis lane elaboratiflimi, Antifthenis alter haud vulgaris, tumDomitiaeAuguftaenonobviaProtome,olimComitis lofephi Fedii deliciae, ac peritorum omnium admiratio. Huc item migrabit Mularum chorus, &. Graeciae fapientum Her¬ mae , ipforum nominibus*, & lentendis infcripti, aliique ve¬ terum tum Poetarum , tum Philofophorum plane fimiles , quos Tiburtinus ager nuper eduxit!2). Huc etiam procedet Alpafiae Herma alter hoc iplo anno detedus, aliaque e Ca- ftrinoviruderibusfimulerumpentiamonumentaG).Hucle reci- CO quae ex Winckelmannio adnotavimus mus Tom. II. ClafT. VII. Tab. LII.Fig. I. pag. 69. & ad Tom. II. CiaIT. III. Tab. XXV. Fig. I. pag. (3) Vide Epiftolas Caietani Torracae Centum- 41.,&adTom.III.Claff.V.Tab.XXXI.pag.60. cellenfisMediciclariflimirelatasinTom.III.An- (2)VideAnthologiamRomanamTom.I.num. thologiaeRomanaen.XXXIII.p.257.3n.XXXVIIf. XXXIV. pag. 269.3 quaeque nos etiam adnotavi- pag. 297.3 n. XLI. pag. J27., & n. LII. pag. 409. f Vid.   xlii recipient & vas ex bafalte clegantiiTimum in Quirinali effof- fum, & alterum ex alabaftro pretiofiffimum ad Augufti Mau- foleum recens erutum, ceterique ibidem detecti & Livillae Germanici Caefaris filiae (0 , & Tiberii Caefaris Drufi Cae¬ laris filii (*) , & Caii Caefaris., Tiberiique Caefaris, tum & alterius anonymi, Germanici Caelaris filiorum emortuales ti¬ tuli , & Auguftae domus nova indubia monumenta G) . Huc infuper adducentur quatuor lymplegmata, Herculis facinora exprimentia , nempe Geryonem Hilpaniae Regem tricorpo- reum ab ipfo bello fuperatum , Diomedem Thracem quadrigis devictum, tripodem ab Apollinis Sacerdotis manibus vi ere¬ ptum,ScCerberumcanemtricipitemtriplicicatenaadfuperos retractum , quae nimirum inter Oftiae rudera non ita pridem reperta funt. Huc tandem accedet & Protome Perufina Anto¬ nini Caracallae W , & altera Lavinatium Sabinae Hadriani uxo¬ ris, & Anaglyphum bubulum Ocriculanum , & Picena Falarien- fa Monumenta W , & Mufivum Tulculanum Medulae caput referens (*) , & alia fexcenta tum ad Hortos Carpentes, tum in Quirinali, tum ad Curiam Innocentianam , tum alibi de¬ tecta,quibusenarrandisdiemperderem.Necdeeruntaltero aeneorum monumentorum Mufco perrara , atque felecta ci- melia,praefertimqueeffolfaexactoannoadAventinumClu- nienfis Senatus confulti aenea tabula, Graecaque numifinata anecdota Tigianis Armeniae Regis cum Eratonis fororis vul¬ tu V) , Octaviae Augufii fororis cum anadyomenes Veneris ty- Vid. 8c quae nos adnotavimus noftro Tom. III. ClalT. X. Sefl. XIII. n. 66. pag. 171. (0 Vide Epift. anonymatn CI. Viri Ioh. Ludov. Blanconii} Saxonici Ele&oris a confiliis , &. Romae Oratoris laud. Tom. III. Anthol. Rom. n. LI. p. 401. (2)Vid.EpiftolamalteramciufdemTom.IV. Anthol. Rom. n. I. pag. 2. (S) Vid. Epift. tertiam eiufdem Joc. cit. n.II. p.9. (4) Vid. quae nos adnotavimus Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXX. Fig. II. pag. 46. po (S) Vide Opufculum 3cui titulus :Suile Citta Pi¬ cene Falera 3 e Tignio Dijjertazione epijlolare delP Abute G.ufeppe Colucci ai Signori di Falerone. Fermo 1777. in S. /w*Cap.IV.pag.jS. (7) Vid. Tacitum Annal. Lib. II. initio. Part anter. legitur : BAdAETC . BAC1AE.QN . TITPANHC averfa vero parte: EPATft . BACIAEI2C . T/TPA- NOT .AaEA3>H .   XLIII po CO , Silani Syriae Praefidis poft Quirinum , ubi infcripta an¬ ni nota novum ad coniebtandum aerae Chriftianae principium lumen afferret (2) , Titi ,& Domitiani cum peculiari Laodicen- fium epocha, Philippi lenioris , iuniorifque in Stecloris urbe pcrcufla , cetera huiulmodi Graecis Coloniis accenlenda. Sed quo me abripit tantarum lautitiarum ingens prorfus, ac mira congeries?Quapropteriamediverticuloinviam. XII1. Singula hulquedum expofiuimus, quae ad Hortos Caelimontanos Matthaeiorum pertinent; nec quidem de Hor¬ tis Palatinis, quae ad ipfos olirn fpefitabant, ac pollea Spa- diae,deinMagnaniaegentisiuribuscefferunt,iuvatquid¬ quamattingereG).NuncverodeeorumAedibusurbanis verba nobis facienda funt. Huius gentis maiores avitas aedes habuerunt in regione Tranfliberina ad pontem Caeftium , qui Infulam Lycaoniam Ianiculo iungit, quae adhuc exftant, qui- bulquefidemconciliantgentilitiafiemmatahincin.deappidta, &iplapontiscufiodiaMatthaeiisDucibusetiamnumconcredi¬ ta,PontificiaSedevacante.Multisinlcriptionibusornatas fiuiIIehasaedes,patetpraelertimexGruterio(4) ,RcinefioG), Seldenio G) , & Kirchmannio(?) , qui earum nonnullas, ad¬ dita huius loci defignatione , adducunt. Excitatis aedibus ur¬ banis , Tranftiberinas deferuiffe verofimile eft. Certe quidem tam laxo lolo potiti funt, ut Infulam condiderint, quae ex variis , iifque amplis , & elegantibus domibus coalefcit. De iis fingillatim dicemus, at primum vetera aedificia, quae hunc locumtenuerunt,ceteralqueviciniasperpendemus.Circus Flaminius quidem in regione Urbis nona litus praelertim de¬ (0 Cum epigraphe OkTAOTIA ; & averfa par¬ te KftlnN. (2) Cum epigraphe: ANTIOXEliN.Enr. SIAA- NOY . AM . (3) Venuti Roma moderna Tom. 11. pag. 395. (4) Iufcript. Romati. pag. 22. n. 3. > Sc 6.3 pag. fieri- 31. n. 11., pag. 32. n. 12. , & pag. 86. n.4. , 8c 5. (5) Syntagma Infer, antiquar. Cl. IX. n. 67. pag. SII'j & Claff.XI.n. 105., &feqq.pag.645; (6) De Diis Syris Syntagm. II. Cap. I. pag. 220. (7) De funeribus Romanor. Lib. III. pag. 355'. edit. Lugd. Batav. apud Hackios 1672. f2   XLIV fcribendus venit , quem , fi Feftum, Liviique epitomato- rem (') audiamus , exftruxit Flaminius Cenfor , qui etiam viam Flaminiam Roma Ariminum ufque, five potius ad Rubico¬ nem amnem munivit , vel Flaminius alter antiquior, Plutar- chotefteC),quipopuloRomanocampumlegavitprocer¬ taminibus equeftribus obeundis. Celebratos hoc loco etiam ludos Tauricos Diis inferis facros, vel ludos Apollinares poli: Cannenfem cladem inftitutos vulgo fertur C) , ac nundinas quinetiam habitas teftatur Tullius (4) . Diu huius Circi reli¬ quiae confervatae funt, & multae adhuc exftant. Flabetur Bulla Caeleftini III. Rom. Pont., qua enumerantur, & con¬ firmantur bona Ecclcfiarum Sanctae Mariae Domnae Roiae , &. S. Laurentii in Caltello aureo , quaeque data elt Laterani annocidcxck.a.d.IV.nonasOctobrisindictioneX.,atque ibidem ita deferibuntur Circi Flaminii veftigia tunc exfilten- tia : Idem Cajiellum aureum cum utilitatibus fuis , videlicet parietibus altis, & antiquis in circuitu pojitis, cum domibus, ocaminatis,eifdemqueparietibusdeforisundiquecopulatis-. Hortum, qui ejl mxta idem Cajiellum cum utilibus fuis, & fuperioribus Criptarum ; Populum foras portam iam difti Ca- ficlli a parte Campitelli, & regionis Sanfti Angeli ufque in Burgum61.Cajiellumenimaureummedioaevo,&Pala¬ tium quoque dictus fuit Circus Flaminius, ut cetera etiam vetcia ingentia aedificia a rudioribus infimae latinitatis feri- ptonbus vocata laepe fuerunt. Hinc Ecclefiae Sanfti Lau¬ rentii , quae in eius ambitu comprehendebatur , nomen in ajidlo aureo, tum etiam in Palatinis , corrupte vero Palla- Clm\ ac tandem TM claifura adhaefit, ut inter alios animad¬ vertit Ioh. Vignolius (s) . Hoc etiam adnotavit Iacobus Gri- mal- (0 Lib. X. (2) Froblem. 6j. ad A“k• '4' Lib' ' (S) Liv. XXX. 38. Adnot. 5. ad S. Leonis III. Tom. II. Libri Pontificalis.   XLV maldiusO) , qui agens de Monafterio S. Laurentii in Palati¬ nis , dicebatur, inquit, in Palatinis propter Circum ( Flami¬ nium),quemignarePalatiumvocabant.ItaCircumNero¬ nisPalatiumappellant,&MontemS.Alicbaelishacdecauf- fa Palatiolum . De Ecclelia S. Michaelis in Palatiolo vide FTancifcumM.TurrigiumC)latiusdifferentem.Etiamapud Anaftafium Bibliothecarium in vita S. Petri Palatium Nero- nianum memoratur; quemadmodum in Codice Vaticano <h), ubi quaedam ad Balilicam Sanctorum XII. Apoltolorum fpe- ctantia habentur, Forum Traianum Traiani Palatium dici¬ tur, ac alibi Palatium Antonianum dictae etiam funt Ther¬ mae Caracallae. Quare Templum noftrum S. Lurentii in Pa¬ latinis, ac monafterium noviter reltauravit Hadrianus I., & coniunxitcumaliomonafterioS.Stephaniiuxtaipfumpofi- to, & in Baganda dicto, ibique Monachos ad pfallendum in tituloSanbtiMarciordinavit(4).Necaliudinfuper,quam noftrum putandum forte eft Templum S. Laurentii Palatini, cuius mentio eft in Bulla S. Leonis IX. (V , licet Bullarii Vaticani editores V) ad S. Laurentii in Pifcibus revocaverint, ac de eo dubius haeferit Eques Francifcus Victorius, dum IX. Templa S. Laurentio facra in Urbe recenferetO . Heic etiam fitum erat Templum S. Mariae Domnae Rofae , cuius mentio fupra occurrit, & habetur infuper in Ordine Romano, quod¬ que cum ceteris in conftrubtione Monafterii S. Catharinae de Funariis C) dirutum eft. Andreas Fulvius (?) aetate fua, Clemente fcilicet VII. regnante, exftitiffe etiamnum huius Circi formam , & veterum fedilium figna tradit, atque in (0 In Lib. Mf. de Canonicis Bajtlicae S. Petri Cap. II. (2) Bella Cbiefa di S. Micbele Arcbangelo} e di San Magno Cap. VII. pag. 20. (3) Sub n. 5560. (4) Vid. Florav. Martinellium Roma ex etbnica eius faera pag. 364. (5) Tom. I. Bullar. Baftl. Vatican. pag. 26. (6) Ibid. adnot. (c) . (7) Differt. Pbilolog. pag. 85. (8) Ibid. pag. 371., & 374. ($0 Vrbis antiquit. Vid. infer, p. XLVIII. adn. 2.   XLVI eius cavea erectum laudatum Templum S. Catharinae cogno¬ mento dc Funariis, quod ibi ob loci commoditatem , & a- reae longitudinem funes intorqueri confueverint . Eiufdem Circi formam faeculo XVI. depictam, quam tamen multa ex parteingeniumfupplcverit,affertMontfauconius(0exLau¬ ro. 1orro iuxta Fulvii, aliorumque fententiam Circi latitu¬ do fpatium occupavit, quod inter officinas , five apothecas oblcuras, forumque Iudaeorum eft intcriectum . Huiufmodi quidem apothecae olirn iunctae erant non Circo folum Fla¬ minio , fed aliis etiam Circis. Numularium, nummorum fci- licetpermutatorem,veleorumdemaeffimatorem,dcCirco FlaminiohabesinveteriinferiptioneaVignolioadductaW} VitriofficinaminibietiamfuilfedocetMartialis(?)dicens: Accipe dc Circo pocula Flaminio . Habetur Pomarius dc Circo Alaximo ante pulvinar apud Rei- nefiumO,&Sponium0),quinempeinternegotiantesmi¬ nutos , & faTOTTCAas olera vendebat, non autem viridaria cole¬ bat, ut placuit Sponio. Siquidem faepe occurrit in veterum inferiptionibus delignatus locus, ubi opifices officinas fuas aperiebant, ut in noftra Infcriptionum fylloge obfervaVi- mus V) . Ad eas autem officinas, cum Card. Dominicus Gy- mnafius exacto faeculo Templum S. Luciae a fundamentis una cum adiunctis aedibus, & monafferio renovaret, efFoffae funt ingentes columnarum fpirae, & fcapi e Tiburtino lapide, ac quadratae eximiae magnitudinis . Quare lutnmus Circus in he- micyclumcurvabaturadplateamMarganamvulgodictamnon longe a Capitolio , ac flectebatur ad Aedem S. Angeli in Fo¬ ro Pifcario; eius autem ima pars , ubi Circi carceres habe- (0 exf/ic. Tom. III. Par. II. Lib. III. Cip. III. Tab. CLIX. pag. 27S. (2) Infcript.felecl.pag.141.poftDiflertat.de Columna I/np. Antonini Pii. ($) Epigraru. 75. Lib. XII. ban- (4) Syntagm. Infcript. antiq. CluIT. XI. n. 7^. C5) MifcelL erud. antiq. Se61. VI. pag. 230. (6) Tom. III. ClaflT. X. Secl. VI. n. 11. pag. 119.3 & leq.   XLVII bantur, pertingebat ad Aedem S. Nicolai ad Calcarias didi, & ad palatium Ducum Caefariniorum. Certe quidem Templum ApollinisCO,quodaliiMulis,velHerculiCudodi(aerumdi¬ xerunt , Circo Flaminio adhaerebat; nec aliud fpatium obti- nuifle, quam quod nunc tenet Aedes S. Nicolai, & adiun- 6lum Collegium Clericorum Rcg. de Somafcha , docent ve- fligia fphaericae parietis, cui adneduntur Ionicae columnae incendio corruptae, & ex veteri marmorato concinne refe- dae, quorum lingula adhuc in Cavaedio eiuldem Collegii confpicua lunt. De Aede altera Neptuno dicata, quae erat 'in Circo Flaminio, & cuius Aedituus erat Abafcantius Aug. Lib. (2) , cum nullae fint reliquiae praeter antiquae inlcriptio- nismemoriam,haudpraedatpluribusdilferere.Ceterum condat, in ea fuiffie multa tum Signa, tum Anaglypha, quq- rum nonnulla Neptunum, Thetim , Achillem, Nymphafque marinas delphinis vedas referebant, & tamquam Scopae o- pera praedicabantur (s). Anaglypha quidem nonnulla affixa etiam nunc funt parietibus Aedium Matthaeiarum, Nymphas marinas d) , & Pelei, & Thetidis nuptias (s) exprimentia , quae forte ad hoc Templum pertinuerunt, & in hac vicinia erui potuerunt. In iplo Circo Flaminio exditide etiam Si¬ gnum Achillis , Cephidbdori opus, tradit Plinius (6): verum hoc, ceteraque huiulmodi vel abfumplit temporum iniuria, veladhuccelatinvidatellus.QuidmemoreminfuperCirco FlaminiopropinquasAedesMartis,Vulcani,Bellonae,Ca- doris, Pietatis, ipdufque Iovis Statoris, quas Onuphrius Pan- vinius(7)dudiolerecenfuit?QuapropterdedgnataCirciFla¬ (1) Le antichita Romane 3 opera di Glo. Rati- Jla Piraneft; Roma 1756. Tom. I. n. 94. pag. ig. (2) Infcriptionem} quae exdabat in pratis Quin- £tiisinvineaquadam3refertOnuphriusPanvi- nius de Ludis Circenfibus Cap. XVIII. 3 ubi de Circo Flaminio, pag. igg. edit. Parif. ann. 1601. & ex eo etiam ceteri. * minii (3) Plin. JVatural. Hift. Lib. XXXVI. Cap. V. (4) Vid. Tom. III. Claffi II. Tab. XII. Fig. I. pag. 21., & Tab. ead. Fig. II. pag. 22. (5) Ibid.Claff.VIII.Tab.XXXII.pag.61.3 & Tab. XXXIII. pag. 64. (6) Loc. cit. (7) Loc. cit.   XLVIII minii longitudine, a platea nempe Margana ad Aedes Cac- farinias, ccterifque eidem adiacentibus aedificiis, apparet Ae¬ des Matthaeianas id loci nunc tenere, quod media fere pars Circi olim tenere debuerat. Tertis quidem cft Pyrrhus Ligo- rius (0 , atque etiam laudatus Panvinius (2) , paucos annos an¬ te harum Aedium conrtructionem, multam Circi partem ad¬ huc integram exftitiffe, praefertim eo loci, ubi etiamnum e- rigiturdomusaLudovicoMatthaeioexcitata,dequainfe¬ riuslatiusdicendumerit;cumibidem,utroqueetiamferipto- re afferente , multa marmora effoffa fuerint, ac potiflimum Anaglyphum Circenfibus ludis infignitum, quod non aliud, quam noftrum fuo loco adduclum (s) , exiftimamus . Nec il¬ ludpraetereunduminCavaedioMatthaeianaenortraedomus parietibus affixos cerni quatuor arcus femicirculares, foliis, rolifque diftinctos, quorum duo integri adhuc funt, duo vero dimidia fere parte fccti (fragmentis hinc inde fparfis) quof- que fupra Circi Flaminii carccrum fores olim exftitifie exifti- mat CO Librode’CerchirComtnciavaqueflo musMarganiae,ubiinhemicycliformamdefne¬ ( il Flaminio ) dalla piazza de' Morgani3 e finiva appunto al fonte di Calcaram , abbracciando tut- tclecafede'Mattel3eflendendofifinoalianuo- *i'a •via Capitolina 3 ripigliando in tutto qtiel giro j/joltealtrecafe.Daqueflolatode'MattelilCir¬ copoebiannifonoeraingranparte inpiedi;la parte piu intiera flava nel fto della cafa di Lo- dovicoMattel3ilqualehacavatounaquantita di tr avertini dei Circo in qttel luogo 3 e tr ovatovi tPali i Ce ui fregio in u» ran pt ina- gliato de' putti 3 che fopra de' carri facevano i giuocbi Circenft, e nella cantitia trovaronfi altri travertim 3 e videft alquauto dei canale 3 per do- ve pajfava /'aequa, la quale ora chiamap it fon¬ te di Calcaram , forfe per la calce, che hi fi macerava . (z) Loc. cit. pag. 129: Porta Carmentalis, fe¬ cundo murorum Vrbis ambita , quos T. Tatias eam Romulo regnans exfiruxit , radicibus Capitolii condita fuit, a qua llaud procul Circus Flaminius erat, ad eam partem vergens, ubi nunc efi Vrbs Roma. Cusus longitudo protendebatur ab area do¬ bat 3 uf'que ad novam viam Capitolinam 3 ubi car¬ ceres>& XIII. ojlia erant: latitudo vero fuit ab AedibusLudoviciMatthaeittfqueadCalcariaefon- tern, ubi efl ojfctna tin:loris ambiens eo circuitu apothecasobfcurasMatthaeiorum3&multasdiver- forumprivatasdomus.CuiusfundamentiseTibur¬ tinolapide,quaeMatthaeiorum,&vicinisaedi¬ busfuppofitafunt,antealiquotanniserutis3mar¬ morea tabula pueros currilia ludrica agitantes in- cifos continens reperta fuit . Adhuc vero exflat an¬ tiquus Circi euripus limpidijftmus tincioris ofpci- nam praeterfluens 3 qui fons Calcariae a vicinis ( quae ibidem coquebantur calcis fornacibus ) di¬ citur . Eius Circi arena lateribus minutijpmis tranf- verfe flratis opus tefjellatum fuprapofitum habebat. Vide&Fulvium l.ib.IV. cap.deCircoFlaminio, ubi ait: Longitudo eius Circi ab Aedibus nunc D- PetriMargani3(snS.SalvatoreinPenjiliufque adAedesD.LudoviciMatthaeiiuxtaCalcara- num, ubi caput Circi . (3) Tom. III. CiaIT. VIII. Tab. XLVII. Fig. II pag. 87.   XLIX mat Carolus Blanconius liberalium artium cultor eximius, idemque fcientiffimus , & Ludovici Saxonicae Aulae a confiliis, & komae Oratoris, a quo Circi Caracallae formam , & univerfam illuftrationem praeflolamur, meritiflimus frater; ratus fcilicet hoc loci, vel non longe effodi eofdem iam potuif fe, & dein fedem hanc , atque ufum nactos fuiffe. Quae in- fuper ad hunc Circum flmul pertineat, reflat adhuc decur¬ rens aquae vena, quae habetur in crypta vinaria cuiufdam domus Matthaeianis Aedibus propinquae (0 . Abundare enim aquae copia Circum opus erat , fi XXXVI. crocodilorum lpeftaculum ibidem edidit Auguflus (fi . Nec nifi ad Cir¬ cumfpeffaffeverofimileeflaliquamquoqueaquaepartem, quae etiamnum decurrit iuxta proximam , cui ab ulmo no¬ men efl, cloacam . XIV. Iam monuimus Matthaeiorum Infulam in plures difpefci Aedes, quae tamen ad unam, eamdemque gentem olim pertinebant. Antiquiores eae effe videntur, quae me¬ ridionalem plagam , & plateam tefludinum , quod eae fontis crateri infculptae , refpiciunt; in qua nimirum aquae Salo- niae , Gregorio XIII. Romano Pontifice , in Urbem Mutii Matthaeiicurisdedubtaefonscernitur,quatuorvafibus,con- chilioruminflar,exAfricanomarmore,totidemqueaeneis delphinorum fimulacris a Thadaeo Landinio Florentino an¬ nocioidlxxxv. conflatisinfigniterornatus(fi.Haequidem AedesaubloremhabentIacobumMatthaeium,quiproiifdem condendis architectonica opera ufius efl Nanni Bigii, earutn- que parietes diftingui voluit Thadaei Zuccherii pibturis , qui¬ busFuriiCamillifacinoraexprimebantur,licetquaeinfron¬ te erant, obdubta calce paucis ab hinc annis inepte oblittera¬ tae (1)Vid.VenutiumanticaRomaPar.II.Cap. pograpbiaLib.VII.pag.161.ater.edit.Venet. III. pag. 87. 1588., & Andream Fulvium Anticbita di Roma (2) Dio Lib. LV. Lib. V. pag. g21. a ter. Venezia 1588. ($) Vid. Barthol. Marlianium Vrhis Romae To-   L tae iam fuerint, iis, quae funt ad latus, dumtaxat referva- tis. Duo etiam interiora cubicula eiufdem pennicillo exorna¬ ta infuper fuerunt. Ante Templum SS. Valentino, & Seba- ftiano dicatum furgunt Aedes , quas Iacobi Barotii a Vignola opera condidit LVD.MATTHAEIVS. PETR ANT. F1LIVS. LVD. NEPOS ut supra fores flat epigraphe conditorem ciens, quaeque ad Matthaeios Paganicae Duces iam fpeclabant, multifque ve¬ terum monumentis inftru&ae erant. Nec alia , quam quae heic fervabantur Signa, cenfenda funt, quae fub Caefaris AuguftiO) , & Aurelii Caefaris (2) nomine in Aedibus Ludovi- ciMatthaeiihaberiait,acetiamediditlacobusMarcuccius; quorum alterum habetur etiam inter Icones a Heronymo Fran- zinio editas (A . Hifce Aedibus aliae adhaerent prope ulmi cloa¬ cam, quae Bartholomaeum Brecciolium architectum agnofcunt. Hincfequunturaliaea LudovicoMatthaeio(fi PhilippoTi¬ tio credimus ) aedificatae anno cididlxiv. ante Divae Luciae Templum,fedabAlexandroMatthaeioexftructac,fiearum foribus infcriptum lemma attendamus , ut revera attendi de¬ bet (A , Bartholomaeo Amannatio , ut nonnullis placet, vel Claudio Lippio , ut alii cenfent, formam aedificii praebente. Earum interiora cubicula Francifci Caftcllii picturis diitin- guuntur. Has vero nunc tenent Caietani Duces, qui fibi iplis compararunt, quemadmodum & Nigronios, & Duratios, & Serbellonios dominos pro divertis temporibus eaedem an¬ tea agnoverant W . (0 Antiquar. Statuar. Vrbis Romae Libri IIT. Romae 1623. j edidit lacobus Marchuccius in fol. Lib. III. Tab. 93. (2) Ibid. Tab. 94. (3) Icones Statuar, antiquar. Vrbis Romae Hie- ronymi Franzini Bibliopolae ad* Signum Fontis 0- pera. Romae 15S9. in 12. XV. Ve- (4) Q uare h°c Joco corre&a volumus} quae a Titio decepti temere diximus Tom. III. CIa(T. VIII. Tab. XLVII. Fig. I. pag. 87. (5) Vid. Defcrizione delle pitture , fculture 3 e arcbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co- minciata dalPAbate Filippo Titi &c. pag. 86. fino a 90.5 tum etiam Itinerario ijlruttiuo divifoinot- to   LI XV. Verum non id nos nunc agimus, ut has veluti appendices Aedium Matthaeiarum defcribamus ; Potiori namque iure ad fe nos avocant, quae R magnificentiores, & fplendidiores firnt iuxta dextrum latus Ecclefiae , & Mo- naflerii S. Catharinae de Funariis , quaeque Afdrubalem Mat- thaeium Cyriaci fratrem auCtorem habent. Id docet infcri- ptio in cavaedio exfiftens, quae ita fe habet: ASDRVBAL .MATTHAEIVS.MARCHIO .IOVII VETERVM.SIGNIS .TAMQVAM.SPOLIIS EX. ANTIQVITATE .OMNIVM.VICTRICE .DETRACTIS DOMVM. ORNAVIT. ET. PRISCAE. VIRTVTIS. INCITAM EN TVM POSTERIS .RELIQVIT. ANNO .DOMINI .cioiacxvi Carolus Madernius architectonicum opus rexit, & interiora cubiculafuispennicillisexornarunt Francifcus Albanius, Iohannes Lanfranchius, & Dominicus Zampierius. Pictae vero tabulae etiam exftant hinc inde difpofitae , quae Cafparis Caelii , Chriftophori Roncallii , Iacobi Trigae , Caroli Sara- cenii, Hieronymi Mutianii, Michaelis Angeli Morigii, Gui- donis Renii , Ioh. Francifci Barbierii, Petri Paulli Gobbii, Petri Berettinii , Michaelis Angeli Bonarotii , Valentini Galli, aliorumque opera praedicantur. Alt nulla res & celebriores, &praeftantioresfecithasAedes,quamveterummonumen¬ torum undique difperforum praeclara congeries. In cavae¬ dionamque,fcalis,acperiltylioligna,protomae,anagly¬ pha, cippi, aliaque huiufmodi occurrunt, quae fummatim innuere fat erit. Cavaedium habet praefertim Signa Apolli¬ nis Sagittarii, & Herculis , tum Romanorum Impp. Iulii Cae- faris,Caligulae,Claudii,Neronis,Domitiani,aliaqueGla¬ diatorum. Inter Anaglypha fpectandum praecipue venit fa- crificium Capitolinum, & Militum Praetorianorum feditio. Hinc to Jiazioni, o olornate per ritrovare con facilita tna &c. di Giufeppe Vafi n. 195. pag. 198. tutte le anticbe 3 e moderne magnificenze di Ro- §2   LII Hinc fi exitum quaeras verfus Divae Catharinae Templum, habebis Nymphas marinas a delphinis , ac tritonibus ve- btas, Bacchi , & Ariadnae nuptias, & Mulas defundo Poe¬ tae famulantes , quas marmore infculptas cernas. Si vero me¬ ridiem verfus egredi lubeat, occurrent Amores Deorum vi¬ ctores, Polyphemus, Se Galathea, Sphinx fcopulo iniidens, & Oedipum aenigma folventem aufcultans (0 , tum Bacchi, & Herculis uterque thronus marmoreis tabulis expreffi. Si ad porticumretrocedas,&ibidemconditas,&DeumMithram, & Hylam a Nymphis raptum anaglyptico opere exhiberi in¬ tueberis. Si fcalas albendas, Bacchans occurret, dein Fortu¬ na , tum Iuppiter Signis expreffi ; hinc parietes ornatos con- fpicies Anaglyphis referentibus utramque venationem Com¬ modi , & Philippi Impp. , ac Pelei, & Thetidis nuptias; ac tandem ipfos fcalarum gradus identidem di/tinctos offendes pulvinaribus, quae quaternario numero inventa ad Curiam Hoftiliam & fuperius , & fuo loco monuimus . lam ventum ad periftylium , quod aulam refpicit, atque heic pedem figens fuper aulae poftes cerne viri incogniti Protomem , tum leor- fim Aefculapii Signum ad laevam, quod medium habent co¬ lumnaeduaemarmoreae,quibusCybelisduoSigillafuper- ftant, tum aliae fimiles e regione aditant duo pariter Cybelis Sigillafuftinentes.Hincduaealiaecolumnaeadpoftesdif- pofitae , totidemque contra itantes capitulis caniftriformibus initructae; tum iacens inferne ante Aefculapii Signum Sar¬ cophagus vindemiali opere infignitus, ac muris appicta Ana- glypha, quae referunt tabulam Heliacam, Priami occifionem, & lacrificium taurile lovi, & quatuor anni tempeftates. Ex hoc loco Ipectare licet cavaedii parietibus inhaerentia hinc inde cetera praeclara Anaglypha , quae nimirum rurfus ex- hi- (0 Hoc Anaglyphum ab operis noftris omiflum eft, caruitque aeneo typo j quo ipfum Le&oribus nothis exhiberemus.   LIII hibentPelei,&Thetidisnuptias,&Proferpinaeraptum, tum Venerem concha veftam, pompam Iliacam, aliam Bachicam,Orpheumcantumulcentemanimantia,Meleagri, & Atalantae fabulam, Bacchi, & Ariadnae nuptias, facrifi- cium Iovi, & lunoni, Antilochum Patrocli mortem Achilli nunciantem,tabulamvotivamAefculapio,Hygiae,Fortunae, hx. Baccho, aliaque bene multa , quibus Icientes parcimus. Quare etiam memorare lingillatim negligemus plures praecipue cippos, aliaque marmorea monumenta, quae in ambulacro fubdiali , quo cavaedium veluti bipartitum cernitur , adlervan- tur.Aefculapii,&Hygiae,aliaqueiacentiaSileni,Flumi¬ nis,acSomniSignaheicIparlimdifpolitatantumindicafie litfatis.Sicelebrem, aclingularemprorfus M. Tullii Ciceronis Protomen innuerimus in Aedium pinacotheca exlillen- tem,nileritreliqui,quodexponamus;liquideminteriora cubiculaomnicarentantiquitatisornamento. XVI.Nequeetiamhaecipfatamegregiavetullatismo¬ numenta&illuftratoribus,&laudatoribuscaruerunt.Videas liquidem praeftantiora Anaglypha adducta a Sponio, Mont- fauconio,Bellorio,Aleandrio,Spenceio,Winckelmannio, aliilque; multalque veteres Inlcriptiones fere ab iis omnibus editas, qui eas in unum collegerunt, quolque fuperius cita¬ vimus , cum de Hortorum Caeliorum monumentis fermonem haberemus . Nec tacuerunt exteri Scriptores , noltrique etiam Topographi, praefertimque Ficoronius (0 , Venutius 0> , Va- lius (s) , & Titius (4) coadtam heic tantam & monumentorum, & elegantiarum congeriem.Atdelideranduminfuper erat, has Aedes, utpote quae 1'eorlim ab Hortis Muleum re¬ ferantlocupletiffimum,illuftratore,actantaefupelleftilisedi¬ tore haud carere. Iam porro hanc lortem tulerant & lulti- (0 Lefingolarita diRoma moderna Cap.VILp.65. (3) Loc. cit. n. 193. pag. 198. (2) Roma moderna Tom. II. pag. 358. (4) Loc. cit. pag. 86. , e 461. nia-   LIV nianearum Aedium Tablinum (0 , & Mufeum gentis Odefcal- chiae (*) , & Antiquitates , ac ornamenta alia Aedium Barberi- niarum(s),necqualemcumqueetiamdefideraveratdefcri- ptionem ipfum Strotianae domus Mufeum U) ; quibus nunc baudinferioreseruntAedesMatthaeianae,eilqueadnexa venerandae vetuffatis cimelia. XVII. Aff utinam & Horti , & Aedes Matthaeiorum , eifque adiuncta monumenta eum nacla fuiffent illuftratorem , & editorem , qui eorumdem praedandae, ac dignitati par eflet. Si exiguum quidem ingenium nofixum, cui eadem concredita, perpendatur, dolendum inprimis elt eorumdem exornationem, promulgationemque nobis potiffimum obtigifie, tumineaincidifle tempora, inquibus variisdidrahebamur itudiis, & occupationibus longe quidem inter fe diflitis, ut edita interim per nos opera latis offendunt. His acceffe- runt multarum morarum interiecfa impedimenta, obquaenobis in medio veluti curfu didentis tum mentis alacritas, tum piopofiti noflri unitas, quae ab affdua fyffematis , & metho¬ diiecoidatione,&exfecutionependet,identidemminui, tuibaiiquevidebatur.FluxeruntiamXlf., &ampliusanni, ex quibus hanc provinciam lufcepimus, quam quidem per hoc tempus tot vicibus & affumpfimus, & intermifimus , ut faepeiamexantlatoslaboresinffaurare,&.multosmoxinir¬ ritum ceffuros abfumere cogeremur. Non hoc tamen noffra culpa factum quis credat, quibus operis ardor , & fedulitas (0 Galleria Giufliniaua dei Marcbefe Vincett- z° GiuftMani Par. I. Tavole CL1I. , e Par. II. Taveh CLXV'11. iSji. infol. (2)M armi, Statue, Carnei, ed altro efflenti ”'&n Appartamenti, e Galleria delPEccmo Sig. D. Livio Odefcalcbi Daca di Bracciano , Nipote d’lnmcenzo PP. XI. in fol. ,70z, ( Trafponati gran parte in Aranquez ). Hinc prodiit Mufeum Odefcalcbum,fveThefaurusantiquarumGemma¬ rum 6-c. Accejferunt aerea Deorum, ac Dearum fit idola3 marmorea item anaglypha, mouumentaque alia plura &c. (Illuftratore Henrico BrulaeiOj & Ni- °olao Galeottio) Tom. II. Romae 1751. in fol. (3) Dominici Panaroli Mufeum Rarberinum. Ro¬ mae 1656. in 4. Hieronymi Tetii Aedes Rarberi- nae ad Quirinalem. Romae typis Mafcardi 1642. in fol. A pag. 197. incipit recenfio veterum Pro- tomarum, & Signorum ufqne ad pag. 220. (4) Defcrizionc dei Mufeo Strozzi 3 di Gio. M. Crefcimbeni3fraleProfedegliArcadi.   LV fit maxime ia deliciis , quofque properatio ad finem tam¬ quam ex naturae incitamento urgeat vel in ipfa rerum au- fpicatione.Nonhinctamenexcufationempeterenobismens eft aut ofcitantiae , aut negligentiae noftrae; fied id potifli- mum nunc monitum voluimus , ut diverforum temporum, quibus noftrae per univerfum opus difleminatae aflertiones refpondent,quaeomninoneceflariaeftet,ratiohaberetur• Quare Lebtorum noftrorum humanitate confifi non aliud nunc exponerefatagemus,quamtotiusnoftrioperistexturam,vel profpectum , quem quidem paucis expediemus. XVIII. Illuftrandae ingenti huic veterum monumento¬ rum colledtioni manum iam admoverat Rodulphinus Venu- tius Patritius , &. Academicus Etrufcus Cortonenlis , Nicolai Marcelli Marchionis, & Philippi Praepofiti Liburnenfis Vi¬ rorumCll.frater,BenvenutiIofephiMarchionis,acubiculo Petri Leopoldi Magni Ducis Etruriae, Socii, & Amici noftriobfuamvirtutem,acfuavitatemfpectatiliimipatruus, Romanarum antiquitatum Praefes , ac Vir denique multis e- ruditis,doctitqueeditisVoluminibuslongenotiftimus.At vix opus hoc aggreftus fuerat, cum ecce mors ipfum peremit a.d.III.Kal.Aprilisannicididcclxiii.,necultraprimiVo¬ luminis Tabularum, quae Statuas comprehendunt, illuftrationem procellit. Fadtum interim eft, ut onus in nos conla¬ tum fuerit adornandae quartae Bellorianae editionis Vejiigii veteris Romae, & fex Tabularum anecdotarum elaborandae Appendicis (0 ; quae licet ab imperita, ac iuvenili prorfus manu profectae tunc forent, cum tamen aliquod approba¬ tionis fuffragium a doctis viris obtinuiftent, in caufla fuerunt, cur oculi in nos conficerentur, & digni , qui in Venutiani ope- (i) Haec omnia paraverat etiam ante nos Ioh. Bapt. Piranefius initio Tom. I. Antiq. Roman. uf- que ab anno 1756. , fed ut Opus omne abfolveret, & una ederet univerfum, priorumVoluminum pu- blicationein retardavit , & noftrae editioni tempo- ris principatum reliquit.   LVI operiscomplementumfuccederemus,infuperhaberemur. Qual'e ipiius apographum, quod & emandatum, & aliqua e- tiam fui parte reformatum fuerat a Contuccio, olim Kircheriani Mufei Praefecto, & deletae Loyolitarum Societatis Alumno , mox vita functo , traditum nobis fuit, quod antequam iterum expendei emus, umveilos archetypos monumentorum, quae tum in Hortis Caelimontanis, tum in Aedibus urbanis iVlat- thaeioi um adfervabantur, fingillatim invifendos, ac pene con¬ trectandosanobiseflecenfuimus.Verumutideafedulitate, acfeiefecuiitateabfolveremus,quaenosvelabofcitantia,vel ab ingenii licentia immunes faceret, focios nobis adiunximus Ioh. Baptiflam Vicecomitem Romanarum Antiquitatum Prae- hdem meritiflimum , eumdemque doctiflimum, atque ipflus filium Ennium Quirinum vix ex ephebis egreflum , ob miram vetcus eruditionis peritiam, qua inter cetera difciplinarum ornamenta praecellebat, plurimi aeftimandum, nunc vero in dies & fcientia , & fama magis inclarcfccntcm, & PII Vi. P. O. M. a fecretiori cubiculo, qui mihi fcilicet praefto effent, quaeque forent vel adnotanda, vel conftabilienda , difcuffis fententiis, 6t omnibus naviter expenfis, una mecum decer¬ nerent. Multa fane Venutius ftatuerat, multaque etiam pu¬ blica voce invaluerant, quae typis exprefla iam apud vulgum fidem omnem obtinuerant. At nos veritatis unice folliciti, & fymbola omnia, & vultuum lineamenta iuxta critices re¬ gulas, & ope ceterorum monumentorum expendentes, mul¬ ta immutanda, atque aliter exponenda cenfuimus. Hinc fa¬ cium eft , ut multae Statuarum illuflrationes , quas i. Volu¬ men compleCti debebat, expunctae fuerint, eilque noftras subrogandas curaverimus . Hinc etiam faftum , ut ceteras live infciiptiones,fivenomenclaturas,quasnonnullisTabulis, ex quibus reliqua Volumina compingi debebant , iam ipfe adle-   LVII adleverat, eidem etiam cenfurae, ac reformationi fubiecerimus. Quid hac in re a nobis geftum fuerit, fupervacaneum erit nunc exponere, cum haec quidem illufirationes, & adnotationes no- ftras legentibus patere facile poffint. Ac fane multa etiam ex Venutii explicationibus fuperflua, vel nimis nota amputavi¬ mus , Graecum textum adduftis ex Latina verfione Graecorum Scriptorum locis adiunximus, & omnia in eum ordinem, quem nobis propofuimus, accurate redegimus. Nec etiam minorem infumpfimus diligentiam , ut Scalptorum erratis, quae commode licebat, medicina aliqua per nos fieret .• Mul¬ tae fane fabulae non omnino eleganter caelatae occurrunt, quumnonomnesvelimmutare,velexpolireinnoftraefiet poteftate . Ceterum id faltem curavimus, ut Caesarum, ceterorumque imagines fatis cognitae ad veram vultus , quae in autographo haberetur , formam redigerentur , ceteraque omnia fuis prototypis apprime refponderent. Nec alia fane poftopusaScalptoribusomninoabfolutum,antequamnos hanc provinciam fufciperemus , follicitudo nobis relinque¬ batur . XIX. Sed iam qui ordo a nobis fervatus fuerit, innuamus . Numina quidem praecedere aequum erat, tum ut Divinitati , quae his etiam indiciis a gentilitate petitis adfiruatur, inprimislitaremus,tumutveterumethnicorum,quorum monumenta tractamus , facro inhaereremus fyftemati. Quare Numinaipfa,quaeStatuisexpreffahabebamus,cumaliama¬ iorum gentium , eademque felecta, insignia, & eximia cenferentur, alia vero minorum gentium, eademque adfcriptitia, minufcularia, & putatitiadicerentur,infuasclafiesdi-* ftribuerefiuduimus,utproindefuuscuiquehonorolimetiam redditus fervaretur . Hinc Caeleftes Deos primae Claffi ad- fignavimus , Terreftres fecundae , Silveftres tertiae, Semideos, h five   LVIIl five Indigetes quartae, ac quintae demum Deas Virtutes. Tum DiiseorumMiniftros,&Sacerdotesfubiunximus,quibusin Clafle fexta factus eft locus. Sacerdotibus fuccedunt Magi- ftratus, ac proinde ex temporum ratione Confules feptimam Claflemobtinuerunt.HisfubnectunturImperatoresRoma¬ ni, quibus Claflis obtava occupanda obtigit. Barbari Reges nonnifi pone eorumdem domitores collocandi erant, atque hinc Clafle nona ipfos comprehendi opus fuit. Decima Mi- fcellanea continet; undecima Statuas iacentes. Atque haec eit totius I. Voluminis, quod CVI. Tabulis conflat, difpoll- tio.Nonabfimilirationefecundumdigeftumeft,quodXC. Tabulas continet, quodque in Protomis, Hermis, Clypcis , & nonnullis Anaglyphis fimplicioribus referendis verfatur. Hinc Protomarum Deos exprimentium Claflls prima; tum Protoma- rum Heroas , & Viros illuftres praefeferentium Claflis fecunda ; dein earumdem Imperatores , & Auguftas repraefentantium Claflis tertia ; ac tandem Imperatores Germanicos faeculi XV., Si XVI. exhibentium Claflis quarta . Sequitur Claflis quinta, quae Capita incognita; fexta , quae Hermas , feu Terminos; septima, quae imagines quadratis, & rotundis figuris inclufas; obtava, quae Anaglypha cum variis homi¬ num, & mulierum imaginibus; nona , quae figuras anagly¬ pticaslingulares;decima,quaetrophaea,pulvinaria,capitula, bales, truncos, & candelabra; ac tandem duodecima, quaelarvasfcenicas,&ceteramonumentamifccllacontinet. Sed iam tertium Volumen procedit, quod Anaglypha , Sarco¬ phagos , Cippos , & Infcriptiones compleblitur , ac ex Tabulis aeneis LXXIV. coalefcit. Ordo Claflium etiam in hoc ipfo Volumine lervatus eft, ut proinde prima comprehendat Deo¬ rum imagines; fecunda Fabulas ad Deos pertinentes ; tertia Bacchanalia; quarta Monumenta Aegyptiaca; quinta Mo- numen-   LIX numenta Graeca ante bellum Troianum; fexta eadem poft ipfum bellum; feptima Monumenta Romana hiftorica; odta- va ritus, mores , & artes veterum ; nona Sarcophagos, & Urnas fepulcrales; ac decima tandem veteres Infcriptiones, quaeinfuperordine,quemGruterius,ceteriqueinvexerunt, difpofitae a nobis lunt, ac proinde in XIV. SeHiones di- geftae confpiciuntur . Eaedem GCCXXXII. plus minus numerantur, & earum fere omnes ab aliis editae iam fuerant. Neque nos eas dumtaxat, quas in Hortis, & Aedibus Matthaeiorum deprehendimus, proferre fluduimus, fed infuper eas omnes huc revocavimus, quas olim ibidem exftitilTe vel nosipficognoveramus,velexearumdemcolledoribusconflabat; ne in hac noflra Monumentorum congerie quidquam deeffet,quodolim&celebres, &praellantesHortosnoftros potiffimum effecerat. Indices etiam Infcriptionibus fubieci- mus,quorumprimusScaligerexemplarpropofuitinGrute- riano thefauro. His tandem fubiunximus generalem etiam omniumpotiorum,quaeIII.hifceVoluminibuscontinentur, rerumIndicem,cuiuspraefidio,quodcumqueopuseffet,a LeHoribus nollris inveniri poffet . XX. Haec elt univerfa Operis noffri compages. An ve¬ rofingulaprodignitatepraeftiterimus,nonnoffrumeftiudi- care. Id tantum affirmare poffumus, omnes tum animi, tum fedulitatis nervos nos intendifle, ne vel aliquam muneris noffri partem neglexiffie, vel a ratione, ac luce, quae pecu¬ liares habentur faeculi XVIII. dotes , ac notae, quaeque fin- gulas facultates attingere aequum eft, quidquam abfonum admiffife videremur. Quapropter id nobis propofuimus, ne inreplerumquedubia,&ancipitivelfomnia,velcommen¬ ta in fcenam produceremus. Qui enim vel natura duce, vel cogitandi arte magiftra veritatem confeHari, & rerum eviden-   LX tiae infidere didicit, aegre fane fertur vel ad incerta , vel ad cerebrofa . Saepe igitur contenti fuimus varias Antiquario¬ rum fententias proferre, & intactum fimul argumentum re¬ linquere,nevideremurnovamtantumopinionemincete¬ rarum acervum inducere, vel coniedturas conieduris addere. Quid enim infuper congefia vel vacillans opinio , vel levis coniectura , aut etiam audax paradoxum litterarum incre¬ mentoconducit?Pabulishilcequidemfuaviflimisfruantur, quibus in rc quaque leviffima libi plaudere, etymologiis ab- firufiora quaeque definire , remotiorum aetatum aenigmata folvere,fequiorumtemporumruditatesingerere,nugarum feries oftentare , umbras pro corporibus amplexari, carbones pro unionibus vendere ( qui elt antiquariae facultatis abutus longeeliminandus)volupeelt.Noscerte,quianimicaulla, & ultro delatae occupationis occalione, huiufmodi ftudio va¬ cavimus , haud fane operae noltrae poenituit, qui nimirum folidas hiftoriae , chronologiae , veterum linguarum , ar¬ tium , ac rituum utilitates unice lpeckantes aliquam videmur & noftris notionibus , & famae quinetiam accelfionem fecii- fe,tumampliflimaehuiusUrbis,veterumelegantiarumundi¬ que feracillimae, incolatum gratiorem nobis, & iucundiorem praeftitific. Quare ab omni ingenii licentia, quae vel verita¬ tis criterio adverfaretur, vel quae nullo tum rationis, tum auctoritatis valido fundamento niteretur, femper abhorrere nobis folemne fuit; ac quidquid, vel omnibus tacentibus, vel omni deficiente exemplo, a nobis proferendum fuit, nonnifi modefte , & fere cum trepidatione propofuimus . Rati infu¬ per ex monumentorum inter fe collatione, quae vel rerum affinitate,velquacumquealiarationelibiinvicemrefpon- derent, veram plerumque prodire pofle fignificationem , vel receptis fcriptorum fententiis maius etiam polle robur accedere,   LXI dere, id praefertim curavimus, ut quae fimilia ia ceteris Mu- feis , & in iplis Antiquariorum libris exftant monumenta, tamquam conflantis, & indubiae veritatis vadimonia propo¬ neremus.Nihilenimmagisvaletadiudiciumderealiqua tum ob vetuftatem, tum ob obfcuritatem incerta quoquo modoiufte,re&equeferendum,quamconflansmonumento¬ rum conformatio, & eorumdem accurata comparatio. Haec fuit inftituti noftri ratio, cuius fane ope fi quid dignum hac luce elicimus, iri totum veritatis , & certitudinis, quam gerimus, notioni acceptumeftreferendum;finminus,haud fateri nos pudebit, impares nos huiufmodi Audio fuifie , quod aliorumgratia,nonnoftromarteexcoluifleingenueprofi- tentes aliquam faltem veniam hoc iplo nomine confecuturos confidimus . Qui legis , feliciter vale. INDEX TABULARUM Quae m hoc. Statuarum Volumine continentur . CLASSIS I. Chiae continet deos caelestes. Tab. I. Iuppiter. pag. i. Tab. II. Apollo Citharoedus, pag. 3. Tab.III. Apollo Citharoedus, pag. ead. Tab. IV. Apollo. pag. 4. Tab. V. Apollo Pythius, pag. 5. Tab. VI. Apollo Sagittarius. pag. ead. Tab VII. Apollo, pag. (5. Tab- VIII. Apollo, pag. 7. Tab. IX. Apollo, & Marsyas . pag. 8. Tab. X. Mars . pag. ead. Tab. XI. Mercurius . pag. 9. Tab. XII. Bacchus. pag. 10. Tab. XIII. Bacchus asino insidens, pag.ead. Tab. XIV. Bacchus,pag.u. Tab. XV. Amor. pag. 12. Tab. XVI. Amor cum Herculis symbolis. pag. ead. Tab XVII. Amor canens . pag. 13. Tab. XVIII. Venus, pag. 14. Tab. XIX. Amicitia, pag. 15. Tab. XX. Minerva . pag. ead. CLASSIS II. Quae continet DEOS TERRESTRES. Tab. XXI. Cybele, pag. 17. Tab. XXII. Cybele, pag. 18. Tab. XXIII. Cybele, pag. 19. Tab. XXIV. Cybele, pag. ead. Tab. XXV. Ceres. pag. 20. Tab. XXVI. Ceres, pag. ead. Tab. XXVII. Ceres, pag. 21. Tab. XXVIII. Ceres, pag. 2$. Tab. XXIX. Ceres. pag. 24. Tab.XXX.Ceres.pag.ead. Tab. XXXI. Ceres, pag. 25. Tab. XXXII. Urania, pag. 26. CLASSIS III. Quae continet DEOS SILVESTRES. Tab. XXXIII. Faunus, pag. 27. Tab. XXXIV. Faunus . pag. 28. Tab. XXXV. Faunus, pag. 29. Tab. XXXVI. Faunus, pag. ead. Tab- XXXVII. Faunus, pag. 30. Tab XXXVIII.Faunus,pag.32. Tab. XXXIX. Faunus . pag. ead. Tab. XL. Faunus , & Satyrus, pag. ead. Tab. XLI- Silenus, pag. $3. Tab. XLII. Silenus. pag. $4. Tab. XLIII. Silenus, pag.' ead. Tab. XLIV. Diana, pag. 35. Tab. XLV. Diana, pag. 36. Tab. XLVI. Diana, pag 37. Tab. XLVJI. Flora, pag. ead. Tab. XLVIII. Pomona, pag. 38. Tab.XLIX,Pomona,pag.39. Tab. L. Pomona, pag. ead. Tab. LI. Nais. pag. 40. CLASSIS IV. Quae continet DEOS INDIGETES. Tab. LII. Hercules, pag. 41. Tab. L111. Hercules, pag. 42. Tab-LIV. Hercules, pag. 43. Tab LV. Bellerophon, pag. 44. Tab. LVI. Aefculapius» pag. 47. Tab. LVII. Aefculapius . pagt 49. Tab. LVIH. Hygia, pag. ead. Tab.LIX.Hygia,pag.ji. Tab. LX. Amazon . pag. 53. CLASSIS V. Quae continet VIRTUTES DEAS. Tab. LXI. Pudicitia . pag. 56» Tab. LXII. Pudicitia, pag. ead. Tab. LX III. Fortuna, pag. 58. Tab. LXIV. Fortuna, pag, 59. Tab.LXV.Abundantia.pag.60. CLASSIS VI. Quae continet DEORUM SACERDOTES ET MINISTROS . Tab.LXVI.Camilluspuer.pag.62. Tab. LXVII. Bacchans. pag. 63. Tab.LXVIII.Bacchans.pag.6j. Tab. LXIX. Bacchans. pag. ead, Tab. LXX. Bacchans. pag. 66. Tab.   Tab. LXXI. Sacerdos Cereris facrificans . pag. 67. CLASSIS VII. Quae continet LXIII Tab.XCIII. L. Aurelius Commodus. pag.ead. Tab. XCIV. M. Aur. BaRianus Antoninus Caracalla . pag. 94. Tab.XCV.P.LiciniusGallienus,pag.95. CONSULES. CLASSISIX. Quae continet Tab. LXXII. L. lanius Brutus, pag. 69. Tab. LXX1II. ConfuI . pag. 71. CLASSIS VIII. Quae continet IMPERATORES ETAUGUSTAS. REGES BARBAROS. Tab. XCVI. Mida Rex Phrygiae, pag.96. Tab. XCVII. Ptolemaeus Rex Aegypti.p.97 . Tab. LXXIV. C. Julius Caefar. pag. 74. Tab. LXXV. C. Iulins Caefar. pag. 75. Tab. LXXVI. Octavianus AuguRus. pag.76. Tab LXXVII. Octavianus AuguRus. pag 77. TabLXXVIII.OctavianusAuguRus•pag.78. Tab.C*Gladiator,pag.102. Tab LXXIX. Livia . pag, 79. Tab. LXXX. Caius Caligula, pag. 80. Tab. LXXXI. Tiberius Claudius, pag 81. Tab.LXXXII. Claudius Domitius Nero . p.82. TabLXXXIII.ClaudiusDomitiusNero.p83. Tab. LXXXIV. Flavius Domitianus. pag.Sq. Tab. LXXXV. Nerva Traianus Ulpius. p.ead. Tab. LXXXVI. Marciana AuguRa. pag. 85. Tab. LXXXVII. Sabina AuguRa. pag. 86. Tab. LXXXVIII. Antinous, pag. 87. Tab. LXXXIX. Antoninus Pius. pag. 89. Tab. XC. M. Aurelius Antoninus . pag. 90. Tab. XCI. Annia FauRina* pag. 91. Tab. XCII- L. Aurelius Commodus . pag. 92. Tab. CI. Gladiator, pag. 104. Tab. CII Femina velata cum puero . p. ead. Tab. CIII. Femina Rolata. pag. 109. CLASSIS XI. Qitae continet STATUAS IACENTES. Tab. CIV. Fig. 1. Silenus, pag. 111. Tab. ead. Fig. 11. Flumen . pag. 11 2. Tab. CV. Fig. 1., Sc 11. Amores quiefeen- tes. pag. 11 3. Tab.CVI.Fig.i., 11., & m. Somni, & Mortis Genii, pag. 114. ERRATA CORRIGE. pag.xxxii.referre. pag. 42. TAB. XLIII. pag. 45 Florentia . ibid. SebaRianus Blanchius . pag. 63. Franc. Ant. Gorium. P?g- 79- ibid. not. 2. cap. 102. pag. 88. Tubere. pag. 107. coi. 1. quos Etrufcis in ma¬ nibus funt. ibid. Enomao • ibid. coi. 2. onorabant. pag. 109. PALLIATA. referri. TAB. LIII. Florentiae. Iofephus Blanchius. Ant. Franc. Gorium. ferre . cap. 101. Tibure. qui Etrufcis in manibus funt, Oenomao. honorabant. STOLATA. Curatore: Fragmenta vestigiis veteris Romae --  A D O N E A . Adonidis mmen apud Ouidiutn . AEDIS HERCVLIS MVSARVM AEDIS. lOVIS InporticihusOBauU. Injiaurau ah Hadriano * AEDIS . IVNONIS. In porticihus OBauU* Aedes Palladis inforo T^erua* AEDES-OPIS 62 Aedes Telluris in forel^erud* 'vide Templum* Aedium Paiamatummagnifcentia • Aedes Romanomm nohilium, Aid infacris Aedihus* f Atnhulatio circa celUih^ 6.Aedium • A M P H I T H E A T R V M . AnemoneflosapudGuidium, ' Apollo Sandalarius • AQVEDVCTIVM. AquaduBus Ajud Claudia i AquaduBus Aqua Mania reflimti a Tratano 3 9 ,ah Alexandro Seuero, ArcusfeulanusadPorticumOBauia• Arcus Germanico»& Drufo • AREA .APOLLINIS cumara. a r e a . VALERIANA. *2 \ rCVS.MAXIMVS AREA. MERCVRII cumara« AREA. POLL VCIS |69 Traiani. ■ 40 CauediuminAedihus* 3t Area cumar4in Quirinali« 47 AlexanderSeuerusinfatirauit - 35 AqueduBus AquaMartia* 40 4^ 9.io Armamentaria.Ij. s> AniariumDomitiorum• ihid* Atrium in Aedihus. 61 ATRIVM. LIBERtATIS. s 1SJ AulaAdonidis• ihtd. AulaRegiainTheatro. 47 39 3* 20 57 57 BALINEVM. AMPELIDIS. BALNWM. CAESARIS. 47 BALNEVM. SVRAE* 31 Ba l n e a . coTiNi. B ^9 < 23 57 balneaadJolemexpofta0 J BalneaVirorum,acMulierum• ihid* 77 BASILICA. AEMILI. 27 48 Basilica.LiGiNii. }9 15 tT BASILICA. VVLPIA. 79 IZ c Capitolium. 20 40 CASTRA . MISENATIVM; * H 10 CaftraPeregrina, 1$ *69 CaflellumAquaManiacumtrofh*tii 39 \ Ciceronislocusillufratus• AREA.RADICARIA. 4S\fIRCVS.FLAMINIVS 7t ^7 Cir^   Circi CISTER.NAE. Cijierthe TUiand* CLIVVr.yTcTORIAE Clajfiarij dimijji honejia mijjtone ac ciuitate donati • ihid* 7 i ihid» 19 1 5 j S7 5 HORREA: CANDELARIA. 40 HORREA. LOLLIANA 4 Horrea puhlica > priuata ad uarm vfus• 6 HORTI. CELONIAE. FABIAE 44 Horti Gallieni, HORTI. PALLANTIANI 40 ^• I Columnatio in Uterihmfionte &fo(lico Column<&contraantas i O5 j DOMVS. CORNIFICIA *'— ^ Cornuafcena CVRIA.IVLIA D DELVBRVM. I^INERBA E , Capu 6j INTELLVRE 57 In Tellure locus extra Templutn Dicta Domitiani .* 47 27 51 Liciniana Baflica. Lollianiful Seuero. Lollianustyui, tP*GentianusConful 1 6 6 Dipteros columnatio duplex^ DOMVS. CILONIS Domus (lelU Confulis Domus interior 5 Domus Romanorumnohilium. "T. E 4S 44 l^cclefiafmB<e MarU Ae^yptiaca oUmTemplumfortune njirilis . 5.MarUinPorticuolimlunonis• 9 S* T^icolai olim louis • ibid, MACELLVM; 49 24 .S,StephaniadTiherimolimMatuu &4 Macellum l^leronis • MAVSOLEVM. AVGVSTI MONVMENTA . MARIANA Muri Vrhis inflauratl al Arcadia CST* Honorio . N N A V A L E M Piummus Alexandri Seueri cum Cajiello Aft<e MartU* T^ummus T^eronis, O ilidl 85 39 Euripus in Circo Ealius Clio, eiufijue muniafu l Seuero fapi^ium in porticilus. Eons Lolltanus. Gallieni Ba(tlica,& Horti in Effuilijs GRAECOSTASIS. Gyn<eceum • n HECATONSTYLVM.33. Hecatonftylum in Hojlilium feu \^uriamffojliliam corrupts 8 1 j G 10 6 i r MVTATORIVM. 47 IJ 20' 40 49 77 5 35 Orilejlra in Teatro» ^In Amphitheatro, Palatium Licinianum • Perypteros* 47 5 S7 LAVACRVM.AGRIPPINAE 23 35 Telluris cumBaJfo. LVDVS.MAGNVS M *_ Marci Aprippto magnificentia 6 Per^   ^erijlylia duplicia in JeMus* TiBura amiqua infants • Vimcothem. Pifcim* Pltn^ locus illufiratus. Porta Trigemtm ante Claudiufn i P O M g VS. AEMILIA. 5* t 6 6i ^3 9 fundator Jmperij cognominatus • I c h n o g r a p h i a m V t h i s i n i e mp l o P L c h - muli iocauit ihidi & I, 19 • 5* 19 ibid. i o z j ^orticus Metelli cum duabus Jedtbus» i o PORTICVS * OCTAVIAE . E t HE- 9.10 Porttcus^pBduU i Ionicaeiufque ornamentA • Porticus Pompeii flecatonjlylon i Porticus nohiles atiobilibuspiBurii 16 SVBVRA. 17 SVMI.GHORAGII 35 *9 5 10 S 70 1 1.2.19 6 $ 45 cogmminau • Porticusjimplex. Pronaon Pfeudodijneros. R templvm.c6ncori5ia^ 39 F ortun* wirilis. 24 Matuu. ibid. R E G lA . 53 Romuli templum injtauratum a Stipt* SiUtro i Rom* ^ejligiumfeu knographia ScenaTheatrii Septa Agrippina • 65 ibid. a 5 ibid* $ SEPTAaVLlA. 43.44 SEPTA^ TRIGABJA Septorum reliquU inVialata t Sepulcrurn DOmitiorUm. ^Sepvikrurrt. GNi DOMITII w 45 CALVIN! 61 Sepukfum PhitomeUfeu Lufcini* • 61 SEVERI. ET. ANTONINL AVG. )Sf.N. 19 SeptitHiusSeuerUsKejiitutorVrUs & Rom*. i.2«i9 VlA.jTOVA 70 ibid* S 3 (jillknii 45 61 !Septi:^onium. -v.. StdtUa Apollinis in Vaiicdno. Statu* in nieflibulo*fact adium Staiud celkires in Thottnis. Staiudt tV piBur* tfoffe adArcum SERAPAEVM • 69 Stattia Apollinis Sandalarij » Vide tab. X V U T raiani. Fheatrum Bilbii THEAtRVM.MARCELLI - THEAfRVM/POMPEH Theatri Pompeij reliqitU ad Cdmputn Flord in*dibulV rftiotumi Thernid (iatuis exornatd. T hermd hyemdles i Troph*a Ttdiani iiulgo ^ar^ in in Capitolio i Traianus inflaurauti AqudduBus Aqu* Marti*. Veflibula Regalia . Vefligiumfeu Ichnographia Vrbis J 5 VICVS.$ANDALARIVSIoannis Cristophori Amadutii. Giovanni Cristofano Amaduzzi. Amaduzzi. Keywords: Filopatridi, i filopatridi.  Alfabeto etrusco, alphabetum etruscorum, alphabetum veterum etruscorum, grandonico-malabaricum sive samscrudonicum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amaduzzi” – The Swimming-Pool Library.

 

AMBROGIO -- ambrosius: saint. Grice: “I like the Italian philosopher, Ambrogio – he was born, of course, in Germany! And he never wrote in Italian! But the fact that he got all his inspiration not so much from God but from Cicerone’s Liber II De Officiis, makes him an ineludible step in Lit. Hum. at Oxford!” -- Grice: I prefer the spelling “Ambrogio,” or if not “Aurelio Ambrosius”To call him Ambrosisus is like calling me Gree.” Grice: “Not to be confused with Ambrose and his orchestrasweet!”on altruism. known as Ambrose of Milan. Roman church leader and theologian. While bishop of Milan, he not only led the struggle against the Arian heresy and its political manifestations, but offered new models for preaching, for Scriptural exegesis, and for hymnody. His works also contributed to medieval Latin philosophy. Ambrose’s appropriation of Neoplatonic doctrines was noteworthy in itself, and it worked powerfully on and through Augustine. Ambrose’s commentary on the account of creation in Genesis, his Hexaemeron, preserved for medieval readers many pieces of ancient natural history and even some elements of physical explanation. Perhaps most importantly, Ambrose engaged ancient philosophical ethics in the search for moral lessons that marks his exegesis of Scripture; he also reworked Cicero’s De officiis as a treatise on the virtues and duties of Christian living. ambrogio: Sant'Ambrogio  Nota disambigua.svg DisambiguazioneSe stai cercando altri significati, vedi Sant'Ambrogio (disambigua). Nota disambigua.svg Disambiguazione"Ambrogio da Milano" rimanda qui. Se stai cercando lo scultore e architetto italiano, vedi Ambrogio Barocci. Sant'Ambrogio di Milano AmbroseOfMilanMosaico di Sant'Ambrogio di Milano nel sacello di San Vittore (378 ca.) annesso alla Basilica del Santo, probabile ritratto del vescovo.   Vescovo e Dottore della Chiesa    NascitaAugusta Treverorum (Treviri), forse 339-340 MorteMilano, 397 Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario principaleBasilica di Sant'Ambrogio, Milano Ricorrenza4 aprile (vetero-cattolici) 7 dicembre (cattolici) 7 dicembre (ortodossi) Attributiapi, scudscio, bastone pastorale e gabbiano Patrono diMilano, Alassio, prefetti, Lombardia, Rozzano, Monserrato, Buccheri, Cerami, Vigevano, Castel del Rio, Sant'Ambrogio di Torino, vescovi, Omegna, Carate Brianza, Caslino d’Erba Manuale Aurelio Ambrogio vescovo della Chiesa cattolica AmbroseGiuLungaraTemplate-Bishop.svg   Incarichi ricopertiVescovo di Milano   Natoincerto 339-340 a Treviri Ordinato presbitero? Consacrato vescovo7 dicembre 374 Deceduto4 aprile 397 a Milano   Manuale Aurelio Ambrogio (in latino: Aurelius Ambrosius), meglio conosciuto come sant'Ambrogio (Augusta Treverorum, incerto 339-340Milano, 4 aprile 397) funzionario, vescovo, teologo e santo romano, una delle personalità più importanti nella Chiesa del IV secolo. È venerato come santo da tutte le Chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; in particolare, la Chiesa cattolica lo annovera tra i quattro massimi dottori della Chiesa d'Occidente, insieme a san Girolamo, sant'Agostino e san Gregorio I papa.  Conosciuto anche come Ambrogio di Treviri, per il luogo di nascita, o più comunemente come Ambrogio di Milano, la città di cui assieme a san Carlo Borromeo e san Galdino è patrono e della quale fu vescovo dal 374 fino alla morte, nella quale è presente la basilica a lui dedicata che ne conserva le spoglie.   Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano 1.3Episcopato 1.3.1Gli impegni pastorali 1.3.2Politica ecclesiastica 1.3.3Rapporti con la corte imperiale 2Pensiero e opere 2.1Esegesi 2.2Morale e ascetismo 2.3Società e politica 2.4Antigiudaismo 2.4.1L'episodio di Callinicum 2.5Mariologia 3Milano e il rito ambrosiano 4Sant'Ambrogio e il canto liturgico 5Leggende su Sant'Ambrogio 6Opere 6.1Oratorie (esegetiche) 6.2Morali (ascetiche) 6.3Dogmatiche (sistematiche) 6.4Catechetiche 6.5Epistolario 6.6Innografia 6.7Altro 7Curiosità 8Note 9 10 11Altri progetti 12 Biografia Gioventù  Altare di Sant'Ambrogio, 824-859 ca., Ambrogio ordinato vescovo Aurelio Ambrogio nacque ad Augusta Treverorum (l'odierna Treviri, nella Renania-Palatinato, in Germania), nella Gallia Belgica, dove il padre esercitava la carica di prefetto del pretorio delle Gallie, intorno al 339 circa da un'illustre famiglia romana di rango senatoriale, la gens Aurelia, cui la famiglia materna apparteneva inoltre al ramo dei Simmaci (era dunque un cugino dell'oratore Quinto Aurelio Simmaco).  La famiglia di Ambrogio risultava convertita al cristianesimo già da alcune generazioni (egli stesso soleva citare con orgoglio la sua parente Santa Sotere, martire cristiana che «ai consolati e alle prefetture dei parenti preferì la fede») e stesso una sua sorella ed un suo fratello, Marcellina (consacratasi a Dio nelle mani di papa Liberio nel 353) e Satiro di Milano, vennero poi venerati come santi.  Destinato alla carriera amministrativa sulle orme del padre, dopo la sua prematura morte frequentò le migliori scuole di Roma, dove compì i tradizionali studi del trivium e del quadrivium (imparò il greco e studiò diritto, letteratura e retorica), partecipando poi attivamente alla vita pubblica dell'Urbe.  Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano Dopo cinque anni di avvocatura esercitati presso Sirmio  (l'odierna Sremska Mitrovica, in Serbia), nella Pannonia Inferiore, nel 370 fu incaricato quale governatore dell'Italia Annonaria per la provincia romana Aemilia et Liguria, con sede a Milano, dove divenne una figura di rilievo nella corte dell'imperatore Valentiniano I. La sua abilità di funzionario nel dirimere pacificamente i forti contrasti tra ariani e cattolici gli valse un largo apprezzamento da parte delle due fazioni.  Nel 374, alla morte del vescovo ariano Aussenzio di Milano, il delicato equilibrio tra le due fazioni sembrò precipitare. Il biografo Paolino racconta che Ambrogio, preoccupato di sedare il popolo in rivolta per la designazione del nuovo vescovo, si recò in chiesa, dove all'improvviso si sarebbe sentita la voce di un bambino urlare «Ambrogio vescovo!», a cui si unì quella unanime della folla radunata nella chiesa. I milanesi volevano un cattolico come nuovo vescovo. Ambrogio però rifiutò decisamente l'incarico, sentendosi impreparato: come era in uso presso alcune famiglie cristiane all'epoca, egli non aveva ancora ricevuto il battesimo, né aveva affrontato studi di teologia.  Paolino racconta che, al fine di dissuadere il popolo di Milano dal farlo nominare vescovo, Ambrogio provò anche a macchiare la buona fama che lo circondava, ordinando la tortura di alcuni imputati e invitando in casa sua alcune prostitute; ma, dal momento che il popolo non recedeva nella sua scelta, egli tentò addirittura la fuga. Quando venne ritrovato, il popolo decise di risolvere la questione appellandosi all'autorità dell'imperatore Flavio Valentiniano, cui Ambrogio era alle dipendenze. Fu allora che accettò l'incarico, considerando che fosse questa la volontà di Dio nei suoi confronti, e decise di farsi battezzare: nel giro di sette giorni ricevette il battesimo nel battistero di Santo Stefano alle Fonti a Milano e, il 7 dicembre 374, venne ordinato vescovo. Riferendosi alla sua elezione, egli scriverà poco prima della morte:  «Quale resistenza opposi per non essere ordinato! Alla fine, poiché ero costretto, chiesi almeno che l'ordinazione fosse ritardata. Ma non valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza fattami.»  Nonostante, come scrisse più tardi, si sentisse «rapito a forza dai tribunali e dalle insegne dell'amministrazione al sacerdozio», dopo la nomina a vescovo, Ambrogio prese molto sul serio il suo incarico e si dedicò ad approfonditi studi biblici e teologici.  Episcopato  Ambrogio con le insegne episcopali Gli impegni pastorali Quando divenne vescovo (nel 374), adottò uno stile di vita ascetico, elargì i suoi beni ai poveri, donando i suoi possedimenti terrieri (eccetto il necessario per la sorella Marcellina).  Uomo di grande carità, tenne la sua porta sempre aperta, prodigandosi senza tregua per il bene dei cittadini affidati alle sue cure. Ad esempio, Sant'Ambrogio non esitò a spezzare i Vasi Sacri e ad usare il ricavo dalla vendita per il riscatto di prigionieri. Di fronte alle critiche mosse dagli ariani per il suo gesto, egli rispose che «è molto meglio per il Signore salvare delle anime che dell'oro. Egli infatti mandò gli apostoli senza oro e senza oro fondò le Chiese. [...] I sacramenti non richiedono oro, né acquisisce valore per via dell'oro ciò che non si compra con l'oro» (De officiis, II, 28, 136-138)  La sua sapienza nella predicazione e il suo prestigio furono determinanti per la conversione nel 386 al cristianesimo di Sant'Agostino, di fede manichea, che era venuto a Milano per insegnare retorica.  Ambrogio fece costruire varie basiliche, di cui quattro ai lati della città, quasi a formare un quadrato protettivo, probabilmente pensando alla forma di una croce. Esse corrispondono alle attuali basilica di San Nazaro (sul decumano, presso la Porta Romana, allora era la Basilica Apostolorum), alla basilica di San Simpliciano, detta Basilica Virginum, ossia basilica delle vergini (sulla parte opposta), alla basilica di Sant'Ambrogio (collocata a sud-ovest, era chiamata originariamente Basilica Martyrum in quanto ospitava i corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio rinvenuti da Ambrogio stesso; accoglie oggi le spoglie del santo) e alla basilica di San Dionigi (Basilica Prophetarum).  Il ritrovamento dei corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio è narrato dallo stesso Ambrogio, che ne attribuisce il merito ad un presagio, per il quale egli fece scavare la terra davanti ai cancelli della basilica (oggi distrutta) dei santi Nabore e Felice. Al ritrovamento dei corpi seguì la loro traslazione (secondo un rito importato dalla Chiesa orientale) nella Basilica Martyrum; durante la traslazione, si racconta (è lo stesso Ambrogio a riportarlo) che un cieco di nome Severoriacquistò la vista. Il ritrovamento del corpo dei martiri da parte del vescovo di Milano diede grande contributo alla causa dei cattolici nei confronti degli ariani, che costituivano a Milano un gruppo nutrito e attivo, e negavano la validità dell'operato di Ambrogio, di fede cattolica.  Ambrogio fu autore di diversi inni per la preghiera, compiendo fondamentali riforme nel culto e nel canto sacro, che per primo introdusse nella liturgia cristiana, e ancor oggi a Milano vi è una scuola che tramanda nei millenni questo antico canto.  Politica ecclesiastica L'importanza della sede occupata da Ambrogio, teatro di numerosi contrasti religiosi e politici, e la sua personale attitudine di uomo politico lo portarono a svolgere una forte attività di politica ecclesiastica. Egli scrisse infatti opere di morale e teologia in cui combatté a fondo gli errori dottrinali del suo tempo; fu inoltre sostenitore del primato d'onore del vescovo di Roma, contro altri vescovi (tra i quali Palladio) che lo ritenevano pari a loro.  Si mostrò in prima linea nella lotta all'arianesimo, che aveva trovato numerosi seguaci a Milano e nella corte imperiale. Si scontrò per questo motivo con l'imperatrice Giustina, di fede ariana e probabilmente influì sulla politica religiosa dell'imperatore Graziano che, nel 380, inasprì le sanzioni per gli eretici e, con l'editto di Tessalonica, dichiarò il cristianesimo religione di Stato. Il momento di massima tensione si ebbe nel 385-386 quando, dopo la morte di Graziano, gli ariani chiesero insistentemente con l'appoggio della corte imperiale una basilica per praticare il loro culto. L'opposizione di Ambrogio fu energica tanto che rimase famoso l'episodio in cui, assieme ai fedeli cattolici, "occupò" la basilica destinata agli ariani finché l'altra parte fu costretta a cedere. Fu in questa occasione, si racconta, che Ambrogio introdusse l'usanza del canto antifonale e della preghiera cantata in forma di inno, con lo scopo di non fare addormentare i fedeli che occupavano la basilica. Fu inoltre determinante per la vittoria di Ambrogio nella controversia con gli ariani il ritrovamento dei corpi dei santi Gervasio e Protaso, che avvenne proprio nel 386 sotto la guida del vescovo di Milano, il quale guadagnò in questo modo il consenso di gran parte dei fedeli della città.  Fu infine forte avversario del paganesimo "ufficiale" romano, che dimostrava in quegli anni gli ultimi segni di vitalità; per questo motivo si scontrò con il suo stesso cugino, il senatore Quinto Aurelio Simmaco, che chiedeva il ripristino dell'altare e della statua della dea Vittoria rimossi dalla Curia romana, sede del Senato, in seguito a un editto di Graziano nel 382.  Rapporti con la corte imperiale  Sant'Ambrogio rifiuta l'ingresso in chiesa all'imperatore, nel dipinto di Van Dyck. Molto probabilmente questo episodio non avvenne mai: Ambrogio preferì non arrivare allo scontro pubblico con l'imperatore, ma lo redarguì in privato. Il potere politico e quello religioso al tempo erano strettamente legati: in particolare l'imperatore, a cominciare daCostantino, possedeva una certa autorità all'interno della Chiesa, nella quale il primato petrino non era pienamente assodato e riconosciuto. A questo si aggiunsero la posizione di Ambrogio, vescovo della città di residenza della corte imperiale, e la sua precedente carriera come avvocato, amministratore e politico, che lo portarono più volte a intervenire incisivamente nelle vicende politiche, ad avere stretti rapporti con gli ambienti della corte e dell'aristocrazia romana, e talvolta a ricoprire specifici incarichi diplomatici per conto degli imperatori.  In particolare, nonostante il convinto lealismo verso l'impero Romano e l'influenza nella vita politica dell'impero, i suoi rapporti con le istituzioni non furono sempre pacifici, soprattutto quando si trattò di difendere la causa della Chiesa e dell'ortodossia religiosa. Gli storici bizantini gli accreditarono questo atteggiamento come parrhesia (παρρησία), schiettezza e verità di fronte ai potenti e al potere politico, che traspare a partire dal suo rapporto epistolare con l'imperatore Teodosio.  Essendo Ambrogio precettore dell'imperatore Graziano, lo educò secondo i principi del Cristianesimo. Egli predicava all'imperatore di rendere grazie a Dio per le vittorie dell'esercito e lo appoggiò nella disputa contro il senatore Simmaco, che chiedeva il ripristino dell'altare alla dea Vittoria fatto rimuovere dalla Curia romana  Chiese poi a Graziano di indire il concilio di Aquileia nel settembre del 381 per condannare due vescovi eretici, secondo i dettami dei vari concili ecumenici ed anche secondo l'opinione del Papa e dei vescovi ortodossi. In questo concilio Ambrogio si pronunciò contro l'arianesimo.  Ambrogio influì anche sulla politica religiosa di Teodosio I. Nel 388, dopo che un gruppo di cristiani aveva incendiato la sinagoga della città di Callinico, l'imperatore decise di punire i responsabili e di obbligare il vescovo, accusato di aver istigato i distruttori, a ricostruire il tempio a suo spese. Ambrogio, informato della vicenda, si scagliò contro questo provvedimento, minacciando di sospendere l'attività religiosa, tanto da indurre l'imperatore a revocare le misure.  Nel 390 criticò aspramente l'imperatore, che aveva ordinato un massacro tra la popolazione di Tessalonica, rea di aver linciato il capo del presidio romano della città: in tre ore di carneficina erano state assassinate migliaia di persone, attirate nell'arena con il pretesto di una corsa di cavalli. Ambrogio, venuto a conoscenza dell'accaduto, evitò diplomaticamente una contrapposizione aperta con il potere imperiale (con il pretesto di una malattia evitò l'incontro pubblico con Teodosio) ma, per via epistolare, chiese in modo riservato ma deciso una «penitenza pubblica» all'imperatore, che si era macchiato di un grave delitto pur dichiarandosi cristiano, pena il rifiuto di celebrare i sacri riti in sua presenza («Non oso offrire il sacrificio, se tu vorrai assistervi», Lettera 11). Teodosio ammise pubblicamente l'eccesso e nella notte Natale di quell'anno, venne riammesso ai sacramenti.  Dopo questo episodio la politica religiosa dell'imperatore si irrigidì notevolmente: tra il 391 e il 392 furono emanati una serie di decreti (noti come decreti teodosiani) che attuavano in pieno l'editto di Tessalonica: venne interdetto l'accesso ai templi pagani e ribadita la proibizione di qualsiasi forma di culto, compresa l'adorazione delle statue; furono inoltre inasprite le pene amministrative per i cristiani che si riconvertissero nuovamente al paganesimo e nel decreto emanato nel 392 da Costantinopoli, l'immolazione di vittime nei sacrifici e la consultazione delle viscere erano equiparati al delitto di lesa maestà, punibile con la condanna a morte.  Nel 393 Milano fu coinvolta nella lotta per il potere tra l'imperatore Teodosio I e l'usurpatore Flavio Eugenio. In aprile Eugenio varcò le Alpi e puntò alla conquista della città, in quanto capitale d'Occidente. Ambrogio partì e andò ritirarsi a Bologna. Durante un soggiorno temporaneo a Faenza scrisse una lettera ad Eugenio. Poi accettò l'invito della comunità di Firenze, ove rimase per circa un anno. La guerra per il controllo dell'impero fu vinta da Teodosio. Nell'autunno del 394 Ambrogio fece ritorno a Milano.  Alla sua morte, per sua stessa volontà, fu sepolto all'interno della basilica che tuttora porta il suo nome, fra le spogli dei martiri Gervasio e Protasio. Le sue spoglie, rinvenute sotto l'altare nel 1864, furono trasferite in un'urna di argento e cristallo posta nella cripta della basilica.  Pensiero e opere  Rilievo gotico raffigurante Ambrogio. Tra gli attributi del santo c'è il miele, simbolo della dolcezza delle prediche e degli scritti Fortemente legata all'attività pastorale di Ambrogio fu la sua produzione letteraria, spesso semplice frutto di una raccolta e di una rielaborazione delle sue omelie e che quindi mantengono un tono simile al parlato.  Per il suo stile dolce e misurato del suo parlato e della sua prosa, Ambrogio venne definito «dolce come il miele» e tra i suoi attributi compare perciò un alveare.  Esegesi Oltre la metà dei suoi scritti è dedicata all'esegesi biblica, che egli affronta seguendo un'interpretazione prevalentemente allegorica e morale del testo sacro (in particolare per quanto riguarda l'Antico Testamento): ad esempio, ama ricercare nei patriarchi e nei personaggi biblici in generale figure di Cristo o esempi di virtù morali. Fu proprio questo metodo di lettura della Bibbia ad affascinare Sant'Agostino e a risultare determinante per la sua conversione (come egli scrisse nelle Confessioni V, 14, 24).  Secondo Gérard Nauroy, «per Ambrogio l'esegesi è un modo fondamentale di pensare piuttosto che un metodo o un genere: [...] ormai egli "parla la Bibbia", non più con la giustapposizione di citazioni dagli stili più diversi, ma in un discorso sintetico, eminentemente allusivo, "misterico" come la Parola stessa». Per Ambrogio la lettura e l'approfondimento della conoscenza biblica costituiscono un elemento fondamentale della vita cristiana:  «Bevi dunque tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo. [...] La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora, quando il succo della parola eterna discende nelle vene della mente e nelle energie dell'anima»  (Ambrogio, Commento al Salmo I, 33) Tra le opere esegetiche spiccano l'esauriente commento al Vangelo di Luca (Expositio evangelii secundum Lucam) e l'Exameron (dal greco "sei giorni"). Quest'ultima opera, ispirata ampiamente all'omonimo Exameron di Basilio di Cesarea, raccoglie, in sei libri, nove omelie riguardanti i primi capitoli della Genesi dalla creazione del cielo fino alla creazione dell'uomo. Anche in questo caso, il racconto della creazione è occasione di evidenziare insegnamenti morali desunti dalla natura e dal comportamento degli animali e dalle proprietà delle piante; in questo senso l'uomo appare ad Ambrogio necessariamente legato con tutto il creato dal punto di vista non solo biologico e fisico, ma anche morale e spirituale.  Morale e ascetismo Un altro gruppo significativo consiste nelle opere di argomento morale o ascetico, tra le quali risalta il De officiis ministrorum (talvolta abbreviato in De officiis), un trattato sulla vita cristiana rivolto in particolare al clero ma destinato a tutti i fedeli. L'opera ricalca l'omonimo scritto di Cicerone, che si proponeva come manuale di etica pratica indirizzato al figlio (cui è dedicato) rivolto soprattutto a questioni politico-sociali. Ambrogio riprende il titolo (indirizzando l'opera ai suoi "figli" in senso spirituale, cioè il clero e il popolo di Milano), la struttura (il libro è ripartito in tre libri, dedicati all'honestum, all'utile e al loro contrasto risolto nell'identificazione tra i due) e alcuni elementi contenutistici (tra i quali i principi della morale stoica, come il dominio della razionalità, l'indipendenza dai piaceri e dalla vanità delle cose, la virtù come sommo bene). Questi elementi sono rivisti con originalità in chiave cristiana: agli exempla tratti dalla storia e dalla mitologia classica, Ambrogio sostituisce ad esempio storie ed esempi tratti dalla Bibbia. In generale, è lo stesso orientamento del testo a non essere più etico-filosofico ma prevalentemente religioso e spirituale, come egli spiega fin dall'inizio: «Noi valutiamo il dovere secondo un principio diverso da quello dei filosofi. Essi considerano beni quelli di questa vita, noi addirittura danni» (De officiis, I, 9, 29). Allo stesso modo, le virtù tradizionali vengono rilette cristianamente e accettate alla luce del Vangelo: la fides (lealtà) diventa la fede in Cristo, la prudenza include la devozione verso Dio, esempi di fortezza divengono i martiri. Alle virtù classiche si aggiungono le virtù cristiane: la carità (che già esisteva nel mondo latino, ora assume un significato più interiore e spirituale), l'umiltà, l'attenzione verso i poveri, gli schiavi, le donne.  Altre cinque opere sono dedicate alla verginità, specialmente quella femminile (De virginibus, De viduis, De virginitate, De institutione virginis e Exhortatio virginitatis). Ambrogio esalta la verginità come massimo ideale di vita cristiana, sulla scia della tradizione cristiana da San Paolo («colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio», 1 Cor 7,38) fino al contemporaneo Girolamo, senza tuttavia negare la validità della vita matrimoniale. La scelta della verginità è ritenuta l'unica vera scelta di emancipazione per la donna dalla vita coniugale, in cui si trova subordinata. Critica aspramente in questo senso il fatto che il matrimonio costituisca solo un contratto economico e sociale, che non lascia spazio alla scelta degli sposi e in particolare della donna: «Davvero degna di compianto è la condizione che impone alla donna, per sposarsi, di essere messa all'asta come una sorta di schiavo da vendere, perché la compri chi offre il prezzo più alto» (De virginibus, I, 9, 56). Per questo Ambrogio incoraggia i genitori ad accettare la scelta di verginità dei figli e i figli a resistere alle difficoltà imposte dalla famiglia («Se vinci la famiglia, vinci anche il mondo», De virginibus, I, 11, 63).  Società e politica  Ambrogio assolve Teodosio dopo l'episodio di Tessalonica Nel confronto con la società e gli ideali del mondo latino, Ambrogio accolse i valori civili della romanità con l'intento di dare ad essi nuovo significato all'interno della religione cristiana. Nel suo Esamerone esalta l'istituzione repubblicana (di cui l'antica repubblica romana era secondo lui un ammirevole esempio) prendendo spunto dalla spontanea organizzazione delle gru, che si dividono il lavoro avvicendandosi nei turni di guardia:  «Che c'è di più bello del fatto che la fatica e l'onore comuni a tutti e il potere non sia preteso da pochi, ma passi dall'uno all'altro senza eccezioni come per una libera decisione? Questo è l'esercizio di un ufficio proprio di un'antica repubblica, quale conviene in uno stato libero.»  (Esamerone, VIII, 15, 51) Nella visione di Ambrogio inoltre potere e dell'autorità, intesi come servizio («Libertà è anche il servire», Lettera 7), dovevano essere sottomessi alle leggi di Dio. Prendendo ispirazione dal racconto della corona imperiale e del morso di cavallo realizzati, secondo la tradizione, da Costantino con i chiodi della croce di Gesù, nel discorso funebre di Teodosio egli elogiò la sottomissione dell'imperatore a Cristo, dimostrata in primis dall'episodio di Tessalonica:  «Per quale motivo [ebbero] "una cosa santa sul morso" se non perché frenasse l'arroganza degli imperatori, reprimesse la dissolutezza dei tiranni che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri, perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero "una cosa santa sul morso"!»  (In morte di Teodosio, 50) Di fronte al dispotismo e alla dissolutezza che avevano caratterizzato il comportamento di non pochi imperatori romani, Ambrog io vide nel cristianesimo una possibilità per "redimere" il potere imperiale e renderlo giusto e clemente. Nella sua idea, infatti, il cristianesimo avrebbe dovuto sostituire il paganesimo nella società romana senza per questo negare e distruggere le istituzione imperiali («Voi [pagani] chiedete pace per le vostre divinità agli imperatori, noi per gli stessi imperatori chiediamo pace a Cristo», Lettera 73 a Valentiniano II), ma anzi dando ai valori romani la nuova linfa offerta dalla morale cristiana.  Ambrogio richiamò infine la società romana nella quale era sempre più accentuato il divario tra ricchi e poveri; alla sperequazione economica, Ambrogio contrapponeva infatti la morale del Vangelo e della tradizione biblica. Così egli scrive nel Naboth:  «La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? [...] Tu [ricco] non dai del tuo al povero [quando fai la carità], ma gli rendi il suo; infatti la proprietà comune, che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi.»  (Naboth, 1,2; 12, 53) Antigiudaismo Magnifying glass icon mgx2.svg Antisemitismo § Antigiudaismo teologico. Per Ambrogio era fondamentale la storia di Israele come popolo eletto: da qui la grande presenza dell'Antico Testamento nel rito ambrosiano, le numerosissime sue opere di commento agli episodi della storia ebraica, la conservazione della sacralità del sabato, ecc. Tuttavia, come era comune nel cristianesimo dei primi secoli, forte era anche la volontà di mostrare l'originalità cristiana rispetto alla tradizione giudaica (che non aveva riconosciuto Gesù come Messia) e di affermare l'indipendenza e le prerogative della Chiesa nascente.  Ad esempio, nell'Expositio Evangelii secundum Lucam (4, 34), commentando un passo del vangelo di Luca in cui un uomo invaso dallo spirito di un demonio impuro, grida: «Ah! Che c'è fra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto per rovinarci? So chi tu sei: il Santo di Dio», Ambrogio critica aspramente l'incredulità della gente circostante:  «Chi è colui che aveva nella sinagoga spirito immondo di demonio, se non la folla dei giudei che, come stretta da spire serpentine e legata dai lacci del diavolo, simulata la purità del corpo, profanava con le immondezze della mente interiore? Ebbene: era nella sinagoga l'uomo che aveva lo spirito immondo; perché lo Spirito Santo lo aveva ammesso. Era entrato infatti il diavolo dal luogo da cui Cristo era uscito. Insieme, si mostra la natura del diavolo non come ostinata, ma come opera ingiusta. Infatti quello che attraverso una natura superiore professa il Signore, con le opere lo nega. E in questo appare la sua malvagità [del demonio] e l'ostinazione dei giudei, poiché così [il demonio] spandé tra la folla la cecità della mente furiosa; affinché la gente neghi, colui che i demoni professano. O eredità dei discepoli peggiore del maestro! Quello tenta il Signore con le parole, essi con l'agire: egli dice "Buttati!" (Luc. IV, 9), questi sono assaliti perché [lo] buttino.»  L'episodio di Callinicum Le cronache storiche riportano un episodio che può essere considerato rivelatore dell'atteggiamento di Ambrogio nei riguardi degli ebrei. Nel 388, a Callinicum (Kallinikon, sul fiume Eufrate, in Asia, l'attuale al-Raqqa), una folla di cristiani diede l'assalto alla sinagoga e la bruciò. Il governatore romano condannò l'accaduto e, per mantenere l'ordine pubblico, dispose affinché la sinagoga venisse ricostruita a spese del vescovo. L'imperatore Teodosio I rese noto di condividere quanto deciso dal suo funzionario.  Ambrogio si oppose alla decisione dell'imperatore e gli scrisse una lettera (Epistulae variae 40) per convincerlo a ritirare l'ingiunzione di ricostruire la sinagoga a spese del vescovo: «Il luogo che ospita l'incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? Il patrimonio acquistato dai cristiani con la protezione di Cristo sarà trasmesso ai templi degli increduli?... Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga:Tempio dell'empietà ricostruito col bottino dei cristiani -... Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi...»  Citando dalla lettera di Ambrogio a Teodosio (Epistulae variae 40,11):  «Ma ti muove la ragione della disciplina. Che cosa dunque è più importante, l'idea di disciplina [mantenimento dell'ordine pubblico] o il motivo della religione?»  Nell'epistola Ambrogio si attribuì la responsabilità dell'incendio: «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga, sì, sono stato io che ho dato l'incarico, perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato»  Ambrogio si spinse ad affermare che quell'incendio non era affatto un delitto e che se lui non aveva ancora dato l'ordine di bruciare la sinagoga di Milano era solo per pigrizia e che bruciare le sinagoghe era altresì un atto glorioso.  Ambrogio non volle salire sull'altare finché l'imperatore non abolì il decreto imperiale riguardante la ricostruzione della sinagoga a spese del vescovo. Secondo la visione del vescovo, nella questione della religione l'unico foro competente da consultare doveva essere la Chiesa cattolica la quale, grazie ad Ambrogio, divenne la religione statale e dominante. In questa impresa lo scopo era quello di avvalorare l'indipendenza della Chiesa dallo Stato, affermando anche la superiorità della Chiesa sullo Stato in quanto emanazione di una legge superiore alla quale tutti devono sottostare.  Mariologia Sebbene non si possa parlare di una mariologia vera e propria (intesa come pensiero sistematico), sono numerosi nell'opera di Ambrogio i riferimenti a Maria: spesso, quando si presenta l'occasione, egli si rifà alla sua figura e al suo esempio.  La sua venerazione per Maria nasce soprattutto dal ruolo attribuitole nella storia della salvezza. Maria è infatti madre di Cristo, e dunque modello per tutti i credenti che, come lei, sono chiamati a "generare" Cristo:  «Vedi bene che Maria non aveva dubitato, bensì creduto e perciò aveva conseguito il frutto della sua fede. «Beata tu che hai creduto». Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto: infatti, ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio e ne comprende le operazioni. Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria ad esultare in Dio: se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo»  (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 19. 24-26) Ambrogio difende strenuamente la verginità di Maria, soprattutto in relazione al mistero di Cristo: egli infatti, proprio perché nato da vergine, non ha contratto il peccato originale. Maria è anche la prima donna a cogliere i "frutti" della venuta di Cristo:  «Non c’è affatto da stupirsi che il Signore, accingendosi a redimere il mondo, abbia iniziato la sua opera proprio da Maria: se per mezzo di lei Dio preparava la salvezza a tutti gli uomini, ella doveva essere la prima a cogliere dal Figlio il frutto della salvezza»  (Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 17) Maria è inoltre modello di virtù morali e cristiane, in primo luogo per le vergini («Nella vita di Maria risplende la bellezza della sua castità e della sua esemplare virtù») ma anche per tutti i fedeli; di lei vengono esaltate la sincerità (la verginità «di mente»), l'umiltà, la prudenza, la laboriosità, l'ascesi.  Milano e il rito ambrosiano  Sant'Ambrogio con in mano il flagello contro i nemici di Milano, in un bassorilievo quattrocentesco Magnifying glass icon mgx2.svg Rito ambrosiano. L'operato di Sant'Ambrogio a Milano ha lasciato segni profondi nella diocesi della città.  Già nel settembre del 600 papa Gregorio Magno parlò del neoeletto vescovo di Milano, Deodato, non tanto come successore, bensì come "vicario" di sant'Ambrogio (equiparandolo quasi ad un secondo "vescovo di Roma"). Nell'anno 881 invece papa Giovanni VIII definì per la prima volta la diocesi "ambrosiana", termine che è rimasto ancora oggi per identificare non solo la Chiesa di Milano, ma talvolta anche la stessa città.  L'eredità di Ambrogio è delineata principalmente a partire dalla sua attività pastorale: la predicazione della Parola di Dio coniugata alla dottrina della Chiesa cattolica, l'attenzione ai problemi della giustizia sociale, l'accoglienza verso le persone provenienti da popoli lontani, la denuncia degli errori nella vita civile e politica.  L'operato di Ambrogio lasciò un segno profondo in particolare sulla liturgia. Egli introdusse nella Chiesa occidentale molti elementi tratti dalle liturgie orientali, in particolare canti e inni. Si attribuisce ad Ambrogio l'inno Te Deum laudamus, ma la questione è controversa e negata anche da Luigi Biraghi. Le riforme liturgiche furono mantenute nella diocesi di Milano anche dai successori e costituirono il nucleo del Rito ambrosiano, sopravvissuto all'uniformazione dei riti e alla costituzione dell'unico rito romano voluta da papa Gregorio I e dal Concilio di Trento.  In dialetto milanese Ambrogio viene chiamato sant Ambroeus (grafia classica) o sant Ambrös (entrambi pronunciati "sant'ambrœs").   Sant'Ambrogio affrescato da Masolino, Battistero Castiglione Olona Alla sua figura è ispirato anche il premio Ambrogino d'oro, che è il nome non ufficiale con cui sono comunemente chiamate le onorificenze conferite dal comune di Milano.  Sant'Ambrogio e il canto liturgico  Michael Pacher, Sant'Ambrogio, Monaco, Alte Pinakothek Con il termine di ambrosiano non si definisce solo il rito della Chiesa Cattolica che fa riferimento al santo, ma anche un preciso modo di cantare durante la liturgia. Esso viene indicato con il nome di canto ambrosiano. Esso è caratterizzato dal canto di inni, cioè di nuove composizioni poetiche in versi, che vengono cantate da tutti i partecipanti al rito.  A differenza di quanto avveniva per i salmi, solitamente cantati da un solista o da un gruppo di coristi, essi vengono invece cantati da tutti i partecipanti, in cori alternati, normalmente tra donne e uomini, ma in altri casi tra giovani e anziani o anche tra fanciulli e adulti. Alcuni di questi inni sono stati sicuramente composti da Ambrogio. La certezza viene dal fatto che a menzionarli è sant'Agostino, che fu discepolo di Sant'Ambrogio.  Essi sono:  Aeterne rerum conditor (cf. Retractionum I,21); Iam surgit hora tertia (cf. De natura et gratia 63,74); Deus creator omnium (ricordato nelle Confessioni e citato complessivamente ben cinque volte dal vescovo di Ippona); Intende qui regis Israel (cf. Sermo 372 4,3). Attraverso la liturgia della Chiesa cattolica in generale e di quella ambrosiana in particolare, sono giunti fino a noi una moltitudine di inni in stile ambrosiano. I ricercatori hanno cercato di trovare dei criteri per indicare quelli che, con più certezza, sono stati composti da Ambrogio. Nel 1862 Luigi Biraghi ne indicava tre: la conformità degli inni con l'indole letteraria di Ambrogio, con il suo vocabolario e con il suo stile. Con questi criteri egli arrivò a selezionare diciotto inni:  Splendor paternae gloriae (nell'aurora) Iam surgit hora tertia (per l'ora di terza domenicale) Nunc sancte nobis Spiritus (per l'ora di terza feriale) Rector potens verax Deus (per l'ora di sesta) Rerum, Deus, tenax vigor (per l'ora di nona) Deus creator omnium (per l'ora dell'accensione) Iesu, corona virginum (inno della verginità) Intende qui regis Israel (per il Natale del Signore) Inluminans Altissimus (per le Epifanie del Signore) Agnes beatae virginis (per sant'Agnese) Hic est dies verus Dei (per la Pasqua) Victor, Nabor, Felix, pii (per i santi Vittore, Nabore e Felice) Grates tibi, Iesu, novas (per i santi Gervasio e Protasio) Apostolorum passio (per i santi Pietro e Paolo) Apostolorum supparem (per san Lorenzo) Amore Christi nobilis (per san Giovanni Evangelista) Aeterna Christi munera (per i santi martiri) Aeterne rerum conditor (al canto del gallo) Gli autori dell'edizione delle opere poetiche di Ambrogio in un volume stampato nel 1994, che ha portato a compimento l'Opera Omnia, in latino e in italiano, del vescovo di Milano, hanno ridotto questo numero certo a tredici canti, escludendo quelli per le ore minori, per i martiri e della verginità. L'esclusione va ascritta alla metrica di questi testi. Ambrogio aveva una predilezione per il numero otto. I suoi inni sono tutti di otto strofe con versi ottosillabici. Egli vedeva in questo numero la risurrezione di Cristo, la novità cristiana e la vita eterna (octava dies, l'ottavo giorno della settimana, cioè il nuovo giorno, in cui inizia l'era del Cristo). Per questi studiosi appare improbabile che egli sia venuto meno a questa preferenza e quindi quelli di due o di quattro strofe non vengono attribuiti al vescovo milanese.  Per questi storici inoltre non vi è motivo di dubitare che l'autore della melodia sia lo stesso Ambrogio dato che per loro natura questi inni nascono consostanziati alla musica. Il Migliavacca nota come Ambrogio possedesse una conoscenza musicale approfondita. Le sue opere rivelano, oltre a una perfetta conoscenza scolastica, anche una particolare propensione musicale. Egli parla dell'arte musicale con cognizione tecnica e non solo con estetica raffinatezza come il suo discepolo Agostino.  Leggende su Sant'Ambrogio  Spoglie mortali di Ambrogio e Gervasio, rivestite dei paramenti liturgici, nella cripta della Basilica di Sant'Ambrogio a Milano. Su Sant'Ambrogio vi sono numerose leggende miracolistiche:  Mentre Ambrogio infante dormiva nella sua culla posta temporaneamente nell'atrio del Pretorio, uno sciame di api si posò improvvisamente sulla sua bocca, dalla quale e nella quale esse entravano ed uscivano liberamente. Dopodiché lo sciame si levò in volo salendo in alto e perdendosi alla vista degli astanti. Il padre, impressionato da tutto ciò, avrebbe esclamato: «Se questo mio figlio vivrà, diverrà sicuramente un grand'uomo!». Ambrogio, camminando per Milano, avrebbe trovato un fabbro che non riusciva a piegare il morso di un cavallo: in quel morso Ambrogio riconobbe uno dei chiodi con cui venne crocifisso Cristo. Dopo vari passaggi, un "chiodo della crocifissione" è tuttora appeso nel Duomo di Milano, a grande altezza, sopra l'altare maggiore. Nella piazza davanti alla basilica di Sant'Ambrogio a Milano è presente una colonna, comunemente detta "la colonna del diavolo". Si tratta di una colonna di epoca romana, qui trasportata da altro luogo, che presenta due fori, oggetto di una leggenda secondo la quale la colonna fu testimone di una lotta tra Sant'Ambrogio ed il demonio. Il maligno, cercando di trafiggere il santo con le corna, finì invece per conficcarle nella colonna. Dopo aver tentato a lungo di divincolarsi, il demonio riuscì a liberarsi e, spaventato, fuggì. La tradizione popolare vuole che i fori odorino di zolfo e che appoggiando l'orecchio alla pietra si possano sentire i suoni dell'inferno. In realtà questa colonna veniva usata per l'incoronazione degli imperatori germanici. A Parabiago, Ambrogio sarebbe apparso il 21 febbraio 1339, durante la celebre battaglia: a dorso di un cavallo e sguainando una spada, mise paura alla Compagnia di San Giorgio capitanata da Lodrisio Visconti, permettendo alle truppe milanesi del fratello Luchino e del nipote Azzone di vincere. A ricordo di tale leggenda fu edificata a Parabiago la Chiesa di Sant'Ambrogio della Vittoria e a Milano, su un portone bronzeo del Duomo, gli è stata dedicata una formella. Opere: “Divi Ambrosii Episcopi Mediolanensis Omnia Opera”; “Oratorie (esegetiche)” “Exameron”; “De paradiso”; “De Cain et Abel”; “De Noe”; “De Abraham”; “De Isaac et anima”; “De bono mortis”; “De Iacob et vita beata”; “De Ioseph”; “De patriarchis”; “De fuga saeculi”; “De interpellatione Iob et David Apologia”; “David”; “De Helia et ieiunio”; “De Tobia”; “De Nabuthae historia; “Explanatio in XII Psalmos Davidicos”; “Expositio in Psalmum CXVIII”; “Expositio in Lucam De excessu fratris; “Satyri libri duo”; “De obitu Valentiniani consolation”; “De obitu Theodosii oratio Morali (ascetiche); “De virginibus” o “Ad Marcellinam sororem libri tres De viduis; “De perpetua virginitate Sanctae Mariae”; “Adhortatio virginitatis o Exhortatio virginitatis”; “De officiis ministrorum Dogmatiche (sistematiche): “De fide ad Gratianum Augustum libri quinque; “De Spiritu Sancto ad Gratianum Augustum; “De incarnationis dominicae sacramento; “De paenitentia Catechetiche; “De sacramentis libri sex; “De mysteriis De sacramento regenerationis sive de philosophia; “Explanatio Symboli ad initiandos Epistolario: “Epistulae Innografia Hymni Altro Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis”. Tituli Curiosità S.Ambrogio essendo patrono delle api, rappresenta al meglio l'operosità non solo quella risaputa dei milanesi, di cui è patrono festeggiato il 7 dicembre, ma di tutti coloro che si impegnano nel lavoro, con combattività, spirito di sacrificio e di spirito di abnegazione. Inoltre S.Ambrogio ha come secondo simbolo il gabbiano che è legato alla sensazione di libertà e spazio immenso. Il gabbiano trova l'equilibrio e si alimenta di ciò che trova nel rispetto della sua natura di predatore e onnivoro che non si tira indietro a nulla per la propria sopravvivenza. Per le suddette simbologie, e per tutte le altre che sia le api che i gabbiani rappresentano, S.Ambrogio è ormai considerato da tempo il protettore delle startup innovative che vedono in S.Ambrogio, guida sicura con la sua famosa frase di valore eterno: "Voi pensate che i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi" Note  lastampa/vatican-insider/it//10/02/news/milano-studi-confermano-l-identita-di-sant-ambrogio-e-di-due-martiri-1.34049446 Johan Leemans, Peter Van Nuffelen e Shawn W. J. Keough, Episcopal Elections in Late Antiquity, Walter de Gruyter, 28 luglio ,  978-3-11-026860-7.  Ambrogio, Exorthatio virginitatis, 12, 82  Robert Wilken, "The Spirit of Early Christian Thought" (Yale University Press: New Haven, 2003),  218.  Michael Walsh, ed. "Butler's Lives of the Saints" (HarperCollins Publishers: New York, 1991),  407.  Paolino, Vita di Ambrogio, 6  Basilica Vetus e Battistero di Santo Stefano alle fonti, su adottaunaguglia.duomomilano. 18 marzo .  Paolino, Vita di Ambrogio, 7-8  Indro Montanelli, Storia di Roma, Rizzoli, 1957  Ambrogio, Lettera fuori coll. 14 ai Vercellesi, 65  Ambrogio, De officiis, I, 1, 4  Giacomo Biffi, Relazione al Meeting di Rimini, 29-08-1997  C. Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo dalle origini e i primi sviluppi della fede a Milano, op. cit.,  169-170  Graziano avrebbe voluto convocare un concilio numeroso, ma Ambrogio lo esortò a convocare un numero limitato di vescovi, affermando che per appurare la verità ne bastavano pochi e che non era il caso di incomodarne troppi, facendo loro affrontare un viaggio faticoso (Neil B. McLynn, Ambrose of Milan: Church and Court in a Christian Capital, University of California Press, 1994.  124–5.).  Codex Theodosianus, 16.10.10  Codex Theodosianus, 16.7.4  Codex Theodosianus, 16.10.12.1  Guida della Basilica di S. Ambrogio: note storiche sulla Basilica ambrosiana, Ferdinando Reggiori, Ernesto Brivio, Nuove Edizioni Duomo, 198686.  Gérard Nauroy, L'Ecriture dans la pastorale d'Ambroise de Milan, in Le monde latin antique et la Bible. J. Fontaine e C. Pietri, Parigi 1985. Citato in Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo delle origini e i primi sviluppi della fede a Milano, op. cit.  Per un'ampia descrizione dell'episodio: Antonietta Mauro Todini, Aspetti della legislazione religiosa del IV secolo, La Sapienza Editrice, Roma, 1990, pag. 3 e segg.; Thomas J. Craughwell, Santi per ogni occasione, Gribaudi, 2003, pag.49; Lucio De Giovanni, Chiesa e stato nel Codice Teodosiano, Tempi moderni, pag.120; Giovanni De Bonfils, Roma e gli ebrei, Cacucci, 2002, pag. 186; Mariateresa Amabile, Nefaria Secta. La normativa imperiale ‘de Iudaeis’ tra repressione, protezione, controllo, I, Jovene, Napoli, .James Hastings, Encyclopedia of Religion and Ethics , Kessinger Publishing, 2003, pag. 374  Walter Peruzzi, Il cattolicesimo reale, Odradek, Roma, 2008  Ambrogio, De virginibus, 2, 6-18, citato in L. Gambero, Testi mariani del primo millennio, Città Nuova, 1990  Rito Ambrosiano: la centralità dell'opera di Sant'Ambrogio per la Chiesa di Milano  Jacopo da Varazze, Leggenda Aurea, LVII. Un episodio analogo è riferito anche a Santa Rita da Cascia, vedi: Alfredo Cattabiani, Santi d'Italia, Ed. Rizzoli, Milano, 1993,  88-17-84233-8, pag. 816  Per una narrazione della leggenda e della costruzione della chiesa si veda: Don Gerolamo Raffaelli, La vera historia della Vittoria qual ebbe Azio Visconti nell'anno della comune salute 1339 nel dì XXI febbr. in Parabiago contro Lodrisio V Limonti, Milano, anno MDCIX Don Claudio Cavalleri, Racconto istorico della celebre Vittoria ottenuta da Luchino Visconti princ. di Milano per la miracolosa apparizione di Santo Ambrogio, seguita il dì 21 febbr. l'anno 1339 in Parabiago, e dedicata al March. D. Giambattista Morigia G. Richino Malerba, Milano, 1745 Alessandro Giulini, La Chiesa e l'Abbazia Cistercense di S. Ambrogio della Vittoria in Parabiago, Archivio Storico Lombardo, 1923, pagina 144  Ponzio di Cartagine, Vita di Cipriano; vita di Ambrogio; vita di Agostino / Ponzio, Paolino, Possidio, Città Nuova, Milano, 1977 Tutte le opere di sant'Ambrogio, Ed. bilingue a cura della Biblioteca Ambrosiana, Roma: Città nuova. Angelo Paredi, Ambrogio, FIR MilanoStoriaSec. IV-V Hoepli collana Collezione Hoepli Angelo Ronzi, Sant'Ambrogio e Teodosio: studio storico-filosofico, Visentini editore, Venezia. Enrico Cattaneo, Terra di Sant'Ambrogio: la Chiesa milanese nel primo millennio; Annamaria Ambrosioni, Maria Pia Alberzoni, Alfredo Lucioni, Ed. Vita e pensiero, Milano, 1989. Vita di sant'Ambrogio: La prima biografia del patrono di Milano di Paolino di Milano, Marco Maria Navoni, Edizioni San Paolo, 1996.  978-88-215-3306-8 Cesare Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo, Edizioni San Paolo, Cinisello B. 1996.  88-215-3303-4 Luciano Vaccaro, Giuseppe Chiesi, Fabrizio Panzera, Terre del Ticino. Diocesi di Lugano, Editrice La Scuola, Brescia 2003m, 5, 128, 202, 224, 225, 248, 259nota, 280, 286, 287, 442. Giorgio La Piana, Ambrogio in  Enciclopedia Biografica Universale, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, 2006, 434-442. Dario Fo, Sant'Ambrogio e l'invenzione di Milano Einaudi Torino 2009 978-88-06-19486-4. Raffaele Passarella, Ambrogio e la medicina. Le parole e i concetti, LED Edizioni Universitarie, Milano 2009 978-88-7916-421-4 Cesare Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo dalle origini e i primi sviluppi della fede a Milano. , Busto Arsizio, Nomos Edizioni.  978-88-88145-46-4 Franco Cardini, 7 dicembre 374. Ambrogio vescovo di Milano, in I giorni di Milano, Roma-Bari , 21-40. Sant'Ambrogio, in San Carlo Borromeo, I Santi di Milano, Milano ,  978-88-97618-03-4 Patrick Boucheron e Stéphane Gioanni , La memoria di Ambrogio di Milano. Usi politici di una autorità patristica in Italia (secc. V-XVIII), Paris-Roma, Publications de la Sorbonne-École française de Rome,  (Histoire ancienne et médiévale, 133CEF, 503), 631 p.,  978-2-7283-1131-6  Sant'Ambrogio, [Opere], apud inclytam Basileam, [Johann Froben], 1527.  Sant AmbroeusTra storia e leggenda, Meravigli edizioni (in collaborazione con Circolo Filologico Milanese), Milano,   Satiro di Milano Santa Marcellina Agostino di Ippona Basilica di Sant'Ambrogio Patristica Diocesi di Milano Rito ambrosiano Paolino di Milano Chiesa dei Santi Ambrogio e Theodulo Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Sant'Ambrogio Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Sant'Ambrogio Collabora a Wikiquote Citazionio su Sant'Ambrogio Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Sant'Ambrogio  Sant'Ambrogio, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sant'Ambrogio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sant'Ambrogio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, .  Sant'Ambrogio, su sapere, De Agostini.  (IT, DE, FR) Sant'Ambrogio, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Sant'Ambrogio, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Sant'Ambrogio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.   Opere di Sant'Ambrogio, su Musisque Deoque.  Opere di Sant'Ambrogio, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Sant'Ambrogio, . Opere di Sant'Ambrogio, su Progetto Gutenberg. Audiolibri di Sant'Ambrogio, su LibriVox.    su Sant'Ambrogio, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Sant'Ambrogio, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M. Cheney, Sant'Ambrogio, in Catholic Hierarchy.  Sant'Ambrogio, su Santi, beati e testimoni, santiebeati. Epistole di S.Ambrogio, su tertullian.org.  Epistole di S.Ambrogio, su intratext.com. Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici analitici, su documentacatholicaomnia.eu. Cathechesi, su w2.vatican.va. di papa Benedetto XVI su Sant'Ambrogio in occasione dell'udienza generale del 24 ottobre 2007 PredecessoreVescovo di MilanoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Aussenzio374-397San Simpliciano SoresiniV D M Padri e dottori della Chiesa cattolica V D M Ambrogio di Milano Antica Roma  Antica Roma Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Milano  Milano Categorie: Funzionari romaniVescovi romani del IV secoloTeologi romani 397 4 aprile Treviri MilanoAmbrogio di MilanoSanti romani del IV secoloCorrispondenti di Quinto Aurelio SimmacoDottori della Chiesa cattolicaPadri della ChiesaSanti per nomeScrittori cristiani antichiScrittori romaniTeologi cristianiVescovi e arcivescovi di MilanoSanti della Chiesa ortodossa. Acta Sancti Sebastiani Martyris [Incertus]  -- San Sebastiano -- Sebastiano -- Ad Virginem Devotam   -- Apologia Altera Prophetae David  -- Apologia Prophetae David Ad Theodosium Augustum   -- Commentarius In Cantica Canticorum   -- De Abraham Libri Duo  -- De Benedictionibus Patriarcharum   -- De Bono Mortis  -- De Cain Et Abel Libri Duo -- De Concordia Matthaei Et Lucae In Genealogia Christi  -- De Dignitatate Conditionis Humanae Libellus  -- De Dignitate Sacerdotali   -- De Elia Et Jejunio Liber Unus  -- De Excessu Fratris Sui Satyri Libri Duo   -- De Excidio Urbis Hierosolymitanae Libri Quinque  -- De Fide Ad Gratianum Augustum Libri Quinque  -- De Fide Orthodoxa Contra Arianos  -- De Fuga Saeculi -- De Incarnationis Dominicae Sacramento -- De Institutione Virginis Et Sanctae Mariae Virginitate Perpetua   -- De Interpellatione Job Et David Liber Quatuor  -- De Isaac Et Anima -- De Jocob Et Vita Beata Libri Duo  -- De Joseph Patriarca -- De Lapsu Virginis Consecratae -- De Moribus Brachmanorum [Incertus]   -- De Mysteriis -- De Nabuthe Jezraelita -- De Noe Et Arca -- De Noe Et Arca Liber Unus [Fragmentum] -- De Obitu Theodosii Oratio   -- De Obitu Valentiniani Consolatio  -- De Officiis Ministrorum Libri Tres   -- De Paradiso -- De Poenitentia Liber Unus  -- De Poenitentia Libri Duo  -- De Sacramentis Liber Sex  -- De Spiritu Sancto Libellus -- De Spiritu Sancto Libri Tres   -- De Tobia Liber Unus   -- De Trinitate. Alias In Symbolum Apostolorum Tractatus  -- De Viduis -- De Virginibus Ad Marcellinam Sororem Sua Libri Tres  -- De Virginitate -- De XLII Mansionibus Filiorum Israel Tractatus   -- Enarrationes In XII Psalmos Davidicos   -- Epistola De Fide Ad Beatum Hieronymum [Incertus]  -- Epistolae Duae De Monacho Energumeno [Incertus]  -- Epistolae Ex Ambrosianarum Numero Segregatae   -- Epistolae Prima Classis  -- Epistolae Secunda Classis  -- Exameron Libri Sex -- Exhortatio Virginitatis -- Exorcismus  -- Expositio Evangelii Secundum Lucam Libris X Comprehensa  -- Expositio Super Septem Visiones Libri Apocalypsis  -- Historia De Excidio Hierosolymitanae Urbis Anacephalaeosis --- Hymni  -- Hymni Sancti Abrosio Attributi [Incertus]  -- In Epistolam Beati Pauli Ad Colossenses   -- In Epistolam Beati Pauli Ad Corinthios Primam   -- In Epistolam Beati Pauli Ad Corinthios Secundam  -- In Epistolam Beati Pauli Ad Ephesios. In Epistolam Beati Pauli Ad Galatas  -- In Epistolam Beati Pauli Ad Philemonem  . In Epistolam Beati Pauli Ad Philippenses  -- In Epistolam Beati Pauli Ad Romanos  --  In Epistolam Beati Pauli Ad Thessalonicenses Primam . In Epistolam Beati Pauli Ad Thessalonicenses Secundam  --  In Epistolam Beati Pauli Ad Timotheum Primam   .  In Epistolam Beati Pauli Ad Timotheum Secundam  -- In Epistolam Beati Pauli Ad Titum  -- In Psalmum David CXVIII Expositio  -- Liber De Vitiorum Virtutumque Conflictu [Incertus]  -- Libri Duo de Vocatione Gentium [Incertus]  --  Philosophorum Aliquot Epistolae [Incertus]  -- Precationes Duae Hactenius Ambrosio Attributae  -- Sermones Sancto Ambrosio Hactenus Ascripti  -- Sermones Tres  -- Vita Ex Ejus Scriptis Collecta [Editor]  -- Vita Operaque  -- Vita Operaque. Selecta Vetera Testimonia -- Vita Sancti Ambrosii Mediolanensis Episcopi [A Paulino Ejus Notario]  -- De Abraham Libri Duo  -- De Bono Mortis -- De Cain et Abel Libri Duo  -- De Isaac et Anima -- De Mysteriis  -- De Noe Et Arca . De Paradiso -- Epistola VIII -- Epistula ad Sororem  -- Epistulae Variae  -- Hexameron Libri Sex                                                . Hymni  -- Vita  -- La Penitenza  -- La Penitenza  -- De Excessu Fratris Sui Satyri Libri Duo [Schaff]  -- De Fide Ad Gratianum Augustum Libri Quinque [Schaff]  -- De Mysteriis  -- Mysteriis Liber Unus [Schaff]  -- De Officiis Ministrorum Libri Tres [Schaff]  -- De Poenitentia Libri Duo [Schaff]  -- De Spiritu Sancto Libri Tres [Schaff]  -- De Viduis Liber Unus [Schaff]  -- De Virginibus Ad Marcellinam Sororem Sua Libri Tres [Schaff]  -- Epistola .  Exposition Of The Christian Faith  -- On The Decease Of His Brother Saytrus  -- On The Duties Of The Clergy  -- On The Holy Spirit -- Repentance  -- Some Letters  --  Some Letters [Schaff]  -- To Marcellina His Sister Concerning Virgins.  -- Treatise Concerning The Widows. IL DIRITTO ROMANO Fu sopratutto col pacifico apostolato della scienza e della virtù,chequeigrandi uomini,cuilaChiesagiustamentesaluta suoi padri,illuminaronoevinsero ilmondo pagano.Allo scetti cismo , frutto di astruse teorie filosofiche, che distruggevano senza edificare, essi opposero le verità cattoliche, profonde e s u blimi pei sapienti, chiare e popolari per la moltitudine,pratiche per tutti;alla spaventosa depravazione prodotta e mantenuta da una religione tutta materia e sensi,essi risposero coll'introdurre della sfibrata e morente società romana una moltitudine di uomini e di donne , i quali invece delle sterili declamazioni di Cicerone e di Seneca,offrivano sé stessi,ad esempio di Gesù Cristo, ostie viventi di sacrificio per la Chiesa e per l'umanità. I secolo IV segna appunto il massimo furore di quelle in cruente battaglie. S. Atanasio , S. Basilio , i due S. Gregorii , S.Girolamo,S.Agostino,S.Giovanni Grisostomodaunaparte; S. Antonio e le migliaja di monaci e di sante vergini dall'al tra.Nel mezzo del secolo poi e nel mezzo dell'Occidente com pare il grande Arcivescovo di Milano,S. Ambrogio,che rac coglie la penna di S. Atanasio per trasmetterla a S. Agostino, e colla voce, cogli scritti e cogli esempi propri e della santa sua sorella Marcellina popola, non ideserti,ma le corrotte città latine di una legione di angeli terreni. Sublime missione al certo,ma non unica,a cui laDivina Provvidenza destinava il figlio del Prefetto delle Gallie, allora che inconsapevole de'suoi destini,giungeva in Milano nel l'anno 373,per esercitarvi qual Consolare l'autorità del Vicario d'Italia nella Liguria ed Emilia.Infatti nel congedare il suo giovine amico,Petronio Probo Prefetto del pretorio e cristiano, gli aveva detto:ricordatevi,mio figlio, di operarenon da giu dice,ma davescovo(1).L'opulentoesaggiosenatoreromano con quelle parole manifestava , senza comprenderne la forza profetica , il vizio radicale ed il maggior pericolo dell'impero romano,e quale avrebbe dovuto esserne ilrimedio:la cristia nizzazione cioè veraceed intera del governo e delle leggi. 437  (1)Paulin,in vit.Amb.n.5.  A quest'opera tuttavia richiedevasi non un greco od un barbaro,ma un nobile romane discendente dall'antica razza conquistatrice;era conveniente non un uomo di guerra ne un colto letterato,ma un giurisperito,che dalla magistratura dell'impero terreno passasse alla magistratura dell'impero spi rituale.Tal fu Ambrogio ,allorché nel 374 per mezzo di un prodigio fu eletto Vescovo di Milano. SealcunofossestatoalloraammessodaDio leggerenel futuro avrebbe ravvisato nel Consolare romano fuggente l'o noreela responsabilitàdiVescovo,ilsecondo fraiquattro Dottori della Chiesa, che sono rappresentati sostenere la cat tedra di S. Pietro in Vaticano ; ma insieme avrebbe meravi gliato contemplando da lungi la nuova società cristiana succe dere all'impero pagano,e S. Ambrogio,che formata la mente ed il cuore del grande Teodosio, ne congiunge la destra a tra verso isecoli con quella di Carlo Magno. Si ; è evidente che S. Ambrogio ritorna fra noi appunto nel momento del maggior bisogno della Chiesa e della società, quando il paganesimo redivivo ha consumato ormai presso tutte le nazioni cristiane l'apostasia dello Stato dalla Chiesa e va lentamente scristianizzando tutti i codici e tutte le leggi dei popoli civili.Non è pertanto meraviglia se dalla scoperta delle reliquie santambrosiane la setta anti-cristiana intraveda una minaccia misteriosa a quelle che essa chiama le gloriose conquiste dell'umanilà; mentre il popolo veramente e sincera mente cattolico si commove ed esulta, come all'arrivo di uno sperimentato e valente capitano.  Nondimeno chi fu che sospettasse in que'giorni questa importantissima missione religiosa ecivile del nuovo Ve scovo di Milano? Gli uomini invero sono istrumenti e spet tatori quasi sempre inconscii,dellemeraviglie di Dio.Ben po chi giungono a sorprenderne la mano onnipotente e miseri cordiosa, allorchè in mezzo alle angoscie dei secoli più trava gliati, quando lutto sembra avviarsi a rovina,getta silenziosa ed inosservata la semente, che fruttificherà a suo tempo pace e prosperità alle generazioni venture.Furono isecoli cristiani che riconobbero la lontana,ma efficace opera di S. Ambrogio ; ed è perciò con un trasalimento di gioja che noi, dopo quin dici secoli, da quel 74, in cui Dio lo dono alla Chiesa ed alla società, vediamo risvegliarsi l'eroe delle battaglie contro il paganesimo ed affacciarsi dalla sua tomba a riguardare le il lusioni , le convulsioni ed i terrori di questo secolo XIX , per errori e pericoli sociali tanto simile al secolo IV. Alla domanda perciò che ispontanea si presenta alla mente di ognuno,in questi giorni,in cui collo spirito della Chiesa, che è spirito di preghiera, ci prepariamo ad onorare gli avanzi mortali del gran Santo , gran Dottore e grande cittadino del secolo IV,vale a dire: perché ritorna ora fra noi S. Ambrogio ? non si può chiedere una risposta intera ed adeguata che ai secoli avvenire.Essi ci mostreranno e spiegheranno laragione provvidenziale, per cui le reliquie del santo Arcivescovo e dei due martiri milanesi riapparvero in questi anni e non prima. Noi frattanto dal passato cercheremo di pronosticare il futuro ; e dalla influenza tutta santa e civilizzatrice, che il C o n solare romano eletto Vescovo esercitò sul governo, sulle leggi e sulla società del secolo IV,ciconforteremo a sperare che in modo eguale e maggiore vorrà ora farci sentire la potenza di sua intercessione presso Dio in pro della tribolata e perico Jonte società moderna ; speranza e consolazioni ben giuste,poi che nella Chiesa Cattolica anche le ossa dei santi profetano.  I. La divisione scientifica del Diritto in pubblico e privato era conosciuta,se non di nome,certo di fatto,anche nel l'anticoGiureRomano;eilprimo era fontedelsecondo,il quale sisvolgeva e modificava mano mano che si svolgevano e modificavano le istituzioni politiche. Un popolo eminenlemente guerriero e conquistatore,come era quello formato dai primi compagni e discendenti di Romolo, non poteva a meno di dare alla propria legislazione un impronta semplice,ma fiera e di spotica, spesse volte in aperta contraddizione co'diritti di na tura. Per essa la patria era tutto, l'individuo nulla, la famiglia un mezzo perdarguerrierialcampo,uominiprudentialforo lodata perció la madre dei Gracchi, che invece dei giojelli m u liebri fa pompa de'suoi figli, futuri tribuni della plebe; poi chèessaconciòrappresentavaladonnaromana,qualelavo leva il ferreo diritto repubblicano. Quella patria infatti, per cui tutti e tutto si doveva sagrificare, non era che l'interesse e l'ambizione di poche famiglie patrizie discendenti dall'antica razza conquistatrice: all'infuori dei senatori e cavalieri non si conoscevacheplebe,efuoridiRoma tuttoilmondo,secondo il diritto pubblico romano, non era abitato che da vinti o da nemici.Di qui nacque e si perpetuò dai primi tempi di Roma quell'antagonismo fra senato e plebe, che fu causa non ultima della caduta dellarepubblicaedell'intronizzazione del dispotismo cesareo;diqui anche quella lotta continua con tutte le nazioni confinanti coll'impero, lotta che fini colla inondazione dei barbari. L'aspettocaratteristicoperò dell'anticoDirittoRomano come di tutte le primitive legislazioni, è l'unione indissolubile dello Stato colla Religione.Essa presiede a tutti gli atti pubblici e privati; non si intima guerra ne si concede pace senza i feciali egliaruspici;senzaauspicj nonsiradunanoassemblee;nonsi stringono trattati che sotto la protezione degli dei, e la stessa proprietà privata è sotto la salvaguardia degli dei penati, cui i primi romani non si dimenticavano mai di salutare all'ingresso dellecase.La religione latina d'altra parteera essenzialmente nazionale,e si informava a quello spirito di famiglia, che appare l'anima ditutte leistituzioni romane;essa perciò rimaneva in carnatacollarepubblica,poichéRoma derivavadaglideiein taccar la religione era intaccare Roma ,ed essendo Roma il mondo,era un dichiararsi nemici del genere umano.Più tardi, all'avvenimento dell'impero,Augusto uni ilsommo pontificato alla soprema potenza civile e militare e collocò l'altare della Vittoria nel senato,come testimonio e simbolo dell'eterna al leanza fra lo Stato ed il paganesimo. Laonde,quandoaltempo dell'abbrutito Tiberio,alcunipe scatori di Galilea predicarono una nuova religione, che diceva doversi obbedienza prima a Dio che a Cesare - essere glidei nazionaliidoliedemonii nostrapatriailcielo la terra luogo non di piaceri ma di prova - gli uomini senza distin zione di sesso edi città,siailromano che ilgreco,ilbarbaro, "loschiavo,tuttifratelli- figlidiun comun padreIddio- idegradati nipoti diCincinnato siscossero,come all'annuncio di un nemico alle porte,che minacciasse di rovesciare l'antica maestà di Roma.Il cristianesimoinfatti non era un semplice culto religioso , una delle mille superstizioni che dall'oriente si importavano alla capitale colle spoglie delle vinte nazioni e che il fiero politeismo romano riceveva come arra di pace e difusionedeipopoliassoggettati;ilcristianesimoeraun in tero sistema teorico e pratico, che abbracciava tutto l'uomo e siimponeva a tutte le questioni sociali,esigendo un'intera ri voluzione di idee, di costumi e di leggi, un cambiamento ra dicale nel diritto pubblico e privato dell'impero.Appena pro mulgata questa nuova dottrina aveva trovati assecli ferventi ed indomabili in ogni classe e condizione dell'impero ; accolto sopratutto con trasporto fra quegli esseri, quanto spregiati al trettanto numerosi, quali erano nella società romana ledonne e gli schiavi (1).Non ci meravigliamo pertanto che la giuri sprudenza e la politica romana si trovassero bentosto nella nece s s i t à d i r i s o l v e r e u n q u e s i t o , il q u a l e i n v o l g e v a l e s o r t i d e l l ' i m pero e dell'umanità. Se l'impero accoglieva il cristianesimo , questo che trasformava le donne ed i fanciulli in eroi, avrebbe salvato l'impero dallo sfascelo all'interno, all'esterno dai barbari , mansuefattidalvangelo;ma loStatoconciòcessavadiessere ilsupremo Iddio;laChiesa assumeva con esso le parti dim a dre ; lo schiavo, il vinto , la donna dovevano esser rispettati ; s'umiliava l'orgoglio;cadevano Venere e Mercurio;regnava Cristo. Se per contrario volevasi sostenere l'onnipotenza dello Stato, la divinità degli imperatori, l'eternità di Roma , la nuova religione si doveva far sparire dalla faccia della terra.Da Ne rone a Massenzio gli imperanti romani si decisero per questa seconda politica e ne affidarono la cura al carnefice; il quale per tre secoli stancò uomini e belve, e non riesci che a ren dere più splendido il trionfo del cristianesimo. Costantino cambiò sistema e dopo aver bandito tolleranza,dichiarossi per ilnuovo culto;seguitodalfiglioCostaozo,chefattosiperò da protettore giudice e padrone della Chiesa, divenne il triste modellodituttiipersecutorifinoadoggi.Sopragiunse Giu liano,col quale ilpaganesimo, domato ma non spento, tentò fe roce, sebbene effimera, riscossa. Quando Ambrogio entrò Consolare a Milano,regnava Va lentiniano I, successo al buon Gioviano. Scelto dall'esercito l'imperatore era prode guerriero;accorse al Reno e all'onda sanguinosa dei barbari, che scrosciava e trasbordava dalle frontiere, oppose, per allora, un argine di ferro.  Tuttavia se la spada valeva coi nemici non giovava per le questioni interne, nè per arrestare la decomposizione sociale di quell'immane gigante,cui ilcristianesimo tentava invano di risanguare con forti e pratiche dottrine di virtù e sagrificio. La fede operava al certo nel segreto delle coscienze una im portantissimarivoluzionemorale;ma nonostanteglisforzidi Costantino, il mondo amministrativo si era tenuto in disparte dalla influenza e dalle istituzioni cristiane.Infatti sotto Valen tiniano, già confessor della fede avanti all'Apostata, il governo continuava colle massime e coi costumi dell'antica Roma pa gana;l'imperatore proseguiva a chiamarsi divino ed eterno; (1)Lactant.,Instit.lib. V,cap.18.   aveva assunto i titoli e le insegne di pontefice massimo; m a n teneva ai sacerdoti degli idoli privilegi e sovvenzioni a carico dell'erario; mentre l'altare della Vittoria eretto nel mezzo del senato,attestava la politica incerta ed equivoca del regnante cristiano.Idue elementi opposti edinconciliabilierano invero tuttora di fronte e disponevano di forze eguali ; più popo lareediffuso,massimeinoriente,ilcristianesimo;più po tente per ricchezze ed aderenze,in ispecie in occidente e fra le famiglie aristocratiche, il paganesimo , considerato da esse come simbolo e palladio dell'antica gloria romana. Valenti niano I reputò pertanto abilità politica il mettere lo Stato nel mezzo, come neutrale e paciere fra le due nemiche correnti. Enorme fallo politico, che si ripete continuamente ogni volta che nella società scendono in campo ad aperta battaglia i due eterni nemici, la materia e lo spirito, l'errore e la verità, la città degli uomini e la città di Dio ! Dall'errore nasce l'errore:un governo che esita e teme decidersi fra il cristianesimo e le superstizioni gentilesche, per quanto spiritualizzate dal neoplatonismo,fra Cristo e Satana,un tal governo non può reggersi che con una serie di ripieghi, so v e n t e c o n t r a d d i t t o r i i ; p e r e s s o il p r i n c i p e c r i s t i a n o n o n p o r t e r à che colpi troppo prudenti a quelle antiche istituzioni pagane, che rimanevano sempre incarnate nel diritto civile dell'impero. Quante questioni giuridiche, di cui ilprogresso introdotto dal cristianesimoreclamavauna prontaeradicalesoluzione,re stavano perciòsenza una risposta.Eppure necessitàstringeva, se l'impero voleva salvarsi ! La società era tuttora divisa fra una minoranza di opu lenti, che si chiamavano liberi e cittadini,ed una immensa maggioranza di uomini , cui il cristianesimo diceva fratelli dei superbi padroni,ma che la Roma conquistatrice aveva classificati fra gli utensili d'agricoltura ed industria e fra gli oggetti di commercio (1); gli schiavi reclamavano in nome della natura e della religione idiritti dell'uomo e del cristiano. Un'altra schiavitù legale era stata recentemente introdotta dal fisco rapace,che in nome della divinitàdiRoma,padrona del mondo,non solospogliava ma distruggeva;icoloni ed icu riali protestavano,io nome di una assennata economia politica, per un mutamento radicale nei principii che regolavano sia la proprietà,che l'esazione delle imposte. Il padre verso ifigli,  (1)Ulpian.Inst.I,tit.8.   il padrone verso gli schiavi, e perfino il creditore verso il d e bitore,anchedopolesaggiecostituzioni diCostantino,con servavano diritti, che si assomigliavano troppo a quelli che la ferrea mano dei decemviri aveva scolpiti nel bronzo;la carità cristiana, la quale ne andava sbandendo dai costumi l'atroce e s e r c i z i o , e s i g e v a c h e il l e g i s l a t o r e s c i o g l i e s s e i s u d d i t i d a q u e l l e pastoje dell'antico servaggio,con cui ilgiudice per rispetto ad una formulistica e sacrilega legalità conculcava l'equità e la g i u s t i z i a . C h e p i ù ; il m a t r i m o n i o f o n d a m e n t o d e l l a s o c i e t à e la donna che ne è il cuore , erano sempre 'all'arbitrio di una legislazione,che sanzionava,col divorzio e colla tutela perpetua, una incredibile corruzione di costumi , massimo fra i pericoli dell'impero;or bene le vergini e martiri cristiane volevano,che un sesso santificato dalla Vergine madre di Dio, fosse ricollo cato nel posto assegnatogli dal Creatore e che il matrimonio, pei cristiani elevato a Sacramento , fosse anche pei pagani cosa seria e rispettata. Queste ed altre questioni,che travagliavano lasocietà ro mana nelSecoloIV,sisarannoessepresentateallavastae profonda intelligenza ed al cuore nobile e passionato del gio vine Consolare, in quel primo giorno che in Milano prese pos sesso dell'importante sua carica ? Le parole e le gesta del m a gistrato divenuto Vescovo dimostrano, che S. Ambrogio le aveva comprese , e già risolte in quella, che tutte le compen diava:la cristianizzazione del governo e del diritto romano. S. Ambrogio vi si adoperò con quel tatto pratico carat- teristico dellaRoma conquistatrice del mondo,che ora è pas sato nella Roma capitale del cattolicismo.Cauto,prudente e piuttosto lento,l'antico romano taceva, meditava ed operava a colpo sicuro; non guidandosi a vivaci teorie più o meno ulo pistiche esso studiava ed aspettava, non preveniva gli avveni menti ;e perciò mentre le colte e filosofiche repubbliche greche sparivano fra l'olezzo dei fiori ed il canto dei loro inimitabili poeti,il tardo romano si impossessava dell'universo. Questa impronta si ravvisa negli scritti e più nelle opere del grande Metropolita di Milano; perchè se ilcuore ardente di Vescovo cattolico lo moveva a parlare al suo popolo,a scrivere lettere e volumi, a portarsi alla corte e trattar cogli imperatori, la severa prudenza del magistrato romano gli dava quella calma e quella saggezza, onde isuoi detti ricevevansi come oracoli.   Suo primo atto fu volgersi a Valentiniano I, la cui indole buona ma violenta era stata esasperata da malattie e da cor tigiani e satelliti sanguinarii, per cui si riempiva l'occidente di gemiti e di lamenti.Cosa disse Ambrogio all'imperatore dagli storici contemporanei non ci è riferito; ma la risposta del so vrano e più il mutamento totale di sua politica dopo quel col loquio,ci dimostrano la prima vittoria sul dispotismo cesareo, Valentiniano lodò la franca indipendenza del vescovo e ne volle pe'suoi peccati conveniente rimedio (1).Cosa inaudita e fin allora creduta impossibile!La divinità imperiale, cui la legisla zione romana,anche dell'età classica,asseriva sciolta dalle leggi (princeps solulus a legibus),anzi legge vivente, e libero senza ombra di ritegno a dichiarar lecito ciò che jeri era illecitoed ingiusto (2), il dio di R o m a , riconosce d'aver errato ; ed i s u d diti,senza essere costretti,come era d'uso,a sgozzare e poi celebrar l'apoteosi dell'imperatore,possono ormai fargliperve nireleloroquerelepermezzodei Vescovi,rappresentanti la co mune madre, la S. Chiesa. Se ad alcuno però non piace questo progresso,perché introdottodaVescoviepreti,riservipure l'ammirazione per Ulpiano e Paolo, fra i più grandi giurecon sulti al certo dell'epoca degli Antonini,iquali celebravano la clemenzaelasaggezza diquelmostrochesichiamavaComodo! Un altro passo tuttavia rimaneva a fare: non solo la per sona,ma la stessa dignità imperiale doveva ripudiare official m e n t e il c u l t o n a z i o n a l e d i R o m a . U n a c e r i m o n i a r i d i c o l a e r a stata introdotta da Augusto e ripetevasi infallantemente ogni volta era assunto un nuovo principe all'impero;lo stesso Co stantino non aveva osato di rinunciarvi.L'offerta però del ti t o l o e d e l l e i n s e g n e d i p o n t e f i c e m a s s i m o , c h e il s e n a t o f a c e v a all'imperatore,inchiudeva un gravissimo significato, poichè era la conferma di quel vecchio diritto pagano e teocratico, del quale igiureconsulti non ardivano acora distruggere l'autorità tante volte secolare e che isenatori,in parte ancora idolatri, facevano studiosamente rivivere appena se ne presentasse l'oc casione.Rigettare quelle insegne era dunque sconfessare l'as soluta sovranità dello Stato sopra i beni, sulla vita e, ciò che più importa ai despoti,sulle anime e sulle coscienze dei sud diti. Quale fra i moderni vantatori di liberalismo in simile circostanza ascolterebbe la voce della ragione e della fede, par  444 S. AMBROGIO E IL DIRITTO ROMANO (1) Theodor. Hist. Eccl. Lib. IV ,c. VI. (2) Digest. Const. Lib. I, tit. 4.   lante per bocca di Ambrogio ? Lo stato attuale d'Europa ce ne è testimonio.Ben diversamente pensava però quel caro figlio s p i r i t u a l e d i A m b r o g i o , c o m e e s s o c h i a m a v a il g i o v a n e G r a z i a n o , il primo che alla deputazione del senato rispose:sè essere cristiano. Ottenuta questa seconda vittoria,se ne richiedeva una terza, perché il cristianesimo potesse lusingarsi di vedere ilgoverno dei Cesari informatodisue caritatevolidottrine.Ragion logica voleva che l'ara della Vittoria,simbolo delle antiche superstizioni, s g o m b r a s s e il s e n a t o , m o l t o p i ù o r a c h e l ' i m p e r a t o r e , a s s o c i a t o s i Teodosio,avevavintiiGoti,invirtùnondiGiovemadiGesù Cristo.Ilregalealunno d'Ambrogio,che primadipartirper la guerra , gli aveva chiesti consigli ed istruzione a conferma della propria fede, mostrossi coerente. Un mattino adunque i senatori entrando nella Curia,stupirono vedendo scomparsa l'ara e la statua d'oro,tolte quella notte per ordine sovrano (1). Il colpo inaspettato commosse la fazione pagana fino nell'ultime fibre : molti senatori tuttora partitanti per i vieti riti di N u m a edeiFabii,siradunarono inquietieminacciosiperstendere una querela all'imperatore.Ma ai fianchi di Graziano vegliava Ambrogio,chegli parlòinnome deglialtrisenatori,delPonte ficeDamaso,dellasedecristiana.Invanopertanto ladeputazione instò; il giovine principe si dichiarò irremovibile e neppur volle ammetterla all'udienza. Graziano era allora nel fiore dell'età,nell'auge della gloria, gioconda speranza della Chiesa e dell'impero: e invece per uno di que'misteriosi decreti della Divina Provvidenza,che scon certano tutti gli umani ragionamenti e non lasciano luogo che all'umiltà ed alla adorazione, l'imperatore viddesi abbandonato dalle sue truppe e cadde vittima di infame tradimento.Il pa ganesimo erasi vendicato; e risorgevano le speranze degli ido l a t r i, i q u a l i r a p p r e s e n t a t i d a A u r e l i o S i m m a c o P r e f e t t o d i R o m a e ricco sfondato, credettero di approfittarsi delle circostanze e del favore della corte, per fare pressione sull'animo sbigot titodel fanciulloValentinianoIedellasuperba,ma insieme d e b o l e , G i u s t i n a . S t a t i s t a e l e t t e r a t o , f i l o s o f o e s c r i t t o r e , il d i scepolo d'Ausonio esauri tutte le risorse del brillante suo in gegno e stese una supplica,vero capolavoro di rettorica; se natore poi e pootefice, e caro al popolo,cui non lasciava m a n carepanéecircesi,impiegò perilpoliteismo,alquale esso  (1) Baanard, Vita di S. Ambrogio, pag. 128.   stesso non prestava più credenza , tutta l'influenza della per sona e degli impieghi ; e si riteneva sicuro della riuscita. In fattigià stavasi preparando il decreto che ristabiliva l'ara della Vittoria,allorchèS.Ambrogio sopragiunse dalleGallie,ove alla corte dell'usurpatore Massimo aveva, con finezza di diplo matico consumato ed intrepidezza di vescovo cattolico,patro cinata e vinta la causa del pupillo imperiale. Benchè un rigoroso segreto presiedesse alla congiura dei senatori pagani ed ai consigli del Concistoro imperiale,geloso dell'influenza del Vescovo di Milano, tuttavia esso ne penetrò le macchinazioni ; e presa la penna scrisse, non più all'Eterno, I n v i n c i b i l e , G e r m a n i c o , P a r t i c o e c c ., m a a l f e l i c i s s i m o e c r i s t i a nissimo imperatore Valentiniano I I. In quella magnifica lettera, incui isentimenti più elevatideiDottore e Ponteficecattolico si alternano e vestono la forma della più commovente tene rezza paterna , si trova già completamente tracciata la nuova politica cristiana, che fa i principi non padroni dei popoli, sib bene ministri di Dio e suoi luogotenenti sulla terra. Valenti niano perciò ode ricordarsi, che come tutti gli altri suoi sud diti, egli stesso è soggetto al Re dei Re ; che un altro potere è sorto nell'impero a regolare le coscienze,al quale pertanto, c i o è a i V e s c o v i , s p e t t a il g i u d i z i o i n m a t e r i a r e l i g i o s a : i n c a s o contrario,come indegno della professione cristiana,venendo l'imperatore alla chiesa,vi avrebbe trovato Ambrogio alla porta ad impedirgliene l'ingresso. Bisogno cedere:S.Ambrogio ebbe lasupplicadiSimmaco e riprese la penna. In quel giorno il profondo giurista, il de stro avvocato,ilsaggio magistrato rivisse nello scritto del V e s c o v o e d e l s a n t o . Il M e t r o p o l i t a m i l a n e s e n o n b a d a a c o n tendere coll'avversario in lenocinio di eleganze irreprensibil mente classiche: esso mira alla sostanza : perciò non allegorie, non scappatoje, non esitazioni,non dottrine incerte e,dirò, fosforescenti,tutto è massiccio;gli argomenti procedono ser rati, come le legioni romane, e la verità che appare evidente, abbatte, frantuma e disperde perfin la polvere degli annientati sofismi pagani.Simmaco s'appoggiava a tre argomenti:Roma disonorata per l'abbandono degli dei;le vestali reclamanti;la patria sfortunata e pericolante per la nuova politica cristiana degli imperatori.S. Ambrogio prende questi tre sofismi,li spoglia delle vesti affascinanti, li osserva, li analizza e li trova non altroche un accozzo difrasireboanti,vuotedisenso.Che parla Simmaco della dea Vittoria? La vittoria è un nome astratto : esso si realizza nel numero e nel valore delle legioni romane:Scipionevinse sfondandolefittecoortidiAnnibale, non ardendo incenso alla statua di Giove. Chiedono i pagani privilegiedentrateperisacerdotidegliidoli?Dunque con fessano che senza essi non possono reggersi: ma noi, dice S.Ambrogio,crescemmo fra leingiurie,le miserie,lemapnaje; e d e i n o s t r i b e n i f a c c i a m o il t e s o r o d e i p o v e r i . L e v e s t a l i ? O h ! quante immunità,privilegi ed entrate per sette fanciulle pro fessanti continenza temporanea fra il lusso e gli onori ; il cri stianesimo invece ne presenta migliaja e migliaja, che si conse crarono a perpetua verginità nel nascondimento e nelle pri vazioni. Volete privilegi ed entrate alle vostre vergini? Le a b biano in misura eguale anche la moltitudine quasi innumerabile delle cristiane:non è secondo giustizia l'accordar preferenze: otutte,onessuna.Ilcristianesimocagione deidisastri del l'impero e della recente carestia d'Italia ? I cristiani nemici della patria? — Avanti all'antica e sempre calunnia nuova il discendente degli Ambrogii , che aveva testė salvato l'Italia e l'imperatore, credė di imporre silenzio all'indegnazione del suo cuore romano: esso rispose con fina ironia, riscontrando le allegazioni enfatiche ed immaginarie di Simmaco colla reale prosperità di quell'anno, quale presentavasi agli occhi di tutti. Era un seppellire l'elegante declamazione sotto il peso della più terribile delle confutazioni, un meritato ridicolo. Ciò falto, S. Ambrogio non si arresta a riguardare il prostrato nemico e piglia l'offensiva.Allo scetticismo pagano confessatoda Sim maco,e che supplicava per una tolleranza,non solo pratica ma teorica,dituttiiculti,essocontraponelachiaraevidenza della fede e le forti convinzioni dei cristiani,Ritorce poi l'ar gomento; richiama la gloriosa ed ancor recente memoria di quel tempo,in cui ipagani non ammettevano l'indifferenza dello Stato per ogni culto,ma perseguitavano e massacravano; fa osservare che non è giusto imporre ai senatori cristiani i riti pagani e conclude dichiarando,che la natura stessa vuole ilprogresso:essere ormaitempo,che letenebre cedano,al sole,l'errore allaverità.La causa fu vinta:quel soffioche già spirò dal cenacolo nelgiorno di Pentecoste,portò via l'ultimo avanzo del paganesimo officiale, il quale invano una terza volta sipresenterà a Teodosio.L'alleanza secolare fra l'impero romano e l'idolatria è rotta ; non solo, m a sono abbandonate le illusioni di una politica anfibia e contraddittoria, che voleva separato lo S t a t o d a l l a C h i e s a , il c o r p o d a l l ' a n i m a s o n g e t t a t e ; d a q u e l p u n t o    le basi del nuovo Diritto Pubblico della Chiesa e delle genti cristiane. Graziano infatti, continuando l'opera di Costantino, aveva dall'anno 379 al 382 pubblicati varii decreti, sia in favore della Chiesa che contro gli eretici e manichei e contro gli apostati recidivi al paganesimo:ci giunsero nelle raccolte di leggi c o m pilatepiùtardipercomando diTeodosioilgiovine,econo sciuta sotto il nome di Codice Teodosiano.Frattanto Teodosio il Grande promulgava in Costantinopoli (anno 380) quella sua memorabile costituzione, in cui dichiarava la fede cristiana religione dell'impero, e fra le varie sette che ne disputavano il nome, osservava, intender esso quella sola, la quale profes. sata ed insegnatadalPontefice Romano,allora Damaso,aveva con sé le note caratteristiche ed esclusive della verità. Qual rivoluzione nei principii legali e nelle massime di governodelDirittoromano!Ma nonbastavachel'imperatore facesse decreti,esso stesso doveva conformare le proprie azioni alle dottrine, che andavano informando la nuova legislazione. Se pertanto Giustina vuol favorire i suoi ariani e intima sia loro ceduto un tempio dei cattolici, S. Ambrogio si offre pronto a donare all'imperatore le proprie sostanze private, a sacrifi care lavita stessa,non mai ilpatrimonio della Chiesa.Se anche il grande Teodosio , illuso da una fantasmagoria di tolleranza religiosa, patrocinata ardentemente dall'indifferentismo ed i m moralità dei cortigiani, vorrà costringere il vescovo di Callinico a rifabbricare la distrutta sinagoga degli Ebrei, vedrà giun gersi una lettera rispettosissima, ma conquidente del Vescovo di Milano,nella quale l'equità,la giustizia, la fede cristiana ed anche i dettami di una saggia politica impongono a Teodosio direvocareilmalconcepitodecreto.Teodosiosimostra esi tante;ma Ambrogio insisteevince.Evincerà finoal punto di persuaderlo a promulgare una legge, con che il troppo vio lento principe impone agli altri giudici,e prima a sè stesso, di soprasedere ventiquattro ore dall'esecuzione d'ogni sentenza capitale; non solo, ma in abito da penitente lo vedremo con fessare ed espiare in faccia alla Chiesa ed all'impero le fatali conseguenze della impetuosa sua ira contro i Tessalonicesi. Magnanimo principe, degno dell'ammirazione di tutta la posterità! Esso fu grande quando sul campo di battaglia tre volte sgomino le legioni degli usurpatori e due volte ruppe e disperse le immense orde dei barbari; ma fu più grande allor chè nel vestibolo della Basilica milanese riconobbe, esser nessuno,fuorché Dio,padrone della vita degli uomini.Circadue centoquarant'anni prima un altro imperatore romano,sommo unicamente perlibidiniécrudeltà,avevaespressoildesiderio che il senato e Roma stessa avesse una sola testa,onde poterla spiccare d'an colpo.A quell'imperatore,cui Seneca fu maestro, if sénato e l'impero si prostravano e ne placavano la divina cle menza con statue e sacrificii. Ora un altro principe grande per'mente, per cuore e per braccio, è in ginocchio avanti ad un Vescovo Cattolico, domandando penitenza per esser troppo trascorso nell'esercizio della giustizia contro alcunisudditi. Chisceglieremo,Teodosio oNerone?A chidovrà ascriversi il cambiamento totale nei principii che reggevano l'impero? I fattirivelanoilloroautore:seipregiudiziimoderni impedi scono a'molte intelligenze di leggerne il nome,è solo, come osserva uno scrittore francese (1) di principii esso stesso tut. t'altro che cattolici , perchè il cristianesimo è troppo poco stu diato e'meno compreso. S.Ambrogio,come tuttiglialtripadridellaChiesa,si occupava delle questioni sociali e politiche per lo più solo in direttamente : la sua cura cotidiana, il pensiero della sua vita era la santificazione del suo gregge ; e le sue azioni e i suoi scritti tendevano unicamente a questo scopo.Ilsuo stesso libro degli Officii, quell'opera scritta ad imitazione di Cicerone , la quale,come rappresentante dei secoli cristiani,sebbene segni unqualcheregressonelleforme,locompensaconunimmenso progresso,nelle idee non mira che ad offrire al suo clero saggi precetti di santa vita.Ma si può egli sanar l'anima senza gio varealcorpo?Ecco pertantoS.Ambrogio,por professando osservanza dei canoni,che intimavano a pruti e vescovi una operosa residenza fra il popolo (2), togliersi da Milano , c o m parire alla corte, intraprendere disastrosi viaggi,ogni volta lo richiedeva la necessità della cosa pubblica . Teodosio gli affida i suoi due figli; e quando il grande Arcivescovo stava per entrare nell'eternità,Stilicone,ilreggente dell'impero,lo mando a scongiurare, che volesse pregar Dio per un po'd'altri anni, poiché l'Italia, lui morendo, pericolava (3).  III. ( 1) Il signor Cousin citato da Troplong, De l'influence du christianisme sur le Droit civil des Romains, pag. 368. 29 (2)Epist.LXXXV,n.2. (3)Paulin, Vit.Ambros.n.45. Scuola Catt.Anno II.Vol.III.Quad.XVII. Non è perciò meraviglia, se negli scritti e più nelle azioni del Consolare romano divenuto Vescovo cattolico troviamo , sebbene quasi per incidente e per lo più solo in germe, accen nate e risolte le principali questioni di diritto, la cui completa trasformazione doveva esser l'opera dei secoli avvenire. La clemenza di Teodosio verso i vinti, gli sforzi di lui per siste mare l'esazionedelleimposte,cuiibarbari,glierroridell'impero e più l'interna corruzione dei costumi rendevano intollerabili, dimostrano che l'influenza di S. Ambrogio si stendeva dovunque eravi un ministero di carità da esercitare (1).Irrompono iGoti, mettono a ferro ed a fuoco l'Illirico e ne conducono gli abi tanti inservitù?S.Ambrogio spogliatosidituttoperredimerli, spezza e vende ivasi preziosi della Chiesa :essendochè più preziose, dicealsuopopolo,sonoleanimeredentedaCristo,chenon l'oro e l'argento consecrati al culto divino.Era lo scioglimento pratico per mezzo della carità di quella questione della schia vitù,cui Ulpiano e Pomponio dicevano di assoluto diritto delle genti (2) e che la nuova religione professante la fratellanza universale degli uomini, voleva sbandita dalla terra.Il cristia nesimo infatti ogni volta che vedea aperto ilcampo all'azione, viene attuando gradualmente l'affrancamento degli schiavi,con quella prudenza però che prepara prima la libertà delle anime e delle intelligenze , avanti di procedere alla liberazione dei corpi;poichè questa,se troppo repentina ed ispirata solo da passioni politiche,riesce in pratica egualmente fatale agli schiavi stessi ed alle nazioni che la compiono:gli Stati Uniti d'Ame rica ne vanno ora facendo l'esperienza. Era tuttavia principalmente nell'udienza episcopale,che S. Ambrogio rivelava nelle sue sentenze ilmagistrato cristiano e santo . Costantino, approvando ciò che di fatti già trovava nei costumi cristiani, donò alle decisioni dei Vescovi il medesimo valore giuridico,che ilsenso pratico degli antichi romani aveva ottenuto agli editti del pretore. Con ciò lo stretto diritto civile consecratodalleleggidelleXIITavole,ilqualegià ritiravasi davanti al diritto di natura più ampiamente propugnato dai giureconsulti dell'età classica, cessava totalmente, o meglio si trasformava in quel codice,cui S. Agostino chiamava divina ( 1 ) P a r e c c h i e l e t t e r e d e l s a n t o v e r s a n o s u g l i o f f i c i i, c h e e i s o v e n t e a s s o m e vasi di intercedere presso l'imperatore per le vittime delle enormità fiscali.  (2)... quae potestas (servorum)juris gentiumest;(Ulpian,Insl.I, tit.8)e Pomponio conchiudeva che chi cadeva nelle mani del nemico gli re stava per diritto delle genti suo schiavo.(Tit.49. V. ff.De captivis).  mente emanato per bocca dei principi (1); e che fatto pubbli care da Giustiniano, mentre l'impero d’occidente era distrutto e quello d'oriente minacciato,conserva all'antica Roma la gloria di dominare eternamente,se non coll'armi,col migliore primato delle leggi. Di fianco al diritto civile romano nasceva il diritto ca nonico. La proprietà è resa universale : non vi sono più distinzioni di res mancipi o nec mancipi, di dominio quiritario o per pre scrizione ; non si possiede più secondo S. Ambrogio , in forza della cittadinanza romana, la quale comunichi il diritto di proprietà proveniente dalle conquiste;la fonte d'ogni diritto è Dio, di cui tutti gli uomini sono figli; e che unico padrone della terra, ne dà l'uso a chi legittimamente lo acquista (2). Scompajono egualmente le legillimae nuptiae come contra posto alle justae nuptiae ed al concubinato legale :non si parla più né di confarreazione, né di co -emptio, nè di usus per aqui stare alla donna idiritti matronali e la successione,come figlia al m a r i t o : n o n v i è p e i c r i s t i a n i c h e il m a t r i m o n i o S a c r a m e n t o d e l l a NuovaLegge,simbolodell'unionediGesùCristocollaChiesa:la legge ecclesiastica de determina gli impedimenti,ne prescrive i riti; ed il marito e la moglie si trovano eguali nell'obbligo di vicendevole fedeltà ed amore e nella santa emulazione del bene.«Nessuno,predicava S.Ambrogio,silusinghiappoggian dosi alle leggi umane... non è lecito al marito ciò che non è permesso alla donna (3).» Per misurare ilprogresso introdotto dal cristianesimo,bisogna ricordare ciò che scriveva Tertulliano: * al giorno d'oggi chi si sposa ha già concepito il progetto d i r i p u d i a r s i e il d i v o r z i o è c o m e u n f r u t t o d e l m a t r i m o n i o ( 4 ) . ” La lettera(LX)delsantoarcivescovoscrittaadun talPe tronio ci introduce a contemplare ilsegreto lavoro della Chiesa costituente gli impedimenti dirimenti, per la sempre maggior santificazione della società matrimoniale,cui invano avevan tentato di mettere in onore le Leggi Giulie e Pappia Poppea. S. Ambrogio infatti dissuade con parole severe l'amico dal progetto di contrarre colla nipote:cosa contraria,egli dice, alla legge divina (5). Si crede anzi che la costituzione civile (1) Leges Romanorum divinitus per ora principum emanarunt,cit.dell'Oza- ' nam.Ilquinto secolo,vol.1,pag.188. (5) L'impedimento di consanguineità in linea collaterale è di natura eccle siaslica:S. Ambrogio parla dellelogge divina considerata nelle sae dedazioni.  (2)De Nabuthe Jezraelita,cap.I,III,etalibipassim. (3)D:Abraham.Lib.I,n.26. (4) Apolog. $ 6.   pubblicata da Teodosio il grande circa ilmatrimonio fra i con giunti(1),glifosseispiratadalsantosuo amico,consigliere e padre spirituale.Isuccessori del grande imperatore spaven tati dall'opposizione che l'impudicizia pubblica recava all'ese cuzione di simili leggi,si mostrarono incerti e indietreggiarono ; ma l'impulsoeradatoeilcristianesimo,trionfandodell'immo ralità,si impose poi pienamente anche alla legislazione. Il diritto di vita e di morte, che le leggi delle XII Tavole concedevano al padre sul figlio, era già stato abolito durante ilperiodo,in cui la filosofia stoica,piegandoalsoffio spi rato dal Golgota, moderò tutta l'antica giurisprudenza (2). Costantino arrivò a decretare la pena del parricidio contro il genitore che uccidesse il proprio figlio. M a quanto cammino rimaneva tuttora a fare anche in questa materia per giungere a stabilire un pieno accordo colle imprescrittibili leggi di na tura!Nonsoloilpadre conservava,comegiudicedomestico, ildiritto diinfliggere pene,benché moderate alfiglio;ma esse stesso dettava al magistrato lasentenza, che nei casi più gravi era reclamata dalla disciplina paterna (3).Arroge che l'esere dazionedimorava intattafralesuemani,senzachelacrea zione,fattadaCostantino,delpeculio quasi-castrensee laparte concessa nella eredità della madre, bastasse a sottrarre ilfiglio di famiglia ad una autorità, che, sebben giusta, dee avere essa pure i proprii confini. Che più ? Perseverava ancora il barbaro diritto nei padri di vendere i propri figli: S. Girolamo (4) ci ha conservati i lamenti di una misera vedova,cui ilmarito per supplire all'ingordigia del fisco, dovette vendere i tro figliuoli; S. Ambrogio stesso flagellando l'atroce crudeltà de gliusuraj,introduceunpoveropadreche«usandodellaau toritàconferitaglidallalegge,ma negataglidallanatura» per pagare l'usurajo , da cui ebbe il pane, conduce all'asta i proprii figli ; e con sanguinosa ironia esclama : « o miei figli, pagate le spese della mia gola, soddisfate il prezzo della mense paterna. Voi divenite il mio riscallo eil vostro servaggio ricom pėra la libertà mia (5). » Quai diritti, buon Dio, e quali ese crabili cause li facevano esercitare! Ben a ragione S. Ambrogio prosegue,narrando,chein uncaso simile,all'usurajo,ilquale (1)Leg.5,C. Deincestisnuptiis. (2) Troplong, op. cit. pag.264. (3) Lec. 3. C. lust. de patria potest. (4) In vito Paphnutii (5)De Tobia,cap.VIII,n.20.  voleva approfittarsi della legge ed ostava ai funerali di un cre ditoreimpotente,avevaordinato:siprendessein casailca davere in garanzia del proprio debito ; e ve lo fece traspor tare dal popolo. Con simile legislazione però chi avrebbe osato farsi mediatore per riconciliare coll'inflessibile autorità pa terna un figlio , il quale aveva ardito menare in isposa una donzella, non trasceltagli dal padre? Il diritto romano riguar dava taleatto,comeunattentatocontro natura;poichéla nuora, secondo la legge, diveniva figlia del capo di casa. Ma lacaritàcristianasilasciaguidare da istintidivini:fra Je lettere di S. Ambrogio, la 83.a è appunto diretta a un tal Si sinnio,onde persuaderlo non solo a perdonare ma a ricevere incasaun talfiglioeduna talnuora;eviriusci.Sublime cat tolicità della Chiesa ! Dopo undici secoli circa, fu riproposta ai padri del Concilio di Trento la scabrosa questione del matri monio contratto dai figli di famiglia senza il consenso del pa dre : e lo spirito del santo vescovo di Milano ricomparve nella prudentissimarisoluzionedelSinodoEcumenico.Quella lettera a Sisinnio invero rivela in S. Ambrogio un tatto pratico squi sito:ma insieme qual profonda conoscenza del cuore umano, quanta delicatezza e soavità di sentimenti in quel grande av vezzo a moderar l'animo degli imperanti e a stringer le redini dello Stato;il miele,giusta l'enigma di Sansone,gocciava di nuovo dalla bocca del leone. Le leggi che regolavano le successioni richiedevano pari menti importantimodificazioni.L'antica legislazione era il ca polavoro dell'aristocrazia; esaminando quella ferrea catena di eredi suoi, agnatizii, gentilizii, in fine alla quale non manca vano mai le spalancate fauci del fisco, non si può a meno di ammirare con un senso di sacro terrore quel vigore di con cetto, quella intrepida inflessibilità di logica, con cui per con s e r v a r e i b e n i e d i s a c r i f i z i i n e l l e f a m i g l i e , il l e g i s l a t o r e r o m a n o non indietreggiava davanti alle più inique violazioni dei di ritti di natura. L'equità pretoria vi aveva già portato al certo qualche cambiamento coll'editto:unde liberi;ma ohime!di qnanto poco accontentavasi la sapienza di Cajo e degli altri giureconsulti della setta stoica (1)! Prima però cheGiustiniano si preparasse una imperitura e giusta gloria con quelle leggi sulle successioni, che ancora ( !) A a e j u r i s i n i q u i t a t e s e d i c t o p r a e t o r i s e m e n d a t a e s u n t. ( C a p . I I I . C o m . 2 5 ). Troplong,op.cit.pag.323.    C h e p i ù ? s c r i v e n d o al g i u d i c e S t u d i o (X X X ), il q u a l e lo a v e v a consultato sul modo di comportarsi,quando dovesse pronun ciar sentenze capitali, il prudente ed amoroso vescovo gli in culca con ogni maniera di ragioni l'esercizio dalla clemenza, che deve giungere, esso dice, fin dove vi è giusta speranza di emenda del reo. Lungi però dalle moderne utopie, le quali in nalzando a principio l'abolizione della pena capitale per qual siasi grande malfattore, riescono in pratica a disarmare e con danpare gli innocenti,il santo giurista pone per base la giustizia della pena di morte e raccomanda all'amico la custodia delle leggi, « poichè mentre si leme la spada dei giudici, si reprime e non si stimola il furore dei delilli (3). » La stessa procedura criminale è lucidamente delineata nelle duelettere(VeVI)aSiagriovescovo di Verona.S.Ambro gio lo rimprovera d'aver troppo superficialmente ricevuto l'ac cusa contro la vergine Indicia ; gli fa osservare che nel suo processo trascurò quasi tutti gli argomenti che potevano far prova giuridica in favore dell'accusata ; mentre illegalmente aveva avuto ricorso a testimoniaoze ed atti quanto obbrobriosi altrettanto insufficienti; e gli descrive il modo da sè tenuto per riveder quella causa e cassarne l'ingiusta sentenza.Leggendo quelle lettere scritte nel secolo IV,l'animosicompiace riscon trando i medesimi principii tracciati dal nostro santo, seguirsi 11)Ep.LXXXII cit.n.3. (2 ) C o n f. L i b . V I . c a p . I V . (3)Ep.XXX cit.n.9.VediancheBagnard,op.cit.pag.140eseg. al presente sono la base di tutti i codici moderni , S. Ainbro gio l'aveva non solo preceduto, ma superato con un giudizio, la cui equità sembra oltrepassare i confini di una soverchia condiscendenza.Nella letteradifatti (LXXXII)al Vescovo Mar cello, pel cui testamento eransi fratello e sorella a lui appellati, il santo ci descrive collocate di fronte le due opposte influenze, che si disputavano allora ilcampo delle leggi. La procedura ci vile avanti al magistrato ci appare da una parte irta di inter minabili acontroversie,azioni,recriminazionimolteplici,istanze, cavilli da curiale (1); » la procedura canonica del vescovo dal l'altra tien l'occhio alla giustizia e non alle forme legali, e la stessa giustizia tempera e corregge colla carità. Cosi S. A m b r o gio applicava al diritto civile quella sua massima,che come ci attesta S. Agostino (2), soleva ripetere al suo popolo : la let tera uccide, ma lo spirito vivifica. tuttora dalla S. Congregazione del Concilio,quando trattansi certe questioni, le quali come quella giudicata da S. Ambro gio, richiedono la più dilicata prudenza. Di tal modo l'influenza del Consolare romano si stese su tutti irami della scienza e pratica legale,donando loro.la vitael'amore,che provengono dallacroce diGesù Cristo. Non ci sarà perciò lecito di conchiudere,che il sommo Arcive scovo il quale nelle immense occupazioni del suo apostolato quasi mondiale, trovò tempo e mezzi da gettare le basi di un intera ristaurazione del diritto pubblico e privato, deve essere salutato,come la personificazione del genio cristiano nella se conda metà del secolo IV ? S. Ambrogio infatti ben diverso dai grandi uomini volgari dell'epoca moderna , non studiò gli er rori ed ipregiudizii dell'età in cui visse se non per combat terli:gli avvenimenti stessi più fortunosi non lo scossero: non segui ma trascinossi dietro uomini ed istituzioni, informan doli del suo spirito di forza e di carità":esso pertanto è a tutto rigor di storia,l'uomo del suo tempo. Ritorna quest'anno il quindicesimo centenario , da che il Consolare fu eletto e consecrato Vescovo di Milano.L'impero romano,di cui S.Ambrogio avanti di chiuder gli occhi alla vita vidde le prime strette di morte,è sparito;ed ibarbari che lo distrussero,avendo prestato orecchio più docileallelezioni la sciate dal santo,crearono le nazioni cristiane.A qual punto però siamo noialpresente?Lasocietàprogredisceoretrocede? Immense innovazionionoranoalcertolospiritoumano,che in questi ultimi tempi percorse e scrutò tutti i regni della n a tura, sorprendendone preziosi segreti:esso obbligo il fuoco a servire alle sue industrie , lo aggiogó al carro e traverso la terra;diede leggi al fulmine e lo costrinse a trasmettere ad immense distanze il proprio pensiero.Tuttavia nonostante que ste meraviglie, quale è il diritto pubblico e privato d'Europa e del mondo in quest'anno 1874 ? D i a m o u n o s g u a r d o i n g i r o : il D i o - s t a t o b a r i a l z a t o o v u n que i suoi altari e non vi è governo che non gli abbruci in censo e sacrifichi vittime : e quali vittime ! Sono diverse le forme sotto cui si presenta ilredivivo paganesimo;ma è in forza deimedesimi principii,che essoristaural'anticabattaglia, sperando che il maggior progresso delle scienze fisiche e la maggior forza che ne proviene ai governi,gli daranno di po  IV.   ter questa volta abbattere l'indipendenza della Chiesa , ri durla a servaggio e prepararla alla morte.Dietro al diritto pubblico vien necessariamente trasformandosi il diritto privato ; il matrimonio, qual fu consacrato e reso indissolubile dalla fede cristiana, l'istruzione della gioventù, che deve sottrarsi all'er rore,l'inviolabilità della proprietà sia privata che collettiva, e cento altre conquiste dei secoli cristiani vanno ritirandosi in faccia ad altre conquiste, per antifrasi dette moderne.Si grida progresso: ma basta gridarlo? Frattanto le popolazioni moyon lamenti,simili a quelli che si udivano nel secolo IV,reclamando contro isempre crescenti balzelli;una febbre di ricchezzadi vora gli uomini creati pel cielo; e nello sfondo di un non lon tano orizzonte vediamo avanzarsi il Comunismo , ultima fase del paganesimo,ilquale viene a prender possesso del mondo in nome della logica e della Giustizia di Dio. È in questi frangenti che ilvecchio campione del secolo IV si scosse nella tomba de'suoi quindici secoli e volle rivedere lasuaMilano. Non spetta certamente all'umana ignoranza di indovinare i d i s e g n i m i s t e r i o s i d e l l ' a l t i s s i m o : E s s o c e li m a n i f e s t e r à c o m e e quando crederà meglio.Ma è egli possibile che questo gi gante di santità ritorni fra noi senza una missione degna di sua grandezza ? Il consolante dogma dell'intercessione dei santi ci dà diritto alle più soavi speranze ; poiché la S. Chiesa,e que sta nostra in ispecie,è la vigna già lavorata da S. Ambrogio ; e la sua visita perciò non può portare che frutti di benedizione e di pace alla Chiesa ed alla società.Ambrogio. Keywords: Ambrose and his orchestra, male virgin, virgo, satyr, his brother satyr, san Sebastiano l’eroe romano, l’eroe stoico – cicerone – uffizi – diritto romano – normativa dell’impero, sebastiane, vita di sebastiane, nato a Milano – Derek Jarman, Sebastiane – lingua latina -- --  Refs.: Luigi Speranza, “Ambrogio e Grice” – The Swimming-Pool Library.

 

Ambrosoli (Varese). Filosofo. Grice: “I like Ambrosoli: ‘La filosofia è patrimonio dello spirito e non ha patria; l’hanno, invece, le dottrine e le scuole.’ But then he dedicates his life to Cattaneo – whose ‘patria’ informs his philosophy, as it does in Mazzini and in each philosopher Ambrosoli provided an exegesis for! At Oxford we call such a ‘philosophical historian’!” -- Il Prof. Luigi Antonio Ambrosoli (Varese), filosofo. È stato uno dei protagonisti della storiografia italiana del secondo Novecento. Allievo di Federico Chabod negli anni della Seconda guerra mondiale, si dedicò per tutta la vita alla ricerca storica, coniugandola con un costante impegno civile per la sua Varese.  Laureato in Filosofia all'Università degli Studi di Milano, fu dapprima docente di scuola secondaria, poi preside di scuola secondaria; successivamente fu ordinario di Storia contemporanea presso l'Università degli Studi di Ferrara, quindi presso l'Università degli Studi di Padova e infine preside della Facoltà di Magistero presso l'Università degli Studi di Verona, dove fu anche direttore dell'istituto di storia.  I suoi studi si orientarono particolarmente alla storia del Risorgimento e, nell'ambito di questa, all'opera di Carlo Cattaneo, con esiti unanimemente apprezzati sia per il rigore filologico che per l'acume interpretativo e la ricerca storiografica. Parallelamente contribuì alla ricostruzione della storia dei movimenti e dei partiti politici, con saggi dedicati al movimento cattolico e al movimento operaio e socialista.  Grande fu il suo contributo allo studio del sistema educativo e delle istituzioni scolastiche nell'Italia del XIX e XX secolo, con apporti interpretativi che ancor oggi sono il riferimento per gli studiosi del settore.  Collaborò a "Il Ponte" di Piero Calamandrei, "Belfagor" di Luigi Russo, "Nuova Antologia", "Mondo Operaio", "L'Avanti!", "Critica storica", "Storia in Lombardia". Fu anche fervido sostenitore della nascita dell'Università degli Studi dell'Insubria. 

 

 

Altre Opere: “Varese e il Risorgimento”; “Il primo movimento democratico in Italia” Roma, Edizioni 5 Lune); “La formazione di Carlo Cattaneo, Milano-Napoli, Ricciardi); “Né aderire né sabotare 1915-1918, Milano, Edizioni Avanti!); “La Federazione nazionale scuole medie dalle origini al 1925, Firenze, La Nuova Italia, 1967 (premio Friuli-Venezia Giulia 1969 per un'opera di storia sociale) I periodici operai e socialisti di Varese dal 1860 al 1926.  e storia, Milano, Sugarco); “Libertà e religione nella riforma Gentile, Firenze, Vallecchi); “La scuola in Italia, dal dopoguerra ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1982 La scuola alla Costituente, Brescia, Calzari Trebeschi-Paideia); “Educazione e società tra rivoluzione e restaurazione, Verona, Libreria universitaria editrice); “Giuseppe Mazzini, una vita per l'unità d'Italia, Manduria, Piero Lacaita Editore); “Carlo Cattaneo e il federalismo, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1999 Varese. Storia millenaria, Varese, Editore Macchione, 2002 Ha curato per l'editore Mondadori i tre volumi degli scritti dal 1848 al 1853 di Carlo Cattaneo (1967 e 1974) e per l'editore Bollati-Boringhieri i due volumi degli scritti del «Politecnico» dal 1839 al 1844 (1989).

 

Onorificenze Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana «Su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri» — 2 giugno 1984 Note  Luigi Ambrosoli, ricerca storica e impegno civile , su va.camcom. 16 luglio .  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato, su quirinale. Filosofia Storia  Storia Categorie: Insegnanti italiani del XX secoloStorici italiani Professore1919 2002 15 luglio 20 maggio Varese VareseFilosofi italiani del XX secolo. Ambrosoli. Keywords: ambrosoli – cattaneo – Mazzini – insurrezione milanese – filosofia romana – filosofia italiana – filosofia di varese – ‘La filosofia è patrimonio dello spirito e non ha patria; l’hanno invece le dottrine e le scuole.” Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ambrosoli” --.

 

Amico (Cosenza). Filosofo. Grice: “I like Amico; at the time when a philosopher’s duty was to watch the stars, he noticed that instruments are unnecessary given Aristotle’s conception of concentric orbits – His treatise was highly popular in Padova; therefore, he was killed – I cannot imagine the same thing happen to Ayer at Oxford after the success of his “Language, Truth, and Logic””! Insigne studioso di astronomia, brillante nella conoscenza del latino, del greco e dell'ebraico, abbracciò la scuola di pensiero dell'aristotelismo padovano del XVI secolo. Fu autore dell'operetta  “De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis” (Venezia, Pattavino e Roffinelli). Frequenta lo studium dei domenicani e Padova sotto Vincenzo Maggi, Passeri e Delfino. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non quanto trapela dalla sua maggiore opera. Dalla sua opera si traggono le uniche scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato nell'opera, che fosse cosentino di nascita. Del filone del peripatismo padovano. Membro dell'accademia di Cosenza. Amico fu il primo a mettere in discussione il modello peripatetico tolemaico. L’assassinio d’Amico e provocato dall'invidia della sua filosofia – impicato da un anonimo che compose l'epitaffio : «IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut putatur, virtutisque, invidia, interfectus est [ammazzatto da sicario ignoto per invidia delle sue lettere e virtù. --Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11). Assalito, derubato e ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che seguì accerta che e scomparsa una borsa contenente le carte con rivoluzionarie osservazioni. Subito dopo, l’Inquisizione istitusce un processo postumo per eresia contro lui. Dell'Amico fa menzione Telesio nella sua orazione in morte, ed il filosofo cosentino Aquino che lo define "così grande filosofo”. Cosenza gli dedica, inaugurandolo, il Planetario della città che sorge a 224 metri s.l.m. nel quartiere Gergeri del capoluogo bruzio.  Note  Amico, Giovanni Battista, su Consortium of European Research Libraries,//thesaurus.cerl.org/. 16 febbraio .  amico, giovan battista : d', su OPAC  Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac. Ioannis Baptistae Amici Cosentini de Motibus corporum coelestiu iuxta principia peripatetica sine eccentricis & epicyclis, su OPAC  Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac..Francesco Sacco, Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR. Concetta Bianca, DELFINO (Dolfin), Federico, su Dizionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia Italiana Treccani. Elda Martellozzo Forin, Padova. Istituto per la Storia , Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini Padova, Antenore. 15 febbraio .  Per il testo originale dell'epitaffio si veda Lorenz Schrader, Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, Lucius Transylvanus, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie raccolte Luigi Accattatis, Cosenza, Tip. Municipale, Giovan Battista Amico, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Coriolano Martirano, L'arco di Ulisse. Vita ed opera di Giovanni Battista Amici, Bruttium et scientia, Laruffa, Francesco Sacco, Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR. 15 febbraio . Luigi Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, A. Forni, 1977,  902. 15 febbraio . Mario Di Bono, Le sfere omocentriche di Giovan Battista Amico nell'astronomia del Cinquecento, Centro di Studio sulla Storia della tecnica . Franco Piperno, Da Eudosso di Cnido a Giovan Battista D'Amico da Cosenza, su Università della Calabria, progetto "Divulgare la Scienza Moderna attraverso l'antichità",//lcs.unical/.Noel Swerdlow, Aristotelian Planetary Theory in the Renaissance: Giovanni Battista Amico's homocentric spheres, su Journal for the History of Astronomy,http://articles.adsabs.harvard.edu/. Astronomi e gli scienziati calabresi del XVI-XVII secoloV CENTENARIO NASCITA DI G. BATTISTA D'AMICO, in Provincia di Cosenza,//provincia.cs, Filosofi italiani Professore Cosenza Padova Accademia cosentina. Ioannes Baptista Amicus Cosentinus. Giovan Battista d’Amico. Giovan Battista Amici. Giovan Battista Amico. d’Amico. Amico. L’incipit del nostro “Amico”. Gli anni ’30 del XVI secolo costituiscono una profonda frattura in fisica tra il “prima” e il “dopo”. Gli studi condotti nei due millenni precedenti vanno in direzione del geocentrismo, da Galileo in poi la fisica procede verso soluzioni differenti e l’individuazione del sistema eliocentrico ne e lo snodo fondamentale. Ma fino a quel momento, tutto ciò che costituisce “il prima” parte da Eudosso, Aristotele e Tolomeo. Purbach tenta la fusione tra Aristotele e Tolomeo. Osservando il cielo, si accorge degli errori contenuti nella Tavola di Toomeo. Decide quindi di recarsi in Italia, per consultare direttamente i manoscritti antichi nell’arduo tentativo di re-digere della nuova tavola e più affidabili di quella di Tolomeo, allora d’uso comune in tutta Italia. Purbach insegna a Padova. Prima affina la capacità di calcolo computando una tavola dei seni per ogni minuto primo, quindi redige “Theoricae novae planetarium”. Dal punto di vista tecnico, il testo contiene l’innovazione di svuotare una sfera omocentrica e di aumentare lo spazio in modo tale da far posto agli eccentrici e agli epicicli di Tolomeo. Mette a punto le sue nuove tavola, completandone il controllo attraverso la discussione con i peripatetici veneti ed il confronto con i manoscritti antichi raccolti nelle biblioteche italiane. Ma qualche settimana prima di lasciare Vienna per Venezia, muore. Purbach tenta la fusione tra il sistema del modo omocentrico e quello matematico dell’epi-ciclo. Dopo di lui, vi e Amico, un cosentino, che rilevera l’impresa.  Pochi anni prima la pubblicazione del capolavoro di Copernico, sia assiste a una fioritura di testi dati alle stampe ove le speculazioni sulla sfera omocentrica sono sempre e ancora in primo piano. Il campo della fisica sono ancora troppo giovani per avere strumentazioni sofisticate e la fisica viene dedotta, assumendo, forse presuntuosamente, il carattere di verità. Ma qualcosa si muove. La fisica e la strumentazione progrediscono e gli filosofi stanno procedendo in un processo senza soluzione di continuità che culminerà nel metodo. Nella diatriba si inserisce Fracastoro. Voi certamente non ignorate che coloro che si professano filosofi hanno sempre trovato grandi difficoltà nel rendere ragione dei moti apparenti che presenta la fisica. Infatti si offrono loro due vie per spiegarli: l’una procede mediante l’aiuto di quell’orbita che e detta omo-centrica, l’altra per mezzo di quella che e chiamata eccentrica. Ciascuna di queste due vie ha i suoi rischi, ciascuna ha i suoi scogli. Chi che fa uso dell’orbita omocentrica non arriva a spiegare il fenomeno. Chi che fa uso dell’eccentrica sembra, per la verità, spiegarlo meglio, ma l’opinione che si formano di questi corpi divini è indegna e, per così dire, empia. Essi attribuiscono loro delle situazioni e delle figure che non convengono alla natura dei cieli. Sappiamo che Eudosso e Callippo, i quali tra gli antichi hanno tentato di spiegare i fenomeni per mezzo dell’orbita omo-centricha, sono stati ingannati più volte in conseguenza di questa difficoltà. Ipparco è  uno dei primi che preferirono ammettere l’orbita eccentrica piuttosto che restare ingannati dai fenomeni. Tolomeo lo ha seguito e, subito dopo, quasi tutti gli astronomi sono stati trascinati da Tolomeo nella stessa direzione. Ma contro questi astronomi o, almeno, contro l’ipotesi degli eccentrici di cui facevano uso, la filosofia tutta intera ha sollevato continue proteste. Ma che dico la filosofia? È piuttosto la natura e le stesse orbite celesti che hanno protestato senza tregua. Finora non è stato possibile rintracciare un solo filosofo che acconsentisse ad affermare l’esistenza di queste sfere mostruose in mezzo a corpi divini e perfetti”114. Ci si accorge, con decisione, l’ambito della scienza entro il quale si muovo scienziati, astronomi, astrologi e medici del tempo. La conoscenza maggiore dei classici ha portato una sorta di involuzione del pensiero, rientrato nell’ottica di quanto già affermato in passato, senza apportare grandi e significative migliorie. Da questo punto, invece, pur rientrando nella materia nota a tutti, sarà proprio il giovane cosentino a dare una ventata di innovazione in senso ovviamente relativo.  114 Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis 1535, presentazione. Amico è un filosofo cosentino ucciso in Padova. Della sua biografia si conosce veramente poco: agli esigui dati certi si contrappongono notizie fantasiose e di provenienza dubbia. Tra i primi a dare informazioni sulla sua vita c’è Barrio. Vede la luce il suo poderoso lavoro sulla storia delle città della Calabria, rigorosamente scritto in latino, alle stampe del De antiquitate et situ Calabriae. Il risultato non soddisfa lo stesso autore, il quale decide di emendare quella versione, ma la morte impedisce la prosecuzione di revisione dell’opera. Quattromani inserisce nell’opera postille esplicative. Per arrivare alla pubblicazione definitiva bisogna attendere sino a quando Aceti, dopo un lungo e laborioso lavoro completa l’elaborato con aggiunte e note. Di Amico si legge una sorta di epitaffio nel capitolo dedicato a gl’uomini di Cosenza eccelsi per santità, dottrina e dignità. Per una disamina riguardo le informazioni frutto più di fantasia di qualche erudito locale che di sostanza di fonti cfr. Dalena, Firenze. Thomae Aceti, Accademici Consentini, et Vaticanae Basilicae clerici beneficiati in Gabrielis Barrii Francicani De Antiquitate & situ Calabriae Libros Quinque, Nunc primum ex autographo restitutos ac per Capita distributos, Prolegomeni, Additiones, & Notae. Quibus accesserunt animadversiones Sartorii Quattrimani Patricii Consentini, Romae, ex Typographia S. Michaelis ad Ripam Sumtibus Hieronymi Mainardi, come cita il frontespizio di una delle copie in possesso della Biblioteca Civica di Cosenza (Fondo Salfi). “Vi fu anche Amico, che descrisse i moti dei corpi celesti secondo i precetti dei peripatetici, cosa invano tentata per tanti secoli dagli antichissimi filosofi e se non fosse stato colpito da morte immatura avrebbe affrontato fatiche maggiori. Aceti, nelle note, aggiunge l’epigrafe di Padova, addirittura meno lapidaria del conciso inciso di Barrio. A Padova si legge di lui nel monumento delle epigrafi d’Italia: A Amico, cosentino, il quale, avendo percorso felicemente le discipline tutte di tutte le arti liberali con mirabile ingegno, solerte operosità, incredibile passione,  ucciso da sicario ignoto. Ucciso, come si ritiene, dalla invidia delle lettere e della virtù. Le virtù che ad altri portarono premi e vita perenne, per costui solo furono causa di uccisione. Andreotti, nella sua Storia dei Cosentini, cita il nostro nell’elenco dei componenti dell’Accademia telesiana, presieduta dal grande filosofo bruzio. Vi fiore Amico, nato in Cosenza – educato a Padova – conoscitore sveltissimo della filosofia e della fisica.  fScrisse costui seguendo la teorica peripatetica, “De motu corporum coelestium”, descrivendo tutti i movimenti de’ corpi celesti senza ricorrere, secondo che narra l’Aquino nel discorso su Telesio, per spiegarli a quel movimento eccentrico ed all’epi-ciclo inventato da Tolemeo, quando vuole conciliare la sua opinione della solidità de’ cieli co’ moti de’ corpi celesti. Morì egli in Padova, ucciso --  e non appartenne alla citata Accademia, che nell’epoca in cui per affari di famiglia dimora un anno in Cosenza. La sua opera va così intitolata – Ioannis Baptistae Amici – De Motu Corporum coelestium”. La notizia ricalca, con qualche elemento in più, quelle già incontrate nell’opera del Barrio. Pochi dunque i ragguagli che si possono ricavare. Abbastanza poco è noto sulla sua genesi. Nato a Cosenza, morto a Padova, dove ha studiato, esperto nelle lingue colte, specializzato in metafisica e fisica, ucciso da mano ignota, proprio per la sua capacità filosofica. Capacità, questa che lo hanno portato  a essere membro della appena sorta accademia. Barrio, Antichità e luoghi della Calabria, aggiunte e note di Aceti, osservazioni di Sartorio Quattromani, Roma, trad. it. di Erasmo A. Mancuso, Brenner, Cosenza, presieduta dal ben più noto filosofo Telesio, “illustre cosentino”. La sua presenza in Accademia è quasi casuale, essendo rientrato nella città Bruzia solo quell’anno per affari di famiglia. Al rientro nelle Venezie, trova la morte. Quali informazioni possiamo estrapolare e spremere dalle fonti è veramente poca roba. Il gentilizio è di origine incerta. Il cognome è variamente declinator: Amico, Amici o d’Amico, in quanto nel latino medievale, nel titolo di un testo di utilizza il genitivo per quanto concerne il cognome dell’autore. Pertanto si presume che ‘Amici’ sia genitivo di ‘Amico’, mentre ‘Amici’ sia la mera ripetizione, e “d’Amico” la traduzione italiana *del caso genitive* latino. Per questo motivo , in questa sede si utilizza la forma più semplice. La famiglia ha una sua importanza nel contesto della “città libera” di Cosenza,  potendo permettersi, sia pur con enormi sacrifici, il mantenimento di un proprio membro agli studi in una città, di fama e retaggio culturale ottimi, ma così lontana. I sacrifici si posso ben immaginare, mancando, nella crescita di Amico, il padre, essendo prematuramente morto prima della sua nascita. L’assenza del capo famiglia, nel contesto del XVI secolo, società di fatto a carattere patriarcale, non ha sicuramente giovato nell’ambito dell’economia familiare, essendo assente proprio il fulcro stesso dell’istituzione. Ciò nonostante si può supporre un sicuro benessere, in quanto, anche in assenza del padre, un giovane rampollo di famiglia di ottimati puo permettersi gli studi lontani da casa. Nulla si conosce riguardo la sua formazione cosentina. Di certo, grazie a qualche insegnante, nel corso degli studi del trivio, conosce filosofia. L’ambiente, dopotutto, è quello emerso dal retaggio glorioso della Mégale Hellàs, ove gli studi della filosofia, della scienza, della medicina e dell’astronomia erano, per così dire, all’ “avanguardia”. E anche dopo lo iato medievale. L. Piovan, Amico, Telesio, Doria: documenti e postille, in “Quaderni per la storia dell’Università di Padova”. Dreyer, Boquet e Taton utilizzano la forma ‘Amici’, ma è presente anche la forma ‘De’ Amici’. È a tutti noto che la città di Cosenza non sube mai vassallaggi tipici dell’infeudazione.  --  nuovi impulsi e ritorni agli antichi studi erano senza dubbio all’attenzione della koiné culturale cosentina. Ne è esempio lo stesso Barrio. Nella sua monumentale opera, i riferimenti storici sono in primo piano, così anche è per Fiore e Marafioti, nonché per lo stesso Quattromani. Una ricostruzione culturale ‘amiciana’, estremamente verosimile si deve a Piperno. Le arti del trivio, grammatica, retorica e dialettica, portati a termine nella città brettia gli avevano assicurato la conoscenza attiva e passiva delle tre lingue sapienziali, aramaico, greco e latino. Dopo tutto questo, era partito alla volta del Veneto, di Padova in particolare, per completare, in quello prestigioo studio à, gli studi delle arti del quadrivio, geometria, aritmetica, astronomia e musica, in vista di intraprendere poi, presumibilmente, un curriculum filosofico. In quei tempi l’astronomia era insegnata in funzione della astrologia e questa a sua volta svolgeva un ruolo ancillare a fronte della medicina, arte che pratica la diagnostica delle malattie e ritma l’attività di cura secondo il variare delle configurazioni degli astri nel cielo notturno; insomma la medicina era profondamente intrecciata con il sapere astronomico in una sorta di ‘astroiatria’”. Sono conosciuti però i maestri con i quali Amico ebbe modo di formarsi. È egli stesso a dichiararlo, nella dedica a Ridolfi, introduzione alla sua opera. Questi sono tutti nomi che fanno parte del gotha scientifico-culturale dell’ambiente universitario patavino e non solo. Tra i maestri Amico annovera Delfino, Passeri, e Madio. Delfino è il più celebre insegnante di astronomia e matematica. Tra i suoi allievi, divenuti a loro volta famosi, si ricordano, oltre a Telesio e Amico, Contarini, Piccolomini e Fracastoro. Passeri ricopriva, in quel lasso di tempo, la cattedra di filosofia naturale, è stato l’autore di un commento al “De anima”. A lui si deve l’introduzione di Amico agli aspetti più esoterici e raffinati dell’Aristotele autentico. Sull’ambiente culturale cosentino del periodo cfr. L. De Rose, Cosenza “faro splendidissimo di cultura”. L’Atene della Calabria e i Brettii raccontati da Barrio, in G. Masi, Tra Calabria e Mezzogiorno. Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli, ICSAIC, Pellegrini Editore, Cosenza. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., -- greco; mentre il Madio o Maggi, che a sua volta aveva scritto un commento alla “Poetica”, e già divenuto l’interprete più autorevole della tradizine peripatetica, a lui, ritenuto il “massimo rappresentante peripatetico” si rivolge il Telesio per un giudizio sulla propria opera. Quando Amico arriva a Padova, la sua vita si dipana in due diverse settrici: da un lato la vita universitaria, con i suoi lustri, gli studi i professori, dall’altro la realtà quotidiana, fatta di privazioni (di affetti, di soldi), di solitudine. Non avendo fonti documentate che diano certezze a qualunque ipotesi passibile di verosimiglianza, si deve necessariamente concentrare l’attenzione sul percorso di studi dell’Amico, percorso, forse, neanche compiuto sino in fondo, non essendo stata reperita in alcun modo una pergamena a suo nome. La opera di Amico si incastona nell’ambiente padovano, ricco di stimoli e personaggi, dimenticata dopo la prematura scomparsa dell’autore, che tanta parte avrebbe avuto nella genesi della scienza moderna.  L’Università patavina vive, ormai da tempo, la rifioritura della corrente peripatetica sia per quanto concerne l’astronomia che per le altre scienze della natura – in questo, Padova e il Veneto si contrappongono a Firenze e alla Toscana dove è affermata, senza cesura, una adesione esclusiva al platonismo pitagorizzante. Certo, altre città in Europa, coi loro Atenei, hanno già imboccato la strada che riporta ad Aristotele. Si pensi, ad 122 Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., cit., p. 53. 123 K. M. Pataturk, Opere inedite perché non stampate, né scritte e neppure pensate, Valle Giulia, Roma. Piperno annota tristi particolari di un immaginario quotidiano padovano del giovane cosentino, ricostruito da Pataturk, non credibile e privo di fonti documentarie. L’autore, il più autorevole tra gli storici ponterandoti dell’astronomia [Pataturk n.d.A.], afferma che Amico, durante i lunghi e umidi inverni patavini, usasse lasciar dormire in casa, accanto a sé, sul letto, schiena contro schiena, il suo cane, un massiccio pastore della Sila Grande, che aveva condotto con sé dalle Calabrie – come per proteggersi dalla emarginazione anomica che, ieri come oggi, s’accompagna alla miseria di studente fuori sede squattrinato, in terra veneta. Il particolare può apparire irrilevante, anzi fatuo; e trattandosi di una fonte incerta perché irreperibile conviene lasciarlo cadere. Noi abbiamo scelto di farne uso, perché questa confidenza tra il filosofo ed il cane e considerata una prova per avvalorare una leggenda metropolitana che identifica il cosentino con il castigliano Ruy Faleiro, l’astronomo che, su richiesta del vicentino Pigafetta, aveva sciolto l’enigma del giorno perduto dai marinai della spedizione di Magellano”. Cfr. F. Piperno, Le imprese di Pigafetta, www. UNICAL/ variazioni sul tempo. Il nome di Amico (e in alcuna declinazione) non appare negli Acta Graduum Academicorum Gymnasii Patavicini. Index nominum cum aliis actibus praemissis, a cura di Elda Martellozzo Forin, Antenore, Padova. M. Di Bono, Le sfere omocentriche... -- esempio, a Basilea, Norimberga, Praga, Cracovia e la stessa Parigi. Ma, sebbene questi centri culturali abbiano conseguito risultati ragguardevoli e anche maggiori, nessuno di essi può “stare a confronto, sul piano della varietà di approcci, alla comprensione di Aristotele che si manifesta a Padova e nel Veneto”127. L’Ateneo patavino è campo fertile per l’educazione di astronomi (astrologi), medici e filosofi naturali, nella limitrofa Venezia sorgono, dopo la scoperta della stampa, gli impianti artigianali per l’editoria, che permette a tutti coloro che sono in grado di leggere e ovviamente alle persone istruite “di entrare in contatto diretto tanto con il pensiero dei classici quanto con l’elaborazione teoretica allo stato nascente dei contemporanei – non a caso, sarà nella città lagunare che verranno pubblicate, nel biennio 1536-37, le prime due edizioni dell’Opusculum, malgrado che il suo giovane autore fosse, a tutti gli effetti, un perfetto sconosciuto”128. Il ventiquattrenne cosentino approfitta del particolare contesto storico e, convinto dagli amici Cipriano Pallavicini e Giovan Battista Aurio, quasi certamente a proprie spese, presenta il suo lavoro ai tipografi Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli, i quali, appunto, lo propongono in carta stampata. La ristampa del volumetto, con aggiunte e correzioni, è tangibile prova dell’interesse che suscita l’argomento e di come è stato affrontato dal giovane autore. La Repubblica marinara di Venezia interpreta così il ruolo di collegamento tra le grandi civiltà mediterranee, latina, bizantina e araba; divenendo, per dirla con De Bono, il centro di riferimento obbligato tanto per i commerci librari quanto per i saperi astronomici. Schimitt, L’aristotelismo nel Veneto e le origini della scienza moderna, in L. Olivieri, “Aristotelismo veneto e scienza moderna”, Antenore, Padova. Piperno, Ioannis Baptistae Amici... . Piovan, Giovanni Battista Amico. L’autore documenta come il filosofo cosentino Bernardino Telesio, a Padova nel 1538, si assunse l’onere dell’eredità debitoria di Giovan Battista Amico, saldando una pendenza di venti scudi veneti a favore di un certo Giovanni Battista Doria, d’origine genovese e ritenuto per pregiudizio dedito all’usura. L’entità della somma è tale da supporre che Amico abbia impiegato i venti scudi per pagare il tipografo veneziano che aveva stampato il suo Opusculum. Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche... . Resta insuperato il citato lavoro di Braudel riguardo l’importanza della Serenissima quale coacervo di culture, orientale, mediterranea e del Nord Europa.  91  Limitandoci qui solo ai testi d’astronomia editi a Venezia o nel Veneto, vi sono molte editiones principes degli autori dell’antichità: Arato, Manilio, Aristarco, Proclo, Macrobio, Igino, Marziano Cappella e così via. L’Almagesto di Tolomeo viene stampato, una prima volta nel 1515, recuperando dall’epoca medievale, una vecchia traduzione dall’arabo in latino a cura di Gerardo da Cremona; una seconda volta nel 1528, sempre nella traduzione latina ma questa volta, ormai in pieno Rinascimento, dall’originale greco, per opera di Luca Gaurico. L’editoria veneta degli inizi del secolo XVI non trascura certo le opere astronomiche più recenti o contemporanee: vedono infatti la luce i testi di Alcabizio, Purbach, Bate di Malines, Sacrobosco, Regiomontano e così via131. L’aristotelismo veneto non è una nicchia per accademici, ma una sorta di ideologia filosofica che impregna di sé tanto la comunità dei colti quanto l’attività produttiva. Si ricordi che a Venezia esisteva allora un artigianato altamente qualificato che costruiva le lenti per i presbiti, usando le leggi dell’ottica geometrica riformulate dai peripatetici arabi. Questa trasversalità rende l’Ateneo patavino una tappa prestigiosa per i curricula dei più grandi filosofi naturali che insegnano astronomia; e di conseguenza a Padova convergeranno molti tra i più dotati studenti di astrologia, matematica e medicina, non solo dall’Italia ma da tutta Europa. Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., cit.. L’astronomia del De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentrici et epicicli di Amico Un anno dopo la stampa de Gli omocentrici di Fracastoro132, Giovan Battista Amico pubblica il suo opuscolo su medesimo tema. Che i due astronomi siano debitori alle teorie di Eudosso è lo stesso astronomo cosentino a dichiararlo nei suoi scritti: “Tra gli antichi alcuni si sono sforzati di unire l’astrologia alla filosofia naturale, altri , al contrario, hanno cercato di separare queste due scienze. Infatti, Eudosso, Callippo e Aristotele hanno cercato di ricondurre tutti i movimenti non uniformi, che i corpi celesti ci presentano, a dei collegamenti tra le orbite omocentriche riconoscibili in natura; Tolomeo, all’opposto, e coloro che hanno seguito il suo metodo hanno voluto, andando contro la natura delle cose, ridurle ad eccentrici ed epicicli”. “Gli astronomi attribuiscono i fenomeni che percepiamo, quando osserviamo i corpi superiori, agli eccentrici e a quelle sferette che vengono chiamate epicicli. Ma la loro riduzione di tutti questi effetti a tali cause è pessima. D’altra parte, non ci si deve meravigliare se hanno errato in tale riduzione, poiché, come afferma Aristotele nel primo libro degli Analitici Secondi, ogni soluzione diventa difficile allorché coloro che hanno la pretesa di averla trovata fanno uso di principi falsi. Dunque, se la natura non conosce né eccentrici né epicicli, secondo la giusta espressione di Averroè, sarà bene che anche noi rifiutiamo tali orbite. Noi lo faremo tanto più volentieri in quanto gli astronomi attribuiscono agli epicicli e agli eccentrici certi movimenti che chiamano inclinazioni, riflessioni o deviazioni, che non possono convenire in alcun modo, almeno a mio parere, alla quinta essenza”133. “In quest’opera, forse, non si troverà nulla di completo, ma riterrò di aver fatto abbastanza se riuscirò a eccitare gli spiriti più illustri al desiderio di rendere più chiara questa spiegazione” (Ep. ad card. Nicolaum Rodulphum). 132 Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis 1535. 133 Giovanni Battista D’Amico, De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentris et epicicli, Venetiis 1536, cap. 1 e cap. Frontespizio dell’esemplare conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Prima edizione del De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentrici et epicyclis di G.B. D’Amico, Venezia 1536 94  Nella dedica al Cardinale, il cosentino Amico avverte, con umiltà, l’intento dei suoi studi, confessando, in pratica, la gratitudine che deve a chi lo ha preceduto: i classici greci e latini e i trasmettitori arabi. Nei primi sei capitoli dell’opuscolo, secondo la tradizione, egli compone un breve excursus delle dottrine astronomiche di Eudosso, Callippo e Aristotele, concludendo che l’osservazione millenaria della volta celeste non autorizza a pensare che la natura sia costretta a muoversi per epicicli ed eccentrici. Dal settimo capitolo inizia a declinare le proprie teorie riguardo l’assetto cosmico. Amici, per primo, opera un vero e proprio pensiero critico riguardo le teorie antiche, e sebbene rimanga entro lo stretto cerchio di esse, promuove nuove formulazioni. Il cosentino dimostra dapprima che se vi sono due sfere omocentriche contigue i rispettivi assi perpendicolari tra di loro e se i poli della sfera esterna si muovono da una parte e dall’altra rispetto alla posizione media; se accade tutto questo, allora si vede facilmente che la sfera interna ora accelera ora ritarda. Subito dopo osserva che se i poli delle due sfere formano, più in generale, un angolo di n° gradi e l’uno ruota in verso contrario rispetto all’altro con velocità doppia, allora il movimento complessivo sarà una oscillazione su un arco di 4n° (Fig. 33) – in questo calcolo così elegante il nostro giovane Amico rivela quanto il suo talento debba, nella sua formazione accademica,alla geometria alessandrina rielaborata dagli arabi134.  134 F. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., cit. 95   Fig. 33 Introdotta questa innovazione nel sistema eudossiano, il giovane astronomo può concludere che sono sufficienti quattro sfere per ricostruire i movimenti apparenti del Sole; mentre per i sei pianeti – la Luna secondo la tradizione viene considerata tale — ne occorrono di più. 96  Si evidenzia pertanto una aggiunta di sfere che renda possibile la “salvezza dei fenomeni”, a discapito di un complicazione che già è palese ai tempi di Aristotele, che comporta un numero di sfere aumentato a ottantanove, come risulta evidente nella tabella (3) seguente: Tabella 3 EUDOSSO Saturno 4 Giove 4 Marte 4 Venere 4 Mercurio 4 Sole 3 Luna 3 CALLIPPO 4 4 4 +1 =5 4 +1 =5 4 +1 =5 3 +2 =5 3 +2 =5 ARISTOTELE AMICO 4 +3 =7 16 4 +3 =7 16 5 +4 =9 16 5 +4 =9 13 5 +4 =9 13 5 +4 =9 4 5 55 89 11 26 33 Di conseguenza, il subito solleva una obiezione decisiva alla teoria tolemaica: la Luna di certo non si muove su un epiciclo giacché, se così fosse, non potrebbe mostrare, osservata dalla Terra, la stessa faccia, come invece a noi tutti capita di costatare — secondo la fisica aristotelica un corpo che compia una rivoluzione attorno ad un centro deve rivolgere a quest’ultimo sempre il medesimo lato (Fig. 34). cosentino passa ad esaminare nel dettaglio l’orbita lunare; e 97   Fig. 34 Formulata così l’obiezione, il giovane astronomo si affretta a generalizzarne la portata: anche gli altri pianeti non possono muoversi su epicicli dal momento che i pianeti, corpi intrisi di divina perfezione, devono dipanare i loro percorsi in forme perfettamente analoghe e altrettanto pregne della succitata perfezione sublime. Quattro sfere vengono quindi assegnate a ogni pianeta, in grado di svolgere il ruolo previsto, nella teoria tolemaica, per gli epicicli. La sfera più esterna, detta d’accesso, ha i suoi poli nel piano dell’orbita planetaria e si muove da Nord a Sud con la stessa 98  velocità con la quale si muoverebbe il corrispondente epiciclo tolemaico. La sfera successiva, più interna, presenta dei poli che distano da quelli della prima di un quarto del diametro dell’epiciclo. Codesta sfera adiacente si muove in direzione contraria alla prima ma a velocità doppia. La terza sfera, ancora più interna, detta di recesso, i cui poli giacciono sull’orbita planetaria, si muove da Sud a Nord. Infine, la quarta sfera, la più interna, ha il suo asse a perpendicolo rispetto al piano dell’orbita planetaria e ospita, incastonato, il pianeta su un suo cerchio massimo. La composizione dei diversi movimenti delle quattro sfere dà luogo, di solito, al moto progressivo annuale del pianeta, da Ovest verso Est; come, di tanto in tanto a quello retrogrado, da Est verso Ovest. Solo la Luna, per via della alta velocità della sua quarta sfera, presenterà unicamente il moto progressivo,sia pure appesantito, di tempo in tempo, da un certo ritardo (Fig. 35). Fig. 35.  99  Dopo avere così ricostruito qualitativamente, senza l’uso degli epicicli, tanto la regressione dei pianeti quanto il ritardo della Luna, il giovane astronomo affronta il problema ben più intricato di dar conto della variazioni della durata del moto regressivo planetario e del ritardo lunare. Questo insoluto è risolto con l’attribuzione a ogni pianeta di altre tre sfere poste tra la sfera d’accesso e quella di recesso già introdotte, in modo che venga opportunamente variato l’arco percorso durante il moto retrogrado. Inoltre, per prevenire lo spostamento della posizione planetaria verso latitudine più alte di quelle osservate, introduce altre tre sfere – portando così a dieci il numero totale di sfere per pianeta; e come se ancora non bastasse, per la Luna aggiunge una undicesima sfera destinata a spiegare il moto ciclico della linea dei nodi lunari, l’antico Saros dei babilonesi che si ripete ogni diciotto anni circa135. Malgrado l’evidente complessità del sistema del mondo così costruito, il cosentino si rende perfettamente conto che dieci sfere a pianeta non sono ancora sufficienti a dar conto di tutti i movimenti celesti reperiti lungo i millenni dagli astronomi; e aggiunge così altre sfere, portando alla fine a sedici quelle relative a Saturno, Giove e Marte, mentre per Venere e Mercurio ne basteranno, si fa per dire, solo tredici. L’astronomo inoltre ritiene, non certo a torto, che per procedere a d una previsione numerica, attraverso il suo sistema del mondo, delle posizioni e dei movimenti dei corpi celesti occorre fissare con maggiore precisioni le inclinazioni reciproche degli assi delle diverse sfere; e per far questo si richiedono ulteriori minuziose osservazioni dei sei pianeti e del Sole. Quanto alle stelle fisse, quelle incastonate nell’ottava sfera, bisogna che quest’ultima, oltre alla rotazione diurna sia affetta anche da un altro movimento, chiamato trepidazione, che ricostruisca la lenta precessione degli equinozi – il che, secondo la fisica aristotelica, può avvenire solo dall’esterno ovvero deve esistere una nona sfera che trasmette all’ottava il moto che emana dal motore immobile (Fig. 36). Fig. 36. Si noti che Amico non confronta la sua teoria con le osservazioni astronomiche più recenti, bensì ne fa di sue e si tratta di osservazioni del tutto innovative. Il suo programma è quello di ritrovare tutti i risultati dell’astronomia tolemaica usando il sistema omocentrico piuttosto che gli eccentrici e gli epicicli. Non si pone il problema della correttezza sperimentale delle misure ereditate dalla tradizione medievale. Inoltre l’astronomo cosentino non si rende affatto conto che il suo sistema, pur intendendo fare salva la fisica peripatetica, in realtà le va decisamente contro. La capacità che ha il sistema omocentrico di ricostruire, sommando moti circolari, il movimento rettilineo dei pianeti nella fase di retrogradazione, testimonia che tra cerchio 101  e retta non v’è quella differenza cosmologica affermata dalla fisica peripatetica, secondo cui nel senso che il cerchio appartiene alla perfezione del mondo sopralunare mentre la retta è partecipe del mondo sub lunare, della imperfezione terrestre137. Bisogna aggiungere ancora che l’Amico è del tutto consapevole delle obiezioni alle quali va incontro il sistema omocentrico. La prima si riferisce al fenomeno della variazione del diametro e della luminosità apparente dei sette pianeti; per esempio, la Luna si mostra più grande in quadratura che alle sizigie, il Sole ha dimensioni maggiori d’inverno che in estate, Marte presenta una luminosità variabile con la posizione sulla fascia zodiacale. Questi fenomeni, infatti, sembravano indicare che la distanza Terra- Pianeta fosse variabile; e questo era una obiezione fatale al sistema omocentrico, che richiede appunto una simmetria sferica ovvero la conservazione della distanza. Amici si confronta con questa questione e la risolve spiegando come il fenomeno sia dovuto alla contingenza che l’etere frapposto. tra la Terra ed il Pianeta osservato, non ha una densità uniforme. È necessario indagare questa spiegazione in dettaglio, giacché, malgrado si sia rivelata erronea, contiene un tratto essenziale della nuova fisica, quella basata sull’esperimento e non sull’esperienza. Amici, a Padova ha confidenza con gli artigiani degli opifici i veneziani – dove si lavorano le lenti per correggere miopia e presbiopia – e sa che un oggetto guardato attraverso la lente appare più grande in ragione diretta allo spessore della lente stessa. Egli, quindi generalizza la verità di questo esperimento all’universo nella sua interezza, ponendo alla teoria basi di “ottica empirica”. Di conseguenza i pianeti osservati dalla terra, malgrado si tengano sempre alla stessa distanza, ci appaiono più grandi quando, lungo lo zodiaco, si trovano in un punto nel quale l’etere è più denso. Analogamente la Luna si mostrerà più grande alle quadrature piuttosto che alle sizigie perché in queste ultime il suo forte splendore dirada l’etere che la circonda, sicché noi la vediamo come attraverso una lente più sottile che alle quadrature. L’altra obiezione è più di senso comune ma non per questo meno significativa. Il sistema omocentrico, rivisitato da Amici, resta notevolmente macchinoso. Esso, come mostrato nella tabella numero 3, richiede un numero di sfere nettamente superiore tanto di quello aristotelico quanto dei deferenti tanto degli epicicli tolemaici. Il giovane astronomo, però, rigetta l’obiezione affermando che egli cerca di ricostruire il cosmo così come realmente è, riproducendolo per similitudine su scala ridotta; ed è meno interessato ad un modello che rende sì più facile i alcoli ma comporta movimenti fisicamente inammissibili. Altrimenti detto, il cosentino, pur destreggiandosi assai bene con la geometria solida, si riconosce nella schiera degli “astronomi philosophi” intenti a conoscere la realtà del mondo e non in quella degli “astronomi matematici” indaffarati a formulare previsioni astronomiche quando non astrologiche, sulla base del computo. L’Opusculum si presenta come un trattato moderno, nel senso che il criterio di verità è assicurato dalla corrispondenza tra realtà fenomenica e proposizioni della teoria, e non già, come nella teologia medievale, tra fenomeni e parole della Sacra Scrittura o, andando ancora più a ritroso nel tempo, l’interdipendenza tra teorie scientifiche e filosofico/religiose del mondo antico. Nel mondo amiciano e del secolo della Rinascita Dio è una ipotesi di cui si può fare a meno, e non si trova nell’opuscolo una benché minima citazione biblica. La separazione tra scienza e fede, così tipica della modernità, afferma Piperno, è stata già totalmente interiorizzata dall’astronomo cosentino. L’Opusculum di Amici, come già detto, aveva vissuto una stampa e una ristampa a Venezia,  poi, presso lo stesso editore. E ancora una terza, postuma, questa volta a Parigi, a cura di Guillaume Postel, un intellettuale cosmopolita qualche po’ enigmatico, in bilico tra profezie millenaristiche e rigore scientifico – miscela non insolita per l’epoca. Tre edizioni di rilievo europeo nel giro di pochi anni e poi uno stato di latenza, quasi catalettico. Ssi pensi che il suo libro non sarà citato nella letteratura astronomica fino a quando Dreyer, nella sua classica storia della cosmologia, gli render. -- Amico non scompare del tutto dalle fonti letterarie. Il suo nome, assieme a una sintesi dell’Opusculum appare in molti testi di storia locale quando si ricomincia ad occuparsi di lui in quanto astronomo: cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., -- onore, dedicando all’astronomo nato a Cosenza un intero paragrafo, volto alla rivalutazione della figura e dell’opera di Amici. La ragione del lungo silenzio che avvolge per secoli il nome dell’astronomo cosentino è dovuta al trionfo della fisica di Galileo in Italia. Infatti, appena solo cinque anni dopo l’assassinio di Amico, usce dai torchi di una tipografia di Norimberga, il “De Revolutionibus” di Copernico, canonico della cattedrale di Frauenburg, ben più noto con il nome latinizzato. La diffusione del De Revolutionibus e capillare in tutta Italia, e le copie del libro saranno rieditate all’infinito è in atto la pacifica rivoluzione scientifica, meglio nota come rivoluzione copernicana o di galileo. L’elaborazione dela fisica subisce uno spiazzamento; lo scontro per l’egemonia teoretica non avverrà più tra peripatetici e tolemaici, bensì tra questi ultimi ed i copernicani. Prima si confrontavano due sistemi del modo, entrambi geo-centrici e geo-statici, che si riferivano alla stessa fisica. Oa la competizione va svolgendosi tra il sistema geo-centrico argomentato con la fisica aristotelica e quello elio-centrico bisognoso di una nuova fisica. In questo quadro, Amico sembra avere imboccato la giusta strada ma in direzione sbagliata. In effetti, il filosofo cosentino ha posto la domanda decisiva per risolvere la crisi che agli inizi del XVI secolo attanaglia il sapere astronomico: come riunificare l’aritmetica di Euclide con la filosofia naturale o astronomia. La questione è quella giusta. Ma la risposta – massaggiare il cuore ormai esausto d’ Aristotele – s’è rivelata troppo macchinosa; e dunque erronea. Dreyer, A History of astronomy..., cit. Oltre a questo testo che descrive a grandi linee il sistema amiciano, va ricordato l’articolo di Swerdlow, Aristotelian Planetary Theory in the Renaissance: Amico’s Homo-Centric Spheres, in “Journal of Astronomy”,  e ancora l’importante saggio di Di Bono e i lavori di F. Piperno, qui ampiamente citati. Nato a Thorn, sulle rive della Vistola, terra incognita contesa tra l’Ordine dei Cavalieri Teutonici e il Regno di Polonia; anche lui, come Amico, giunto a Padova, per studiare astronomia e medicina. Mi piace ricordare che ben diciotto secoli prima Aristarco di Samo ha messo in atto la teoria elio-centrica. Copernico, anche lui, si è mosso, in qualche modo, guardando indietro: con l’abissale differenza che i tempi sono ormai maturi. Sulle accuse di empietà mosse ad Aristarco cfr. L. De Rose, Le ragioni dell’etica nei confronti della scienza. Tre esempi in epoca antica, in F. Garritano, E. Sergio, Scienza ed etica, «Ou. Riflessioni e provocazioni». Eppure, sarà proprio quella ricomposizione, cercata e non trovata da Amico, a dar luogo alla scienza moderna e quindi alla modernità tout-court – poco più di mezzo secolo dopo, per opera dei Galilei, toscano tutt’altro che aristotelico, piuttosto intriso di neo platonismo. -- Giovan Battista, astronomo talentato, è morto giovanissimo, ucciso forse senza una ragione, prima di poter portare a compimento il suo destino, forse perché “caro agli Dei”, come vuole la sapienza antica. Non è dato sapere quale sarebbe stata l’evoluzione del pensiero di Amico, il suo destino intellettuale, il suo karma scientifico, se fosse vissuto abbastanza, soltanto pochi anni ancora, da imbattersi nel De Revolutionibus di Copernico. Le cose non sono andate così; e un giovane dal destino incompiuto, ma dall’indiscutibile intelligenza ha potuto solo tentare di dare un senso a teorie che valgono solo dal punto di vista dell’osservatore. Questo è un mondo antico, come direbbe Leopardi spazzato via a guisa di una mera illusione dalla rivoluzione astronomica prima e dalla mentalità moderna dopo. F. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., cit. 146 G. Leopardi, Storia dell’Astronomia, in F. Piperno (a cura di), Arcavacata, Centro Editoriale UNICAL, 2001, p. 18. 105. Keywords: planteario di Cosenza, pianeta, de motibus corporis coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis – motti de’ corpori celesti giusta i principi peripatetici senza eccentrici ma con epicicli”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amico” – The Swimming-Pool Library.

 

Amidei (Peccioli). Filosofo. Grice: “I like Amidei; he knew Beccaria well, and thinks, with H. L. A. Hart, that debtors should not necessariliy go to jail, to which Beccaria famously responded: ‘depends on what you mean by necessarily should’” --  Cosimo Amidei (Peccioli), filosofo. Frontespizio del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori di Cosimo Amidei, ed. Harlem (Paris), 1771. Non si sa quasi nulla sulla biografia di Cosimo Amidei. Figlio del dotore in giurisprudenza Domenico Amidei di Peccioli (Pisa), si laureò in Giurisprudenza all'Pisa probabilmente nel 1746. Per le modeste condizioni della famiglia nel 1739 aveva chiesto di essere ammesso al Collegio di Sapienza, e aveva ottenuto un posto gratuito il 1º novembre 1741,. Stando ad una lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro, Amidei era un magistrato fiorentino, "notaro criminale".  Fra le poche cose certe vi è quella che conobbe personalmente Cesare Beccaria, di cui era un ammiratore e con cui fu in corrispondenza fin dal 1766. Altre opere: “Discorso filosofico-politico sopra la carcere de debitori”; "La Chiesa, e la Repubblica dentro i loro limiti. Concordia discors” -- dell'origine della potestà ecclesiastica -- degli oggetti sopra de' quali si reggira la postestà ecclesiastica -- dell'origine della potestà politica -- del sovrano -- delle conseguenze -- delle cause della forza della potestà ecclesiastica ne' governi temporali. de' limiti del sovrano o potestà politica -- dell'immunità, privilegj ed esenzioni de' beni ecclesiastici -- de' priviolegij ed esenzione personali degli ecclesiastici -- dell'asilo -- del matrimonio -- del celibato -- delle professioni religiose -- del giuramento -- de' benefizj ecclesiastici -- della scomunica -- della proibizione de' libri -- della religione, e della politica. “De' mezzi per diminuire i mendichi.” L'Amidei è noto soprattutto quale autore del "Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori" (1770). Ispirata direttamente dal paragrafo XXXIV del "Dei delitti e delle pene" del Beccaria, l'opera è considerata una delle più importanti espressioni del riformismo e dell'umanitarismo settecentesco. L'opuscolo ebbe immediatamente successo: fu recensito con favore dalle "Novelle letterarie" di Firenze, e dal "Journal encyclopédique"; l'anno seguente ebbe una seconda edizione, con osservazioni di Giambattista Vasco, uscita a Milano presso lo stampatore Galeazzi, e ancora una edizione in testo bilingue italianofrancese. Il testo di Amidei influì certamente sulla riforma leopoldina del 1776, che, per merito del ministro Francesco Maria Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma occorre ricordare come un'analoga riforma venisse promulgata anche in Russia). Nella concezione relativistica delle leggi e nella critica alla legislazione romana dell'illuminismo giuridico-politico toscano di quegli anni, l'opera di Amidei si arricchisce di spunti egualitari rousseauiani (rarissimi ancora nel pensiero illuministico toscano) dai quali Amidei ottiene la giustificazione teorica per l'abolizione della pena detentiva dei debitori. Una nuova edizione dell'opera, apparsa in Firenze nel 1783, è una prova dell'esistenza in vita di Cosimo Amidei nel 1783; dopo di allora, infatti, non si hanno più notizie biografiche certe su di lui.  La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti All'Amidei è attribuita anche un'opera edita poco prima il Discorso sopra la carcere de' debitori, "La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti". L'opera, pubblicata anonima nel 1768, è stata attribuita a Cosimo Amidei a partire dal 1770, anno di pubblicazione del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de debitori. Finora mancano però elementi sicuri per confermare tale attribuzione, attestata solo da alcuni cataloghi di biblioteche e di cui non v'è notizia neppure nel "Dizionario di opere anonime e pseudonime" di Gaetano Melzi. L'opera uscì anonima e senza indicazione del luogo dell'edizione; dovrebbe trattarsi di Pavia o di Firenze. Molti contemporanei ritennero che fosse Napoli, identificando probabilmente l'edizione originale con una edizione ampliata, con falsa indicazione di luogo Amsterdam, sequestrata presso lo stampatore Campo di Napoli; si tratterebbe in realtà di una ristampa contraffatta dello scritto apparsa nella città partenopea prima che fosse posta in vendita l'edizione proveniente da Firenze, e che venne sequestrata per la "sediziosa proposizione" dell'origine popolare della sovranità. Al suo apparire, infatti, per alcuni spunti contrattualistici rousseauiani, l'opera richiamò l'attenzione dell'autorità laica ed ecclesiastica e le vicissitudini di cui fu oggetto sono ritenute importanti per ricostruire la fortuna di Jean-Jacques Rousseau in Italia. A Roma, autore dell'opera fu ritenuto il Beccaria, e nel clima di irrigidimento contro le correnti giurisdizionalistiche e illuministiche che caratterizzò gli ultimi anni di pontificato di Clemente XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769.  De' mezzi per diminuire i mendichi Anche quest'opera, pubblicata anonima nel 1771 senza indicazione di luogo, ma probabilmente a Firenze, è solo attribuita a Cosimo Amidei; ma l'attribuzione risale già ai contemporanei,. L'autore sostiene, in base a una concezione fisiocratica, che il grave problema possa essere risolto solo per mezzo di una riforma fiscale.  Note  Società storica pisana, Bollettino storico pisano 1965300.  Società storica pisana, Bollettino storico pisano 1932517.  Carteggio di Pietro e Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, III (agosto 1769settembre 1770) Milano 1911,  194-195  C. Beccaria, Scritti e lettere inediti, E. Landry, Milano 1910289. Landry segnala quattro lettere dell'Amidei al Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano. Beccaria, B. 231).  Frontespizio di Scritti e lettere inediti del 1910  Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, F. Nevati ed E. Greppi, III (agosto 1769settembre 1770) Milano 1911210  Novelle letterarie, 16 febbr. 1770, n. 7, coll. 103 s.  Journal encyclopédique, 1º giugno 1770314  "Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori", Harlem, et se vend a Paris: chez Molini libraire rue de la Harpe, vis-a-vis la rue de la Parcheminerie, 1771.  F. Venturi, Settecento riformatore, 2. , Torino, Einaudi, 1976237-249  Archivo General de Símancas, Estado Legajo 6102, lettera di Bernardo Tanucci al marchese Domenico Grimaldi Portici 13 dicembre 1768, f. 157 v. Savio, "Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti del sec. XVIII", in Arch. Veneto, s. 5, LXII (1958),  12 n. 2, 31 ss.  vedi lettera citata del Tanucci al Grimaldi  Marco Lastri, Bibliotheca georgica, ossia Catalogo ragionato degli scrittori di agricoltura, veterinaria, agrimensura, meteorologia, economia pubblica, caccia, pesca ecc. spettanti all'Italia, Firenze, 178745  Carteggio di Pietro e Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, III 17661797, Milano 1911.  M. Rosa, AMIDEI, Cosimo, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Cosimo Amidei Collabora a Wikiquote Citazionio su Cosimo Amidei Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Cosimo Amidei  Opere di Cosimo Amidei, su Liber Liber.  Opere di Cosimo Amidei, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  V D M Illuministi italiani Filosofia Categorie: Giuristi italiani del XVIII secoloFilosofi italiani ProfessorePeccioli FirenzeIlluministiAmidei. AMUCO: not found.  AMIDEI, Cosimo. - Magistrato fiorentino, "notaro criminale", stando ad una lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro; dati biografici di lui sono pressoché inesistenti, allo stato attuale della ricerca, se si esclude la notizia di suoi rapporti con il Beccaria (che l'A. conobbe personalmente e del quale fu ammiratore), desumibile da un gruppo di lettere dell'A., del 1766-68, e qualche rapido cenno nella ricordata corrispondenza dei Veri.  L'A. è noto quale autore del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori, s. l. [ma Modena] 1770, che, ispirato direttamente dal paragrafo XXXIV del Dei delitti e delle pene, fu recensito con favore dalle Novelle letterarie di Firenze, 16 febbr. 1770, n. 7, coll. 103 s., e dal Journal encyclopédique, 1 giugno 1770, p. 314.  L'opuscolo è un'interessante espressione del riformismo e dell'umanitarismo settecentesco: esso nella concezione relativistica delle leggi e nella critica alla legislazione romana (partecipe in questo del diffuso antiromanesimo del tempo) si arricchisce di spunti egualitari rousseauiani, rarissimi ancora nel pensiero giuridico-politico toscano di quegli anni, ed anzi proprio dal pensiero di Rousseau ricava la giustificazione teorica per l'abolizione della pena detentiva dei debitori (pp. 22-23 dell'ediz. del 1783).  Non sfuggi ai contemporanei questo contenuto sociale dello scritto di là dall'aspetto giuridico della questione tanto che "persona illuminata" venne richiesta di note al Discorso dell'Amidei. Apparve cosi, presso lo stampatore Galeazzi di Milano, una seconda edizione dell'opuscolo, con osservazioni di Giambattista Vasco che ripropose le sue già note concezioni economico-sociali: Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori accresciuto di note critiche dall'autore de' Contadini, s. n. t. (cfr. recensione in Europa letteraria, I, 1, 1 sett. 1770, p. 101).  L'anno seguente esso fu edito ancora in testo bilingue, italiano e francese, Harlem et Paris 1771; ed influi certamente sulla riforma leopoldina del 1776, che, per merito del ministro Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma sarà da ricordare qui come anche in Russia venisse promulgata un'analoga riforma).  Nel 1783 a Firenze lo stesso A. curò una nuova edizione dell'opuscolo, con aggiunte riguardanti "un nuovo progetto di riforma della Legislazione":l'esigenza di riforma nel campo della procedura penale si articola in un discorso più ampio, di carattere amministrativo ed economico-sociale (sul diritto di proprietà). Nelle critiche rivolte ai già aboliti sistemi dell'Abbondanza e della Grascia, e nella polemica contro le primogeniture e i fidecommessi, già colpiti dalla legge del 1747, dei quali viene reclamata la totale soppressione, è introdotto ancora, a difesa di un libero sistema di economia, il motivo umanitario-egualitario che informa tutto lo scritto (v. partic. p. 58). Il Giornale enciclopedico di Milano, 1783, t IV, parte letter., 24 Ott., n. 17, p. 138, sottolineò il significato dell'opera dell'A., che resta a conferma dell'eco profonda, in Italia e in Europa, di uno degli aspetti del pensiero del Beccaria.  All'A. è attribuita un'opera di poco precedente il Discorso, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, s. l. [ma Firenze] 1768; 2 ediz. ampliata, Amsterdam [Firenze?] 1783. Finora mancano però dementi sicuri per confermare una tale attribuzione, attestata solo da alcuni cataloghi di biblioteche (e di cui non v'è notizia neppure nel Melzi, Diz. di opere anonime e pseudonime).  L'opera, particolarmente importante nell'ambito della pubblicistica giurisdizionalistica del tempo (cfr. Passerin), contiene chiari spunti contrattualistici rousseauiani, che l'autore non sviluppa però in senso antiassolutistico: l'interesse è proiettato invece sui "diritti della Sovranità [che] non si perdono per il non uso, per essere originalmente ne' Popoli", sui diritti dei principi circa sacra e sui limiti che la potestà civile può e deve porre ai privilegi, alle immunità e alle esenzioni della potestà ecclesiastica. Ma gli spunti rousseauiani, pur moderati ed elaborati - e talvolta avversari, come nelle pagine riguardanti il rafforzamento del vincolo sociale operato dal cristianesimo, pp. 135, 151-152 - emergono evidenti, tra l'altro, laddove si discute dei limiti al potere assoluto e si giustifica, in nome dell'uguaglianza fra I sudditi, l'operato del duca di Parma contro Roma (pp. 51-56), e soprattutto laddove si polemizza contro il sistema dei concordati tra autorità statale e S. Sede (pp. 71-80) e contro il diritto di asilo ecclesiastico (pp. 80-86). Un breve cenno, infine, al problema della tolleranza religiosa non ha gran rilievo nell'insieme delle argomentazioni, legate in gran parte, nonostante le suggestioni del nuovo pensiero di cui si èdetto, a orientamenti tradizionali. La seconda edizione accentua, in alcuni nuovi capitoli, la polemica circa il carattere civile, del contratto matrimoniale e quella contro gli ordini monastici.  Al suo apparire l'opera richiamò, per gli spunti rousseauiani, l'attenzione dell'autorità laica ed ecclesiastica e le vicende di cui fu oggetto costituiscono una pagina notevole della fortuna di Rousseau in Italia. A Napoli, per la "sediziosa proposizione" dell'origine popolare della sovranità (cfr. lettera dì B. Tanucci) venne sequestrata presso lo stampatore D. Campo una ristampa clandestina dello scritto (proveniente da Firenze) prima che fosse posta in vendita (11 dic. 1768); a Roma fu ritenuto autore dell'opera il Beccaria e nel clima di massimo irrigidimento contro le correnti giurisdizionalistiche e illuministiche, che caratterizzò gli ultimi anni di pontificato di Clemente XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769. preoccupazione e la diffidenza per itemi rousseauiani dello scritto vennero ancora espresse, a proposito dell'edizione del 1783, da Scipione de' Ricci in una lettera indirizzata al granduca Pietro Leopoldo (cfr. Passerin).  Fonti e Bibl.: Archivo Generai de Siniancas, Estado Legajo 6102, lettera di B. Tanucci al marchese Grimaldi, Portici 13 dic. 1768, f. 157 v. (indica Firenze come luogo di stampa dell'opera; ma molti contemporanei, cfr. Savio, considerarono napoletana l'ediz. del 1768, identificandola con la ristampa); C. Beccaria, Scritti e lettere inediti, a cura di E. Landry, Milano 1910, p. 289 (segnala quattro lettere dell'A. al Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano, Beccaria, B. 231); Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di F. Novati e E. Greppi, III (ag. 1769-sett. 1770), Milano 1911, pp. 194-195, 210; Fr. H. Reusch, Der Index der verbotenen Biicher, II, Bonn 1885, p. 934; E. Passerin, La politica dei giansenisti in Italia nell'ultimo Settecento, in Quaderni di cultura e storia sociale III (1954), pp. 269-270; F. Venturi, G. Vasco in Lombardia, in Atti d. Ace. d. Scienze di Torino, classe di scienze mor. stor. e filol., XCI (1956-57), pp. 41 ss. e nota; Illuministi italiani, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, III, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958, pp. 25 (riporta un passo di lettera dell'A. al Beccaria, da Firenze 6 luglio 1767, riguardante la traduzione del Morellet del Dei delitti e delle pene),1044; P. Savio, Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti del sec.XVIII, in Arch. Veneto, s. 5, LXII (1958), pp. 12 n. 2, 31 ss. Cosimo Amidei. Amidei. Keywords. amidei — implicatura sovrana — implicatura intersoggetiva — implicatura sovresoggetiva — implicatura sovre-umana — implicatura sovrepersonale — hobbes — primo disegno — leviatano — carteggio con Verri — carteggio con beccaria (paragrafo XXXIV — la strada verso l’utopia giuridizzionalistica — la chiesa — the high church of england — Gianni abolisce la carcerazione per debiti — tacitoRefs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amidei” – The Swimming-Pool Library.

 

Anceschi (Milano). Filosofo. Grice: “I like Anceschi; he plays with the idea of dialogue as a mirror (specchio) of ego and alter or ego and tu – I like that. He is the Italian equivalent of John Holloway, I suppose.” Si laurea sotto Banfi, ricopre l'insegnamento di Estetica nella Facoltà di Lettere e filosofia a Bologna. L'interesse per la letteratura e le arti figurative si accompagnò sempre a quello per la filosofia moderna anti-dommatica. Dopo la pubblicazione della sua tesi di laurea  autonomia naturale, heteronomia artistica. “Autonomia ed eteronomia dell'arte” edita da Sansoni, le sue ricerche sulla figura e il modello letterario antidealistici trovarono voce negli interventi pubblicati su “Orfeo”e su “Corrente di vita giovanile” -- riviste da lui stesso promosse.  Sensibile ai nuovi orientamenti culturali, si schierò a favore dell'ermetismo e della neo-avanguardia, affiancando all'attività di teorico quella di critico militante: pubblicò i Saggi di poetica e poesia. Con una scheda sullo Swedenborg e cura le antologie Lirici nuovi, Linea lombarda. Sei poeti e Lirica del Novecento. Della voce “ermetismo” fu autore nell'Enciclopedia del Novecento. Concentratosi sui modelli culturali dimenticati dal Neoidealismo, si dedica ai temi del Barocco, dando alle stampe Del Barocco e altre prove Barocco e Novecento. Con alcune prospettive metodologiche.  Non abbandona mai gli studi filosofici: “I presupposti storici e teorici dell'estetica kantiana”; “Hume e i presupposti empirici dell'estetica kantiana”; “Burke e l'estetica dell'empirismo inglese”; “Da Bacone a Kant. Saggi di estetica”. In particolare in “Progetto di una sistematica dell’estetica e dell'arte” delinea una teoria estetica intesa come fenomenologia della forma naturale e artistica. Sui principi della fenomenologia critica basò tutte le successive ricerche.  Fonda “Il Verri” di cui fu direttore, mentre diresse per Paravia la collana La tradizione del nuovo e Studi di estetica, che raccoglie i risultati delle ricerche filosofiche che egli condusse insieme con i suoi allievi. Per il suo impegno nel tener vivo il fermento culturale di questi anni, gli sarà assegnata a Mestre la prima edizione del prestigioso premio "Amelia" alla "tavola" di Dino Boscarato. Centrali sono i temi della poetica (“Poetiche del Novecento in Italia”; “Le poetiche del Barocco, 1963) e delle istituzioni letterarie (Le istituzioni della poesia”; “Da Ungaretti a D'Annunzio”, Che cosa è la poesia?”. Altre saggi: “Il caos, il metodo. Primi lineamenti di una nuova estetica fenomenologica”; e Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica”. Riceve dai Lincei il Feltrinelli per la Critica letteraria.  Presidente dell'Ente bolognese manifestazioni artistiche, dell'Accademia delle Scienze e dell'Accademia Clementina di Bologna, socio corrispondente dell'Accademia nazionale dei Lincei di Roma, donò la sua biblioteca (circa 30.000 stampati) e il suo archivio personale (oltre 18.000 lettere e migliaia di autografi) al Comune di Bologna; sono attualmente conservati presso la Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio.  Premi Amelia 1965-2005, a cura della "Tavola all'Amelia", prefazione di Sergio Perosa, Venezia-Mestre, 2006,  18-21. Lo stesso anno il premio è assegnato anche "per le arti figurative", a Virgilio Guidi.  Premi Feltrinelli 1950-, su lincei. 17 novembre .  Università degli studi di Bologna, Annuario dell'anno accademico 1995-1996 e 1996-1997, Bologna, Compositori, 1998,  863–865.  Il Verri Giuseppe Pontiggia Salvatore Quasimodo Alessandro Montevecchi  Luciano Anceschi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Luciano Anceschi, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Luciano Anceschi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Luciano Anceschi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Luciano Anceschi, .  Fondo Luciano AnceschiBiblioteca dell'Archiginnasio di Bologna Approfondimento, su ibc.regione.emilia-romagna. 22 marzo 2005 5 maggio 2001). Studi di estetica, su unibo. 18 gennaio  15 gennaio ). V D M Vincitori del Premio Feltrinelli Filosofia Filosofo del XX secoloCritici letterari italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1911 1995 20 febbraio 2 maggio Milano BolognaVincitori del Premio FeltrinelliAccademici dei LinceiAutori del Gruppo 63BibliofiliDirettori di periodici italianiFondatori di riviste italianePremiati con l'Archiginnasio d'oroProfessori dell'Università commerciale Luigi BocconiProfessori dell'BolognaStudenti dell'Università degli Studi di Milano. Sembra proprio che studiare una nozione letteraria voglia dire rendersi conto di ciò che essa ha voluto significare; studiare l'ermetismo vorrà dire vedere come l'ermetismo stesso, in quanto movimento letterario e culturale, ha inteso presentarsi per se stesso nell'attenzione ai motivi di coerenza, ma anche alle interne variazioni e differenze. Qualche considerazione va fatta, per altro, in limine intorno al nome. È noto: l'uso della nozione di ermetismo è frequente nel discorso della cultura per indicare quei movimenti, quelle manifestazioni, quelle situazioni del pensiero e della letteratura, in cui maniere oscure, ardue, chiuse e di comunicazione non diretta esigono, per esser partecipate, e anche solo intese, il possesso di una chiave che pochi sono in grado di adoperare. Il termine ha un'origine storica abbastanza ben definita e che istituisce subito il destino dei suoi significati. Dal nome di  Ermes Trismegisto si disse ‛ermetica' una dottrina di tarda età ellenistica in cui motivi oscuramente mistici di sincretismo filosofico-religioso si fusero con ipotesi di fantastica alchimia, in un tessuto linguistico segreto, ricco di allusioni, di difficile partecipazione. Si consideri anche che a Ermes Trismegisto si attribuisce l'aver chiuso (si disse, appunto, ‛ermeticamente') un'ampolla di vetro mediante la fusione dei bordi delle aperture. Oscurità, chiusura, tono di rivelazione sacra, un insieme di difficili connessioni tra mistica e alchimia, una presentazione immaginosa e immediata di oggetti intellettuali e riflessivi: ecco alcuni caratteri degli scrittori che per primi furono detti ‛ermetici'; ed ermetici, poi, vennero chiamati talora quei movimenti di pensiero occulti, misteriosofici, iniziatici, che spesso si posero in antitesi al pensiero dominante nel secolo, che costituiscono una ormai ben definibile tradizione secolare, continua, e che talora affiorano nella cultura essoterica con singolari sollecitazioni e insorgenze. Con intenzioni inizialmente screditanti, ma il nome venne poi accettato da molti scrittori, ermetismo si disse anche una tendenza della letteratura italiana tra le due guerre, che, venuta dopo l'esperienza dei crepuscolari e gli esperimenti dei futuristi, si distinse nettamente dal rondismo, come corrente dell'ultimo gusto neoclassico, e da ogni genere di ritornante realismo; ed è ciò di cui qui dobbiamo parlare. Ci sono opinioni molto diverse su questo movimento. C'è chi, in una ben definita prospettiva letteraria militante, vede in esso il momento più alto della poesia e del pensiero poetico del secolo nel nostro paese; e c'è chi, movendo da un particolare orizzonte sistematico, accusa la ricerca ermetica di ‛perdita della immediatezza' fino a vedervi intellettualismo e, al limite, una distrazione di giochi verbali; c'è anche chi, secondo un'ispirazione fortemente ideologica, vede in essa un pericoloso e condannabile momento di evasione rispetto al dovere della partecipazione e dell'impegno. Solo un'indagine diretta e particolare potrà definire  il diritto e il torto di considerazioni come queste; e, tuttavia, è difficile disconoscere che si trattò di un movimento influente, complesso, articolato in diverse disposizioni dottrinali e di poetica, con varie stratificazioni di momenti interni secondo una tradizione breve e intensa. Il movimento ebbe vita difficile negli anni in cui si manifestò, trovò una sua forza contro molti oppositori e reali resistenze, giunse fino ad operare sul costume e a cadere in un nuovo Kitsch, si dissolse alla fine della  seconda guerra mondiale, ma lasciò un'impronta viva, e anche un impulso nella cultura della poesia e della critica che, da un lato, è continuato per anni nel lavoro degli epigoni, e che, dall'altro, ha condizionato indubbiamente i modi in cui si manifestarono i movimenti che seguirono. Quanto alle strutture della poesia, forse è riduttivo il considerare l'ermetismo solo come una tendenza della letteratura italiana contemporanea, che, riallacciandosi alle correnti simboliste non soltanto francesi, anzi europee, intende la poesia come esercizio assoluto di linguaggio che in tanto vale in quanto riesce a esprimere l'intuizione lirica nella sua originaria purezza, escluso l'intervento di preoccupazioni didattiche, moralistiche, dottrinali e speculative in una volontà attentamente coltivata e resolutamente diretta al risalto di momenti di intensità e di innocenza; ma è anche riduttivo parlare dell'ermetismo solo come dell'espressione di una rivolta in cui si concreta l'appello orfico-cristiano, religioso, metafisico, negatore della storia, di una storia che si appiattisce di fronte all'assoluto, libero dalle strutture rettoriche, e inteso a propositi soprattutto di rinnovazione radicale dell'uomo. Ritorneremo su queste differenze di pronunzia e sul loro significato; ma, a questo punto, occorrerà ormai rendersi conto e giustificare l'uso della nozione di ermetismo nel contesto della situazione letteraria italiana tra le due guerre e nella individuazione del significato interno del movimento. L'ermetismo va considerato come un movimento europeo o italiano, o puramente ‛fiorentino'? Certo, ci furono aspetti, e li considereremo, della poesia e della poetica d' Europa che si potrebbero dire ermetici o che hanno avuto rapporti con ciò che diciamo ermetismo, anche tali che senza di essi l'ermetismo non sarebbe stato possibile. Uno dei connotati dell'ermetismo è certo quello di aver tenuto aperti i rapporti - se pure in modo limitato secondo una lettura pregiudicata - con l'Europa in tempi difficili; ma una situazione, un movimento di cultura che si siano collocati sotto quel nome si ebbero solo in Italia; trovarono caratteri particolari e individuati; determinarono una singolare, e un poco astratta, cultura della poesia per certi aspetti di rara intensità e inquietudine. Il tentativo di ridurre il movimento solo al gruppo dei ‛fiorentini' dà nel sofistico, o nel riduttivo; non è certo facile tagliar con il coltello una situazione tanto compatta quanto varia; molti fatti si diedero contemporaneamente nella convergenza di letture e di interessi comuni; il ‛gruppo fiorentino' fu certo autonomo per suoi caratteri, ma nella misura in cui portò certi motivi di una generazione nuova in un contesto comune. In realtà, nella prima generazione ermetica in Italia la prima voce fu quella di  Giuseppe Ungaretti. Anceschi. Anceschi. Keywords: ermetismo ed implicatura, grado d’ermetismo dell’implicatura, l’impossibilita dell’implicatura ermetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Anceschi” – The Swimming-Pool Library.

 

Andrea (Ravello). Filosofo. Grice: “I like Andrea, in more than one way!  Andrea made me realise how naïve Russell is with his ‘logical atomism;’ back in Naples, the Accademia degli Investiganti took thing really seriously. D’Andrea, a lawyer, like Hart, -- his claim to fmae is having written an ‘apologia in difesa,’ which I would abbreviate as just ‘in difesa’ of atomism – but my favourite is his unpublication, “Degl’atomi e degl’atomisti”!” Grice: “In Naples, unlike Oxford – cf. Locke and Boyle – it was understood that if you are an atomist you are, therefore, a libertine!” --  Da una ricca famiglia, studia a Napoli. Funzionario del viceré, il duca d'Arcos, a Chieti nel giustizierato dell'Abruzzo citeriore.  Frequenta villa Colonna, dove si illustrano i fondamenti dell’atomismo. Fondatore del salotto degl’InVESTIGanti alla sua villa Iambrenghi a Candela. Difende strenuamente l’atomismo nella “Apologia in difesa degl’atomisti” e nella “Risposta a favore di Capoa”. Avvocato primario del Regno di Napoli, viaggia e partecipa alla vita intellettuale e agli studi in molti salotti filosofici italiani. Cortese, I ricordi di un filosofo napoletano del Seicento, Napoli, L. Lubrano e C., Dogana della mena delle pecore in Puglia Regno di Napoli. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Accademia della Crusca. Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze (home page), pubblicata sotto licenza il rinnovamento culturale del Seicento a Napoli (in occasione del rinvenimento di un manoscritto sconosciuto degli "Avvertimenti ai nipoti") di Stefano Capone, sito della Biblioteca di Foggia, Salottieri. Nacque a Ravello (presso Amalfi), dove la madre si era ritirata in seguito a difficoltà economiche, il 24 febbr. 1625 da Diego, avvocato in Napoli, di buoni natali ma d'incerta fortuna, e da Lucrezia Coppola, del seggio nobile di Montagna. L'infanzia non fu felice, per le "gravissime ristrettezze" della famiglia (Avvertimenti ai nipoti, p. 60), né soddisfacenti gli studi, cui venne avviato fin troppo precocemente. Compiuti sette anni, infatti, fu condotto a Napoli per apprendere la grammatica; a nove fu collocato presso la scuola oratoriana dei gerolamini, ma già ad undici frequentava lezioni di legge, addottorandosi poi nel marzo 1641, appena entrato nel diciassettesimo anno di età.  Egli stesso doveva sottolineare più tardi, nei suoi celebri Avvertimenti, i gravilimiti di quell'affrettata educazione. Nello scritto - che è insieme una sorta di testamento, una autobiografia e il richiamo a un modello di cultura e di comportamenti valido per tutto il ceto forense - ripercorreva le tappe della sua formazione, descrivendola come un lineare progresso dalla "grossa ignoranza", cui sembrava condannarlo l'arretratezza dell'insegnamento e delle professioni giuridiche alle quali il padre l'aveva avviato, verso l'incontro con le correnti di pensiero europee, la conquista delle nuove scienze e una concezione elevata del ruolo dei giuristi nella società. In questo itinerario intellettuale e civile, ben più dei suoi "direttori", di cui lamentava anzi il "mancamento", avevano inciso altre esperienze, personali o comunque estranee ai percorsi tradizionali. Per primo il rapporto con Giovanni Andrea Di Paolo, il solo in città capace d'illustrare le dottrine giuridiche con gli strumenti filologici e sistematici della scuola culta (ibid., pp.86 s.); poi l'impegno, durato oltre un anno dopo la laurea, per "studiar le materie continue e pei loro principi", abbandonando l'impostazione praticistica dominante, che riduceva la giurisprudenza ad un mero esercizio mnemonico o alla lettura disordinata dei decisionisti (ibid., p. 116).  Completata così autonomamente la propria preparazione, cominciò a seguire il padre nel foro e presentò di lì a poco due allegazioni, l'una per la principessa di Casalmaggiore, l'altra per il principe di Pietraelcina, che gli procurarono una certa notorietà ed alle quali rivendicava il merito di aver introdotto nei tribunali napoletani "il nome di Cujacio e degli altri eruditi", insieme con "l'uso di disputare gli articoli secondo i veri principi della giurisprudenza" (ibid., p. 118).  Frattanto a Napoli, avvicinandosi la metà del secolo, con i profondi sconvolgimenti sociali e politici che la segnarono, si definivano le linee di un'iniziativa culturale, promossa da ambienti diversi, sia umanistici, sia tecnico-scientifici, che non restò senza conseguenze sul pensiero civile, né trovò indifferenti, o soltanto passivi, i giuristi e i forensi. Ministri e scrittori di cose legali se ne fecero anzi protagonisti, cogliendovi con prontezza gli elementi di novità che potevano dare consistenza e respiro a un discorso critico sul Mezzogiorno spagnolo.  Di tali sviluppi il D. fu testimone attento, interprete informatissimo, in breve tempo autorevole sostenitore. Grazie ai consigli di Ottavio Di Felice, "un vecchio assai erudito e molto affezionato della nostra casa" (ibid.,p. 119),colmò le proprie lacune nella conoscenza delle "buone lettere"; ammesso poi a frequentare l'accademia di Camillo Colonna, dove s'illustrava una nuova filosofia "non gran fatto molto dissimile da quella che oggi chiamano atomista", vi apprese a respingere il conformismo della dominante cultura ecclesiastica ed il tenace scolasticismo che la caratterizzava (ibid., pp. 120 s.). Fu l'incontro più fertile della sua giovinezza ed egli stesso ne ribadì spesso il rapporto di continuità con le successive esperienze. Le discussioni di casa Colonna costituirono, infatti, il segnale d'avvio di un rinnovamento intellettuale a Napoli, presto dispiegatosi con l'arrivo da Roma di Tommaso Cornelio e l'azione intrapresa da talune accademie, che spostarono energicamente l'accento dai temi letterari o eruditi a quelli scientifici e sperimentali.  Superato, con la guida di Camillo Colonna, il limite di una scarsa dimestichezza con l'arte retorica, tenne intanto con unanime applauso un solenne discorso nella Congregazione degli avvocati di S. Ivone, istituita dai teatini ai SS. Apostoli, e poco dopo, il 10 giugno 1646,la difese in Collaterale, alla presenza del viceré duca d'Arcos, contro la pretesa dei gesuiti di fondarne una nuova. Con questa arringa (Pro Congregatione Sancti Ivonis, edita dal Comparato) egli guadagnò la causa e il favore del viceré, che lo nominò ad interim fiscale di Chieti, dove si recò alla fine dello stesso anno.  Il periodo trascorso in Abruzzo, mentre a Napoli e in tutto il Regno avevano luogo gravi sommosse, dette luogo a dicerie malevole sul suo conto, che lo tormentarono per tutta la vita. Un tardo episodio del febbraio 1682, quando il principe Antonio di Sangro l'oltraggiò in pieno tribunale con l'epiteto di "Masaniello", provocando persino un duello tra il proprio campione, Cesare Mormile, e un nipote del D., Antonio della Marra, lo indusse a scrivere una lunga Relazione de' servizii fatti... nella provincia di Abbruzzo Citra(s.n. t., ma Napoli 1682), per replicare alle insinuazioni di aver parteggiato allora per i popolari e per rivendicare invece il proprio lealismo alle istituzioni regie, sola garanzia di stabilità e di arbitraggio tra i ceti, e gli atti compiuti a difesa dell'ordine sociale e giuridico esistente, ivi compreso quello feudale, che era parte integrante della realtà politica dello Stato.  Tuttavia le "seconde rivoluzioni", che portarono a Napoli alla proclamazione della repubblica nell'ottobre 1647 ed impressero al moto un carattere indipendentistico in un quadro politico più complesso e convulso, lo posero ai margini del conflitto abruzzese, sicché dopo due mesi trascorsi nel convento degli scolopi di Chieti, dove ebbe modo di leggere Cicerone e Campanella, pervenuta infine l'attesa nomina del nuovo fiscale e concluso l'affitto dell'arrendamento del sale nell'estate 1648,partì nel settembre per Napoli, che raggiunse in novembre, dopo un breve passaggio da Roma.  Qui non solo riprese l'esercizio dell'avvocatura, con crescente successo di prestigio e di entrate, ma si adoperò soprattutto per un rinnovamento scientifico e culturale, di cui non a torto il Giannone lo considerò protagonista e promotore principale (Istoria civile, lib. XXXVII, cap. 5; e lib. XXXVIII, cap. 4).Egli stesso sottolineò in seguito efficacemente, in una pagina giustamente famosa (Avvertimenti, pp. 124 s.), il significato della svolta verificatasi a Napoli allora; l'importanza centrale ch'ebbe la diffusione delle opere di Cartesio; il ruolo essenziale di Tommaso Cornelio nel porre gli studiosi napoletani a contatto con il pensiero europeo; l'ostilità che le nuove dottrine incontravano presso i circoli tradizionalisti e la protezione ad esse accordata da taluni aristocratici; infine il proposito che animava i moderni di modificare l'assetto delle professioni, in particolare giuridiche, attraverso un confronto più intenso con le varie scienze.  Il momento era favorevole ad un'iniziativa dei gruppi intellettuali. L'opera di restaurazione, condotta dal viceré di Oñate secondo un disegno assolutistico volto a consolidare l'autorità delle istituzioni regie, prospettava un rinnovato compromesso tra monarchia e ceti privilegiati, deprimeva le aspirazioni della nobiltà più riottosa, maturate nei trascorsi disordini, offriva spazi nuovi e maggiori di presenza politica e di affermazione sociale ai forensi ed ai magistrati. Il D. affiancò prontamente l'azione del viceré e dalla sua paterna cura per il "ristoramento" degli studi ottenne un avanzamento universitario per Gian Camillo Cacace e l'attribuzione a Tommaso Cornelio, nel 1653, della cattedra ripristinata di matematica. Nel frattempo svolgeva una parte considerevole nella breve rinascita degli Oziosi, tra i quali recitò diverse orazioni, in particolare a favore della "novella maniera di filosofare" e per un rapporto più stretto della giurisprudenza con "tutte le altre scienze" (ibid.,p. 125).  La grande peste del 1656, lacerando drammaticamente la vita della città, pose fine d'un colpo agli esperimenti e alle iniziative che si conducevano a Napoli e che vennero poi ripresi, dopo il flagello, con lentezza e difficoltà. Rientrandovi dopo il periodo del "contagio", trascorso nei feudi del principe di Cassano, il D. dovette rinunciare per qualche tempo agli ambiziosi progetti di politica culturale, cui ritornò solo dopo alcuni anni impiegati nell'esercizio dell'attività forense per una clientela sempre più consistente ed altolocata. Si pose infatti in primo piano nelle vicende intellettuali della capitale a partire dal 1663, quando con numerosi scienziati, medici, filosofi, come Tommaso Cornelio, Lucantonio Porzio, Leonardo Di Capua, Giovanni Caramuel e molti altri, dette vita, al primo nucleo degli Investiganti, che prese a riunirsi in casa di Andrea Concublet, marchese di Arena.  Gli orientamenti dell'Accademia sono noti, così come la molteplicità ed eterogeneità dei motivi che vi si agitavano: dal probabilismo allo sperimentalismo, allo storicismo. Altrettanto celebre è l'episodio che ne riassunse simbolicamente il programma e gli inizi: la visita compiuta nell'ottobre 1664, sotto la guida del D., da oltre cinquanta accademici, tra cui numerosi nobili e prelati di rango, al cratere di Agnano, per controllare la fondatezza degli antichi miti, raccogliere materiali da sottoporre all'indagine chimica, far esperimento diretto delle caratteristiche naturali del sito. Tra gli Investiganti il D. ebbe infatti un ruolo cospicuo. Preziosa cerniera tra i novatori e il mecenatismo di una parte almeno della maggiore aristocrazia, non pose nulla in istampa direttamente legato a quell'esperienza, ma di alcune opere fu consigliere ascoltato, di altre fu promotore o dedicatario, intervenne infine sui temi che si dibattevano non soltanto come suggeritore o patrono di opere e di iniziative, o come veicolo d'idee, d'interessi e di libri. Agli argomenti centrali del nuovo sapere - l'atomismo, le leggi del moto, il rapporto tra elementi fisici ed "incorporei" e, sullo sfondo, tra metafisica ed esperienza - dedicò in vecchiaia alcuni lavori, quando l'Accademia era da tempo ormai spenta, ma non cessate le dispute da essa animate, né l'eco che avevano suscitato negli ambienti napoletani, messi in fermento dalle energiche controffensive dei gruppi conservatori.  Nei manoscritti filosofici del D. - affidati, come altre sue opere, a una tradizione testuale non sempre chiarita - possono riconoscersi oggi tre lavori distinti. Il primo è un'Apologiain difesa degli atomisti (Napoli, Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1; esemplare mutilo con correz. autografe), databile al 1685 e prodotto perciò in un periodo difficile nella biografia dell'autore e in una fase particolarmente vivace della dialettica politica e culturale napoletana. Il secondo, la Risposta a favore del sig. Lionardo di Capoa contro le lettere apologetiche del p. De Benedictis gesuita, tradizionalmente assegnato al 1697, ma elaborato a partire dal 1695, risale anch'esso a un momento cruciale, coincidente con la disputa sul S. Uffizio e la conclusione del processo contro gli "ateisti" (l'esemplare migliore è quello della Bibl. naz. di Napoli, ms. I D 4, alle cui cc. 286-317 corrisponde il frammento autografo della Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1; da segnalare anche la copia della Bibl. Angelica di Roma, ms. 1340, fatta eseguire per il card. Passionei dal pronipote del D., Giulio Cesare, nel 1752). Vi è inoltre una seconda stesura della Risposta, preparata tra il 1697 e il 1698 (se ne conoscono due diverse redazioni: Napoli, Bibl. naz., ms. IX A 66; e ms. Brancacc. I C 8).  Scritti di replica o di polemica contro il profilarsi, in momenti di acuto conflitto, anche politico, di una rivincita della cultura "dei chiostri" sulle istanze del sapere moderno, le opere del D. non disegnavano un compiuto sistema, né seguivano fonti univoche d'ispirazione. Adombravano una sorta di filosofia del particolare e del concreto, che si nutriva di salde radici umanistiche e galileiane, proprie della tradizione napoletana, innestandovi gli insegnamenti di Cartesio e Gassendi, talvolta di Spinoza e di altri ancora, secondo un'impostazione che può apparire eclettica o incline al frammento, ma che rispondeva piuttosto al proposito di rivendicare il lascito trasmesso dai novatori al pensiero meridionale, il segno da loro impresso sulla vita morale e civile attraverso lo sforzo d'iscriverla nei circuiti del "secolo della filosofia", di aprirla, nel modo più largo possibile, al movimento intellettuale europeo, d'includere infine nel suo orizzonte i numerosi motivi che lo percorrevano, cogliendone i nodi essenziali e gli aspetti capaci di stimolare più fresche energie. Perciò, guidate dalla consapevolezza dei vasti riflessi della battaglia teorica in corso, esse riaffermavano, contro il dogmatismo ed il verbalismo scolastico imperversante, il metodo sperimentale, l'intuizione della materia e l'ipotesi atomistica, l'indagine storica come criterio di verifica delle autorità.  Comunque l'impresa cui il D. dovette maggiormente la sua fama di studioso e il successo presso le corti di Napoli e di Madrid furono le scritture composte nel 1667 e nel 1676 per respingere le pretese di Luigi XIV alla successione spagnola e contestare le tesi della pubblicistica che lo sosteneva.  Sin dal 1663 il re di Francia aveva reclamato i Paesi Bassi alla moglie Maria Teresa in base al diritto di devoluzione. La contesa si era infiammata via via tanto sul piano politico-diplomatico quanto su quello giuridico e dottrinale. I rapporti tra le corone si avviavano a rottura aperta quando, sul finire del 1666, il vicerè Pietro d'Aragona incaricò il D. di controbattere gli argomenti francesi. Il 28 febbr. 1667 questi sottoscrisse solennemente, alla presenza del viceré una Dissertatio de successione Ducatus Brabantiae (copia a Napoli, Bibl. oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII. 3. 16), che venne subito inviata a Madrid. Tuttavia l'incalzare degli avvenimenti, con l'invasione francese delle Fiandre, seguita nel maggio, e il moltiplicarsi di trattati e libelli per il Re Sole, assieme al ruolo ufficioso rivestito nella polemica, imposero al D. di ritornare sulla materia, sicché nell'estate scrisse febbrilmente una nuova Risposta al Trattato delle ragioni della Regina Christianissima sopra il Ducato di Brabante, con altri Stati della Fiandra (Napoli 1667), che traeva spunto da un Traité anonimo, ma di carattere ufficiale, comparso a Parigi nel maggio dello stesso anno. La medesima Risposta, ritoccata, venne poi ristampata a Napoli con un Discorso e un Discorso aggiunto, di argomento storico-erudito, una appendice contenente la Copia di una lettera... nella quale si dà giudizio della Dichiarazione... del Re Christianissimo, redatta su incarico del viceré de los Velez come replica al manifesto di Luigi XIV per la guerra di Messina e già circolante sotto la data di Roma, 28 genn. 1676, e con altre due lettere di minore interesse (il libro cominciò a stamparsi nell'aprile 1676 e fu diffuso nel marzo 1677, come risulta dalla corrispondenza da Napoli di D. Ronchi; Roma, Arch. Doria Pamphili, fasc. 18.89, 18.90 e 18.91).  Strettamente legati all'occasione politica, gli scritti del D. ne seguirono le circostanze e gli svolgimenti, ma segnarono anche un passaggio di grande rilievo nella cultura napoletana del secondo Seicento. Se i due Discorsi, infatti, si avvicinavano in qualche modo al genere dei "bella diplomatica" che impegnava allora la migliore giurisprudenza europea, la Risposta confutava le rivendicazioni francesi in termini ben più avanzati delle consuete dispute avvocatesche, affrontando il tema della successione nel Brabante alla luce di una ricerca storica e di una meditazione sulle dottrine di Grozio, che la conduceva a individuare nel diritto di natura e delle genti le regole proprie al suo carattere giuspubblicistico. In tal modo rompeva l'isolamento del pensiero giuridico meridionale, lo apriva al confronto con le correnti d'Oltralpe, indicava un metodo storico per l'analisi degli ordinamenti e delle istituzioni che consentiva di determinare la natura privatistica o pubblicistica degli istituti, i loro rispettivi confini ed i fondamenti giuridici delle relazioni internazionali.  Non è dunque un caso se con quest'opera maturò nel D. un orientamento non solo giurisprudenziale, ma più largamente civile, fondato, in politica interna, sulla prospettiva di un accordo di governo tra il ceto intellettuale ed i viceré; sul lealismo spagnolo, in politica estera, giacché quell'impero restava, anche nel suo declino e col suo "genio tardo", atto a conservare più che ad innovare un puntello insostituibile per la pace e la stabilità dell'Europa, condizione per ogni sia pur relativa autonomia del Regno meridionale. Con la polemica sulla successione del Brabante prendeva forza, in sostanza, il difficile tentativo, condotto dal D. con cautele e prudenza, di collegare la battaglia culturale dei novatori alla riflessione e all'azione politica. Da allora infatti, nutrita dalla lezione di Machiavelli e dalle dottrine correnti della ragion di Stato, ma con l'aggiunta di un robusto realismo, che ne costituisce il tratto più caratteristico e originale, la sua attenzione si concentrò per circa un ventennio sulla scena internazionale, dove si decideva lo stesso destino del Regno di Napoli. Il rapporto tra gli Stati, la debolezza e l'immobilismo del sistema spagnolo, e di quello meridionale al suo interno, il dinamismo francese, infine l'emergere, da Napoli poco decifrabile, di altre potenze, divennero così l'argomento principale del suo nutrito carteggio col principe Doria, ed insieme lo sfondo di alcuni interventi forensi e di altri suoi scritti giuridico-politici (le une e gli altri editi ora da Mazzacane).  La familiarità col principe risaliva al 1673, quando dall'ottobre all'aprile 1675 il D. soggiornò presso di lui a Genova, Pegli e Torriglia, a conclusione di un periodo di viaggi guidati da curiosità intellettuali, non meno che da motivi di salute. Afflitto da serie crisi di ansietà e di apprensione, manifestatesi sin dal 1668 ed aggravatesi l'anno dopo con la morte del padre, forte di una solida situazione finanziaria, assicuratagli dalla funzione diavvocato primario del Regno, abbandonò la città poco più tardi, mentre precipitava una crisi nei rapporti politici degli intellettuali napoletani. Infatti se alla sua intesa col viceré d'Aragona si dovette l'avanzamento negli uffici del fratello Gennaro nel 1668 e l'incarico a lui, l'anno successivo, di difendere la "piazza" del popolo contro la nobiltà, tra la fine del 1669 e i primi mesi del 1670 il clima parve profondamente mutare, con la chiusura dell'Accademia degli Investiganti e la partenza da Napoli di alcuni suoi esponenti. Viaggiò per vari anni, con soggiorni più o meno lunghi in diversi centri italiani, raccogliendo consensi e amicizie, approfondendo gli studi scientifici e matematici, partecipando con vivacità alla vita intellettuale deicircoli che frequentava di volta in volta, come dimostrano le importanti lettere a Lucantonio Porzio (Napoli, Soc. napoletana di storia patria, ms. XX.B.24) e a Francesco Redi (Firenze, Bibl. Mediceo-Laurenziana, ms. Laur. Red. 219). Rientrò a Napoli nell'aprile 1675.  Le cronache della capitale, le relazioni degli agenti stranieri, le stesse lettere, spesso settimanali, al principe Doria consentono di seguire minutamente le sue attività professionali e la sua azione civile negli anni successivi. Tuttavia, nell'intreccio contraddittorio di una realtà arretrata, ma vitalissima, nell'accavallarsi di episodi maggiori o anche minimi, nel complicato scomporsi e ricomporsi dei vari "partiti", esse non si prestano a facili interpretazioni e non sono state interpretate uniformemente dalla storiografia. Del resto, qualsiasi lettura degli ultimi anni del D. è collegata con un giudizio sull'intera vita morale del Mezzogiorno durante il declino dell'impero spagnolo e nel profilarsi di una generale "crisi della coscienza europea". Perciò i dettagli di un'aneddotica spesso pettegola, le sfaccettature di un carattere umano incline alla melanconia, altero, ruvido ed anche "bizzarro", non possono esaurire il senso della sua presenza, vigile e critica, nella realtà napoletana di fine Seicento, il suo ruolo di maestro e guida intellettuale, di capostipite anzi di una genealogia spirituale che, attraverso il Biscardi e l'Argento, sarebbe giunta fino a Giannone.  Il governo del Velez segnò il momento di più consistente raccordo con la politica dei viceré e le aspirazioni egemoniche del ceto forense. Ne sono testimonianza eloquente, tra le altre, le scritture già ricordate sulle pretese del re di Francia, cui si aggiunse nel 1682 una Risposta al libro de' Francesi sopra li pretesi diritti del Re Cristianissimo sopra il Regno di Napoli et di Sicilia (Napoli, Bibl. naz., ms. XI.C. 25). A questa rapida "informazione" - una replica al Dupuy cui continuò a lavorare anche senza portarla a compimento - vanno aggiunte le difese in giudizio, sollecitate dal viceré, del marchese de Viso nel 1675, e dei Brancato e del Guaschi a partire dal 1679. Nello stesso anno rifiutò, con Carlo Cito, la designazione per la "piazza" del popolo, e l'episodio dimostra la volontà, e la possibilità tuttora attuale, di mantenere un'autonomia di partito per gli intellettuali e i forensi.  L'ascesa impetuosa di funzionari e ministri, profilatasi da lungo tempo e consolidatasi con l'assolutismo amministrativo del Carpio, spostando definitivamente il peso politico delle due anime del ceto civile, forense e togata, in favore di quest'ultima, divideva i rispettivi interessi e disegni e riduceva le possibilità, per la prima, di porsi con forza propria come centro di mediazione nella dinamica sociale e politica del viceregno. Perciò il D., emarginato e forse anche deluso dagli ambienti di palazzo (già nell'increscioso incidente del 1682 non si registrò né l'appoggio del Velez, né una risoluta solidarietà dei colleghi), si dedicò con rinnovata energia ai propri studi, per rianimare il gruppo disperso dei novatori dinanzi al ritorno in forze dello schieramento cattolico e del più oscuro spirito controriformistico.  Alla fine del 1684 morì il Cornelio e quella scomparsa sembrò segnare la conclusione di un intero ciclo della cultura napoletana, sicché assunse un significato evidente il carico preso dal D. per rivendicare il valore del suo insegnamento e la persistente vitalità della sua lezione. Egli infatti non solo sorvegliò l'edizione delle sue opere inedite, apparsa poi a Napoli sul finire del 1688, ma fece celebrare, nella primavera del 1685, un solenne funerale per il maestro, che ebbe il tono di un appello e di una perentoria riaffermazione di fedeltà ai principi della nuova scienza. Nello stesso anno stese anche la già ricordata Apologia in difesa degli atomisti e ricevette, tra ottobre e novembre, le visite di J. Mabillon e di G. Burnet, che rappresentarono un alto riconoscimento, da parte dell'Europa dotta, del suo prestigio internazionale e del rilievo degli studiosi napoletani nell'ambito del sapere moderno.  Furono tuttavia episodi che non lo scossero da una sorta di doloroso isolamento, in cui si inserirono meditazioni religiose sempre più fitte, d'intonazione etica rigorista, da leggersi comunque in rapporto con alcune scritture, di difficile datazione, dirette a inserirsi nei grandi dibattiti europei di filologia biblica (Napoli, Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII, 4. 1). Di peso più concreto fu invece la nomina, ottenuta dal viceré conte di Santo Stefano, per la carica di giudice di Vicaria, della quale prese possesso il 10 maggio 1688. Egli tornava così sulla scena pubblica, ma attraverso un reclutamento nella burocrazia - sia pur mitigato dalla maggior comprensione del Santo Stefano, rispetto al Carpio, per le ragioni culturali dei novatori - che costituiva di fatto un'ammissione del sopravvento degli uffici sull'avvocatura da parte di chi, come lui, lo aveva sempre avversato, ed ancora sarebbe tornato a negarlo negli Avvertimenti.  Seguì nel luglio 1689 la promozione a consigliere nel Sacro Regio Consiglio, e poi a fiscale della Sommaria, dove s'insediò il 5 apr. 1690: tutti spostamenti che s'intrecciarono con i tortuosi percorsi, e gli intrighi, dei circoli ministeriali di quella vera e propria "Repubblica dei togati", che era ormai diventato il Regno di Napoli per sua profonda struttura.  Le funzioni di governo e le competenze finanziarie dell'organismo di cui entrava a far parte richiesero il suo impegno su questioni economiche di scottante attualità, che egli affrontò con uno spirito di cui è difficile sottovalutare l'originalità e l'importanza. Dalle allegazioni (sono note quella dell'ottobre 1690 sul problema dei pedaggi e dei passi, intitolata Iura pro Regio Fisco…, e l'altra, Ad interpretationem regiarum litterarum quibus fuit declaratum officia quae sunt de regalibus, in sostegno del carattere pubblico degli uffici; entrambe in N. Ageta, Adnotationes pro Regio Aerario, II, Neapoli 1692, pp. 180-96 e 299-328) e dai suoi ripetuti interventi in Collaterale, nel corso del 1691 (Arch. di Stato di Napoli, Collaterale. Notamenti, voll. 75 ss.), emerge infatti un complesso di temi e valutazioni, nei quali prendeva forma una acuta analisi dell'inferiorità meridionale, capace di coglierne la sostanza economica, ed un coerente piano di parziali riforme.  La linea prospettata dal D., spesso ripresa e ampliata nelle lettere al Doria, non può avvicinarsi alla contemporanea cultura mercantilistica. Essa tuttavia conteneva il richiamo, d'ispirazione pragmatica più che teorica, alle esperienze europee più avanzate (olandesi ed inglesi), la denuncia della venalità degli uffici come causa prima delle disfunzioni del sistema spagnolo e della questione beneficiaria come uno dei lacci più pericolosi che soffocassero il Regno, infine l'indicazione di misure concrete sui problemi della moneta, degli uffici, dei passi. Ma la sua perorazione per la libertà dei commerci e le proposte di riforma corrispondenti si arenarono subito, nonostante l'intesa col viceré, per la ferma opposizione del baronaggio. Durante il 1692 si fece perciò più rara la sua presenza nei diversi consessi ministeriali. Nel 1693 fu sostituito in Sommaria e fu giubilato nel 1695, mentre risiedeva a Procida, donde dava vita a un rilancio della sua azione culturale.  Di tale intenzione erano state già segno la collaborazione prestata al Valletta per una scrittura, compiuta in quegli anni, relativa al conflitto accesissimo sulla giurisdizione del S. Uffizio e la stampa della Disputatio an fratres (Napoli 1694), un testo capitale della scienza giuridica di fine Seicento, in cui, con matura sensibilità storica, egli poneva la consuetudine e l'interpretazione giurisprudenziale a fondamento del diritto del Regno e dei suoi svolgimenti. Risalgono inoltre allo stesso periodo alcune scritture e lettere sullo stato politico d'Europa e d'Italia (cfr. l'ediz. Mazzacane).  Le opere dell'ultimo biennio valsero a confermare il suo ruolo eminente tra le avanguardie intellettuali napoletane, sicché non sorprende la visita resagli a Procida dal Santo Stefano a metà dicembre 1695 per concordare un'azione contro l'offensiva curiale e gesuitica in atto, che si esprimeva sul piano e politico e culturale con la controversia del S. Uffizio, il processo agli ateisti, i libelli polemici tra cui spiccavano per ampiezza di argomentazioni le Lettere apologetiche del padre De Benedictis, pubblicate a Napoli nel 1694 sotto lo pseudonimo di Aletino. Ad esse il D. replicò con le Risposte già ricordate, ma nel frattempo nuovi equilibri si profilavano a Napoli.  Altri temi più direttamente incisivi che non gli appelli per la moderna filosofia, si offrivano a costituire il cemento ideologico capace di saldare alleanze diverse tra i ceti e di rimescolarne gli schieramenti. Nella svolta di fine Seicento, dinanzi all'atto di accusa rivolto dagli ambienti cattolici alla nuova cultura e ai suoi progetti di rinnovamento, dinanzi ad un tentativo d'imporre il prepotere ecclesiastico, il ministero togato serrava le fila, si attestava sull'intransigente difesa della giurisdizione regia, assumendola in proprio, senza demandarne la definizione a intellettuali appartati, sia pure di grande prestigio, come il D'Andrea. La sua lezione investigante non poteva più rappresentare la base per un'intesa tra monarchia, viceré e magistrati, stabilitasi invece attorno al giurisdizionalismo, e difatti egli venne del tutto ignorato nelle iniziative del duca di Medina Coeli. Perciò gli Avvertimenti ai nipoti, completati nel 1696 e destinati a una straordinaria fortuna, assunsero spesso il tono di una apologia retrospettiva, pagarono il prezzo della contraddizione tra un modello ancora proposto e il realistico riconoscimento dei cambiamenti avvenuti. Il primato dell'avvocatura come alto magistero per il giurista moderno, argomentato con frequenti tinte neostoiche, e come via regia per acquistare ricchezza e potere, vi si accompagnava all'ambigua ammissione del risalto sociale e politico conseguito dal ministero, ispirando una ricognizione minuta sulle vicende del ceto forense negli ultimi cinquant'anni, che rimane esemplare per profondità ed acutezza di analisi, ma che non può nascondere il fallimento del tentativo di fissare le direttrici ideali per i nuovi gruppi dirigenti.Gli Avvertimenti furono terminati l'anno prima del ritiro a Candela, nei feudi lucani del principe Doria, dove il D. si ridusse per un impulso di solitudine e per curarsi lo stato fisico declinante. Morì a Candela (Foggia) il 10 sett. 1698, di una febbre terzana contratta a Melfi nell'estate. La sua operosità non era venuta meno neppure negli ultimi mesi. Aveva infatti compiuto da poco un Discorso politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna (edito di recente dal Mastellone), che è il suo estremo messaggio agli intellettuali napoletani nella "cupa" finis Hispaniae.  Fonti e Bibl.: Fonte principale sono le notizie autobiogr. sparse negli Avvertimenti ai nipoti, pubbl. a cura di N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento. F. D.,Napoli 1923, con intr., note e append. bibliografica ricche di riferimenti ai documenti ined. e alle testimonianze più antiche. Per le date di nascita e di morte si sono tuttavia preferite quelle indicate da L. Giustiniani, Memorie istor. d. scrittori legali del Regno di Napoli, I,Napoli 1787. pp. 57, 65, confermate rispettivamente dai Registri battesimali della chiesa madre in Ravello e dai documenti dell'Arch. Doria-Pamphili in Roma, fasc. 19.8. Circa l'età in cui iniziarono i primi studi, si è adottato l'uso moderno di considerare l'anno di vita compiuto, anziché quello iniziato. Si è inoltre collocata la laurea nel marzo 1641, seguendo [G. L. Torrese], Diligentissima Neapolitanorum doctorum nunc viventium nomenclatura, Neapoli 1653, p. 99, e G. Corrado, Nomenclatura doctorum Neapolitanorum viventium, Neapoli 1678, p. 21; la documentazione archivistica dell'Arch. di Stato di Napoli, Coll. dei Dottori, lacunosa, ne dà conferma almeno e silentio. L'elenco delle opere edite e inedite e delle lettere finora rinvenute è fornito da A. Mazzacane, I misteri de' Prencipi. Lettere e scritti politici di F. D., Napoli 1986. Tuttavia, manca ancora una soddisfacente ricostituzione dei testi, avviata, per le opere filosofiche, da A. Quondam, Minima Dandreiana. Prima ricognizione sul testo delle"Risposte di F. D. a B. Aletino", in Riv. stor. ital.,LXXXII (1970), pp. 887-916 (ma v. anche A. Borrelli, L'"Apologia in difesa degli atomisti" di F. D.,in Filologia e critica, VI [1981], pp. 259-80). Per il carteggio, due lettere al Redi sono pubblicate e commentate da G. Tellini, Tre corrispondenti di F. Redi, in Filologia e crit.,I (1976), pp. 401-53; numerose altre allo stesso sono studiate da A. Borrelli, F. D. nella corrispondenza ined. con F. Redi, ibid., VII (1982) pp. 161-97; quelle al Doria (ora pubbl. da Mazzacane) sono in buona parte citate ed utilizzate da R. Colapietra, L'amabile fierezza di F. D. Il Seicento napoletano nel carteggio con G. A. Doria, Milano 1981, il quale riassume anche precedenti lavori propri, annota e discute in maniera completa la letteratura disponibile, antica e recente. Di essa perciò ci si limita a ricordare soltanto le monografie e le raccolte di saggi che hanno maggiormente animato, negli ultimi tempi, il dibattito storiografico sull'autore e sul secondo Seicento meridionale, rinviando agli indici per la precisazione delle pagine di diretto interesse: B. De Giovanni, Filosofia e diritto in F. D. Contributo alla storia del previchismo, Milano 1958; Id., La vita intellettuale a Napoli tra la metà del Seicento e la restaurazione del Regno, in Storia di Napoli, VI, 1, Napoli 1970; N. Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico, Milano 1961; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965; Id., F. D. politico e giurista (1648-1698). L'ascesa del ceto civile, Firenze 1969 (alle pp. 183-99 il Discorso politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna); L. Marini, Il Mezzogiorno d'Italia di fronte a Vienna ed a Roma, Bologna 1970; V. I. Comparato, G. Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del Seicento, Napoli 1970; Id., Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti dell'ideologia del magistrato nell'età moderna, Firenze 1974; Id., Retorica forense e ideol. nel giovane D.,in Boll. del Centro di studi vichiani, VI (1976), pp. 41-75 (alle pp. 62 ss. l'allegaz. Pro Congr. S. Ivonis); R. Ajello, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976; Id., Cartesianismo e culturaoltremontana al tempo dell'"Istoria civile", in Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Aiello, Napoli 1980; P. L. Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento, Napoli 1991; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Firenze 1982. ANDREA (Francesco ’)nacquenellaCittàdiRavellonellaCoſta d’Amalfi il di 2.4. Febbraio dell’anno '1625. non già‘nel 162.4. o 1_óz7. come altri fi avvisarono. I suoi genitori furono Die go e Lucrezia Coppola della ſtessa Città', e nobile del sedile di Mon    58 -A N Montagna giusta l’avviso del nosiro autore' (r) . Il Padre , che_ se ne stava in Napoli addetto all’ esercizio del foro , appena ch’ ebbe oltrepassata l’infanzia lo se quivi condurre (a), e di~ anni 10..-affidollo alla educazione de’ PP. dell' Oratorio . F in da quesia tenera età incominciò a dar saggio de' suoi vivaci talenti, ritenendo con iſtupore quanto legger segli facea, e quanto anche da’dotti sentiva , onde il nome gli diedero di maeslro di me moria . La sua educazione però, esser dovea tuttaltra da quella , che gliene diede poi il padre ne’ primi anni di 'sua giovanezza. Egli accorgendosì della vivacità del figli0,non volle metterlo sot to la disciplina degli oggigiorno espulsi Gesuiti per applicarlo ben toſto allo ſtudio della giurisprudenza, anche sul sospetto , che quel li conoscendo i talenti del giova‘netto persuaso lo avrebbero a ve flire le loro lane ,e privar con ciò la sua casa degli avanzamenti, ' che avrebbe potuto sperare dalla sua riuscita ,p Dell’etàdianni12.‘adunquemandollo adiſtudiargiurisprudenza,nien— te iſtrutto di quegli altri ſtudi necessari a ben intendere questa scienza. Buon per lui ch’ebbe_a maestro il tanto celebre Giannandrea di Pao lo,ottimo oratore dique’ tempi, e stato già discepolo di Alessandro ...Turamino Sartese (3): giacchè a dir del nostro autore (4) corse ri ‘schio di esser discepolo di Gio. Domenico Coscia Calabrese, sopranno mato Casciana, uomo grosso d’ingegno , e ſtato già maesiro di Diego suopadre. Fe (i) L0 attesia esso Francesco nell’introduzione de’ suoi avvertimenti. (2)-Eglì ſtesso lo dice ne’ suoi avvertimenti, ove parla della casa Rovito. (3) Nicolò Toppi bibliot. napal. pag. 8. Giangiuseppe Origlia [sud. diNapol. r. a. p. '50. e Pietro Giannone jlor. civ. del Reg. di Napo!. [ib. 34. :0.8. Q. r. in fin. scrivono ,'che quiz/Zi ancorchè Senese d’ origine su Napoletana . Ma-si sono ingannati a partito. Non pochi monumenti abbiamo da potergli reflituir la sua patria. Nel 1604. trovandosi in Ferrara scrisse una lettera al Cardinale Cammillo Borghese in cui scrive: e Neapoli per Tbyr-renum in pan-iam adveäiur-c Nel-1592. dimessosi dalla carica .di uditor di Rota nel {oro di Firenze, venne in Napoli, ed occupò la cattedra di diritto civi le,come appare-dalla letteravindirizzäta a D. Gio. Zunica Vicerè diNa 'poli, impressa nel libro de exaequariane legarorum, pubblicato nel i593. e dall’altra scritta dall'autore a Lorenzo Usimbardo., che fece precedere‘al suo opuscolo sulla L. non puro D.dejimfifri. Neap.1595.in4.enel1594. per morte del Colombino‘passò alla primaria, e tutte le opere , che pose qui a luce le dedicò' a’personaggí del suo paese; tal è quella sana a Giro lamo Cerretano, e Francese* Accarisio patrizj Sanesi , che precede al suo ,opuscolo ad L. fruit—im‘ , S. Papiníanur D. quem. dorperat. impresso nel 1600. E* da leggersianche l’accuratissimo Lorenzo Meho in praes. op”. Tura míni,ëdir.&nen/ir1-770. (4) Ne'suoiavvertimenti. 1 ñ    n, o AN 'gç Fece gli intendereildotto GianandreadiPaolo,quantoeglieramal fondato ne’ primi ſtud; ,e qual bisogno avesse ,per ben. coltivare i suoi talenti nello apprendere la scienza del diritto .Siffatti avverti menti però dispiacendo all’ambizioso genitore , bramandojl più preſto di vederlo esercitato nel foro, nell’età di anni 17. con di spensa volle addottorarlo nell’una enell’altra legge per fargli intraprendere bentoſto un. tal esercizro. Egli non però l’accorto giovanetto volle secondare i desider) paterni . N o n interruppe per ciò dopo la laurea dottorale le sue' affiduc applicazioni nella let tura degli autori latini e greci , tanto prosatori,che poeti. S'in vaghi non poco delle opere di Virgilio , e di Omero , ed anche de’più scelti poeti toscani, per cui avendoci acquiſtata una partico lar passione, com’c’ dice, non potè però giammai vedersi da tan- ’ to a comPorre un *ver/b con'qualchc suo dispiacimento. Queſta ' insinuazione gliela diede peraltro anche il dotto Ottavio di Felice, avendogli fatto comprendere similmente quanto fossenecessariol'ac— quiſto della geografia e cronologia ,senza di cui e’tratto non avreb be un maggior profitto dalla ſtoria, e che ſtato sarebbe ancor per lui molto vanta gioso apprendere qualche cosa di moral filosofia. Colla guida de’ su odati valentnomint giunto all’età di anni zo. in cominciò la carriera del foro, *e ad iſtudiare gli articoli', che oc correano-nelle cause del padre. La prima scrittura,ch' e‘ mandò a ſtampa fu-sull’ articolo eccitato in un litigio del, principe di Ca salmaggiore ,se l’interesse ~di più anni pote'a- eccedere il doppio della sorte principale . Lo spirito di novità con cui mane‘ iol-lo, piacque non poco alConsigliere Arias de Mesa stato diggi catte 'dratìco di Salamanca . La seconda in una causa d’ importanza del Principe d’Aquino col Duca dell’Acerenza per la vendita diGiu gliano, e in risposta di quella fatta da Giulio Caracciolo. M a poichè incominciò a veder da lungi. lavaſtità delle scienze, cad iscorgere qualeabilità ancor naturale richiedeasiñameritare ilnome dioratore,‘moſtrossìsul rincipio Corantoritenuto.diarringarc‘ nelle ruote, che su nella risoluzron di volersi di ’nuovo,rinchiudeñ re ,-se animato non lo avessero i dotti, e poſtogli avanti gli occhi lasuaabilitàesapere.Undiqueſtisuil celebre Cammillo Colonna Signore di somme cognizioni, dandogli de’savsi) precetti, e la notizia insieme di scelti scrittori aformarsi un buÒno e diverso ſti— -le degli altri del foro. Ho ammise i-ndi nella sua letteraria accade-l mia-,che radunava in ogni settimana‘, perfarlo esercitare sì nello* scrivere, che nel parlare alla, presenza' di uomini colti. Queſto c sercizio confessa il noſtro autore che gli su di sommo aiuto, e che .perciò .vedeasinon poco obbligafo aqucſto gran protectorde’gtovani. Indi siascrissealla congregazione S.lvonc.,ove ,recitò_una.suaart-?l 2. zio    60 AN zione in lode di quella is’tituzione; ed avendone riportati univerá sali applausi ,incominciò pian piano ad incoragirsi ,e a deporre quel timore,chel’aveafinallorasorpreso.Quindi trattenendosiunamat tina* nel Collaterale ,in cui doveasi trattare la tanto famigerata cau sa tralla succennata congregazione ,ei PP.Gesuiri, iquali pretendeano -fondarne altra, ed’ essendo ſtato chiamato dal Vicerè Duca d’Arcos il difensore di essa congregazione , non vi' si trovò per allora. Niu no de’ tanti avvocati della medesima,che vi s1 erano radunati vol le esporsi al cimento , ed il solo noſtro Francesco di anni ar. non già. zz. secondo vuole il Giannone (1) si addossò eſtemporaneamente l’in carico,e parlando colla più sop‘rafflna elo uenza , e sodezza di ra— gione ,ancorchè avesse dovuto rintuzzare [avversario Francesco Pra to,che parlato avea in favella Spagnuola’,ne riportò a suo favore siuna compiuta decisione. Queſto dir solea il noſtro autore, esser ſtato un de’ più segnalati punti di sua vita, e il primo passo alla gran fama , che andò dipoi sempreppiù acquistando., Volle il Vicerè crearlo fiscale nella Regia Udienza di Chieti, che vi an ‘dòpoiversolafinedel1646.caricach’e liaccettòmalvolentieri,eche dispiacque e ualmente aglialtriperve ersi allontanato dal foro un giovanedi rffattaesettazione.Egliperòdilàadueannivisireſti tui,'e dopo di ave 1 procacciata della gran vfama nel suo eserci zio insieme‘ con D. Michele-Pignatelli Preside -e governador delle -armióinambedue’le‘provinciedegli'Abruzzi intempi sìmemo rabili di popolari rivoluzioni (z). Seguendo quelle provincie l’esem pio della capitale, quel savio Cavaliere’non trovò più abile Sog getto, che ll giovane'd’ Andrea,onde valersi in fiff‘atte circoſtanf ze a sedare ilfurore dell’insano popolaccio. Tanto nell’eseguire le incombenze del Pignatelli, quanto i nuovi ritrovati da lui, a ben riuscir nell’impresa in vari paesi tumultuati, moſtrò maisem pre una gran saviezza,ed una più che invecchiata prudenza-Chi unque volesse soddisfarsene legga la sua scrittura(ch’ io notcrò nel n. 7.) che conservasi tuttavia *dall’amabile odierno Marchese di Pe scopagano Sig. D. Diego d’Andrea Regio Consigliere di S. Chiara, -e del nuovo Tribunale dell’ Udienza dell’Esercito, Marina ,Caſtel lidiquestaCittà,edell’Alcaida‘to,ilqualgentilmenteme lapassò nelle mani, ond’io tratte avessi lesuccennate notizie. Sa (1) Giannone [lor. civil. del Reg”. di Napo!. [ih-38. cap. 54’431. edizd723. (z) E’ norabìle , che tra i rubelli eranvi in Napoli Vincenzo, e Francesco d’Andrea di altra famiglia ignobile,edessendo ſtatocreatodalpopoloCon figlierediS.ChiaraessoFrancesco,mandataindilañnon degliuffiziali s a m dallo flessoinsuriflo popolo, si credette da taluni, ehegil noſtro Fi -scale d' Andrea fosse stato il promosso ,- qual equivoco su smentito da esso --Miehele Pignatelli'. O 4. u 1    "A N .ci Sarebbe ritornato'in Napoli fin da Luglio 1648. se un ordine della Camera non l’avesse dovuto trattenere sino a Settembre dello ſtesso anno. In qual tempo ripigliò l’esercizio del noſtro foro, e sparse ditanto intalminiſtcroilgrido-disuararacapacitàedeloquenza,ch’ ebbero ad appellarlo ilcomun maeſtro ,e il principe degli oratori (r). ,Il Conte di Ognatte avendo, dinuovo mandato il Pignatelli nelle ſtesse Provincie, ed avendogli data la facoltà di eliggersi que’ mi niſtri.perUditori,che iù—abilie dotti gli sembrassero, eglisulle rime fe'scelta del no r0 d’Andrea: ma `per quante fossero~ state e preghiere fattegli da quel Cavaliere , non volle avvedutamente interrompere altra volta il corso dell’avvocheria per non essergli, com’ e’disse,nè di utile, nè di decoro. Nell’anno 1656. accaduta in Napoli quella fiera peſtilenza, sotto il governo del Conte di Caſtrillo, cedescrittaci da parecchi noſtri ſto rici (2.), volle il Principe di.Cassano seco condnrlo ne' suoi stati nella Calabria Citeriore . Indi cessato il contagio fatto rrtorno in N a poli, trovò quasichè tutti morti -i professori del noſtro foro. Per la scarsezza adunque di queſti, e più ,per la sua 'abilità ;'se gli ac crebbe ditanto il numero de’clientoli,che tempo non reſtavaglia riſtora'rsi dalle tante gravi applicazioni,asegno che incomincio ad infaſtidirsidi sua professione, e a contrarre delle varie indisposizio - uelle di,Antonio Gomez,e di Domenico Bracati:il primo inqui q sito di capital delitto, l’altro di menomato. zelo verso del suo So _vrano. L’uomo quanto ‘eradotto, altrettanto ancor fortunato. Egli ebbe a perorarle,laprima aVanti del-Vicerè Cardinal d’Aragona ,l’al tra avanti del VisitatorCasati, uom coſtui rigidissimo pe’diritti del suo Sovrano; e nulladim`eno~ne riporto compiute vittorie, ed alla gran gloria,chevenne adacquiſtarsiconsiffatti patrocini,ne ,otten ne ancor delle buone' somme, che' a larga mano gli diedero i rei. Circa queſti tempi essendosene` morto Diego suo‘genitore,edavanza te più le sue indispofizroni,risolvette' nel 1669.‘di fare 'un viaggio per la noſtra Italia (3), a ffi n di ricuperare la quasi cadente dlhîi sa .-~ t — ` -î- 11-.... (i) Vedi il dotto Caſtelli adjeéiio”. 'ad Cart-aber” part. l. say-'l, n.34. et 35. Francesco Maradei prati:.` universal. proceflur execufi-vi cap. a. n. 64.1). 64. (z) Vedi il.P. D. Carlo Francesco Riaco :Jil giudizio `di Napoli csi/'sussidi‘ \ ni ed acciacchi sulla propria salute. ñ " f- Le prime cause , che difese dopo il ritorno dalla (Calabria, siiron passato conteggio cet.,ln Perugia [658. in 3. e il .Ragguaglio della mirato losa protezione di S. F rancesco Saverio *ver-fit la Città e il Regno di Napoli ì nelcontagiodel1656.d’incertoautore,ma senzafallo_Gesuita,inNapo— - ii, e in Gratz nel 1660. e di nua-vo Napoli .x743. inps. Parrino teatro de' Vic”) di Napoli t.2. Pag. 191. edi-z: [77_0- . _ . `, ›_~. (3) Vedi il noflro, autore negli avvertimenti a’suot mp0” 5. i. l. O ' '6:- AN lute . Egli girò per lo spazio di anni quattro, e luogo non vi .su j ove giugnesse,ch’ esatti non avesse i piu alti applausi esegni di ri spetto e venerazione. lo tralascio a far parola di que’ favolosi rac conti e del m o d o , 0nd’ egli viaggiato avesse per diverse parti dell’ italia; poichè ſtiam pur nella certezza d’ essersi fatto dappertutto conoscere,e dappertutto ancora esige atteſtatì diſtima ediammi razione . ln var} tribunali a preghiere de’ più grandi del. luogo, eb be a sar sentire la sua eloquenza, e donde partiva lasciava negli animi di tutti segni di affezione. Grandi furono gli onori, ch’ egli esigettc in Firenze (i) e in Perugia, che in occasion di sua par tenza composero i Perugini la seghente raccolta intitolatas Affet ti ossequiosì delle Muse di Perugia nella Partenza del Signor Francesco d’ Andrea Napoletano; In Perugia 1672.. in 4. Nell’ anno 1672.. alle cantinue preghiere de’ suoi illuſtri clientoli, e dello ſtes’s’o Vicerè, come si dice , ebbe a ritornare in vqueſta Ca pitale, e ripigliare per la terza volta l’esercizio del foro. Ella è coſtante tradizione,ch’vogni qualvoltadovea perorare,radunavansi i più dotti di queſta noſtra Metropoli, e con essi gli eſteri anco ra (z). Il celebre Giovanni .Mabillon (3) calato in italia nel 1685. col carattere d’ Inviato del Re di Francia per visitare le noſtre bi blioteche ed -antichità,dice di averlo ascoltato non seme! in Mist fn principîs Satriani magna cum eloquentiae flumine et fulmine Perorantem (4), ancorchè perallora- fosse già di anni 60. Dice Pietro Giannone (5).,,ch’ egli fosse stato il primo a sar risonare il nome di Cujacio,~-e di altri eruditi scrittori nelle sue aringhe . Autorità che' venne abbracciata dal Giannelli (á) ,e dal Grimaldi (7) avvisandoqueſt’ultimo,`che‘fosseſtato ilprimainn-adattaredelle operedelfamoso'anacio(8);Ma sÎingannaronosull’autoritàdellostes ... lb‘7 y .- :l_. (i) Vedi le opere di Franc-,eseqRedi rom. 2. pag. rzt. e rom. 4. pag, 63. (z) Vedi Tommaso- Burner lnglese nel *viaggio d’Italia, l'autore dell’epi/iol. de ”He ín/Zímendfl academ., ad Lam. Prism” Venet. 1709.7. 21. e la vita, che ne scrisse Biagio Majoli A'vitabile impressa nelle ”ire degli Arcadí ì] ~~iilvh to 1- p ' (3) E’ troppo noto nella 'repubblica delle lettere queſto erudítislimo scrittore ~nato ‘in S. Pierremont nella Diocesi di Reims nel 163‘2‘. 'ed _entrato nella Cangregazionej di S. Mauro l’afluò- tanta gloria colle sue opere . Vedi . h Cei-f. biblioteque -hi/Ìarique army”: du .Am/mm' de 'la Congregalìon a': S'.Maw., Ruinart ‘vita Mobil!. ‘ (4) Mabillon im' Ita/ir. p. to;.‘~ - (5) Giannone islar. civil. [ib. ;8. cap. 4. ' , › ì -ñ ñ (ó) Giannelli editi-azione 'al figlio cap. 26. p. 230." (7) Ginesio Grimaldi isl_aría del/_e leggi {Magi/Ira” del Reg. di Nflp.t.x.p.106. (8) Vedi le notizie :siam/ae degli A m d : mom' , tom.- a. p. 14. a z-r.  z” ~ f ,-- _.—,__ì ..IN-M,... _._ñ- `_ . j l'-ó—. ñ -‘ ñ ó**Lt-ñ.: ax-   LA N 63 so nostroFrancesco avendo volutodarsi un talvanto negliavverti mentiassuoiscrivendo:Iofuiil rima,chefecisentirene’no/Ìn" tribunaliil”urnediCujacio,e eglialtrierudiri.Ma chiunque rivolgesse inostri scrittori legali,che gli fioriron d’ innanzi ,vi rat troverebbe spesso nelle opere loro i nomi'di tutti quegli autori,che surseroda Andrea Alciati fino algranCuiacio(I).Se questi sivalea— no nc’ loroscrittì delle autorità -di tutti que’ dotti interpreti ,parte Italiani,veparteOltramontani,come puòcredersi,cheperorando ne’ tribunali sentir non facessero anche iloro nomi. Questa gloria, chevolledarsiilnostrod’Andrea,nonsapreicomescrbarcela. .i Che da’ suoi tempi incominciata fosse.un epoca più felice ,per un cet. tomodo introdottodalui.nelloscrivere,eadisputargliarticoli, nongià‘secondoil ocogustode’precedentisecoli,ma iustale regole della ragion civile ,e delle nostre municipali leggi ,e sì quel vanto che merita assolutamente il nostro autore. La storia e la cri tica,mezzi valevoli a ben intender le leggi, per quanto potè l’in trodusse,-siccome'osserviamovnelle prime allega'zioni‘,ch"e’scrisse, e raccolte poi dal Moccia, e dal Staibano . e ì . - Egli s’impe nò,che.la giurisprudenza s’inse nasse anche con miglior metodo e’ erudizionc nella noſtra Univer lfà .'Si adoprò similmen te, che la cattedra di matematica si occupasse da Tommaso Cor ' nelio gran filosofo e medico’ di quel tempo , ch’egli venir fece da Roma nel1649.,quegliſtessoche*introdussepoitranoilevopere del celebre* Renato des Cartes,e volle-annoverarsi trai primi suoi ascoltatori . F e riſtabilire la .cattedra- di lingua greca con darsi al dot to Gregorio Messeri verso il1687.. come anche indusse Gio. Batiſta Cacace ad insegnare la rettorica, nel tempo -ſtesso ch' egli era pro fessore d’ iſtituzioni -civili ,'mancandovi una-tal cattedra nella Uni vcrsità degli ſtud) , ch’ indi fu eretta , e conferita ad Antonio Orlan dino. Fece ancor risorgere ñl’accademia degli Oziosi (a),e fu uno de’ fondatori delle accademie degli Oscuri .(3) de’ Razzi (4.) , ‘de gl'I/zveſtiganri (5), e venne asgritt’o alla generale adunanza ‘d’Ar .: , . .aaca ‘(t) Osserva il mio leggitore le opeíe di Francescantonio d’Adamo, di Vince zo_ Alfani , di Domenico de Rubeis, cet-’per res’tar‘ persuaso- di quel che i è da me afferiro. - ' . . v (z) Nell'anno 1611.‘ Gio. Batìſta Manzo Marchese di Villa' iſtitui‘ una tal a c c a d e m i a .‘ Vedi G i u l i o C e s a r e Capa c c i o m i s u r a / f i e r e p a g . 8 . e 9 . e d g b be il`suo principio addì 3. Maggio ne’chiolii’i di S. Maria delle Grazie... presso S. Agnello . Vedi Tommaso Coílo memoriale de’succejji del Regno p di Napo/ì, in detto anno, 16”. g‘ (3) Nel M79. su eretta l’accademia degli Oscar!. (4) Nell’ anno ſtesso surseì'quell’ altra accademia sotto nome de’ Razzi . (5) Quella celebre adunanza iſtituìta anche nel 1679. venne protetta da D. - Ao    ~› e cadiacolnomedi'Lariscasafl’o. \* -'- ‘Egli adunque ambiva ‘di riformare il guſto del foro. e della cattedra” e fe de’ sforzi a riuscirci .-Per quanto potè moſtrossi protettore de’ letterati, co’ quali piacevagli molto il conversare . Ebbe dell’ a micizia con Lucanconio Porzio , Luca Tozzi, Cammillo Pelle grino, Carlo Buragna , Grana-alfonso Borrelli , Nicolò Amenta , Giambatiſta Capucci , Daniel'lo Spinola, Michele Gentile e, D o menico Scutari , Pietro Lizzaldi Gesuita , Sebastiano Bartoli, Fran cesco Redi, Antonio Magliabechi, Giammario Crescimbeni, Giu seppe del Pa a, Gabriello Fasano, Tommaso` Cornelio , Lionardo deCapua,e altriassaisiìmi;.moltide’quali,chescrìfferodelleope re, non lasciarono di`fargliquelle dovute lodi-nelle medesime, e parte gliele dedicarono ancora , come il Cornelio l’ opdka de eine, cumpulsione Platania:. ll Crescimbeni colmollo di lodi nella‘ifla ria del a 'volgarpmſta, e il Redi Co’ seguenti versi nel suo Bacco 6.1. AN i”Tosì‘ana: ;L- -. ì ñ. ^‘_ E se ben Ciccio d’Andrea l Con amabilefierezza, \ .ñ‘ . Con terribile doleezàay , -. ‘~ Tra gran mani d’eloquenza Nella propria mia[presenza › _ ...i` _. Inalzarundi‘*voeva .~9 ñ y-, -..\ - ' Il Conte di. S. Stefano Vicerè di Napoli lo relesse Giudice di Vicaria vverso, il 1688. e‘quì debbo notare un errore in cui sono incòrsi v , ..,‘h —tutti AndreaConcubletMarchesed’Arena,dcflinandolapropriasuacasa.Ve di Giannone lib. 40. rap, 5. Lionardo di Capua; parer: ragion. 8. Carlo Suv sauna in Buragnae vita. Lucantonio Porzio in opnseus. de mom graùium,et ` deìorig. semi-nn . Giannalfonso Borrelli nell’ api/i. dedie. al, suo libro da , mazionibu: naturalibus a gra-visure pendentióu:. Gl’iſtirutoti furono T o m m a so Cornelio, Lionardo, di Capua, il nostro d’Andrea , e il dilui germano‘ fratello Gennaro, nat-o addì. 4.‘ AgoſtosideL 1637.-e morto nel 1717c~di an ni 80. da Reggente di Collaterale, e Delegato della giurisdizione. (i)Gimmaelogiaccademicipart.1.nell’elogiodi.PietroEmiliaGuaseo.A sti dell’ ush ed autorità della ragion civile lió. l. tap. l. p. 4L‘infin- Gianno neIibÌ38.mp4... [ib.39.up.1,[ib.40.rap.8.Staibanor.2.resolat.185. Celano `delle notizie del bello , dell’ antico e curia/ò della Città di Napoli, x. 3. giornata V. p. 92. Fabroni 'vitae Ita/or. t. 3. p. 332. Ariani comment. , dc chris iuriseonfl Napo!. p. 26. ` Quel (PA-versa acido Asprino, ` ì ,~~“ Che nonfl) s’è tigre/70,0 -vina, ’ j- - -‘ ñ" .' ì. -. r.~ ì ~ .-.' -' .EinaNapolise!-óea- p ‘ Del superi-bo Fasano in; compagnia cet. nèaltrimentiparecchi-altriscrittori(1). , '\ ñ  _..._-ñ-_._.. -ññ . -..r.- *A   'AN 65 tutti coloro che ne han fatta parola avvisandosi, che il Re Car lo II.` innalzollo al grado di avvocato fiscale del Real patrimo— nio; qual carica essendogli troppo odiosa , commutar la volle con quella di Consigliere: ma da’libri delle discendenze del S. C. ri levasi , ch’ egli ebbe la commessa delle cause del Consiglier Ste— fano Padilla nel dì zo. Settembre del 1689. e nel 1691. passò avvocato fiscale, e le sue cause furon commesse al Consigliere D. Pietro Messones con decreto die 6. mensir sulii. 1691. Dopo anni 9. in circa di esercizio miniſteriale,ne reſtò talmente annoiato, che rinunciar volle la toga, e cercar un pò d’ ozio filosofico, avendo menata sua vita da circa anni 50. tralle noiose cure del foro, e in una piucchè assidua applicazione . A tal fine si ritirò nella noſtra Mergellina,eproprionelladiluimasseria,checomprossi erdue. zooo. ove fin dal primo giorno assalito dalle frequenti viiredegli amici e clientoli, si avvide ben toſto, che non avrebbe soddisfat to il suo desiderio; quindi se passaggio nell’ Isola‘di Procida, lusin gandosi ch’ivi trovato avesse quel tanto suo bramato intento: ma non gli riuscì nemmeno tal sua risoluzione, frequentata venendo nel modo iſtesio la dilui abitazione da numerosa folla- di litiganti a chiedergli qualche suo savio regolamento, ed inquietato piuc~ che mai veniva dalle visite de’sav) viaggiatori Europei,che calava no nella noſtra dotta Italia per riverire un uomo, la cui fama erasi diggià sparsa per tutto l’orbe letterario.Fu coſtretto perciò por tarsi in Candela terra in Capitanata, ove venne. a morte addì IQ Settembre verso le ore z:. dell’anno 1698- e di sua età settanta treesimo, e mesi,e non già come altri scrissero di anni .7t. Il Vescovo di .Melfi si adoprò nella miglior maniera, onde rendere gli ultimi uffizi alla sua memoriaznè mancò persona,che fatta gli avesseorazion funebre,laquale è ſtata da me lettamanoscritta,e non s0 se fosse ſtata benanche impressa. Il titolo èqueſto: In obi tuDominiFranci/ZideAndreaRegiiConsiliarii,acinRegiaCa mera Fisci Petroni elegiacum carmen ,et oratio nabita ab UJ.D. s0.Bapti/Za Patetta. Ora altro non resiami,che dare a’leggitori un elenco delle tante 'sue opere,ed i motivi 0nd’ ebbe a scrivere alcune delle medesime. E’ celebre nelle iſtorie la controversia mossa da’ Franzesi nell’ anno 1666. sopra il Ducato di Brabante, ed altri ſtati della Fiandra contro i Spagnuóli . Per affar sì serio vennegl’impoflo dal Vicerè D. Pietro d’Aragona sul principio del 1667. di scrivere in difesa del lor Sovrano Carlo Il. Egli l’Andrea eseguì bentoſto un tal comando, eaddì2.8.FebbraiodelloAſtess’annoglipresentòunasua dotta scrittura, col titolo: ' . 1.DijkrtatiodesucceffioneDucatusBraáantiae.QuaMenditurmul- - Tom!. vI lam 4    66 AN lam Córislianiflîmae Reginae ad ejusdem _Dueatur la ereditata-m spem fieri ;per Consuetua'inem illms pravmciae ,quaefilias primi Îlori *vom: ad parenti-”n berediratem exclnsir liberi: , quam-ui: mn/?ulisorti;exsZ-Cimdo;quodea,tanquani rivarorumci-vinm propria, ni/Îil commune habent, eum sucçe zone_ Publica tori”: Principal”. Volle intanto il Vicerè, che m dllUl presenza sotto scritta l’avesse, affinchè sr'egiata del suo nome, impoſta avesse in Europa una più alta e maggiore autorità,e così manoscritta inviol la in [spagna. Ella non su mandata a ſtampa per non dar nuovo motivo a’ Franzesi di dire, che i noſtri fossero ſtati iprimi a pro vocar li al cimento, non avendo pubblicata alcuna delle scritture, ch’ in i in poi produsse-ro. M a nel mese di Maggio, come siebbe avviso,che il ñRe Criſtianiſtimo era giunto co’ suoi eserciti nelle frontiere della Fiandra, e che n"el medesimo tempo avea fatto pub blicare di suo ordine una scrittura inlingua spa nuolasi), coi tito tolo: Traffado delos Deree/ms de la Reyna C riflianiflimn fi)er *vario: E/Zador dela Monarquia de Españ'a ; toſtochè l’ebbe nelle mani ilVicerè D. Pietrantonio d’Aragona l’inviò alnoſtro autore con ordine di rispondervi,nel mentre ilRedi Francia entratone’ paesi bassi avea incominciato ad usarvi tutti gli atti della ostilità. L’ Andrea vi fece la desiderata ris`poſta,e su una delle più celebri scritture, che vedute si fossero in tal occasione. Eccone il titolo: z. Ri/jdo/Za al trattato delle ragioni della Regina Cbri/liani/Iìma/b pra il Ducato del Brabante, con altri fiati della Fiandra , nella qualesidimoslral'ingin/lizia dellaguerra mossa dalRe diFran cia Per la conquisha di quelle Provincie ; non o/lanti le ragioni, eee _fifim pubblicateinsitonome,PerlaPretesasueeeflioneafavor della Regina Cbri/lianijsima. In Napoli Anno 166'”;- infl Fu ripro dotta con un nuovo discorso, ed alcune lettere' nel 1676. in4. Nel mentre che ilnoser d’Andrea ſtava mandando a ſtampa lasur riserita rispoſta,comparve altra conftttazione alla ſtessa scrittura de’ Franzesi,scritta da un dotto miniſtro in franzese, ed essendone ve nuta una sola c0 ia in queſta Capitale, su da un eruditissimo mi. niſtro volta in lingua Spagnuola , e mandata di nuovo a ſtampa, e finalmente tradotta in italiano. Intanto un certo Aubery avvo— cato della Corte del Parlamento di Parigi diede fuori un libro: Des _ju/les Pretentions du Roi sur l’Empire .Paris 1667. a cui si dice dal Giannone (2.),che l’Andrea data-vi aVesse altrarispoáia, —e (I) Vedi l'informazione al ieggitore di esso d'Andrea 'impressa nella risposla al` trattato delle ragioni cet. Giannone ci!. [ib. 39. cap. i. (a) Vedi Giannone lio. 39. cap. i.    As N 67 e'd impressa nello ſtesso anno 1667. in 4. (I). . x 3- Disputatio a” flames influida no/Zri Regnisucco-dan!, eum frati-i deeedenti non sunt eonjum‘îi ex eo latere, ande ea oàvenerunt . A d intelleéium Con/lirationis Regni m‘ de [iiceeflionibus ,de sue cessionenobilium.Neap.apudParrinum,etMarian-11694.in Ei la è ſtata riſtampata molte volte .Nel 1717. ex typogr. Simoni/ma; e nel 1769. Avendo in queſta dilui opera consutato Andrea d’lfier nia, videli dopo la sua morte un certo Dottor Gio. Bernardino Manieri dar fuori propugnaeulnm Winiense, come nei dicoſtui ar ticolo t'ratterò più a lungo. . 4. In un opera del Cardinal de Luca (z)trovasi una sua scrittura:sii per sèererariorum APO/Zolieorum /uPPreflione. . 5. Consultariones in muffa sanno”. Majoratus s0. BaPti/Zae. Tro— vansi presso Gio.Torre (3). ì ó.RejÌmnsajm‘is’flipersuceeffionesaltata-ia,etquando babe”;la cum, neene. Si hanno presso lo stesso Torre (4). 7. Relazione de’jèr-vizj fatti nel tempo., ea’e/ercitö il Po/Zo di avvocatofi/ealenella rovineiadiAbbruzzeCitra,eParticolar mente di tutto ciò‘, e e da lui si operò in ser-vizio di LM. menz tre din-arena le rivoluzioni Popolari; cominciate in Napoli nel di 7.diLuglio 1647.ete/Zinteneldi‘6.diAprile164.8.in Le altre sue opere rimaſte inedite,sono: Varie lezioni intorno allafilosofia dellescuole, e del moderno gu flo introdotto nell’arte difilosofare.Furonrecitaredaluinell’ac cademia degli Oziosi , e quantunque i suoi. sentimenti sembrassero flrani per allora, furon dipoi abbracciati e 'coltivati, Trattato degli atomi con varie lezioni filosofiche. Voiqarizzamento dell’erica d’Ari/Zotile. ‘ ' Difesa della filo/olio di Leonardo di Capa/t, contro l’Aletino indi— rizza/z al Principe di Feroleto. Queſt’ opera , ch’ avrebbefi dovuta mettere a luce, giacchè in essa l’autore fe pompa dei suo sapere, e varie furono le inchieſte de’letterati, non so perchè trascurato lo avessero i suoi eredi. Infatti il nofiro dotto Nicolò Amenta (5) scrisse:non ba gnam', consomma mio piacere, e con profitiarne ‘ non (1) Alle altre scritture de’ Franzesi , non vi mancarono ‘altri dottíopposirori, che leggersi possono nel Diario Europeo rom.XV. X V L e XVIII. e men tovate vengono dall’erudito Struvio Syntagm. [Ji/Zar.Germ. dafl'ertat.” S.” (7.)De Lucatraéi.deoffieiis.Romae1682. ' ñ . (3) Jo. Torre traff. de susiefliom in Majoraxibmflet. Lugduni Ani/fln 1688.1.:(4)*Idemma‘.deprimogenitìs'Italia:eap.39.5.7.e9.ct”11.40.5.6.Lugdu- l m 1686. › (5) Amenta nella Vita dì Lianarda di Caploa pag-.54. ` * 2 . ñ.    53 AN non poco, ho letto, e riletto: nè jb perchè il dilui fratello ,il Tagguarde'vole per tanti capi, Regçente del Collateral Consiglia, Gennaro d’Andrea ,non l’/7a fatto Pubblicare Per 'via delle [Zam pe, quantunque ne [/rabbia i0fatto pregare. In tretomi in foglio ella conservavasi nella celebre libreria diGiuseppe Valletta (1). ln un de’ Codici Magliabechiani in Firenze (z) evvi una lettera- di esso Francesco de’ 2.3. Agosio 1685. con cui gli chiede notizia di var) libri, che consultar dovea per tal suo lavoro. Disror/b della nobil famiglia della Marra . ,. Discor/n sopra la /uc‘reflirme di ?pagna in morte quando filC-'Có’dsldel ReCarloII.d'Au/lriagia}disperatod'a-verprole.Lo scrissestan— do in Candela colla data’ del di 15. Aprile 1608. Zisa/jime , ojjiano avvertimenti a’suoi nipoti, D. Gia. e D. Andrea , per farlor divvisare,eneasoslenerelacasanellagrandezza,in cuiegli,eilReqqentesuofratellol’a'vean Palla,unicomezzo era l’avvor/;eria . Quelli avvertimenti, ch‘ egli scrisse nell’ età di an ni 71. non sono ſtati impressi per aver incontrato l’oſtacolo di alcuni personaggi, ch’ebbero a scorno il sar vedere la di loro ori gine da qualche professore del noſtro soro. Son tante però le copie a penna siſtentino in queſto nostro Regno, e fuori, ch’ è riuscito vano il loro impegno. Si vuole ch’ egli avesse compilata quella s’toria di alcune famiglie no bili del nosiro Regno, che altri però attribuiscono al Presidente Gaetano Argento.Ma imoderni noslri critici la vogliono a ragion tuttagdi esso d’ Andrea ’scorgendovi in essa un metodo tutto suo proprio , poichè l’Arge’nto quanto dotto, altrettanto un pò scarso nell’ordine delle scritture. Lasciò finalmente più volumi di allegazioni, come dice ne’ suoi avi vertimenti, mapochediqueſte sonoſtate conservatedaalcuniscrit t-ori,ed inseritenellediloroopere,come dalStaibano,Silva,Ma radei, e Sorge (3). ANELLO (Gabriella)mandò'a ſtampa: De judieiornm civiliflm ordineadNeapolisTribunaliumnormam,necnonpro-w'nriarum, [cz-,Fumane,qua e: Curiarum infimarum Regni aélitandi i” aligui Imc minima 'varietas, advertitur,Pro Clerieorum PraHicorum in ÌBÌÌÌQEÌIti”,6tF.P.juvemsisusa, con/*cripta:bre-w,Foggiaeſtu dio/ae ju'UC’ÎIH-ls'l dieatus. Anno 1-780. in 8. ANGELIS (Baldaffarre de) dicesi giureconsulto Napoletano‘, edeb be a nascere nella decadenza del secolo XVI. come rilevafi dal '' . . le (l) Vedi i giornali rie’letterati Venez. t. 24. pag. 89. (z) Sognare Vlsl. Francesco d'Andrea cet. 133. (3) Smge in'sua pale/ira iuris t.z. allega:.7.   Parlando del DiCapua,ilVolubile,aiprincipiidel1683, dice che vent'anni prima a Napoli era fiorita l'Accademia degli Investiganti; un semplice calcolo ci riporta adunque all'anno 1663. Le parole del Volubile sono anche confermate, nello stesso luogo,da Cesare di Capua (73). Io credo,adunque, di non errare affermando che questa Accademia fu fondata nel 1663 e che il Buragna fu tra i fondatori principali, pur non potendo, però, frequentarla a lungo, perchè alla fine di quello stesso anno dovette allontanarsi col padre da Napoli. E , del resto, l'Accademia non fa che dar nome e sede ad una associazione di uomini già uniti da anni in un'intima comunanzadistudi,diintelletti,diaspirazioni.Andrea Con cublet, uomo amante degli studi e delle dotte compagnie, è il fondatore, dirò, materiale dell'Accademia, a cui assicurò (72) Non premessa al Parere dello stesso, come da alcuni fu scritto, per la già notata confusione fra le opere del Di Capua. Cfr. le n.6 e 61 di questo capitolo. (73) Nelle citate Lezioni la lettera del Volubile è preceduta da una prefazione di Cesare di Capua, che ci informa essere state queste Lezioni del padre suo, ancor vivente in quel tempo, recitate appunto nelle riunioni degli Investiganti; e anche il Di Capua, scrivendo nello stesso 1683, parla della Accademia come di cosa anteriore di venti anni. Non vi può esser quindi dubbio.  -76 V   la vita con la sua munificenza é la sede col suo palazzo ; ma,virtualmente,l'Accademia esisteva già(74). Fra gli Investiganti, col Di Capua, col Cornelio, col Buragna , col Borelli, coi fratelli D'Andrea , troviamo G. B. Capucci, Camillo Pellegrino (75), il dotto vescovo Giovanni Caramuele, Sebastiano Bartoli, L. A. Porzio e qualche altro. Dal Volubile sappiamo che l'Accademia aveva per impresa un cane bracco col motto lucreziano : « Vestigia lustrat »; motto e impresa che ben rendono, insieme col titolo, la fi sonomia, gli scopi, gli ideali degli Investiganti. E , invero, gli Investiganti non vanno confusi con gli Addormentati, gli Insensati, con tutte quelle migliaia di in coscienti perditempo che avevano formate le tante Accademie di quel secolo. L'Accademia degli Investiganti si collega direttamente a quella del Cimento, fondata sette anni prima a Firenze, e ne trapianta a Napoli l'opera e le idee ; essa, attraverso il Borelli e il Cornelio, mette capo a Galileo. Il Susanna stesso ci dice che il titolo era stato scelto appunto ad indicare come gli Investiganti si proponessero di percorrere le nuove vie scientifiche e filosofiche, procedendo con la ri cerca e l'esperimento, simboleggiati nel cane bracco e nel motto. In mezzo ai cultori della scolastica e della casistica, (74) Anima degli Investiganti, anche per la sua grande attività, fu Leonardo di Capua ; non è però esatto dire, come il CARINI, (op. luog. cit.), che l'Accademia fu fondata dal Di Capua; i contemporanei riconoscono, concordi, nel Concublet il fondatore, tanto è vero che, scomparso lui, l'Accademia morì. Così erra l'ORIGLIA, nell'op. cit., vol. II, p. 89 affer mando che il Vicerè Oñate favori l'Accademia degli Investiganti, perchè, come abbiamo veduto, il viceregno dell'Oñate durò sino al 1653 e gli Investiganti si costituirono in Accademia dieci anni dopo. Secondo il D'AFFLITTO, op. cit., vol. I, p. 333, uno dei principali fondatori del l'Accademia fu F. D’Andrea.  - 77 (75) Questo illustre storico che nell'Apparato delle antichità di Capua iniziò la via, che poi il Muratori percorse con passo gigantesco, morì nel 1663;percuil'essereilsuonon fraquellidegliInvestiganti,èuna nuova confermadiquantofu,piùsopra,stabilito:checioèl'Accademia era già costituita nel 1663,   - 78 che ancora abbondavano a Napoli, gli Investiganti sorgevano a rappresentare nuove idee, nuove cose e nuovi tempi; ed è perciò che è una gloria pel Nostro l'esserne stato uno dei fondatori, mentre, nello stesso tempo, è documento della sua grande cultura scientifica e della modernità del suo in telletto. (76) Dell'influsso esercitato dagli Investiganti contro il vaneggiare della grande turba dei poetastri seguaci del Marino, abbiamo, fra le altre, una prova nelle parole dell'abate DE ANGELIS, contemporaneo, nella citata Vita di Antonio Caraccio, luog. cit., p. I, p. 145. Scrive il De Angelis : « In poco conto erano in quel tempo per tutto il regno di Napoli .... la vaghezza e la purità dello scrivere italiano.... tenute. Per lo contrario erano intesi i componimenti di coloro che dal proprio sregolato capriccio e r a n d e t t a t i , c o n i m p r o p r i e m e t a f o r e . . . . e c c . » . A g g i u n g e p o i c h e il C a raccio si tolse da questa cattiva schiera di poeti per i consigli e gli esempi degli Accademici Investijanti «uomini per universale consentimento an noverati tra i maggiori e più ce'ebri letterati dell'età presente e della passata»;efraimaggioridi siannoverailNostro.InfattiL’Imperio vendicato del Caraccio non si può dire, in generale, infetto di cattivo gusto secentistico, al contrario di altri scritti anteriori dello stesso poeta.  Senonchè il Cornelio, il Di Capua e il Buragna erano, oltre che scienziati e filosofi, uomini di lettere e gli ultimi due, insieme con qualche altro, anche poeti. E come nelle scienze, così nelle lettere, gli Investiganti rappresentano un profondo distacco da tutto ciò che è comune, anzi volgare ; essi, voltando le spalle al marinismo, proclamano la necessità di una nuova poesia più conforme al buon gusto e alle patrie tradizioni poetiche. Fra gli Investiganti non c'è nessun m a rinista; essi ritornano al Petrarca e lo spogliano degli ele menti secentistici che vi s'eran sovrapposti e intorno eserci tano un influsso salutare, che fu da parecchi, della genera zione che sorgeva, sentito (76). E poichè il Di Capua, in questo tempo,aveva per sempre abbandonate le muse,dob biamo ritenere che il Nostro, il maggior poeta fra gli Inve stiganti, in questa Accademia, in cui portò un contributo notevole di profondi studi scientifici, abbia esercitato un   preponderante influsso letterario, che corrisponde a quello esercitato dallo Schettini nell'Accademia Cosentina (77). Il nome del Nostro si lega, dunque, a tutta una rivo luzione intellettuale, che abbraccia la scienza, la filosofia, la letteratura, e che certo deve essere meglio studiata e valu tata. Se avessimo le opere scientifiche e filosofiche del B u ragna, potremmo considerare tutti e tre i lati del prisma ; ma non abbiamo che alcuni dei suoi versi,iquali però ba stano a dlarci testimonianza delle idealità poetiche di questa Accademia,della quale sono ifrutti migliori. Ma ci riman gono altri scritti scientifici, come quelli del Di Capua, già citati, e, con nuove ricerche, sarà possibile collocare gli I n vestiganti nell'importante posto che loro spetta, fra gli acca demici di questo secolo. Quanto durò l'Accademia ! Per meglio fissare alcune circostanze della vita del Buragna, dobbiamo cercare di ri spondere a questa domanda, almeno approssimativamente. Il Susanna scrive che la vita di questa Accademia fu breve (78) (77) Nell'esaminare le rime del Buragna, meglio vedremo delinearsi questa verità. In fondo gli Investiganti sono precursori dell'Arcadia, tanto è vero, che fra essi colui che più visse, il Di Capua, fu poi Arcade. Ma ognuno sa che vi furono due Arcadie e che la prima aveva in sè ideali poetici nobilissimi. (78) Come al solito, le vaghe espressioni del Susanna sono malfide per stabilire una cronologia con sufficiente esattezza. Egli ci spiega come il Nostro, anche durante la sua dimora a Lecce, e cioè, come fu già detto, dal 1663 al 1667, potesse continuare a prender parto ai lavori degli In vestiganti, tuttochè lontano da Napoli ; infatti ora permesso di inviare per iscritto le proprie idee sciontifiche e filosofiche. Dice il Susanna, (e cito il brano perchè getta un po' di luce sui procedimenti di questa A c cademia ): «Licebat absentibus, ex Academiae institutis, sua mittere de Philosophicis rebus cogitata, quae recitarentur in congressu et per expo rimenta ad veritatis expenderentur trutinam . Moris quippe erat altera hebdomadae die ibi dicere quae quisque sentiret ; altera, voro, insequentis heb d o m a d a e ex p e r i m e n t i s d i c t a e x e r c e r e » . S u s a n n a , o p . l u o g . c i t ., f f. 6 , r . e 7, v. Il metodo rispondeva agli scopi, ma vi era il difetto, comune a tante Accademie, anche gloriose, di voler creare una discussione che era fine a sè stessa e di cui, spesso, non v'era bisogno.  -79   e ciò ripetono coloro che ho citato; anzi il Caravelli (79), in un accenno, scrive : « Disgraziatamente la coraggiosa ed importante Accademia morì quasi sul nascere ». D'altra parte lo stesso Susanna viene a parlare dell'Accademia soltanto a proposito del ritorno del Nostro da Lecce, dicendo che egli fu accolto dai soci festosamente e prese parte alle riunioni degliInvestiganti,cheperò,dopononmolto,cessarono.E così altri contemporanei, pur notando la breve esistenza dell'Acca demia, non ci parlano di una vita addirittura effimera; anche l'opera esplicata dagli Investiganti presuppone una certa d u rata della società. E se il Nostro prese parte ai convegni in casa del Concublet, dopo il 1667, e cioè dopo essersi defini tivamente stabilito a Napoli, e se, d'altra parte, l'Accademia non ebbe lunga vita, la fine degli Investiganti dovrà cadere fra il 1668 e il 1670. Ma io credo che l'Accademia abbia continuato a vivere fino a quest'ultimo anno ; me ne foruisce una prova abbastanza convincente la valutazione delle cause per cui l'Accademia stessa finì. Il Susanna scrive che ciò avvenne per essere Andrea Concublet venuto a mancare (80); e così, su per giù, gli altri (81). Ora, tenendo legittimamente per sicure le notizie dei contemporanei, noi sappiamo che nel 1670 il Concublet era ancora nell'Italia meridionale; in fatti appunto in questo anno G. Alfonso Borelli stampava (79) CARAVELLI, op. luog. cit., p. 178. ( 8 0 ) P e r ò , ( e d a p p a r e a n c h e d a l l e p a r o l e d e l V o l u b i l e ), s i t r a t t a d i partenza e non di morte del Concublet, come credette il CARINI, nell'op. cit., p. 523. Il Volubile non ci dà alcuna notizia sulla durata dell'Ac cademia . (81) Qualcuno accenna ad ostilità dei Vicerè verso gli Investiganti ; e, anzi, il CARAVELLI, al medesimo luogo dell'op. cit., fa terminare l'esi stenza dell'Accademia per soppressione ordinata dal governo. « Fosse, scrive, invidia o sospetto, o innato spirito del male, la dottissima e tran quilla adunanza fu messa in mala voce e, dopo qualche scissura e qualche atto violento, ne fu ordinata la soppressione dall'imbestialito governo vi ceregnale ». Senonchè, per vero dire, e non per tenerezza verso l'infausto governodeiViceré,questanotizianonrisultadaalcundocumento deltempo,  80   IntalmodoilBuragnaaccrescevalasuadottrinaelasua fama, ma s'avvicinava rapidamente per lui anche il momento dirinnovareildolore,giàprovatodiecianniprima;ildo lore di staccarsi ancora da tutta quella operosa vita di pen siero, da tutte le più care abitudini intellettuali e le più n o bili amicizie, per ricominciare il pellegrinaggio nella provincia. L'ora della giustizia era scoccata per Giovan Battista Buragna, dopo lunghi dolori. Per quanto fitta fosse la tela di calunnie, di cui parla il Susanna, per quanto i Vicerè (82)È l'opera: De motionibus naturalibus a gravitate pendentibus. Reggio 1670, non del tutto ignota agli studiosi. (83) L'Accademia ci fornisce ancora una prova della impossibilità che il Buragna sia rimasto a Cosenza sino al 1665. (Cfr. la nota 48 di questo capitolo). L'Accademia verrebbe a protrarre la sua vita oltre i limiti cho le notizie del Volubile e del Di Capua consentono.  - 81 - una sua opera scientifica (82), dedicandola al Concublet, parlando, anzi, nella dedica, degli Investiganti e della impor tante opera loro; ed è troppo noto il significato di queste dediche a mecenati intelligenti e generosi, perchè debba di lungarmi a dimostrare che ciò prova la presenza dello stesso Concublet a Napoli. Non si può, quindi, di molto errare fissando dal 1663 al 1670 la durata di questa Accademia, che racchiuse la più eletta. Francesco D’Andrea. Andrea. Keywords: investiganti, salotto degl’investiganti, villa Iambrenghi, Candela, investigare, vestigio, motto: investigare, sequere, segno – segno, di sequere, non sequitur, sequitur, il cane, che tipo di cane e il meglio investigante – l’atomismo – vestigio, Boezio, vestigio, segno, nota – latinismo, Cicerone su vestigio, nota, segno, notificare, segnare, segnificare, significare, vestigare, investigare, interpretare il segno, seguere il segno, segno non sequitur, segno e consequenza, sequenza logica, segno e sequenza, etimologia di ‘vestigare’ – cfr. tedesco ‘steigen,’ anglo-sassone stagan, greco stechos --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Andrea” – The Swimming-Pool Library.

 

Andria (Massafra). Filosofo. Grice: “I like Andria; of course he brings more problems than solutions but that’s philosophy even if his philosophical credentials are obscure! “He did write a philosophical chemistry and a philosophical agriculture, but that’s because at Naples there were only two faculties: law and philosophy – he also wrote a ‘medicina filosofica’ – Grice: “Andria’s theory of life – as he calls it – osservazione generalie sulla teoria della vita’ – owes a lot to Aldini and Haller--  Mainly he elaborates and refines Haller, if you believe it – it’s all Italian to me, so it’s eccitbabilita, sensibilita, ed irritabilita. “Andria goes on to define this eccitabilita in terms of the ‘fluido elettrico’ con ‘sende nel cervello e nei nervi’ – which galvanism smacks of Aldini. Grice: “Andria classifies ‘vita vegetale’ o delle piante, and ‘vita animale’ – Note that ‘social life’ is understood by ‘eucarioti’ of higher order, in terms of reproduction (of life – hence re-productum). A fronte de' profondi misteri dell'immensa, ed eterna meccanica, colla quale l’Autor del tutto à voluto che sian le cose disposte ed ordinate, la forza dell'umano intendimen to si trova per l'ordinario talmente oppressa dalla propria picciolezza ed imbecillità, che o totalmente impossibile le riesce di penetrarvi dentro, o appena l'è concesso di conoscerne le più esterne apparenze; o pur finalmente, sembrandole di esser riuscita nel suo disegno, realmente non fa altro, che delirare e perdersi dietro la brevità e l'inezia delle sue idee.»  (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita, 1804).Tre anni dopo la sua morte il suo nome apparve nella Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli il suo primo profilo bio-bibliografico Gennaro Terracina. Studiò nella città partenopea giurisprudenza, pubblicando nel 1769 un Discorso politico sulla servitù. Decise, poi, di proseguire i suoi studi applicandosi alla medicina. Allievo di Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo, a soli 23 anni aprì a Napoli una scuola privata; a 27 concorse con il Cirillo per l'ottenimento della cattedra di medicina pratica, poi conferita a quest'ultimo.  La sua attività di cattedratico, svoltasi tra Sette e Ottocento, nel contesto di un particolare periodo storico, fu principalmente di ricerca e didattica presso l'Università Regia degli Studi di Napoli, dove ricoprì vari insegnamenti dalla storia naturale, alla medicina teoretica e pratica, all'agricoltura.  Pubblicò diverse opere ad uso degli studenti di medicina ed apprezzate altresì in varie parti d'Europa.  Nel 1808 Nicola Andria prese a dettare lezioni di medicina teoretica; nel 1811, di patologia e di nosologia. Malato ed ormai cieco, fu congedato agli inizi del 1814, insignito del titolo di cavaliere da Gioacchino Murat (cognato di Napoleone), e il 9 dicembre morì di tifo a Napoli, dove fu seppellito nella chiesa di Santa Sofia, insieme al collega Antonio Sementini.  Nicola Andria ha subìto per più di un secolo una "congiura filosofica" perché medico e perché di Massafra, da cui gli epiteti spesso riferiti, nei pochi profili apparsi, alle sue origini provinciali; tuttavia, egli fu decano a Napoli ed ebbe amicizia e consuetudine epistolare con i nomi più noti ed importanti del panorama scientifico europeo dell'epoca. Non esistono studi sull'autore, eccezion fatta per alcuni contributi arenatisi agli anni ottanta del secolo scorso. Nicola Andria fu socio fondatore e membro del Real Istituto d'Incoraggiamento e del Comitato Centrale di Vaccinazione, oltreché di molte altre Accademie italiane ed estere. A Massafra, città natale del medico filosofo, com'egli stesso si definisce, portano il suo nome ben tre vie (Via Niccolò [sic] Andria, Lungovalle Niccolò [sic] Andria e Vico Casa di Niccolò [sic] Andria) e una Scuola Media.  Il 10 settembre 1997, in occasione del 250esimo anniversario della nascita, a Massafra è stato fatto un annullo filantelico speciale e una cartolina commemorativa.  Pensiero «Non vi è una materia in Natura che abbia per sua qualità intrinseca la vita, e meriti perciò di esser chiamata vivente. Né la vita è un fenomeno semplice, che a una sola materia appartenga, e nasca da una sola forza. Molte son le materie, e queste fra loro diversissime, che concorrono alla formazione di una macchina, in cui la vita risiede, le quali materie intanto, trovandosi separate, niuna vita producono»  (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita, 1804) Il contesto storico in cui Andria vive fa da “cerniera” ai due secoli più importanti della storia della scienza e della civiltà: il Settecento e l'Ottocento hanno “gestato” l'umanità contemporanea, provocato le guerre e portato l'uomo sulla Luna.  Andria vive a Napoli, per certi versi quasi “fulcro” e “convoglio” delle principali idee e scoperte dell'epoca; la sua particolare sensibilità di scienziato di formazione filosofica lo porta ad assorbirne il carattere rivoluzionario e ad “anticipare” i tempi. La sua condizione di provinciale in-urbato, tuttavia, lo “veste” di una semplicità ed umiltà di cuore, la quale si esprime nelle lodi del creato e dell'uomo, «congegni perfettissimi» di straordinaria bellezza.  Oggi, questo significa “ri-orientare” la ricerca scientifica verso un fine che non sia l'“utile” economico (politico, militare), ma ricerca del vero e del bello nella tutela e nella salvaguardia di tutta l'umanità.  Dagli anni cinquanta dell'Ottocento la circolazione delle idee andriane (di “freno vitalistico” al meccanicismo più sterile) si arena sulla sponda di un “nuovo lido”: quel meccanicismo biologico che dell'anima e del pensiero ha fatto solo un aggregato chimico di molecole. L'eco dell'appello di Nicola Andria, così instancabilmente perpetrato, in ricerca come in didattica, si perde; si perde alle soglie di una svolta importante, la stessa che avrebbe prodotto la Grande Guerra, il delirio dei nazionalismi, la credenza che debba sopravvivere il più abominevole degli uomini, dove “fortezza” vale essenzialmente in-umanità, dis-umanità, non-umanità.  «Il filosofo [...] in tutto questo giro di cose, ravvisando le tracce della sapienza infinita di un Dio, è obbligato ad esclamare: quanto ammirabili, o Signore, sono le opere tue!»  (B. Vulpes, in N. Andria, Elementi di Chimica Filosofica). Opere: “Discorso politico sulla servitù” (Napoli, Campo); “Piano di un corso di chimica pratica” (Napoli); “Trattato delle acque minerali” (Napoli: Manfredi); “Lettera sull'aria fissa” (Napoli);  “Elementi di chimica filosofica” (Napoli: Manfredi) -- Delle forze e delle materie di cui si occupa la chimica -- Del fuoco, sti che nederivano --- Delle principali combinazioni dell’ossigeno ede'composti chene risultano -- INTRODUZIONE alla Chimica – Dell’unione delle altre materie fi . nora non iscomposte , e de’ corpi,che quindisene otten -- Della cristallizzazione -- ne,edellasublimazione -- Della fusione . X zir X piùsolidi basamenti del globo terraqueo, che indi ne sorgono -- Dell'ossigenazione , & quindi della combustione e dell'atmosfera terrestre .-- Della congiunzionedelleterre,ede? --  Della soluzione. --- Degl’altri generi di combinazioni – Dell’operazioni chimiche -- Della distillazione, dell'evaporazio -- Della fermentazione, e della putrefazion. “Elementi di Fisiologia, Napoli, V. Manfredi); “Materia Medica” (Napoli, V. Manfredi, “Elementi di Medicina Teoretica” Napoli, V. Manfredi); “Istituzioni di Medicina Pratica, Napoli, V. Mandredi); “Prospetto generale dell'istituzione di agricoltura”; “Osservazioni generali sulla teoria della vita, Napoli, V. Manfredi); “Riflessioni su di un caso singolarissimo di gravidanza fuori dell'utero”; “Elementi di Medicina”. A partire da V. Cuoco, vari studi sono stati editi a proposito della Rivoluzione napoletana del 1799, la quale diede vita alla Repubblica partenopea, preparata dal triennio giacobino sin dal 1796.  Per l'internazionalità del suo pensiero si vedano gli studi di M. A. Duca in Il pensiero scientifico di Nicola Andria, Massafra, A. Dellisanti, ,  95-9  Melania Anna Duca, Il pensiero scientifico di Nicola Andria, Antonio Dellisanti Editore, Massafra  Melania Anna Duca, Nicola Andria: Epistolario (1775-1794). Lettere a Canterzani, Haller e Spallanzani, Antonio Dellisanti Editore, Massafra. Melania Anna Duca, Nicola Andria et les origines de la psychiatrie moderne. Une contribution historiographique, in «Psychofenia», n. 23,  Melania Anna Duca, Troubles de l'alimentation, hypocondrie et mesmérisme en Nicola Andria, in «Psychofenia», n. 24,  Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Niccolò Andria  Sito dedicato al medico e filosofo Nicola Andria, su nicolaandria. 21 ottobre  15 maggio ). Felice Mondella, «ANDRIA (D'Andria), Nicola», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. iFilosofi italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore Massafra Napoli. Francesco Nicola Maria Andria. Andria. Uno de' fenomeni piùs orprendenti, che nell'immensa università delle cose continuamente si ammiran, è senza dubbio la vita, o sia quel l'assortimento di circostanze particolari che à luogo negli esseri organizzati, e che decide del la loro individuale esistenza. La qual cosa fa , che riesca un tal fenomeno per noi anche il più importante, non solo per l'interesse che la no stra curiosità ne prende , come di un affare che tanto da vicino ci riguarda , ed è tutto nostro privativô;ma dippiùperl'impegno,incuina turalmente ci dee mettere,di ravvisarne le prin cipali molle , ed i mezzi percið di farlo corre re alla lunga , e con passi meno stentati è più sicuri . Disgraziatamente però è accaduto per conto della vita quello che à soluto sempre avvenire trattandosi de'gran fenoineni della natura,tutte le volte che si è dall'uomo concepito l' ardito disegno di rischiararli , o d'interpetrarli in qua lunque modo . A fronte de profondi misteri del l'immmensa ed eterna meccanica , colla quale  a2 l'Au. / 582663   |Autordeltuto à volutoche sian le cose di sposte ed ordinate , la forza dell'umano intendi mento si trova per l'ordinario talmente oppres sa dalla propria picciolezza ed imbecillità ,che o totaliñente impossibile 'le riesce di penetrarvi dentro tutto si è abbandonato all' osservazione ed all'indagamento de solifatti. Col favore di un metodo cosi servile, che è pur .quello di cui la Natura si compiace , è permesso alle volte di giugnere allo scuoprimento di qualche picciola. edisolataverità,laqualeincanto senzal'aju. to di altre innumerevoli , all' intendimento u m a notuttaviaignoteenascoste sarà . tana dal render piena e perfetta ogni nostra cox poscenza . Nelle cose qui da noi rammentate ; e che da ogni uomo anche di niuna esperienza son fa cilmente ammesse econosciute,sembra esser con tenuta la ragione , perchè nella cognizione del ,  appena fes 4 1% è concesso di conoscerne le più esterne apparenze ; o pur finalmente j sem brandole di esser riuscita nel suo disegno , real. mente non fa altro ,che deliraré e perdersi die tro la brevità e l'inezia delle sue idee.Se qual che volta diversamente è avvenuto ; è stato appunto, quando diffidando l'uomo di sèmedesi sempre lon   dine  Ma pur bisognerà convenire,che fra le dif ficoltà, onde1'umana ragione trovasicontinuar mente inceppata,ed in mezzo delle tenebre,che l' avvolgono e rendono i passi suoi sempre vam cillanti ed inceni ,qualche verità di primo or 5 fenomeno della vitatanto picciolo avvanzamena to si sia finora fatto , quanto ognun sa ; non ostante l'importanza del medesimo , e la forza colla quale , come si è già osservato , à dovuto richiamar sempre a sè l'attenzione e l'indagine umana . Ne fanno testimonianza le tante cose , che in tutte l'epoche della Medicina se ne sono dette ed.i tanti sistemi che se ne sono imma ginati.Iquali,adireilvero altroapparato per lopiùnonanno chediunapesanteerus dizione,quella cioè che ordinariamente pud tro varsi nella storia delle idee e de'pensierialtrui , ricavati non dalla natura,ma dal fondo di un'im maginazione ,spesse fiatę riscaldata,e mal pre venuta . E se ammirazione qualche võlta pare che tai sistemi si abbian conciliato , cid solo va inteso per parte di coloro , che senza conoscer l'arte ben difficile di saper non sapere , e privi perciò di ogni criterio , tutto ammettono ed in gojano ,contenti della sola apparenza , o di qual che picciolo inal concertato artifizio.   dine alle volte si rinviene,che una facile e ge sterale osservazione fa saltare agli occhi della maggior parte,o che gratuitamente si trova dal la Provvidenza accordata per intrinseco ed essen ziale appannaggio dell'umano intendimento .In una tal rubrica dee principalmente quell'assioma registrarsi di logica universale , in cui è stabili to secondolediverseinnumerevoli circostan. ze ,che possono aver luogo nella grande ,e nel laminuta esempreugualmentesorprendente meccanica della Natura . Ne inutile sarà ora di osservare ,che una tal cosa sembra trovarsi prin cipalmente verificata nel gran fenomeno della vi ta , ove gli Uomini fin dal principio an dovuto conoscere ed ammettere una forza,che unicamen te ne decide.Del che ne abbiamo un argomento non equivoco nel privilegio,col quale un tal fe nomeno à solo meritato di esser nel comun lin guaggio annunziatocon una parola,ladi cui eti mologia vien precisamente in quell'altra voce  che in Natura niun fenomeno vi sia senza una forza che lo produce , e che il principio perciò di ogni movimento , o azione , o fenome no che si voglia dire ,in una forza consiste.Se non che questa forza medesima può esser sem plice o composta , intrinseca o altronde ricerca ta con   71 contenuta,che per immemorabile universal con: senso altro che forza non à soluto mai indie care (a). Questa semplicissima osservazione , che è pur vera e grande e da ogni ragion sostenuta , sembra la più atta a somministrare un solo pune to di appoggio , onde alcuno possa spingersi in un'analisi profonda delle cose della vita ; e in tal modo potrà ben procacciarsi di che ragione, volmente contentare la sua curiosità,e,ciò che importa molto di più , soddisfare quella cocente natural sollecitudine ,che ognuno à di render la propria esistenza,per quanto all'Uom permes so,piùdurevoleemenoinfelice,Almenocosi sembrando al nostro corto intendimento ,prendes rem volentieri una tal traccia per ordinare l'ana lisidellavita eportarlaperoratantoinnan zi,quanto dalle nostre deboli forze, e dallo sta to attuale delle nostre cognizioni potrà esser permesso . E mentre questo , e non altro , sarà (a) "Vita" viene da "vis", come anche "virtus", "vir","virilitas", le quali parole tutte fignificano forza : o ciocchè nella forza consiste, o la contiene    Nella..considerazione mo difare,ilprincipalsegno dellenostremife che qui ci proponia ilnostroprincipalfine ciifaremundoveredi non andarci divagando in altre cose aliene dal medesimo, o poco atte a raggiugnerlo.Eviterem soprattutto le citazioni ; ed ogni esame di opi nioni diverse ed il rischio perciò di attribuir ad alcuno ciò che ad altri appartiene e di andar nuovendo picciole ed inutili gelosie . Contenti di prender dal sacro deposito della Scienza ciò che al nostro bisogno potrà esser bastante , la --scerem ad ogni depositario poi la cura di riven dicar il suo , tutte le volte che lo crederà o p portuno al proprio interesse · Per noi, l'avrem certamente a singolar fortuna quando ci venisse accordata la sola scarsa lode ,.che neppur a coa loro sinega,chenon potendo per naturale inet titudine alcun vantaggio recare,se ne dimostra no almeno premurosi ed invogliati . Della qual nostra buona volontà ci lusinghiamo che ottima testimonianza ce ne potrà principalmente venire da Giovani che alle nostre lezioni an sempre assistito , o da chiunque altro che non isdegna di trovar tuttavia buono per il suo uso ciò che per mezzo nostro l'è potuto in qualunque modo pervenire. sarà    sarà l'assioma di sopra stabilito , dal quale si potrà per avventura losviluppo ottenere di con seguenze importanti , che disposte con metodo dalla natura istessa suggerito , ci potran forse a quel termine condurre , che formerà ora l'og geito principale di ogni nostra ricerca. Se la vita dunque in una forza consiste 3 che continuamente si esercita bisognerà neces sariamente supporre attaccataed inerente una tal forza alla macchina che vive, Questa qualunque facoltà che negli esseri organizzati risiede per vivere , si è voluto in questi ultimi tempi ecci tabilità chiamare.In vece di una tal parola,non saressimo ripugnanti, che quella ancor si usasse di vitalità,e d'irritabilità universale,e di for za nervosa,o altra qualunque di simil calibro ; le quali ancorchè si sia preteso che possan cose diverse designare , in ultima analisi perd real mente non sono intese,che adichiarare il prin cipio generale della vita considerato dadiversi lati, o sotto forme diverse . Fra 'l' espressioni o r qui accennate noi intanto riterremo laprima, si perché si trova bastante per esprimer ciò che accade ,si perchè troviam un tal nome già qua si universalmente ammesso .COM  9 b > ? Vi sarà anche per foi un altro motivo , quello cioè di potersi tal Osserv.   lità 1  + 10 cosa in questo modo rappresentare , qual da noi si crederà più opportuna , senza esser obbligati di ammetterne qualunque altra corrispondente al le altrui idee . Una definizione , che venga a tempo , toglierà sempre ogni equivoco ,che nel le diverse maniere di immaginare può aver luo go , ogni volta che con una sola voce sia venu to il talento di annunziarle . E ' un fatto costante che durante la vita si sentano dagli esseri organizzati le impressioni , che molti agenti son capaci di farvi , ed alle quali si risponde sempre con del movimento , o con un particolar senso che si risveglia . L'ec citabilità è quella su di cui cade l'operazione di ogni natural agente . Questi agenti medesimi si an poi voluto chiamare stimoli,e il prodotto della di loro operazione eccitamento . Il quale non dichiarandosi altrimente che per mezzo del moto,edelsenso,possonoben quindiqueste due cose rappresentare le forme principali del medesimo.Sembra dunque che per la vita vi bi sogni l'eccitabilità da una parte onde viene il senso ed il moto ,e dall'altra il concorso de'sti. moli onde l'eccitabilità si mette in azione .Sena za eccitabilità l'operazion de'stimoli è inutile, e niuna vita produce , e senza stimoli l'eccitabi   Tutti gli stimoli poi , per ragion della di loro intrinseca particolar natura  lità non è richiamata'a qualunque azione , ed alle ordinarie forine di eccitamento . si sono divisi in esterni , ed interni . Nella classe de primi l'aria va messa , ed ilcalorico,e laluce,ed il cibo,ed il sangue, ed ogni altra material cosa , quam li da noi si sono considerate sempre come gli stia moli della vita ,econ tal frase le abbiamo an che indicate tutte le volte che ci è toccato d'in terpetrarle . Di questi stimoli intanto mentre che gli esterni molte volte bastano a risvegliare un giro di eccitamento e di vira comune niera di operare , e diversa m a 9 a tutti gli esseri orginizzati , non bastano poi senza il concorso degli interni a costituire una vita per feita , com ' è quella dell'uomo , fra tutti gli al tri esseri che vivono il primo certamente ed il più nobile. gli organ può operare. Per interni al contrario s'intendono i movimenti dell' animo e quindi ogni morale azione , che non lascia pur in una maniera dichiarata di rimbombare sugli organi del corpo , Corrisponde tutto ciò perfettamente a quello , che gli antichi delle sei cose , c o m u nemente dettenon naturali,intendevano,le che fisicamente su Quan b2   Quando l'affare è precisamente considerato me' termioi finora proposti , niuna conseguenza potrà dedursi onde favorir dichiaratamente lo statoattivo,opassivodellavita.Ogni quistio ne diventerà perciò inutile,e sarà dissipato si. milmente lo scandalo , che alcuna delle opinioni accennate potrebbe recare a chi non ama occu parsi delle cose profondamente . Trattandosi di opposti,facilmente possono diuna medesima co sa intendersi , quando questa si consideri sotto i vari suoi aspetti,o in circostanzediverse.La vita a senso nostro può ben rappresentare uno stato passivo guardata per un lato ,e nel tempo stesso uno stato pienamente attivo guardata per 1'altro.L'eccitabilità,o siailgerme immedias to della vita relativamente ai stimoli de' quali nulla può valere, è assolutamente pas siva.Ma addiviene di botto attiva dietro l'azio ne de' stimoli medesimi , ricavando dal suo pro prio fondo quell'energia ed attività,che spiega nell' eccitamento.Si potrebbe da alcuno chiamar: reazione quella dell'eccitabilità.Ma questa reaa. zione medesima non è a buon conto che una lità dunque è passiva relativamente ai stimoli , vera azione qualunque abbia potuto essere il motivo , ed il modo di risvegliarsi. L'eccitabi  senza , atti   attiva relativamente all' eccitamento ed a tutto il resto che ne può venire.Con una tale inter petrazione possono dunque benissimo restar con ciliate le due idee opposte , le quali si trovano ugualmente vere , allogandosi ognuna nella sua propria nicchia . Nè converrà dimenticarsi in questa spezie d'indagine ,che non essendovi azio ne in Natura , che non sia il prodotto di un'al tra , per l'intelligenza della prima basterà cono scere ed ammettere quella , che inimediatainente laprecede,eneformaperciòlacagione imme diata . Perchè altrimente per uscir d'imbarazzo', e finirla presto , Essendo una verità di fatto l' eccitabilità ; ossialafacoltà cheàlamacchinaviventedi e muoversi , non lo sarà meno il doversi quella trovar. sempre inerente alla maça  13 si potrebbe da principio ricor rere alla suprema volontà dell'Autor del tutto , ove senza contrasto alcuno incomincia la serie alternadicagioniedeffetti,chel'immensa ca tena rinchiude delle cose del Mondo . Ma in tal modo bisognerebbe pur convenire ,che invece di sciogliereilnodo nonsifarebbealtrocheru vidamente tagliarlo ,e distruggere così ogni fi lo,nel quale è unicamente raccapezzatol'ordi ne delle cose . poter sentire chig   di ravvisarvi distintamente l'uomo os e l'uomo arterioso , e l'uomo muscolare ed il nervoso ,  14 china suddetta in tutto il corso della vita . a tutti i peza non che può nascere il dubbio , che una tal fa coltà risiegga ugualmente applicata a tutti i zi della macchina vivente,o pure alcuno ve ne sia onde si propaghi , e venga agli altri comu nicata . Vi sono de' Fisiologi che nella costitu zione della macchina animale vi ravvisano tante parti , che con un singolar andamento dimostra no di esser molto fra loro diverse Se , quantunque poi tutte intese alla formazione di quelli uno , che l'intera macchina rappresenta e cosi di tutto il resto . Corri sponde tutto questo apparato di nuove parole, o per Si an voluto insignire col nome particolare di sistemi , ed è quindi insorto il sistema irrigatore , il sistema assorbente , il nervoso , il muscolare , il cellula re , e ogni qualunque altro che il bisogno potrà richiedere . Vi è stato chi segnando con mag gior precisione i contini diversi di cotai siste mi , per rilevare in tal modo l insigne differen za che fra i medesimi sembra passare ,e la gran parte che ciascuno di essi nella costituzione del corpo prende , non à avuto difficoltà nella con siderazione , che à voluto fare della macchina umana seo ,   Noi intanto non sapressimo cosi facilmente intendere quanto la particolar considerazione de' pezzi della macchina animale, principalmente di versi fra loro per la diversità delle forme,o di altre circostanze non essenzialiallaparticolar na tura della di loro pasta originale , possa contri buire a far ravvisare l'eccitabilità nel suo unico e vero e general aspetto . Sembra la medesima esser qualche cosa di cale importanza , alleforme,oadaltreminoricircostanzeappar tenga,ma bensi direttamente alla pasta già ram  15 e per dir meglio di parole usate con nuova regoa la , a ciò che da altri con tuono più semplice ediungustopiùantico manelfondosignifi. cante lo stesso , si è derto sostanza cellulare vasi,enervi,emuscoli',eossa nel farne la particolare storia , e stabilire colla medesima i fondamenti della Fisiologia . Prima di passare ad altri argomentinon sa ràsuperfluo soggiugneranche qualchecosasul flo gisto,affinchèintalmodo iprincipiantis'istruisca no di una dottrina ,la quale ne'tempi precedenti haavutotantoluogo intutteleteoriechimiche. E'anzi a tutti noto di essersi introdotto qua si universalmente l'uso di questa vocabolo an cora nelle altre Scienze . I Chimici , dopo di Sthal, pretendevano generalmente che dovesse  X 68 X in   X 69 X intendersiper flogistoquella talcosa,che ata caccandosi a'corpi producesse in qualunque modo il principio della loro infiammabilità .si altri. buivanoin oltre al medesimo moltissimi altri fenomeni. Siccome nella combustione si raduna una grandissima quantità di fuoco, di cui prima non eravi alcun vestigio,cosi Sthal sorpetto che in questa operazione si sprigionasse quel fuoco , il quale trovavasi nascosto nel corpo infiammabile . Questo fuoco nascosto in modo da non dar segno della sua presenza costituiva il flogisto . E quindi si ravvisaa primo colpo d'occhio, che il fogi sto fosse indentico col calorico aderente . M a la natura de'fenomeni richiedeva che quello com stituisse un ente di suo genere , trasfersisi tutto intero da uno in un altro corpo . Quindi bisognò immaginare una materia ,o sia una base , alla quale il fuoco , o sia il calorico , si at taccasse ed in certo modo addivenisse fisso, cosi composto acquistasse un'adesione colle para ti de' corpi infiammabili . Nella prima edi zionediquestenostreistruzionicisiamo indu striati di esporre questa teoria, sostenendola con tutte le nostre forze; e per lo spazio di quasi cinque lustri ce ne siamo serviti nel ri schiarare tutti gli argomenti chimici. Ed in ve ro colla sua applicazione vedevamo che i feno meni non restavano spiegati con molta infelici tà . Questo è stato ancora conosciuto da ruta ti i Chimici di gran nome , che fiorirono dopo di Sthal, onde la teoria del flogisto si era qua potesse  affinchè E3 si >   X 70 X siresa universale fino a'tempi presenti.Non può negarsiperd,chenonmaiiltlogistocosi inimaginato siabbiapotuto apertamente diinostra re ; e dal fin qui detto si deduce la sua ipotetica composizione.Cid non ostante era una teoria comoda , ed avea il suo luogo per mancanza di una migliore.Il progresso però della Chimica pneumatica , il quale a tempi nostri è addivenu to grandissimo, non solo l'haresa sempre più dubbia , ed inetta alla spiegazione de'fenomeni ; ma ( quello che magiormente importa ) ne le hasostituitaun'altra meno ipotetica,e più corri spondente aifenomeni.Eglièvero,cheifau tori dell'antica teoria abbiano fatto grandissimi sforzi per conciliare tutte le nuove teorie col flogisto ; ma ora senza difficoltà può dimostrarsi che questi sforzisiano stati infelici,come biso gnosi sempre di nuove finzioni, o di false in terpretazioni. Keywords: chimica filosofica, implicatura bio-chimica, biologia filosofica, teoria della vita, vita, virtu, virilita – l’implicatura flogistica – Grice: what science? Palmistry? What deliverance? Phlogiston theory? Rhetorical questions: he means No and No. Or non rhetorical and they are formidable obstacles to his constructive realism about which he could care less!--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Andria” – The Swimming-Pool Library.

 

Angeli (Venezia). Filosofo. Grice: “I like Angeli – I’m glad he dropped the ‘degl’angeli” – but then I would because he is into the infinite (insert infinity symbol here) as so am I – mainly in my elucidation of that Anglo-Saxonism of Indo-European origin (Latin, ‘mentatum,’ ‘mentitum,’ ‘mentitura,’ dicitura) – ‘mean’ – I refer to a self-referential clause to solve the problem, but then I also refer to Plato on geometry and the idea of a ‘de facto’ versus ‘de iure’ instantiation of a ‘regressus ad infinitum’ – So Angeli is bound to charm me!” Frate dell'Ordine dei gesuati, nel 1668, con la soppressione dell'Ordine voluta da papa Clemente IX divenne prete secolare. Delfino e fedele allievo di Bonaventura Cavalieri, insegna a Padova. Fu l'unica voce autorevole di fine Seicento che continuò a difendere la teoria degli infinitesimi, in palese conflitto con i gesuiti.  Si dedica allo studio della geometria, continuando le ricerche di Cavalieri eTorricelli. Passa quindi alla meccanica, su cui spesso si trova in conflitto con Borelli e con Riccioli.  Opere: “Della gravità dell'aria e fluidi, esercitata principalmente nei loro omogenei” (Padova, Cadorin); “Problemata geometrica sexaginta” (Venezia, La Noù); “De infinitorum spiralium spatiorum mensural” (Venezia, La Noù); “Accessionis ad steriometriam, et mecanicam” (Venezia, Noù); “De infinitis parabolis, de infinitisque solidis ex variis rotationibus ipsarum, partiumque earundem genitis” (Venezia, Noù); “Miscellaneum geometricum” (Venezia, Noù). Note  Fonte: M. Gliozzi, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in .  Mario Gliozzi, «ANGELI, Stefano degli», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. Àngeli, Stefano degli, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Amir Alexander, Infinitamente piccoli. La teoria matematica alla base del mondo moderno, Torino, Codice edizioni, 353.Kirsti Andersen, "Cavalieri's method of indivisibles." Arch. Hist. Exact Sci. 31 (1985), no. 4, 291-367  Stefano degli Angeli, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Stefano degli Angeli, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Stefano degli Angeli, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland.  Opere di Stefano degli Angeli / Stefano degli Angeli (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Pietro Magrini, Sulla vita e sulle opere del Padre Stefano degli Angeli matematico Veneziano del sec. XVII memoria di Pietro Magrini, letta all'Ateneo Veneto 10 Luglio 1862: Estratta dal Giornale Arcadico; tomo 45 della nuova serie, Tip. delle belle arti, 1866. Filosofia Matematica  Matematica Categorie: Matematici italiani del XVII secoloFilosofi italiani Professore1623 1697 23 settembreMorti l'11 ottobre Venezia Padova. Stefano d'Angeli, veneziano, lettore nello studio di Padova, provinciale veneto della sua religione de' gesuati, che fu soppressa, e discepolo di Cavalieri, di cui scrisse, 'Herculem geometricum alterum Bonaventuram sc. Cavalerium, cui devotione i habitu sui conjunitillimus eiusque sub disciplinis tyrocinium in geometria ad novem dumtaxatmenses, ipso a vivis mei mortali angore, qui tunc ad eram, o geometrarum omnium luctus, aciactura sublatum, posui auspican tillinum, orc: Siren de celebre Cavalieri colle molte opere, che manda alla luce, e spezialmente per la sua geometria degl'indivisibili, l'origine della utilissima analisi degl'infinitamente piccoli, come Itall'oinne fanno menzione i Chi ariss. Giornalisti. Ma sono opere dell'Angeli: "Problemata", "De infinitis parabolis", "Miscellaneum hyperbolicum, o parabolicum"; "Miscellaneum geometricum", "De infinitorum spiralium spatiorum mensura". Le Considerazioni sopra la forza di alcune ragioni Fisico-matematiche addotte da Riccioli nella sua "Astronomia Riformata" *contro il sistema copernicano*; le seconde *contro il moto diurno della terra piegato da Manfredi nelle risposte alle prime riflessioni di Stefano de Angeli; le terze e le quarte sopra la lettura di Borelli sopra la confermazione di una sentenza dello stesso prodotta da Zerilli , ecc; "Della gravità dell'aria, e de'audi"; "Dialoghi due" ;ed altri tre gli stampo.  The concept of infinitesimal was beset by controversy from its beginnings. The idea makes an early appearance in the mathematics of the Greek atomist philosopher Democritus c. 450 B.C.E., only to be banished c. 350 B.C.E. by Eudoxus in what was to become official “Euclidean” mathematics. We have noted their reappearance as indivisibles in the sixteenth and seventeenth centuries: in this form they were systematically employed by Kepler, Galileo's student Cavalieri, the Bernoulli clan, and a number of other mathematicians. It was Galileo's pupil and colleague Bonaventura Cavalieri (1598–1647) who refined the use of indivisibles into a reliable mathematical tool (see Boyer [1959]); indeed the “method of indivisibles” remains associated with his name to the present day. Cavalieri nowhere explains precisely what he understands by the word “indivisible”, but it is apparent that he conceived of a surface as composed of a multitude of equispaced parallel lines and of a volume as composed of equispaced parallel planes, these being termed the indivisibles of the surface and the volume respectively. While Cavalieri recognized that these “multitudes” of indivisibles must be unboundedly large, indeed was prepared to regard them as being actually infinite, he avoided following Galileo into ensnarement in the coils of infinity by grasping that, for the “method of indivisibles” to work, the precise “number” of indivisibles involved did not matter. Indeed, the essence of Cavalieri's method was the establishing of a correspondence between the indivisibles of two “similar” configurations, and in the cases Cavalieri considers it is evident that the correspondence is suggested on solely geometric grounds, rendering it quite independent of number. The very statement of Cavalieri's principle embodies this idea: if plane figures are included between a pair of parallel lines, and if their intercepts on any line parallel to the including lines are in a fixed ratio, then the areas of the figures are in the same ratio. (An analogous principle holds for solids.) Cavalieri's method is in essence that of reduction of dimension: solids are reduced to planes with comparable areas and planes to lines with comparable lengths. While this method suffices for the computation of areas or volumes, it cannot be applied to rectify curves, since the reduction in this case would be to points, and no meaning can be attached to the “ratio” of two points. For rectification a curve has, it was later realized, to be regarded as the sum, not of indivisibles, that is, points, but rather of infinitesimal straight lines, its microsegments.  La prima opera alquanto diffusa, ch'egli c o m pose e pubblicò in Venezia nel 1658 , ha per titolo: Problemata geometrica sexaginta circa conos, sphae ras, superficies conicas,sphaericasque praecipue ver santia. In questo volume sono svolte con tutto il rigore della scuola dottrine,che in tali materie fan no continuazione a quelle di Archimede e di A p o l lonio Pergeo. Frequentissime occasioni gli si pre sentano di usare la teoria degl'indivisibili,e fra que ste è la tesi,dove dimostra che il conoide parabo lico è la metà del cilindro ad esso circoscritto. Il grande Newton nella sua Arithmetica Univer salis si occupa anch'egli a lungo di questa propor zione, perchè la prende come suo tipo ad insegnare la maniera, con cui l'analisi algebrica debba asse starsi alla risoluzione delle questioni geometriche; ed è in questo luogo ch'egli stabilisce le regole , che poi servirono a tutti gli analisti di norma in così fatti esercizii. L'inglese geometra , dopo tutte le opportune considerazioni, arriva a darci  riphaeria subtendatur ab ipsis. pe per satemi il termine, confermò ed ampliò con più s o lenne espressione nella molto profonda sua opera di recente pubblicazione, che versa sui Porismi di Euclide . E d eccovi esperte tutte le riflessioni che m'indussero e m ' incoraggiarono a passare a rasse gna i lavori dell'uorno che mi proposi oggi di farvi ricordato . In mezzo ai tanti curiosi problemi di questo li bro trovai degno di menzione quello così annunziato: Datis tribus lineis invenire semicirculum cuius risoluzione del problema una equazione del terzo la   Quello che alcun poco potè turbarmi nell'esame di questa opera si fu la qualche importanza , che il nostro degli Angeli sembrava attribuire al così detto paradosso geometrico , perchè abbagliò lo stesso Galileo, ed è che il centro di un cerchio è eguale alla sua circonferenza. Questo giuoco di parole,che come vedesi non presenta alcun senso se non as surdo, era un fatale intoppo nel quale si urtava quasi sempre nell' uso del calcolo degl' indivisibili, ed eccovene l'origine.  ! 20 grado,dicui,come è notissimo,non puòfarsila co struzione se non per mezzo delle coniche sezioni. La sola riga ed il compasso non possono qui essere usate allo scopo, se non nel caso, in cui due delle date rette sieno eguali,poichè in allora l'equazione cubica può comodamente venire abbassata al grado secondo. Il degli Angeli scioglie i due casi , senza la face dell'algebra,che allora non era accesa,l'uno per locum planum, secondo illinguaggio scolastico, e l'altro per locum solidum. Le sue costruzioni sono elegantissime,e mostrano chiaro che istintivamente anche gli antichi avevano un -segreto oracolo di a n a lisi, che domesticamento consultavano,ma non fa cevano vedere al volgo. Vi risovvenga, o Signori, di quei due solidi d e scritti da me poco fa, cioè di un emisfero e di un cilindro incavato da un cono rovescio,cilindro che lo circonda, dei quali così facilmente si appalesa. l'equivalenza. Or bene : questa equivalenza si de duce col provare, che tagliati dovunque idue corpi con un medesimo piano segante parallelo.colla base comune d'entrambi, il circolo nato nell'emisfero   eguaglia a puntino la zona circolare spettante al cilindro incavato. E siccome ciò ha luogo per ogni piano segante immaginabile, dicevasi con molta fretta che ciò doveva effettuarsi anche nel piano tangente alla sommità della superficie sferica ; il che, come si vede, presentava da una parte un centro (cioè il punto di contatto) e dall'altra una circonferenza, cioè lo spigolo nudo del cilindro terminato; dunque per la presa analogia,il centro, cioè quel punto di contatto, doveva essere eguale a quella circonfe renza . Noi lo accorderemo di buona voglia, se sono così teneri di questa inezia , poichè sotto il riguardo di superficie (e qui si tratta di superficie soltanto) così il centro come la circonferenza si possono egua gliare,perchè sono entrambi eguali a zero; ma que sto strano vaniloquio non può insorgere a pretesa, se non in quei casi speciali , ove si richiama ad uno stato anteriore di rapporto , e non può certo aver modo di entrare quando sitrattassediun qua lunque cerchio isolato in un piano. Bastava riflet tere che il ragionamento dimostrativo non era ri volto che a' piani seganti; dunque il piano tangente non v'entrava se non ad indicare il limite dove il rapporto di eguaglianza andava a cessare.La man canza di un linguaggio ben formato, e che ci fu dopo dalla teoria dei limiti perfezionato, impedì forse la spiegazione chiara del sofisma per parte Questa menda del nostro autoreriflessa sopradi lui dallo splendore di un gran nome ,è a dismisura can cellata dai tanti lavori di gran lena ch'ei porse nel seguito. Tale è il suo Miscellaneum hyperbolicum  21 di tri cotanto valenti e degnissimi di rispetto. geome   pubblicato nel 1659 , e dedicato agli Illustrissimi Cinquanta del Senato di Bologna in contrasegno di gratitudine per quella illustre città ; nella quale sua opera tratta profondamente dei centri di gra vità dell'iperbola, delle sue parti e di alcuni so lidi , dei quali nessuno fino allora aveva parlato. Insegna a quadrare la parabola in doppia manie ra ed a guidare le tangenti a tutta la famiglia pa rabolica. Sulla parabola inoltre e sui co noidi di essa risolve curiosi problemi spettanti ai massimi , inscrit tibili ed ai minimi circoscrivibili. In questo suo li bro l'autore ambisce di pretendere alla priorità sul la Faille e sul Guldino medesimo , il quale nella rinomata sua opera Centro -barica , così confessa la sua mancanza in questo proposito : deest hoc loco hyperbolae ejusque partium centri gravitatis investi gatio . L'opera uscita dalla sua penna nel 1660 è m e ritevole di ricordanza,tanto per la persona alla quale viene dedicata, quanto e molto più per la materia che l'autore vi ha svolta. È stato umiliato quel lavoro all'eminentissimo cardinale Gregorio Barbarigo, Patrizio Veneto, ve scovo allora di Bergamo, e che in seguito , come tutti sanno, fu vescovo di Padova e morì nel 1697, cioè l'anno medesimo della morte del nostro degli Angeli, ed il quale vescovo fu poi annoverato fra i beati dal suo concittadino Carlo Rezzonico,Papa sotto il nome di Clemente XIII. La dedica, o Si gnori, era degnissima,poichè sappiamo dalla storia della vita del Barbarigo .ch'egli era dottissimo nelle cose matematiche, e per ciò sembra che a buon di  22   Parlando della materia del trattato,che s'inti tola De infinitorum spiralium spatiorum mensura , ella valse a collocarlo in un gran posto fra i geo metri del suo tempo: e quel soggetto fu poi anche ampliato coll'aggiunta ch'ei vifeced'un altro trat tato, detto De spiralibus inversis, stampato in P a dova nel 1667. Fine a quell'epoca gli antichi a v e vano assai beve conosciuto ed usato le proprietà , gli spazi, le tangenti della Spirale di Conone o di Archimede,ma di poco o nullasieravarcatoque sto termine. Il degli Angeli ci racconta egli stesso di essere stato parecchie volte stimolato a scandagliare più a fondo in questo mare,quando trovavasi in Roma . E quelli che così eccitavanlo erano un Michelangelo Ricci,da lui chiamato il Corifeo degl'italiani geo metri, al che fece eco pienamente anche il Montu cla; poi un Francesco Slusio, riputato geometra fran cese, ed infine un matematico inglese di fama, Ric cardo Albio . Essendo egli allora troppo giovane ri cusò di affrontare cotali gravi ricerche, confessando modestamente il carico non trovarsi adattato agli omeri suoi. Ma più tardi,essendo in Venezia, e ri svegliatosi in lui colle nuove forze acquistate a n che il coraggio , intraprese lo studio delle infinite specie di spirali, e fu allora riverito per la novità dell'argomento e per la profondità della trattazione. Dopo di lui altri valenti coltivarono questo campo e lo trovarono ancora fecondo. Se non che la glo ria di esaurire in tutta la sua estensione un tale argomento era riservata al più moderno chiarissimo  23 ritto e senza lusinghe il degli Angeli lo invocasse col nome di Geometrarum Mecenas peritissimus.   matematico Varignon,inuna bellissimasua memoria, citata spesso e spesso indicata a modello ai giovani studiosi , la quale si trova inserita nelle Memorie dell'Accademia delle Scienze di Parigi per l'anno 1704. Tuttavolta a non iscemare di un punto il meritodelVeneziano,tornaopportuno ilriflettere che quella Memoria straniera comparve 44 anni più tardi, e di quegli anni di abbondanza, nei quali ľ analisi ardita aveva tanta sua ala distesa. Copiusi problemi di tutte le specie riguardanti le aree delle figure piane ed i volumi dei solidi non che i loro centri di gravità , si contengono tanto nella seconda parte di questo libro delle Coclee , quanto nel Miscellaneum Geometricum prodotto nel  24 Alle ora accennate due opere va unita per m e rito d'interessanti investigazioni quella del 1661 De infinitarum Cochlearum mensuris ac centris gra vitatis,dedicata a Leopoldo II dei Medici,granduca di Toscana, quegli sotto i cui validiauspiciisi for m ò e crebbe l'Accademia del Cimento . In questo dotto lavoro descrive la forma delle infinite coclee sìstrette esìallargate,chesigeneranopermezzo di triangoli, di rettangoli, di semicerchi,ed altre fi gure piane scorrenti con duplice moto , l'uno circo lare e l'altro progressivo, con diverso rapporto di velocità; ed assegna col metodo degl'indivisibili i volumi di questi solidi strani ed apparentemente intrattabili. Si propone in tale memoria l'autore di continuare e di estendere la strada tracciata ed i n cominciata assai pregevolmente dal Torricelli , m a ehe questo celebre uomo per cagione di morte la sciava ad altri da percorrere.   1660 , quanto ancora nell'opera pubblicata nel 1662 , cioè nell'anno primo in cui era entrato nella Pa tavina Università e che si intitola: Accessio ad Ste reometriam et Mechanicam in qua traduntur m e n s u rae et centra gravitatis quamplurium solidorum.  25 . Nell'anno 1661 ideò un nuovo genere d'in vestigazioni nell'opera intitolata de Superficie U n gulae, a cui si unisce una seconda parte, che tratta de quartis liliorum parabolicorum et cycloidalium . Ciò che porgesse a lui il destro di mettersi a trat tare questi argomenti lo racconta egli nella sua pre fazione. Già nell'anno 1659 era comparso in R o m a un opuscolo de cycloide et de figura sinuum , che vantava per autore un Onorato Fabri Gesuita , sotto ilpseudonimodiAntimoFabio:ilbuondegli An geli s'invaghì di quest'opera ed indovinò che nella figura dei seni ivi celebrata latitabat non spernen d u m geometricum mysterium . E svelò a quanto pare pel primo ilmistero,dicendo che quella curva che noi chiamiamo sinusoide, altro non era che la sezione obbliqua d'un cilindro tagliato diagonalmente con un piano condotto pel raggio del quadrante base e sviluppata in un piano. Quantunque quell'Onorato Fabri non sia un nome molto onorato nella storia della scienza, poichè fu quest'uomo mai sempre av verso al Galileo e combattè ostinatamente tutte le belle scoperte dei giorni suoi, ilnostro matematico fa di lui qualche caso rispetto al citato libretto. Per altro è facile indovinare ch' ei lo faceva con una piccola dose di spirito di partito, giacchè sco priva nel Fabri un grande settátore del metodo del Cavalieri. E tanto anzi il Fabri lo usava con in 3   26 Quell'opuscolo per tanto del Fabri diede occa sione al degli Angeli di combinare problemi di tutte le specie intorno alle unghie cilindriche,ai loro cen tri di gravità, ai solidi da esse con varia maniera di movimento ingenerati. Raddoppiata la superficie svolta in piano dell'unghia cilindrica in tre modi diversi, egli costruisce una simmetrica figura, ch'ei chiama un giglio ungulare, dal quale poi altri gigli germogliano con altri ideati movimenti, e di tutta questa fantastica famiglia di figure aventi tutte per elemento l'unghia cilindrica , valuta secon do il solido le aree , i punti di equilibrio , i vari conoidi derivanti da quelle: e le stesse combinazioni, e gli stessi oggetti si propone nei suoi studi sulla semicicloide . Queste descritte, ed altre molte di eguale va lore, sono le opere geometriche del professore degli Angeli, opere il dobbiamo pur dire con ricresci m e n t o , le quali al pari di quelle di altri illustri suoi contemporanei non vengono più lette. La ragione di questo abbandono non è a mio credere soltanto il Fu quel secolo uno dei più brillanti e privile giati,sì per la moltitudine degli uomini di genio su periore, e si per la grandezza dei trovati. Sembra che la natura abbia voluto in quei giorni di deca  temperanza,che ilnostro autore a suo riguardo così si esprime: ut ad indivisibilium arenam percurrendam fraeno potius quam calcaribus indigere videatur. progresso della scienza ed il lasso del tempo , che corre da quelli a'nostri anni, poichè le verità m a tematiche non sono soggette aprescrizione di tempo; la causa più vera e profondamente morale.   27 denza delle lettere mostrare quanto ella era capace di produrre per largo compenso alla dignità del l'uomo. L'Italia prima del sapere maestra , dopo la barbarie dell'età di mezzo diede in questo se colo potentissimi e rinomati ingegni,un Luca Vale rio, un Galileo, un Torricelli, un Viviani , un C a valieri,un Pucci e moltissimi altri.Ma l'Europa produceva in quel tempo in altri climi il Nepero inventore del nuovo calcolo logaritmico, il Guldino scopritore di un nuovo cammino nello studio delle curve, il Keplero che tutti sanno, il Roberval; poi il Pascal, il Cartesio , il Newton; poi l'Huygens e la portentosa famiglia dei Bernouilli, e quel mira colo del Leibnizio, di cui tante si onora l'umano intelletto. E come la comunione espansiva di que ste straniere intelligenze fece salire a passi gigan teschi il sapere e lo unificava , è ben da credere che il tributo, che a questo cumulo di ricchezza l'Italia poteva recare, avrebbe certo accresciuto il tesoro della scienza o di molto accelerato ilsuo an damento nella matematica pura, come l'Accademia del Cimento fece già a pro' delle naturali scienze. Ma gl'italiani, rispettate alcune eccezioni,si tene vano in disparte nel purismo sintetico, ed offerivano solitari sagrifizi alla greca sapienza, benchè con at tività e maestria nuove ricchezze portassero a que gli altari ed a quei templi vetusti.E mentre sde gnavano di dare ad altri la mano nella grande in vestigazione della verità, ebbero talvolta a provare qualche umiliante disinganno;come avvenne fra gli altri al Viviani nel suo vantato Ænigma geometri eum, che ben presto fu spiegato in più modi ed    in più luoghi dagli oltramontani analisti. Attenutisi troppo scrupolosamente al linguaggio ed alle forma lità degli antichi, e non avendo voluto adottare quel calcolo algebrico, che tanto facilitava agli altri le dotte ricerche, si vennero a chiudere le porte per arrivare fino ai nepoti, e non rimasero le faticose ed ottime loro opere che come venerabili m o n u manti di storica scienza, che visitati non vengono se non da pochi pazienti eruditi. Mi si perdoni questa digressione, che per in tendimento aveva di mettere le produzioni del mio encomiato Stefano degli Angeli nell'aspetto sotto il quale è lecito oggi di riguardarle, e passiamo a par lare delle polemiche sue scritture.  28 È notissima nella storia della scienza la lunga lotta, che si riscaldò fra lui ed il Padre Giambat tista Riccioli Gesuita, uomo rispettabilissimo per la multiforme sua dottrina letteraria e scientifica, e so prattutto riputatissimo astronomo.Questo dotto pro fessore, che in compagnia del P. Grimaldi suo al lievo, giovò non poco colle sue esperienze a conser mare le leggi dei gravi cadenti scoperte dal fioren tino Filosofo, ebbe poi a macchiare inescusabilmen te il suo nome coll'essere divenuto uno dei più pertinaci combattenti, che mai facesse battaglia al grande Italiano sulla sua tesi del moto diurno della Terra. Ma il sapiente Riccioli non si teneva contento ai soliti plateali sofismi stiracchiati fuori dalle sagre carte dagl'ignoranti; egli invece si sbracciò a con trastare in sul serio quel movimento del globo con argomenti fisico -matematici. Oltre alla tante volte addotta difficoltà di concepire la rotazione della terra   a cagione della forza centrifuga, che dovrebbe ge nerarsi , a detta degli avversarii , in tutti i corpi terrestri nel moto circolare diurno,per cui la massa del globo ben presto verrebbe disfatta , argomento che si abbatte colla dimostrazione consueta che la velocità della terra dovrebbe essere 17 volte m a g giore dell'attuale perchè la forza centrifuga potesse eguagliare soltanto la gravità dei corpi , il Padre Riccioli aveva coniato un argomento fisico -m a t e m a tico tutto di suo gusto,al quale credeva che nes sun uomo di scienza potesse rispondere. Immaginatevi, ei diceva, che un grave siasi la sciato cadere dalla cima di una torreelevata,tanto che il corpo debba impiegare p. es. cinque minuti secondi per battere il suolo nella caduta. Dividendo quest'altezza in cinque parti nel rapporto dei tempi parzialidiquesta caduta con moto uniformemente ac celerato,cioè 1, 3, 5, 7, 9, figuratevi che il grave abbia ricevuto l'impulso da occidente in oriente a principio , c o m e voi pretendete , e troverete naturale ch'esso debba descrivere una curva. Ora il calcolo mi dimostra che le parti od archi di questa traiet toria rispondenti ai varii tempi summentovati sono pressochè eguali. Laonde le velocità del Il professore degli Angeli nell'anno 1663 , quando  29 questi varii tempi , rappresentate da quegli archi , dovranno essere eguali,cioè nell'ultimo tempo come nel primo; dunque il corpo cadente dovrebbe bat tere la terra colla stessa forza come nel primo i stante così anche nell'ultimo , lo che è contrario all'esperienza, e perciò questo vostro sognato moto della terra non può esistere. in corpo   già da sei anni si trovava all'Università di Padova , si propose di abbattere tutti gli argomenti dell'a stronomo Gesuita, e ciò fece trionfalmente in va rie riprese colle sue prime , seconde, terze e quarte considerazioni sopra la forza degli argomenti fisico matematici del P. Riccioli contro il moto diurno della Terra,stampate in Padova. La confutazione sparsa per quei suoi quattro opuscoli riuscì un poco lunga e forse prolissa, poichè la compose alla forma di conversazioni fra un certo Conte Lescysky, un si gnore Offreddi ed il Matematico di Padova , ch'era egli stesso. La lentezza dei ragionamenti e delle d e duzioni dipendeva naturalmente dalla forma in dia logo dell'opera, poichè metteva il personaggio prin cipale nella necessità di togliere le più piccole dif ficoltà ed obiezioni degli altri due interlocutori. Ma la sostanza delle ragioni del Matematico di Padova si ristringeva a mostrare che il Padre Ric cioli, per altri conti commendevole,siera mostrato con sua vergogna in questo affare, atteso lo spirito di partito, assai inesperto nelle leggi più comuni della Meccanica.Mostrò cioè d'ignorare che nell'urto dei corpi contro un ostacolo irremovibile, come il piano sottoposto alla torre , dipendere doveva la forza della percossa non tanto dalla velocità asso Juta, di cui è il corpo animato, ma ancora dalla di rezione con cui la percossa discende. La velocità accordata pure che sia eguale nell'ultimo tempo come nel primo, non è poi egualmente inclinata nel corso della traiettoria nei varii tempi rispetto alla verticale.Decomposta in fatti la velocità assoluta in in una verticale e l' altra orizzontale, soltanto la  30   Ad ogni modo questa lunga controversia fu tutta col vantaggio del nostro concittadino, ed ebbe nella sua schiera tutti i veri scienziati d'allora, e non solo per questo conflitto, m a per la più possente ragione, ch' egli fu per carattere uno dei più caldi sostenitori del progresso in tutti i rami delle scienze fisico-matematiche. Ed invero nell'anno 1671 faceva di pubblica ragione in Padova due lunghi dialoghi fisico-m a t e matici; e tre altri nel successivo anno 1672, che avevano per titolo Della gravità dell'aria e dei flui di esercitata principalmente nei loro omogenei: nei quali con amene conversazioni fra quegli stessi in  31 prima doveva operare nell'urtare; e siccome le in clinazioni della velocità nei varii tempi erano diverse, diverse pure dovevano risultare le componenti v e r ticali; e queste appunto si trovano, con facile di mostrazione, nello stesso rapporto crescente, come se non esistesse l'impulso orizzontale; e per ciò si conchiude che il moto della Terra per nulla si o p pone all'esperienza, e può ben anche con essa sus sistere. Rilevata così l'impotenza del grande Achille del Riccioli si usarono dall'autore tutti gli ar gomenti indiretti, che potevansi per allora mettere innanzi . Là prova diretta del movimento rotatorio della terra , come ben sapete, signori , era riservata ai giorni nostri; chè ce la diede quel preclaro ingegno del sig.Faucault, per mezzo del pendolo da lui idea to, e poi da quel suo giroscopio , che rende sen sibile il fenomeno fra le pareti d' un gabinetto di fisica.   terlocutori di sopra nominati , si svolgono tutte le leggi dell'idrostatica e si sciolgono le minute diffi coltà di certi paradossi , già noti in quella materia , e dei quali in allora ben pochi precettori davano una chiara spiegazione. Non pretende il nostro autore, com'egli asserisce con modestia nella introduzione, che queste súe composizioni contengano cose del tutto nuove e non tocche dagli altri ; m a essergli stato di eccitamento a scrivere il desiderio di gio vare ai nobilissimi scolari di quel sapientissimo s t u dio:i quali, diceva il nostro professore,camminando al dottorato pei ponti delle dottrine peripatetiche e delle formalità, poco o nulla vedevano della filoso fia sperimentale. La quale dichiarazione serve farci conoscere ad un tempo e lo stato delle p u b bliche istituzioni d ' allora, e gl' intendimenti del n o stro degli Angeli sul vero scopo degli studii pegli uomini socievoli. Ma non è a credere ch'egli con tato zelo del sapere calcasse unicamente le sole aride ed ardue vie della severa matesi e delle scienze. Abbiamo invece ogni motivo per ritenere ch'egli nella clas sica letteratura fosse molto perito, egli che per molti anni della sua fresca età n ' era stato precettore fra i suoi: egli che con tanta sveltezza di dicitura usò mai sempre familiarmente la lingua del Lazio. Ed inoltre nelle lunghe dedicatorie epistole, rivolte ai più distinti personaggi dello stato e della chiesa , lo troviamo come uomo familiarissimo degli ameni stu di spargere sali ed argutissime mitologiche allusioni, e questo con frequente uso ed anche abuso a se conda del gusto del secolo. Il Bresciano dottissimo  32   A coronare il monumento ,che oggi m'ingegnai d'innalzare in questo letterario ricinto al nostro c o n cittadino Stefano degli Angeli, non mi rimane che porvi sopra un'ultimaghirlandadifiori,cioèdifare ricordanza delle qualità dell'animo suo. E qui sarò breve poichè l'affare è assai vecchio . Questo sacer dote così esaltato e venerato dai suoi confratelli per più di trenta anni, così accarezzato e tenuto per familiare ed amico da tanti nobili e famosi per sonaggi, la intera vita del quale non respirò che osservanza scrupolosa dei proprii doveri, e fu inces santemente modellata alla ricerca e diffusione del vero, non poteva essere dotato che di bella indole e di soavi costumi. E mi basta ad accertarmene per tutte la testimonianza del più volte citato sto rico contemporaneo della Patavina Università , Carlo Patino, che col degli Angeli viveva domesticamente , ed il quale al suo riguardo si esprime con queste parole : Singularem Stephani comitatem , m o r u m » que suavitatem experiuntur quicumque illam d e » siderant , adeo facilis est omnibus , benignus et » beneficus. In ejus gloriam dictum sit nullum a » m e inventum , qui vel levissime de ejus dictis » factisque conquereretur ».  33 E qui darò termine alle mie illustrazioni sulla vita e sulle opere Mazzuchelli ricorda la corrispondenza che regnava fra il degli Augeli ed ilcelebre antonio Magliabechi, in assai scritti di argomenti scientifico-letterari , e questo legame col fiorentino filologo serve bastan temente a dichiararlo non istraniero al consorzio dei dotti contemporanei di tutte le classi. di questo insigne matematico   e filosofo veneziano. Il desiderio di togliere da ob blio ingiusto e di mettere in piena luce i diritti a fama non peritura di quest'uomo il nome del quale così stretto si lega ad uno de' trovati più belli dell'italiano ingegno, m'infuse costanza, e dolce mi sembrò la fatica nella lettura di opere,che at tualmente pei modi mutati sono poco leggibili. So che potrebbe taluno ricantarmi essere ilnostro pre sente così fervido d'interesse nella scienza e nelle sue applicazioni al materiale benessere della vita da impedirci di guardare addietro nei secoli che f u rono. Ma io penso che sia non ultimo fragl'inte ressi del progresso e di quelli che lo promuovono , il celebrare con sagro zelo la memoria ed il bene fatto dai trapassati. Imperocchè con questo g e n e roso operare tramanderemo un buon esempio ai n e poti, a quei nepoti  34 « che questo tempo chiameranno antico », di non mancare di gratitudine ai primi informatori del bello,dell'utile e del vero.Così impediremo loro di gettare addosso un guardo compassionevole sui nostri prodigiosi lavori, che ora vagheggiamo con giusto orgoglio , m a i quali per fermo, secondo mento delle mondane cose,si contenteranno in al lora di venire conservati e posti in opera come materiali alla costruzione di nuovi e più amati edi fizii . Stefano degli Angeli. Angeli. Keywords: implicatura stereometrica – parabola infinita – Grice’s infinity – regressus ad infinitum, i cinque solidi platonici – la scatologia di Platone – il cerchio infinito – concetto limite, ottimalita – fisica e metafisica, fisica e aritmetica – aritmetica e geomtria – il moto diurno della terra, il sistema di galileo – antropocentrismo, ferita narcissista.   Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Angeli” – The Swimming-Pool Library.

 

Angiulli (Castellana). Filosofo. Grice: “I like Angiulli; especially since he brought some grice to the mill, as he crossed the pond to read “System of Logic,” but his heart is in Berlin --  he loved that monumental ‘aula magna’ where Hegel taught. “Once a Hegelian, always a Hegelian.” He loved Feuerbach because he multiplied dialectic – la dialettica della dialettica – Garin loved this!”  If there is a hashtag here is #metafisicacritica, since Angiulli oddly concludes with a synthesis: metaphysics (which includes the view that ‘la natura delle cose e la fenomenalita’) should be part of what he calls the ‘ricerca’ (and which Lakatos translated as ‘research’) --.” Grice: “I love the fact that Angiulli, seeing that Mill was so erudite yet never attended Oxford, thought that Oxford was perhaps ‘acccidental’” – Grice: “Another thing I love about Angiulli is that he can quote direct from greek, as in his note on nature spawning itself, without (a) the need to translate or (b) provide the boring stuffy academic source!” Importante esponente del positivism.  Inizialmente allievo di Bertrando Spaventa, uno degli interpreti del pensiero hegeliano in Italia, successivamente Angiulli si allontanò dalla scuola hegeliana napoletana dopo un soggiorno biennale di studi in Germania nonché in Francia e in Inghilterra, dove conobbe la sua futura sposa: Mary della nobile famiglia dei Romano di Patù, nipote di Liborio Romano. Aderì al positivismo, ma rifiutò l'agnosticismo di Herbert Spencer, mentre ritenne possibile giustificare la "religione dell'umanità" (di Auguste Comte) in base alle scienze positive.  Iniziò la sua carriera d'insegnante di filosofia nel liceo "Vittorio Emanuele" di Napoli. In seguito divenne professore di antropologia e pedagogia nell'Bologna e dal 1876 ordinario di pedagogia in quella di Napoli, dove fu anche incaricato dell'insegnamento di etica e di filosofia teoretica.  Fu più volte assessore alla pubblica istruzione nel Comune di Napoli dal 1884 e candidato senza successo al parlamento nazionale. Angiulli era ritenuto un progressista vicino al socialismo che egli invece contestava come dimostra la sua corrispondenza epistolare con Marx che aveva avuto modo di conoscere in Germania.  Massone, fu affiliato Maestro nella Loggia Fede italica di Napoli. Il pensiero pedagogico Angiulli riteneva che ci si dovesse adoperare per una riforma dell'istruzione in senso popolare e nazionale inserendo questo progetto nell'ambito di un rinnovamento dell'intera società che solo tramite l'educazione sarebbe riuscita a mantenere nel tempo le proprie caratteristiche. Occorreva dunque una fusione fra cultura, sistemi educativi e la politica sociale realizzando così il programma del pensiero positivista che, secondo Angiulli, ha un valore soprattutto pedagogico, di una pedagogia scientifica, secondo i dettami positivisti, ma anche letteraria e liberale.  La pedagogia quindi non potrà non tener conto dell'antropologia che dimostra l'importanza della famiglia come nucleo fondante della società e della sociologia che stabilisce il collegamento tra educazione e una politica laica e liberale.  È nella famiglia, secondo Angiulli, che avviene la prima forma di pedagogia dove il padre rappresenta l'autorità e la madre il temperamento, tramite l'affetto, dei comportamenti infantili: elementi questi essenziali destilla formazione armonica di un cittadino in grado di esprimere solidarietà sociale e volontà di progredire resistendo a quelle pressioni clericali che caratterizzavano i primi anni della nascita dello stato unitario italiano.   I grandi progressi compiuti in questo secolo in ordine alle scienze p o sitive hanno avuto il loro riverbero nelle industrie e in tutto ciò che si po trebbe dire scienza pratica, la quale ha fatto dei passi giganteschi. È stato questo che ha contribuito a infiltrare nell'animo di tutti , nonchè un senso pratico della vita assai più raffinato , la tendenza al sacrificio di ogni più nobile cosa di fronte all'interesse. Data una tale costituzione psicologica, parecchi problemi son sôrti nel campo teorico. Si èdetto:– A che la Poesia, a che l'Arte ? Il tempo delle finzioni , delle illusioni e dei sogni è passato ; ora si cerca ciò che ha un'utilità più o meno immediata, la realtà ci s'im pone. Il terreno delle emozioni si va sempre più restringendo e l'intelligenza pervade tutto.— Il grido Non piùPoesia si è accompagnato col grido Non più Metafisica (Nicht mehr Metaphysik ), ed abbiamo ancora nelle orecchie gli anatemi lanciati non solo contro la Metafisica,ma anche contro la Filo sofia in genere. Il puro specialista in fatto di scienza si ascriveva ad onore il dispregio per ciò che fosse Metafisica. Questo stato però si può dire che sia durato poco,e da tutte parti re centemente è surta una reazione benefica contro la corrente antifilosofica. Ma se ci è un certo accordo quanto ad ammettere la Filosofia,regnano ipiù grandi dispareri per ciò che concerne i limiti da dover assegnare a tale disciplina. La maggior parte dei scienziati, per esempio , ha compreso che ciascuna delle loro scienze speciali ha per iscopo precipuo la scoverta di leggi sempre più generali, di leggi che raccolgano sotto il loro dominio il maggior numero di fenomeni. Generalizzando sempre,si arriva a certi principii che offrono sinteticamente la genesi di quasi tutti i fatti primitivamente raccolti e descritti dagli scienziati;esponendo e discutendo tali principii, sidiceche si fa la Filosofia di quella data scienza. Per codesti specialisti quindi non ci sarebbe una sola Filosofia, o meglio, la Filosofia come scienza a parte, ma ciascuna scienza avrebbe la sua. E pur volendo ammettere,notarono al cani, la Filosofia quale scienza a sè, ad essa non rimarrebbe altro compito che quello di volgere intorno alla Dottrina della Conoscenza. Ci furono altri che proclamarono un sogno la sintesi cosmica, per modo che tutti i sistemi metafisici passati e futuri non avrebbero per loro che il valore di aspirazioni dell'anima, di espressioni di amore per l'Ideale. Codeste opinioni sono sostenute da filosofi di molto merito, nè si creda che non siano giustificate in nessuna guisa; ciascuna invece contiene una parte di verità; il difetto sta nell'aver esagerato troppo l'importanza di co desta parte e nell'aver escluso gli altri elementi. Quelli, per esempio, che hanno visto nella Metafisica nient'altro che ilromanzo dell'anima,non hanno tutti i torti, giacchè se in ogni lavoro scientifico quasi quasi si trova la nota della sensibilità, molto più si rinviene questa nella Metafisica che è un lavoro d'insieme. Le condizioni della conoscenza non sono sempre in uno stato di semplicità ideale, ma si vanno sempre complicando,e l'oggetto della ricerca non appare con una nettezza definita , nè l'intendimento è comparabile ad uno specchio terso. L'uomo non ha abbastanza facoltà per quest'opera di creazione,perchè scovrire è creare.  L'immaginazione entra in giuoco,muo vendo dal fondo stesso del temperamento, di cui quest'immaginazione è un riassunto. Ogni spirito di scienziato ha dunque un certo fare originale, sub biettivo,anche nell'ordine delle conoscenze più lontane dalla complessità della vita. Che avverrà in ordine alle conoscenze più viventi e più complesse, e fra queste in ordine alla più complessa di tutte, come quella che riflette l'uomo e il mondo, vale a dire alla Metafisica? I sostenitori dell'opinione che la Metafisica debba considerarsi come un romanzo dell'anima,ragionano a questo modo. Costruire un sistema è com piere, per mezzo di un'ipotesi esplicativa, la somma delle conoscenze esatte fornite dall'esperienza. Noi possediamo sull'universo e sull'uomo una certa quantità di nozioni positive, noi le coordiniamo e completiamo per via di una teoria generale,allo stesso modo che un geometra disegna una circonferenza intera secondo il semplice frammento di un cerchio. E queste nozioni posi tive, materia indispensabile della nostra ipotesi,ci sono apportate dall'espe rienza in due modi distinti. Da una parte il filosofo conosce i risultati ge nerali delle scienze sperimentali nel tempo in cui egli lavora, e vi conforma la sua immaginazione d'inventore d'idee; dall'altra parte questo filosofo ha subìto, almeno nella sua infanzia e nella sua giovinezza, le influenze infini tamente multiple e complesse della sua famiglia , dei suoi amici , della sua città,della sua regione. La sua vita sentimentale e morale ha preceduto ed accompagnato la sua vita intellettuale. Questa seconda iniziazione si unisce alla prima in modo che la scoverta d'una dottrina si trova essere insieme un romanzo dello spirito ed un romanzo del cuore. Coloro che limitano l'obbietto della Filosofia solo alla dottrina della co noscenza, neanche sono completamente nel falso. Se l'oggetto della Filosofia come sintesi cosmica è la ricerca della genesi dei principii fondamentali di ciascuna scienza speciale, è chiaro che per gradi si risale, generalizzando sempre, dal dominio di ogni scienza speciale a quello della Filosofia. Le con dizioni della scienza moderna son tali che il puro specialista quasi quasi si potrebbe dire che non è un vero scienziato.I legami fra le varie scienze sono oggi così stretti,che s'impongono alla considerazione di tutti.Ed ipro blemi un tempo di esclusiva pertinenza della Filosofia entrano ora nel d o minio delle scienze speciali. Identificando l'oggetto della Metafisica con la realtà immanente dell'esperienza e identificando il metodo di studiarlo coi procedimenti della scienza positiva, essa o non deve esistere, o si converte nella Fisica , intesa come scienza prima ed universale , in quanto tocca il problema cosmico, il problema dei principii fondamentali ed universali, pro blema che emerge da sè dalle scienze speciali, senza alcun lavorio partico lare. La Filosofia però è la continuazione delle scienze positive,costituendo la loro unità, il loro tutto, ma non è che un lavoro di compilazione. Come còmpito speciale ed originale della Metafisica non rimane alla fin delle fini che la Dottrina della Conoscenza. L'obbietto del saggio dell'Angiulli  è appunto quello di esaminare i titoli che la Filosofia pud presentare per essere riconosciuta come scienza separata che ha un còmpito proprio. È stato per questa ragione che mi è sembrato opportuno dilungarmi prima un pochino nel delineare come stanno le cose attualmente. Prima e contemporaneamente alla pubblicazione del libro dell'Angiulli, parecchi altri hanno mostrato come la Metafisica fosse da considerarsi quale scienza con un obbietto ben definito. E si può dire che tutte le scuole filo sofiche contemporanee siano d'accordo su questi punti, che il vero oggetto del nostro sapere è la sintesi dello scibile, la ricostruzione ragionata del mondo analiticamente conosciuto,che la veduta metafisica deve essere sug gerita principalmente dai risultati delle scienze sperimentali, e di queste essere la migliore spiegazione possibile, e che non ha valore quella tratta zione metafisica, alla quale non sia fatto precedere un accurato esame del potere conoscitivo umano,una critica cioè della conoscenza. Gli Idealisti però non consentono che la Metafisica sia dichiarata una scienza positiva, perchè, a differenza di queste , essa ha un doppio intento : ha per oggetto materiale il pensiero, che differisce dagli obbietti delle altre scienze, e per oggetto formale lo studio delle relazioni supreme onde i singoli fatti si col legano fra loro.Le cognizioni proprie della Metafisica,secondo costoro,si ottengono bensì mercè l'osservazione, purchè questa sia psicologica , razi nale, anzichè solo empirica. Poi il procedimento della Metafisica nell'addurre la ragione delle conoscenze, non è quello delle discipline positive; queste debbono limitarsi all'esperimento ed all'induzione, laddove quella, oltre tali metodi, deve seguire speciali criteri suggeriti dalla critica della conoscenza,  Ora comincio col domandare: A quale delle categorie di pensatori ac cennatepiùsuappartiene l’Angiulli? A nessuna: per lui oltre la Filosofia di ciascuna scienza, c'è la Filosofia il cui obbietto è la sintesi cosmica e del sapere. Egli ritiene che i progressi delle scienze positive non hanno fatto pernientemutarel'obbietto dell'antica Metafisica –Sintesi cosmica (Cosmologia), Sintesi del sapere (Dottrina e Critica della Conoscenza) e Valore dell'esistenza (Etica) -- ma hanno solamente portato una rivoluzione in ciòche riguarda il metodo da seguire nella soluzione del problema metafisico. Angiulli qualifica la sua Metafisica come scientifica e progressiva,dichiaran dola scienza e non meno positiva delle altre. Se tale quesito fosse stato for mulato da un dommatico spiritualista o materialista che fosse, ci sarebbe da meravigliarsi poco, e la cosaavrebbepocoopunto importanza; ma il tenta tivo di una metafisica scientifica fatto da un partigiano così illustre del metodo sperimentale, è cosa degna di ogni considerazione.   per distinguere l'apparenza dalla realtà. Finalmente l'ordinamento delle parti nelle singole scienze è parziale, invece la disposizione di esse nella Meta fisicaètotale:quelleordinanocose,fatti;questa,oltrelecose,devedisporre ancheleidee,eordinarel'essereeilconoscere.Conchi one, la Metafisica e una scienza razionale, non positiva. Lasciando da parte ora le sottigliezze metafisiche che non fanno progredire d'un passo la scienza, dirò che tra i filosofi contemporanei quegli che molto si è occupato del problema metafisico è stato il Fouillée. Mentre la scienza pura e semplice, egli dice, non bada che ad oggetti particolari, fac e n d o astrazione dalla mente che li conosce, come d'altro canto la psicologià non si occupa che dei fatti mentali, facendo del pari astrazione da ciò che si co nosce per via dei poteri mentali, è solamente la metafisica che si occupa della relazione, del nesso esistente tra gli obbietti e la mente ; e la vera realtà sta appunto in tale relazione, in tale corrispondenza. Però, a senso suo, tutte le altrescienze, compresala Psicologia, sarebbero dachiamarsipro priamente scienze astratte, mentre solo la Metafisica sarebbe da dirsi concreta . Insomma, l'oggetto della metafisica volgerebbe intorno alla reazione di tutto il nostro organismo mentale (conoscenza, volizione, sentimento) di fronte al Mondo.IlFouillée delrestoaccennasolamente aivariproblemimetafisici, ma non ne svolge, nè alcuno ne approfondisce, vuoi in fatto di cosmologia, vuoi in fatto di psicologia, non forma, direi ,un trattato dei problemi metafisici, in modo che ti si dia la genesi delle idee filosofiche odierne positive. Tale merito era riservato, si pud dirlo con orgoglio,all'Angiulli ,m e rito tanto maggiore, per le difficoltà che offriva il soggetto. La parte vera mente importante ed originale del suo saggio è di non aver solamente proclamata l'esistenza di una metafisica positiva e progressiva, di non averne solamente ideato il disegno, m a di aver eseguito questo, di aver gettato le basi di una Cosmologia e di una Psicologia quale oggi si può avere dal Positivismo ragionato. I partigiani dell'esperienza o non devono ammettere una Metafisica, o, se devono ammetterla, non possono accettare che quella,di ciamo pure, abbozzata dall'Angiulli. Esporrò ora a grandi tratti i con cetti fondamentali dell'autore. Se gli oggetti della realtà conoscibile sono studiati dalle diverse scienze positive, rimane sempre da studiare l'insieme degli oggetti e le scienze stesse e quindi i rapporti, le connessioni esistenti tra gli oggetti particolarmente studiati dalle scienze, e tra le scienze stesse; campo codesto riservato alla Filosofia. Il dimostrare che è impossibile la formazione di una sintesi cosmica è già una ricerca filosofica. Ma veramente l'analisi degli oggetti cosmici è inseparabile dalla sintesi in cui essi ottengono il loro vero valore. E le scienze stesse si volgono a raggruppare più fatti sotto una nozione o una legge generale,o più nozioni e più leggi sotto una nozione od una legge ancora più alta.Ma in questa opera giungono a toccare un limite che di mostra la loro insufficienza. Gli ultimi sostegni e gli ultimi legami dei loro concetti sorpassano i confini delle loro indagini ; perciò non possono trovare nella propria sfera la soluzione compiuta anche dei problemi speciali. La filosofia comprende quella parte di ogni scienza che s'innalza a principii e ad ideeuniversali, quellapartechericonducequesteideeequestiprincipii ad una unità superiore. È parte di ogni scienza ed è una scienza a sé. Ed il Girard ,dimostrando che la Filosofia non è un'opera aggiunta alle scienze, sibbene una loro parte integrante, distingue itna Filosofia delle scienze particolari, una Filosofia dei diversi gruppi di scienze,ed una Filo sofia centrale che è la loro sintesi ultima e definitiva. L'Angiulli con ra gione insiste molto su questo, appunto perchè rimanga ben chiarito il con cetto che dobbiamo formarci della Filosofia, e del suo compito nella cultura e nella vita. Le scienze, egli dice, per sè sole scoprono verità che diremo astronomiche, fisiche, chimiche ; la Filosofia scopre verità cosmiche. Solo quando le verità attinentisi ai fenomeni meccanici, fisici, chimici, biologici, sociologici si collegano in un principio, in un rapporto comune, si ha una verità cosmica. Quando il Lagrange con la sua splendida applicazione del principio delle velocità virtuali a tutti i fenomeni meccanici, fuse in un tutto orga nico i diversi rami della meccanica che erano stati fino allora studiati sepa ratamente, ottenne una conquista scientifica di un grado superiore. Quando ilGrove el'Helmholtz,mostrandocheivarimodidelmovimento pos sono essere trasformati l'uno nell'altro, apparecchiarono una base comune allo studio del calore, della luce,dell'elettricità e del moto sensibile,conquista rono una verità,la quale,sebbene tocchi già la sfera della filosofia,non esce ancora dai cancelli di una scienza speciale. M a quando il principio delle v e locità virtuali e il principio della correlazione delle forze furono dimostrati entrambi corollari del principio della persistenza della forza, conseguenze necessarie di un medesimo assioma, allora la verità conquistata appartenne all'ordine filosofico. Cosi anche quando Von Baer sostenne che l'evoluzione di un organismo vivente è un progressivo passaggio dall'omogeneità della struttura alla eterogeneità, egli scoprì una verità biologica;ma quando Spencer applicò questa medesima formola all'evoluzione del sistema solare, della terra,della vita,dell'intelligenza,della società,egli conquistò una ve rità filosofica, una verità non semplicemente applicabile ad un ordine di fe nomeni, ma a tutti gli ordini. Dopo averfissatocodestipunti,ilimitidellaFilosofiasembranobencir coscritti, nè vi dovrebbe esser luogo a discutere,se,poniamo,una data teoria sia da considerarsi come teoria filosofica,ovvero tale che non esca dai confini delle scienze speciali. Pure non è così, come si vedrà più giù, quando mi fermerò un po' sulla teoria darwiniana. L'Autore passa subito a fare l'applicazione dei principii su esposti. Svolge dapprima il concetto largo che bisogna formarsi dell'esperienza, ag. giungendovi l'elemento sociale e storico, entrambi tanto importanti; passa poi a delineare la dottrina della conoscenza, mostrando giustamente come sia impossibile trattare un tal soggetto, senza prima far precedere delle note paramente psicologiche. E poichè la Filosofia, se èsintesi del conoscereè anche sintesi dell'essere, Angiulli, nella parte III “ del suo libro si occupa della dottrinadell'evoluzione cosmica. Quivisono raccolti i più recenti risultati scientifici, ed è notevole che l'Angiulli è perfettamente al corrente di ogni novità in ordine alle scienze della natura. Io non scenderò a partico larità; mi fermerd solo un momento su cið che concerne la Biologia, tanto per offrire un esempio della difficoltà che si prova a giudicare se una data teoria scientifica possa aspirare all'onore di essere detta filosofica. Porrò prima il quesito: Qual'è l'importanza che nella sintesi cosmica, qualesipuòformareoggi, ha ladottrina darwiniana? A questoriguardo regna ancora un po' di confusione: c'è chi vorrebbe vedere nell'idea darwi. niana la legge del mondo,e quindi nel darwinismo una dottrina filosofica, e c'è chi pensa proprio il contrario. Giova premettere che non va confuso il Trasformismo col Darwinismo : il primo certamente racchiude un pensiero generale che rasenta almeno il dominio della filosofia; dar ragione di tutto il mondo organico per via di trasformazioni graduali e consecutive è certa mente un'idea che raccoglie il massimo numero di fatti particolari organici e nello stesso tempo tenta di darne la spiegazione ; tanto più se si pensa che un tempo tutto lo studio del mondo organico si riduceva a fare un in ventario più o meno ordinato degli esseri organizzati. Ma il Trasformismo è benaltra cosa del Darwinismo: questo in fin dei conti non è che una forma particolare di quello. Il Darwinismo è nient'altro che una teoria generale,la quale non esce dai cancelli di una scienza speciale. Ed infatti: raccoglie esso il massimo numero di fatti che si osser. vano nel mondo organico? Tenta , dico tenta e non a caso, di risolvere il massimo numero di problemi organici? La sua formola è tanto generale da dare la spiegazione della genesi dei fatti più importanti in Biologia? Pone esso tutti i problemi di origine ? L'idea del trasformismo era già vecchia ; C. Darwin non ha fatto che togliere da tale veduta tutto ciò che poteva sembrare estraneo alla scienza. Ed è stata l'impronta scientifica da lui data a tal genere di studi che ha fatto sì che le scienze ausiliarie concorressero a controllare i risultati già per altra via ottenuti. M a la selezione naturale non spiega tutti i fenomeni organici e molto meno connette questi coi fenomeni fisico-chimici.Di qui il bisogno che si è sentito di fare l'integrazione, come si è detto, della teoria darwiniana:siècompletata,sièperfezionata,aggiungendovi molti altri elementi che l'hanno trasformata tutta. Essa, ridotta ad una teoria pretta mente scientifica, non offre quell'universalità propria di una teoria filosofica. È per questo che l'integrazione non concerne elementi accessori,ma riguarda la sostanzialità di essa. Per il Darwin, invero, dalla carestia dipenderebbe la variazione, mentrechè si è notato che il primo fondamento della varia zione risiede nell'opera della nutrizione, la quale riesce ad un accrescimento della sostanza vivente, per quel processo naturale onde essa, col concorso favorevole dei mezzi dell'ambiente esterno, accoglie in sè nello stadio evo lutivo più di quello che non perda. Dall'abbondanza dei mezzi nutritive -- Cfr. MORSELLI, Lesioni di Antropologia L'Uomo secondo la Teoria dell'Evoluzione, Dispense --  come ha notato il Rolph, dalla prosperità, non dalla miseria, dipende la variazione, l'accrescimento della materia organizzata. Questo accrescimento, segnando in pari tempo una conquista di nuovi caratteri ed una divisione di attività e di attinenze, si porge come svolgimento, come progresso. Giova notare anche qui che la prima storia della vita comincia dal rispecchiare le condizioni dell'ambiente ove essa si svolge. Innanzi alla lotta coi rivali l'essere organizato deve, di contro alla varietà degli agenti esterni, conquistare il suo posto. La legge della concorrenza non può essere il primo sostegno dell'evoluzione biologica:èsolounepisodiodiquesta.La leggemalthusiana deve essere mantenuta in confini più giusti, poichè il rapporto della ripro duzione di fronte ai mezzi dell'esistenza, cangia, si trasforma col perfezio namento degli organismi. Chi voglia persuadersi di primo acchito come siano essenziali gli ele menti introdotti nell'integrazione fatta della teoria darwiniana, non ha che a volgere uno sguardo a ciò che tanto lucidamente ha scritto l'Angiulli nella parte biologica della sua sintesi cosmica. Egli, guardando sempre le cose da un punto di vista generale, cerca sempre di connettere e di scovrire i rapporti esistenti fra le cose, mentre il Darwin, puro scienziato, non vi presenta che serie di osservazioni con le rispettive dichiarazioni, senza mai tentarediunificare.L'Angiulli,peresempio,vidicechebisogna ricon durre i principii e le leggi esplicatrici della derivazione delle specie all'effi cacia delle funzioni stesse della vita nutrizione e riproduzione adat tamento e trasmissione ereditaria. La legge dell'evoluzione biologica sarebbe la stessa della Fisiologia , dilargata nello spazio e nel tempo. A base del l'evoluzione biologica rimane quella virtù della variazione che scaturisce dalla complessità e dall'indefinitezza della composizione della materia orga nizzata. Cosi l'ultimo principio esplicativo delle forme e delle proprietà degli esseri viventi si trova in un cangiamento chimico. La trasmissione ereditaria si risolve in una semplice partecipazione di proprietà chimiche. Si è sentito il bisogno di ricorrere ad altri ausiliari per la dichiarazione del mondo organico, facendo sempre l'applicazione del principio posto, che bisogna spiegare la derivazione delle specie mediante l'efficacia delle fun zioni stesse della vita. Così anche la sensibilità e la motilità, se sono fun zioni integranti della vita, debbono avere un'efficacia trasformatrice degl’organismi. Senza gli stimoli della irritabilità , dice Virchow, non vi ha lavoro organico, nessuna assimilazione di materia formativa, nessuno svolgimento. Inoltre, come le attività e i rapporti della vita si accrescono e si moltiplicano, si accrescono e si moltiplicano del pari i fattori della varia zione.Ed a misura che i singoli fattori si elevano, nello svolgimento della vita, ad una forma più alta, acquistano un'efficacia trasformatrice sempre maggiore. Perd dobbiamo attribuire col Virchow alle forme più elevate della sensibilità e della motilità, al pensiero ed all'azione volitiva una m a g giore efficacia trasformatrice e perfettiva degli organismi concreti. Coi fatti della sensibilità e del movimento è congiunta nella sostanza organica la disposizione a riprodurli, che fu detta memoria, ed è il fonda mento dell'abito, senza di cui sarebbe impossibile la variazione degli esseri viventi. In tale proprietà va implicato quel processo di coordinazione o ag gruppamento degli effetti dell'esperienza che altri ha considerato come nota speciale dell'intelligenza. All'occasione di un sol termine di una relazione di un gruppo, dato da una sperienza presente, si riproducono anche gli altri termini non dati,ma con esso congiunti.Ora,l'anticipazione immaginativa è una condizione essenziale dei progressi della variazione perfettiva. La varia zione non avviene soltanto come effetto di azioni o di stimoli presenti, per manenti,ma avviene anche in anticipazione di azioni non presenti;non vi è un adattamento a relazioni attuali, ma benanche un adattamento a rela zioni future e previste. L'interna attività della rappresentazione anticipativa è sufficiente per sè a produrre una certa modificazione della struttura orga nica in anticipazione della funzione.Così si ristabilisce una specie di finalità negl'intimi svolgimenti della vita, rilevando l'efficacia dell'attività intellet tiva come fattore della trasformazione delle specie. Oltre all'adattazione per opera dell'immaginazione anticipativa, vi ha un'adattazione più specialmente intellettuale, perchè riguarda circostanze nuove e non previste,e non si riconosce in un abito già formato. Questa specie di adattazione selettiva o raziocinativa si appalesa gradatamente nella serie degli organismi, comin ciando dai più bassi, m a senza di essa sarebbe inesplicabile l'acquisto di molti istinti el inesplicabile il progresso della vita animale. La varia zione, per esser progressiva e perfettiva, non può essere accidentale, abban donata alla pura lotta esterna degli organismi, ma deve essere promossa da una funzione coordinatrice ed anticipatrice delle relazioni dell'esistenza. Ora domando : Dopo un'integrazione di tal fatta, la quale si potrebbe chiamare la filosofia della trasformazione delle specie, perchè riunisce sotto un unico principio, giusto o falso che sia, tutti i vari elementi che concor. rono alla derivazione delle specie organiche, che cosa è divenuta la teoria darwiniana vera e propria, quale uscì dalla mente del suo autore? Niente altro, mi pare, che un caso particolare della grande legge della variazione organica. Già Darwin stesso confessa che egli rifugge dall'occuparsi dei problemid'origine,equindi di quellid'ordine generale;eppure,chivuol fare la filosofia della natura organica non può fare a meno di trattare la que. stione della genesi della vita, come di penetrare nella natura intima dei fenomeni implicati in essa,quali la nutrizione,la crescenza,la riproduzione, lasensibilità,lamotilità,lavariabilità.E l'Angiulli,chehaintesodi porgere le linee principali di una sintesi biologica, ha trattato a modo suo tutte codeste questioni. Potrà essere discutibile la soluzione data del problema, ma questo va sempre messo col tentativo della discussione. Alla teoria darwiniana manca per questo ogni individualità propria, e può entrare nei sistemi filosofici più diversi; individualità e precisione che (1)Qui espongo semplicemente l'integrazione della teoria darwiniana offertaci dal l'Angiulli, non ne faccio la critica, perchè ciò non risponderebbe allo scopo che mi son proposto più sopradimostrare come il Darwinismo sia una pura teoria scientifica, non filosofica. Dirò solo che sarebbe oltremodo necessario precisare sia l'immaginazione anticipativa organica che l'adattazione raziocinativa. le vengono impartite dall'integrazione fattane, la quale racchiude un pensiero filosofico. Il concetto della selezione è per se stesso abbastanza elastico,e si presta alle più disparate interpretazioni, ond'è che per vedere un concetto filosofico in essa,la si è più o meno piegata alle proprie idee. La selezione, si è detto, è il fatto stesso della variazione prodotta dal complesso delle attinenze e delle condizioni interne ed esterne dell'essere vivente: è un'espressione a b breviativa di tutte le condizioni interne ed esterne di esistenza: non è la causa della variazione, ma è l'espressione di essa .La selezione, si è anche detto, non deve circoscriversi a significare l'accumulazione di quelle varia zioni che sono utili nella lotta coi competitori, ma deve essere intesa in un senso più generale, cioè come quell'aspetto della variazione che rende l'or ganismo atto a sopravvivere,come espressione metaforica del fatto che ogni equilibrio di forze meglio adatto a sopravvivere, sopravvive. Intesa a questo modo,rispondo io,la selezione naturale diviene un con cetto astratto, una forma vuota,e non più una legge concreta e produttiva, o,meglio,esplicativa dei fenomeni. Se essa non ci si presenta come un con cetto definito e preciso, si può lasciarla impunemente da parte. Ma è poi vero che nella mente del Darwin la selezione naturale significasse ciò che vogliono alcuni filosofi d'oggi? A me non pare: per lui era la legge dell'e voluzione organica. Aggiustarla ora in varie guise prova sempre più l'inde terminatezza delle vedute darwiniane, rileva la poca esattezza da parte di chi sconvolge le idee, ed in ogni caso è reso sempre più certo il fatto che la teoria darwiniana vera e propria è perfettamente estranea alla Filosofia. L'ultima parte dell'opera dell'Angiulli riguarda l'etica ; vi si trova la giustificazione completa del titolo La Filosofia e la Scuola. Dirò solo che codesta parte non è inferiore alle altre da qualunque punto di vista si voglia considerare. Ora non mi è concesso discuterla; spero di farlo in altra occasione,ma non concluderò senza affermare che questo dell'Angiulli è fra i lavori filosofici dell'ultimo decennio, di cui maggiormente possa onorarsi il pensiero italiano.  sono, come l'Ente, altro che umane astrazioni. Noi non conosciamo il pensiero se non come un'attività , una funzione dell'umano organismo. Però lo spirito assoluto, e tutte le altre entità metafisiche sono una produzione di questa umana attività, un fenomeno psicologico. Vale dunque solol'opposito diciò che affermavaHegel:in luogo cioè di essere la natura e la materia una manife stazione del pensiero, egli è il pensiero una m a n i fesiazione della natura e della materia. Oltre alla materia non vi ha altro principio. Il materialismo ed il naturalismo è dunque ad un tempo la conse guenza e la confutazione dell'eghelianismo .Questa specie di dialettica della dialettica egheliana è un fatto storico,ilcui maggiore autore fu il Feuerbach ,  12 M W L'io assoluto dell'Hegel, cioè il pensiero e lo spirito assoluto , affermato c o m e principio e verità di tutte le cose,non è altro che la massima di Pro tagora spogliata del carattere d'individualismo . Se Protagora esprimeva esagerato un fatto reale, H e gel esprime esagerata un'astrazione spiritualistica, che non è meno relativa del relativismo sofistico. Feuerbach tornaall'uomo concreto.L'uomo èan cora per luiilcentro della filosofia,ma nè più co m e l'individuo arbitrario dei sofisti, nè più come l'universale astratto dell'Hegel, si bene come tutto l'uomo,come sensibilità e come società. Di con tro all'idealismo si riafferma il realism. Solo  Però l'astrazione è produzione di nuovi concelli solo in quanto è trasformazione di precedenti.Anche per la psicologia moderna vale ciò che vale per la geologia modern a; le funzioni ed i prodotti psicologici sono spiegabili con le stesse forze fisiche e fisiologi che,con l'aggiuntadelfattoredeltempo.L'eredità. psicologica è un altro fatto accertato dalla scienza moderna e capace di recare molta luce in siffatte quistioni. Noi non facciamo che continuare le atti iudini e le conquiste del passato. Ilprogresso è l'educazione dell'umanità ;la civiltà è un risultato d'esperienza, e non un miracolo di rivelazioni. Ma con tutte queste aggiunte e modificazioni dell'empirismo voi, si dirà,non potrete mai elevarvi sopra la sfera del sensibile;ossia le cause che voi potete ricercare non possono essere che altri fatti primitivi;eleleggichevoipotetescoprirenon pos sonoessere altro ,che le relazioni costanti dei fatti. Precisamente questo : così l'uomo moderno ha in sè stesso il suo punto di appoggio, e la storia ha in sè stessa la sua legge, senza bisogno di entità teologiche o metafisiche che la dirigano, come la natura ha in sè stessa l'energia ed il principio della sua esistenza e della sua spiegazione. La natura fondamento della natura, ecco il grande principio della cultura ccidentale (ουδένάνευφύσιοςγίγνεται,γίγνεται 27.12.çúcevēxo.oto.). Allora ricadetenel positivismo schiell . No, perch è se il positivist a r i l i c n e come. Opere: “La filosofia e la ricerca positiva: quistioni di filosofia contemporanea”; L'idealismo assoluto confutato dal materialismo. L'idealismo ed il materialismo nel corso della storia della filosofia. La filosofia greca. La filosofia naturale dei romani antichi. La fondazione della scienza positiva. Il medio evo. Il risorgimento italiano. La filosofia moderna. Il secolo XVIII. Il criticismo di Kant in Italia. La filosofia speculativa. La ricerca scientifica. La critica filosofica e la scienza positiva. La filosofia positiva -- il positivismo filosofico in Italia. Che cosa manca al positivismo filosofico. Gli altri sistemi contemporanei. Vacherot, Renan, Taine, Comte, Mill, Littré. La filosofia come ricerca positiva.– V.La filosofia e la storia.   “Gl’hegeliani e i positivisti in Italia e altri scritti inediti”(Savorelli); Pubblicazione dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria". Gli hegeliani e i positivisti in Italia. Positivismo e socialismo. Problemi di etica; Evoluzione, educazione e società. Il prof. Haeckel e la pena di morte. Dal carteggio di Andrea Angiulli". Collezione "Studi".  “La pedagogia lo stato e la famiglia”;  Natura complessa della quistione sociale. Riguardalari or ganizzazione della cultura nei diversi strati della socie tà. Problema dell'educazione. Antinomie dei sistemi pedagogici. Una Pedagogia scientifica è resa impossibile dalle dottrine della teologia e dell'ontologismo. La teoria dell'educazione presuppone la legge dello svolgimento nel campo della biologia e della sociologia. L'attuazione di un sistema scientifico dell'educazione nazionale presuppone la costituzione dello Stato libero, il trionfo libertà e di ordine. Appartiene agli uffici dello Stato. L'istruzione scientifica. La scuola laica. L'eliminazione del catechismo non rende la scuola antireligiosa. Non vi ha conflitti tra la scienza e la religione in generale. La perfezione religiosa deriva dai progressi della scienza. La scienza la religione e la morale. La scienza e l'arte. La scienza e la quistione economica. La scienza e la quistione politica. Difficoltà per l'attuazione del l'istruzione scientifica. La riorganizzazione delle scuole normali. Le condizioni dei maestri elementari. Insufficienza dell'azione diretta dello Stato. La famiglia. L'opera della madre. Il punto culminante del problema. L'istruzione richiesta nella donna per compiere il suo ufficio di sposa, di madre, di educatrice. Insufficienza dell'istruzione per migliorare il carattere e la condotta umana. Una dottrina di H. Spencer. Il Lewes.Verità  della politica scientifica. L'educazione è un dovere nazionale. È un principio di   VIII parziale di questa dottrina. È anche vero che l'istruzione determina gli affetti e conferisce al perfezionamento morale e pratico. Il Luys. Il Littré. Il nostro discorso rimane saldo ad ogni modo. Ammesso come vero che la condotta sia determinata dalle associazioni del sentimento, rimarrà vero che solo dalla conoscenza delle leggi onde si formano coteste associazioni, cio è solo dall'istruzione scientifica dipenderanno in ultima analisi gl'indirizzi dell'operare, il miglioramento morale dell'individuo e della razza. “La filosofia e la scuola” La quistione fondamentale della filosofia. Rapporti tra le scienze e la filosofia rispetto alla conoscenza della realtà. L'unità dell'oggetto e del processo conoscitivo. La filosofia non è una pura somma de' risultamenti delle scienze. Le scienze generano la filosofia. La moltiplicazione delle scienze agevola l'opera della filosofia. Tre modi d'intendere quest'opera della filosofla riguardo alle scienze. La filosofia è una ricerca progressiva, e può scoprire verità di un ordine superiore. Il *fondamento esplicativo* delle scoperte scientifiche è dato dalla filosofia. Influenza reciproca della scienza e della filosofia nel corso della storia. La filosofia come dottrina generale della conoscenza e della scienza. Medesimezza di natura tra la conoscenza comune, la scienza e la filosofia. Relazione storica della logica o dialettica e delle scienza. Classificazione della scienza. Dottrina del Comte. Rapporto delle scienza astratta e della scienza concreta. Un concetto della filosofia più compiuto di quello del Comte. La dottrina dello Spencer. Gli stadi dell'evoluzione cosmica e la clas sificazione della scienza. Il posto della psicologia filosofica nella classificazione della scienza. Bain, Spencer. La ricerca *meta-fisica* come *compimento indispensabile* della scienza e della dottrina della scienze. Lacuna del Comte. Il lato *logico* o dialettico ed il lato *cosmo*-logico della meta-fisica. La ricerca delle origini e degli elementi generativi dei fatti è una nota caratteristica della scienza e della filosofia. Contraddizione del Comte. Il Littré. L'inconoscibile dello Spencer. Il lato metafisico dell'etica. La religione dell'umanità e dell'inconoscibile. Sistema e speculazione. IV. Il problema della critica. Ladottrina del Kant si muove sopra un supposto *non*-critico. Gli elementi della conoscenza. Il molteplice. I problemi della filosofia,   della sensibilità. Le forme dello spazio e del tempo. Le categorie del l'intelletto. L'attività sintetica originaria della mente. La funzione sopra-individuale della conoscenza. Critica della dottrina kantiana. Il neo kantiani e i vetero-kantiani. I neo-criticisti e i vetero-criticisti. La critica e la psicologia filosofica. Il Liebmann, il Riehl, il Goering, il CARNERI. Il positivismo francese. John S.Mill. I Spencer, Lewes. La critica dell'esperienza e la dottrina della conoscenza. Il falso supposto dualistico della vecchia critica. L'unità dell'io è un'illusione metafisica. La genesi della coscienza. L'embriologia mentale. Le facoltà psichiche sono una derivazione dell'esperienza. Gli elementi dell'esperienza debbono ricercarsi col soccorso dell'esperienza stessa. Le esperienze incoscienti. Le leggi della vita e le leggi dell'esperienza. Il senso e l'intelletto. La sensazione e la coscienza. L'attività trasformatrice dell'esperienza. L'esperienza ereditaria e l'esperienza individuale. L'esperienza abbraccia tutt'i lati della mente. La legge dell'esperienza e la legge dell'associazione. L'esperienza individuale e l' ESPERIENZA sociale e COLLETTIVA esperienza collettiva. L'esperienza storica. La psicologia sperimentale e la dottrina della conoscenza. Le leggi della sensazione e del pensiero. L'elemento a priori della conoscenza è un prodotto dell'esperienza stessa. Trasformazione dei gradi più bassi della conoscenza mediante le attività più elevate della mente. La genesi dei concetti e delle categorie. Le note della necessità e dell'universalità della conoscenza. Il principio della regolarità nell'ordine della realtà. Il realismo sperimentale. Le proprietà del reale. Lo spazio ed il tempo. Il fatto, la legge e la causa. La metafisica. La dottrina dell'evoluzione cosmica. Il problema intorno alla concezione del mondo. Sguardo storico della dottrina dell'evoluzione cosmica. I fattori della dottrina scientifica dell'evoluzione. Gli elementi primitivi della materia e della forza. La sostanza e il divenire. Due lati di un unico problema. Interpretazione più esatta del processo di evoluzione. L'evoluzione biologica. L'origine della vita e della mente. Le pro prietà capitali dell'essere vivente. La nutrizione, la riproduzione, la sensibilità, la motilità. L'origine delle specie viventi spiegabile mediante l'azione delle attività fondamentali della vita. La dottrina del Darwin. Estensione del principio della lotta per l'esistenza. La selezione è il *risultato* non la causa della variazione. L'efficacia dell'elemento psichico. L'*evoluzione sociale*. La legge dell'associazione nel seno della biologia. *Formazione della società etnica*. Struttura e funzioni dell'*organismo sociale*. Esagerazione dell'analogia biologica. La dottrina del Comte e dello Spencer. Dallo studio degl'individui non si può ricavare l'esplicazione del fatto sociologico. I fattori che determinano la differenza specifica e qualitativa del fatto sociologico. Il consentimento volontario e la creazione di prodottiche debbono essere appresi. Rapporti tra i prodotti della cultura nello svolgimento progressivo della vita sociale. La dottrina dell'Etica. La sociologia mette capo al problema dell'etica. La dottrina del l'etica compie il concetto della filosofia. Nell'etica si accoglie un problema di un significato cosmico. L'etica e la religione. La dottrina dell'evoluzione è il fondamento più saldo e perfetto dell'etica, ed è il fondamento di una nuova religione. La religione nella sua forma primitiva è una scienza nascente. Gli elementi costitutivi della religione. Il lato pratico, il lato estetico. La legge morale e la legge dell'ordine cosmico. Il fatto morale è il *prodotto* no n il presupposto dell'evoluzione. L'ottimismo e il pessimismo. Il concetto d'evoluzione e la nuova dottrina del migliorismo. La base biologica sociale storica dell'etica. Il fattore dell'ideale nell'etica e la quistione della libertà umana. La libertà è un prodotto sociale e storico. L'educazione rinnovatrice dell'esistenza sociale è una funzione dell'etica. L'educazione nel suo metodo e nel suo contenuto scientifico. Opinione dello Spencer. Le materie dell'istruzione designate dai fini della vita. Il loro ordinamento conforme allaclassificazione delle cognizioni scientifiche. Il fine dell'istruzione non si raggiunge se non si porge una intima connessione tra i diversi rami degli studi. Questa connessione è l'opera della filosofia. La filosofia nei diversi gradi della scuola. Gl’insegnamenti della scuola primaria debbono essere animati da uno spirito filosofico per raggiungere la loro efficacia educativa. Lo studio della filosofia nella scuola media. Trasformazione di questa scuola secondo i bisogni della cultura moderna. Lo studio della psicologia nella scuola media. La teorica della conoscenza. Lo studio della filosofia all'università. Efficacia pratica e sociale di questo studio.  Curiosità Al professore è stata intitolata, nel 1906, la Società Ginnastica Angiulli di Bari. Note  E. Garin, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in .  Andrea Angiulli, La filosofia e la ricerca positiva, Napoli, tip. Ghio, 1868,  97 e seg. e 150 e seg.  Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, 200515.  Luigi Volpicelli, La Pedagogia: storia e problemi, maestri e metodi, sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento, ed. Piccin, 1982, p.168 A. Espinas, La Philosophie expérimentale en Italie. Origines-Etat actuel,Paris 1880,  82-88. F. Alterocca, Sulla vita e sulle opere di A. A.,Milano 1890. G. A. Colozza, A. A., in Diz. illustrato di Pedagogia, Milano 1891, I,  31-40. G. M. Ferrari, Il Liceo Vittorio Emanuele II di Napoli, all'esposizione universale di Parigi del 1900, La cattedra di filosofia, Napoli 1900,  CXXXVI-CXLVI. F. Orestano, A. A., Roma 1907, (con ). G. Gentile, La filosofia in Italia dopo il 1850III. I Positivisti. V. A. A., in "La Critica", VII (1909),  97-120 (e in "Le origini della filosofia contemporanea in Italia", II, Messina 1921,  123-53). G. Flores D'Arcais, Studi sul positivismo pedagogico italiano, Padova 1953, passim. U. Spirito e F. Valentini, Il pensiero pedagogico del positivismo, Firenze 1956, passim. R. Tisato , Positivismo pedagogico italiano,  II, Torino 1976,  65-101. A. Savorelli, Positivismo a Napoli. La metafisica critica di A. A., Napoli 1990. G. Oldrini, Idealismo italiano tra Napoli e l'Europa, Milano 1998, cap. VIII. M. Donzelli, Origini e declino del positivismo. Saggio su Auguste Comte in Italia, Napoli 1999,  141-177. G. U. Cavallera, A. A. e la fondazione della pedagogia scientifica, Lecce 2008.  Positivismo Pedagogia Famiglia Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Andrea Angiulli Collabora a Wikiquote Citazionio su Andrea Angiulli Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Andrea Angiulli  Eugenio Garin, Andrea Angiulli, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Andrea Angiulli, .  Andrea Angiulli, in L'Unificazione, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia Istruzione  Istruzione Filosofo del XIX secoloPedagogisti italiani 1837 1890 12 febbraio 2 gennaio Castellana Grotte NapoliMassoniProfessori dell'BolognaProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Angiulli. Keywords: l’antisignano del positivismo filosofico – metafisica critica – l’organismo sociale, il fatto sociale, la collettivita, il fatto collettivo, il fatto sociale – la societa, la collettivita, la collettivita etnica, la razza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Angiulli” – The Swimming-Pool Library.

 

Annunzio (Pescara). Filosofo. Grice: “I will call him a philosopher.” D’Annunzio e il fascismo è una storia italiana. I Contemporanea. L’Illuminismo oscuro Il rapporto tra il vate e il fascismo è molto più complesso e burrascoso di quanto si pensi: un poeta buono nell'infondere emozioni e a forgiare l’immaginario collettivo, ma che poco ha a che spartire con Mussolini e la dottrina fascista.  Difficile trovare un personaggio più divisivo di Annunzio. O lo si ama o lo si odia. Chi lo ama, solitamente, sa vagamente perché. Chi lo odia, il più delle volte, non ha idea della ragione. Pochi si addentrano nel personaggio, nelle opere, nella biografia, nella sua filosofia, e finiscono per apprezzarlo per le sue magnificenze e contraddizioni, senza amarlo né odiarlo. L’uomo presenta slanci superbi e difetti inemendabili, che si elidono e restituiscono l’immagine di una persona straordinaria.  Propaganda Filippo Tommaso Marinetti. Come si seducono le donne Manuale di seduzione futurista. Coraggio, coraggio, coraggio: ecco l’afrodisiaco supremo della donna! Una celebre contraddizione di Annunzio fu l'adesione al fascismo. La questione viene spesso relegata a una semplicistica organicità del vate al regime e alla sua dottrina politica, cosa che lo rende – come se interventismo, erotomania, morosità, dissolutezza e tossicodipendenza non bastassero – inviso e disprezzato dai più. Dire che Annunzio fosse un antifascista sarebbe un’esagerazione fuori luogo, dire però che fosse un fascista fatto e finito è altrettanto un errore, perché ben poco condivideva di quella dottrina e certo non fu amico di Mussolini. Il personaggio e le sue scelte sono figli di quel tempo complesso, e della lacerante crisi che l’Italia vive. Proiettiamoci allora con l'anima in quegli anni terribili.   Cartolina disegnata da E. Anichini per il centenario dantesco. Si vede l’Italia tra Dante e Annunzio, in una specie di simbolico passaggio di consegne. Il vate, nella mano destra un fascio curiosamente capovolto, è rappresentato come la più illustre personalità d’Italia: colui che, come Dante unifica linguisticamente lo Stivale, lo unifica con la forza della parola e delle mani. È una cartolina pubblicata per conto dei fascisti, in cui di Mussolini non si fa la minima menzione. Per tutti, se un duce ci è non può che essere Annunzio. È finita la Grande Guerra e l’Italia è sull’orlo di un altro conflitto, una guerra civile. I reduci sono delusi e arrabbiati, sia i cosiddetti interventisti democratici – quelli che intendeno portare il popolo in armi alla liberazione dei compatrioti sotto dominio straniero –, sia gli interventisti nazionalisti – coloro che auspicano che l’Italia, sconfiggendo lo storico rivale dispotico e arrogante, potesse sedere al tavolo delle grandi potenze – si trovano a stringere un pugno di mosche: alle trattative per la pace l’Italia ottiene ben poco ed è trattata con sufficienza. Tre anni di combattimenti, 600 mila caduti e la vittoria sul campo non garantiscono quanto era stato promesso nel Patto di Londra -- è la vittoria mutilata. I nazionalisti insorgono. Annunzio ha occupato Fiume e la tiene fino a quando lo stesso governo italiano bombarda la città mettendo fine all’avventura della Reggenza Italiana del Carnaro. Come se non bastasse, in Italia scoppiano scioperi e rivolte. Gl'operai si ribellano, occupano le fabbriche, erigono barricate. Scioperano gli agrari, i sindacati si mobilitano, le piazze sono in tumulto, il Partito Socialista si agguerrisce: si compie il biennio rosso, che culminerà, almeno simbolicamente, nel Congresso di Livorno, quando la corrente massimalista del Partito Socialista secede, dando vita al Partito Comunista. I fascisti seminano violenza in tutta la Val Padana e anche oltre. Si scagliano contro i socialisti e le loro sezioni, contro gl'operai, i contadini, i comuni amministrati dalla sinistra. Sono il primo antidoto repressivo al biennio rosso. Obiettivo prestabilito: i rossi, la canaglia bolscevica, i pacifisti traditori. Uniti nella lotta, socialisti, comunisti e anarchici fronteggiano un nemico comune, le squadre di camicie nere.   La classe dirigente liberale è impotente, il parlamento litigioso e inconcludente, i politici non hanno consenso: le trattative di pace sono state condotte con scarsa convinzione e l’amministrazione pubblica è allo sbando. La gestione dell’ordine pubblico è quasi inesistente, tanto che frange dell’esercito, delle forze dell’ordine e alcuni prefetti iniziano a simpatizzare coi fascisti: almeno loro riescono a garantire un minimo di ordine, seppure in maniera inadeguata a uno stato di diritto.  Qui si incastra una doppia illusione. Da un lato, parte della borghesia industriale e agraria foraggia i fascisti in funzione anti-rivoltosa, contro i propri stessi lavoratori indisciplinati. Dall’altro, la classe politica *liberale* ritiene che queste squadre di *incolti picchiatori* siano utili a mantenere ordine e a prevenire una possibile rivoluzione socialista, e che spariranno a breve come tutti i fenomeni pittoreschi, capeggiate come sono da cinici opportunisti, violenti agitatori e da un parolaio magico. Gl'uni e gl'altri credono di potersi servire di questo movimento finché lo si farà durare, per i propri comodi.   Annunzio legge nella Capponcina -- è noto per le opere letterarie, i saggi filosofici decadentisti, le avventure amorose e per il suo gusto nel bel vivere. La guerra, Fiume e le folle sono di là da venire. A questa età, Mussolini si appresta a diventare capo del governo. In tutto ciò Annunzio *è l’italiano più famoso all’estero* e più influente in patria. La parola del Poeta non è quella di uno scrittore o un politico normale. Annunzio è un *eroe di guerra*, è l’artefice dell’Impresa di Fiume. Occupa le prime pagine dei giornali di tutto il mondo -- è uno scrittore acclamato, il più tradotto, il più amato e il più odiato. Ha un seguito enorme, migliaia di sostenitori appassionati, reduci di guerra e ammiratori comuni, e centinaia di legionari fiumani legati a lui da giuramento -- è un uomo che può raccogliere attorno a sé migliaia di fedeli, persone che tra le altre cose conoscono le armi. È un uomo pericoloso. Quando arringa, unisce; quando dileggia, divide. È bipartisan il Vate, piace a tutti e non appartiene a nessuno -- è inserito fino al collo nell’ALTA SOCIETÀ, piace agl'ARISTOCRATICI -- è un fervente patriota, beniamino di tanti nazionalisti. Ha incassato la stima di Lenin e in alcuni momenti pare davvero un rivoluzionario, per questo lo osservano diversi proletari.  Lo vorrebbero con loro anche molti fascisti. Ma Annunzio non ricambia il favore ai demagoghi che credono di aderire alla realtà e non aderiscono se non alla loro camicia sordida. È un ottimo momento, ma il Vate temporeggia. Stanco, disilluso, disgustato dalla politica e dal governo *liberale* che gli ha tirato addosso le granate, a lui che, *monarchico* e patriota, vanta sette medaglie al valore. Si è ritirato nella villa di Gardone, sul Lago di Garda, e sostiene che  non c’è oggi *in Italia* nessun movimento politico sincero, condotto da un’idea chiara e diretta. Perciò è necessario che noi facciamo parte di *noi stessi*, immuni da ogni mescolanza e contagio. Annunzio osserva il caos in cui l’Italia versa e decide di non gettarsi nella mischia. Lui ha già combattuto, non è questo il suo terreno. Spera in fondo che un giorno non lontano tutta Italia lo richieda a gran voce come paciere, novello *dittatore romano* che scongiura la guerra civile. Ha tutte le carte in tavola ma non le sfrutta. Dice di sé. Mi auguro di essere la persona alla quale un giorno si penserà dicendo: Avanti! Non resta che lui!  I fascisti credono sia arrivata la loro ora, ma manca un vero condottiero. Mussolini è l’ideologo, l’*inventore* del movimento, ben lontano dal diventare il *duce degli italiani*. Colui che in questo momento viene acclamato come *duce dalla gioventù* è Annunzio, il condottiero che deve portare al potere *la giovane Italia* nata nelle trincee, scalzando la pletora di politici vecchi e mercanteggianti che hanno vinto la guerra non per merito loro e hanno svenduto la patria allo straniero. Annunzio ha il carisma, il seguito, la statura culturale per trascinare i giovani e i reduci a Roma, compiendo quella rivoluzione italiana che *nulla ha a che fare con la rivoluzione bolscevica*. Ci sperano i suoi seguaci, meno lo agogna lui. Annunzio è però anche un cialtrone, un oratore capace di trascinare le folle nei momenti bui ma del tutto inadeguato alla politica intesa come mediazione e governo quotidiano. Ciononostante vanno in molti a bussare alla sua porta.  Contemporanea Nicola Maiale In Fiamme Violenza politica in Italia dalla belle époque alla marcia su Roma. Mussolini sigla il patto di pacificazione coi socialisti, che prevede la rinuncia bilaterale alla violenza e la *costituzionalizzazione* del movimento fascista, e all’interno dello stesso movimento le polveri esplodono. "Chi ha tradito, tradirà" si legge sui manifesti affissi dagli stessi fascisti a Bologna. L’ovvia implicatura è al tradimento del Mussolini socialista. La massa fascista, le squadre e i rispettivi ras, ripudiano la guida di Mussolini, che ricambia con le dimissioni (rigettate) e affermando che quello che era un movimento ideale si è trasformato in una banda armata al servizio del capitale. Mussolini è politicamente fuori gioco e i ras invocano il duce che è tornato da Fiume da pochi mesi. Dino Grandi e Italo Balbo si incaricano dell’ambasciata a Gardone per offrirgli la guida del fascismo. Annunzio rifiuta nettamente, senza rispetto, e i due se ne vanno sdegnati. Anche Gramsci compie il pellegrinaggio! Non si sa quale sia la proposta perché Annunzio rifiuta di incontrarlo poiché, dice,  non posso lasciarmi imporre i colloqui.  Forse Gramsci vuole trascinare il poeta nel Partito Comunista, più probabilmente proporgli di unire i suoi legionari alla resistenza antifascista. Perché si sa che Annunzio non ama i fascisti, seppure con una certa ambiguità, e il disprezzo è ancor più motivato dai toni che in quel momento Mussolini assume nei riguardi del Vate, quando smette la riverenza e dice apertamente che le iniziative politiche di Annunzio sono irrilevanti, che egli è inaffidabile e capriccioso, inservibile e intrattabile. Non ha tutti i torti. Annunzio sarà anche stato l’eroe di guerra, il condottiero che prende Fiume in armi e la tiene per un anno e mezzo, ma è pur sempre un poeta, un dandy *narcisista* e *dissoluto*, uomo adatto alle arringhe, a infondere emozioni e volontà, a forgiare l’immaginario collettivo, ma di cosa sia la politica non ne ha idea e non vuole saperne nulla, disgustato com’è da tutto e tutti, desideroso solo di crogiolarsi nella sua solitudine e tornare ad essere quel che era, un operaio della parola, come ama sempre definirsi.   I due personaggi appaiono quanto mai diversi. In questa immagine si ritraggono un Mussolini primo *deputato* fascista, *sguardo severo* e *abbigliamento scuro*, minaccioso nell’espressione, e un Annunzio in uniforme, gli occhi persi nel vuoto, indubbiamente più affascinante, ma *meno granitico*. Nel periodo precedente la marcia su Roma Annunzio mostra particolare ostilità al fascismo. Dopo il fallito tentativo di Gramsci, sono ricevuti i capi della CGIL e persino Čičerin, commissario sovietico agli Affari esteri, tutti per attrarlo nell’orbita antifascista. Ma le parole faticano a trasformarsi in fatti. Di agire stivali sul terreno non se ne parla. Si fa vivo addirittura Nitti, il Cagoja, l’odiato primo ministro dei tempi fiumani, che gli scrive:  bisogna unire tutte le forze per finire questo regime di stupidità e di violenza, per riportare l’Italia ai suoi ideali di democrazia, di libertà e di lavoro. Non m’importa di me. Tu vedi il pericolo e puoi agire sulla *gioventù*, infiammandola e riportandola al buon sentiero.  Francesco Saverio Nitti Il momento di Annunzio è giunto, può mettere finalmente d’accordo le forze in lotta e prendere le redini di un paese nel caos. Viene organizzato un incontro tra Nitti, D’Annunzio e Mussolini. Due giorni prima il poeta cade da una finestra della stanza della musica, dal primo piano del Vittoriale. Sul volo dell’arcangelo, come lo chiama, vede fatta molta *dietrologia* e qui la storia fatta con i “se” potrebbe sbizzarrirsi. Chissà cosa sarebbe successo se si fossero incontrati e Annunzio avesse espresso la sua terzietà e l’opposizione rispetto a un governo fascista. Fatto è che l’incontro viene annullato. Il poeta non lo sa ancora, ma è definitivamente uscito di scena.   La foto ritrae Mussolini come tutti lo conoscono. Non veste ancora l’uniforme ma già fa mostra di tutto il suo stile: attorniato da *camicie nere*, posa con lo sguardo arcigno, la mascella prominente e le mani sui fianchi. Pittoresco e quasi ridicolo all’apparenza, conquista nonostante ciò le folle, armato della retorica altisonante e aggressiva, trionfale e accattivante, che ha in parte imparato da Annunzio. Mussolini va a trovarlo ma non viene ricevuto. Si incontrano ugualmente ma senza risultati tangibili. Ormai i tempi sono maturi, i fascisti vogliono il potere e vanno a prenderselo. Ricorre l’anniversario della vittoria e Annunzio è invitato nella capitale per presenziare le celebrazioni, per questo la marcia su Roma viene anticipata di una settimana. Mussolini teme che il Vate possa effettivamente convogliare alcune correnti in favore del governo e compromettere l’iniziativa fascista. Le squadre imperversano per le strade di Roma. Vittorio Emanuele III rifiuta di firmare lo stato d’assedio e convoca Mussolini.  Annunzio è ormai un relitto della politica. L’uomo che poteva fare non ha fatto, colui che aveva forze vive, uomini, consenso e autorevolezza, non aveva né l’idea né l’ambizione. Obnubilato dalla sua stessa grandezza, si è rimpicciolito fino all’inutilità. Forse l’aveva proprio cercata questa inutilità, non gli interessava praticare la politica quanto ritrovare se stesso e la sua arte, in solitudine, se è vero che confidò a un amico pochi mesi prima. "Ho voluto ri-entrare nel silenzio, ho voluto essere un capo senza partigiani, un *condottiero senza seguaci*, un *maestro senza discepoli*.  Gabriele D’Annunzio Mesi dopo, uno che per vivere la Grande Guerra ha falsificato la carta d’identità e si è qualificato come giornalista, che aiuta l’esercito italiano in Veneto nel servizio ambulanze, uno scrittore di nome Ernest Hemingway, scrive di Mussolini come del più grande bluff d’Europa. Aggiunge che  sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando, e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è Annunzio.  Purtroppo per l’Italia, cui nei successivi anni non verranno risparmiate sofferenze e costrizioni, la previsione di Hemingway non si rivela esatta. Un’opposizione è effettivamente incarnata dal Comandante, ma rimane silente, sepolta nelle mura del Vittoriale e dell’incombente vecchiaia.  Comunismo d'annunzio fascismo fiume Gabriele D'Annunzio Italia Mussolini prima guerra mondiale seconda guerra mondiale Socialismo socialisti italiani. La costituzione più bella del mondo. Quella sì, fu davvero “la più bella costituzione del mondo” e non per modo di dire. Per i contenuti, lo stile, la prosa, l’idealità che sprigionava. La Carta del Carnaro non fu scritta da pur insigni costituzionalisti e rivista da politici, come la nostra costituzione. Fu scritta da un grande sindacalista e rivista da un grande poeta-soldato. Parlo di Alceste De Ambris e di Gabriele d’Annunzio. Fu animata dal confluire di tre grandi energie: l’amor patrio, lo slancio poetico e lo spirito sindacalista rivoluzionario. All’articolo 2 della parte generale, scritta da De Ambris sono condensate tutte le parole chiave della carta: democrazia -- diretta, sociale, organica, fondata sulle autonomie, sul lavoro produttivo e sulla sovranità collettiva di tutti i cittadini. È d’Annunzio a parlare nella sua stesura della volontà popolare, del fato latino, e d'evocare il Carnaro di Alighieri, l'estremo confine della civiltà romana, e il culto della lingua. È d'Annunzio a sostituire 'repubblica' con quella più classica 'reggenza' -- intesa come governo del popolo. Fu Annunzio a richiamarsi ai produttori e agl'ottimi. E fu Annunzio a indicare nella bellezza della vita, del lavoro e della virtus, la credenza religiosa collocata sopra tutte le altre, che guida lo Stato.  La forte impronta sociale e popolare della carta non impede il culto aristocratico dell’eccellenza e la tutela delle arti e delle discipline più nobili, del corpo e dell'anima.  Nella carta è garantita ogni libertà dei cittadini, il voto universale -- è poi ribadita la funzione sociale della proprietà privata ed era disegnato l’assetto delle corporazioni di arti e mestieri. Nove corporazioni raccoglievano i lavoratori nelle loro articolazioni (terra; mare, operai, impiegati, liberi professionisti, intellettuali); la decima corporazione era enigmaticamente riservata alla forze misteriosa del popolo in travaglio e in ascendimento, al genio ignoto, all’uomo novissimo, a colui che fatica senza fatica -- è risolto il dilemma tra parlamentarismo e presidenzialismo, riconoscendo centralità al lavoro e sovranità al popolo dei produttori -- è introdotta la figura di un comandante, inteso come il dictator romano, con pieni poteri ma limitati a un breve arco di tempo. Elementi costitutivi della carta sono l’auto-decisione del popolo, la possibilità di indire referendum, la tutela dei sacri confini nazionali e della civiltà italiana-latina-romana, l’istruzione e l’educazione del popolo come il più alto dei doveri della repubblica, la musica riconosciuta nella costituzione come un’istituzione religiosa e sociale. Nel linguaggio d’oggi dovremmo dire che sovranismo, amor patrio e populismo furono i cardini ideali della carta del Carnaro. La fusione tra poesia, trincee e sindacalismo è il suo timbro originale. Veniva poi costituita una Lega di Fiume che une in un solo fascio la forze sparsa di ogni. Cerca l’adesione della Russia Bolscevica ma si rivolge anche ai paesi islamici. Annunzio esalta il risveglio dell’Islam, auspice Italia, dispensatrice di diritto e giustizia. Memorabili i discorsi fiumani d'Annunzio che prepararono il terremo alla reggenza del Carnaro e al suo statuto. Da L’orazion piccola in vista del Carnaro a l’Hic manebimus optime. E a Fiume vi rimane davvero. La carta del Carnaro non è il sogno proibito di una città-utopia separata dalla storia e non è nemmeno il frutto di un’avventura velleitaria d'un eroe disoccupato a caccia di emozioni, come l’ha sbrigativamente liquidata Emilio Gentile -- èinvece la visione più lucida e ardita della politica e della società di combattenti che la guerra la fano sul serio. Così De Ambris sintetizzò la carta ad Annunzio. Diamo al mondo l’esempio di una costituzione aristotelico-vichiana-nietzscheiana che in sé accolge ogni libertà e ogni audacia di Platone, facendo rivivere la più nobile e gloriosa tradizione della nostra stirpe italica. Esempio perfetto di rivoluzione conservatrice.Annunzio. Keywords: Alighieri, quarnaro, reggenza, non repubblica, musica, dictator romano, commandante, il fiume, il fiumenismo, sindacalismo, utopia, dystopia, revoluzione conservatrice, implicatura fiumenista, la filosofia in d’annunzio, la carta di carnaro, aristotele, vico, Nietzsche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Annunzio” – The Swimming-Pool Library.

 

antiseri: Grice: “Antiseri makes a distinction between what you CAN say and what you MUST ‘tacere’ (i. e. left implicit). Not exactly what I was thinking when I made the explicit/implicit distinction, but similarly! His point is that for Vitters, questions of the mystic – which Antiseri compares to Bonaventura! -- -- ‘la logica di un mistico y la mistica di un logico’! genial – I was thinking more along the lines that ‘You’ve just committed a social gaffe’ is best left implicit (“She is a windbag’) – our of manners, etiquette, and what I call the principle of conversational gentility!” – “So I find the ‘must’ too strong, and change it for a ‘may’ – but in Antiseri’s case, the point is conceptual: you just CANNOT make the mysitic explicit, and there is a need (his word) to keep whatever the mystic is Unexpressed.” Grice: “I like Antiseri, and he indeed quotes me, not only because he MUST, as in his history of contemporary philosophy, but because he LIKES it ( cf. Italian piacere) – as surprised I was when I see that when discussing the future of metaphysics within analytic philosophy he relies on my Third-Programme for the BBC!” Grice: “Antiseri reminds me of myself, when he discusses ‘senso commone’ and ‘filosofia anallitica’ and ‘linguaggio ordinario’ – that’s why I used to joke, when lecturing in the New World – and at Welleseley, no less! – about the “Oxford School of Ordinary Language Philosophy”! Grice: “While Antiseri invests a lot to make logic of Austin, he has to because he has posited himself as giving ‘lezione di filosofia del linguaggio’!” Grice: “Most importantly, his key words, such as solidarity, are very much along the lines that base my ‘ethics of conversation’ which is Kantian in spirit --.” Grice: “Antiseri has to fight how to deal with this Kantianism along utilitarian lines, as when he confronts ‘horizontal’ to ‘vertifical’ (i. e. bad) subsidiarity – where a principle of subsidiarity – or respect for ‘il bene commone – gets balanced with the principle of solidarity. A Calvinist approach, to some!” – Antiseri: “It is amusing that Antiseri is forced to defend the relevance of the Romans, where that is taken for granted at Lit. Hum. Oxford!” -- Dario Antiseri (Foligno), filosofo. Originario della città umbra di Spello, si laurea in filosofia nel 1963 presso l'Perugia; ha poi proseguito i suoi studi presso varie università europee sui temi legati alla logica matematica, all'epistemologia ed alla filosofia del linguaggio.  Divenuto libero docente nel 1968 ha iniziato l'insegnamento presso l'Università "La Sapienza" di Roma e l'Siena. È inoltre membro dell'Advisory Board del Centro Studi Tocqueville-Acton.  Dal 1975 al 1986 è stato ordinario di filosofia del linguaggio presso l'Padova mentre, dal 1986 al 2009, ha assunto la cattedra di "Metodologia delle scienze sociali" alla LUISS di Roma per poi ricoprire l'incarico di preside della Facoltà di Scienze politiche della stessa Università tra il 1994 ed il 1998. Nel febbraio del 2002 è stato insignito, assieme a Giovanni Reale, di una laurea honoris causa presso l'Università Statale di Mosca. Collabora stabilmente con il quotidiano Avvenire.  Dario Antiseri ha pubblicato testi didattici di filosofia oltre a testi di divulgazione filosofica e di autori stranieri, in particolare ha contribuito a far conoscere in Italia il pensiero di Karl Popper.  Critiche Il pensiero del professor Antiseri è da tempo sottoposto a critiche sia all'interno della Chiesa sia all'interno del mondo intellettuale liberale. A tal proposito sono interessanti le critiche recentemente mosse al pensiero dell'intellettuale da Assuntina Morresi sul giornale on-line L'occidentale e l'articolo del 2005 su "espressonline" di Sandro Magister in cui l'opera di Antiseri viene definita "apologia del relativismo".  Altrettanto interessante è il commento al relativismo di Antiseri apparso sul web nel blog di Fabrizio Falconi, e quello di Litta Modignani pubblicato sul sito Critica liberale.  Opere:  “Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede” (Brescia, Queriniana);  Epistemologia e metodica della ricerca in psicologia, Padova, Liviana Editrice); C'è ancora spazio per la fede?, Milano, Rusconi); “Il filo della ragione, Roma, Donzelli); “Liberi perché fallibili, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Trattato di metodologia delle scienze sociali, UTET Università); “Come lavora uno storico, Roma, Armando); “Liberali. Quelli veri e quelli falsi, Soveria Mannelli, Rubbettino); “L'università italiana. Com'è e come potrebbe essere, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Tre idee per un'Italia civile, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Credere dopo la filosofia del secolo XX, Roma, Armando); “Didattica della storia: epistemologia contemporanea, Roma, Armando, Karl Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “L'agonia dei partiti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Epistemologia e didattica delle scienze, Roma, Armando); “La medicina basata sulle evidenze, Edizioni Memoria); “La Vienna di Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Quale ragione?, Milano, Cortina); “Teoria unificata del metodo, UTET); “Cattolicesimo, Liberalismo, Globalizzazione, Soveria Mannelli, Rubbettino,  Karl Popper. Protagonista del secolo XX, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Epistemologia, clinica medica e la "questione" delle medicine "eretiche", Soveria Mannelli, Rubbettino); “Principi liberali, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Idee fuori dal coro, Roma, Di Renzo); “Ragioni della razionalità [ 1], Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cattolici a difesa del mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Come leggere Kierkegaard, Milano, Bompiani); “Come leggere Pascal, Milano, Bompiani, Credere. Perché la fede non può essere messa all'asta, Roma, Armando); “Epistemologia, ermeneutica e scienze sociali, Roma, Luiss University Press, Introduzione alla metodologia della ricerca, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Prefazione a Joseph Agassi, La filosofia e l'individuo, Roma, Di Renzo); “Ragioni della razionalità [2], Soveria Mannelli, Rubbettino); Relativismo, nichilismo, individualismo. Fisiologia o patologia dell'Europa?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Teorie della razionalità e scienze sociali, Roma, Luiss University Press); “L'ermeneutica è scienza?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali e solidali. La tradizione del liberalismo cattolico, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La «via aurea» del cattolicesimo liberale, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La società aperta» di Karl Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Von Hayek visto da Dario Antiseri, Roma, Luiss University Press); “Dario Antiseri e Gianni Vattimo. Ragione filosofica e fede religiosa nell'era postmoderna, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani); “Dialogo sulla diagnosi. Un filosofo e un medico a confronto, Roma, Armando); “L'attualità del pensiero francescano. Risposte dal passato a domande del presente, Soveria Mannelli, Rubbettino); “In cammino attraverso le parole, Roma, Luiss University Press); “Contro Rothbard. Elogio dell'ermeneutica, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali d'Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino,  Note  Questioni disputate, su chiesa.espresso.repubblica.  Marx, un falso profeta sconfitto dalla storia, su lanuovabq.   Contro Popper, Bruno Lai, Armando Editore, Vedi L'impegno dei cattolici in politica si misura sui valori non negoziabili Archiviato il 21 gennaio  in . di Assuntina Morresi, l'Occidentale, 12 giugno .  Vedi Questioni disputate. Un filosofo cattolico fa l'apologia del relativismo di Sandro Magister, chiesa.espressoonline, 3 novembre 2005.  Vedi Il relativismo inevitabile? Risposta a Dario Antiseri, Il blog di Fabrizio Falconi, 1º gennaio .  Vedi La falsa "laicità" che piace al Corriere Archiviato il 30 aprile  in . di Alessandro Litta Modignani, Fondazione critica liberale, 29 maggio .  Giuseppe Franco, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, in Giuseppe Franco , Sentieri aperti della ragione. Verità, metodo, scienza. Scritti in onore di Dario Antiseri nel suo 70º compleanno, Pensa Editore, Lecce ,  23–43.  Relativismo. Citazionio su Dario Antiseri  Sito ufficiale, su docenti.luiss.  Dario Antiseri, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dario Antiseri, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Dario Antiseri, .  Registrazioni di Dario Antiseri, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche, su tocqueville-acton.org. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloInsegnanti italiani del XX secoloInsegnanti italiani Professore1940 9 gennaio FolignoProfessori della SapienzaRoma. In un saggio in "Roma", Antiseri studia e spiega 'Se e perché studiare ancora il mondo romano.' Non posso qui ripetere tutte le argomentazioni, cui rimando volentieri, ma il succo del discorso sta in questi due punti. Primo. Niente avviene al di fuori di una tradizione culturale. Le stesse rivoluzioni sono tali rispetto a una determinata linea di svolgimento, che ne costituisce il presupposto; perciò i grandi rivoluzionari sono stati tutti buoni conoscitori del passato. Secondo. La nostra tradizione culturale italiana è quella latina. Non c’è possibilità di auto-identificazione e di innovazione se la si ignora. Quindi lo studio di quell’ antico è una condizione di fatto della nostra civiltà italiana. Se ci fermassimo al primo punto, dovremmo considerare di buon auspicio per le nostre sorti la ripresa, che si sta verificando, di interesse per il passato, da quello immediato e locale al più lontano nel tempo e nello spazio. Visto più da vicino, questo interesse non collima col secondo punto. Non solo questo passato italiano è romano, ma è selettivo. Accomuna l’archeologia industriale ai graffiti preistorici, la cultura materiale e i valori. La selettività di per sé contraddice al *momento*  romano *antico* correttamente inteso. Anzi gli toglie la staticità del *classico*, cioè del modello unico, esemplare perfetto e irripetibile (quindi fuori della storia) e lo ricolloca nella dinamica dell’evoluzione umana, lega la unica Roma all'Italia d'oggi. Questa elettività diventa filosofica, quando considera il romano *antico* -- in sue fasi monarchica, repubblicana ed imperiale -- un momento come un altro, senza speciali incidenze sulla storia. Peggio, quando si configura in qualche modo come una ri-edizione della tesi della priorità vetero-italica, palaeo-italica, o archaeo-italica, sulla civiltà classica. Peggio ancora, se pre-dilige il *passato* eroico dell'Omero romano, Virgilio, quale che sia come tale, come un tutto indifferenziato, solo perché diverso. Si rischia di tornare così alla cultura dei sassi, che Leopardi rimprovera ai romani del suo tempo (lettera al de Sinner, cioè all’antiquaria di settecentesca memoria (cioè senza storia e senza lingua). Se nell’interesse verso *il romano antico* non ha per noi un posto preminente i tre *momenti* del romano antico -- regno, repubblica, principato -- questo è segno di perdita di storicità vichiana, gentiliana, o croceana, di oscuramento di valori, di restringimento di orizzonti. Quel momento del romano antinco non è importante solo perché ha aperto vie, costruito ponti, tracciato città, su cui ancora insistiamo, ma perché ha dato un impulso decisivo a un complesso filosofico, di idee, mentalità, istituzioni, che costituiscono ancora i nostri parametri abituali e la nostra cultura di italiani. Gli altri momenti forti, da cui si può volta a volta, non senza ragione, far partire la nostra riflessione storica, il rinascimento toscano, l’Unità d’Italia mazziniana, si sono misurati con questa tradizione romana antica, l’hanno arricchita o combattuta, mai ignorata. Se riteniamo naturale ancor oggi rifarci alla nostra genesi civile romana, dobbiamo subito porci il problema se si debbano studiare Roma e se non sia riduttivo assumere come punto di partenza *solo Roma*, cioè studiare la civiltà *latina*, del Lazio. Non si tratta di rinnovare la vecchia questione dell’originalità romana, che una volta costituiva un passaggio obbligato per ogni storia della letteratura latina. Quel problema rispondeva a diverse contingenze storiche e teoriche. Il suo ambiente culturale era Roma, dove il nazionalismo rispecchiava se stesso nella superiorità di Roma rispetto ai barbari. Il sostegno teorico era offerto dal mito del classicismo romano, cioè del modello a-storico e perfetto, attingibile solo dagli eletti. Nelle ultime fasi della sua storia, la tesi trova forti resistenze in Italia per la convergenza di due motivazioni diverse. Da una parte il nostro nazionalismo, culminato nella grande guerra, dall’altro la nuova estetica simbolista di d'Annunzio, che insegna a fare filosofia in se stessa. Oggi quei condizionamenti storici e quei presupposti teorici sembrano molto lontani. Del resto, a parte le punte polemiche, già la ricerca aveva portato a una revisione di fatto di questi atteggiamenti. La contrapposizione poi di una *romanolatria* è più pensabile come ideologia politica. Il mondo romani costituisce una unità, ma non tanto in senso sincronico, quanto in senso diacronico. Roma si dispone in successione, in una unità dinamica. Roma è fatto antico e non solo a livello dotto. Non è un fenomeno solo neoterico, ma anche delle origini e della fine. Roma accentua la tradizione per raccoglierne l’eredità e stabilire così il suo diritto successorio alla leadership mondiale. E’ corretto che i moderni pongano il problema in modo non diverso dagli antichi romani. Di qui discende anche la legittimazione a fare di Roma un possibile punto di partenza della riflessione storica. Se la civiltà romana è  tradizionale, nell’atto stesso di arricchire, trasformar, e diffonder una tradizione, studiare Roma è universale. Rimane ai romani antichi il merito di molte creazioni, e di averle trasmesse al futuro. Il concetto dell’uomo e della comunità, la storiografia, la scuola, la retorica rimangono quelle ereditate da Roma. L’asse culturale si conserva intatto. Si può senza difficoltà riconoscere che l’eredità romana, dal diritto alla lingua, non ha finito di operare. Si pensi per esempio alla lingua italiana, che, pur diversa com’è ormai dalla latina, conserva di quella i caratteri costitutivi e le energie generative. La stessa evoluzione del 'volgare' si è svolta e si sta svolgendo secondo modalità sempre latine. Un fatto significativo rimane il latino medioevale, che non è più il latino classico ed è una lingua di dottrina, però è una lingua viva, perché usata nella comunicazione reale. La sua peculiarità consiste nel non dipendere da matrice italica nazionalista. Usano il latino medioevale le genti che si riconoscono in un’unica cultura. Così quella lingua diventa propria anche dei non-neolatini e coopera alla formazione di una nuova unità, l’Europa, ben diversa, anche geograficamente, dall’Impero. L’Europa è una formazione post-romana, con materiali latini. Questa è un’importante ragione oggi per lo studio anche del solo latino. Quasi come uno slogan si potrebbe dire che Roma ha generato l’Occidente (una civiltà), l'Italia, e l’Europa (una storia). Entrambe le prospettive sono sprovincializzanti. Non c’è niente di più istruttivo che consultare i volumi dell’Année Philologique, che non solo si fanno di anno in anno più grossi, ma vedono allargare la partecipazione agli studi classici a paesi sempre più lontani e che sembrerebbero estranei a questa tradizione: dagli stati dell’Est alle nazioni in via di sviluppo. Segno che questa cultura non è neanche solo nazionale o europea o occidentale, ma ci appartiene come uomini senza esaurirci. Questi concetti sono generalmente ammessi e non hanno perciò bisogno di particolare documentazione. Ne discendono però alcune conseguenze sui modi corretti dell’atteggiamento odierno verso il mondo romano. Anzitutto si rifiuta l’ideologizzazione, specie politica. È invece oggetto di studio questo atteggiamento nel passato, specie recente (Fascismo, Nazismo: cfr. specialmente la rivista Quaderni di storia). Fa ancora ideologia (postuma e alla rovescia) chi osserva da una parte sola quest’uso politico del classico in passato (in genere considerandolo al servizio del potere o della classe dominante). In realtà l’ideologia del classicismo è sempre reversibile, fornisce insieme Bruto e Cesare, come è avvenuto a cavallo fra Sette e Ottocento. Ma in genere le ricerche hanno un respiro più ampio, volte come sono a indagare la presenza degli studi classici filosofici nella cultura moderna, quindi la partecipazione degli antichisti latinista e la loro relazione con gli orientamenti e movimenti coevi: è molto di più non solo della ideologia, ma anche della diretta influenza dei classici sui moderni . Rifiuto dell’ideologia e studio della presenza dei classici e del classicismo nel mondo moderno presuppongono senso vivo della storicità, ossia della continuità antico-moderna, che vuol dire due cose insieme: un legame che ci unisce agli antichi e l’alterità che, senza contraddirlo, ci distanzia. Di qui il rifiuto anche dell’esemplarità e del presentismo. L’esemplarità fa del romano un modello perfetto, imitabile ma irraggiungibile; questa concezione, oggi improponibile, in altri tempi ha avuto una sua funzione attivizzante (come nell’Umanesimo). Le conseguenze del mutato atteggiamento sono evidenti. Non si definisce più un’età aurea, non si parla più di declino, ma di trapasso. Decadenza romana o tarda antichità? intitolava H. Marrou un suo piccolo libro (ed. it. Jaca Book, Milano). Il tardo antico richiama molta attenzione. I convegni comensi, indetti in occasione del XIX centenario della morte di Plinio il Vecchio (e oggi disponibili negli Atti in tre volumi), si sono spinti molto oltre l’età dello scrittore celebrato, studiando la tecnica, la città, l’economia (vedi i titoli: Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario: Tecnologia, economia e società nel mondo romano; La Città antica come fatto di cultura). Rinunciando infatti all’ideale della esemplarità, il concetto di «classico» (nel senso di romano) esce dalla sola categoria del bello e del perfetto una volta per tutte e si arricchisce di valori e di problemi esistenziali. Si supera anche l’antinomia classico = forza contro debolezza, anacronisticamente riproposto dalla edizione italiana di un libro composto da W. Otto mezzo secolo prima (Spirito classico, La Nuova Italia, Firenze). Si esplorano province nuove (i papiri di Ercolano e l’epicureismo campano). Qualche volta si registrano scoperte notevoli (dopo Menandro, Callimaco, Cornelio Gallo, Rutilio Namaziano, la Seconda Centuria del Poliziano ecc.). Si ricuperano, nella loro umanità e nel loro valore documentario, autori e movimenti minori: il Favorino di Arelate di A. Barigazzi (Le Monnier, Firenze), le Questioni neoteriche (che comprendono i novelli) di E. Castorina (La Nuova Italia, Firenze). Anche nella filologia nostrana nasce l’interesse verso i rapporti fra Roma e la cultura d'Etruria (G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca e l’ambiente d'Etruria, Paideia, Brescia nuova ed. F. Arnaldi, La crisi morale dell’età argentea, « Vichiana ». Estesa e polidisciplinare è la bibliografia sui rapporti tra Roma ed Etruria. Sono meno frequenti le monografie, ma non mancano le sintesi come quella celebre di P. Grimal, Le siècle des Scipions. Rome au temps des guerres puniques, Aubier, Paris -- Paideia, Brescia). Intensa è l’attività traduttoria dell’editoria italiana: va da A. D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori storici e filosofi latini. Il Mulino, Bologna a R. Syme, Tacito (che è un grande affresco dell’età tacitiana), Paideia, Brescia di P Boyancé, Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia, ancora a R. Syme, La rivoluzione romana, Einaudi Torino, da M. Pohlenz, La stoa, La Nuova Italia, Firenze, a W. Jaeger. Paideia, La Nuova ltalia, Firenze, a H.I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Studium Roma. Ho citato un po’ a caso fra i titoli più famosi. La stessa ampiezza di questa produzione, con la eterogeneità dei suoi titoli, testimonia la lontananza attuale da un ideale ristretto di esemplarità. Di recente si è verificato, invece, un breve successo dell’ atteggiamento antitetico, cioè del presentismo, più rilevabile a livello di letteratura scolastica che scientifica, forse nel tentativo di rendere accettabile l’antico a un determinato pubblico, facendone vedere l’analogia col moderno. Il procedimento però è rischioso. Proiettando sull’antico la luce del moderno, tende a ritrovare in quello un doppio del presente, quindi ne rende inutile lo studio e impedisce di vedere i legami storici, cioè le fondamenta lontane del moderno, che legano e insieme differenziano, distinguendo nella continuità. Già il Rostagni avvertiva questo pericolo, riflettendo sul suo stesso lavoro (Aristotele e l’aristotelismo nella storia dell’estetica antica, « Studi ital. di filologia classica » ora in Scritti minori I, Aesthetica, Bottega d’Erasmo, Torino, spec. p. 235): eppure è noto quanto egli fosse guidato da un certo crocianesimo, andando alla ricerca di un’estetica dell’intuizione presso i classici. Il pericolo oggi si ripresenta leggendo i classici alla luce di altre ideologie attualizzanti. Legittimo è invece studiare nell’antico temi e problemi, che sentiamo vivi, ma sempre con coscienza storica, ossia proprio per scoprirne la formazione lontana: pace- . libertà, progresso, lavoro, scienza . L’atteggiamento corretto sarà dunque di porsi davanti all’antico senza cessare di essere moderni e (poiché quell’antico è greco-romano, cioè la nostra origine culturale) senza negare il debito e senza cancellare l’intervallo : dunque alterità più legame storico. Questo comporta anche l’uso di strumenti ermeneutici nuovi e la modernizzazione dei tradizionali. Di alcuni impieghi di tecniche recenti danno qui sotto saggio i contributi di V. Cremona e di G. Proverbio: sono appena esempi, cui altro sarebbe da aggiungere. Così, molto vivace è oggi la narratologia; e è il Convegno internazionale «Letterature classiche e narratologia» a cura dell’Istituto di Filologia Latina dell’Università di Perugia.. Gli strumenti tradizionali a loro volta hanno compiuto i progressi di tutte le tecniche; per la filologia in senso stretto danno informazioni il saggio e il materiale approntati da L. Castagna. Mezzi vecchi e nuovi si intrecciano per conseguire risultati più fini: A. Grillo ha messo la narratologia a servizio della critica testuale per risolvere alcuni problemi di lezione dell’Ilias Latina in Critica del testo. Imitazione e narratologia. Ricerche sull’Ilias latina e la tradizione epica classica, Bibliot. del Saggiatore, Le Monnier, Firenze. E’ facile constatare la differenza da una meccanica applicazione di criteri lachmanniani (almeno come vengono volgarmente intesi). E si veda quale cammino si è percorso dalla ricerca grezza e materiale delle fonti (la famigerata critica dei «fontanieri») alla più sofisticata tecnica allusiva e alla memoria poetica. A loro volta quelle che un tempo venivano chiamate discipline ausiliarie (archeologia, topografia, epigrafia ecc.) non solo si sono giovate dei progressi delle tecniche applicate, ma hanno esteso il loro campo ben al di là del mondo greco-romano, abbisognando quindi per competenza di un discorso riservato (come del resto la storia generale, intrecciata al diritto e all’economia, oltre che a queste stesse discipline e alla cultura materiale, nella prospettiva di una storiografia totale). Non si possono infine dimenticare alcuni graditi incontri o addirittura ritorni. La linguistica, sorta fuori e in opposizione alle lingue classiche, è salita man mano dalla frase al testo e ha ricuperato concetti della grammatica nata dal greco e dal latino. La logica e la critica letteraria hanno riscoperto la retorica classica senza la mediazione della filologia greco-latina, incontrandosi e quasi confondendosi con questo genere di studi. Della retorica, affermatasi a Roma come tecnica politica e poi diventata cultura, paideia e letteratura, si ripete oggi mutato nomine la dicotomia, da una parte nei mass media e nella pubblicità, dall’altra nella critica letteraria. Gli antichisti cooperano da parte loro a questo riavvicinamento: gli Elementi di retorica di H. Lausberg, ed. it. Il Mulino. Bologna, si presentano come un moderno manuale di linguistica; quella di E. Cizek, Structures et idéologie dans «Les Vies des Douze Césars» de Suétone, Editura Academiei e Les Belles Lettres, Bucuresti Paris è insieme un’analisi strutturalistica e retorica (studia la sovrasignificazione fornita, al di là dei concetti, dalla loro distribuzione). In questa prospettiva molte analisi letterarie su testi moderni rivelano una straordinaria possibilità di impiego di strumenti antichi. 

 

Dario Antiseri. Antiseri. Keywords: antiseri — implicatura solidale — il concetto di solidale -- liberali d’italia – il principio del liberalismo – la mistica di Gentile e il liberalismo di Croce — Grice — metaphysics in Pears 3rd programme — Grice p.331 — ‘violazione consapevole della massima’ — flouting the maxim — la scuola di Oxford di filosofia analitica del linguaggio ordinario — Austin, Grice, … gruppo di giocco – Grice sa benissimo che la massima e violabile intenzionalmente e comunicativamente — Fidanza — il mistico — la logica di un mistico -- Roma – la relevanza della filosofia del mondo romano antico -- — La mistica fascisdta di Gentile —Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Antiseri” – The Swimming-Pool Library.

 

ANTONINI Grice: “I like Antonini, or Cinesio – you see, one problem of these Italians – but cf. Occam – by sticking to the first-name is that a researcher in the longitudinal history of philosophy has to check references to Aegeius viterbensis and Aegidius Cinesio! It was only recently that he was found to be one of the Antoninis! His place in the longitudinal history of philosophy is that famous pendulum between Plato and Aristotle – so after Aquinas’s Aristotle, Egidio – an almost Tuscan man! – finds Plato more pleasing – especially his philosophy of love in the symposium, the references to Ganymede as representing ‘amore,’ and he has the cheek to display all this hardly scholastic erudition (more of a renaissance thing) in his commentary of Lombardo’s sentences! Delightful – my favourite is his reference to Ganymede, for here we have the treatment of a subject (Zeus) of another subject as an object – and that’s just only one reading of Zeus’s intention --.”  Grice: “In any case, the sacrificial status of Ganymede is recognised in the Platonic tradition – as the manipulative use of a subject by another subject who is subjected as an object, rather --.” Antonini: Essential Italian philosopher. Antonini (n. Viterbo), filosofo. Egidio da Viterbo  «Sono gli uomini che devono essere trasformati dalla religione, non la religione dagli uomini»  (Egidio da Viterbo, prolusione al Quinto Concilio Lateranense) Egidio Antonini da Viterbo, O.E.S.A. cardinale di Santa Romana Chiesa Egidio 2Egidio da Viterbo, affresco XVII secolo (part.), Sala Regia, Palazzo dei Priori, Viterbo Stemma egidio  Incarichi ricopertiPriore generale dell'Ordine di Sant'Agostino, Cardinale presbitero di San Bartolomeo all'Isola (1517) Cardinale presbitero di San Matteo in Merulana (1517-1530) Vescovo di Viterbo e Tuscania (1523-1532) Patriarca titolare di Costantinopoli (1524-1530) Cardinale presbitero di San Marcello (1530-1532) Amministratore apostolico di Zara (1530-1532) Amministratore apostolico di Lanciano (1532)   Nato1469 a Viterbo Ordinato presbiteroin data sconosciuta Nominato vescovo2 dicembre 1523 da papa Clemente VII Consacrato vescovo10 gennaio 1524 dall'arcivescovo Gabriele Mascioli Foschi, O.E.S.A. Elevato patriarca8 agosto 1524 da papa Clemente VII Creato cardinale1º luglio 1517 da papa Leone X Deceduto12 novembre 1532 a Roma   Manuale Egidio Antonini da Viterbo, o semplicemente Egidio da Viterbo (Viterbo), filosofo. Apparteneva all'Ordine degli Agostiniani. Nacque a Viterbo, da Lorenzo Antonini e Maria del Testa, in un giorno imprecisato tra l'estate e l'autunno del 1469Pur essendo i genitori di origini modeste, fecero compiere ad Egidio studi approfonditi presso il convento agostiniano viterbese della Santissima Trinità. Forse influenzato dalla predicazione di Mariano da Genazzano, presente a Viterbo nel 1485, tre anni dopo, nel 1488, all'éta di diciotto anni, entrò nell'Ordine degli Agostiniani, presso il medesimo convento per esservi ordinato sacerdote. Sotto il priorato di Giovanni Parentezza, studiò filosofia, teologia e lingue antiche (greco, ebraico, arabo, aramaico, persiano) e si perfezionò, cominciando anche ad insegnare, presso le case del suo ordine ad Amelia, Padova, Firenze, Roma, Viterbo ed in Istria. A Padova (1490-1493) incontrò più volte Pico della Mirandola, con il quale discusse di astrologia e cabalismo, ma, soprattutto, in quella città curò nel 1493 l'editio princeps di tre commenti aristotelici di Egidio Romano, con notazioni contrarie ai peripatetici e ad Averroè. Alcuni anni più tardi conobbe a Firenze l'umanista Marsilio Ficino, di cui fu allievo e successivamente amico, e con il quale si perfezionò notevolmente nello studio delle dottrine neoplatoniche, specialmente in rapporto alla loro assoluta compatibilità con i principi del Cristianesimo. Nella primavera del 1497 il cardinale Riario, protettore degli Agostiniani, che aveva per lui grande stima, lo richiamò a Roma dove, dopo una duplice e complessa prova, conseguì il magisterium in teologia.  Oratore di straordinaria efficacia, particolarmente apprezzato in quegli anni da papa Alessandro VI, quindi dai suoi successori, paragonato da taluni a Demostene, fu in contatto con i maggiori intellettuali del tempo; oltre alla fitta corrispondenza con Marsilio Ficino, va ricordata la frequentazione che ebbe a Napoli con Giovanni Pontano (che gli dedicò il dialogo Ægidius) e con gli intellettuali della sua Accademia.  Nel giugno 1506 papa Giulio II gli affidò la guida dell'Ordine agostiniano come Vicario apostolico; l'anno successivo (1507) il capitolo generale dell'Ordine lo confermò alla sua guida come Priore Generale, incarico che mantenne per molti anni, durante i quali riformò profondamente l'Ordine stesso, riportandolo agli antichi fasti con il pieno recupero della regola di S.Agostino. Durante quegli anni fu uno dei più stretti collaboratori di Giulio II, che accompagnò nella sua missione contro Bologna e dal quale fu inviato come nunzio apostolico a Venezia e Napoli per ottenere l'adesione di quegli stati alla crociata progettata dal pontefice: venne anche inviato nella città ribelle di Perugia e ad Urbino. Il 3 maggio 1512 il papa gli conferì il prestigioso incarico di tenere l'orazione inaugurale del Quinto Concilio Lateranense: Egidio pronunciò così una celebre, accorata allocuzione in cui parlò con determinata onestà dei mali della Chiesa, suscitando viva emozione nei presenti, molti dei quali lodarono lo stampo ciceroniano dell'orazione.  Morto Giulio II, anche il suo successore Leone Xappartenente alla potente famiglia fiorentina dei Medicicontinuò la stretta collaborazione con Egidio, che impiegò in importanti missioni diplomatiche, come quella del 1516 in Germania, quando ottenne una difficile pacificazione tra Massimiliano I e la Repubblica di Venezia. Il papa innalzò Egidio alla dignità cardinalizia nel concistoro del 1º luglio 1517 creandolo cardinale prete con titolo di San Bartolomeo all'Isola; quasi subito il porporato viterbese optò per il titolo di San Matteo in Merulana, antica chiesa agostiniana; molti anni più tardi, poco prima di morire, avrebbe infine optato per il titolo di San Marcello. Nel 1518 Leone X lo nominò cardinale protettore dell'Ordine degli Eremitani di Sant'Agostino e, nello stesso anno, lo inviò come legato pontificio in Spagna per una complessa missione nella quale avrebbe dovuto impegnare Carlo V alla crociata contro i turchi. In quel periodo fu anche governatore di diverse città dello Stato Pontificio. Occorre altresì ricordare come a meno di quattro mesi dalla sua nomina a cardinale e quando Egidio era ancora Priore Generale degli Agostiniani, un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, affisse sulle porte della Schlosskirche di Wittenberg le notissime 95 tesi che avrebbero dato inizio alla riforma protestante.  Dopo la scomparsa di Leone X ed il breve pontificato di Adriano VI, il 18 novembre 1523 fu eletto papa, con l'appoggio di Egidio, un altro Medici, Clemente VII, che, pochi giorni dopo l'elezione, il 2 dicembre, conferì al cardinale viterbese la nomina a vescovo proprio della diocesi di Viterbo: l'anno successivo Egidio venne nominato patriarca latino di Costantinopoli e amministratore apostolico dell'arcidiocesi di Zara. Purtroppo in quegli anni le indecisioni e gli errori politici di Clemente VII crearono problemi gravissimi al governo della Chiesa: il papa finì per schierarsi con i francesi, ma prima la sconfitta di Francesco I a Pavia, poi le incertezze della lega di Cognac aprirono le porte alla discesa in Italia di Carlo V con i suoi lanzichenecchi, culminata nel terribile Sacco di Roma (1527), durante il quale venne distrutta -tra l'altro- tutta la ricchissima biblioteca di Egidio nel Convento di Sant'Agostino. Il porporato si trovava allora nelle Marche e, per soccorrere il papa, assediato in Castel Sant'Angelo, organizzò -impiegando anche il proprio denaro- una spedizione armata, che non ebbe però fortuna per i molti ostacoli frapposti dai signori locali. Dopo quei dolorosi momenti la salute di Egidio andò peggiorando: questo fatto non gli impedì, peraltro, di tenere, durante il concistoro pubblico una famosa ed appassionata orazione sulla necessità di riformare la Chiesa dopo lo scisma luterano. Clemente VII dichiarò la sua disponibilità, ma sarà solo il suo successore, Paolo III, conterraneo di Egidio, a convocare l'importante Concilio di Trento, che segnerà, con la controriforma, la prima importante reazione della Chiesa al protestantesimo. Poco prima di morire il cardinale fu nominato arcivescovo di Lanciano; amministrò la diocesi lancianese a titolo di commenda per sette mesi, fino alla morte.  Morì a Roma il 12 novembre 1532 e venne sepolto nella chiesa di Sant'Agostino, dove lo ricorda una semplicissima lapide sul pavimento della navata centrale, a cornu evangelii rispetto all'altar maggiore.  Filosofia, Ebraismo, Cabala  Egidio da Viterbopartic. di affresco XVIII secolo, Sala del Cenacolo, Convento Santissima Trinità, Viterbo Egidio deve certamente essere considerato uno dei maggiori filosofi di quei secoli. Il suo primo impegno importante fu quando, studente a Padova, curò nel 1493 la pubblicazione con commento di tre opere del filosofo e vescovo agostiniano Egidio Romano, vissuto tra il XIII ed il XIV secolo: elaborò così un'autentica avversione nei confronti della filosofia di Aristotele e dell'averroismo, contro i quali ritenne che l'unico possibile antidoto fosse, specie dopo l'incontro con Marsilio Ficino ed in perfetta armonia con Sant'Agostino, il neoplatonismo, inteso come «pia philosophia», cioè nella sua piena compatibilità con i valori cristiani. Uomo dottissimo, volle leggere tutte le opere che studiava nelle lingue originali in cui erano state scritte, per meglio comprenderne il vero significato: acquisì in tal modo una straordinaria conoscenza, oltre che del latino e del greco antico di cui aveva padronanza assoluta, dell'aramaico, per il Talmud e varie parti della Bibbia, dell'arabo, per il Corano e le opere di Averroè, e dell'ebraico, per la Torah. Ebbe una fitta corrispondenza con l'umanista tedesco Johannes Reuchlin, finissimo conoscitore dell'ebraismo, con il quale si intrattenne a lungo sia su temi relativi all'Antico Testamento sia sulla cabala (in ebraico Qaballáh), argomento da lui già affrontato con Pico della Mirandola, che trattava dei misteriosi simbolismi, parte dei quali nascosti nei numeri e nelle lettere stesse dell'alfabeto ebraico, che potevano avvicinare l'uomo a Dio. Le problematiche della letteratura ebraica e della cabala occuparono gran parte dei suoi ultimi anni di vita, quando tentò ripetutamente di ricondurre in ambito cristiano tutte le altre culture, dedicandosi in particolare ad approfonditi studi e ricerche sullo Zohar.  Lo scrittore e l'oratore  Raffaello:La disputa del Sacramento (affresco, Roma, Stanze Vaticane)  Egidio da Viterbo in preghiera, particolare di pala d'altare, chiesa Santissima Trinità, Viterbo Rimane ben poco della cospicua produzione letteraria di Egidio, sia a causa della perdita della sua biblioteca durante il Sacco di Roma, sia perché lui stesso, per modestia, non volle dare alle stampe molte delle sue opere. Tratta quasi tutti i campi della filosofia alla letteratura, dall'astrologia alla storia, dalla poesia alla geografia, dalla teologia all'arte: a quest'ultimo proposito si ritiene che il programma iconografico per gli affreschi di Raffaello della Disputa del Sacramento e della Scuola di Atene nella Stanza della Segnatura sia stato largamente ispirato dalla sua opera, con la probabile mediazione di Tommaso Fedra Inghirami. Da notare come Antonini preferisce di solito ritirarsi in luoghi tranquilli, come l'Eremo di Lecceto, presso Siena, o la sua città natale, Viterbo, o, ancora più spesso, due rifugi nei dintorni di quest'ultima: un Convento nell'Isola Martana, sul Lago di Bolsena, ed un Eremo nella selva del Monte Cimino. Meritano comunque menzione tre ecloghe latine di stampo virgiliano (Paramellus et Aegon, -- Paramello e Egone -- in Resurrectione Domini – la risurrezione del Signore -- e De Ortu Domini – L’orto di Dio --, sei madrigali dedicati alla famiglia Colonna  ed una favola silvestre dello stesso periodo (“Cyminia”, in volgare italiano viterbese. La a sua maggiore opera filosofica è costituita dai “Commentaria sententiarum ad mentem et animum Platonis” (I comentari dei sentenze sull’anima di Platone”, brevemente detta Sententiae ad mentem Platonis, che presenta l’ostilità all'aristotelismo e la necessità di sostituirlo, l'anima e la dignità umana; “Historia XX saeculorum” racconta le vicende di Alessandro VI a Leone X, attinsero a piene mani vari storici, da Gregorovius a Pastor, anche se il loro giudizio complessivo sulla Historia è perplesso, se non addirittura negativo. Tra altre opere meritano anche menzione il “Libellus de litteris sanctis”, sul significato recondito delle lettere dell'alfabeto romano, e la Scechina che guarda in la cabala.  Il campo nel quale Egidio riuscì comunque a dare il meglio è quello della retorica o dialettica colloquenza filosofica, divenendo uno dei migliori oratori di quei decenni, forse il migliore in assoluto, con giudizi sempre entusiastici da parte di tutti quelli che ebbero modo di ascoltarlo. In realtà egli era veramente dotato di un'eloquenza drammaticamente coinvolgente, capace di suscitare grandi emozioni negli uditori, sia che fossero ricchi principi, sia che si trattasse di poveri popolani; lo aiutava probabilmente lo stesso aspetto fisico, ascetico, con il viso pallido e scavato e la barba fluente. Tra le orazioni conservate vanno ricordate: quella nel certamen che lo vide trionfare su tre filosofi peripatetici e conseguire il magisterium. Altre opere: “De aurea aetate” (o De Ecclesiae incremento), tenuta in San Pietro su incarico di Giulio II per onorare re Manuele I del Portogallo che aveva scoperto nuove terre e riportato una grande vittoria navale, lavoro dottissimo e ricco di riferimenti cabalistici; l'orazione delConcilio Lateranensegrande onore concessogli dal papache provocò indicibile emozione negli astanti e fece definire l'agostiniano viterbese il nuovo Cicerone; è in quest'ultima orazione la celebre sentenza di Egidio. “Sono gli uomini che devono essere trasformati dalla religione, non la religione dagli uomini”. Va infine ricordata l'orazione tenuta in occasione di un concistoro, sulla necessità di riformare la Chiesa, che viene da molti considerata come il vero preludio al celebre Concilio di Trento, convocato da Paolo III.  Genealogia episcopale Arcivescovo Gabriele Mascioli Foschi, O.E.S.A. Cardinale Egidio Antonini da Viterbo, O.E.S.A. Note  Notizie molto precise sul suo luogo di nascita e sul suo esatto cognome sono reperibili nel lavoro di Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da Viterbo etc.,Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1929. L'opera dello storico viterbese, con una ricchissima documentazione bibliografica, costituisce un indispensabile fondamento monografico per lo studio di questo porporato; in particolare Signorelli precisa, con riferimento a numerosi manoscritti, perché debba essere ritenuta Viterbo la città natale di Egidio ed in base a quali errori diversi storici abbiano, sbagliando, ritenuto Canisio il suo cognome:il cognome esatto è Antonini.  Quanto sostenuto dal Signorelli è pienamente confermato da G.Ernst,Egidio da Viterbo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, 1993, in quella che è probabilmente la più completa monografia su Egidio reperibile on-line, con notevole .  Pur essendo acclarato il cognome Antonini, appare peraltro corretto chiamarlo semplicemente EGIDIO da VITERBO: Ægidius Viterbiensis o Viterbii è il nome con cui viene indicato nella bolla papale di nomina cardinalizia relativa al concistoro è il nome che compare nelle bolle da lui sottoscritte ed è, infine, il semplice nome che compare sulla sua lapide sepolcrale nella Chiesa di S. Agostino in Roma; sempre Egidio da Viterbo sono intitolate le principali monografie a lui dedicate da Signorelli, Ernst, Massa, O'Malley ecc.. Va infine ricordato come lo stesso Comune di Viterbo abbia chiamato Via Egidio da Viterbo la strada a lui dedicata parecchi anni fa nel centro storico cittadino e con la medesima intitolazione Egidio da Viterbo vi siano altre istituzioni viterbesi.  L'epoca della nascita è indicata ancora dal Signorelli (op.cit.), che cita vari documenti del periodo.  Si veda in proposito Lettera a Mannio Capenati, agosto 1504 citata in: Francis X. Martin, Friar..., cit., Appendice III, pag. 346  De materia coeli; De intellectu possibili; Egidii Romani commentaria in VIII libros Physicorum Aristotelis  Egidio non ricambiò mai la simpatia di papa Borgia, anzi il suo giudizio sul pontificato di Alessandro VI fu terribile, con parole di inusitata durezza; si veda Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo, IV,lib.XVI,pag.394,Viterbo, Agnesotti, 1913.  Lo dice espressamente il Signorelli, op. cit., capo II, pag 5.  Per la precisione fino al 25 febbraio 1518, giorno in cui depose l'incarico davanti al Capitolo generale dell'Ordine, consegnandolo nelle mani dell'amico Gabriele Di Volta, nominato due giorni prima con breve di Leone X proprio su proposta di Egidio; v. G. Signorelli, op. cit., Capo VI, pag. 68.  Lo sottolinea bene Ernst (op.cit.).  L'episodio che vide Egidio alla testa di un esercito è ricordato in un intero capitolo (Da Vescovo a Duce) nella monografia del Signorelli, op.cit., capo VIII.  Papa Paolo III, era nato come Alessandro Farnese nella cittadina di Canino, situata ad una trentina di chilometri da Viterbo.  La lapide, fatta collocare dal Priore Generale Gabriele Veneto, reca la seguente iscrizione: D.O.M.AEGIDIO VITERBIENSI CARDINALIGABRIEL VENETUS GENERALISMDXXXVI (v.S.Vismara,Una grande figura religiosa del Rinascimento:Egidio da Viterbo su Biblioteca e società in//bibliotecaviterbo/biblioteca-e-societa/index.php?fasc=12 ; il volumetto contiene gli Atti di un interessante Convegno di studi su Egidio da Viterbo , nel anniversario della morte). Occorre notare come la lapide originale, praticamente distrutta dal tempo, sia stata sostituita nel 1982 , a cura dell'Ist. Stor. Agostiniano con una nuova lapide che riporta, integralmente, l'iscrizione. Il background intellettuale e la relativa fonte egidiana dei due affreschi della Stanza della Segnatura sono stati promossi dallo storico gesuita Pfeiffer (Heinrich Pfeiffer, Die Predig des Egidio da Viterbo über das goldene Zeitalter und die Stanza della Segnatura, in: J. A. Schmoll gen. Eisenwerth, Marcell Restle, Herbert Weiermann , Festschrift Luitpold Dussler, Monaco-Berlino, Deutscher Kunstverlag, Id., La Stanza della Segnatura sullo sfondo delle idee di Egidio da Viterbo, Colloqui del Sodalizio, serie II, n°3, 1970-1972, pagg. 31-43; Id., Zur Ikonographie von Raffaels Disputa : Egidio da Viterbo und die christlich-platonische Konzeption der Stanza della Segnatura, Roma, Università Gregoriana Editrice) ripreso da Ernst, op.cit., e da G.Polo, Egidio da Viterbo e Raffaello, in Biblioteca e Società, cit., pagg. 21-22. Il ruolo di Fedra Inghirami quale mediatore tra Egidio e Raffaello è stato inizialmente ipotizzato da Paul Künzle, Raffaels Denkmal für Fedra Inghirami auf dem letzen Arazzo, in: Mélanges Eugène Tisserant,  VI, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, e si ritrova in: Christiane L. Joost-Gaugier, Raphael's Stanza della Segnatura: Meaning and Invention, Cambridge, Cambridge University Press, 2002. Per una sintesi si veda: Ingrid D. Rowland, The Intellectual Background of the School of Athens: Tracking Divine Wisdom in the Rome of Julius II, in: Marcia HallRaphael's School of Athens, Cambridge, Cambridge University Press,  Biblioteca apostolica vaticana, Ms Vat.lat. 6525  Il più autorevole di questi manoscritti è certamente quello autografo esistente presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (Mss.lat.,IX,B,14).  Tutti i giudizi degli storici sono ben riportati dal Signorelli, Riprendendo il Signorelli, descrive bene le sue grandi doti oratorie Sandro Vismara, Biblioteca e società, ATTI del Convegno...,op.cit.,pag.11.  Proprio a questa orazione si sarebbe ispirato Raffaello per due affreschi della Stanza della Segnatura, cioè la Disputa del Sacramento e la Scuola di Atene (v.Pfeiffer e Polo, ocitt..)  S.Vismara,op.cit..  Il testo latino recita letteralmente: Homines per sacra immutari fas est, non sacra per homines.  Egidio da Viterbo, "Ecloghe", Jacopo Rubini , Sette Città, . Rafael Lazcano, Episcopologio agustiniano. Agustiniana. Guadarrama (Madrid), Hubert Jedin, Riforma Cattolica o Controriforma, Morcelliana, Brescia, Francis X. Martin, The problem of Giles of Viterbo: a Historiographical Survey, "Augustiniana",  Francis X. Martin, Friar, Reformer, and Renaissance Scholar: Life and Work of Giles of Viterbo Villanova, Augustinian Press, John W. O'Malley, Giles of Viterbo on Church and Reform: a Study on Renaissance Thought, Leiden, Brill, 1968 Heinrich Pfeiffer, Le Sententiae ad mentem Platonis e due prediche di Egidio da Viterbo, in: Marcello Fagiolo , Roma e l'antico nell'arte e nella cultura del Cinquecento, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo,  IV, Agnesotti, Viterbo, François Secret, Notes sur Egidio da Viterbo, "Augustiniana",  Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da Viterbo agostiniano, umanista e riformatore, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, Viterbo Ordine di Sant'Agostino Umanesimo Cabala ebraica Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Egidio da Viterbo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Egidio da Viterbo  Egidio da Viterbo, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Egidio da Viterbo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Egidio da Viterbo, su sapere, De Agostini. Egidio da Viterbo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Egidio da Viterbo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da Viterbo, su ALCUIN, Ratisbona. Egidio da Viterbo, su Find a Grave. Opere di Egidio da Viterbo, . Egidio da Viterbo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M. Cheney, Egidio da Viterbo, in Catholic Hierarchy.  Biblioteca e società, ATTI del Convegno di Studi su Egidio da Viterbo nel 450º anniversario della morte, su bibliotecaviterbo. Rassegna bibliografica   [collegamento interrotto], su bibliotecaviterbo.ÆGIDIUS OF VITERBO, Jewish Encyclopedia (la voce contiene, peraltro, alcune inesattezze) Salvador Miranda, VITERBO, O.E.S.A., Egidio da, su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. Articolo della rivista Theological Studies (O'Malley) dedicato al pensiero riformistico di Egidio da Viterbo , su bc.edu. PredecessorePriore generale dell'Ordine di Sant'AgostinoSuccessore13.escudo.oar.png Agostino da Terni, O.E.S.A Gabriele da Venezia, O.E.S.APredecessoreCardinale presbitero di San Bartolomeo all'Isola Successore CardinalCoA PioM. Domenico GiacobazziPredecessoreCardinale presbitero di San Matteo in MerulanaSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Cristoforo Numai, O.F.M.Obs. Charles de Hémard de DenonvillePredecessoreVescovo di Viterbo e TuscaniaSuccessoreBishopCoA PioM.svg Ottaviano Riario2 dicembre 152312 novembre 1532Niccolò Ridolfi (amministratore apostolico)PredecessorePatriarca titolare di Costantinopoli Successore PrimateNonCardinal PioM.svg Marco Corner Francesco de PisauroPredecessoreCardinale presbitero di San MarcelloSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Enrique Cardona y Enríquez9 maggio 153012 novembre 1532Marino GrimaniPredecessoreAmministratore apostolico di ZaraSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Francesco Pesaro (arcivescovo metropolita) Cornelio Pesaro (arcivescovo metropolita)PredecessoreAmministratore apostolico di LancianoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Angelo Maccafani (vescovo)10 aprile12 novembre 1532Michele Fortini, O.P. (vescovo) Filosofi italiani del XVI secoloCardinali italiani Professore Viterbo RomaAgostiniani italiani Cabalisti italianiCardinali nominati da Leone XPatriarchi latini di CostantinopoliEbraisti italiani. Raptus GANYMEDIS. Ubi ea de AMORE tractavimus, quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quae ad mortales usque proveniunt. Utrumque enim in symposio disputatum est a Platone, et quod magnus deus AMOR est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est curatorque mortalium, quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique eorum contempserunt, quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus, non sensilia ratione dimetiuntur.Rati ex aeterna causa res novas absque medio provenire non posse, ne aeterna, stabilis, immotaque res, de ea enim causa praecipue loquuntur, quae firma immota semper est, quasi quae novam rem pariat. Iam a priore statu mota videatur, eademque et immota et mota esset, quod veri nulla potest ratione. Sane divinus ille Amor ex aliquo semper eertur inaliquid,quod si quamanatex aliocogitetur Amor,aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio. Sin vero ut vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur, velut a patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur, quod ex Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui quidem divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa donantur.Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id innobis oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut, quemadmodum orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus, articus sinister, quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio ut, eciturque et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quam-quam immoti semper poli sint, qui tamen dexter erat sinister ecitur,non caeli parte, sed spectatoris corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad morbos animorum curandos, ille loquntur V; locuntur N pariat] percipiat V sint] sunt  ac. V Utrumque … est] Symp.  NV  ; Symp. N medicus … mortalium] Symp. N V accedit amor. Ita ad aegrum se conert, ut agitationem ac motum, nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur. Nam cum gemini AMORES, geminaeque sint Veneres, sicut Platoni placet, uterquesi processerit, urorenoscorripit.Sedalterperturbationum,morborum,malorum  omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elar-gitur.HincMenonillePlatonicusait, mortals non nisi divino gurore correptos bonos eri. Quae quidem sententia oraculo consentit, quo praedicatum est, caeli regnum vim pati atque a violentis mortalibus rapi. Utenim malus furor in era humanam sortem rapit mentem, ita divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum usque correptam men-tem vehit.  HIC ILLE RAPTVS DIVINVS EST QVEM SVPERIOR FABVLA IN PHYRGIO PVERO COGITARI VOLEVAT QVEM IN CÆLVM AD DIVINAS DAPES NON SVO CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTUM PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT NON NISI AB AMATORE – VT HOMINVM AD DIVINA RAPIENDORUM POTESTAS NON NISI IN DIVINVM ET AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum tres furors ostendisset: Musarum, Bacchi, Apollinis, quartum etiam Veneris adiecitomnium maximum, sacratissimum, divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisciquid prohibet, a libera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non mutata usque iudicatur, quod quae aeterna voluntate in tempore se acturam statuit, eastatuto tempore fecit. Quare tantum abest ut mutata dicenda sit, quod in tempore quicquamegerit, ut mutatautique dicenda esset, si quod constituit, in tempore non egisset. Adde quod non ponimus spiritum illic esse, ubi prius non uerit, sed alia ratione esse quam uerit. Atque ita ad nos in tempore dicimus procisciillum cum divino aliquot coniungitur munere, quo prius nobis non coniungebatur. Callistoetenim, et amanti deo miscetur prius, et deinde ab eodem in caelum rapta est. Quibus quidem in rebus, non divinum AMOREM sed illam mutatam esse voluerunt, cumprius divina AMICITIA ac deinceps etiam caeli sede a divino AMORE donata est nactaque. Spiritus munus est quippe quem non aquis mergi sed superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone teste, extinguere non possunt charitatem, quae una more olei virginum prudentum obrui in undas non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos sanctus [amor  in marg. V  animus] animis  ac. V  Quare] quarum  ac. V esse] etiam  V esse] esset  V etenim  om.  V  Salamone  N V cum … placet] Symp. N N V Menon … eri] Men. N N V puero]  asteriscus N Nam … divinissimum] Ion  N V  ; Phaedr. Ion  N caeli … rapi] Mt. Aquae … charitatem] Cant.] ille AMOR inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos re ormidant ventos, nulla malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et prius Homerus et postea Maro posteris prodiderunt. Arctos Oceani metuentes aequore tingi, quod hii, quos divinus AMOR corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint, mergi ullis tempestatibus non possint. Iam verode AMORIS processibus quaesitum saepe est, duonesint, anunus. Alii duos aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae esse non debeat. Aliiunum dumtaxatessecontendunt,quia duo sunt ad aliquid in spiritu:alterum re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus, nihil erum constituat oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio rationis. Nos medium malentes, modo quodam unum, modo alio duos processus esse volumus, omnis enim progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus e Cretensi coepit carcere, Calcidicaque levis tandem super adstitit arce. Aquam etiam, quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel ex alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis, plures esse dicendumest. Ita erme et AMORIS divini processus. Si ontem unde fluit adspicias, unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse principiumostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus et HUMANUM genus, id circo duosesse progressus asseverandum est. In onte enim si quid est quod sit ad aliquid in processu spiritus, unum dum taxatest. In unibus vero non unum, sed duo reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum, alterum in hominibus temporarium residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit, qui etiam Aristotele teste, erram et ante eam Chaos, hoc est vacuum,  ut idem interpretatur quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse, ut etiam consensit interpresAverroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem AMOREM constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii melius, rudi mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM itaqueis vates aeternum essececinit, quem temporarium quoque universa ecit antiquitas,cum Iovem tra-xisse nxerunt ad Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per divinos amores, per amatas Deo puellas, et (si ss esset ii  N re ponimus] reponimus  V  onte  V spiritum  V concedunt  V  Almenae  N V Arctos … tingi] Virg.  N V omnis … est] Phy.;. Phy; .Phy. N N V Aristotele … Chaos] . Phy.  N N V Arctos … tingi] Geo. .Calcidicaque … arce] Aen. .dicere) per Iovis adulteria intellexere, nisi AMORIS divini adventum in homines, cum ex innumerabili pene mortalium turba ad interitum, adineros, ad miseriam properante, quidam seliguntur Deo cari, quibus et verum agnoscere, pedem retrahere, caelum contempta terra conscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone Divino AMORI, quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne enim Diis AMICVM sanctum, diis vero NON AMICVM PROPHANVM arbitrabatur. Quicquid itaque spei, quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest, exmunere deorum esse voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit non sucere mortales. Id quoque vestigatione dignum putavere, ancum AMORIS Divini muneribus, quae donantur hominibus, ipse etiam Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis spiritus una cum muneribus possideatur. Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod prius adduximus, commemoravit, antiquissimum deorum esse AMOREM ut spiritum ostenderet Deum esse maximum, turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem. Antiquissimum vero et primum intelligimus non modo qua deos alios anteit, verum etiam qua divina in nobis antecedit dona. Primum namque donorum omnium AMORE facit Aristoteles in Rhetoricis, quare nisi prius mortalibus AMOR detur, nunquam divina munera tribuuntur de iis, inquam, muneribus, quae AMICITIAM nobis conciliant divinam. Deum praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo esse vult, ea dumtaxat nisus ratione, quod simplices incorporeaeque substantiae eo in loco sunt, sicuti in loco esse possunt, ubi actiones exercent. Quodsi id agit AMOR ille divinus in nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti, ex hostibus AMICI eciamur, non potest idem ipse AMOR non esse innobis. Iungimur quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam Deo, quem probetum nosse tum AMARE incipimus. Notitia enim AMORque Dei, quae praecipua a Deo munera generi humano tribuuntur, ut Deo et propius iungamur et iunctissime haereamus eciunt. Atqui sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus cum Deo spiritus evadat, oportet. Fit denique in nobis dato munere ad aliquid, quo non modo dona suscepta, verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quamobrem ecitur, ut AMOR ille, qui deus est, alia quam prius ratione possideatur a nobis. Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum in udit se animo, cum sinui penetralibusque amatae mentis illabi- ut] et V nixus V ille  sl. N suscepimus V ut] et  V prius  in marg.V  autem] etiam  V  .– Dat … reperitur] Eut. N V  ; Eutyphrone N Plato … Amorem] Symp. N N V] tur.Quod si parum id persuaserimus, non potest Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei AMOREM in discipulorum cordibus praedicat diusum per spiritum, inquit, sanctum, qui datus est nobis. Quo quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona, verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienim AMOR est donorum primum, nullo nos donari munere sequitur, nisi prius AMOREM spiritumque suscipiamus. Cum tamen non nullos constet improbos Spiritus divini dona suscepisse, spiritum tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a rismegisto et a Platone in medium aerri consuevere. Deum namque apellitare soliti sunt patrem, verum, bonum. Patrem quidem nominant illamut causam, a qua pro ecti sumus. Verum, ut id quod summum intelligimus. Bonum, ut id quod ut beatisimus adamamus. aria itaque divina nominasunt, tres etiam rationes quibus in nobis est Deus. Quaenim Pater ac causa rerum est, omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt, similitudinem servant eorum, unde sunt, atque hoc pacto in rebus est Deus. Esentia, potestate, praesentia, quemadmodum publica senatus decretal censuerunt. Ego omnia impleo, dicebat oraculum. Quam quidem rem divinarum rerum consultissimus Maro in rusticis carminibus scriptamreliquit. Ab Iove, inquit, principium musae. Iovis omnia plena. Ubi et sententiam et sententiae causam elegantissime posuit scribens, Iovis esse plena omnia, atque ideo ab eo principium musae facere. Qui locus longe altius agit, quam prima carminis ronte videatur, voluit enim Iovis plena esse omnia, quoniam Musae principium, atque ortus a Iove ipso est. Filias enim Iovis Homerus Musas ecit. Musas etiam caelestesque deos una cum rebus omnibus a principio conditos a Deo fuisse constat. Quare id circo docet omnia esse plena Deo, quod Musae rerumque omnium pater est et causa ac principium Deus. Primamque rationem describit, qua Deus rebus inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesit et pateret principium. Didicitex imaeo Deum esse non modo Musae, sed et rerum patrem, ubi insignis illa Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire dicile est, eari autem nulliunquam as est. Quod enim sit Deus, magno tandem negotio coniicimus, quid autem sit nullo studio, nullo labore in terris animadvertimus. rimegisto  illam] illi  N intelligmus  beatissimus] beatissimus V inquit  sl. N ac] et V advertimus V Ab plena] Virg. NV Didicit … est] im.NNV    At esse ubique Deum Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus est, cuius quidem doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel Servius atetur. Altera ratio, qua inest nobis Deus,est cognitionis et mentis, quod quidem divinum munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque participes. Iungitur namque Deo mens dum contemplatur Deum, utque divinas quasdam speculatur imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in contemplante estDeus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamantibus. Illud cognitionis, hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaectui. Quarum quidem rerum illud est interstitium, quod rei speciemaltera, altera non speciem, sed rem ipsam assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis, cumcontra bonumipsum ac malum, non in rerum imaginibus, sed in ipsissintrebus. Quaretertius hic nodus quoiungimurdeo, tanto est superiorepraestantior,quantoaurum, atque homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia qua-dam nos ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathematicae solent, quae aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum cognoscamus, non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor, qui similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et troianus eandem devenirent, ubiarctissimo connubiivinculoiungerentur. Atquehocest quod in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem, cum disciplinarum necessitas similitudini mentem iungat, AMORIS vincula pulchro ipsi devinciant. Adde quod velut Maro AMORIS retinacula ut arctissima esse demonstraret, matrimonii illa et nuptia- vel sed V ii ipsi ac. V atque  N altera  om. NV sint sl. V nodus] modus  ac. V  potitur  V Iarbam] Hyarbam  N V  mathamaticis V denunciant V esse est] Enn. VI lib. cap. et   lib. cap. N N V  hoc artiorem]. Reip.  N NV  speluncam … devenirent] Aen. Rumiugosigni cavit. Idem quoque hicidem quo de agimus Spiritus eecit in AMATORIIS canticis, commercia namque humanarum animarum et inmortalis Dei, quae caritate amoreque conciliantur, non aptiori nomine appellate sunt, quamc onnubii atque nuptiarum. Quam obrem liberis, qui mores canit et castos et divinos, ab Ieronimo, Origene, aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus est, haud alio plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, ecacissimum arbitremur. Est itaque in rebus Deus maximus primo quidem modo sicut causa iniis, quae vel proveniunt vel oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, quirationisest particeps, quadam et specierum similitudine et intelligentiae luce. Et denique in hoc ipso per sanctos caritatis amorisque complexus. Primum quidem naturae opus est, alterum studii, tertium AMICITIAE. Primum dat nobis essentiam, sequens cognitionem, postremum gratiam atque benevolentiam. Deus siquidem in primo et intellectum et mentem praebet homini, in secundo dei species et enigmata, in postremo AMORIS bene ciodatseipsum. Iam itaque constarepalam potest, quaemunera AMORIS ea sint, quae cum exhibentur hominibus, eciunt ut auctor quo-que ipse exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit omnibus,praecipuum tamen inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum muneribus praestatur hominibus, nisi ea AMORIS, gratiae, amicitiaesint. Extat oraculum clarissimum, quo AMORIS hoc divinissimum significatum est munus: “ad eum,” inquit, “veniemus, in quo, et nobis domicilium faciemus. Hoc idem in Platonico Symposio indicat, quod in AMORIS ortu enia Poro miscetur, ut aperte AMORIS vis intelligatur, cuius inaestimabili et bonitate et beneficio et, ut non speciei, non similitudini, sedipsi Deo anima copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O Fortunatos HOMINES, ubi divinus ille flagrat AMOR, ubi suas Deus exercet nuptias, ubi amatae sponsae commiscetur, ubi tanquam in thalamo cubat suo. Quidfasces, quid imperia, quid utiles hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc AMOREM non possident, male omnia atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam colunt deum, parum sese aellureevehunt, caelum que lunae dum taxat aspiciunt, quam terrae naturam sapere volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes acgelidi AMORIS munera acesque non sentiunt. Qui vero contemplantur atque] ac  V costare  V  quoque quo V  inestimabili  V ; inextimabili  N N ac a V Hoc copuletur Symp.  N V ad aciemus Io. ut verum in Mercurii orbem oculos attollunt, unde artium et discipli-narum munera tribui generi humano abulantur. Qui etsi amoris flam-mas nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo iunctus est, nec sua stella a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque semper circum flammeum ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo recta piaque sit, ad amoris ignes acilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii somnia virgamque apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis, nisi ad Veneris se flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in concertatione similitudinum dimicant vel laborant, sed in pace in id ipsum dormiunt laeti atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,” inquit, “dabit mihi pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc se venturum isetiam ut poterat sperabat, geminas qui forte columbas aspiciens, quaetum caelo venere volantes, maternas agnovit aves. In hoc denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest,quiamoremabsquerebusaliissatisesse,res alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum prophetia, non cum miraculis semper datur deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si habeam, unum AMOREM non habeam, nihilomninosum. Quod vero sit donorum primum acitutaliquasempercum donis AMOR detur; si -- prior testo con note – apparato critico – Antonini. Ubi ea de AMORE tractavimus, quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quaead mortals usque proveniunt. Utrum queenim in Symposio disputatum est a Platone, et quod magnus deus amor est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est curatorque mortalium, quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique eorum contempserunt, quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus, non sensilia ratione dimetiuntur. Rati ex aeterna causa res novas absque medio provenire non posse, ne aeterna, stabilis, immotaque res, de ea enim causa praecipueloquuntur, quae rma immota semper est, quasi quae novam rem pariat.Iam a priore statu mota videatur, eademque et immota et mota esset,quod eri nulla potest ratione. Sane divinus ille AMOR ex aliquo semper eertur inaliquid, quod si qua manatex aliocogitetur AMOR, aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio. Sin vero ut vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur, velut a patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur, quod ex Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui quidem divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa donantur. Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id innobis oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut, quem ad modum orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus, articus sinister, quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio et, eciturque et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quamquam immoti semper poli sint, qui tamen dexter erat sinister ecitur,non caeli parte, sed spectatoris corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad morbos animorum curandos, ille accedit amor. Ita ad aegrum se confert, ut agitationem ac motum, nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur. Nam cum geminiAmores,geminaequesintVeneres,sicutPlatoniplacet, uterquesiprocesserit, urorenoscorripit.Sedalterperturbationum, morborum, malorum omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elargitur. Hinc Menon ille Platonicus ait, mortales non nisi divino urore correptos bonos feri. Quae quidem sententia oraculo consentit, quo prae-dicatum est, caeli regnum vim pati atque a violentis mortalibus rapi. Utenim malus uror in ra humanam sortem rapit mentem, ita divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum usque correptam mentem vehit. HIC ILLE RAPTVS DIVINVS EST QVEM SVPERIOR FABVLA IN PHYRGIO PVUERO COGITARI VOLEBAT QVEM IN CÆLVM AD DIVINAS DAPES NON SVO CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTVM PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT NON NISI AB AMATORE VT HOMINVM AD DIVINA RAPIENDORVM POTESTAS NON NISI IN DIVINVM AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum tres furoresostendisset: Musarum, Bacchi, Apollinis,quartumetiam Venerisadiecitomnium maximum, sacratissimum, divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisci quid prohibet, alibera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non mutata usque iudicatur, quod quae aeterna voluntate in tempore se facturam statuit, eastatuto tempore fecit. Quare tantum abest ut mutata dicenda sit, quod intempore quicquamegerit, ut mutat autique dicenda esset, siquod constituit, in tempore non egisset. Adde quod non ponimus spiritum illic esse,ubi prius non uerit, sed alia ratione esse quam uerit. Atque ita ad nos in temporedicimus procisciillumcumdivinoaliquoconiungiturmunere, quopriusnobisnonconiungebatur.Callistoetenim,etamantideomisce-tur prius, et deinde ab eodem in caelum rapta est. Quibus quidem inrebus, non divinum amorem, sed illam mutatam esse voluerunt, cumprius divina amicitia ac deinceps etiam caeli sede a divino amore donata est nactaque. Spiritusmunus est quippe quem nonaquis mergi sed superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone teste, extin-guere non possunt charitatem, quae una more olei virginum prudentumobrui in undas non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos sanc-tus ille Amor inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos reformidant ventos, nulla malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et priusHomerus et postea Maro posteris prodiderunt: “Arctos Oceani metuen-tes aequore tingi, quod hii, quos divinus amor corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint, mergi ullis tempestatibus non possint. Iam vero de AMORIS processibus quaesitumsaepe est, duonesint,anunus.Aliiduos aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae esse non debeat. Aliiunum dumtaxatesse contendunt, qui aduosuntad aliquid in spiritu: alterum re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus, nihil rerum constituat oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio ratio-nis. Nos medium malentes, modo quodam unum, modo alio duos pro-cessus esse volumus, omnis enim progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus e Cretensi coepit carcere, Calcidica que levis tandem super adstitit arce. Aquam etiam, quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel ex alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis, plures esse dicendumest. Ita erme et amoris divini processus. Si ontem unde fluit adspicias,unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse principium ostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus, et huma-numgenus, id circoduosesse progressusasseverandumest. In onteenimsi quid est quodsitad aliquidin processu spiritus, unum dumtaxatest. In nibus vero non unum, sed duo reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum, alterum in hominibus temporarium residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit, qui etiam Aristotele teste, erram et ante eam Chaos, hoc est vacuum, ut idem interpretatur, quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse, ut etiam consensit interpres Averroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem Amorem constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii melius, rudi mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM ita queis vates aeternum essececinit,quemtemporariumquoque universa ecit antiquitas,cum Iovem traxis senxerunt ad Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per divinos amores, per amatas Deo puellas, et si as essetdicere per Iovis adulteria intellexere, nisi AMORIS  divini adventum inhomines, cum ex innumerabili pene mortalium turba ad interitum, adineros, ad miseriam properante, quidam seliguntur Deo cari, quibus et verumagnoscere, pedemretrahere, caelum contemptaterraconscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone Divino Amori, quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne enim Diis AMICUM sanctum, diis vero NON AMICUM PROPHANUM arbitrabatur. Quicquid itaque spei, quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest, exmunere deorum esse voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit non sucere mortales. Id quoque vestigatione dignum putavere, ancum AMORIS Divini muneribus, quaedonantur hominibus, ipseetiam Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis Spiritus una cum muneribus possideatur. Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod prius adduximus, commemoravit, antiquissimum Deorum esse AMOREM, ut Spiritum ostenderet Deum esse maximum, turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem. Antiquissimum vero et primum intelligimus non modoqua deos alios anteit, verum etiam qua divina in nobis antecedit dona.Primum namque donorum omnium AMOREM facit Aristoteles in “Rhetoricis”, quare nisi prius mortalibus amor detur, nunquam divina munera tribuuntur de iis, inquam, muneribus, quae amicitiam nobis conciliantdivinam. Deum praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo esse vult,ea dumtaxat nisus ratione, quod simplices incorporeaeque substantiaeeo in loco sunt, sicuti in loco esse possunt, ubi actiones exercent. Quodsi id agit Amor ille divinus in nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti, ex hostibus amici eciamur, non potest idem ipse Amor non esse innobis. Iungimur quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam Deo, quem probe tum nosse tum amare incipimus; notitiaenim AMORque Dei, quae praecipua a Deo munera generi humano tri-buuntur, ut Deo et propius iungamur et iunctissime haereamus eciunt. Atqui sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus cum Deospiritus evadat, oportet. Fit denique in nobis dato munere ad aliquid,quo non modo dona suscepta, verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quam obrem ecitur, ut AMOR ille, qui Deus est, alia quam priusratione possideatur a nobis. Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum inudit se animo, cum sinui penetralibusque amatae mentis illabitur. Quod si parum id persuaserimus, non potest Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei amorem in discipulorum cordibus praedicat diu-sum “per Spiritum,” inquit, Sanctum, qui datus est nobis. Quo quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona, verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienimA AMORES tdonorumprimum, nullonos donarimunere sequitur, nisiprius AMOREM Spiritumque suscipiamus. Cum tamen nonnullos con-stet improbos Spiritus divini dona suscepisse, Spiritum tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a risme-gisto et a Platone in medium aerri consuevere. Deum namque apelli-tare soliti sunt Patrem, Verum, Bonum. Patrem quidem nominant illamut causam, a qua protecti sumus; Verum, ut id quod summum intelli-gimus; Bonum, ut id quod ut beati simus adamamus. ria itaque divina nominasunt, tres etiam rationes quibus in nobis est Deus; quaenimPaterac causa rerum est, omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt, simili-tudinem servant eorum, unde unt, atque hoc pacto in rebus est Deus:essentia, potestate, praesentia, quemadmodum publica senatus decretacensuerunt. Ego omnia impleo,” dicebat oraculum. Quam quidem rem divinarum rerum consultissimus Maro in rusticis carminibus scriptamreliquit: “Ab Iove,” inquit, “principium Musae; Iovis omnia plena”; ubiet sententiam et sententiae causam elegantissime posuit scribens, Iovisesse plena omnia, atque ideo ab eo principium Musae acere. Qui locuslonge altius agit, quam prima carminis fronte videatur, voluit enim Iovis plena esse omnia, quoniam Musae principium, atque ortus a Iove ipsoest. Filias enim Iovis Homerus Musas fecit. Musas etiam caelestesquedeos una cum rebus omnibus a principio conditos a Deo fuisse constat. Quare idcirco docet omnia esse plena Deo, quod Musae rerum-que omnium pater est et causa ac principium Deus. Primamque rationem describit, qua Deus rebus inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesitet pateret principium. Didicitex imaeo Deum essenon modo Musae, sed et rerum patrem, ubi insignis illa Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire dicile est, eari autem nulliunquam as est.” Quod enim sit Deus, magno tandem negotio coniicimus, quid autem sit nullo studio, nullo labore in terris animadvertimus. At esse ubiqueDeum Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus est, cuius quidem doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel Servius atetur. Altera ratio, qua inest nobis Deus, est cognitionis et mentis, quod quidem divinum munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque participes. Iungitur namque Deo mens dumcontemplatur Deum, utque divinas quasdam speculatur imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in contemplante est Deus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamanti-bus. Illud cognitionis, hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaectui. Quarum quidem rerum illud est interstitium, quod rei speciem altera, altera non speciem, sed rem ipsam assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis, cumcontra bonumipsum ac malum, noninrerumimaginibus, sedinipsissintrebus. Quaretertius hic nodus quoiungimur deo, tanto es tsuperiorep raestantior, quantoaurum, atque homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia quadam nos ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathemati-cae solent, quae aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum cognoscamus, non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor, qui similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et Troianus ean-dem devenirent, ubi arctissimo connubiivinculoiungerentur. Atque hoc est quod in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem, cum disciplinarum necessitas similitudini mentem iun-gat, amoris vincula pulchro ipsi devinciant. Adde quod velut Maro amo-ris retinacula ut arctissima esse demonstraret, matrimonii illa et nuptiarum iugo signi cavit. Idem quoque hicidemquodeagimus Spiritus eecit in AMATORIIS canticis, commercia namque humanarum animarum etinmortalis Dei, quae caritate amoreque conciliantur, non aptiori nomineappellatasunt,quamconnubiiatquenuptiarum.Quamobremliberis,qui  AMORES canit et castos et divinos, ab Ieronimo, Origene, aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus est, haud alio plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, ecacissimum arbitremur.Est itaque in rebus Deus maximus primo quidem modo sicut causa iniis, quae vel proveniunt vel oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, qui rationis est particeps,quadamet specierum similitudine et intelligentiae luce. Et denique in hoc ipso per sanctos caritatis amorisque complexus. Primum quidem naturae opus est, alterum studii, tertium AMICITIAE. Primum dat nobis essentiam, sequens cognitionem, postremum gratiamatque benevolentiam. Deus siquidem in primo et intellectum et mentem praebet homini, in secundo dei species et enigmata, in postremo amo-risbeneficiodatse ipsum. Iamitaqueconstarepalampotest, quaemunera AMORES ea sint, quae cum exhibentur hominibus, eciunt ut auctor quo-que ipse exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit omnibus,praecipuum tamen inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum muneribus praestatur hominibus, nisi ea amoris, gratiae, amicitiaesint. Extat oraculum clarissimum, quo amoris hoc divinissimum signi󿬁-catum est munus: “ad eum,” inquit, “veniemus, in quo, et nobis domicilium aciemus.”HocideminPlatonicoSymposioindicat,quodinAmorisortu Penia Poro miscetur, ut aperte Amoris vis intelligatur, cuius inaestimabili et bonitate et benficio et, ut non speciei, non similitudini, sedipsi Deo anima copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O fortunatos HOMINES, ubi divinus ille flagrat Amor, ubi suas Deus exer-cet nuptias, ubi amatae sponsae commiscetur, ubi tanquam in thalamocubat suo! Quid asces, quid imperia, quid utiles hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc Amorem non possident, male omnia atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam colunt deum, parum sese aellureevehunt,caelumquelunaedumtaxataspiciunt,quamerraenatu-ram sapere volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes acgelidi Amoris munera acesque non sentiunt. Qui vero contemplantur  ut verum in Mercurii orbem oculos attollunt, unde artium et discipli-narum munera tribui generi humano fabulantur. Qui etsi amoris flam-mas nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo iunctus est,nec sua stella a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque semper circum flammeum ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo recta piaque sit, ad AMORIS ignes facilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii somnia virgamque apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis, nisi ad Veneris se flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in concertatione similitudinum dimi-  cant vel laborant, sed in pace in id ipsum dormiunt laeti atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,” inquit, “dabit mihi pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc se venturum isetiam (ut poterat) sperabat, “geminas qui orte columbas aspiciens, quaetum caelo venere volantes, maternas agnovit aves.” In hoc denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest, qui AMOREM absquerebusaliissatisesse,res alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum prophetia, non cum miraculis semper datur Deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si habeam, unum Amorem non habeam, nihilomninosum.Quodverositdonorumprimum acitutaliqua semper cum donisAMOR detur. Simplicitertamenexactequedari non dicitur, nisi dum munera tertii sunt generis et divina cum AMICITIA tribuuntur. Egidio Antonini. Antonini. Keywords: Ganimede, amore, amare, amatore, amante, amatum, significatum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Antonini” – The Swimming-Pool Library.

 

 

Antonino (Roma). Filosofo. – marc’aurelio: antonino -- Grice: “Some call him Aurelio, but I call him Antonino, since the first time his thing was published in Latin, his thing was under ‘M. Antonini,’ no clue about the Aurelius!” -- Grice: “I once suggested to Strawson that he should write a dissertation on a comparison of Barberini’s and Xylander’s translation of Marcus Aurelius; you see, he was a Roman who philosophised in Greek; and he was translated to Latin only in the 1550s; and into Italian a century later! Sir Peter responded: “I guess you want me to detect all the misimplicata!’ ‘Misimpiegato,’ I replied!” Solo il presente ci è tolto, dato che solo questo abbiamo.»  (Marco Aurelio, Pensieri) Marco Aurelio Antonino Augusto (in latino: Marcus Aurelius Antoninus Augustus; nelle epigrafi: IMP·CAES·M·AVREL·ANTONINVS·AVG. Meglio conosciuto semplicemente come Marco Aurelio, è stato un imperatore, filosofo e scrittore romano. Su indicazione dell'imperatore Adriano, fu adottato dal futuro suocero e zio acquisito Antonino Pio che lo nominò erede al trono imperiale.  Nato come Marco Annio Catilio Severo divenne Marco Annio Vero, che era il nome di suo padre, al momento del matrimonio con la propria cugina Faustina, figlia d’Antonino, e assunse quindi il nome di Marco Aurelio Cesare, figlio dell'Augusto (Marcus Aurelius Caesar Augusti filius) durante l'impero di Antonino stesso. Antonino e imperatore sino alla sua morte, avvenuta per malattia a Sirmio secondo Tertulliano o presso Vindobona. Mantenne la coreggenza dell'impero assieme a Lucio Vero, suo fratello adottivo nonché suo genero, anch'egli adottato da Antonino Pio. Morto Lucio Vero, associa al trono suo figlio Commodo. È considerato dalla storiografia tradizionale come un sovrano illuminato, il quinto dei cosiddetti "buoni imperatori" menzionati da Edward Gibbon. Il suo regno fu tuttavia funestato da conflitti bellici (guerre partiche e marcomanniche), da carestie e pestilenze. Marco Aurelio è ricordato anche come importante filosofo stoico, autore dei Colloqui con sé stesso (Τὰ εἰς ἑαυτόν nell'originale in greco). Alcuni imperatori successivi utilizzarono il nome "Marco Aurelio" per accreditare un inesistente legame familiare con lui. Busto dell'imperatore Marco Aurelio (Musei Capitolini, Roma). Nome originale Imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus Tribunicia potestas 9 anni (da solo), 6 con Lucio Vero, 4 con Commodo e 15 con Antonino Pio per un totale di 34 volte: la prima volta dal 1º dicembre del 147, rinnovata annualmente al 10 dicembre di ogni anno. Cognomina ex virtute Armeniacus nel 164, Medicus e Parthicus Maximus, Germanicus, Sarmaticus. Titoli: Pater Patriae, Salutatio imperatoria10 volte:[1] I (al momento della assunzione del potere imperiale) nel 161, (II) nel 163,[11] (III) 165,[12] (IV) 166, (V) 167,[13] (VI) 171,[14] (VII) 174,[15] (VIII) 175,[16] (IX) 177[17] e (X) 179.[1] Nascita26 aprile 121[18] Roma Morte17 marzo 180 Sirmio o Vindobona (attuale Vienna) PredecessoreAntonino Pio SuccessoreCommodo ConiugeFaustina minore FigliDomizia Faustina Aurelia Tito Aurelio Antonino Tito Elio Aurelio Lucilla Annia Aurelia Galeria Faustina Tito Elio Antonino Fadilla Annia Cornificia Faustina minore Commodo Tito Aurelio Fulvio Antonino Marco Annio Vero Cesare Vibia Aurelia Sabina Adriano Un altro figlio di cui non si conosce il nome nato dopo Tito Elio Antonino GensAnnia DinastiaAntonini PadreMarco Annio Vero adottivo: Antonino Pio MadreDomizia Lucilla Consolato3 volte: nel 140, 145 e 161. Le principali fonti per la vita e il ruolo di Marco Aurelio sono frammentarie e spesso inaffidabili. Il gruppo più importante è rappresentato dalle biografie contenute nella Historia Augusta, composte in epoca successiva al IV secolo.[34] Le biografie derivate principalmente da fonti ormai perdute (come Mario Massimo), ma anche da Eutropio e Aurelio Vittore, ovvero quelle di Marco Aurelio, Adriano, Antonino Pio e Lucio Vero, sono ritenute accurate e affidabili. Di Frontone, maestro di retorica di Marco e di vari funzionari di Antonino Pio, si conservano una serie di manoscritti irregolari, che coprono il periodo che va dal 138 al 166. Nei Colloqui con sé stesso Marco offre una finestra sulla sua vita interiore, ma gran parte dei libri risultano senza riferimenti cronologici e con pochi accenni al mondo esterno. La più attendibile fra le fonti del periodo è Cassio Dione, Egli scrisse una storia di Roma dalla sua fondazione al 229, chiamata Historia romana.[36] Altre fonti letterarie e giuridiche, come gli scritti del medico Galeno, le orazioni di Elio Aristide e le costituzioni imperiali dello stesso Marco Aurelio forniscono ulteriori informazioni sul contesto storico e sociale in cui visse l'imperatore. Epigrafi e monete possono integrarle, così come i numerosi reperti archeologici. La sua famiglia e di origine romana, ma stabilita da tempo a Ucubi (Colonia Claritas Iulia Ucubi), una piccola cittadina. Essa salì alla ribalta alla fine del I secolo, quando il suo bisnonno, Marco Annio Vero, fu senatore e forse pretore. Il nonno, anch'egli di nome Marco Annio Vero, fu elevato al rango di patrizio. Il terzo Marco Annio Vero, cioè suo padre, sposa Domizia Lucilla. Lucilla maggiore, la di lei nonna materna, eredita una grande fortuna, tra cui una fabbrica di mattoni (figlina) a Roma, attività alquanto redditizia in un'epoca in cui la città era interessata da una notevole espansione edilizia. La famiglia della madre e di rango consolare, mentre quella del padre vanta addirittura una discendenza da Numa Pompilio. Busto di Marco Aurelio giovane uomo, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, collezione Farnese. Il busto (fino al collo) è un rifacimento moderno. Nacque da Vero e Lucilla il sesto giorno prima delle calende di maggio, l'anno del secondo consolato di suo nonno Marco Annio Vero, corrispondente all'anno 874 dalla fondazione di Roma. La sorella, Annia Cornificia Faustina, nacque probabilmente nel 122 o nel 123. Il padre Annio Vero muore giovane, durante la sua pretura, quando Marco ha solo tre anni. Anche se difficilmente può averlo conosciuto, scrisse nelle sue Meditazioni che ha imparato modestia e virilità dal ricordo di suo padre e dalla sua reputazione postuma. Lucilla non si risposa più. La madre di Marco, come da usanza della nobilitas, trascorse poco tempo col figlio, affidandolo alle cure delle domestiche. Ciononostante, Marco accredita a sua madre l'insegnamento della pietà religiosa, la semplicità nella dieta e come evitare le vie dei ricchi. Nelle sue lettere Marco fa frequente e affettuoso riferimento alla madre, manifestandole la sua gratitudine, nonostante mia madre fosse condannata a morire giovane, trascorse i suoi ultimi anni di vita con me. Dopo la morte del padre, anda a stare dal nonno paterno Marco Annio Vero. Ma anche Lucio Catilio Severo, descritto come il bisnonno materno di Marco (probabilmente il patrigno o padre adottivo di Lucilla maggiore), partecipa alla sua istruzione. Crebbe nella casa dei suoi genitori, sul Celio, dove era nato, in un quartiere che avrebbe affettuosamente ricordato come il mio Celio. E una zona esclusiva, con pochi edifici pubblici e molte domus nobiliari fra cui il palazzo del nonno, adiacente al Laterano, dove Marco avrebbe trascorso gran parte della sua infanzia. Marco era riconoscente al nonno per avergli insegnato a tener lontano il brutto carattere, ma era anche grato agli eventi che gli evitarono di vivere nella stessa casa con la concubina presa dal nonno dopo la morte della moglie, Rupilia Faustina. Evidentemente questa donna o qualcuno del suo seguito potevano costituire una tentazione per Marco. La sua istruzione avvenne in casa, in linea con le tendenze aristocratiche del tempo. Uno dei suoi maestri, Diogneto, si dimostrò particolarmente influente, introducendo Marco a una visione filosofica della vita e insegnandogli l'uso della ragione. Per volere di Diogneto, prese a praticare le abitudini proprie dei filosofi e a utilizzarne l'abbigliamento, come il ruvido mantello greco. Altri tutores, Trosio Apro, Tuticio Proculo edAlessandro di Cotieno, descritto come un importante letterato (il principale studioso omerico del suo tempo), continuarono a occuparsi della sua istruzione. Deve ad Alessandro la sua formazione nello stile letterario, rilevabile in molti passi dei Colloqui con sé stesso. Adriano, convalescente nella sua villa di Tivoli dopo aver rischiato di morire per un'emorragia, scelse Lucio Ceionio Commodo (conosciuto poi come Lucio Elio Cesare) come suo successore, adottandolo contro la volontà delle persone a lui vicine. Lucio però si ammalò e morì, costringendo il princeps Adriano a indicare un nuovo successore, quando la scelta cadde su Aurelio Antonino, il genero di Marco Annio Vero che il giorno successivo, dopo essere stato attentamente esaminato, fu accettato dal Senato e adottato col nome di Tito Elio Cesare Antonino. A sua volta, come da disposizioni dello stesso princeps, Antonino adotta Marco, allora diciassettenne, e il giovane Lucio Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio Vero. Da questo momento Marco muta il suo nome in Marco Elio Aurelio Vero e Lucio in Lucio Elio Aurelio Commodo. Rimase sconcertato quando seppe che Adriano lo aveva adottato come nipote. Solo con riluttanza passò dalla casa di sua madre sul Celio a quella privata di Adriano, che si ritiene non fosse ancora la casa di Tiberio, come veniva chiamata la residenza imperiale sul Palatino). Adriano chiese in Senato che Marco fosse esentato dalla legge che richiedeva il venticinquesimo anno compiuto per il candidato alla carica di questore. Il Senato acconsentì e Marco divenne prima questore, ricevette quindi l'imperium proconsulare maius e il consolato. L'adozione facilitò il percorso della sua ascesa sociale: egli sarebbe verosimilmente divenuto prima triumvir monetalis (responsabile delle emissioni monetali imperiali) e in seguito tribunus militum in una legione. Marco probabilmente avrebbe preferito viaggiare e approfondire gli studi. Il suo biografo attesta che il suo carattere rimase inalterato: mostrava ancora lo stesso rispetto per i rapporti come aveva quando era un cittadino comune ed era così parsimonioso e attento dei suoi beni come lo era stato quando viveva in una abitazione privata. La salute di Adriano peggiorò al punto da fargli desiderare la morte, tentando anche il suicidio, impeditogli dal successore Antonino. L'imperatore, gravemente malato, lasciò Roma per la sua residenza estiva, una villa a Baiae, località balneare sulla costa campana, ove morì infine di edema polmonare. La successione di Antonino era ormai stabilita e non presentava appigli per eventuali colpi di mano. Per il suo comportamento, rispettoso dell'ordine senatorio e delle nuove regole, Antonino fu insignito dell'appellativo "Pio". Governo con Antonino Pio (139-161)  L'adozione (Monumento dei Parti, oggi presso il Museo di Efeso di Vienna): Antonino Pio (al centro) con Lucio Vero di sette anni (a destra) e Marco Aurelio di diciassette anni (a sinistra, alle spalle). All'estrema destra, sembra esserci Adriano. Magnifying glass icon mgx2.svgEtà antonina. Subito dopo la morte di Adriano, Antonino pregò la moglie Faustina di accertarsi se Marco fosse disposto a modificare i suoi precedenti accordi matrimoniali. Marco acconsentì a sciogliere la promessa fatta a Ceionia Fabia e a fidanzarsi con Faustina minore, la loro giovane e bella figlia, inizialmente promessa a Lucio. Ricopre il suo primo consolato nel 140, con Antonino come collega. In qualità di erede designato, fu quindi nominato princeps iuventutis, il comandante dell'ordine equestre. Assunse il titolo di Cesare,[69] divenendo Marco Elio Aurelio Vero Cesare, ma in seguito si schermì dal prendere troppo sul serio l'incarico. Su invito del Senato, Marco venne inserito contemporaneamente nei principali collegi sacerdotali, tra i quali figuravano i pontifices, gli augures, i quindecemviri sacris faciundis e i septemviri epulones. Antonino gli chiese di prendere la residenza nella Domus Tiberiana, uno dei palazzi imperiali sul Palatino. Marco avrebbe avuto difficoltà a conciliare la vita di corte con le sue aspirazioni filosofiche, anche se ammirò sempre e profondamente Antonino come un uomo giusto, esempio di condotta integerrima. Marco si convinse che la vita serena a corte doveva essere un obiettivo raggiungibile, dove la vita è possibile, allora è possibile vivere una vita giusta, la vita è possibile in un palazzo, per cui è possibile vivere la vita proprio in un palazzo affermò, trovandolo comunque di difficile attuazione. Nei Colloqui con sé stesso Marco sembrava criticarsi per aver abusato della vita di corte di fronte alla società. Come questore, Marco sembra abbia ricoperto un ruolo amministrativo secondario: i compiti erano la lettura delle lettere imperiali al Senato, quando Antonino era assente, e più in generale quello di essere una sorta di segretario privato del princeps. I suoi compiti come console furono invece più significativi, presiedendo le riunioni che avevano un ruolo importante nelle funzioni amministrative del corpo statale. Si sentiva assorbito dal lavoro d'ufficio e se ne lamentò con il suo tutore Frontone: Sono senza fiato a causa di dover dettare quasi trenta lettere. Egli era stato, nelle parole del suo biografo, preparato per governare lo Stato. Il 1º gennaio 145, Marco venne nominato console per la seconda volta, a soli ventiquattro anni. Una lettera di Frontone esortava Marco a dormire molto in modo che potrai entrare in Senato con un buon colorito e leggere il discorso con una voce forte. Marco si era lamentato di una malattia in una lettera precedente: Per quanto riguarda la mia forza essa è migliorata, sto cominciando a guarire e non vi è alcuna traccia di dolore nel mio petto, ma riguardo l'ulcera sto facendo un trattamento e faccio attenzione a non fare nulla che interferisca con esso. Marco era di salute cagionevole: lo storico romano Cassio Dione, scrivendo dei suoi ultimi anni, lo elogiò per essersi comportato a dovere, nonostante le numerose malattie. Matrimonio con Faustina  Busto di Faustina Minore, Louvre, Parigi. Nell'aprile del 145 Marco sposò la quattordicenne Faustina, come era stato programmato. Secondo il diritto romano, per far sì che il matrimonio potesse aver luogo, fu necessario che Antonino liberasse ufficialmente uno dei due figli dalla sua autorità paterna; in caso contrario Marco, in quanto figlio adottivo di Antonino, avrebbe sposato sua sorella. Poco si sa della cerimonia stessa. Vennero coniate delle monete con le immagini degli sposi e di Antonino, che avrebbe officiato la cerimonia come pontifex maximus. Nelle lettere rimanenti Marco non fa esplicito riferimento al matrimonio, durato trentun anni, e accenna solo raramente a Faustina. Dopo aver indossato la toga virilis nel 136 iniziò probabilmente la sua formazione oratoria. Aveva tre maestri di greco, tra cui Erode Attico, e uno di latino, Marco Cornelio Frontone, che Marco ricorda spesso come suo maestro di stile e di vita nei Colloqui con sé stesso. Frontone e Attico erano gli oratori più stimati dell'epoca, ma divennero suoi precettori solo dopo la sua adozione da parte di Antonino. La preponderanza dei tutores greci indica l'importanza di quella lingua per l'aristocrazia di Roma. Questa era l'età della seconda sofistica, una rinascita della letteratura greca. Sebbene istruito a Roma, Marco userà il greco per scrivere i suoi pensieri più profondi nei Colloqui con sé stesso. Erode era un uomo molto ricco e discusso, forse il più ricco d'Oriente e mal sopportava gli stoici, ma era un abile oratore e sofista; Marco, che sarebbe diventato proprio uno stoico, non lo ricorda affatto nei suoi Colloqui, nonostante si fossero incontrati molte volte nel corso dei decenni successivi. Quinto Giunio Rustico in un disegno riportato nel Crabbes Historical Dictionary. Busto di Erode Attico in marmo, risalente al II secolo d.C. e conservato al Museo del Louvre di Parigi. Frontone godeva di grande reputazione: nel mondo consapevolmente antiquato della letteratura latina era considerato, come oratore, secondo solo a Cicerone, una fama che oggi, in base ai pochi frammenti rimasti, può lasciare meravigliati. Non correva una gran simpatia fra Frontone ed Erode; eppure i due seppero in ultimo far scorrere una vena di reciproca cortesia e gentilezza, grazie anche a Marco. Frontone non divenne insegnante a tempo pieno di Marco e continuò la sua carriera di avvocato. Una causa famosa lo portò in contrasto con Erode, che era il principale accusatore di Tiberio Claudio Demostrato, un notabile ateniese difeso proprio da Frontone. L'esito del processo è ignoto, ma Marco riuscì a far riconciliare i due. All'età di venticinque anni Marco cominciò a disamorarsi degli studi in giurisprudenza, mostrando segnali di un diffuso malessere. Era stanco dei suoi esercizi e di prendere posizione in dibattiti immaginari. In ogni caso, l'istruzione formale di Marco era ormai finita. Aveva mantenuto con i suoi insegnanti buoni rapporti e continuava a seguirli con devozione, anche se la lunga istruzione ebbe negative influenze sulla sua salute.[89] Quando Marco era giovane Frontone lo aveva messo in guardia contro lo studio della filosofia, disapprovando come una deviazione giovanile le sue lezioni con Apollonio di Calcide. Pur se Apollonio potrebbe aver introdotto Marco alla filosofia stoica, sarebbe stato Quinto Giunio Rustico, il vero successore di Seneca, ad aver esercitato la maggior influenza sul ragazzo. Marco s'ispirò anche ad Epitteto di Ierapoli, le cui letture fu proprio Rustico a suggerire. Nascite e morti nella famiglia. Il 30 novembre 147 Faustina diede alla luce una bambina di nome Domizia Faustina Aurelia. Era solo la prima di almeno quattordici figli (tra cui due coppie di gemelli) che Faustina avrebbe partorito nei successivi ventitré anni.[92] Il giorno successivo, 1º dicembre, Antonino Pio attribuì a Marco il potere tribunizio, mentre l'imperium, cioè l'autorità sugli eserciti e sulle province imperiali, potrebbe essergli già stato conferito. Il potere tribunizio conferiva a Marco il diritto di proporre un provvedimento con prelazione sul Senato e sullo stesso Antonino. Questi poteri gli furono rinnovati, insieme ad Antonino, il 10 dicembre.La prima menzione di Domizia nelle lettere di Marco ne rivela la salute malferma.[94] Lui e Faustina furono molto occupati nella cura della bambina, che sarebbe morta poi nel 151.[92][95][96]  Nel 149 nacquero a Faustina due gemelli, celebrati da una moneta con cornucopie incrociate sotto i busti dei due bambini e la scritta "felicità dei tempi" (temporum felicitas). Essi però non sopravvissero a lungo. Tito Aurelio Antonino e T. Elio Aurelio, questi i nomi ricavati dagli epitaffi, morirono molto presto (entro la fine del 149) e furono sepolti nel mausoleo di Adriano. Lo stesso Marco scrisse: Uno prega: «che io non debba perdere mio figlio!»; ma tu devi pregare: «che io non tema di perderlo! Marco Aurelio: aureo FAUSTINA MINOR RIC III 682-808351FAVSTINA AVGVSTA, busto con drappeggioFECVNDITA-TI AVGVSTAE, la Fecunditas (fertilità) seduta, con un bambino sulle ginocchia e altri due in piedi AV (7,37 g); 161 circa Il 7 marzo del 150 nacque una bambina, Annia Aurelia Galeria Lucilla, cui seguì Annia Aurelia Galeria Faustina, che sembra sia nata non più tardi del 153 (un altro figlio, Tito Elio Antonino, viene citato dalle fonti nel 152). Una moneta celebra la fertilità dell'Augusta (FECVNDITAS), raffigurando due bambine e un bambino (Lucilla, Faustina e Antonino, appunto). Il maschio non sopravvisse a lungo, considerando che sulle monete del 156 erano raffigurate solo le due femmine. Egli potrebbe essere morto nel 152, lo stesso anno in cui mancò la sorella di Marco, Cornificia.[92][96]  Un settimo figlio nacque e morì poco dopo tra la fine del 157 e gli inizi del 158, come risulta da una lettera di Marco, datata 28 marzo del 158. Nel 159 e 160 Faustina diede alla luce altre due figlie: Fadilla e Cornificia, che portavano i nomi delle defunte sorelle di Faustina e di Marco.[99] Altri figli nacquero in seguito, oltre a Commodo e al gemello di questi, Fulvio Antonino. Si trattava di Marco Annio Vero Cesare, Vibia Aurelia Sabina e Adriano, che morì anche lui giovanissimo. Lucio divenne questore all'età di ventitré anni, due anni prima dell'età legale (Marco aveva ricoperto lo stesso incarico a soli diciassette anni).[63] Nel 154 ottenne il consolato all'età di venticinque, sette anni prima dell'età legale. Lucio non aveva altri titoli onorifici, tranne quello di figlio dell'Augusto. Aveva una personalità molto diversa da Marco: amava l'attività sportiva di ogni genere, in particolare la caccia e la lotta, e aveva evidente piacere ad assistere ai giochi circensi e alle lotte dei gladiatori. Non si sposò fino al 164. Antonino Pio non condivideva i suoi stessi interessi: desiderava mantenere Lucio in famiglia, ma non era sicuro di potergli dare gloria e potere. Come si nota dalle statue di questo periodo, Marco cominciò a portare la barba (oltre ai tipici capelli arricciati dell'età antonina), proseguendo la moda iniziata da Adriano,[102] seguita da Antonino e che durò a lungo, sostituendo il tradizionale aspetto dell'uomo romano, completamente sbarbato. Nel 156 Antonino Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute, seppure avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il ruolo di Marco andò via via crescendo, in particolare quando il prefetto del pretorio Gavio Massimo, che per quasi vent'anni era risultato di fondamentale importanza con i suoi consigli su come governare, morì tra il 156 e il 157. Il suo successore, Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo stesso peso politico presso il princeps e poi non durò a lungo.[104] Nel 161 Marco e Lucio furono designati consoli insieme, forse perché il padre adottivo sentiva avvicinarsi la fine che infatti giunse nei primi mesi dello stesso anno. Secondo i racconti della Historia Augusta l'imperatore, che si trovava nella sua tenuta di Lorium, due giorni prima di morire aveva fatto indigestione, vomitò e fu colto da febbre. Aggravatosi il giorno successivo, il 7 marzo 161, convocò il consiglio imperiale (compresi i prefetti del pretorio Furio Vittorino e Sesto Cornelio Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco, ordinando che la statua d'oro della Fortuna, che era nella camera da letto degli imperatori, fosse portata da Marco. Diede quindi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità», poi si girò, come per andare a dormire, e morì. Dopo la morte di Antonino Pio, Marco Aurelio era di fatto unico princeps dell'Impero. Il Senato gli avrebbe presto concesso il titolo di Augusto e di imperator, oltre a quello di Pontifex Maximus, sacerdote a capo dei culti ufficiali della religione romana. Sembra che Marco dimostrasse, almeno inizialmente, tutta la sua riluttanza a farsi carico del potere imperiale, poiché il suo biografo scrive che fu "costretto dal Senato ad assumere la direzione della Res publica dopo la morte di Pio". Egli deve aver avuto una vera e propria paura del potere imperiale (horror imperii), considerando la sua predilezione per la vita filosofica, ma sapeva, da stoico qual era, quello che doveva fare e come farlo. Anche se nei Colloqui con sé stesso non sembra mostrare affetto personale per Adriano, Marco lo rispettò molto e presumibilmente ritenne suo dovere metterne in atto i piani di successione. E così, anche se il Senato voleva confermare solo lui, egli rifiutò di entrare in carica senza che Lucio ricevesse gli stessi onori: alla fine il Senato fu costretto ad accettare e insignì Lucio Vero del titolo di Augustus. Marco divenne, nella titolatura ufficiale, Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto mentre Lucio, assumendo il nome di famiglia di Marco, Vero, e rinunciando al suo cognomen di Commodo, divenne Imperatore Cesare Lucio Aurelio Vero Augusto. Per la prima volta Roma veniva governata da due imperatori contemporaneamente.[109]  Fin dalla sua ascesa al principato, Marco ottenne dal Senato che Lucio Vero gli fosse associato su un piano di parità (diarchia),[62][69] con gli stessi titoli, ad eccezione del pontificato massimo che non si poteva condividere. La formula era innovativa: per la prima volta alla testa dell'impero vi era una collegialità e una parità totale tra i due principes. In teoria i due fratelli ebbero gli stessi poteri, in realtà Marco conservò una preminenza che Vero mai contestò. Le ragioni pratiche di questa collegialità, voluta da Adriano forse per onorare la memoria di Lucio Elio, adottandone il figlio, e al tempo stesso lasciare l'impero a Marco Aurelio di cui aveva capito le grandi qualità, non sono completamente chiare. A dispetto della loro uguaglianza nominale, Marco ebbe maggior auctoritas di Lucio Vero. Fu console una volta di più, avendo condiviso la carica già con Antonino Pio, e fu il solo a divenire Pontifex Maximus. E questo fu chiaro a tutti. L'imperatore più anziano deteneva un comando superiore al fratello più giovane: Vero obbedì a Marco... come il tenente obbedisce a un proconsole o un governatore obbedisce all'imperatore. Subito dopo la conferma del Senato, gli imperatori procedettero alla cerimonia di insediamento presso i Castra Praetoria, l'accampamento della guardia pretoriana. Lucio affrontò le truppe schierate, che acclamarono la coppia di imperatores. Poi, come ogni nuovo imperatore, da Claudio in poi, Lucio promise alle truppe un donativo speciale, che fu il doppio di quelli passati: 20.000 sesterzi (5.000 denari) pro capite ai pretoriani, e in proporzione agli altri militari dell'esercito. In cambio della donazione, pari a diversi anni di stipendium, le truppe giurarono fedeltà ai due imperatori. La cerimonia non del tutto necessaria, considerando che l'ascesa di Marco era stata pacifica e incontrastata, costituì comunque una valida assicurazione contro possibili rivolte da parte dei militari. In seguito a questi eventi sembra che la moneta d'argento, il denario, cominciò un lento processo di svalutazione, che portò sia alla riduzione del suo peso che del suo titolo (% di argento presente nella lega), che passò dall'89% dell'epoca di Traiano al 79%. Il funerale di Antonino fu celebrato in modo che lo spirito potesse ascendere agli dèi, come era tradizione. Il corpo venne posto su una pira. Lucio e Marco divinizzarono il padre adottivo attraverso un sacerdozio preposto al suo culto, con il consenso del Senato. Secondo le sue ultime volontà, il patrimonio di Antonino non passò direttamente a Marco, ma a Faustina, che in quel momento era incinta di tre mesi. Durante la gravidanza sognò di dare vita a due serpenti, uno più agguerrito rispetto all'altro. A Lanuvium nacquero infatti due gemelli: Tito Aurelio Fulvio Antonino e Commodo, che poi sarebbe succeduto al padre come imperatore. A parte il fatto che i gemelli erano nati lo stesso giorno di Caligola, i presagi sembra fossero favorevoli, e gli astrologi trassero auspici positivi per i due neonati. Le nascite furono celebrate sulla monetazione imperiale. Statua equestre di Marco Aurelio (Equus Marci Aurelii Antonini), in bronzo, situata al Campidoglio (copia moderna non fedele dell'originale che si trova ai Musei capitolini) Subito dopo l'adozione, Marco promise come sposa a Lucio la figlia undicenne, Lucilla, nonostante fosse formalmente suo zio. Alle celebrazioni dell'evento, furono donate delle somme per i bambini poveri, come aveva fatto in precedenza Antonino Pio quando volle commemorare la moglie scomparsa. I sovrani divennero popolari tra la gente di Roma. Gli imperatori concessero piena libertà di parola, come dimostra il fatto che un noto commediografo, un certo Marullus, poté criticarli senza subire ritorsioni. In ogni altro momento, sotto qualsiasi altro imperatore, sarebbe stato giustiziato. Ma era un periodo di pace e di clemenza e il biografo riporta che Nessuno rimpiangeva i modi miti di Pio. Marco Aurelio sostituì vari funzionari dell'impero: Sesto Cecilio Crescenzio Volusiano, responsabile della corrispondenza imperiale, con Tito Vario Clemente, un provinciale, originario del Norico, che aveva prestato servizio militare nella guerra in Mauretania e in seguito aveva servito come Procurator Augusti in cinque differenti province. Costituiva l'uomo adatto per affrontare un periodo di emergenza militare. Lucio Volusio Meciano, che era stato uno degli insegnanti di Marco Aurelio, era governatore della prefettura d'Egitto. Marco lo nominò senatore, poi prefetto della tesoreria (Praefectus aerarii Saturni) e poco dopo ottenne anche il consolato. Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, padre dei futuri consoli di età severiana Gaio Aufidio Vittorino e Marco Aufidio Frontone, venne nominato governatore della Germania superiore. Non appena la notizia dell'ascesa imperiale dei suoi allievi lo raggiunse, Frontone lasciò la sua casa di Cirta e il 28 marzo rientrò nella sua residenza romana. Inviò una nota al liberto imperiale Charilas, chiedendo di potersi mettere in contatto con gli imperatori poiché, disse in seguito, non aveva osato scrivere direttamente agli imperatori. L'insegnante si dimostrò immensamente orgoglioso dei suoi allievi. Egli, ripensando al discorso tenuto per l'ascesa al consolato del 143, elogiò Marco con queste parole: C'era allora una straordinaria capacità naturale in te, perfezionata ora in eccellenza, il grano che cresceva è ora un raccolto maturo. Lucio era invece meno stimato dallo stesso precettore, i suoi interessi erano di livello inferiore. Annia Lucilla, figlia di Marco e moglie di Lucio Vero Il primo periodo di regno procedette senza intoppi, così che Marco Aurelio poté dedicarsi alla filosofia e alla ricerca dell'affetto popolare. Ben presto, però, nuove preoccupazioni avrebbero significato la fine della Felicitas temporum, che il conio del 161 aveva con disinvoltura proclamato. Nell'autunno del 161, il Tevere esondò dalle sue sponde, devastando alcune comunità italiche e gran parte di Roma. Annegarono molti animali, lasciando la città in preda alla carestia. «Marco e Lucio affrontarono personalmente questi disastri» e le comunità italiche colpite dalla carestia furono aiutate, permettendo loro di rifornirsi del grano della capitale. In altri tempi di carestia, gli imperatori avevano tenuto le comunità italiche fuori dai granai romani. Gli insegnamenti di Frontone continuarono nei primi anni di regno di Marco. Frontone riteneva che, visto il ruolo ricoperto da Marco, le lezioni fossero più importanti oggi di quanto non fossero mai state prima. Riteneva che Marco desiderasse riacquistare l'eloquenza di una volta, eloquenza per la quale aveva per un certo periodo di tempo perso interesse. Frontone ricordò nuovamente al suo allievo l'antitesi tra il suo ruolo e le sue aspirazioni filosofiche: Supponiamo, Cesare, che tu possa raggiungere la saggezza di Cleante e Zenone, eppure, contro la tua volontà, tu non possa comunque avere la mantella di lana del filosofo.  I primi giorni di regno di Marco furono i più felici della vita di Frontone: il suo allievo era amato dal popolo di Roma, era un ottimo imperatore, uno studente appassionato, e, forse più importante, eloquente come lui voleva. Marco diede prova di grande abilità retorica nel suo discorso al Senato dopo un terremoto avvenuto a Cizico. Aveva trasmesso il dramma del disastro, e il senato era stato intimorito: improvvisamente la mente degli ascoltatori era più violentemente agitata durante il discorso, che la città durante il terremoto". E Frontone ne fu enormemente soddisfatto. Politica interna: l'amministrazione dello stato In politica interna, Marco Aurelio si comportò, come già Augusto, Nerva e Traiano, da princeps senatus, cioè "primo tra i senatori" e non da monarca assoluto, rivelandosi rispettoso delle prerogative del Senato, consentendogli di discutere e di decidere sui principali affari di Stato, come le dichiarazioni di guerra alle popolazioni ostili o le stipule dei trattati, come anche sulle nomine alle magistrature.[131] Avviò anche una politica tendente a valorizzare le altre categorie sociali: ai provinciali fu reso possibile raggiungere le più alte cariche dell'amministrazione statale. Né ricchezza, né illustri antenati influenzarono il giudizio di Marco, ma solo il merito personale. Egli concesse cariche a persone che riconosceva come illustri eruditi e filosofi, senza guardare alla loro condizione di nascita. L'assetto amministrativo introdotto da Augusto quasi centocinquant'anni prima, che fino a quel momento aveva preservato l'Impero anche quando si erano succeduti imperatori dissoluti come Caligola e Nerone, oppure in occasione della guerra civile del 69, era imponente e la sua classe dirigente cominciava ad acquisire piena consapevolezza del proprio potere. Marco istituì l'anagrafe: ogni cittadino romano aveva l'obbligo di registrare i propri figli entro trenta giorni dalla loro nascita; colpì l'usura, regolarizzò le vendite pubbliche e distrusse tutti i libelli diffamatori che circolavano su molte persone.[135] Proibì i processi pubblici prima che fossero raccolte prove certe, garantì ai senatori l'antica immunità dalle condanne capitali, a meno che ci fossero prove certe e una condanna ufficiale. Impiegò il denaro non in splendide architetture, ma in opere di ricostruzione estremamente necessarie, o in migliorie della rete stradale, da cui dipendeva la difesa dell'impero e il progresso del commercio, o in fortezze, accampamenti e città.Egli non amava particolarmente i giochi gladiatorii e gli spettacoli cruenti del circo, ma li indiceva e li frequentava solo se non poteva esimersi; più tardi formò unità militari ausiliarie di gladiatori a supporto delle legioni del nord, ma dovette richiamarli per il malcontento del popolo che, nonostante le economie necessarie a causa della guerra, reclamava il suo divertimento. Non riuscì a realizzare i suoi ideali stoici di eguaglianza e libertà perché l'esigenza di controllare le finanze locali portò alla formazione di una classe burocratica che presto volle arrogarsi diritti e privilegi e che si costituì quale classe chiusa.   Marco Aurelio Pontefice Massimo Trascorse, inoltre, molto tempo del suo regno a difendere le frontiere. Tra le altre leggi proibì la tortura per i cittadini eminenti, prima e dopo la condanna, poi per tutti i cittadini liberi, come era stato in epoca repubblicana. Restò valida per gli schiavi, ma solo se non si trovavano altre prove. Venne comunque proibito di vendere uno schiavo per utilizzarlo nei combattimenti contro le belve. Nei processi da lui presieduti cercò sempre la massima giustizia ed equità per tutti, anche quando doveva emettere una condanna secondo le leggi.[142] Marco e Lucio stabilirono ad esempio la non punibilità di un figlio che avesse ucciso un genitore in un momento di follia, materializzando così un primo concetto di infermità mentale. Come molti imperatori, Marco trascorse la maggior parte del suo tempo ad affrontare questioni di diritto come petizioni e controversie, prendendosi molta cura nella teoria e nella pratica della legislazione. Avvocati di professione lo definirono un «imperatore versato nella legge» e, come sosteneva il grande Emilio Papiniano, «molto prudente e coscienziosamente giusto». Egli mostrò uno spiccato interesse in tre aree del diritto: l'affrancamento degli schiavi, la tutela degli orfani e dei minori, e la scelta dei consiglieri cittadini (decuriones). Rivalutò la moneta da lui svalutata, ma due anni dopo tornò sui suoi passi a causa della grave crisi militare che l'impero stava affrontando a causa delle guerre marcomanniche. E mentre il fratello Lucio era impegnato in Oriente contro i Parti, Marco era impegnato a Roma in questioni familiari. La prozia Vibia Matidia era morta e sul suo testamento pendeva una disputa legale, dato che il suo ingente patrimonio aveva attratto l'attenzione di molte persone. Alcuni dei suoi clientes erano riusciti a farsi includere nel suo testamento attraverso vari codicilli. Tuttavia, le sue volontà non potevano essere riconosciute come valide, poiché in contrasto con la lex Falcidia: Matidia aveva infatti assegnato più di tre quarti del suo patrimonio non alla propria familia ma a gente estranea, fra cui un gran numero di suoi clientes. Marco si trovò così in una posizione imbarazzante, dato che Matidia non aveva mai confermato la validità dei documenti, anche se sul letto di morte alcuni dei sedicenti eredi avevano colto l'opportunità per farli convalidare. Frontone esortò Marco a portare avanti le rivendicazioni della famiglia ma quest'ultimo, studiato attentamente il caso, preferì che fosse il fratello a prendere la decisione finale. Benché a Roma vigessero la tortura e la pena di morte, applicate con facilità soprattutto nei confronti di schiavi e stranieri, la normativa di molti imperatori "illuminati" cercò di ridurre il numero di reati punibili con pene severe, come in passato aveva già fatto Tito. Per Marco anche gli schiavi andavano trattati come persone, seppure subordinate, e non come oggetti, evitando quindi ogni crudeltà e rispettandone la dignità, a differenza dei cristiani che spesso non si pronunciavano a favore della classe servile. Alcuni critici tuttavia temevano che il movimento filosofico-giuridico legato alla politica di affrancamento degli Antonini, se non fosse stato profondamente ancorato al sistema economico romano, basato principalmente sulla schiavitù, avrebbe portato all'abolizione de facto dell'istituto servile entro un secolo, ed avrebbe comportato gravi ripercussioni economiche. Marco mostrò un grande interessamento affinché a ogni schiavo fosse data la possibilità di riguadagnare la propria libertà, qualora il padrone avesse espresso la propria disponibilità a restituirgliela. Si racconta, infatti, che in una causa di manomissione, portata alla sua attenzione dall'amico Aufidio Vittorino, e citata in seguito dai giuristi come un precedente decisivo, egli favorì uno schiavo. Coerente con lo stoicismo, filosofia contraria alla schiavitù, emanò numerose norme favorevoli alla classe servile, estendendo le leggi già promulgate dai suoi predecessori, a partire da Traiano, e ribadendo per esempio il concetto di diritto di asilo per gli schiavi fuggitivi (che potevano essere puniti e uccisi in ogni modo dal padrone) garantendo loro l'immunità finché si trovassero presso qualsiasi tempio o qualsiasi statua dell'imperatore. Sul letto di morte, Antonino Pio aveva espresso la sua collera nei confronti di alcuni re clienti, che il Birley interpreta fossero quelli posti lungo i confini orientali. Il cambio al vertice dell'Impero romano sembra infatti abbia incoraggiato Vologese IV di Partia ad aggredire, nella seconda metà del 161, il Regno d'Armenia, alleato dell'Impero romano, nominando un re fantoccio a lui gradito, Pacoro III, un arsacide come lui. L'Impero dei Parti, sconfitto e parzialmente sottomesso da Traiano quasi cinquant'anni prima (114-116), era così tornato a rinnovare i suoi attacchi alle province orientali romane dagli antichi territori dell'Impero persiano.[154][156]  Il governatore della Cappadocia, Marco Sedazio Severiano, convinto che avrebbe potuto sconfiggere i Parti facilmente, condusse una delle sue legioni in Armenia, ma a Elegia fu sconfitto e preferì suicidarsi, mentre l'intera legione veniva completamente distrutta. E mentre tutto ciò accadeva in Oriente, nuove minacce si profilavano lungo le frontiere settentrionali della Britannia e del limes germanico-retico, dove i Catti dei monti Taunus erano penetrati negli Agri Decumates. Sembra che Marco non fosse pronto ad affrontare simili problematiche poiché, come ricorda il suo biografo, non aveva potuto maturare un'adeguata esperienza militare, avendo trascorso l'intero periodo del regno di Antonino Pio in Italia e non nelle province, al contrario dei suoi predecessori, come Traiano o Adriano. Scena di guerra tra Romani e Parti, sul Monumento dei Parti a Efeso, celebrativo delle vittorie di Lucio Vero e Marco Aurelio contro Vologese IV. Poco dopo giunse la notizia che anche l'esercito del governatore provinciale della Siria era stato sconfitto dai Parti e che si stava ritirando disordinatamente. Era quindi necessario intervenire con grande rapidità, anche nella scelta dei migliori ufficiali da inviare lungo quel settore dell'Impero così strategicamente importante. Marco pose a capo della spedizione (expeditio parthica) il fratello Lucio perché, come suggerisce Cassio Dione, era robusto e più giovane del fratello Marco, più adatto all'attività militare. Birley suggerisce che Marco volesse spingere Lucio ad abbandonare la vita dissoluta che conduceva e a capire i suoi doveri. In ogni caso, il Senato diede il suo assenso, e nell'estate del 162 Lucio partì, lasciando Marco Aurelio a Roma, perché la città ha chiesto la presenza di un imperatore. Era però necessario affiancare a Lucio un adeguato staff militare (comitatus), ampio e ricco di esperienza, e che comprendesse anche uno dei due prefetti del pretorio: il prescelto fu Tito Furio Vittorino. I rinforzi vennero inviati da numerose province imperiali fino alla frontiera partica. Frattanto Marco si ritirò per quattro giorni a Alsium, una nota località turistica sulle coste dell'Etruria, ma le numerose preoccupazioni gli impedirono di rilassarsi. Egli scrisse allora all'amico Frontone, dicendogli che avrebbe evitato di descrivergli nei particolari quello che stava facendo a Alsium, perché sapeva che sarebbe stato rimproverato. Frontone rispose ironicamente e lo incoraggiò a riposare, prendendo esempio dai suoi predecessori: Antonino era stato un appassionato di palaestra, di pesca e di teatro, Marco trascorreva invece gran parte delle sue notti insonni a risolvere questioni giudiziarie. Dai loro scambi epistolari sappiamo che Marco non riuscì a mettere in pratica i consigli di Frontone poiché ho doveri che incombono su di me che difficilmente possono essere delegati e rimandati, adducendo la sua devozione al dovere. Conclude informandosi della salute dell'amico e salutandolo addio mio ottimo maestro, uomo dal cuore buono. Frontone rispose qualche tempo dopo, inviando all'amico una selezione di letture e, per rimediare al suo disagio per lo svolgimento della guerra contro i Parti, una lunga e meditata lettera, piena di riferimenti storici, indicata, nelle edizioni moderne sulle opere di Frontone, De bello Parthico (Sulla guerra partica). Frontone scrive che, anche se in passato Roma aveva subito pesanti sconfitte, alla fine i Romani avevano sempre prevalso sui loro nemici: Sempre e ovunque Marte ha cambiato le nostre difficoltà in successi e i nostri terrori in trionfi.[164]   Il teatro delle campagne militari orientali di Lucio Vero Intanto Lucio, partito dall'Italia e giunto dopo un lungo viaggio in Siria, fece di Antiochia il suo "quartier generale", trascorrendo gli inverni a Laodicea e le estati a Daphne. Durante la guerra, nel periodo autunnale/invernale del 163 o del 164, Lucio andò a Efeso per sposarsi con Lucilla, secondo quanto stabilito da Marco, nonostante circolassero voci sulle sue amanti, in particolare su una certa Panthea, donna di umili origini. Lucilla aveva circa quindici anni e venne accompagnata dalla madre Faustina, insieme a uno zio di Lucio, Marco Vettuleno Civica Barbaro, nominato per l'occasione comes Augusti. Marco che avrebbe voluto accompagnare la figlia fino a Smirne, in realtà non andò oltre Brindisi. Una volta tornato a Roma, inviò istruzioni specifiche ai governatori provinciali affinché non preparassero alcun ricevimento ufficiale. La capitale armena Artaxata, venne presa nel 163 e alla fine di quello stesso anno Lucio assunse il titolo di Armeniacus, pur non avendo mai partecipato direttamente alle operazioni militari, mentre Marco si rifiutò di accettare l'appellativo fino all'anno successivo. Al contrario, quando Lucio venne acclamato imperator, anche Marco accettò la sua seconda salutatio imperatoria. Le armate romane si attestarono stabilmente in Armenia e l'ex console di origine emesana, Gaio Giulio Soemo, venne incoronato re tributario d'Armenia, con l'assenso di Marco. Vide le armate romane entrare vittoriose in Mesopotamia, dove posero sul trono il re vassallo Manno. Avidio Cassio raggiunse le metropoli gemelle della Mesopotamia: Seleucia, sulla riva destra del Tigri, e Ctesifonte su quella sinistra. Entrambe le città vennero occupate e date alle fiamme. Cassio, nonostante la penuria di rifornimenti e i primi effetti della peste contratta a Seleucia, riuscì a riportare indietro e in buon ordine la sua armata vittoriosa. Lucio venne così acclamato Parthicus Maximus, mentre insieme a Marco venne salutato nuovamente imperator, ottenendo la sua seconda acclamazione imperiale. Ancora Avidio Cassio invase il paese dei Medi, al di là del Tigri, permettendo a Lucio di fregiarsi del titolo vittorioso di Medicus, mentre Marco otteneva la IV salutatio imperatoria e il titolo di Parthicus Maximus. I Parti si ritirarono nei loro territori, a oriente della Mesopotamia. Marco sapeva di dover ascrivere il maggior merito della vittoria finale allo staff militare del fratello Lucio. Tra i comandanti romani si distinse Gaio Avidio Cassio, legatus legionis della III Gallica, una delle legioni siriane. Al ritorno dalla campagna, a Lucio venne tributato un trionfo (12 ottobre del 166). La parata risultò insolita perché comprendeva i due imperatori, i loro figli e le figlie nubili, come una grande festa di famiglia. Nell'occasione Marco elevò i due figli, Commodo di cinque anni e Marco Annio Vero di tre al rango di Cesare (il gemello di Commodo, Fulvio Antonino, era morto l'anno precedente).[176]  Scambi commerciali con l'Oriente Magnifying glass icon mgx2.svgRelazioni diplomatiche sino-romane. Proprio durante la guerra partica Marco potrebbe aver favorito l'apertura di nuove vie commerciali con l'Estremo Oriente. Si ricorda, infatti, negli annali del "Celeste impero", un'ambasceria inviata presso l'Imperatore cinese della dinastia Han, Huandi (nel 166), nella quale i Cinesi chiamarono l'imperatore romano col nome di Ngan-touen o Antoun. Ciò sembra confermare che tale ambasceria (forse composta da soli mercanti), sia giunta in Estremo Oriente proprio durante il regno di Marco Aurelio o del suo predecessore, Antonino Pio, in quanto Antoun equivarrebbe in lingua cinese al nome latino della famiglia imperiale degli "Anto[u]n-ini". Statua di Marco Aurelio in uniforme militare (Museo del Louvre, Parigi).  Marcomanni e Sarmati nel 178 Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, venne inviato, dal 162 al 166, a governare la provincia della Germania superiore, ove si trasferì con l'intera famiglia (a parte un figlio che rimase a Roma con i nonni). La situazione lungo la frontiera settentrionale si presentava estremamente difficile. Una postazione lungo gli Agri Decumati era stata distrutta e sembra che molte delle popolazioni dell'Europa centrale e settentrionale fossero in fermento. Regnava, inoltre, molta corruzione tra gli ufficiali romani: Vittorino fu costretto, infatti, a chiedere le dimissioni di un legatus legionis che aveva preso tangenti e numerosi governatori esperti vennero sostituiti da amici e parenti della famiglia imperiale. Le tribù germaniche e altri popoli nomadi avevano iniziato le prime incursioni lungo i confini settentrionali romani, in particolare in Gallia e sul Danubio. Questo nuovo slancio verso occidente era causato dalle pressioni che subivano a loro volta dalle tribù germaniche più orientali e settentrionali. Una prima invasione di Catti nella Germania superiore era stata respinta nel 162. Molto più pericolosa fu l'invasione del 166, quando i Marcomanni della Boemia, clienti dell'impero romano dal 19 (ma ribelli sotto Domiziano, che vi scatenò contro un'offensiva), attraversarono il Danubio, insieme a Longobardi e altre tribù germaniche. Contemporaneamente, i Sarmati Iazigi attaccarono i territori compresi tra il Danubio e il fiume Tibisco. Secondo la Historia Augusta, conclusa la guerra partica, scoppiava così quella contro i Marcomanni, una coalizione di natura militare, composta da una decina di popolazioni germaniche e sarmatiche (dai Marcomanni propriamente detti della Moravia, ai Quadi della Slovacchia, dalle popolazioni vandaliche dell'area carpatica, agli Iazigi della piana del Tibisco, fino ai Buri di stirpe suebica del Banato). Era la naturale conseguenza di una serie di forti agitazioni interne e dei continui flussi migratori che avevano ormai modificato gli equilibri con il vicino Impero romano. Questi popoli erano alla ricerca di nuovi territori dove insediarsi, sia in conseguenza della forte spinta che subivano da altre popolazioni, sia per il continuo aumento demografico della Germania Magna. Erano, inoltre, attratti dalle ricchezze e dalla vita agiata del mondo romano. In quel periodo la frontiera danubiana non poteva contare su buona parte dei suoi effettivi, sia perché molte legioni avevano dovuto destinare consistenti distaccamenti alla guerra partica, sia perché la grave epidemia di peste aveva falcidiato numerosi reparti. Tale epidemia avrebbe causato una catastrofe demografica prolungatasi per oltre un ventennio e paragonabile a quella causata dalla peste nera. Nel 166/167 avvenne il primo scontro lungo il limes pannonicus ad opera di poche bande di predoni longobardi e osii che, grazie al sollecito intervento delle truppe di confine, furono prontamente respinte. La pace stipulata con le limitrofe popolazioni germaniche a nord del Danubio fu gestita direttamente dagli stessi imperatori, Marco e Lucio, ormai diffidenti nei confronti dei barbari aggressori, recatisi pertanto fino alla lontana fortezza legionaria di Carnunto (nel 168).[184]  Al ritorno dalla campagna partica l'esercito portò con sé una terribile pestilenza, in seguito conosciuta come la "peste antonina" o "peste di Galeno", che si diffuse a partire dalle fine del 165 per quasi un ventennio, mietendo milioni di vittime e riducendo drasticamente la popolazione dell'Impero romano. Qualche anno dopo la malattia, una pandemia che oggi si ritiene potesse invece essere vaiolo o morbillo,[185] avrebbe finito per reclamare la vita dei due imperatori stessi. La malattia scoppiò di nuovo, nove anni più tardi, secondo Dione, e causò fino a 2.000 morti al giorno a Roma, infettando fino a un quarto dell'intera popolazione. I decessi totali sono stati stimati in cinque milioni. La colonna di Marco Aurelio o colonna antonina, fatta costruire dal figlio Commodo Dopo che la morte colse Lucio agli inizi del 169 (secondo la Historia Augusta in seguito ad un attacco apoplettico che lo colpì non molto distante da Aquileia,[187] mentre autori moderni sostengono che il decesso, forse causato dalla stessa peste, sopraggiunse mentre era impegnato in nuove manovre militari lungo il limes danubiano), Antonino si trova ad affrontare da solo i barbari ribelli e con decisione, piuttosto che imporre nuove tasse ai provinciali, organizzò una vendita all'asta nel Foro di Traiano degli oggetti preziosi appartenenti al patrimonio imperiale, tra cui coppe d'oro e di cristallo, vasellame regale, vesti di seta, trapunte d'oro appartenuti anche all'augusta moglie, oltre a una raccolta di gemme trovata in un forziere di Adriano. In quell'anno Marco diede alla figlia Lucilla, rimasta vedova di Vero, un nuovo marito, il fedele Claudio Pompeiano, un militare esperto e affidabile, premiato in seguito con il consolato, nel 173. Marco avrebbe voluto associarlo al trono, al posto dello scomparso Lucio Vero, conferendogli perlomeno il titolo di Cesare, ma egli rifiutò sempre la porpora imperiale. Frattanto lungo il fronte settentrionale, i Romani subirono un paio di pesanti sconfitte contro le popolazioni di Quadi e Marcomanni le quali, una volta penetrate lungo la via dell'ambra e attraversate le Alpi, devastarono Opitergium (Oderzo) e assediarono Aquileia, il cuore della Venetia, la principale città romana del nord-est dell'Italia. Questo evento provocò un'enorme impressione: era dai tempi di Mario che una popolazione barbara non assediava dei centri del nord Italia.[192]  Contemporaneamente la popolazione dei Costoboci, proveniente dalla zona dei Carpazi orientali, aveva invaso la Mesia e la Macedonia, spingendosi fino in Grecia, dove riuscì a saccheggiare il santuario di Eleusi. Dopo una lunga lotta, Marco riuscì a respingere gli invasori. Numerosi barbari germanici vennero allora stabiliti nelle regioni di frontiera come la Dacia, le due Pannonie, le due Germanie e la stessa Italia. E sebbene ciò non costituisse una novità, Marco si adoperò per creare sulla riva sinistra del Danubio, tra l'odierna Repubblica Ceca e l'Ungheria, due nuove province di frontiera chiamate Sarmazia e Marcomannia. Quelli che erano stati insediati a Ravenna si ribellarono e riuscirono a impadronirsi della città. Per questo motivo, Marco non portò mai più nessun altro barbaro in Italia, e mise al bando quelli che qui si erano stabili ti in precedenza. Marco fu così costretto a combattere una lunga ed estenuante guerra contro le popolazioni barbariche del Nord, prima respingendole e "ripulendo" i territori della Gallia Cisalpina, del Norico e della Rezia, poi contrattaccando con una massiccia offensiva in territorio germanico e sarmatico, in scontri prolungatisi per diversi anni. L'imperatore, in seguito a questi conflitti, poté fregiarsi dei cognomina Germanicus (172) e Sarmaticus (175), ma contestualmente abbandonò ufficialmente i titoli Armeniaco, Medico e Partico, che non volle più tenere dopo la morte di Lucio Vero, giacché andava a quest'ultimo il merito del loro conseguimento;[195] tuttavia egli, per via dell'impegno profuso lungo il fronte pannonico, non riuscirà più a far ritorno a Roma.  Dione e gli altri biografi raccontano anche alcuni episodi particolari della guerra, come il cosiddetto miracolo della pioggia, rappresentato anche nella scena XVI sulla colonna di Marco Aurelio.[196] I Romani, circondati dai Quadi in territorio nemico, si salvarono a stento da un possibile nuovo disastro. L'evento fu utilizzato dagli apologeti cristiani per sostenere che non sarebbero state le preghiere dell'imperatore a ottenere la pioggia in favore dei soldati romani assetati, ma quelle di alcuni legionari di fede cristiana.[197]  Sempre nel 172-173 scoppiò una violenta rivolta in Egitto, guidata dal sacerdote Isidoro, che arrivò a minacciare la stessa città di Alessandria. L'intervento di Gaio Avidio Cassio e le discordie interne ai rivoltosi portarono alla fine del conflitto entro breve tempo[198].  Rivolta di Cassio (175) Magnifying glass icon mgx2.svgAvidio Cassio § La ribellione. Nel 175, mentre preparava una nuova campagna contro le popolazioni della piana del Tibisco, l'imperatore fu raggiunto dalla notizia che il governatore della Siria, Avidio Cassio, uno dei migliori comandanti militari romani, alla falsa notizia della sua morte, si era autoproclamato imperatore. Secondo quanto ci tramandano sia Cassio Dione che la Historia Augusta, Avidio Cassio accettò la porpora imperiale per volere di Faustina, poiché la stessa credeva che Marco stesse per morire e temeva che l'impero potesse cadere nelle mani di qualcun altro, visto che Commodo era ancora troppo giovane. Cassio venne acclamato imperator dalla Legio III Gallica mentre la gran parte delle province orientali, escluse Cappadocia e Bitinia, si schieravano a fianco dei ribelli.  All'inizio Marco cercò di tenere segreta la notizia dell'usurpazione, ma quando fu costretto a renderla pubblica, di fronte all'agitazione dei soldati si rivolse loro con un discorso (adlocutio) rivelando di voler evitare inutili spargimenti di sangue tra Romani. Ma dopo soli tre mesi, quando la notizia della morte di Marco si rivelò ufficialmente falsa, il Senato romano proclamò Cassio hostis publicus, nemico dello stato e del popolo romano e Avidio fu ucciso dai suoi stessi soldati. La testa dell'usurpatore fu portata a Marco, come testimonianza dell'uccisione, ma l'imperatore, che avrebbe voluto dimostrargli il suo perdono e salvarlo, non esultò, al contrario esclamò: Mi è stata tolta un'occasione di clemenza: la clemenza, infatti, dà soprattutto prestigio all'imperatore romano agli occhi dei popoli. Io però risparmierò i suoi figli, il genero e la moglie, lasciando metà del patrimonio paterno ai figli di Avidio Cassio, e donando una grande quantità di oro, di argento e di gemme alla figlia.[200]  Viaggio in Oriente (175-176) Marco Aurelio: aureo[201] MARCUS AURELIUS RIC III 357-159422M ANTONINVS AVG GERM SARM, testa laureata con corazza e paludamentumTR P XXX IMP VIII COS III, la Felicitas con caduceo e scettro AV (7,33 g); coniato nel 176 Nell'ultimo decennio di regno, mentre si trovava lungo i confini settentrionali imperiali, Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, tornando di rado a Roma. Insieme alla moglie Faustina, al figlio Commodo, al seguito composto dai comites del consilium principis e a un ingente esercito, Marco visitò le province orientali nel 175-176.[202] Partito da Sirmio nel luglio del 175, dopo essere passato per Bisanzio, Nicomedia, Prusias ad Hypium e per Ancyra, giunse a Tarso, sostando in Cilicia dove, secondo Dione, molti si erano schierati dalla parte di Avidio. Poco dopo aver passato la località di Tanya, Faustina morì in circostanze poco chiare in un villaggio di nome Halala, sito in Cappadocia ai piedi dei Monti Tauri. Cassio Dione riporta alcune versioni sulla morte dell'Augusta: una prima ipotizza il suicidio, motivato dall'aver stretto accordi per la successione con Avidio Cassio; una seconda chiama in causa la gotta; una terza vedrebbe Faustina morire di parto dopo un'ennesima gravidanza all'età di quarantacinque anni. Dopo la morte venne divinizzata ufficialmente con degne cerimonie a Roma, per volere del Senato. L'Augusta, che aveva spesso accompagnato il marito in guerra, era stata la prima delle imperatrici romane a essere insignita del titolo di mater castrorum.[204] Halala, il villaggio dove era morta, venne rinominato "Faustinopolis". In suo onore furono istituiti collegi di sacerdotesse e create le puellae Faustinianae, in ricordo dell'istituzione benefica sorta in memoria della madre, la moglie di Antonino Pio, istituzione che si occupava di fanciulle orfane della penisola italica.[204] Le fonti antiche, in contrasto coi Ricordi di Marco Aurelio, spesso accusarono Faustina di dissolutezza e di aver ripetutamente tradito il marito, con marinai e gladiatori, tanto che da una di queste relazioni sarebbe nato Commodo, secondo una diceria riportata dal biografo della Historia Augusta. Dopo questa ennesima disgrazia famigliare, il princeps ripartì per la Siria, forse fermandosi a visitare la città di Antiochia (che si era schierata con Cassio), perdonandone i suoi abitanti, e qui potrebbe avervi svernato, incontrando alcuni personaggi locali come il patriarca Giuda I. Riprese, quindi, il suo viaggio per giungere nell'estate nel 176 in Egitto, dove ricevette una delegazione dei Parti. Nel viaggio di ritorno dall'Oriente, dopo essersi imbarcato per l'Asia Minore, passò per Efeso, poi Smirne (dove incontrò Elio Aristide) e, da ultimo, Atene, dove il filosofo cinico Zenone aveva fondato la scuola stoica, sotto il famoso portico dipinto, dichiarandosi "protettore della filosofia". Istituì quattro cattedre permanenti di studio, finanziandole, una per ogni principale scuola filosofica: platonici, aristotelici, epicurei e stoici.[209] In Grecia prese parte anche ai riti dei misteri eleusini.Durante il tragitto lungo l'Asia Minore e la tappa a Atene si rivolsero a Marco Aurelio e a Commodo anche alcuni padri apologisti cristiani. Decise di associare al trono imperiale il figlio Commodo, l'unico maschio superstite tra i suoi figli (dopo la morte del giovane Marco Vero Cesare e quella di alcuni nipoti), nominandolo Augusto e concedendogli la tribunicia potestas e l'imperium, benché avesse nei confronti del figlio alcune perplessità.[214] Marco celebrò, quindi, il matrimonio di Commodo con Bruzia Crispina. A Roma, si dedicò ad amministrare la giustizia, cercando di riparare a torti e abusi del passato; dispose la celebrazione di giochi circensi, mettendo però un limite di spesa a quelli gladiatorii.  Il 23 dicembre del 176, Marco, che aveva battuto le popolazioni germaniche e sarmatiche a nord del medio corso del Danubio, ottenne per decreto del Senato romano il trionfo insieme al figlio Commodo, da poco nominato Augusto. In suo onore venne eretta una statua equestre, tuttora custodita nel Palazzo dei Conservatori. Offensiva finale in Marcomannia e Sarmatia (177-180)  L'impero romano alla fine del regno di Marco Aurelio, nel 180 L'apparente tregua sottoscritta con le popolazioni germaniche, in particolare Marcomanni, Quadi e Iazigi, durò però solo un paio d'anni, fino al 177. Il 3 agosto del 178 Marco fu infatti costretto a marciare ancora una volta verso la frontiera danubiana, a seguito di una nuova sollevazione dei Marcomanni. Non sarebbe mai più tornato a Roma. Egli fece della fortezza legionaria di Brigetio il suo nuovo quartier generale e da qui condusse l'ultima campagna nella primavera successiva del 179, che aveva come obiettivo quello di occupare stabilmente parte della Germania Magna (Marcomannia) e della Sarmatia.[219] Si racconta infatti che:  «I Quadi essendo poco disposti a sopportare la presenza di forti romani costruiti nel loro territorio tentarono di migrare tutti insieme verso le terre dei Semnoni. Ma Marco Aurelio Antonino che ebbe queste informazioni in anticipo della loro intenzione di partire per altri territori, decise di chiudere loro tutte le vie di fuga, impedendo la loro partenza.»  (Cassio Dione, 72, 20.2.) Dopo una vittoria decisiva nel 178, il piano per annettere la Moravia e la Slovacchia occidentale (Marcomannia), per porre fine una volta per tutte alle incursioni germaniche, sembrava avviato al successo, ma venne abbandonato dopo che Marco Aurelio si ammalò gravemente nel 180, forse anch'egli colpito dalla peste che affliggeva l'impero da anni. La sua salute, da sempre fragile e in costante declino, sembra lo costringesse a fare uso anche di oppio per alleviare il dolore persistente che lo affliggeva da anni allo stomaco, rimedio prescritto dallo stesso Galeno.[221]  Morte (180)  Eugène Delacroix, Ultime parole dell'imperatore Marco Aurelio, una rappresentazione moderna della morte di Marco: l'imperatore, al centro, siede a letto, circondato da amici e dignitari, e stringe il braccio di Commodo (a destra), vestito di rosso, sbarbato e abbigliato in maniera orientaleggiante, con orecchini e una corona, e che appare distante e poco interessato. «Uomo, sei stato cittadino in questa grande città: che ti importa se per cinque anni o per cento? Quel che è secondo le leggi ha per ognuno pari valore. Che c'è di grave allora se dalla città ti espelle non un tiranno o un giudice ingiusto, ma la natura che ti ci aveva introdotto? (...) A stabilire che il dramma è completo infatti è chi allora fu responsabile della composizione, ora del dissolvimento; tu invece non sei responsabile né dell'una né dell'altro. Quindi parti sereno: chi ti congeda è sereno.»  (Marco Aurelio, 12.36.) Marco Aurelio muore nella città-accampamento di Vindobona (Vienna).[19] Secondo invece quanto riferisce Tertulliano, uno storico e apologeta cristiano suo contemporaneo, sarebbe invece deceduto sul fronte sarmatico, non molto distante da Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, nell'attuale Serbia),[20] che fungeva da quartier generale invernale delle sue truppe, in vista dell'ultimo assalto. Il Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere morto a Bononia sul Danubio (che per assonanza ricorda la località di Vindobona), venti miglia a nord di Sirmio. Iniziando a stare male, chiamò Commodo al capezzale e gli chiese per prima cosa di concludere onorevolmente la guerra, affinché non sembrasse che lui avesse "tradito" la Res publica. Il figlio promise che se ne sarebbe fatto carico, ma che gli interessava prima di tutto la salute del padre. Chiese pertanto di poter aspettare pochi giorni prima di partire. Marco, sentendo che i suoi giorni erano alla fine e il dovere compiuto, accettò da stoico una morte onorevole, astenendosi dal mangiare e bere, e aggravando così la malattia per permettergli di morire il più rapidamente possibile. Il sesto giorno, chiamati gli amici e deridendo le cose umane disse loro: perché piangete per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e alla morte comune? Se vi allontanerete da me, vi dico, precedendovi, statemi bene. Mentre anche i soldati si disperavano per lui, alla domanda su a chi affidasse il figlio, rispose ai subordinati: a voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali. Nel settimo giorno si aggravò e ammise brevemente solo il figlio alla sua presenza, ma quasi subito lo mandò via, per non contagiarlo. Uscito Commodo, coprì il capo come se volesse dormire, come il padre Antonino Pio, e quella notte morì.[224] Cassio Dione aggiunge che la morte avvenne "non a causa della malattia per cui stava ancora soffrendo, ma a causa dei medici che, come ho chiaramente sentito, volevano favorire l'ascesa di Commodo", anche se secondo il Birley, "è inutile avanzare ipotesi". Officiato il funerale, venne cremato, e fu immediatamente divinizzato, mentre le sue ceneri furono portate a Roma e deposte nel mausoleo di Adriano, che divenne così il sepolcro di famiglia da Adriano a Commodo e, forse, anche per alcuni imperatori successivi, finché il sacco visigoto della città lo danneggiò gravemente. Le sue campagne vittoriose contro Germani e Sarmati furono commemorate con la costruzione della Colonna Aureliana e di un tempio. Marco Aurelio aveva stabilito che a succedergli fosse il figlio Commodo, che già aveva nominato Cesare nel 166 e poi Augusto (co-imperatore). Questa decisione, che mise di fatto fine alla serie dei cosiddetti "imperatori adottivi", venne fortemente criticata dagli storici successivi, poiché Commodo non solo era estraneo alla politica e all'ambiente militare, ma fu inoltre descritto, già in giovane età, come estremamente egoista e con gravi problemi psichici, appassionato in maniera eccessiva di giochi gladiatorii (a cui lui stesso prendeva parte), passione ereditata dalla madre.  Marco Aurelio riteneva, a torto, che il figlio avrebbe abbandonato quel genere di vita così poco adatto a un princeps, assumendosi le necessarie responsabilità nel governare un Impero come quello romano, ma così non fu. A conclusione del principato di Marco Aurelio, Cassio Dione scrisse un elogio all'imperatore, pur descrivendo il passaggio a Commodo con dolore e rammarico. Marco non ebbe la fortuna che meritava, perché non era fisicamente forte e poiché dovette affrontare, per la durata del suo regno, numerose difficoltà. Proprio per questo motivo lo ammiro maggiormente, in quanto egli, in mezzo a difficoltà insolite e straordinarie, non solo sopravvisse ma salvò l'impero. Solo una cosa lo rese infelice, il fatto che, dopo aver dato l'educazione migliore possibile al figlio, questi deluse le sue aspettative. Questa materia deve essere il nostro prossimo argomento, dato che da quel periodo dei Romani deriva oggi la nostra storia, decaduta da un regno d'oro a uno di ferro e ruggine.»  (Cassio Dione, 72, 36.3-4.) Carattere e pensiero filosofico Magnifying glass icon mgx2.svgColloqui con sé stesso, Pensiero di Marco Aurelio e Letteratura greca alto imperiale.  Statua equestre di Marco Aurelio (Roma, Musei capitolini) Marco Aurelio fu l'ultimo grande esponente dello Stoicismo. Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, come esercizio per il proprio orientamento e auto-miglioramento. Il titolo è stata un'aggiunta postuma, originariamente Marco intitolò l'opera “A se stesso”, ma non si sa se avesse intenzione di renderla pubblica. Il saggio è considerato uno dei capolavori filosofici di tutti i tempi. Sii come il promontorio contro cui si infrangono incessantemente i flutti: resta immobile e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque. «Me sventurato, mi è capitato questo». Niente affatto! Semmai: «Me fortunato, perché anche se mi è capitato questo resisto senza provar dolore, senza farmi spezzare dal presente e senza temere il futuro». Infatti una cosa simile sarebbe potuta accadere a tutti, ma non tutti avrebbero saputo resistere senza cedere al dolore. Allora perché vedere in quello una sfortuna anziché in questo una fortuna?»  (Marco Aurelio, 4.49.) Politica religiosa e atteggiamento nei confronti dei cristiani Magnifying glass icon mgx2.svgPersecuzione dei cristiani sotto Marco Aurelio. Sebbene Marco abbia da sempre seguito la linea indulgente degli imperatori Adriano e Antonino Pio, che continuò nei confronti dei culti ammessi, è elencato tra gli imperatori persecutori dei cristiani. Molti disordini si verificarono sotto il regno di Marco Aurelio, segnato da epidemie, carestie e invasioni e più volte le folle diedero la caccia ai cristiani, ritenuti responsabili di tutto (per aver causato la collera degli dèi, avendoli negati), e i martiri furono numerosi. Marco Aurelio, personalmente, non mostrò esplicito disprezzo per i cristiani, né li considerò un vero pericolo, ma piuttosto dei fanatici.[229][230]  Monetazione imperiale del periodo Magnifying glass icon mgx2.svgMonetazione degli Antonini. Il prototipo di statua equestre è senza alcun dubbio la statua equestre di Marco Aurelio. In precedenza l’opera bronzea si trovava nella piazza del Campidoglio a Roma, prima di essere sostituita da una copia e trasferita nell’adiacente Palazzo dei Conservatori. Historia Augusta, Cassio Dione, Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16.  Tertulliano, 25.  Grant 1996,27.  Testo per esteso dell'epigrafe: Imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus.  Il luogo della morte è incerto tra Sirmio o Vindobona: Tertulliano, 25: (LA) «[...] cum M. Aurelio apud Sirmium rei publicae exempto die sexto decimo Kalendarum Aprilium [...]» «essendo stato Marco Aurelio strappato allo Stato a Sirmio il 17 marzo.»  Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16.14: (LA) «Ita anno imperii octavo decimoque aevi validior Vendobonae interiit, maximo gemitu mortalium omnium» «Il diciottesimo anno del suo governo, tra grandi lamenti, il più forte e più grande di tutti gli uomini morì a Vindobona»  Riportato invece così in Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus, 16.12 (compendio, più tardo, della stessa opera di Vittore, attribuita a lui stesso, ma con molta incertezza): (LA) «Ipse vitae anno quinquagesimo nono apud Bendobonam morbo consumptus est» «Egli stesso, nel cinquantanovesimo anno della sua vita, venne consumato da una malattia a Vindobona.»   Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.9; McLynn 2009,24.  Cassio Dione, 69, 21.1.  Asse della zecca di Roma antica (del 151-152), RIC, III, 1308a (Antoninus Pius); BMCRE,1917; Cohen, Cassio Dione, 72, 11.3-5.  Machiavelli 1531, I.10.  Gibbon 1776-1789, capitolo I: Estensione e forza militare dell'Impero nel secolo degli Antonini; in particolare I.78, in cui l'autore descrive il buon governo degli imperatori adottivi; inoltre,273 nota 4 del testo disponibile su Google libri, in cui usa l'espressione "good emperors".  Cassio Dione, 72, 14.3-4. Il libro completo, che parla dell'epidemia avvenuta sotto Marco Aurelio, è andato perduto; questa nuova epidemia fu la più grave che lo storico avesse mai visto, a quanto narra nella "vita di Marco Aurelio".  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 12.13, 17.1-2 e 22.1-8.  Renan 1937.  Tra questi vi furono: Marco Aurelio Probo (CIL XI, 1178), Marco Aurelio Mario (imperatore nelle Gallie), Marco Aurelio Caro e Marco Aurelio Carino (CIL VIII, 10956), oltre a due imperatori suoi omonimi, Caracalla (AE 1911, 56) ed Eliogabalo (il cui nome imperiale ufficiale era "Marco Aurelio Antonino"; CIL VI, 40677 e AE 1990, 469) e che furono i primi, pur non appartenendo alla dinastia antonina, ad usare il suo nome. Questi ultimi due, in particolare, come già il padre di Caracalla, Settimio Severo, che aveva riabilitato la memoria di Commodo, divinizzandolo e rimuovendo la damnatio memoriae imposta dal Senato, e dato al figlio il nome di Marco Aurelio, cercavano un collegamento diretto con gli Antonini al fine di nobilitare le loro origini africane e asiatiche, quindi provinciali. Inoltre, una delle mogli di Eliogabalo era una nipote di Marco Aurelio stesso, Annia Faustina. Il nome Marco Aurelio divenne, quindi, un nome di famiglia dei Severi e, come «Cesare», «Augusto» e, più tardi, «Flavio», venne utilizzato come prenome imperiale da molti altri.  Birley 1990,317-318.  Birley 1990,269 ss.  Birley 1990,316.  Birley 1990,313-319.  CIL II, 656 (p 696).  Birley 1990,31.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, Birley 1990,32-34.  McLynn 2009,14.  Birley 1990,34.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.5.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.  Poiché suo fratello Marco Annio Libone è stato console nel 128 e difficilmente potrebbe essere stato pretore più tardi del 126, Annio Vero deve essere stato a sua volta pretore prima di questa data, verosimilmente, appunto, nel 124.  Birley 1990,34-35; Marco Aurelio, 1.2  Birley 1990,36-37; Tacito, Dialogus de oratoribus, 28-29; Marco Aurelio, 5.4.  Marco Aurelio, 1.3.  Birley 1990,40; Marco Aurelio, 1.17.7.  Birley 1990,35; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.1; Marco Aurelio, 1.14.  Birley 1990,39; Marco Aurelio, 1.1.  Marco Aurelio, 1.17; Birley 1990,39.  Marco Aurelio, 1.4.  Marco Aurelio, 1.6.  Norelli,75 Marco Aurelio, 1.6; Birley 1990,43.  Marco Aurelio, 1.10 e 1.12; Birley 1990,46.  Birley 1990,51-52.  Guido Clemente 2008,629-630.  Birley 1990,55 ss.  Guido Clemente 2008,630.  Birley 1990,69.  Birley 1987,38-42.  Birley, Cassio Dione, 69, 22.4; Historia Augusta, Hadrianus, 25.5-6  Cassio Dione, 69, 22.1-4; Historia Augusta, Hadrianus, 24.8-13.  Birley 1990,63-66; Grant 1996,12.  Birley 1990,63.  Mazzarino 1973,328.  Marco Aurelio, 6.30: "Bada di non cesarizzarti, di non impregnarti con la porpora: succede infatti".  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 6.5; Birley 1990,67-68.  Marco Aurelio, 1.16.  Marco Aurelio, 5.16.  Birley 1990,68.  Marco Aurelio, 8.9.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4 e 3.6.  Birley 1990,108.  Frontone, Ad Marcum Caesarem 4.8 (trad. da Haines 1.184 ss.).  Cassio Dione, 71, 36.3.  Grant 1996,24.  Birley 1990,110-111.  Marco Aurelio, 1.11.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4; Cameron 1967,347.  Aulo Gellio, 9, 2.1–7 e 19.12; Birley 1990,76-78.  Birley 1990,65-67; molti critici moderni hanno avuto dubbi per l'ammirazione dei contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche: Barthold Georg Niebuhr, lo descrisse "frivolo", Samuel Adrian Naber lo trovò "disprezzabile" (Champlin 1980, capp. 1-2); altri lo hanno definito "pedante e noioso", scrivendo che le sue lettere non offrono né l'analisi politica di un Cicerone né l'introspezione di un Plinio (Mellor 1982 commentando Champlin 1980); una ricerca prosopografica degli anni '80 ha riabilitato, almeno in parte, la sua reputazione, cfr. ad esempio, sempre Mellor 1982 su Champlin 1980.  Birley 1990,88 ss.  Birley 1990,78.  Birley 1990,113.  Birley 1990,114 ss.  Birley 1990,83 ss.; Marco Aurelio, 1.8.  Marco ricorda Epitteto come una guida spirituale, facendo spesso riferimento alle sue Diatribe e al Manuale come ad esempio in Marco Aurelio, 11.34, dove lo cita e ne commenta alcune massime.  Birley 1990,336-339.  Birley 1990,126 ss.  Champlin 1980,174 n. 12.  Frontone, Ad Marcum Caesarem 4.11 (trad. da Haines 1.202 ss.).  Birley 1990,130-132.  Marco Aurelio, 9.40.  RIC, III 682 (Aurelius); MIR, 18, 13-2a; Calicó, 2055 (moneta illustrata); BMCRE,399 note.  Inscriptiones Graecae ad Res Romanas pertinentes, 4.1399, tradotta da Birley 1990,140.  Birley 1990,205 e 339.  Historia Augusta, Lucius Verus, 2.9-11 e 3.4-7; Birley 1990,132-133.  Forse in omaggio ai filosofi greci o a causa di una cicatrice (cfr. Melani, Fontanella e Cecconi,58).  Bianchi Bandinelli e Torelli 1976, scheda 131 (ritratti di Adriano).  Birley 1990,137-138.  Birley 1990,140.  Cassio Dione, 71, 33.4-5.  Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.4-8.  Birley 1990,142; Historia Augusta, Pertinax, 13.1 e 15.8  Birley 1990,142-143.  Historia Augusta, Lucius Verus, 4.2.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 15-16.  Historia Augusta, Lucius Verus, 3.8; Birley 2000,156  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 7.9.  Savio 2001,331.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 7.10-11; Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.8; Birley 1990,144-145.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 19.1-2; Birley 1990,145.  Historia Augusta, Commodus, 1.2.  Birley 1990,145-147.  Birley 1990,145-146 cita Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus, nos. 155 ss.; 949 ss.  Cassio Dione, 71.1, 3; 73.4.4–5.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.1.  Birley 1990,150.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.8; Birley 1990,151 cita Eck 1995,65 ss.  Vittorino minore fu console assieme al nipote di Marco Aurelio, Tiberio Claudio Severo Proculo nel 200 (AE 1996, 1163 e CIL III, 8237).  Birley  cita Frontone, Ad Verum Imperator 1.3.2 (trad. da Haines 1.298 ss.).  Frontone, Ad Antoninum Imperator 4.2.3 (trad. da Haines 1.302 ss.).  Birley 1990,148 ss.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.4-5.  Birley 1987,278.  Birley 1990,158 ss.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8-10 e 12.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 10.  Pulleyblank 1999.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 11.  La grandiosa colonna di Marco Aurelio di fronte a Palazzo Chigi (alta 42 m) fu eretta per ricordare proprio le vittorie sul fronte germanico-sarmatico del Danubio. La colonna era sormontata da una statua dell'Imperatore, dove ora è posta quella di san Paolo, così come accadde per la colonna di Traiano, dove venne posizionata una statua di san Pietro in sostituzione di quella dell'Optimus princeps), in Coarelli 2008,42-43.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17 e 23.  Renan, Eusebio, 5.1.77.  Codice Giustinianeo, Digesto, 1, 18, 13.  Codice Giustinianeo, Digesto, XVIII, 1,42.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 24.1-3.  Codice Giustinianeo, Digesto, XLVIII, 9, 9, 2.  Codice Giustinianeo, Digesto, XXXI, 67.10: «Item Marcus imperator […] et ideo princeps providentissimus et iuris religiosissimus cum fideicommissi verba cessare animadverteret, eum sermonem pro fideicommisso rescripsit accipiendum».  Birley 1990,165 ss.; Millar 1993,6 e ss. Vedi anche Millar 1967,9-19  Frontone, Ad Antoninum Imperator 2.1-2 (trad. da Haines 2.94); Birley 1990,164; Champlin 1980,134.  Historia Augusta, 24.1-3.  Svetonio, Titus, 8 e 9.  Casadei e Mattarelli 2009,107-108.  Bloch 1947.  Renan 1937,336-337.  Birley 1990,170-172.  Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.7; Birley 1990,148.  Birley 1990,149.  Mazzarino 1973,335 ss.  Frontone, De Feriis Alsiensibus 4 (trad. da Haines 2.19); Frontone, De bello Parthico 1-2 (trad. da Haines 2.21-23); e 10 (trad. da Haines 2.31); Guido Clemente 2008,633.  Luciano di Samosata, Alessandro, 27.  Cassio Dione, 71, 2.1; Luciano di Samosata, 21; 24-25  Cassio Dione, 71, 2.1.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.9.  Birley 1990,151-154.  Birley 1990,154-155.  Champlin 1980,134; Frontone, De Feriis Alsiensibus 4 (trad. da Haines 2.19); Birley 1990,156-157.  Frontone, De bello Parthico 10 (trad. da Haines 2.31); Birley 2000,150-164; Birley 1990,157.  Historia Augusta, Lucius Verus, 9; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.4; Birley 1990,159.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.4-6; Historia Augusta, Lucius Verus, 7.7; Birley 1990,162.  Birley 2000,163.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.1; Historia Augusta, Lucius Verus, 7.1-2; Frontone, Ad Verum Imperator 2.3 (trad. da Haines 2.133); Birley 1990,159; Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus, 233 e ss..  Birley 2000,162.  Farrokh 2007,165; RIC, III, Antoninus Pius to Commodus, n. 511-513255 e n. 1370-1375322.  Birley 1990,163.  Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus, nos. 261ff.; 300 ff.  Birley 1990,174.  ILS 1098; Birley 1990,179-180; Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus,401 ss..  Birley 2000,164.  Birley 1990,183.  Birley 1990,180; Pulleyblank 1999; Mazzarino 1973,338 ss..  Frontone, De nepote amisso 2 (trad. da Haines 2.222); Frontone, Ad Verum Imperator 2.9-10 (trad. da Haines 2.232 ss.)  Birley 1990,164-165.  Lucio Dasumio Tullio Tusco, un lontano parente di Adriano, fu inviato in Pannonia superiore, per sostituire l'esperto Marco Nonio Macrino. La Pannonia inferiore venne affidata al poco conosciuto Tiberio Aterio Saturnino. M. Servilio Fabiano Massimo venne trasferito dalla Mesia inferiore a quella Superiore quando Iallio Basso si era recato ad Antiochia di Siria da Lucio Vero. La Mesia inferiore venne allora affidata al figlio, Marco Ponzio Leliano. La Dacia venne divisa in tre distretti, governati da un senatore pretoriano e da due procuratori. La pace non poteva durare a lungo, la Pannonia inferiore disponeva di una sola legione, ad Aquinco. Cfr. Alföldy 1977, Moesia Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia, 245 ss.; Pannonia Inferior,251.  Birley 1990,189.  Southern 2001,203-206.  Ruffolo 2004,84.  Birley 1990, 194-197.  Stathakopoulos 2004,95.  Birley 1990,186-187.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 14.8; Historia Augusta, Lucius Verus, 9.11.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17.4.  Cassio Dione, 72-2, 3; 73-4,5 e 20,1; 74-3, 1,2.  Birley 1990,207; Alföldy 1977, Moesia Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,245 ss.; Pannonia Inferior,251.  Questa invasione avvenne secondo Birley 1990,184-186, 194-196 e 207-208 ed altri studiosi moderni (Brizzi e Sigurani 2010,393-394 e 398) nel 170.  Birley 1990,208-213.  Guido Clemente 2008,635.  Kneissl 1969,206-207. Infatti i cognomina Armeniaco, Medico e Partico sono assenti nella documentazione di carattere ufficiale posteriori al 172, come ad esempio i diplomi militari: nello specifico si veda, ad esempio, AE 1990, 1023 o AE 1987, 843 (entrambi del 179).  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 24.4.  Tertulliano, 5, 6.  Michael Grant, The Antonines. The Roman Empire in Transition, Routledge, 1994,50.  Birley 1990,230-231.  Cassio Dione, 72, 27-29; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 26.10-12.  RIC, Marcus Aurelius, 357 corr. (no P P); MIR,18, 322-2/35; Calicó, 2017; BMCRE,674.  Astarita 1983,155-162.  Birley 1990,239-240.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 26.3-9.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 19.1-8 e 26.3-9.  Ammiano, Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio Dione, 71, 1.1.  Birley 1990,243-244.  IG II2 3620  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.1.  Historia Augusta, Commodus, 12.4.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.5.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.11-12.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.8; Cassio Dione, 71.31.1  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.6.  Historia Augusta, Commodus, 12.5; Historia Augusta, Marcus Aurelius, Historia Augusta, Commodus, 12.6.  Birley 1990,259-261.  Guido Clemente 2008,636.  Cassio Dione, 72, 36; Grimal 2004,228.  Birley 1990,264.  citato in Antonio de Guevara, Vita, gesti, costumi, discorsi, lettere, di Marco Aurelio imperatore, Venezia, 1557,80.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio Dione, Birley Cassio Dione, 72, 36.3-4.  Erodiano, Commodo, I, 13.1; Historia Augusta, Commodus  Perelli 1969,320-324.  Marco Aurelio, 11.3.  Sordi 2004,103 ss. Bibliografia Fonti antiche Corpus Iuris Civilis. Codex Theodosianus. Wikisource-logo.svg Ammiano Marcellino, Res Gestae Libri XXXI. Aurelio Vittore, De Caesaribus. Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus. Traduzione in inglese qui Publio Elio Aristide, Orationes. Aulo Gellio, Noctes Atticae. Wikisource-logo.svg Traduzione in inglese qui. Cassio Dione Cocceiano, Historia Romana, libri LXIX-LXXIII. Wikisource-logo.svg Versione in inglese qui. Eutropio, Breviarium ab Urbe condita. Wikisource-logo.svg Erodiano, Storia dell'impero dopo Marco Aurelio (Τῆς μετὰ Μάρκον βασιλείας ἰστορίαι). Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica (Ἐκκλησιαστικῆς ἱστορίας). Versione in inglese qui Frontone, Epistulae. Gaio, Institutiones. Historia Augusta, Vite di Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero, Avidio Cassio e Commodo. Wikisource-logo.svg Versioni in inglese qui, qui e qui. Livio, Ab Urbe condita libri. Luciano di Samosata, Historia quomodo conscribenda (Πῶς δεῖ Ἱστορίαν συγγράφειν), in H.W. Fowler & H.G. Fowler, The Works of Lucian of Samosata. Marco Aurelio, Colloqui con sé stesso (in greco antico). Wikisource-logo.svg I-XII. Plinio il Giovane, Epistulae. Plutarco, Vite parallele. Wikisource-logo.svg Gaio Svetonio Tranquillo, De Vita Caesarum, libri I-II-III. Wikisource-logo.svg Publio Cornelio Tacito, Dialogus de oratoribus. Tertulliano, Apologeticum. Wikisource-logo.svg Fonti storiografiche moderne in italiano Isabella Adinolfi, Diritti umani: realtà e utopia, Venezia, Città Nuova, Maria Laura Astarita, Avidio Cassio, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1983. Ranuccio Bianchi Bandinelli, Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica, Etruria-Roma, Torino, Utet, 1976. Karl Bihlmeyer, Hermann Tuechle, Le persecuzioni dei cristiani da Nerone alla metà del III secolo in "Storia della Chiesa", "L'antichità", Brescia, Morcelliana, Birley, Marco Aurelio, Milano, Rusconi, Giovanni Brizzi, C. Sigurani, Leoni sul Danubio: nuove considerazioni su un episodio delle guerre di Marco Aurelio, in Livio Zerbini, Roma e le province del Danubio, Soveria Mannelli, Rubbettino, Thomas Casadei; Sauro Mattarelli, Il senso della Repubblica: schiavitù, Roma, Franco Angeli, Guido Clemente, La riorganizzazione politico-istituzionale da Antonino a Commodo, in Arnaldo Momigliano e Aldo Schiavone (a cura di), Storia di Roma, II, Torino, Einaudi,ripubblicata anche come Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, XVI, Milano, Il Sole 24 ORE, Filippo Coarelli, “La colonna di Marco Aurelio” (Roma, Colombo); Augusto Fraschetti, Marco Aurelio: la miseria della filosofia” (Roma, Laterza, Pierre Grimal, Marco Aurelio, Milano, Garzanti, Giorgio Jossa, Giudei, pagani e cristiani. Quattro saggi sulla spiritualità del mondo antico, Napoli, Associazione di studi tardoantichi,Yann Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica: da Diocleziano alla caduta dell'Impero, Roma, Carocci, Santo Mazzarino, L'Impero romano, vol. 2, Bari, Laterza, 1973. Antonio Parrino, I diritti umani nel processo della loro determinazione storico-politica, Roma, Edizioni Universitarie romane, Luciano Perelli, Storia della letteratura latina, Torino, Paravia, Ernest Renan, Marco Aurelio e la fine del mondo antico, Milano, Corbaccio, Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza: il ferro di Roma e l'oro dei mercanti, Torino, Einaudi, Adriano Savio, Monete romane, Roma, Jouvence, Marta Sordi, I cristiani e l'impero romano, Milano, Jaca Book, Gregory S. Aldrete, Floods of the Tiber in Ancient Rome, Baltimora, Johns Hopkins University Press, Timoty D. Barnes, Hadrian and Lucius Verus, in Journal of Roman Studies, vol. 57, Anthony Richard Birley, Marcus Aurelius: A Biography, Londra, Routledge, Anthony Richard Birley, Hadrian to the Antonines, in The Cambridge Ancient History, The High Empire, Alan Cameron, Anthony Birley's: "Marcus Aurelius", in Classical Review, E. Champlin, The Chronology of Fronto, in Journal of Roman Studies, vol. 64, London, Edward Champlin, Fronto and Antonine Rome, Cambridge, Harvard University Press, Kaveh Farrokh, Shadows in the Desert: Ancient Persia at War, Osprey Publishing, James Francis, Subversive Virtue: Asceticism and Authority in the Second-Century Pagan World, University Park (Pennsylvania), Pennsylvania State University Press, W.H.C. Frend, Martyrdom and Persecution in the Early Church, Oxford, Basil Blackwell, Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire,  Londra, Strahan & Cadell, Michael Grant, The Climax of Rome: The Final Achievements of the Ancient World, Boston, Little, Brown, 1968. Michael Grant, The Antonines: the Roman Empire in Transition, New York, Routledge, Gregory Hays, Introduction to Marcus Aurelius Meditations, Londra, Modern Library, C.R. Haines, Correspondance of Marcus Cornelius Fronto with Marcus Aurelius Antoninus, Lucius Verus, Anoninus Pius, and various friends, vol. 2, London & Cambridge (Mass.), Collection Loeb, Harold Mattingly, Antoninus Pius to Commodus, in Coins of the Roman Empire in the British Museum, Londra, R. H. McDowell, Coins from Seleucia on the Tigris, Ann Arbor, University of Michigan Press, F. McLynn, Marcus Aurelius: Warrior, Philosopher, Emperor, Londra, Bodley Head, Ronald Mellor, Recensione a Fronto and Antonine Rome of E. Champlin, in The American Journal of Philology, Fergus Millar, Emperors at Work, in Journal of Roman Studies, Fergus Millar, The Roman Near East, Harvard University Press, Edwin G. Pulleyblank, The Roman Empire as Known to Han China, in Journal of the American Oriental Society, Christopher Scarre, Chronicle of the Roman Emperors: the Reign-by-Reign Record of the Rulers of Imperial Rome, Londra; New York, Thames & Hudson, Pat Southern, The Roman Empire: from Severus to Constantine, London; New York, Routledge, Dionisyos Ch. Stathakopoulos, Famine and Pestilence in the late Roman and early Byzantine Empire, Burlington (VT), Ashgate, Stephen A. Stertz, Marcus Aurelius as Ideal Emperor in Late-Antique Greek Thought, in The Classical World, Géza Alföldy, Konsulat und Senatorenstand unter den Antoninen: prosopographische Untersuchungen zur senatorischen Führungsschicht, Bonn, Habelt, Peter Kneissl, Die Siegestitulatur der römischen Kaiser. Untersuchungen zu den Siegerbeinamen des ersten und zweiten Jahrhunderts, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1969. in francese Marc Bloch, Comme et pourqoi finit l'esclavage antique, in Annales. Histoire, Sciences Sociales, Marco Aurelio nelle opere letterarie e filosofiche moderne Niccolò Machiavelli, Il Principe, Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, 1531. Voltaire, Dizionario filosofico,Cataloghi e raccolte numismatiche (abbreviazioni) Banti = Alberto Banti, I Grandi Bronzi Imperiali, vol. II.1 (Nerva, Traianvs), Firenze, 1983. BMCRE = Harold Mattingly, Coins of the Roman Empire in the British Museum, vol. IV (Antoninus Pius to Commodus), London, Calicó = Xavier F. Calicó, The Roman Aurei, vol. I (From the Republic to Pertinax, Barcellona, 2003. Cohen = Henry Cohen, Description historique des Monnaies frappées sous l'Empire romain, communément appelées Médailles impériales, vol. II (De Nerva à Antonin, Paris, MIR = Bernhard Woytek, Moneta Imperii Romani, in OAW, vol. XIV (Die Reichsprägung des Kaisers Traianus, Wien, Harold Mattingly & Edward Allen Sydenham, Roman Imperial Coinage, vol. II (Vespasian to Hadrian) e III (Antoninus Pius to Commodus), London, Spink & Son, Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Marco Aurelio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Marco Aurelio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Marco Aurelio / Marco Aurelio (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Marco Aurelio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Marco Aurelio, su Find a Grave. Opere di Marco Aurelio, su Musisque Deoque Opere di Marco Aurelio, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute.Opere di Marco Aurelio / Marco Aurelio (altra versione) / Marco Aurelio (altra versione) / Marco Aurelio (altra versione) Marco Aurelio (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Marco Aurelio, su Open Library, Internet Archive.Opere di Marco Aurelio, su Progetto Gutenberg.Audiolibri di Marco Aurelio, su LibriVox.Marcus Aurelius, su Goodreads.Marco Aurelio, su Discografia nazionale della canzone italiana, Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi.Rachana Kamtekar, Marcus Aurelius, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Stanford. Predecessore: Antonino Pio161–180 (con Lucio Vero, dal 177 con Commodo)Commodo Predecessore Console romanoSuccessoreConsul et lictores.png Gaio Bruttio Presente Lucio Fulvio Rustico II140 Marco Peduceo Stloga PriscinoI con Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio IIcon Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio IIIcon Tito Enio SeveroTito Statilio Massimo145 Gneo Claudio Severo Arabiano II con Lucio Edio Rufo Lolliano Avitocon Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio IVcon Sesto Erucio Claro II Appio Annio Atilio Bradua161Quinto Giunio Rustico IIIII con Tito Clodio Vibio Varocon Lucio Elio Aurelio Commodo IIcon Lucio Tizio Plauzio AquilinoMarco Aurelio Campagne partiche di Lucio Vero Guerre marcomanniche Imperatori adottivi Imperatori romani e relative linee di successione Stoicismo. Antica Roma Portale Antica Roma Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Letteratura Portale Letteratura   Categorie: Imperatori romaniFilosofi romaniScrittori romani Nati il 26 aprile Morti il 17 marzoNati a Roma Morti a Sirmio Aforisti romani Dinastia antoniniana Consoli imperiali romani Stoici Annii Auguri Sepolti a Castel Sant'Angelo Marco Aurelio Persone legate ai Misteri eleusini. Italian philosopherone of the most important onesVide his letters to his tutor Frontino -- Marcus Aurelius, Roman emperor (from 161) and philosopher. Author of twelve books of Meditations (Greek title, To Himself), Marcus Aurelius is principally interesting in the history of Stoic philosophy (of which he was a diligent student) for his ethical self-portrait. Except for the first book, detailing his gratitude to his family, friends, and teachers, the aphorisms are arranged in no order; many were written in camp during military campaigns. They reflect both the Old Stoa and the more eclectic views of Posidonius, with whom he holds that involvement in public affairs is a moral duty. Marcus, in accord with Stoicism, considers immortality doubtful; happiness lies in patient acceptance of the will of the panentheistic Stoic God, the material soul of a material universe. Anger, like all emotions, is forbidden the Stoic emperor: he exhorts himself to compassion for the weak and evil among his subjects. “Do not be turned into ‘Caesar,’ or dyed by the purple: for that happens”. “It is the privilege of a human being to love even those who stumble”. Sayings like these, rather than technical arguments, give the book its place in literary history. Ab avo meo Vero didici placidis esse moribus et iram abstinens. Ex estimatione parentis mei cius recordatione ad verecundiam et VIRO dignos mores usus sum. Matre in studio pietatis erga deos isberalitate gimitatus. Præterea in abstinendo anno perpetrandis modo sed et cogitandis flagitiis. Tum in frugalitate victus, ab opulentia comitante luxu remotissima. A pro-avo id habui ut ne in publicos ludos comcarem sed bonis præceptoribus domimex uterer, intellige regnullis hac in re parcendum sumptib. Ab educatore, ne auriga Praginus, aut Venetus, neuc palmularius aut scutarius fierem. Ab eodem tolerare labores, esse contentus parvo, operari, non immiscere mc multis negociis, haud facile calumniam admittere, didici. A Diogneto, tudium in res inanes non conferre, fidem abrogare iisque de incantationibus, de  monug pfligationib. acid genusalii reb pitigiatores et impostores referent. Nec animi causa coturnices alere, aut fi milium rerum studio et cupiditate teneri. Ite libere dicta ferre æquo animo, PHILOSOPHIAE ME ADDICERE, audire primo Bacchiu, deinde Tandasidem ac Marcianum, scriber dialogos puerili etate grabatu, pellem, aliağ ad greca disciplinam pertinentia, usurpare. RUSTICI monitu in ea deveni cogitatione, mores meos correctione ac cultu opus habere. Non esse imitandos sophistas, non esse instituendas de contemplationibus scriptiones ne que oratiunculas adhortatorias declamandum neq speciem VIRI exercitiis dediti, ac laboriosi ostentandam. Ad hæc rhetorica, poetica ed atrologia abstinendum, domincuesticu, negaliis huius modi rebutendum. Epistolas scribendas simpliciter, quomodo ipsius ad matrem meam est epistola Sinueſſam missa. In super placabilitatem este et in alloquio facilitatem exhibendam iis qui stomachu nobis moverint, aut aliquid deliquerít, simulatqii redire adofficium volint. Diligenter etiam legendum, nec omnino considerationem accuratam satis putandum, ne æceleriter adsentiendum loquacite LOQUACITER CONVERSANTIBUS. Commentarios Epicteti legendos, quorum et e domo sua mihi copiam fecit. Apollonius medocuit ut libertatem secta rer, certamg constantiam, negalio un quam, ne minimum quidem, quam ad rectam rationem respicerem ac semper mei similis essem in gravibus doloribus a missione prolis, morbis diuturnis. Uc quem in vivo exemplo evidenter contemplarer, posse eundem et durissimum esse et remissum quam maxime. Tum etiam ut in percipienda doctrina menon morosum præberem sed circumspicerem de homine qui palam experientiam et in tradendis scientijs facultatem mia nimum suorum bonorum putaret. Præterea modum beneficia utiis videntur ab amicis accipiendi ne vel accepta ea nos viliores redderent vel stupidem ne gligerenturato permitterent. In Sexto de præhemdi comitatem et exemplum domo ad arbitrium patris familias institute, vivem di secundum naturam, gravitatem nion simulatam, ing consulendo amicorum commodis sagacitatem, facilitatem erga privatos, mores omnibus accomodatos. Quo fiebat, ut eius consuetudo omni adulatione suavior ipseos codem tempore in summa apud cos quibus cum agebat veneratione esset. Porro autem expedicam viam acrationem inveniendi et disponendi præcepta ad usum vitæ necessaria. item quod nequc iræ neo alius cuius animi commotio nis ullum indicium dabat, sed simul et quam maxime affectibus vacuus et humanissimi erat ingenii. In codem honc stam famam finciactatione. Multa rumorerum scientiam citra ostentationem. Alexandrum Grammaticum obseruabam ab increpationibus sibi tempera re, neque ignominiose castigare si quis barbarum, lolocum, aut absonum quippiam protulisset sed civiliter id modo o dicendum fuerat, pronunciare. Perinde ac si respondens vel suam sententiam interponeret, aut rationem re ipsa non verbo cum altero conferret. Aut omni no alia quadam solerti et occulta correctione idem efficiebat. A FRONTONE didici ut scirem quæ consequeretur tyranidem invidia quæ varietas simulatione. Et quod omnino qui nobis patria icidicunt in humaniores quodammodo fint reliquis. Ab Alexando Platonico, ne crebro neve nil necessitate coactus cuiquam dicerem scriberemúeme esse occupatum ne ve identidem impendetia negocia prætendendo debita familiaribus officia detrectare, A CATULO, ne parvi facerem li quid amicus conquereretur, etiam et nulla id ab eo fieretratione. Sed anniterer eum in pristinam gratiam rcducere. Item ut summa animi contentione præceptorum laudem prædicarem. Uti de Domitio et Athenodoto traditum est. Ut yliberos vere diligere. A fratre meo SEVERO amore familiarić et ucritatis iustitiæ. Per eundem cognovi Thrasea, Helvidium, CATONEM, Dionem, BRUTUM. Idem mihi autor fuit ut animo conciperem formam reipublicam in qua æquis legibus codemý iure omnia administrarent, ac regni, cui nihil cf afet libertate subditorum antiquius. Eun dem observans curis esse vacuum, constantiam in honore PHILOSOPHIAE habendo, beneficentiam et liberalitatem perpetuam servare, bene sperare ac de amicorum in amore certo libipolliceri, aq bus animo elſet factus alieno idiis non occultum ferre. Nec amicis eius opus esse ut de ipsius voluntate coniectura facerent sed eam apertam elle. Maximus adhortatus me est, ut suo exemplo me ipsum regerem, neq ulla in re præcipitarem, animo bono cùm aliis in calibus, tum in morbis essem. Ut moribus ut erer temperatis, blandis, ac gravibus ut quæ instituissem expedite necma gnacum molestia perficere. Dicebat libi verba facienti aut a genti quic quam nemine non fidem habuisse ex animi ipsum sententia loqui vel agree. Nullius rei admiratione se obstupuisse nunquam aut seſsi nasse, aut cunctatum fuisse, nec trepidasse neq mæstitiæ, neo gaudii nimium fuisse, neqz iracundum neq suspiciosum sed beneficum, placabilem, veracm, magis có Itantia erroris secura o erratorum correc ioné præ se tulille. Neminem fuisse, afe 1 abipfo conteptum, aut ipso pstantiorem putaret. Liberaliter quoß facetum fuisse. Patris notavi humanitatem et inijs quæ semel essent accuratem deliberata, pmansionem vanægloriæ et eorumque putant, ne que sunt tim honoru contemptu, tudium laborum, assiduitatem. Libenter audiebat cos, qaliqd reip. utile poterant adducere. In tribuendo unicuip dignitate suu firmiter pſeuerabat, pitusubi intendendum et ſet, ubi remittedum. AMORES ADOESCENTU lorum coercebat, utilitati publicæ, oes cogitationes intendebat. Amicis sec uncce nan dı, autiter faciendi necessitate remittebat etque necessitate aliqua impediti cum non conitati fuerant, cunde fempirfum inveniebant.In consiliis accurateqd conducere possetīqrebat, ac conftanter, nec ob uiis quibusg cogitationik. contento fine consultandi faciebat.Amicitiam conservabat, neq vel satietaté amicorum capiebat, ne ad eosparandos furore aliquo ferebat. In oib.reb. ola sua i se repogta habebat, læto vultu. Longe futura puidebat. Arq et minima antem pparabat, idý citra tumultum. Acclamationes, oems adulationem compescebat. Quæ ad magistratum erant necessaria, semper custodiebat, sumptus procura bat, ncq detrectabat dcijsreb, causam dicere. Deos citra superstitionem cole þat, homines ne demerebatur, ncquc auram popularem captabat. In omnib, his sobrius, costans, nusquam ineptus, aut novitatis studiosus. Has porrò res, quæ ad vitę commoditatem aliquid conducunt, quas fortuna suppeditat, liberaliter, fimulý sincfastu tractabat, ita ut & liadeffent, haud solicite iis uteretur, nec defidcraret, li deeflent.Nemo fuit, quieum aut sophistam, aut vernam, aut hominem de schola esse diceret. Sed VIRUM MATURUM, absolutum, adulatione superiorem, qui et seipsum regere, et ali ospoflet, Iam PHILOSOPHIAM VERAM profitentes in honore habens, reliquis nihil exprobravit. Cæterum in consuctudi ne familiari commodus gratiosuso extra fastidium erat. Corpus suum moderate curabat, non ut qui vitæ CUPIDUS, aut cuiforme elegantia curæ esset, non tamen interim negligenter. Itag suæ diligentiæ causa paucissimis medicorum pharmacis et fomentis opus habuit. Id in co praeclarissimum fuit, quod facultate alicuius rei præditis concedebat abso invidia, utoratoriæ, historiæ, legum, consuetudinum, aliorum gid genus. Quin etiam ut gloriam iis rebusquibus excellebant, adipiscerentur, operam suam ipsis navabat. Eccum ageret omnia secundum instituta maiorum, ne hoc ipsum quidem studebat consequi, ut videretur a maioribus accepta obserualle. Ad hæc non erat vagus aut levis sed locise et negociis iisdem soleba timmorari. Post intentissimos capitis dolores, recens at que alaçer ad consueta opera redibat. Praeterea pauca ad modum habebat arcana et hæc quoq tantum derebus publicis. Prudens porroerat, moderatus cum in spectaculis exhibendis, tumin operum extructionibus congiariis et aliis huius modi negotiis. Guippe vir ed ex usu foret potius, quam quem gloria fa &tum sequeretur, reputans. Non utebatur alieno tempore balneis, non erat ædificandi CUPIDUS, non de ciborum, non vestium texturæ aut infacturæ, non formæ corporis elegantia anxius. Comitatus ei e prædio qui eum ab inferiori casa deduceret. Inter Lanuvinos plerum Tusculano publicano utebatur, etiam deprecante. Omnino in eius moribus nihil in erat in humanum, nihil in verecundum, nihil procax, ne quod dicitur ad sudorem usque. Sed omnia ita apta  et concinna ut li per otium cogitata fuissent, compositem, placidem, firmiter et sibi in vicem convenienter. Ac commodari posset ei id quod de Socrate memoratur, quod et abstinere potuerit,et frui reb.istis, quibus et carere ple rio per infirmitatem & in fruendo continere se nequeunt: at temperare fibi ab utroque uitio pofle et sobrium permanere, id VERO VIRI eft animo integroinui conspræditi: quod ille in morbo maximi præstitit.A diis bonos avos, bonos parentes, bonam sororem, bonos praeceptores, familiares, necessarios, amicos bonos accepi feren omnia bona: tum g in nullum eorum quicquam deliqui, quam quam ita affectus, ut, si occasio incidisset, utiq aliquid tale admisissem verum beneficio deorum evenit, neresita caderent, ut hoc in me depræhenderetur. Id quoque iis acceptum refero, quod non diutius apud concubinam avisum educatus, quodad PUBERTATEM CASTUS perveni, neque ante eam VIR sum factus sed tempus expectavi. Quod principi et patri subditus fui, qui erat omnem mihi superbiam excussurus, oftenfurúsque pofle eum qui in aula vivat et ftipatoribus carere & vestibus pictis et facibus, ftatuisý certi generis, reliquo ğluxu: Sed licercei proximum privato homini habitum ſumere: imò verò eum splendorem eos, qui principes rempub.gerere velint, demissio, res segnioresg efficere. Itemque eum fratrem sum nactus, qui moribus fuis me ad curam mei ipsius habendam posset excitate, honore autemet  amore in me suo delectare . Quod hberi mi hi neque indole, neque corpore pravinati sunt. Quodmagnos in rhetorica, poetica, reliquisg studijs progressus non feci, qme fortassis planem detinuissét, si me feliciter pficeresenlitlem. Quod mature cos a quibus sum enu tritus in dignitate constitui, quod mihi videbantur cupere, quodg id iuvenib. Adhuc praestiti, neo diu cas future spela cavi. Quod Apollonium, RUSTICUM, Maximum cognovi. Quod perspicueat ą sæpe numero naturalem vitam cum ani momeo reputavi, qualisnam ea esset: nimirum quodad deos attineret & co rum munera, cogitationcsoninde conceptas, nihil iam obstarc, quin aut secundum naturam viverem, aut non. Atque boc quidem fore mca culpa, qui deûm monitus,actantùm non præcepta non obferuaffem . Quòd in cali uita mcum corpus tandiu durauit.Quòdncquecú Benedicta,nc cumThcodoto rem ha bui , fed & pofteàamore cócitus, rcctæ rationi parui. QuòdRuſtico fæpiusin dignatus,nihil prætercà admiferim, cu ius mepæniterepotuiſſet. Quòd ma ter, cum esset adhuciu venis moritura, reliquos tamen vitæ suæ annos mocum exegit. Quod quotiescung pauperi ali cui, aut alias indigenti opitulari statuissem, nunquam audivi, pecuniam mihi non esse, unde id facere et quod mininum quam usu ucnit, ut alterius ope indigerem . Quod uxorem ita obsequentem, mei AMANTEM ac limplicem habui. Quod alumni quibus liberos meos credere idonei non defuere. Quod in somnis cum alia mihi remedia funtdata tum contra sanguinis ex creationem ac contra vertiginem, hocg Caietę. Sicut Chrękę  cuğanimü ad PHILOSOPHIA adiunxič ſem, nó incidi in sophistam aliquem aut scriptore vel a SYLLOGISMOS dissoluere doceret aut meteora traderet. Olahực deorum auxilio, forcuna indigent. Hec in Quadis ad Granuam. Solobatis sibi prædicere, erit ut incidam in curiosum, ingratum, contumeliosum  dolosum, invidum, DISSOCIABILEM. Omnia hęcijs euenc runt ignoratione bonorum et malorum. Ego vero, quinaturam boni perspectam habeo, quòdhoncstum fit, & mali, quod turpc, ipfamg eius qui peccat natura, quod mihi lit cognata non quia ciul dem carnis efs aut feminis sed mentis et divinem particulæ particeps a nullo cocum lædi pollum. Nequccnimiamo V turpitudinem aliquam quisquam con ijciec. Ei porrò quod mihi cognatum est, negira scipossum, neque insensus esse: ute nim unus alterum iuvaret in suo opere, eo nati sumus, ut manus, ut pedes, ut palpebræ, ut superiorum inferiorum o dentium ordines. quare contra natura est, ut in vicem nobis repugnemus: atqui succensere at a versari se invicem, idquidem est repugnare. Quidquid ego sum, idomne constat caruncula, animula et mente. Proinde missos fac libros, neß stude, non enim licet. Quin tu, ut mox vitam cum morte commutaturus,cor pussperne, quod est tabus, ossicula et reticulí muliebris instar plexus nervorum, venarum arteriarum. Animaquog considera, qualis ea sit. SPIRITUS nimirum , ne que is idem semper, sed qui in horasali us efflatur, alius ſorbetur. Restat tertia pars, principatum obtinens. Proindelic tecum reputa. Senex es? Ne patere hanc principem partem ulcerius feruire, necß alieno impetu raptari, neq fatú uel præ sensi niquem fer, vel im pedes subterfuge. Res decorum plenæ sunt prudentiæ. Fortuitæ aut non carent natura, complexude corum quæ a prudentia administratur. Inde omnia fluunt:necessitas etiam accedit, et totius universi cuius tu pars es utilitas. Porrò autem quòd natura univerſi fert, quod quem ad eam facit conservandam, id bonum est unicui vis univerli particulæ. Conseruant autem mundum, quemadmodum elementorum, ita & exipsis concretarum rerum mutations .Hec sufficiant tibi, ac sem per præceptorum locum habcant. Librorum vero Gitim proijce, ne murmurans moriare sed vere placatus, at ex animo gratiam diis agens. A Emento quandiu hactenus ea diftuleris, ac quoties prorogato tibi à diis tempore, co non ususlis. Certe aliqua do te animadvertere oportet, cuius mundi pars sis et a quo mundi gubernatore de fluxcris. Tum finem præscripti tibi temporis futurum. Quodquidem tempus G ocio sus intra parietes consumpseris, elabet, nequeredibit unquam tibi defuncto. Singulis horis animo in id incumbe ut fortiter, quemadmodum ROMANO ET VIRO CONVENIT id quod præ manibus est, per agas, accurata & non fi &ta gravitate, humanitate, liberalitate, iustictia g adhi bitis .Interea animum tuum ab omnib aliis cogitationib. abduc: quodita fict, si unum quodlibet negotium, eorum quæ in vita tua exequenda cibi fintpo stremum elfe iudicans, ita conficias, ut ne quid vanitatis, affectuum a conglio avertentium, simulationis, AMORE SUI, aut earum rerum quæ fato quodam ei negotio adiunctæ sunt improbationis admittat. Cernis, quam pauca Gint ea, quorum có pos vitam felicem ac diuinæ similem ui uerc homo potest? nam ea qui adferuarit, ab eo dijnihilultrà exigunt. Ignominia te ipsum affice anime, contemnete ipsum inquam ut enim honore te ipsum afficias, non tibi præterea tempus suppetet. Vita enim unicuiqueid præbet. Quæ tibi propemodum iam exacta eſt. Nonigitur te ipsum venerare sed felicitatem tuam aliorum in animis reposita habe. Non patere ab ijs quæ extrinfecus accidunt, te circúagi,ſed otium tibipa raut boni aliquid addiſcas,ac uagari de fine.Eft & alter declinandus error : nó . nulli enim actibus uitæ ſuæ'confecti de lirant,quòdfcopum nullum habent,ad qué omnes ſuos conatus & cogitatio nes dirigant. Haud temere quisquam repertus est infelix ea de causa quod non inquireret quid aliorum animis accideret. Qui ucrò luiiplius animi motib. non obsequitur, necessario miser est. Horum semper oportet recordari, quæ sit uniuerli natura, quæ mea, quomodóque hæc ad illam lit affecta, qualis pars ca cuius totius Git : adhæc neminem esse qui obstet, quo minus semper ea, quæ naturæ cuius tu pars es Gintconfentanca et agas et dicas. THEOPHRASTUS in comparatione peccatorum, ubi ostendit communiorem ea inter se conferendi rationem, PHILOSOPHICE, inquit, ea quæ per cupiditatem conmittuntur peccata, graviora esse iis quem periram. Et enim iratus videtur cum dolore quodam et occulte correptus animo a recta ratio ne divertere. Qui vero per cupiditatem peccat, victus a voluptate, intemperantior altero censetur, magilý EFFEMINATUS. Recte igitur et ut PHILOSOPHO diagnum erat. In maiori esse culpa pronunciavit cui voluptas, quam cui dolor peccandi fuisset causa: ac omnino hic ante læsus, & propter doloré iratus, ille sponte sua ad delinquendum cupiditatis explendæ causa fertur. Omnia tibi ita et agenda sunt et dicenda et cogitanda, ut Giam nunc vitam in exitu esse arbitreris. Cæterum e vivis discedere, si quidem dii sunt, nihil habet incommode. Neque enim ii te aliquo malo sunt affecturi. Sin autem, vuel non sunt dii, uc!res humanas non curant, quid atti nebatui vere in mundo deum, ac prouidenti z uacuo? Enim vero et sunt dii et rerum humanarum curam gerunt et ut ne homo in ea, quæ re vera sunt mala, incideret, id quidem in eius potestate posuerunt. In reliquis rebusliquid mali inesset, utique & hinc ei prospexissent, ne omni noin malum incideret. Quod uerò hominem deteriorem non efficit, quonam id modo uitam eius poflet redderepeiorem? Et quidem um niuerli natura nunquam neg perigno rationem ,ncg fciens quidem , non ua lens autem cauere autemědare illa, tan tum errorem admiſerit,neque imbecil licatis,nequeinſcitiæ caula, ut bona & mala bonis malisque hominibus promiscuem et ex æquo accidant. Atqui mors et uita , honor et ignominia, dolor et voluptas, opes et paupertas, omnibus hæc uniuersa eadem ratione hominibus cum bonis tum malis contingunt, ſuntg neque honesta, neque turpia: ergo neque bona quidem, neque mala. Quam celeriter omnia aboletur, in müdo quidem corpora, in quo autem etiam corum memoria. Omnia quæ sub sensum cadut, ac præsertim ea, quæ vel voluptate alliciu ut, vel dolore terrent, vel faste suo clara sunt, quam vilia sunt ca omnia et contemptione digna, quam sordida, obnoxia interitui et mortua? Intelligentiæ est, indagare quidnam sintii, quorum opiniones et voces gloria. Quidnam estmors? Certe si quis ea per se intueatur, cogitatio neg omnia ab ea separet, quæ ciinesse videntur, isi am nihil aliud existimabic esse mortem, quam opus naturæ. At vero PUER EST, qui nature aliquod opus formidat. Et quidem mors non opus solum est naturæ sed et prodest ei. Qoónam modo Deus hominem attingis et qua hominis parte ?preterea quomodo affe citur eo tactu pars illa? Nihil miserius cít eo, qui omnia circulando scrutatur, et quod aiunt ea etiam quæ ſunt infra terram rimatur, coniecturağ ea quæ in aliorum animis eueniant inquirit, neg ſentit ſufficere,utſuu quiſq quiin ipſo ineſt genium obferuet, eumlegitimè colat.Colitur autem, fi quis ſeiplum ab animi perturbationib.à vanitate,ab in dignatione eorum caufa quæ à diis aut hominibus aguntur concepta,uacuum conseruet. Quæ enim dijagút, virtutis causa honorem quæ ab hominibus, cognationis nomine AMOREM merentur: nonnunquam etiam miserationem, ratione ignorationis eorum quæ bona aut mala ſunt. qui sane defectus non uilior eſt eo, quo ne inter album et nigrum discernere poſsimus, impediunt. Quodf tria annorum millia tibi vivenda forent, insuperg triginta alia, tamen recordandum tibi est, neminem aliam ab ea quam vivit uitam deponere, negaliam dep nere quam eam quam vivit. Itagidem est longissimum spatium cum eo quod est brevissimum. nam quod praesens eſt, id omnibus idem est, quanquã id quod perijt, non fitidem, atqid quodamitti  temporis punctum eſſe apparet. Ete nimncß præteritum aliquis,neß futu rum quicquã amittere poteft:qui enim id ei adimatur, quod ne habet quidem. Duo itag hæc memoria sunt tenenda, unum, omnia ab æterno eſſe ciufdé for mæ, atq circulo reuolui,nequedifferre quicquam, eadémne cétum aliquis, aut ducentis annis , an uerò infinito videat tempore. Alterum, quodis qui diutif sime uixit, & is qui celerrimem moritur, tantundem amittunt: eo enim tantum priuantur, quod præsens est, quando id etiam solùm habent: quod autem non habet, neid ne deperditur quidem, Universa elle ſita in opinione. Quod patet ex his quæ cum Monimo Cynico sunt disputata. Perſpicua autem eft c ius quod dictum eſt utilitas, fi quis ea tenus eius fuauitatem admittat, quate nus ueritati congruit. Anima hominis contumelia se ipsam multis modis afficit. Primo, quum quantum in se ipsa Gitum eſt,abſceſſus quidam, & qua fulcus mundi fit. Abscedit autem à natura, quando ea quæ fiunt, iniquo fere animo: cuius quidem naturæ una in par e reliquæ singulorum naturæ omnes continentur. Deinde, quum hominem aliquem auerlatur, aut lædendi causa adversatur: hoc est iratorum. Tertiò, quum uoluptati aut dolori ſuccum bit. Quartò, quum fimulat, fidéquc aliquid autfacit aut loquitur. Quin to , quum fiquam actionem aut cona. tum ad nullum certum scopum diri git,fed fruftrà quicquam,nulláque con fequentia agit: quum oporteat etiam minima quæg ad certum finem referri. Finis autem animantiratis eprædi to propoftus eft utrationem atque Le gem ciuitatis uetuſtiſsimæ fequatur. Humanæ quidem uitæ tempus,momë tum eft, natura fluxa ,fenſus obſcurus: totius corporis temperamétum putrc fcitfacilè ,animauaga eſt, fortuna quæ fit, difficile eſt colligere , famaincerta eſt. Atque ut ſummam rei dicam , o mnia quæ ad corpus pertinent, fluuij naturam habent, quæ ad animā,inſom nij & fumi:uita bellum eſt, & peregri natio , fama poſt mortem ,obliuio eft. b4  Quid ergo eſt quòd tutò hominem por fit deducere? PHILOSOPHIA. Ea verò in hoc consiſtit, ut genium quiin te est, incontaminatum conferues, atqz illesum , la voluptatibus et doloribus superiore: ut nihil fruſtrà, nihilfictè aut falſò agas: nihil cures, agátne quicquam alius, aut omittat.Præterea, ut ea quæ accidūt, fa tóue eueniunt, ita accipias, tanquã inde miſſa,unde tu quoqueneris.Poftremò, utplacıdo morté animoexpectes,quip penihil aliud ,quàm diffolutionem ele métorum eorum ,ex quibus unūquod libet animal concretum eſt. Iam Gipfis elementis nihil mali euenit continenti bus iſtis mutationibus, quibus ipfain ter ſe alia identidem in alia uertuntur, quænam causa est, cur de mutatione universi corporis, dissolutionéque fini ſtrum quicquam suspicari debeamus? Cum ea fecúdum naturam fiat. nihil vero malum est, quodnatura cuenit. Hæc Carnunti disputata. qonhoc tantum est considerandum, singulis diebus vitam cossumi, parcég eius ſubinde minorérelinqui: fed & hoc cogitandum ,getſiquis diutius lit uictu rus,incertum tamen eſt,lítne fuppedita tura eadem intelligentia ad cognoſcen das res et contemplationem cuiusfiniseft peritia rerü diuinarű at humanarum, Etenim & delirare ceperithomo,fpira bit quidé nihilominus, nutrietur, imagi nabitur, appetet, reliquasgid genus facultates retinebit: ca vero vis, qua se i plo uti queat, rationes officii subduce re accuratas, quæ animo pręcepitin or dinem collocare, de coipſo an iam tem pus fit uitam relinquendi delibcrare, ac fi quæ alia sunt, ad quæ obcunda ratione probè exercitata opuseft, ea inquã uis iam antem extincta est. Feftinandum eſti gitur,nonidcò ſolú, quòd fubinde moc b s  ti propiores fimus, fed &quia rerum in telligentia nos ante exitum uitæ deſti tuit.Id quoß observandum, ca quę appendicis quafi loco adhæréthis quæ na tura fiunt,haberenonnihil gratiæ & o blectationis.Viquum panis pinlitur,ui demusquaſdam particulaseius rumpi: quod ipſum etli quodãmodo accidit præter inſtitutú piſtoriæ artis, habet ta mennónihil decoris,appetitumg cibi ſuo quodammodo excitat. Ficus quog quú maximè maturæſunt, fati scut, itém Oliuis maturissimis quiddam putredi niproximum ,pulcritudinem peculiaré addunt. Iam ſpicas deorſum le flecten tes, leonis ſupercilium , fpumam apro rú ex ore effluentem ,multa eiuſmodi alia fiquis ſeorſim confideret,intelliget ca ctGlongèabſuntà pulchritudine,tas men quia rebus naturalibus inhærent, & eas conſequuntur,co &ornatum his adferre , & delectare. Quam obrem qui attentiùs ea quæin rerum natura fi untmente contemplatus fuerit , nihil pon eleganter eſſe factum putabit , e tiam corum quæ appendicis loco res naturales conſequuntur . Itaque ue ros belluarum rictus haud minori cum uoluptate afpiciet, quàm quos picto res & figuli effingunt: uetulæ etiam & ſenis maturam ætatem , puerorúmque amori aptum florem caſtis oculis in tuebitur: multaque alia cernet, non a. pud omnes fidem inuenientia sed apud eos folùm , qui naturam , ciúſque opera rectè intelligit. HIPPOCRATES quummultos sanasset morbo, ipſemor bo deceffit. Chaldæi multis finem vitæ prædixerunt: post ipsos etiam fatum arripuit, Alexander, Pompeius, & C . Cesar, quum totas urbes toties deleuiſ ſent, commiſſó queprælio multa cqui. tum peditúmque millia cecidissent, i pli quoque tandem uita exceſſerunt. HERACLETUS, multa de natura rerum et incendio finem univerfo allaturo quum disputasset, ipse intercutc aqua distentus, ftercore bubulo oblitus mortem obijt. DEMOCRITUM pediculi, SOCRATES CICUTA absumplit. Quorſum hæc? Ingressus es vitam, navigasti, uc et us cs: discede. Quod fi abcundum esti n aliam vitam, equidem neibi quido erit quicquam dijs uacuum :lin omnissensus adiinet, non iam præterea dolores ac uoluptates ferēdæ, nec ferviendum vaſi tantò deteriori. Quinimo quod servit, id supererit, nimirum mens et genius: cum uas illud terra fit , & tabus.Proinde reli quum uitæ tépusne abſume de alijs co gitando, nifi ad commune aliquod co modum id referatur: alioquin enim in terim ab alio negotio detineberis.Nam cogitare,quid hic uelille agat, quamob rem , quid loquatur, quid cogitet, quid moliatur automnino de alijs effe folici tum, id uerò efficitur euagemur,neque obferuemus eam quæ principatú in no bis obtinet partem .Itaq;in ſerie cogita tionú declinanda eſt uanitas, omniúş maximè curiofitas, & malitia.Adſuefa cere teipfum debes, ut de his tantùm re bus cogites , de quibus fi quis te fubitò interroget quid nunc mediteris, confe ftim liberè pofsis refpondere , hocaut boc:nimirum ut ftatim conſtet,cogita tiones tuas eſſe ſimplices,placidas,con fentaneas animali fociato alijs , ac negligenti earum quæ ad uoluptatéoble & ationemúefaciant cogitationum ,ua cuo contentionis, inuidiæ, fufpitionis, aliorúmue, quæ ſi te animoagitaffefaf fus eſſes,pudore ſuffundi oportuiſſet. Virad hunc modum compoſitus, non eft cur diutiusexpectet nomen eius, qui in optimorum Gii numero. Est enim fa cerdos quasi et administer deum, uti turg eo, quod in ipso tamquam sacrario est positum. Id autem hominem præstat purum a voluptatibus, inviolatum à do Ioribus, intactum A LIBIDINE inſciumo mnis malitiem, certatorem maximi certaminis (ne scilicet ullus cum affectus de ijciat altem tinctum iustitia, ex animo contentum ijs quæ eveniunt, fató vedesti nata ipsi sunt, non sæpe, ncg niſi magna & publica necessitate urgente, de alio rum dictis, factis, aut cogitationibus meditantem. Solis enim iis quæ in ipso sunt ad agendum intentuseſt, ac quæ à fato universi ipsi sunt deſtinata, continenter conſiderat. Nam illa cenſet honeſta & pulcra: quæ uerò fibi obtigerunt, cabo Dacſſe perſuaſum habet: quippe uniufs cuius factű & constat aliunde, & fecü aliud adfert.Meminit etiam oia ratione prædica eſſe interſe cognata, eſſeſ ,ho minis naturæ cóueniens, ut omniūho minú curā gerat : exiſtimationem auté non ab omnibus hominibus petédam, sed ijs tantùm, qui naturæ conuenienter vivunt. Qui uerò aliter uiuunt, hi quales ſe domi & extra ædes,noctu at que interdiu gerant,ac quibus fc homi nibus admiſccant, perpetuò memoria tenet : ab his igitur laudariſe nihil cu rat, quum ij ne fibi quidem ipfis pro . bentur. Ne inuitus accedas ad agen dum, neque cotus humaniimmemor, neque non bene cogitata re, neque pa tere te retrahi:nein cogitationibustuis aftutiam ſecteris,nequeuerbolusfis ,ne que multa negocia ſuſcipias. Enimue ro Deus qui in te ineſt, præfit'tibi,ma ſculo animanti , ſeni, ciui,Romano, ac principi, qui ſeita comparauerit, ut ad abitum inſtructus expecter quando re ceptui ex hac uita canat. Neiuramen toindigeas, néue hominis alicuius teſti monio , Hilari eſto uultu, ac qui exter " A nominiſterio poſsit carere., eám quam alij ſuppeditent quietc. Rectú elle expe dit te, nó quilapſus ſe erigat. Si quid in uita humanainuenis potius iuſtitia ,uc ritate , temperantia , fortitudine,autfi quid aliud melius eſt, quàm animum tuum eſſe ſeipſo contentum, quatenus præſtat ut fecundum rectam rationem agas: ſi, inquam, in fato , & ijs quæ abfo tuo delectu tibi ſunt deſtinata inucnis aliquid his quæ dixi præſtabilius, caut fruaris toto animo incumbe.Sin co qui in te eft collocatus genio nihil præftan tius inuenis, qui & appetitus fibijpfi fubiecit, & uifa examinat, &à perſua fionibus ſenſuum ut dicebat Socrates scipsum abduxit, féque Dco ſubmißt et pro hominibus procurat: fi hoc inferiora omnia , & uiliora de prehendis, nulli alteri rei locum con cede, nefemel ad eam inclinans , poft hac proprium illum tuum bonum præ ferre omnibus rebus nequeas. Nes fas enim eft ullam aliam diuera generis rem bono rationcprædito, & effe &tri ci opponi : ut laudem popularem, principatum, divitias, voluptatum perceptionem: hæc omnia,quel parùm te iis accómodare uiſum fuerit,confeftim præualent et à recta uia abducunt. Tu uerò , inquam , fimpliciter ac liberè id quod eſt meliuselige,eiginhære :me lius autem eſt id quod conducit. At hocipſú fi ea ratione fitutile, quatenus métem habes, serva: lin quatenus es ani mal,repudia, & iudicium integrum reti ne. Id modo cura, ne quid , p tuo como do amplectaris, quòd pofsit aliquando tecompelleread fallendum fidem ,pro dendam uerecundiam, odium alicuius, fufpitiones, imprecandum, ſimulandú, appetendúmue aliquid, quod parietes & uelamenta degideret. Etenim quimé tiacgenio fuo, & facris uirtutis eius pri mas defert, is tragediam nullam exci tat,nongemet,nó ſolitudinis,nófrequé tiæ hominum indigebit: plerung uiuet nekappetés quicquā, neqfugiens.diú ne aparuo téporis {patio incluſa cor pori animautatur, nihil omnino cura bit:nam etli continuo migrandum fit ,i . ta facile diffoluétur ut fi ad aliam quan dam functionem uerecundè ac decen ter obeundam ſe conferat. Id unum fi per uniuerſam uitam obſerues,ut cogi caciones tuæ ſíper lint de ijs rebus quæ ad ſocietatem ciuilem nato animali, ei que rationis compoti cóueniant , nihil unquam in animodeprauatú, nihil puc rulentum , nihil contaminatú ,nihilſug . gillatú invenies Ncą uerò fatum uitá imperfectam adhuc abrūpit, quemadmo dum dici poſſet de tragãdo fabula no . dum peracta diſccdéte.)præterea nihil feruile, nihilfucatum ,nihil alligatum, nihil abſciſſum , nihil obnoxium ,nihil occulcum. Venerare facultatem cogita trice : in co.n.ſuntoía , ut pars cui prin cipatum obtinés nihil unquam animo concipiat quod fit naturæ inconueni ens, aut conſtitutionianimalis ratione præditi.Illiusautem conſtitutionis eſt munus,ut à temeritate alieni, coétui hu mano adiuncti, dijsý obſequentes li mus. Proinde omnibus proie & is, hæc modo pauca comprchende, acmemo ria tene, gunufquifq tantùm , id quod præſens eittemporis punctum uiuit: reliquum uitæ aut iam exactum ,autin in certo politum est. Exiguū ſanè tempus quod uiuit quil:perexiguus etiãter ræ, in quo uiuitur,angulus:etia longiſsi ma poſt obicú fama, cxiguum cft , quæ &ipſaper ſucceſsionem cóſeruaturho múculorum mox moriturorum , acne ſe quidem ipfos cognoſcentium , nedů cum ,quiiampridem fato conceſsit. Ad dendum his quæ commemoraui præce ptis unum , nempe eius quæquouis tem pore animo noftro cogitanda accidit rei, definitionem ſeu deſcriptioné effe faciendam,quo tecúipſe differerepof fis, quęnam lit eiusnuda &abomnibus alijs ſeparata natura , ac qualis: tú quod proprium eius nomen, quæ item appel laciones eorum , è quibus ipfa confiata eſt , & in quæ diſſoluet. Nihil enim per indeaninum magnitudine extollit, ac uia & uerè poſſe lingula,quæ in hacui. ta nobis occurrunt, examinare, atß eo modo ſemper intueri,utunà deprehen datur, cuinam uniuerli parti unuquod. que uſui ſit, quo in precio habendúra tione cum iplius.uniucra , cú hominis, 14 qui ded quiciuis cſt ſupremæ ciuitatis, ac cuius quaſi domus lunt reliquæ ciuitates . Quid eft, quibusex elementis concres tum . & quandiu fert natura cius ut per maneat id, quòd modò cogitatione ani momco attulit?quaporrò uirtuteadid uſus cric?ſcilicetmanſuetudine, ortitu dine, ueritate, fide, ſimplicitatc , ea qua totus ex me aprus fum , cęteris?de lingu lis ergo dicédum . Hoc divinitus venit, hoc faci connexio, casus $ aut fortuna attulit,hoc pfectum eſt à cognato mco & focio ,ignaro quidem quænam effet cius natura: ego autem & noui, & cofc cundum legem ſocietatis naturalem u toræquo animo,iuſté ,limulgin mc dijs rebus coniecturam facio ut unicui que ſuum ut dignum eſt tribuam. Sirea &am rationem fequens, id quodinſtat agas diligéter,firmiter,æquo animo,nc quc inftituto negotio alia admiſccas, ſcd cuum geniumGincerum conſerues, perinde ac fi iam is dimittendus tibieſ let, atqita ſi perſeucres nihil expectás, nihil fugiens,fed eo quod ſecúdum na turam agis, & heroica in dictis factiſas ueritate cótérus, bene uiues. Nemo aut eſt, quihocimpedire poſsit.Quéadmo dum mediciad ſubita malacuranda,in promptu ſua inſtrumenta habent, at ferramenta : fictu ad res diuinashuman nalý præcepta inſtructa habe,atos para ta :omniaş etiam minimaita age,ut mc mineris hæc duo genera interfe eflc có nexa. Neg enim rem ullam humanárc ctè perfeceris,niſi ſimulcam ad deosre feras:neq contrà. Non erra amplius. Non eniin commentarios leges tuos, neque priscorum ROMANORUM et græcorum acta, excerptas ex libris, quæ tibijpfi in ſenectute utenda repoſuiſti. Itaqad fi nem propera,uanaló (pes miſlas faciés, tibiipfi opem fer, fiquidé(dum licet )tui rationem habesullam . Neſciunt quàm multa fignificet uocabulum furari, ſerc re, emere,quieſcere, uidere quid sit agendum. Quorum hocnon oculis cernitur, ſed alio uiſu.Corporis ſuntſenſus, ani miappetitus, mentis praecepta. Imaginari aliquid , & uiſum concipere,nobis cu pecoribus eſt communc.Moueriappe titus explendi cauſa ,id quidé & belluis contingit et ANDROGYNIS et Phalaridi et NERONI. Porrò mentem ducé habere ad ea quæ apparent eſſe officij, corum etiá eſt, qui deos eſſe negant, qui patria deſerunt, qui fimulac fores clauſere,ni hil non turpe perpetrant. Si igitur reli qua his quæ dixinius omnibus funtcó munia,reliquum ſanè eft aliquid, quòd proprium lit uiri boni: nempe æquo a nimo ferre ca quęaccidunt,fatog eie ueniút, in pectore collocatum genium non commouere, neg turba uiſorum perturbare,ſed quietum ſeruare, cique decenter tanquam Deo obſequi: nihil à ueritate alienum loqui,nihil præteriu ftitiam agere. Quòd fi nemohominum credat eum fimpliciter, uerecundè , ac tranquillo animo uiuere, tamdnneque ſuccenſebit cuiquam, nez deflecter à femita ad finem uitæ ducente:ad quem finem uenire debet homo purus, quie tus, ac diffolutu facilis, & qui nulla ui coactus ultrò ſuo ſc faro accommodauerit. VAE in nobis ineſt pars prī cipatum tenens, ea di ſecun dum natura fe habeat, ita ad ea quæ accidunt comparata cit,ut quouis tépore facile ad id quod poſsibile eft &conceditur ſe adiungat. Neg.n. materiã aliquä fibi ppria ſubic ctá habet, fed ut cum exceptione qua dam'ad ea fertur, quę propofita ſunt,ita id quod offertur ei, pro materia sua accipit. Quemadmodúignis, quiijs quæ inciduntpręualet,à quibus exiguus ly chnus fuiffet extinctus: at copiofiori gnis ſtatim ea quæ ipG iniecta lunt, Gibi accommodat,ato conſumir,atg ex ijs ipfis augetur.Nihil agendú fruſtrà,ne aliter, quàm ſecundum contemplatio nem, qua artisdefectus compleatur.Se ceflus uulgò quærunt hominibus,rura, litto ra,montes: tu quoq ſoles maximè cadeliderare. Atqui id planèeft rudiữ &  & abiectæ ſortis hominum. Tibi qua cúq uiſum fuerit hora licet in teipſum recedere:nuſquam enim neg tranquil lior, nec maioris otii ſeceſsus homini datur, quàm adanimum ſuum : præſer cim ei qui intus ea habet, in quæ aſpici ens,ftatim ſummam animi tranquillita tem reperit :bene nimirumomnibus in tus compofitis.Cótinenter igitur te eò recipe,ac teipfum renoua. Breuia auté fint quædam , & elementorú uicem ob tinentia, quæ tibiſtatim occurrant, om nig te molcftia liberent, & remittent nihil indignè ferentem corum ad quæ reuerteris. Quid enim fersindignè ?nú hominüimprobitatem ?Reputa tecü,i ta eſle ſtatuendum,ratione prędita ani.. mantia unum effe alterius caulanatum : tum æquanimitatem parté cflciuftitiæ : item non ſua cos peccare uolütate:quá multi exercitisinimicitijs, odijs, ſuſpi tionibus, confoſsi perierunt,ac in cine remreda & ifunt:ita & deſinetádem . At molcftú tibi eft fatum tuum ? in mētem reuoca quomodo uniuerfi partes difti xerit uel prouidentia ,uel atomiillę,uel  quodcungillud fuit, ex quo demóftra tum eft,múduminſtar ciuitatis effe. At quæ corpus attingūt,ca te afficiūt?cogi ta intellectú, cu femel feipfum college rit,ſuamý uim perfpexerit non permi ſceri Spiritui leniter aut aſperè moto: præterea quæ de uoluptate & dolore auditu perceperis,repete, atqillis adfé tire. Sed forlitan gloriola teſolicitúte net?refpice quá celerrimè omnia obli uione delcantur,quod fit chaos infiniti utrinæ æui,quá inanis famæfonus, quã ta inconftantia &incertitudo opinio num humanarum, quàm arcto includā tur hæc omnia loco. Quippe punctum eſt terra,at huius iplius quàm perexi guus angulus habitai? quot uerò ſunt in ca ipſa, aut quales illi , qui.tefint lau daturi?Proindememento in hanc (quã demonſtraui,particulam tui recedere; idó præcipue cura,ne cupiditate traha ris,fedliber mane,relợita intuere,ut VIRUM UT HOMINEM UT CIVEM UT ANIMAL MORTALE conucnit. Cæterum ex his quæ tibi infpicienti quàm maximèin promptu cffe debcãt, duo funt:alterú ,gresipfæ animā non contingut , ſed extra eam fic matæ perſiſtunt.Perturbationes tátùm ex internis opinionib.naſcunt. Alterú, goía hæc quæ cernis, statim mutabun tur, nec crunt amplius perpetuog.com gita, quoriam eorú mutationib.ipfe in terfueris.Mundus quidérerum in uari as fubinde formas mutatio eſt, uita in o pinione confiftit. Si intelligentia eſſe pręditu ,hominibusnobis inter nos eſt comune, erit &ratio , ob quam illud no bis adeft cómunis: ſin hæc, etiam ratio quæ præcipit quid agendum fit,quido mittendum , communis eric omnium: proinde &lcx. Quód Gita habet,ciues ſumus: crgo ciuitatis alicuius partici pes. Quo reliquit, múdú ciuitatis loco esse: cuius.n. alius civitatis dicere possimus comunionem esse humano generi? utruita ex hac comuni civitate nobis eſſe capacib, intelligentiæ, utiratione, & legi, datú est, an aliunde? Utenim ter renæ mihià cesra aliqua particulæ sunt tributæ & humorab alio quodā elemento, ités ſpiritus,calor, & ignca natura, ſuis fingula à fótib. admcderiuataſūt, puso  nihil enim eſt ,quod non alicunde &uc niat , & aliquò abcat .) ita & intelligétia nobis aliunde data eſt . Mors , perinde acuita ,arcanum cftnaturæ opus , ex ijſ dem elemétis in eadé confufio & mix tio.Deniq non est eares, cuius pudere aliquem debeat: neque enim eſt contra caufas animalis mente donati, ncg có tra eius ſtructuræ rationem. Hæcita , hiſq de caufis fiút neceffariò. Quod qui fieri nolit ,perinde faciat , acli ficum ar borem fucco uelit carere . Omnino au tem memineris ,intra breuiſsimum tem lo pòſt , ne nomen quidem ucftrum ſu pererit. Tolle opinionem , fimul etiam de accepto damno abolebitur cogita tio :hacý ſublata , ipſum etiam danum non crit. Quod hominéſeipfo deterio rem efficere nó poteft , id neg uită eius pciorem reddit ,ncg lædit ,nec extrin Tecus , neg intrīſecus . Natura utilitatis hoc neccſſariò fccit , ut quicquid acci dat ,iufte accidat : quod, fi diligenter observes, ita haberc inuenies : atq hocdi co ,non tantùm caufarum consequentia ita fieri, fed etiam ratione iuſtitiæ , & ab aliquo, g tribuat unicuip dignita te ſuū . Itaq ,uti coepiſti,obferuare hoc perge, & quicquid facies, hoc modo a ge,adhibitabonitate , quo modo uerè bonus intelligitur:idgin omnibus tuis obſerua actionibus. Nonita tibi fentić dum eſt, quemadmodú is quiiniuriá fa cit , uel iple fétit,uelte cxiſtimare uult: ſed resipfæ quid uerè lint,perſpice.Sem per hçc duoin promptu habenda ſunt: alterú,utea tãtùm agas, quod ratio cius partis, quæregnum in te, & poteſtatem obtinetlegislatoris,te hortat, idý pros pter hominum utilitaté. Alterum , ut fi quis adfit, qui te corrigere, & ab aliqua opinionc deducereuelit, ſententiamu tes :modò ut ea mutatio fidé mereatur iuſtitiæ autpublicę utilitatis,aliúſuchu iufmodi cauſa, nóuoluptatisgloriæúc gratia facta eſſe. Ratione præditus es: cur ca non uteris ? quid enim prætcrca deſideras, ca ſuum obeuntc officium ? Scis te, utparté , interiturű in co, quod te produxit universo: imò potius facta mutationc allumcris ad mcntem cam quæcſtreliquarum origo.Multa thuris grana eidem aræ impolita, unum altes ro priusignicorripit, ſed nihil intereſt. Intra decimum diem, Deus uideberis ijs ,qui te nuncbeſtiam & fimiam putát: fiquidem ad præcepta &ueneratione métis reflectas,ne & cogites uitam tibi in immenſos annos prorogatum iri. Mors imminet, ergo dum vivis et licet ,bonus ut sis cura.Quantum otij lu cratur, quinon uidet quid proximus di catsagat, aut cogitet, ſed tantùm quid ipfe agat, curato ut hoc iuftú fit & fas. At quifecundum Agathonem fortèbo numno circunfpicit nigrosmores , fed propofitamlineam recto ,non uago cur fu tenet. Quifamæ poftmortem cupidi tate ducitur,non cogitat quenlibetco Tum, quiipfius mentionem fint facturi, mox ipfum etiam moriturum : deinde itidem eum quihuic ſuccedit, idő.co uſcs, dum omnis memoria per attoni. tosinanifama,extinctoſý homines p pagatu aboleatur. Quinetiam fingeim mortales fore eos, qui tui recordentur, immortalemg tuifutură memoriam .. quid ergoid adte,ne dicam ,mortuum ? quid ueluiuo tibilaus proderit?nifi ra tionecuiuſdam difpenfationis: omitte enim nunc naturæ munus, huic tempo ri non conucnicns et de quo fuo loco erit differendum . Omne quod pul chrum eſt,ex ſeipſo tale cſt , atquc in ſc ipſo abſoluitur ,nullámque ſui partem habetlaudem . Ideoid quod laudatur, co ipfoncß peius fit, neq melius. Idý ctiam deijs intelligiuolo, quęcómuni ori nominc pulcraaut bona dicuntur, ut quæ ex materia fiunt, &artis opera . Id autem quod rcuera bonum eft, noa magis alia quadam re opus adid, ut fit bonum, habet, quàm lex, ueritas, cran quillitas animi,uerecundia :quid horú uelli laudetur bonum fit, uel uitupera tione corrumpitur? Smaragdus quidem niſ laudetur, debonitate sua aliquid a mittit? quid aurum , ebur, purpura, cul ter , floſculus, arbuscula? Si permanent animi, quomodo cosab æterno capit aer : & quomodo terra abęuo uſquchu matorum corpora recipit? Quemad modum hîc corpora quum aliquádiu in terra delituere,mutantur,diſsipatag fpacium alijs cadaueribus præbent:fic animæ in aérem ſubuectę,quum aliquá diu ibiperftiterunt,mutantur, fundun turg, &ad menté omnium aliarum ge nitricem adiungunt , eağ ratione alijs aduentantibus locum cedunt. Hocrea fpóderi poteſt, pofito animas eſſc cor poribus ſuperſtites. Neq uerò tantùm multitudo ſepultorum eo modo cor porum confideranda eſt: ſed & corum quæ quotidie comeduntur à nobis, & beftijs animalium et fic quodammo do ſepeliuntur magno numero, acni hilominus fuppedicat ſpatium alijs, p pter corum in fanguinem , aërem , calo remgmutationem. Ratio autem ucri tatis conſtat, ſimateria & caufæ inqui rantur.Non eſt uagandum ,fed in omni appetitu iuſticię ratio habenda:omnig in cogitatione,certitudinis.Quicquid tibi,ô Naturarerum , conuenit, id omne mihiconuenit,nihilſ mihi uelimmatu rum eſt,ueltardú , quod tibi ſit tépeſti uum :oéid fructum meum puto , quod tuæ ferunthoræ .Ex tcfunt, &in una to omnia, ac in te unam omnia redeunt, Quidam dixit, ô chara Cecropis urbs. ego autem de tccur non dicam , ô cha ra Dei urbs ? Pauca age , inquit, fi tibi tranquillitas animi curæ eſt. Nihil co plus cnofert, quàm ea quæ neceffe eft, agere , & quæ ratio animalis ad ciui lem ſocietatem nati, ac quo ca modo dcligit. Id enim non modò rede a gendo, fed & paucaagendo animi tran quillitatem parit. Nam ex his, quæ plurima &agimus & loquimur,fi quis ca quæ non ſunt neceffaria tollat, is &maiori otio utetur, & pauciores per turbationes experietur. Itaque lingu . lis in rebus circunfpiciendum , ne quid non neceſſarium agamus: acnon mo dò actioncs, fed & cogitationes inuti les funt uitandæ. ita cnim fict, ut nea . &tiones quidem fuperuacaneæ conſe quantur.Facpericulum ,ut tibiboniui uita quadret:eius inquam ,qui fato fibi deſtinata æquo fert animo, contentus eſtiuſtis ſuis actibus, & placidoftatu:ui diſti illa ,hæc quoqueintuere.Non per turbatcipfum , fed fimplex efto.Si quis U MAwy peccat, fibijpfi peccat. Tibili quidbom ni obtigit, ab initio tibiid fato tuo fuit deſtinatum . Omnino autem breuis quum sit uita , curandum ut præſens tempus lucreris rectam rationem & iu ftitiam ſequutus: ac in remiſsionibus animi ſobrius fis . Aut compofitus eſt certo ordine mundus, aut cófuſo quæ ram rerum temerè mixtarum , mundus tamen . An quum in te ipſo poſsitor dolocum habere, uniuerſum nullo or dine conſtare dicemus? præſertim om nibus in co rebus ita digeſtis, diffufis, atque inter fe affectis . Mores nigri uocantur mores effæminati, duri , fe ri, pecorum aut infantium fimiles, ſto lidi,fucati,fcurriles,cauponarij,tyran nici. Si peregrinus in mūdo habetur, quæin mundo funt , non cognofcit: haud minus peregrinus erit , qui ea quæ fiunt:non cognofcit: exul, quiciuilem rationem fugit: cæcus, quiintelligen tiæ oculos clauſos habet: pauper, qui alio indiget , nequein fe habet omnia quæ ad uitam conducunt . Abſceſſus,ſiuculcus mundi-eſt , qui ſe à communis naturæ ratione feiungit ,in dignè ferendo ea quæ cueniunt:(caeń quæ te produxitnatura, omnia pfert.) fruſtum à ciuitate amputatum , quiſu am animam à communi & unica om nium ratione præditorum méte reſcin dit. Alius line toga philoſophatur,ali us abfg libro ,alius feminudus,panes ſe non haberè,& tamen ingſtere rectæ rationi dictitans,alius ſe diſciplinis ſuis non alere , & tamen perfeuerare profi tens.Tu artem quam didiciſti,dilige, in cağacquieſce. Reliquam vitæ partem : ita exige, ut q ex animo dijs omnia tua commiſeris,negullius te hominisuel ſeruum uel tyrannum conſtituas. CóGidera ſuerbigratia) quęVeſpaſia nitēpore euenerint: inuenies homines tum nuptias contraxiſſe, liberos aluiſ ſeægrotaſſe,diem ſuum obijffe, bellige raſſe ,feſtos dies egiſſe, negociatos fuif ſe,agricultură exercuiſſe,adulatosfuif ſc,præfractos ſe geſsiſle, suspicionibus indulgfie, inſidias feciſſe,quoſdami uo tis mortem uocaſſe,alios quiritatos de præſentererum ſtatu,amalle, theſauros d TU collegiſſe,conſulatus et regna expetiif fe.Nonne corum omnium uitaiå aboli ta eſt ?Rurfus ad ætatem Traiani defcé . de: invenies eadem omnia , atque cius quo ætatis hominesmortuoseſſe,eo dem modo ſi etiam reliquas ætates et gentes totas conlideres, uidebis quàm multicú ad ſummú cótendiſſent,paulò poſt ceciderint, & in elementa reſoluti fint.Præſertim uerò hi memoria recole di ſunt,quos ipfe cognouiſti uana affc Etantes , cum agere fecundum id ad quod natura erant facti , cizinhærere, &eo contenti effc ceflarent.Id quoque opuseftmeminiffe,in unaquauis actio necantum uerfandum ,quantum digni tas cius & modus permitcunt:ita fiet,ut non diutius quum par litreb.exiguisim moratus, nullú faſtidiú cótrahas. Vlita ta quondā uocabula, nuncinterpreta tionis loco funt: ita et corum quifuerút olim celeberrimi, nunc quodammodo ſunt glossæ, ut Camillus, Cæso,Volcſus, Leonnatus, cum paulò post SCIPIO, CATO, inde AUGUSTUS, ADRIANUS, ANTONINUS. Ist hus : omnia enim hæc euanida ſunt, & mox in fabulam abeunt: mox obliuio. nc oí a obruuntur.Ato hocdicodeijs, qui ad miraculü ufo clari erant : relig enim fimulato animam efflarunt, obscuri, & ignoti facti ſunt. Quáquá quid eſt omnino,cuius fit memoria lempiter ħa? Omnia füntinanía. Quid eftigitur, in qd Geſtudio incúbendú? Vnicú hoć, ut cogitationes antiuftæ , actiones ſo cietatem humanam refpiciant , ratio te punő fallat,itag lis alo affcctus,ut quæ cúqaccidút,catanğneceſſaria,nota,ab codé principio & fonte promanantia, approbes. Vltrò te fato ſubmitte, pate regid teijs quæ ei uiſum fuerit rebus destinare:oia in diéfunt, cum id recordat alicuius, túid, cius fit mentio. Nunquá nó con dera , oía permutationes fieri, neq uniuerſi naturæ quicquã eſſe ulita tius,ĝres mutare, & innouare. Omnia em quæ in natura ſubliſtűt,femina qua G ſunt corum , quæ cxillisſunt naſcitus ra ; eftautem nimium rudis hominis exi Ntimare ea cătùm ſemina cfTe, quæ in cer ram aut matricem deijciuntur. IM lam morieris,neque in pofterumeris is quinunces,fimplex, perturbationu uacuus,nihilſuſpicans extrinfecus tibi poffe damni afferri, omnib . benignus, prudentiam in eo tantum utiuſtè agas poſiram cenſens. Intuere aliorum principem partem, acquænam fugiant,quæ ſequanturpru dentes. Tuum quidem malum non eſt in al terius animo pofitú,neg in conuerlio neulla aut mutatione cæli. Vbi ergo? in opinione demalistua. Nihiligitur malum eſleiudica , & omniabenehabc bunt.Quòd li corpus, quod animo tuo eft proximum ,fecetur,uratur,ſuppure tur,putreſcat,tamen ea pars , quæ iudi care de his debet, quietaGt:hoceft,exi ftimet nihil effe neque bonum ,neque malum ,quod exæquo poteft bono at que malo accidere:nam quod'ei qui ſe cundum naturam uiuit, exæquo acci dit, id neque fecundum , neque contra naturam eft, Aſsiduè tecum cogita,mundum eſſe animal quoddam unum,unam naturā, uno animo præditum, quomodo om nia ad eius fenfum unicum rcferantur, omnia ab co unico appetitu mouétea gantur, ac omnes res omnium rerum caufæ aliqua ex parte fint,tum quis ca rum inter fe contextus & ordo. Animula es , quæ cadauer geſtat: ut Epictetus dicebat. His qin mutatione funt, nihil eſtma lum: utnequebonum quicquã his qui è mutatione exiftunt. Aeuum , fluctus quidam eſtrapidus carum quefiunt rerü :fimulcnim unum quodß & apparet &præterit, &aliud ſubſequitur, moxitem aliud ſuccedet. Omne quod nobis accidit , ita conſue tum eſt, & notum , ut roſa uere, fructus æftate. Eadem eſtratio morbi, mortis, calumniæ, inſdiarum, omniumg eorü, quæ ſtultis uel gaudium, uel triſtitiam afferunt. Quæ ſubſequuntur ſubinde, ca præcedentibus rite ſuccedunt.Non enim numerus tantum certus eft eorü, àfolaneceſsitate dependens:fed & có fentanca corum inter ſe colligatio. ac quemadmodum certo ordine resinter fe ſunt coaptatæ, ita quæ fiunt,non ſuc ccfsionem nudam ,fed mirabilemctiam quandam inter fe coniun &tionem etne ceſsitudinem oftendunt. Dictum Hera cleti ſemper eſtmemoria tenédum :ter ræmortem fcilicer eſſe aquam ,aquæ ac rem ,aêrisigné,idý uiciſsim . Eius quo quc exemplum recolendum ,quineſcie bet quorſum iter duceret, Et quod cum rationc quæ uniuerſum admini ſtrat, continenter conſuetudinem ha bentes , tamen ab ea diſcrepant: itag in quæ quotidie incidunt, ca noua ipfis & peregrina uidentur. Non tanquam ſi dormiremus, agendum nobis eſt & lo quendum: in fomnis enim tantum uide murnobissgere aut dicere. Nequeimi tádi ſunt nobis pueri , qà parentib.fuis * hucé,nudè, Gicutaccepimus,Quéadmo dulias tibi Dcorūdiceret, moriendum tibi aut cras, aut ad diētertiú : nojā ma gnopètertiú dié craftino pferres,nifi a nimielies oio abiectiſsimi.quátú emeſt interuallum? Eodēmodoiudicanon in magno effe fouédú difcrimine,poſtmil lenos acaonos, anuçrò çras decedas. Crebrò reputa , quàm multi medici fint mortui, qui ſæpenumero ægrotos inſpi cientes ſupercilia contraxerint : quot Mathematici, qui alijs exitú è uita præ dicédo ſeiactauerint:quotphilofophi, quide morte & immortalitate multa alleruiſſent:quotre bellica laudati, qui multos occiderant : quot tyranni, qui magna cum inſolentia tanquamimmor tales poteſtate luauſi crant:quot urbes mortuę( utita dică)ſunt,Helico, Pom peij,Herculanú,& aliæ innumeræ .Col lige etiam ,quos tuipſc noftiunum poſt alium ,cuius funus curaffet mortuos:Et quod heri fuit piſcis ,cras critfalfamen tum, aut cinis. Momentancum itagté pus à natura eſſe conſtitutum , conſide randum eft æquoſ animo è uita abeun dum:perinde ac Goliua maturitaté co ſecuca G decidat,arboréqipfam tulit ac genuit ,collaudet, & gratiasagat. Simi lis elle debespromontorij, adquod al fiduè fluctus alliduntur : ipſum autem perfiftit,utcunque undęæftuantes cir cùm ferátur.Diceret aliquis: infęlicem mé,cuiboçacciderit:quinimòfelicem t me, quihunc cafum fine dolore perfe ram , & nec præſentibus frangar, necfu tura extimeſcam.Nam unicuiqtaleąd potuit accidere: at non cuiuſuis craç,li ne dolore cum caſum excipere. Curigi tur illud potius infortunio, quam hoc felicitati adſcribis? autcuridinfelicita tem hominis appellas,in quo nihil mali palla eſt hominis natura? an uerò dam num tibi humanæ naturæ uideri poteſt id, quod non eſt contra uoluntatem naturæ çius? Quid ergo? Numcaſus ifte ef ficere poterit, quominusfis iuſtus, magnaminus,temperans,prudens, circum fpectus,tutus ab errore,uerecundus, li ber?autadimereomnino quicquam co rum ,quçhominis naturę funt propria? Proinde quoțies inciderit quicquam, quod ad dolorem te prouocet, recor dare huius præcepti,non illud informado nium eſſe appellandum ,fedfelicitati tri buendum , quòd id fortiter feran Eft quidem ignobile,præſenstamen ad contemnendam mortem auxilium , memoria repeterc eos, qui uitam inlon giſsimum extraxerc tempus. Quid enim hi 57 1 hi amplius consecuti sunt, quàmij, qui immaturamorte ſuntabrepti? Vtique ipfi etiam defuncti iacent , Cadicianus, Fabius,Iulianus,Lepidus, alijſ corum fimiles, q cúmultosex tulissent, ipfidein de elati sunt. Omninoeņexiguū eſt ſpa çium, időper quotlabores,inter quos, &quali in corpuſculo exigendum? Ne igiturmortem prore difficili accipe. In tuere cius quod retro eſtæui uaſtiratë, & eius quod reſtat ,immenſam longitu dinem :in tanto tempore quid præſtat is qui tres ætatcs, ci qui uixit triduum ? Semper breuiorem uiamingrederc: brevissima autem est ea, quamnatura præ ſcripſit. Itag in omni & fermone & a . & ioncidfectare, quòd eſtrosiſsimum . Hocpropoſitum laboribus ,militia, çura rei familiaris, & folicitudi neliberat. Anè cum grauatim à fom no ſurgis, in promptu tibi ſitcogitare,tead humanum opusfaciendum ſurgere.lca que ergo dices) grauatè acccdo ad agé da ea, quorum cauſa natusſum, ac pro ter quæ in huncueni mundum? scilicet in hocfactus, ut decumbesin lectome ipsum calefaciam? Atquihoc iucundi dius eft. Ergónead uoluptatem natus es, nonad agendum ?nonuides plantu las, palierculos, formicas,arcaneas, a pes, lingula hæc luo intenta officio : tu uerò ea quæ funt hominis obire recu ſas, nc ad id te confers, quod naturæ tuæ conuenit? At uerò quiete opus eſt. Sane: fed & huic ,modü ftatuit natura, pinde,utedédi,bibédig: atqui tu ultra modú &laq gfatis é, pcedis:n reb.uc rò agedis intro moduſubliſtis. Fit hoc cò , qateipſum nó diligis:alioqn eń & natura tua, cius voluntate diligeres.Et cnim alij qui ſuas artes amāt, operibus fuis ita incumbunt, ut neque balneorü nog cibi curá habeant. Tu naturm tua non tanti facis, quanti aut tornator, aut histrio suam artem, quanti avarus argentum , &inanis gloriæ cupidus glo riolam. Hi enim quarum rerum ftudio tenentur,dum eas augere poſsint, cibų &fomnum poftponunt. At tibi actio nes ad ſocietatem ſpectanteshumanam uiliores uidentur', 'minorig opera di gnæ ?Quàm facile eft omnem cogitatio nem quæ animo aut perturbationem af ferat,aut nóconueniat, reijcere, & delc re, ſtatimg effc in fumma animi tran quillitate? Omnem fermonem & actionemque fit fecundum naturam, dignam te iudi . ca:nca te auertat ab ijs reprehenfioare fermones aliorum ca consequentes. Sed fi quid fa & o dictúue pulchrumeft,idte neindignum putes. Alij cnim aliam ra fionem ,alios appetitus fequuntur :ad quos tibi non eit refpiciendum ,fed re Cta via cò pergendum,quò &tua,& comunis omnium ducitnatura: utriuf que autem una eademg eſtuia per ca quæ funt fecundumnaturam progre: dior,donec morte finiam: expirans qui dem eam, quá inſpiro quotidie animā, cadens uerò in terram, ex qua &femen meum pater, & fanguinem mater,&lac nutrix collegit: quæmeterratot iam an nos'quotidie alit cibo ac potu, quamc calcantem fert, ac totmodisipla abu tentem. Auſteritatem tuam ut admirêturno est. Sit fanè, at multa alia ad quæ tc non eflenatura aptum, dicere non po tes.Eaigitur profert, quętota funtin te: integritatem, grauitatem ,laborum tole rantiam, uoluptatum abftinentiam ,ani mum ſua ſorte contentum, pauca defi derantem ,placidum ,liberum, àcurioſi tate & nugis alienum, altitudine prædi tum.Nonſentis,quam multa poſsisprę ftare, de quibusnulla eſt excufatio na turæ ad ea non aptæ : & taméadhucfpó te tua inferius manes. Quid? Ante natura parum bene in ſtructa cogit indigna ri,cúctari, adulari, corpuſculum tuum incuſare, tuam ſortem improbare,leuć eſſe, animouagari:nonmehercle,fed his omnibus iampridem ut liberareris malis,in tua fuit poteſtate.Hoc tantum erat uitij, quod tardioris ingenij, ac qui non facilè affequeretur ea quæ traderé tur,exiſtimari poteras: Sed & hoc exer citationeerat corrigendum ,neſubinde cogitares de tua tarditate, néue ca de lectateris. Eorum qui bene alijs faciút,triaſune genera:primum corum , quiſtatim exhi bito beneficio , ſtatim etiam quam ſint meriti gratiam reputant. Alterum co rum , quiid quidem non faciunt,ta conſcij quid fecerint,debitorem ſeiam habere cogitant.Tertij quodammodò ne hocipfum quidem quod fecere,no runt:uiti ſimiles, quæ uuam cum protu lit , ut femel ſuum deditfructum , nihil præterea quærit. Equus ficucurrit , canis fi uenatus eſt,apis fi mel fecit ,fatis eſt. Homo auté l benè fecit,non reuocatur, ſed ad ali ud negocium tranſit, quemadmodum uitis,ut rurſum fuo tempore uuam producat . In his nc igitur eſſe debent, quæ aliquomodo fine conſequentiaid faciunt?equidem .ſed hocipſum debet confequi. Propriū cnim est inquit animalis lege sociati, ut sentiatle et societatis causa egisse &ut velit omninoid eû qui ſocietatis eft ciuſdem, sentire. Verum clt quod dicis: quod autem nunc dici tur, excipe . Proptereà ex eorum numc ro eris,quorüantè feci mentionem. Hi enim uerifimilitudine quadam proba bili abducuntur. Quòdh intelligereuis quidná litid, quod diximus, netimcas, ne obid actio aliqua ſocietati hominü inferuiés tibi Gt omittêda.Athenienlių erathocuotu:plue,pluuiã ò chare lu piterin agros & cáposAthenienſes de mitte. Enimuerò aut nihil eft optandū, aut omnino fimpliciter, & liberalitcr. Quod dicimus Aeſculapium huice quitationé , illi lotioné in frigida,alteri utnudispedib.ambulet, iniúxiſſe :nihil aliud eft cú dicim°, natura uniuerfi huic hoimorbú, defectú autamiſsionémen brialicui'impofuit.Náutilliccum dici mus iniunxiſſe,intelligit.AEſculapium HUO O unam rem ad alterāordinafic, uerbigra tia ,camrem reſpectum habere ad fanita té:ica hicidqunicuiqaccidec, rationé babet & rcfpectumad fatū.Ita enim hęc nobis accidere & cógruere dicimus, ut opificesquadratoslapides in muris aut Pyramidibus extruendis congruere a lerunt , quippe certa cos collocation ne inter ſe componétes. Omnino enim una quædam eſt harmonia: atg ut uni uerG huius corpus ex omnib.corporib . eſt compactum , ita ex omnib.caufis Fa tum ſuprema cauſa conſtat.Id quod di co,etiam rudiſsimi intelligút homiues: dicút enim ,hocſors cius tulit,hoceica ratimpolitú.Accipiamusergo hæcita, utilla quæ Acſculapius impofuit: nā & in illis multa ſunt aſpera, quæ tamen fpc ſanitatis ferimus.Tibi crgò corú quęcó munis naturatibiiniúxerit perfectio ,fi milis ſanitati iudicet:atqita æquo ſuſci peanimo oía quæ fiút( ctiāli gd durius uidcat. ) quoniã adidducunt, quod ra tioncmúdić fanicas,népeadfelicitaté. Nihileſ accidiſſet tibi, nifi in réuniuer Gita ect:ncq cnim una quæuis natura i  quicquam fert,ſed id modò, quod re fpcctum adid quod ab ea adminiſtratur, habcat. Quare duæ ſunt rationes,cur ea que tibicueniunt, çquodebeas animoferre. Vna, quiaſors tua ficferebat, & tibi de ſtinata erant ab antiquiſsimacauſa fata li habentiaad te certum reſpectum.Al teras quòd ca faciunt adprofectum , & perfe &tionem , ac permanentiam eius, quòduniuerfo praecſt. Totum enim muti latur,fi etianminimam partem conti nuitatis & coherentieutmembrorum , ita etiamcaufarum difcindas. Id autem quantum intc eft,facis , quotiesea quæ tibi obtigerút,moleſtèfers,ac quodam modo tollis. Faftidire,animumdeſpondere,ac de terrerinódebes, fi nó ubiq tibi fuccef ſusrefpondet,fecundum recta præcep ta agere fingula cupienti :ſed fruſtratus conatu,cum redintegrare, & æquo ani mopleraq humanaferre : neque debet te eius,ad quod redis ,poenitere.Nequc tibi eſt ad philofophiam tanquam ad pædagogum redeundum :Sed utſolent qui ex oculis laborant,ad ſpongiam & ouum, alij ad cataplaſma &perfufioné confugere.Ita enim nó opuserit tibi o. ſtendi,utrectęrationiobedias:ſed in ca ipſe acquieſces. Memento philofophiam ca tantum poſcere, quæ natura etiam tua exigit: tu aút aliud quippiam uolebas.Vtrum uc rò horum blandius'eft an nonhocpa eto dccipit uoluptas ? Vide gratior no gt magnamitas, libertas, simplicitas,æ quanimitas, fanctitas? Quid enim ipſa prudentia Git acceptius,ubicùm animo tuoreputes facultatem quæ ſcientiam certam , & certis conſequentijs nixam habet,nuſquamlabi, & ubiq ſucceſſum habere? Res quidem ipfæ in tanta quodam modo uerſantur obfcuritate, ut philo fophorú plerifcb & ijs no ignobilibus, omnino pcipipoſſe nihil uifum fit:Stoi ci tamé poflc percipi, ſed planè difficul ter,cenſucrunt.Eft omnis noſtra aſſé lo talis, utfalli & mutati poſsit:quis c nim ſenó pofle errare dixerit ? Trasfer itag cogitationes ad ipfas res fubice  & as ,acuide quàm breues , uilesø Gne, quæ ctiam à cinædo, fcorto ,autprædo ne poſsint teneri.Inde tranG ad mores corum, quibuscum uitam degis , inter quos uix eſt etiam gratiofifsimum per ferrc,ne dicam , quod uix ſeipſum quis perpeti pofsit. Tanta igitur in caligigine, sordibus, tātoo rerum, temporis, motuumý, & rerum quæ mouentur flu xu , non uideo quid lit effe in honore, aut obferuantia hominum. Contrà præ ftat feipfum confirmare, acmortemræ quo animo expectare,ncqmoram indi gnè ferre, fed in his modo acquieſcere duobus: uno, quòd nihil mihi accidet, quod nó fitſecundum naturam uniuer fi:alterum , quòd licet mihi, nihil agere quod contra Deum geniumg fit meú demo em ad hocme cópellere poteft. Subinde hoc teipſuminterroga: quam adrem nunc utoranimo meo? at & exa mina teipfum :ea pars, quam principem uocant, quomodo núc habet?cuiusaío prçditus ſum ? num pueri, num ADOESCENTIS, num mulierculæ , num tyranni, num iumenti,num feræ? Qualia fint illa, quæ uulgò bona ha bentur, etiam hinc euidens fiat.Sienim animo concipias ca quæ ſunt reipfa bo na, utprudentia, ut temperantia,utiu fticia ,ut fortitudo,hisiam antè reputa tis, nihil porrò audies nominari bonú, quod nófub hæc referatur. Quæ uerò uulgus hominum bona putat ,ca qui an tè mente conceperunt,fimulatq nomi nari audiút,perfacilè accipiút,perinde ut liquidà Comico appolice di& ú eft. Hæc eſt fere uulgi de differentia bo norum opinatio :alioquin enim haud co peruentum eſſet, ut uera bona auer ſarent,diuitiarū aút, voluptatis aut glo riæ métionéita admitterét, utſcitè ato urbanè dicta.Progredere ergò,acinter roga,(intne in honore habendaet in bo nis ducenda hæc, quæ fi animo tuoima ginatus fueris,aptè quis dicere poſsit, cum quiiſta poſsideat,propterhác co piam ncubi quidem cacec habere. Ex forma & materia conſto : ho. rum uerò neutrum in nihil uertetur, ut neque ex nihilo extitit. Ergo om nis mci pars permutationem redigetur in aliquam mundi partem, atqhæcrur fus in aliam uniuerli portioné tranſibir, ido ad infinitum uſ. Huiufmodi auté mutatione & ipfe extici, & parétes mei, ide in infinitum uſo retrò eunti licet dicere:quãquam certis alioquin circui tibusmundusadminiftratur. Ratio et rationalis ars, facultates funt abiipfæ ſufficientes,fuisg operib. Progrediunturàſuo principio, acper gunt ad finem propoſitum :habent a & tiones earum à uiæ cuiinGftuntilleno men apud gręcos, utfine netoptásons:nos rectas effectiones dicere poſſumus.Ho rum nihil de homine dicipoteſt,neque enim ei conucnit, ea ratione, qua homo eft : Non hæchomo,ncgiplius natura profitetur:non eſt ca in humana natura perfectio.Proindein externis rebusnc quaquam erit finis homini cóftitutus, nepid bonum , quod finem illumabfol uit:Alioquin hominis partes non fuif ſét,ut eosdeſpiceret,nem laudedignus, quiſeita parat,utillis non indigeat:no que qui illis rebus abſtinct, bonus dici mercrctur, fiquidem cæ bona ellent Nunc uerò tanto quiſ melioreſt, quá to magisſeipſum ab illis rebusabſtinet. Talis erit intellectus tuus, qualia ſunt ca,de quibus ſubinde cogitas : nam à ui bis fcu cogitationibus illis animus im buitur.Inficeigitur eum adliduitatehu iuſmodi cogitationum , qualesſunt:ubi cunqueuiuere,ibietiam bene uiuere li cet :uiuere autem licet in aula, ergo etiã bene uïvere licet in aula. ltem alicuius rei caufa fingula ſunt facta cui ucrò gra tia unúquodgfa & ú eft,adid fert, ado aút fert in eo finis eius é poſitus: ubi ue ro finis ,ibi ét bonú unicuiq. Ergo finis animanti ratione prędito ppolituseft, focictas, natos cnim nos effe ad eājiam pridem eft demonſtratum . An uerò non euidens eſt, deteriora præstantiorum , rurſumýex his unum alterius caufa esse. Præftantuerò inani mis animata,atq inter hæcipfa, ca quæ rationem habent. Ioſani eſt,ſectari impoſsibilia. At fic ri non poteft,quinmaliſuomore agāt. Nihil cuiquam accidit,nifi ita Natu rá deſtinarit. Id quod alius iniquè fert, e  bas wal wide ولا bus alteri accidit, qui fiue ignorationc cius caſus,ſineut magnanimitatem oftédat, cóftantiā tuetur,atqillæſus manet.Ini quú cſtigitur admittere,utinſcitia et o pinio prudētiäſupent. Etenim res ipfæ animúnequaqattingunt, non intrātad eu,ncg mouere, ncq uertere poffunt. Solusipſe ſeipſum ciet, ac quale iudicia umtulerit, talia ea quæ accidere, fiunt. Alia róeſumma nobis eſt necefsitu . do cũ hoíe cóftituta,quaeibenefacere, eumý ferre iubemur :cú aúcimpedire conant noſtras actiones , nó magis ad nos attinet, ộ Sol, uétus:beſtiæ. Ato hi qdé impedire effectú aliquãdo pofsint: animi uero appetitioné, & affectum no qucunt,quiahæcexceptioné habét , & conuerlionem.Ná omneid quodimpe dimento fuit effectioni,id animus ad ca quæ præcellerút,cóuertit, atßcomo do id , quod instituto operi, uiccoßinitę obftitit,ei iam confert aliquid . Id quodin múdo eft præftantiſsimū, cole. Eit aútid, qd oíbusreb.utitur,oía gubernat. Similiterid quoßhonora, q in te elt primú: nimirú illi alteri cogna tum, cesa üles DO Pe quatum ,quòd & cæteris quæ in teſuntom nibus utitur, & tuam uitam regit. Quod civitati nullum affert detri mentum ,idnc ciui quidé nocet. Hæcre gula recoléda tibič, quotieſcúq telæ ſum aliquâ eſſe cogitas.Sin ciuitas dam no affecta cft, ei qui ítulit,ſuccéferenó debes. Quid neglectú eft?Sæpenumero códdera, ệ celeriter oía quæ & funt & fi unt, abripiãtur & cuanefcát. Etenim & ipfęnaturę amnisinſtarin adſiduo funt fluxu , & cffectiones cótinétib.mutatio nibus obnoxiæ , & cauſarúinfinitæ ſunt uices:denią nihilferè perſiat, aut ſui fi mile durat.lā & pręteriti, & uenturiçuí infinita é, in qua oſaabolentur,uaftitas, Quî ergo ſtultitiæ nó damnet, qin hoc tā cxiguo téporis articulo ſupbit,appe tit,autmoleſtia fe affectú quiritaf. Universæ rerum naturam recordare, cuiusmini . mã parté tenes: totius zui,cui' breue & mométaneútibi éattributúſpacium :fa ti , cuius perexigua ad te portio ptinet . Peccatalius qs aduerſummc uiderit, ſuā habet affectioné, ſuum a &um. Ego in præſentia id habeo, quod me habere i t c & C a & 1 uult cómunis natura: agogid qd'age remeiubetmea natura . Pars animitui princeps neinucrtatur ullo uelleui uel alpero carnis motu , neg admittat per fuafones quçinmembrisoriuntur, Sed circumſcribatcas. Quòd fi ex ratione alterius conſenſusad intelligentiam ef ferútur,nimirum quatennsea cum cor pore copulata eft, tum quidem ſenſui, cum is a natura proficiſcatur, reluctan dum non eft: opinioniautem mali aut . boniadfentiremensnon debet. Viuendum eſt cum dijs.Vitam ucrò cum dijs agit, qui continenterijs ſuum animum oftendit probātem ea quę ipli fatum tribuit, agentemg ea quægenio placerent: quem lupiterſuæ quandam particulā naturæ unicuiæ prælidé, du coşdedit, nimirú mente atæ rationé. Neiraſcaris ei qui hircú olet, autcui aia fætet; nihil, n.ad teidcmaliredibit, Alæ iplius, & osita ſunt affecta,utne ceflc ùthæcmala conſequi, Rationc,inquis, præditus eſt homo, ac fi scrutari uclit , intelligere poteſt quainre delinquat.Benereshabet. Proinde tu, qui & ipfe præditus es ratione, mentem eiustuæ mentis motu cxcita, doce, commonefac: li enim obtempe rat tibi, fanabis eum , negira opuserit. Nonita hic uiuendú eſt tibi,ut Tra gedo autſcorto qui egrediés uiuere co gitat. Quòd li tibinon cóccditur,tunc uita excedere, ita quidé,ut qnihil mali patiatur,acfumiinitar abeat, Quid hoc rei eſſeputas? Dum uerò nihilme tale abducit,liber permaneo ,neq mequif quam prohibet agere ,ut uolo, uolo au. tem ,ut naturæ animantis ratione predi ti, & ad certum nati conuenit, Mens quæ mundum gubernat, ſocic tatisrationcm habuit:itag & inferiora præftantiorumcaufa effecit,& pręſtan tiorum unum alteri ſubdidit. Videt , ut ſubiecerit , cóiunxerit,ac unicuiq ſecu dú dignitaté ſuú tribuerit,ea quęlunt pręſtátiſsima,mutuo cófenfu deuíxerit. Quomodo uſus es hactenus dijs, pa rentibus, fratrib. uxore, liberis, docto ribus, alumnis,amicis,familiaribus, fa mulis? an in huncuſquediem in nemi nem horrcū uerbóuefuiſti iniurius! Reminiſcere étą ſupaueris , actolc raueris : tum fabulam uitæ tibiiam pera tam,teş tuo miniſterio defunctum ef ſe. Quàm multa uidiſti pulcra? quot uo luptates quotdolores deſpexiſti? quot peruerfis hominib. æquúte præbuiſti? Quamobré animi artis & diſciplinæ uacuiarte & fcientia præditum confun dunt? quem uerò animum arte & ſcien tia præditum uocas?cum ,qui principi um & finem cognoſcet,et mentem , quç per uniuerfam rerum natură penetrat, acper omnes fæculorum curſus defini tos atq; ftatosmundum gubernat. lãiá cinis eris, &oſſa nuda, nihil öter nomé(liquidéid ſupererit) tui reſtabit. Noméautnihil eftõſonitus. Atea quæ magniin uita precij habent,uana ſunt, putrida, cxigua, atą inſtar catellorum mordicantiŭ, aut pucrorü inquietorů, quimodò rident,mox plorant. Cæterű fides,pudor,iufticia, & ueritas. Climatib . tcrræ cæld petiere relictis. Quid ergò reſtat, te hîc detineat? fen Gliane tam fluxa, torý mutationib . cxpofita ?an ſenſus, obſcuri, & qui facilè decipiantur?animula ipſa, quæ cft ex halatio à ſanguine? gloria inter huiuf modi homines, inanis illa ? Quid ergo aliud operiris,niſiuelextinctionem ,uel translationem ,idý æquo animo?Quid interim dum eam occafio adducit ,tibi fuffi ciet? Quid aliud, quàm deos uene rari &collaudare,hominibus beneface re,eos &ferre, & ijs abftinere:quæ cx tra tuæ carunculæ & animulæ ſunt po fata fines,ea meminiſſenex poſſeſsióis, nco poteſtatis tuæ eſſe? Semper potcs uti ſecundisſucceſsibus, Gredtæ uiæ in Giſtere uis,duo hæc obferuare, quæ di uinæ menti communia funtcum homi nis , omnisg ratione præditi aſalis ani mo: unum, non poſle te ab alio impedi ri:alterum ,iniuſta uoluntate & actione | bonum eſſe collocatum, cumý ad fino efle appetitionesdirigendas: Si hocneg mca fitmalicia,ncqactio eſtàmeaproficiſcensmalicia:nequcco munitatidāno eſt, quid folicitus deco ſum ?querò dānúě cómunis focictatis ? Non debemus nos cogitationib.om ninoabripiédos præbere, fed opitulari quátum eius fieri poteſt, & dignum eſt, etiam li in medio lit defectus:ncqueid pro damno ducere.ca enim cófuetudo mala eſt. Sed quemadmodū ſenex di ſcedens rhombum alumni poſcebat, memorrhombú cffc.ita etiam hic: quo niam bonú aliquid fiatin roſtris. Heus homo,oblitus es, adhæc lint? lanè: Sed ca,in quibushiſtudiú ponát.Propterea tu quoqs ſtultus es fa & us? Aliquando uteung relictus,factusſum felix. Felici tas auteſt, utbonam tibiipfifortem uendices : id eft ,boni motus ani mi,bonæ appetitiones,bonæ actiones. Aturauniuerfi ſuo guberna tori obedies eft, acbene có polita: quæ uerò cam guber nat mens,nulláin ſeipſa ha betmalè agendicauſam : quippenihilei ineft uitij,nc peccat,nc ab ea quic quam læditur: omnia uerò fecundum cam fiuntatßperficiuntur. Nullo ponein diſcrimine,algenſne, an calens, dormiturićsan ſomni fatur, malian benè audiens,moriens an aliud quid agens id facias , quod te decet: quando mors etiã una eft carum a & tio num, quæ ad uitam referuntur. Sufficit igitur ea etiam imminente, id quodin ſtat,benè collocare. Intrò refpice.Nullius rei nequepro pria qualitas,neqid quod cidebetur, te fallat. Omnia quæſubiccta ſunt,celerrimè mutantur, & autin halitum refoluun tur, fiquidem fit compacta corum ſub ftantia,aut diſsipantur. Mens uniuerli gubernatrixſcit quó ſe habeat, quid agat, & quá habeatma teriam ſubiectam . Vlcilcédi ratio optima eſt,ne ſimilis fias cius, qui iniuriam fecit. Unohocte oblecta, inguno hocac. Quieſce, ut ab una ſocietatis humanæ tuendęcauſa ſuſcepta actione,ad aliam tranfeas, dei memor. Princeps hominis pars eſt ea, quæſe ipfam excitat atą cict, feğz talem, qualem vult,efficit,præſtatý ut ea quæ eue niunt talia, qualiaipſa uult , fibi uidean tur. 04 Omnia fecundú naturā uniuerG fiúc: negenim poſſunt fieri fecundú ali ali quam ,ſiue extrinfecus circumdantem, fiue incluſam ,fiue foris ſuſpenſam . Vniuerſum aut confufio quædam eſt, & cótextus fortuitus rerum iterum àſé diuellendarum & diſsipandarú: aut unitionc ordine , & prudétia conſtat. Si prius illud uerum eſt, quid eft,curcu pia inani huic colluuiei & mixeuræim. morari? quid aliud expetendum ,quàm ut in terram utcungredigar? quid per turbor?quicquid egero,tamen difsipa tio mc corripiet. Sin altero mó res ha bet, uencroreú, animoſ conftári ſum , & gubernantimundum confido . Cum te rerum præſentium ſtatus nó nihil perturbat,celeriterad teredi,neg ultràquàm neceſſe é , à modoeius quá inftituiſti cantilenæ difcede. Nam co fa cilius harmoniam tueberis, ſi continen ter ad eam reuertaris. Sitibi Amul &nouerca, & mater effet, illam quidem coleres, &tamen crebrò ad matrem te recipercs. Eadem eſtribi ratio aulę & PHILOSOPHIæ . Quarc ad hanc sæpe numero revertere, & in hacac quiefce, quæ efficit,ut &res aulicæ tibi tolerabiles uidcantur, & tu duminijs ucrſaris,ferri queas. Quid cogitandum est de cibis & id genus rebus ? hoc eſſe piſcis ca dauer , illud auis , aut porci: item Fa lernum , ſuccum eflc exiguum uuulz purpuram capillos elle ouiculæ, modi. co teſtudinis fanguine imbutos: tum coitum ,inteſtini parui affrictioné, mu ciğ excretionem non fine cóuulấone. Cogitationes hæ præclarę ſunt: nam ré ipfam attingunt,acpertranſeüt, ut qua lis cafit ,cerni poſsit.His per omnem ui tam utendum eft:aclicubiresquàmma ximè uidetur comprobatu digna,tegu mentis cſt nudanda, ut & eius in cófpe dum ueniat uilitas,& id,quo fe oftenta bat, ei adimai. Etenim fucus impoſtor eſt callidiſsimus,ac tummaximèin frau dem inducit,cum quis maximèfe res ſe rias & dignas tractare putat. Videigit, quid de Xenocrate ipſo Crates dicat: Pleraq, inquit,corum , quæ uulgus ad miratur , fi fub habitu aunatura conti nerent, ad latiſsimè patentia genera ré uocabat,utlapides,ut ligna,ficus, uites, oleas.Quęſubarctiorib.aliquanto , ad animata ,utgreges,arméta.Si qua paulò plº haberćt gratiæ ,hęcad eareducebac a cópræhédútur fub ala róe prędita,nó quidé uniuerſali,ſed quatenus artes tra ctat , aut alias facultates: aut ipſa per fc . au L fcæſtimabat, ut:quidnam cſſct,poſside remultamancipia.Qui uerò animūra •• tione præditum cû omnibus ſuis facul tatibus,ciuilis coetus ſtudio uenerat, reliquarum is rerum nullam curat. Sed omnibus poſtpoſitisſuum animum ita affectum ,atgita fe mouentem, ut ratio ni & ciuili ſocietati cögruit,conſeruat: ijs quiſunt eiufdem generis , utiden præftent,auxilio eſt. Quædam iam fiút, quædā mox exiſtent, quin &cius quod fic, pars iam nuncaliqua euanuit. flu xus, & alterationes continenter mundű renouất : quemadmodum infinitum æ uum temporis adſiduolapſu nouü ſub indereddit.In hocita @ flumine quifná ca quæ præterferút, ac quibusinfiftere nonpoſsit, honore aliquo dignetur?is quidem perinde lit ,acli quis unum de præteruolátibus paſſerculis diligerein cipiat,atisiamè conſpectu cius abica rit.Itafe & uita uniufcuiufque hominis habet,ut halitus a fanguine ſublatus,& aër inſpiratus. Quale.n.eft quod femel animāattrahimus, & efflamus,id quod identidemfacimus,tale ctiam eſt , quòd f ac ad all a . ba omnem reſpirádi facultatem , quam hc ri aut nudius tertius nati accepimus, eò reddimus unde accepimus.Quod uege tamurmoreſtirpium ,reſpiramusmore pecudú, & ferarú , quòduitsafficimur, quòd appetitionis cauſa mouemur, q congregamur, quòd nutrimur,omnia hæcnonmaioriſunt in pretio ponéda, quàm quòd excernimus cibirecremé ta. Quid igitur honore dignü est? num plauſus?nequaquá. Ergo nelaus quidé populi,quænihil eft aliud quãplauſus 1 nguarú.Sublata igit etiâ gloriola, quid reſtat, quod ſuſpiciamus & ueneremur? Equidéhoccenſeo, ut quemadmodú fa ciiinſtructiś à natura fumus,ita mouca mur.Eò nos etiam diligentia opificum , &artes ducût. Ois.n. ars huc collimat, utid quod paratú eft,aptü fit & idoneu adopus , cuius operis cauſa paratú eft. Idé querit uinitor,idé qui pullos equo rum domat,idé qui canes educat. Ergo &inſtitutio primęætatis & doctrina co contédunt:isý finiseſt,quem expetere debeas. Húc córecutus,nihileft in alijs rebus quod ſis tibi quæliturus. Quòd fi pergas ES pergas alia eciã expetere , nec liber cris, neg tibi ſufficies ipſe, negeris affectuú uacuus:neceſſariò.n.inuidebis,æmula beris ,liniſtra ſuſpicaberisdehis , quiilla tibi adimere poſsúc ,infidiaberis ijs , qui ? id quodmagni fit à tepoſsidét.Oino.n. necesse est cu esse aio pturbato, qiſta de fiderat :fępe etiá deos incufare . Quiuc rò mente ſuam reuereturato colitis & fibi ip , probabitur, & cum cætu homi num bencei conueniet , cúmque dijs conſentier ,id eft,laudabit quæcunque ij diftribuunt & ordinauerunt. Infrà , ſuper , atque circum te motus ſunt elc métorum . Motus uerò uirtutisin eorú nullo eft,fed diuiniore quadá , & adin telligendum difficili'uia procedit . Vide quid aganthomines. Eos qui eodem cú iplis uiuúttépore, laudare nolūt:ipfi uerò à pofteritate laudari magnü exiſti mant :nimirúabijs quos ne uiderunt, neq uidebūtunqua.Id uerò haud mul tò aliud eft, quàm ſi dolerét , non à prio ris etiá ætatishominib. felaudatos esse. Non, li quid allegintelligétia tua neqs , id daullopoile apprehendi homine exiſti 0 co ert as f 2ti ma: Sed quicquid homo poreft, quic quid ei conuenit, id & tibiconcediiu dica.ln palæſtra fi quis unguibus aduer farium laniauit,autcapiteincuſſo ferijt, nonindignamur, ncq;offendinjur,nco inſidiarum fufpectum habemus : caue mus quidem nobis abeo ,non ut abho ſte, ncquc Gniſtrum quid de eo ſuſpica mur,tantùm placidè cum declinamus. Id fieri debetetiam in reliquis uitæ partibus, ucidem de alijsſentianus, quod de ijs, cum quibus collucamur:poflu muscnim (utdixi) citra fufpitionem & odiűabijscauere, & cosuitace. Si quis meredarguere poteft, & demonftrare, quòdnon recte ſentiam ,aut agam,læto animo fentétiam mutabo :ucritatem.n . quæro, quæ nemini unquam dáno fuit; damnum autem facit,quiin crrorc & i gnorationcſua pmanct. Ego, quodcft mci officij, ago, cætera menonauellúc. Autenim anima,autrationc carent,aut uiæ ignara errant. Animantia rationis expertia,tú omnes ciuſmodi res & fub . iccta,magno & liberali animo ſunt ufur panda tibi,ncmpcrationeprædito. Hominibus uerò, ut ipſis quogmentcin ſtructis rationeſocietatis habita utere. Inomdisciònegocio deos comproca rc:neos ſolicitusefto,quantum tempo ris fpatium tibi adagendum detur:fuffi ciúteoim ucitres huiuſmodi horæ. Ale xander Macedo ,agaloß eius , mortui in idem ſuptredacti: autenim aſſumpti ſunt ad mentēmundicam, qua fati ſunt reliquorum animi , aut diſsipati ſuntin atomos, unus perinde atgalter. Cum animo tuo conlidera,quàm multa uni co temporis momento fiantin uniuſcu iuſ @ noftrûm ,cùm animo, tum corpo re :ita fict,utnó mireris, quòdlógè plu ra, imò uerò omnia quæ in mundohoc fiunt,fimul extent. Si quis à te quærat, quomodo fitnomen Antoniniſcriben dum: nónne fingulatim omnes literas proferres? Quid ergo fi qui iraſcuntur, num uiciſsim tu quoque ſtomachabc ris?nó potius numerum inibis placidè ; Ingularum rerú ? Itac ctiam hîçmemé to luis omnc officium quibuſdam con ſtare numeris: quos li imperturbatos ſeruaueris, ncq indignatibus alijs ipfo com Spro MIUS. quog indigneris,recta uiaid quod pro pofuifti,perficies. Inhumanum effe ui detur,hominem impedire, ne ad ea fera turquæ ei utilia & cognata uidetur. At quiid tu ne faciant prohibes quodam modo,dūiniquo animo fers cos delin quere.Ferútur enim utiqueadid, quod naturæ fuæ coniunctum , & utile putāt. Sed res nó ita habet . IditaB oftéde eis, & & doce citra indignationé.Morsfinem imponit ſenſuum motus, & cogitation num officijs ,animúģàcorporismini- situ ſterio liberat. Turpe aút eft in hac uita, in qua corpus tuũlabori nỏ fuccubit animú tuú elāgueſcere.Videne à pręfé tiſtatu deiectus obruaris. Poteft.n.hoc fieri.Itaq; cóferua teipfum Gmplice, bo ne núintegrū,graué,apertū ,iuſtitiæ ſtudio fum ,piúerga deos, benignú, humanú, ad officiunituendúforté,annitere utta lite lispermaneas, qualetefacere uoluit phi c loſophia.ucnerare dcos,ſalaté homini busaffer. Breue eſt uitæ in terra degen dæ tempus,omniſg eius fructus, ſancta animi conftitatio , & actiones commu- beri pitati hominum utiles .Omniautdecet Anto SE maig Sophie Antonini diſcipulum.age. Quæ fuerit eius in agendo fecundum rationem fir mitas, quæ ubiqueæqualitas, quæ ſan ctitas, memento : quæ uultusferenitas, accomitas . Quantus ille gloriæ con temptor, quod eius in percipičdis reb. ſtudium , quum nihil prętermitteret,ni fi prius accuratèperſpexiſſet,ac cogno uiffet.Vt tulerit iniuftè ipfum repræhé. dentes, neque conuitium his repoſuc rit:ut nihilproperatè aut cupidèaggrel fus fit: ut calumnias nó admiſerit, ut di ligens fueritmorum actionúmque exa minator:non obtrectator,conmeticu loſus , non ſufpitioſus, non fophifta. Quàm paucisfuerit contentus , ut do moleco, ueſte, cibo,famulatu :quàm tolerans laborum ,quàm lenianimo: ut tempusnequeadueſperam propter ui ctustenuitaté egerit,ita ut neexcernere niſi coſueta hora opus ei effet.Queeius in amicitia fuerit conftantia , &æqua bilitas : quomodo tulerit cos, qui ipfius fententia liberè impugnarent,gauilulý fuerit,fi quis melius aliquid oſtêderet. Qua ille deos religione coluerit citra ſuperſtitionem ,recordare, ut iibi quo quc ultima hora perinde atque is fuit re ¿ te tibi coſcio adueniat. Expergiſcere, & tcipſumreuocafomnog diſcuſſo co gitans quæ te inſomnia perturbarint,ui gilās ea intuere,utilla inſpexiſti, Ex cor pufculo & anima con to . Corpuſculo nihilintereſt interres , neque enim po teft difcrimen ftatucre. Rationiautem inter ca diſcrimen habetur, quæ nóſunt ipfius actiones: has uerò oés in ſua ha bet poteſtate. Quod ipſum tantùm eſt de præſentibusaccipiendum ,præteritę enim & futurę animi actiones,ipſe quo que nullum habentiam diſcrimen.Ma nuiacpedi,dum ſuum agunt officium , nullus eſtpræter naturam labor.ita ho mini quoqueea agenti quæ ipfius ſunt partium , nullus eſt præter naturam la bor:ergo nę malum quidé.Quotuolua ptatibus,acquantis frui contigit latro nibus, cinædis, parricidis , tyrannis ? Nonnc uidos ut qui ſordidas profiten . tur artes, uſque ad certum finem ſe pri uatis hominibus accómodent? nihilom minus tamčſuæ artis rationcm retinét, nab ea decedere uolunt. Nónne aútturpeft, fi architectus &medicus magis lux artis rationé reuercatur,quá ſuam homo , quæ quidé ei eſt cum deo communis? Aga& Europa, anguli ſunt mandi: uniuerſum mare, guttamundi: Athos, glebula mundi : omne inſtans tempus,púctum cſt æternitatis. Omnia funtparua,mobilia,interituiobiecta: 0 mnia inde ueniunt , profecta à principe uniuerfi,aut per conſequétiam . Etenim rictus lconis, lethalia uenena, omniaos maleficia ,ut ſpina, cænú, pulcrarum & bonarum rerum ſunt additaméta, Non igitur ea aliena ab eo quod colisimagi nare,ſed fontem omnium rerum confi dera. Qui preſentia cernit,omnia uidit, quæ ab æterno fuerunt, & in infinitum uſg erunt, Omnia enim ſunt eiuſdem generis, & conformia.Sæpenumero co gita de omnium in hoc universorerum connexu, mutuag affectionc, Quodá cnim modo omnia inuicem ſunt impli cata ,ca ratione amica mutuò. Aliud enim ex alio confequitur,propter con fantem motum, ac conſpirationem & fs unitionem (ut ita dicam )ſubeſſe. Quib. negotijs addictus es ſorte tua, his teac commoda : & quibus tehominib.fatū adiûxit, cos amore,idig uero ,proſeque re.Organa, inſtrumenta, uaſa, quumid agunt,cuius gratia funt adornata, bene habent et quidéis qui ea parauit, abeſt abipfis.At in his quæ natura continen tur,remanet, intuſý eſt uis ea paratrix. Ita tanto magis honoranda eſt, &exi ftimandū, li ſecundum cius uoluntatem agere perſeueres, oía tibifecundum mé tem eſſe:idéo de alijs hoíbus oíbusin tellige . Quodcu exijsreb.quæ extra te ,negin tua uolútate ſunt pofitæ ,tibi Ppofueris,boniuel malinoie, id, fi uel utmalú tibi cótingat , uelfi, cú pbono ducas,adipiſcinon poſsis , efficiet ut & deos incufes , & odio habeas homines quiin cauſa ſūt,aut eo certe noíe ſuſpe cti habét, g uelmalú hochabeas,uelbo no careas.Propterhác rerú differentia, quam ipfi ftatuimus , fituc multa pecce mus. Quod fi ſola ea, quæ in nobis ſunt pofita,bona&mala tractaremus,nihil cauſęreſtaret,ne aut Deú incufaremus, aut cú hoíbusinimicitias ſuſciperemus. Oés ad eúde finé & effectú agimus: pars ſciétes, & certo ordine,pars inſcij. Qué admodú & dormiétes.Heracletus nifal 1 lor dixit eſſe operarios,qui adiuuétlua opera hæc quæ in múdo fiút. Alius aút alia róneid opus adiuuat :ſupuacanea opera eft eius qrephédit, & reniticonat ijs quæ fiút, ea reſcīdere:nā & hocuti tur múdus. Proide animum aduerte, in quorú tute numero reputes. Nã admi niſtratorhuius uniuerd, utiq teutetre &è , & accipiet te inter cooperarios.Tu vero ne ſis huiuſmodieorú pars, qualis eſtinfabula uilis ille et ridiculus versus, cuius mentioné Chrysippus facit. Sólne pluuiæ munia obire cupit,aut Aeſcula pius terræ frugé ferētis? Quid ucròfyde ra, anno diuerſa quidélingulis eſt actio, quętnadcómune opus cóferat?Quod fide me & his quęmihieuenire debue rút, dij cófultauerüt, rectè nimirú mihi confuluerút. Nam Deum fine confilio agentemnc cogitarequidem facile est: quæautem fuiſſet cauſa , propter quam malè mibi confultum uoluiſſet? Quid inde ad deos , & ad uniuerſum ( cuius maximè habentróné fru & usredijſſet ? Sin de me priuato nihil conſultauerüt, ac deuniuerſo utigrationes duxerunt, ex quo quum ea conſequutur que mihi cueniunt,non debet mc eoruinpcenite re.Sanède nulla re eos confilium inire, impiū eſt credere : autneſacrificãdum , neprecandum ,neiurandum quidé, ne que quicquam corum faciendum ,quæ fingula tanquam cum preſentibus & u nà uiuentibusdijs agimus. Sed tamen fi nihil illi de nobis ftatuerüt,licet mihi dcmeipfo cóGliú capere, ac demea uti litate deliberare. Vtile aút eſt unicuig id, quod eſt naturæ eius & conſtructio ni cófentaneú . Atnatura mea rationis eft cópos, & ciuili cætui accommodata. Civitas mihi est et patria,quatenus quidem ANTONINUS SUM, ROMA. Quate nushomo,mūdus:hçcigit tantùm mihi funt utilia , quæ his ciuitatibus condu cunt. Quælingulis cucniút,ca profunt uniuerſo : id eratfatis ſcire. Sed &hoc addendum, quòd fi animaduertere uc lis ,ubig uidebis: quæ homini, autalijs hominibus * Sed nuncuocabulumu tilis accipiamus latius, ut etiam medijs rebus pateat.. Quæ in theatro aut fimili bus locis uides,ca quum ſemper eadem ſpectentur, & uniformia, fpe & aculiſa tictatem afferunt. Idctiam de tota uita ſentiendum. Omnia enim fuperiora & inferiora eadem funt et exijſdem cauſis excitcrunt.quouſ igitur?Adliduooís generis homines conlidera, qui ex om nis generis profeſsionibus & nationi busmortuiſunt:ita ut ctiam ufque ad Philiſtioncm, Phoebum et Origanio nem deſcendas. Hic fanè cogitandum , idem euenturú nobis,quodaccidit tot cloquentibusoratoribus,totgrauibus philosophis: HERACLETO, PYTHAGORæ, SOCRATI, tot Heroibus prius,deinde tot du cibus, tyrannis: tum Eudoxo,Hippar cho, Archimedi, alijs acutis ingenijs, magnanimis,laborioſis, callidis, contu macibus,his ipfis ,qui caducam hanc & & in dies durantcm uitam hominūſub ſannarút,utMenippo &fimilibus.Hos omnes cogitandum eft dudú eſfemor tuos:quid auté maliinde habent?Quid hi, quorumne extant quidem nomina? Vnumhocſummi cſt pretij, ueritate iuſtitia feruata,mendacib . & iniurijsho minibus placidú uiuere. Cùm teipfum oblectare uis , cogita virtutes corú qui uiuunttecum : ftrenuitatem eius, illius uerecundiam, aut liberalitaté, aut aliud quippiam. Nihil enim eſt,quòd tantam afferatlætitiam , quantam limilitudines uirtutum in eorum quibuſcú uiuimus moribus expreſſæ,ac fefe cófertim offe rentes cófpectui.itaqz in promtu haben dæ.Noniniquè fers, tot libras te appen dere, &non trecentas: ita etiã quòdan norum certum , & conon maiorem ui ues numerum, indignari non debes.Etc nim ut corporis tanram, quanta cibi eſt tributa,portionem probas: ita &de té pore tibi ſentiendum eft. Annitendum eft nobis, ut perſuadeamusijs cum qui bus agimus: lin minus, etiam illis inuitis id agendú eft,quod iuftitiæ ratio iubet. Quod li quis ui te impediat,tranfi adę quanimitatem, eo impediméto ad al terius uirtutis opusabutere:memor, tc cú exceptione quadaíftituere actioné, negca appeterc,quęfieri nequeat.Itaq is füitimpetus animi tui , cui ſatiſfiat, ii id, cuius caufa citatuses, cóſequat. Glo rięcupidus, alienā actioné pluo bono reputat.uoluptuarius affectioné,quai ple afficit:méte uerò pręditus, ſuã actio né.Licet etiá nihil de hisexiſtimare.ipſe .n.res nó funt eius naturæ, ut iudiciú no ſtrúefaciat. Adſuefac te, ut alio docéte cogitationes nó aliò diuertas,fed totus animo diceris fisintétus. Quodalucari nó pdeſt,id ncapiquidé pdeſt. Sinau tæ malè gubernét, aut no rectè curétur ægroti,dicúr:alius erat quærendus,cui mecómitterē: aut quo hic faluté naui gātib. uelægrotis ſanitaté afferet? Quá multiiam unà cũhis, quibuſcúin mun dum uenerüt, ex múdo exceſſerút ?Mor bo regio laboratib.melamarú uidetur: morfis àrabida beſtia , aqua eft timori: pueris fphęrula pulcra cft. Quid ergo i raſcor? aut tibi minor uis uidetur elle fal Gitatis, q bilis apudictericũ, aut ueneni apud morſum à rabioſo animali.Nemo prohibebit, quin fecundú rationé tuæ naturęuiuas:nec tibi quicqua accidet, quod fit cótrarónéuniuerg .Qualcsfút illi, quibus cupimus placere, aut ppter qd, g cis ſuperlis,autper quasactiones? quàm celeriter æuum omnia abſcon . dat: imò quàm multa iam nunc occultauit? eſtmalicia ?id, quod iệpenumero uidiſti.Et quic quid omnino acciderit, ex peditin promptu te habere hanc rcgula, ſæpeid effe à te uifum. Om nino fi ſuperiora &inferiora animore petas,inuenies omnia cadem eſſe, quo rum plenæ sunt priscæ ,mediæ , recéteró hiſtoriæ ,& urbes, & domus :nihilnouú eft ,omnia uſitata & breui durātia tem pore.Neque uerò alia ratione extingui poſluntopiniones, quàm cogitacioni bus quæ ijs respondent, abolitis : quas quidem ut continéter reſuſcites , in tua cft pofitum poteſtate. Poſſum de re oblata exiſtimare, id quod oportet : li hoc poflum , quid eſt cur animo pertur ber?Quæ ſuntextra mentem meam, ni hil omnino ad cam attinét. Hoc modo affectus,rectus eris. Reviviscere potes: nam fi res quas antè uidiſti, rursus apud animum tuum contempleris , exactam uitæ partem qualirepetes. Inane pompa ſtudium , fabulæ ſceöi tægreges,armenta,uelitationcs,oſsicu lumcatello proiectum ,auteſca in piſci nám iniecta,formicarūlaborcs,& one: rum geſtationes,murium perterritorü diſcurſus, Gimulacra ncruis tracta ut le moucát. In his igit oportetanimo pla cido, &non elato confiftere, & intelli gere,tanto unumquem dignum eſſe, quâto ea in quibus ftudium fuú is po ſuit . In oratione ſingula uerba, inijs quæ fiunt, lingulęappetitiones ſuntant maduertendę: ato hic ftatim uiden dú,quam ad finem cæ referantur; illic quidfignificent: Sufficitne intellectus meus ad hanc rem, an ſccus? Quòd G fufficit,utoř cô ad rem propogtam tanquam inſtrume to mihiab uniuerli naturaconcello Sin g. contrà , aut eam rem alteri cuidam, qui melius id poſsit , perficiendam relin quo,præfertim fi alioquin id agere offi cium meúnó iubet:autipfe perago pro uirilimea,adſcito mihi auxiliario,cuius opera mca'mensid efficerepoſsit ,quod in præſentia fitcommodum , & focieta ti hominum conducat. Quàm multi quondam fucre cele bres, quorum nunc fama eft obliuioni tradita? quàm multietiam horum , qui iſtos celebrauerunt , è medio funt fub lati?) Ne ducas tibi pudori, li cuius auxilio uſus es.Propofitúeftenim tibiid agere, quod fit tuarum partium : perinde ac militiin oppugnatione muroru. Quid ergò faceres, li tu claudicans folus con ſcendere propugnaculum nequires: ab alio adiutus,pofles? Ne te perturbent futura. Nam fi ita uſus erit, peruenies ad ea eadem inftru ctus ratione, qua nunc in præfentibus uteris . Omnia inter ſe ſunt complexa ſacro nodo és i nodo neg quicquam ab altero eſ alie ñum , ordincenim omnia certo funt dif polta , unum eundem mundum ex ornent. Mundus ex omnibus conſtat unus , unusqueper omnia diffufus est d Deus, una natura,unalex,unaratio cô munis omnibus ratione præditis ani mantibus, una ucritas:Siquidem etuna eſt perfectio eorum quę eiuſdem funt ni generis , eiufdemó participia rationis ui animantium .. Omneid quodmateria conſtat, ce lerrimè in uniuerlo abolei: omois cau io fa, celerrimè in rationem uniuerfi adlus mitur:omnium rerum memoria quàm 20 primùm æuoconfunditur. id Ratione prædito animali cadem a. EEtio & fecundum naturam eſt, & fccun dum rationcm. Rectus,an qui erigatur? Quam ra. Itationem in unitis & compactis corpori bus habent membra , eatn obtinent ra tione prædita animalia in diullia, præ parata ad unam quandam actionem. Hæc cò magis animum tuum tanget, ſi crebro tibiipfi dicas : pars fum cius, quodeſtex ratione præditis conflatū , corporis:Si autem propter elementum R.dicas te eſfc partem , nondum ex ani mo diligis homines, nondum ex bene ficentia delectationcm capis, quam ue rè apprehendat animustuus,adhucde cori tantùm cauſa ita agis , non ut in te ipfumbeneficium conferens. Sanèalijsquęcun & accidant,corum eft, fi uelint, ca culparc.Ego quidem re bus mihi contingentibus, niſi in malis eas ducam, nihillædor:& licet mihi ea non putaremala. Quicquid alij loquantur & faciant, mc quidem oportet ellebonum :haud aliter,gliaurū uel ſmaragdus,uelI pur pura ſemperita diceret, quicquid alij dicant, aut faciant, ſmaragdum eſſe o. portet,me colorem ſeruare mcum. Mensipſa ſeipſam nó perturbat,hoc cſt ,non afert fibiipfiullam cupiditaté autmctum.Si quid aliud eſt, quod pof fit cam terrere aut dolorem afferre, fa ciat ſanè: ipſa quidé per ſenulla opinio. nc libihosmotus affert. Corpuſculum ucrò uerò ipſum curet , ne quid patiatur dis cato, ſi quid patitur.Animonullus me tus dolor,aut opinio horum accidere pót.negem ci ſunthabitusad hęc. Per le omnimetu mcns uacat , niſ feipfam deftituat:ita &perturbationis, & im pedimenti exors. Felicitas eft bonus dæmo, ſeu bonü. Quid igiturtu hic agis phantafia ? ubi, unde ueniſti, non enim te opushabeo. Sed uenifti fecundum priftinam con fuetudinem : non tibiſüccéſco, faltem abi , Siquis mutationem timct,is cogitet able ea nihil fieri poffe , ncque eſte ca quicquam naturæ uniuerli amicius.An tu lauare poffes, nifi ligna mutarentur? aut ali,nifi nutrimétomutato ?autquid nam aliud utile poteft abf mutationc fieri ?Non ergo uides etiam tuimutatio nem carum limilem eſſe ,ac perinde nc ceffariam uniucrü naturæ. Per uniuer ſam naturam:tanquam per torrcntem , tranfeunt omnia corpora,uniuerſo ipa cognata, & eius opcrum adiutoria, uti et nostra invicem luntmembra. Quot Chrysippos, Socrates et Epictetos xuí iamn deglutijt. Idem de omnire & homi ne tibiad animum accidet. Vnum hocmeſolicitumtenet,ne ad faciam , quodhominis conſtitutio aut nolit factum ,aut alio modo, uel tempo re factum velit. Propediem erit, ut et tu omnium re rum obliviſcaris,& nulla Gtuſquam tui memoria. Proprium hominieſt,ut etiam cos di Jigat,qui peccant. Fiethocl in menté tibi ueniat, elle cos tibi cognatos , im prudétia, & inuitos peccare,paulò pòſt & te, & illum qui peccauit,moriturum ; idý potiſsimum ,nó lælum te ab co.no enim eius peccato tua mens deterior, quàm fuerat,facta eſt, Natura mundi , ex uniuerſitatetaną ècera modò equum finxit,moxco con fuſo , materia iſta ad fabricam arboris ulacſt,deinde ad homunculi, inde ada . liarum rerum.Harum ſingulæ quá bre uiísimo duraruntſpacio . Atquiarcula utlicompingatur,nihil eftmali:ita neli diffoluatur quidé. Irati uultus oío eft cótra natyrä,quádo fæpius immoriedi fit prętextus,aut ad extremú extinctus eſt ,ut oſo inflammarinópotuerit.Hoc ipfo intelligere labora, irá à ratione effe alienam . Nam fi etiã ſenſus peccati nul lus erit, quæ erit uiuendi cauſa? Quæcung uides, ea iam iam à guber natrice mundi natura in alias, rurſuso & deinceps in alias mutabit formas:ut femper recens fit mundus. Si quís aliquid contra te deliquerit, ftatim cogita quánam boni uel malio pinionc pcccauerit:id.n.fi cernas, miſc reberis eius,acneobmiraberis,neq ira fceris.Nam autipſeidé,quodis,bonum putas, aut aliud quidda eiuſdé generis: venia ergo danda: Sin tu secus de bonis et malis iudicas, cò placabilioreris ei qui falsus. Non deijs quæ abſunt, tanquam de præfentibus cogitandum eſt:fed præſentium ea quæ ſunt aptiſsi ma, deligenda funt,illorumg caulame moria repetendū ,quánam rõefuiſſenç quærenda fiquidem abfuiffent.Caueta men præſentia adeò probes, ut etiam in honore ca habeas,ac fi quãdo abſint,p turberis.Intra teipſum uertere. Hæceſt natura mentis,utiuſtè agens, in hocg acquieſcés,nihil extra fe quærat, Aufer uiſå inhibemotum ncruorú, cir cunſcribe inſtans tempus,cognoſceid quod uclţibi,uel alij accidat, diuide fubiectum in materiam &formam , co. gita de poſtrema hora, Quod peccatú eſt, ibi ceſſat , ubi pec cațum ſubliſtit, Intendenduseſtanimus ijs quæ dicuntur,mente penetrandum in causas et effectus, Exorna teipfum fimplicitate& uere cúdia, coś, ut quæ ſunt medio inter uir tutem & uitium loco, in nullo ponas di fcrįmịne, Diligehumanum genus, obſe quereDeq:is enim aitomnia fieri certa lege. Quod fi diuina ſunt etiam elemen ta. Sațiseſt meminiſſę,hæc omnia certa lege conſtare,aut admodú paucaſecus, Mors é auţ diſsipatio ,qui indiuidua rum particularum ſecretio ,aut exinani tia,autextinctio, aut migratio , Dolorli fitintolerabilis, mortem af, fert:diuturnus ferri poteſt,interimga. nimus ſuam retinet tranquillitatem ,ne que fit deterior. At partes dolorç con fectæ, ipsæ quæratur,fiquidem poflunt. Honinum opiniones de gloria intue cil re, quales Gint, quid propolitụm habc cidant,quid fugiant, Lide Viß in littore maris arenæ cumuli Co- alij ſuperaliosappulg ,prioresoccultát, įta in uita quo priora à ſubſequenti bus celeriter abſconduntur. Platonicũ .Quiigituranimocſt præ unditus alto et cognitioné habet omnis temporis, omnisg naturæ ,an tu cúpu er tas exiſtimarç, quòd hominis uita ma - gnum ſit aliquid ?Nequaquam ,reſpon sc ditille. Ergo ,inquam nemortem qui B: dem in malisille reputabit? Minimè Era uerò, Antiſthenicum ,Regium eftmalè au dire, çum bene feçeris. Turpe eſt uulta co obſequi intellectuiſco componercita uutisiubeat,cumipfeintellectusſeipſum non componatat ornet. Namrebus iraſci,nihilfanè expedit: Iram curăt enim noſtram nihil.Dijslę. tiignaris, & nobis gaudia doncs. Frugiferam uti fpicam mcæ uitæ mc tam.* At hoc quidem effe, illud nona then Lam LIK trCurl be Quod ſi dij me , libcross ncgligunt, Ratio eft & huic. Meum enim est bbene efle et iustitia. Non una lugere, Deg tremere. Platonica. Ego autem haudiniuria hoc retule. rim.Non rectè dicis, ô homo,liputas ef ſe uel uitam uel morté aliquo in diſcri mine ponendam ciuiro, qui uel alicu ius fit precij:acnon id potius unum có fiderare cum inter agendum ,iuſténcan iniuftè agat, & eáne fintuiri boni anue rò fecus.Reienim ueritas, & Athenien ſes, ita habet, ut quo quis loco ſeipſum conſtituerit,exiſtimansita optimum el fe,aut cum ita Gtoptimum ,cò colloca tus fuerit, ibi (mea quidem ſententia ) perGftere debeat, ac quoduis pericu lum ſubire,neg mortem , uelullam alia rem turpitudine grauioré ducere. Sed heus tu ,uide,ne animimagnitudo,cibo pum aliud quidpiam ſint, quam ferua re, & feruari. Neque enim conceden dum eſt,eum reuera uirum diçimereri, qui quantocuný tempore uiuendum, acquc rationem uitæ habendamputat: Sed 1 leo sel gar, CO all 1 WC 1 ef Sed eum , qui dehis cura deo commife la, credens mulieribus , non pofle fa tum ab ullo euitari , id consderandum porrò ducat, quánam rationetempus uitæ conceſſum fibi quàm optimè exi , Curſus liderum conſiderareexpedit, quali eos comitaremur , & elementorú mutuæ mutationes crebrò cogitandæ . Hæ enim cogitationes uitæ humilis for des abſtergent. Bene eſt à Platonchoc dictum.Etiam cùm de hominibus loq. mur , intuendum est in pes terrenas . Etc nim qui memoria altius repetierit ho minú cógregationes ,exercitus,agricul turas,nuptias ,pacta ,ortus,interitus,iu 1. diciorum turbas , uaftitates regionum , varias. Barbarorum gentes , ferias , lu dus, nundinas , in ſumma, qui colluui cm illarum , & ex contrarijs compol tum præteritorum aceruum , tantas 191 imperiorum mutationes recoluerit, is ecià futurā præuiderc poterit. Quippe et candem hæc habent cum præteritis for mam , nem alio possuptmo fieri, Itaçćç Cu alia edbo en idem eſt, quadraginta, an decies milių ſpacio annorum uitam humanam exa mines, nihil enim amplius uidebis. Exterra enim nata in terramredacta funt:quæucrògenus traxeruntcælitus, redicre ad æthercúpolü: fiuehæc quæ dissolutio complexuum , quibus ato miiunguntur, sive elementorum passio nis expertium dissipacio. Cibis, potug, & magicis adeo artibus Avertimus currum, & mortis fugi mus uiam. Flantem diuinitus auram Opus eft tolerarclaboribus, Luctu, lachrymisg calentibus. Est aliquis te peritior luctæ :quid tú? at rófocietatis humanę ſtudioſior eſt, non uerecundior , non ita commodè fert ca quæ accidunt, nó ita mitis homi num peccatis. Vbicung poteft aliquid perfici,fecun dum cómuné dijs & hominibusratio ncm, ibi nihil eftmali.Nam ubi utilita tem conſequi licet actionis, quære&a uia proccdit fecundum conſtitutioné i hominis,ibinon cft uerendum nequid fubfit tog fubfit damni. Vbig & femper in tuacſt manupofitum ,ut ca quæin præfentia di biacciderunt, & approbes piè, & cúbo minibus quicccum lint,iuftè agas, &ui ſa oblata artificiofe examinesne, quid non facis perceptum admittatur. Noli aliorum mentes circumſpicere, ſed cò recta intuere, quò te natura ducit, cùm uniuerli, per ea quæ tibieueniunt,tum tua per ca quæ tibi ad agendum ſunt propoGta. Id autem unicuiq ad agen dum proponitur, quod eft eius conſti tutioni conſentaneum. Porrò ita con ſtituta ſunt & comparata fingula: reli qua quidem omnia corum cauſa, quæ mente ſunt prædita,nimirumdeteriora pręſtātiorum causa, ratione autem pro ditorum unum alterius caufa factú cft. Primas igitur inter partes ex quibus ho mo conſtat , ca pars obtinct, que fo cietatcm humanamreſpicit:alteras,ca, fibi à perſuaſionibus corporeisillo abſtinet.Rationccnim & intellectu prę ditimotusproprium eſt ,ſeipſum circa ſcribere, &nco ſenſitiuæ,ncqueappe titiuçmotioniſuccumbere:harumem utrag ctiam brutorum cft. 1 qua Atintelle&iua principatum obtine re, neq ab illis regiuult:neciniuria, quig pecuius natura ferat ,ut omnibus reli quis ipſa utatur. Tertiú eſt ,uacuitas te meritatis & erroris. Quibus intéta pars princeps,rectà progrediat, ſuis cóiéta. Tanquam mortuo, &qui hactenus tantùm uitæ uſura fuerit cóceſſa, quod ſupereſt uiuendum tibi crit fecundum naturam ,tanquam ex abundanti. Tu ſolus ca diligens , quæ tibi fatum iniunxit, contentus efto . Quid enim magis congruum, quàm ut ſingula cue niunt,ftatim cosante oculos habere, & cum eadem ipfis cucniffent, indignati ſunt,nouitatem rei mirati, &repræhen derunt ea. Vbinuncijſunt?nufquam . Quid attinet te corum fimilem effe uel le ? acnon potius alijs fuum morem rc linquere , ipfein hoc effe, utrebustuis bene uraris? Idý poteris præftare, nec deeritmateria , modò animaduerte , & ftude , uttibiipliin omnibus actionib . uidearis honeftatem confecutus. Vtri ufgz uerò actionum finis recordandum cft.Intrò reſpice:intuseft fons boni,ſem per ſcaturiens,fiquidem femper fodias. Corpus conftare,acneq motu, ncg habitu diffolutum effe debet. Sicutem mens efficit, ut vultus Gt compolitus & aptus , ita detoto corpore uttale Gt annitendú eſt. Omnia hæc curandu é, ut ne oftétationis caula Gimulata fint. Vivendi ars palæſtricæ cft, quòd ſal tatoriæ fimilior,eò quòdipfa quo cu rat,utad ea quæ incidūt,neq; ancè lune præcognita,parata fit et à caſu tutum hominem feruet. Adliduò inquire, qualesij fint, quos teftimonium de te ferreuis, ac quæ co rum fint mentes.Ita nco cos qui inuo luntariè peccantculpabis,nee teſtimo nijegebis,fiinipfosfontes infpicias,un deijopinionesfuas,appetitiones hau ſerunt:Omnis animus, inquit illc , non ſua ſponte priuatur ueritatc : idem sentiendum de iustitia, temperantia, benignitate, omnibusý limilibus.Atnecef ſariū eſt quâ maxime, id te nunquã nó meminiflc:ita. n. erga oés crismitior. Dcomni dolorein própru fit tibi co gitare, cum ncg turpem efle, neqmen tégubernątricem reddere deccriorem feras. Id quog recordare,multa cú ea quippe hæcnegrationc materiæ , nem ſocietatis humanędamnum accipit. In maiori autem dolorum numero etiam Epicuri dictum prodeſt,eum ncg into lcrabilem eſſe,ncg æternum. fiquidem finium recorderis,ac non preiudicium in * dem habeantcum dolore naturam , ta men occultèmodò moleſta eſſe :ut dor miturire, eſtum ferre,nauſeare:quorum aliquod li moleftè fers, dic tibiipfi,te dolori ſuccumbere. Vide neita afficiaris contra inhuma nos, ut homines contra homines. Vnde nobis conſtat Socratem fuiffc illuſtrem et meliori conſtitutionc præ ditum? Non enim ſatis eſt eum clariori morte occubuifle ,aut peritiùs cum So phiſtis diſputalic , & patientiùs in frigo re pernoctalle, & Salaminium abdu cere iuſſus,fortiter rcpugnaſſe, acíuijs maieſtatem uultus præ ſe tuliſſe,dequo maximè dubitari poteſt an uerú id fuc rit. Sed hocconſiderandum eſt, quo ani mo fuerit Socratcs,an potuerit conten tus efle, Siiuſtumfc hominibus præbe ret, ac pium erga deos, annequç teme rè ob aliorum maliciam litindignatus, nec ullius inſcitiæ ſubferuiuerit, an ni hil corum quæli uniuerſi natura attri buiſſet, tanquam peregrinū autintole rabile acceperit, nunquám ne affecti bus carnis conſentientem mentempræ buerit. Non ita confudit omnia natura,ut no liceat circúfcribere ſeipſum , & quæ ſont propria cuix, caipfum in ſua reti nere poteftatc.Admodum cnim poſsi bile eſt,ut quis diuinus uir fiat,acă ne mine cognoſcatur. Hụius ſemper me mento:atqhuius etiam , quòduita bca ta in pauciſsimis rebus eft pofita. Nog guia deſperattice Dialecticú autPhyl cum futurum ,iccirco etiã liberú ,pudi cum ,fociabilem ,deog obedientem to fieri poſſe. In maximaapimi uoluptate licețui uere, tutum ab omni ui,utcung omnes quæ uolunt contranos clamitent:etia li corporeæ huius molis membra å ferig laniétur.Quid enim obſtat,quominus intcrim meas ſeipfam conſeruet in tran hic 10 5 quillitate,uero de rebus præfentibus iudicio , & uſu corú quæ ſuntpræma. nibusexpedito : ita quidem ut iudiciú rei fubicctæ dicat : fanè cu natura tua họces,etfi aliud uideris :urg ulus dicat rei oblatæ : Ego te quærebam . Semper cnim id quod adeſt, materia mihi eſt exercendæ uirtutis rationalis & ciuilis, omninog uirtutis humanę aut diuinç. Omni enim id quodaccidit,deo eft aut homini familiare,ncgnouum, ncgin fractabile,ſed conſuctum & tractabile. Perfectio morú hocpręſtat,ut omne diétanquá ſupremūagas,nihil tremas. nihiltorpeas,nihil Gmules.Dij, cu Gar immortales, tamen non indignè ferút, quodin tam diuturno zuo ſemper om nino tot improbos homincs perferre debeant: quinimo illorum curam fum mamgerunc. Tuautem qui iamiam cef fabisuiuere,defperas,idg unus è numc romalorum.Ridiculumeft te non fuge rc tuáipfiusmaliciam , id quod potes, aliorum uelle fugere, quodnonconce ditur tibi. Quicquid rationalis et ciuilis tua uis inuc  vn . ich inuenerit nc rationi cóſentancū,ncq ad focietatem conducens , id rectè ca indignum iudicabis. situ benè alicui feciſti, & cſt, quià to beneficium acceperit, quid præter hæc duo tertiumaliquid requiris ftultorü more,ut & uidearis bcnè feciflc , & gra tiam recipias. Nemo defatigatur accipi endo aliquid utile. Atqui utile tibi cita tcſecundum naturam aliquid agere: nc igitur dum alij prodes , dcfatigare tibi aliquid boni parando. Vniuerfi natura olim ad mundum fa bricandum fe contulit:nunc autem uck omnia quæ fiunt, confequétia fiút ſua, , uel ctiá in præcipuis corum, ad quæ fa mundi gubernatrix natura confert, ra tioninullum locum efle & cóGlio, tené dumeft. Hoc, & memoria tencas, multis in rebus animo ut his tranquilliori cffi ciet. hs 1 'D quoqad minuendamglo riæ cupiditatem facit, quòd non licet tibi adhuc totam uitam ,quæàprima tuaæta te fuit,philofophicè uiuere: fed cumul tis alijs , cum uerò tibi ipli manifeſtum eſt factum ,teproculà PHILOSOPHIA abef fea Gonturbatæ igitur funt tuæ ratio nes.cumaço ipfeiam nomen philofo phi facilèpoſsis adipiſci, & tuum inſti tutum repugnet. Siitaque uerè perfpe xiſtį, in quo litrespofita, omitte curare quis habearis:fatis autem fit tibi fireli quú uitæ arbitrio naturæexigas. Quid ca uelit , cogita , hinc te nihil diuellat. Expertus enim es circum quotres ua gatus,nufquam uitam beatam inuene ris:nonin ratiocinationibus, non in di uitijs , non in gloria, non in voluptate, nullibi.Vbi uero eſt ?in agendo ea, quæ hominis natura requirit.Quomodo ita aget? Si eahabeatdogmata,à quibus có ſentạneæ appetitiones &actiones ueni ant.Quęſunt illa?debonis& malis.Sci licetNihil , effebonühomini, quod nó reddit iuftum ,temperantcm ,fortem , li beralem :nihilmalum ,niſi quod horum contrarium efficiat. In omni actione à teipfo quere, qua lis ca tibi Gt. Nec poenitentia eiusmoue re:parum abeſt, ut moriaris , &omnia è medio fint. Quid prætcrca requiro , li præſens a &tio animalis eſt mente prædi ti,ſocietatis hominum ftudiofi et deo æqualis. Alexander, Caius, et Pompeius, quid hiad Diogenem, Heraclitum, vel Socratem? Hi enim nouerant res, earum cau ſas,materias :ita erant ipſarum mentes. inſtructę.Ibiuerò, quibusin rebuseſſet prudentia, & feruitus. Nihilominus cadem facicnt,eciam litute ruperis. Primum cſt hoc,neperturberis:om nia ſecundum uniuerli naturam eucni unt:paulò pòft,nuſquam eris,ficut núc Adrianus & Auguſtus. Deinde in rem ipfam intucre,eamg cólidera,recorda tusoz debcrc tc eſſebonum uirú , acad hominis natura uelit , ageid quod pro pofitum eſt cóftanter, aciuſtiſsimetúc te egiſſe puta:modòplacidè,uerecúdè, & citra ſimulationem cgeris. Vniuerli naturehoc agit,ut quæ hoc modo habcnt,aliòmutet, & exuno lo coin alium res transferat: Omnia con Itant mutationibus, neß quicquã mc tue: nihil enim noui,omnia uſitata cue niunt, & æqualiter diſpenſantur.Cæte fum unaquęg natura,firccta uia ingro diatur,fibiipfi fufficit.Natura autem in tellectiuaid facit, G'in cogitationibus, id obſeruet,ne falſo,aut obfcuro aftipu letur: impetus animi ad eas folum actio ncs dirigat, quæ faciunt ad ſocietatem hominum : catantum appetat & uitat, quæ in nobis funt pofita: omnia quæ à communi natura tribuuntur grata ha beat.Hiuius enim pars eſt,bcutnatura fi lij,naturæ ftirpis pars eſt: nifiquod hæc eſt eius naturæ quę & ſenſu & intelle Au carcas,impedirepoſsit:Hominjsną  gratis non iraſci. tura,pars eſt naturæ quæ impedirinon poſsit,intelligat,& iuita fit:liquidem æ qualiter , & pdignitate uniuscuiuſuis tempora,ſubſtantiam ,actionem , & eué ta diuidit. Congdera autem æqualitaté că inuenturum te fifingulas res exami nes : finunam cum uniucrGs conferas, non item. Atqui licetlibidinem arcerc,uolup tatibus &doloribus ſuperiorem eſſe, item gloriola: licet ctiam ſtupidis & in Nemo te audiat uitam aulică repræ hendere,ac ne tu quidem teipfum. Penitentia eſt repræhenlo quędam fui ipfius,propter bonü aliquod dimif ſum :bonú uerò ,oportet utile effe, ideo qúe ciºcura é haběda uiro bono & ho neſto.At nullus talis pænitentia ducc turobneglectam aliquam uoluptatem , ergo uoluptasncqin bonis eft, ncoin utilibus numeranda. Resita expédendæ ſunt.Quid é hocp ſc, & fua, ppria cóftitutionc? ģei° ſubită tia &materia , quæ forma?quod eius in mundo officiú ,ac quandiu permanet? Si difficulterà fomno expgiſcaris, reminiſcere conſentaneum eſſe tuæ conſti tutioni , & naturæ humanæ, ut aliquid agas quod coetui humano pſit. Atdor mire,etiam brutis eſt communc. Quod autem unicuiq ſecundum naturam eſt , id & magisproprium ei eſt, & cognati us, adde etiam gratius. Hoc aſsiduo & quibuſcũæ incidétibus cogitationib, li fieri pofsit, in promptu habendum . Si de natura, affectibus,aut alijs reb. diſputare cum aliquo libet,ftatim teip fum antè interroga: Quænã is ſentit de bonis &malis.Nam opiniones de uolu ptate & dolore, eorumg efficientibus, de honore, ignominia, morte, uita. Non debet mihinouum aut mirum uideri , li quæ res hoc aut hoc modo a gát: cogitabo em, ita opus efle fieri. Co gitabo, licut turpe fit uelle me in mira culum raperefificus fructum ſuum pro ducat, ita etiam, fi mundus ea proferat, quorum eft ferax: etiam medico & gu bernatori turpe fit mirari uelle , li quis febricitaret, aut fi aduerſus uentus exi Iteret. Memento mutare ſententiam , & re aệ & èmonentiobſequi,perindeeffe libe ri. Tua enim adio fecundum tui animi impetum fit atque iudicium , tuamo mentem. Siin tua eſt poteſtate,cur facis? linin alterius,quid repræhendis? atomósne, an Deuni? quorum utrungeſt cum inſa nia coniunctum.Nihiligitur repræhen dédum.Nam fi potes,uel eum qui cau ſa eſt,corrige,ucl,fi prius nequis,rem ip fam : lin neutrum ,quid iamtibi profuit repræhēdiffe? atqnihil fruſtra faciédű. Quod moritur,non excidit è mun do :nam ut conftat, & mutatur , ita etiã diffoluiturin elementa, quẹtibifunt cũ mundo communia.atq hæc ipfa ctiam mutantur,negindignè ferunt. Vnum . quodgeſtad certum finem factum , ut uitis,equus.quid mirum? etiam ſol, & reliqui dij pofluntdicere,cuius rei cau fa facti funt. Tu ucrò cuius cauſa ? num uolupta tis? uide an hocferat intellectus. Natura confilium inijt de uniuſcuiuſ quereitam finc,quàm initio & duratio nc. Si quis pilam inſublimçiacier, quid h nam ea uelcûm effertur, uclcum defert, aut cadit quid bonimaliucpatit ?Quid bullæ boni accidit fi conſtet,autmaligi diffoluatur ? Idem de lucerna poſsisin telligere. Cogita quidfiat corpuſculo Genelcat, ægrotet,fi ſcortetura Breuis uita cft & laudantis, & cius q laudatur , cius quimentionem facit, & eius, cuius mentio fit:prçterca fit hocin angulo portionis mundi, acncque ibi quidem omnes contentiunt, imò nelie bi quidem ipfi quifqua. Tota ucrò ter ra punctumeft. Animum aduerte ſubicctæ opinio. ni,actioniaut di&to. Meritò hçcpatcris, malles uerò cras bonus fieri quàm ho dic. Siquid ergo , id ita fit à me, ut ad benefaciendumhominib.referatur.Ac cidit mihi aliqd ,referoidad Dcos, om niumg rerum fontem ,& originé,à qua omnia inter ſe connexa dependent. Lauare,quæ tibires uidetur? Oleum, sudor, sordes, aqua, ſtigmenta: omniaab ominanda.Ita fe omnis pars mundi, om nisgres ſubiecta habet. Lucilla Verum, deinde Lucilla fecunda Vini, da Maximum.Secunda Diotimum,Fau Itinam , Antoninus hæc omnia. Cęterű Adrianum , inde Celer. * Vbi ucro auſte ri illi &uates , & inflaci ? ut ex auſteris Charax, et Demetrius Platonicus, Eudemon, & fi qui alij tales. Omnia in diem durant.iampridem mortui ſunt:quorú dam ne minimo quidem tempore dura uit mcmoria: quidam fabula facti ſunt: ponnulli etiam c fabulis jam cuanue rűt.Idigiimemoriatenédú, g necelſeç rit autdiſsipari tuâmixturā, autextin guianimulă,autmutari,ctaliò trasferri. Læticia hois é, ut faciat quæciſuntp pria.Propria aút cius funt:beneuolétia crgaſuũ genus,cótéptusmotuúq ſunt in lenGb.diftin &tio inter uiſa pbabilia, cótéplatio naturæ uniuerfi, & corúqſe cundú că fiút.Itě tres refpeétus:unus ad cauſam pximā,alter ad diuină çaufam , à quaoíaoíbus cueniüt,tertius ad cose nobiſcü uiuút. Doloraut corporima lus é:ergo ipfum id pnúcict,autalo.Scd animuspoteft fuam tranquillitatem & ferenitatcm conferuarc, ncc dolorem pro malo ducere. Omnc enim iudici ým, omnis impecus,appetitio , & inclinatio intus eſt:ncq.ci dolorquicquam mali affert. Quare omnia uila tolle ex animo, Continenter te ipſum admone:Núc in mea cft poteſtate,ut in animo hocni hilfitmaliciæ ,nihil cupiditatis, nihil. cu multus: accum omnia ita cernam, uti funt, fingulis utor pro ipsorum dignitate. Hoc tibi licere,memineris fecúdum naturam. Loquere & in ſenatu, & cum quibus cunghominibus compofitè.Sana ora tione non eſt apertè femper utendum . Aula Augufti,uxor,filia,ncpotes,po ſteri,ſoror,Agrippa,cognati,proping, amici,ſoror, Agrippa,cognati, propinqui, amici, Areus Mæcenas, niedici, sacerdotes: omnino totam aulam mors abripuit.Deinde etiam accede, ubinon unusmodò eſt mortuus homo.Defecit tota Pompeiorum gens:hincmonimen tis etiam inſcribi uidemus,fuiſſe aliqué cius familiæ ultimum . Quàm anxij uc rò fuere maiores cius, ut aliquě ſuccel forem relinquerent : & tam necesse eft aliquem efle ultimum. Vita componenda est ita, ut conftet uniuſcuiuſ actionis ratio. Quarum li unaquęg ſuum , quantum cius fieri po teſtpræſtet officium , contentus fis :at queid quominusfiat,nemo tibi obfta re poterit.Sedobftabit,inquis, aliquid extrinſecus. Nihil quidem , quodiufti ciæ ,modcſtię &prudentiæ impedimen tolt. Atqui fortaſsis aliquiduim agen dihabens impediet? quin tu id impedi menti boni conſule , fico ftatim facto tranfitu adid quo conceditur moderá to ,alia emergertibi adio , quæ ad cam, de qua loquimur, conſtitutionem qua dret.Accipiendumline faſtu, dimitten dum cum facilitate, Si quando uidiftimanum abſciſlam , uelpedem ,capútuc amputatum alicu biſcorâmă corporciacere,cogita ei ſe adfimilarc pro uirilifuahunc, qui im pá bat ea quæipli eueniunt,ſeg à commu ni ſocietate feiungit,aut agit aliquid ab čaalienum , Ita tu te ipſum ab unitione Dáturali abrupiſti,cuius eraspars narº: nücuerò teipſum abfcidiſti.Id uerò fei tum eft, quòd iterum tibilicetei adiun  gi:id quod nulli alij parti deus concef fit, ut ſeparata & auulla rurſum inoleſce ret toti.Hicmihi bonitatem conlidera, quæ homini tantum honoris detulit. Nam & initiò iplius in manu pofuit,ac à toto auelleretur: & deinde, ut auulfus redier,iterug cócreſcerco locü partis recuperarepoſſet , dedir.Nãquéadmo dugngulç ferè rationis cópotes naturą ab ea cæteras facultatcs , ita nos quoß hanc ab ipſa accepimus. quemadmo dumenim ipſa omne id quod obftat & rcfiftit,cóuertit, & fato fubijcit, ſuam partcm efficit:ita animal rationc prædi tum poteft omne impedimentum pro ſua materia accipere,coğuti adid, qd intenderat. Note cogitatio totiusuitæ confuna dat: neq animum aducrte ijs ,quæ mul ta uidentur dolorem poffe afferre.Sed ſingulis rebus oblatis à te ipfo quæro, quid náca in rc Gtintolerabile:id cnim pudebit te fateri.Deindememineris,ne que præterita tibi , ncquefutura ullam afferremoleſtiam , fed præſentia tantű . Achæc cxtenuantur,& fuis ca limiti, bus, determines , cogitationem tuam redarguas,fi ca tam cxiguæ reinó Grfo rendæ. Num iam domini tumulo adfident Panthca, aut Pergamus? Num Adriani sepulchro Chabrias & Diotimus? ridi culum hoc. Quid verò G adGderent, ſentiréntne illi ? autuoluptatem cape Tent, fiquidem ſentirent? aut fi cam ce piſſent, an coimmortales eſſentreddi te? Nónnchis quoquefatum fuit ,ut ſencs &uetulæ priùs ficrent, inde mo scrétur ? Quidautem illi poftmodò fa ciét , his mortuis? Oia hæc fætida funt, & tabus in facco . Si acutèuidere potes,afpiccetquàm fapientiſsimè iudica,inquitille. In conſtitutionc animantis mente præditi nullam inueniouirtutem quæ iuſticiam cxpellat: Sed quæ uolupra . tem cijciat,uidco continentiam . Si tuam opinionem detrahas ab ea quod uidetur dolorem afferrc, ipfe in tutiſsimo es collocatus.Quisipſe? Ratio.Verùm ego , inquies, non ſumra tio.Efto.Proinde ratio ſeipſamnedolo re afficiat:Si quid aliudin te eſt quodlæ datur,ipſum de fe iudicet. Cùm impedit fomnus aut appetitus, idmalú accidit uegetatrici animæ: quæ &alia ratione offenditur. Ita fi mensim pediatur ,fitcum damno mente prædi tę naturę.Hæcoía ad te tranſfer.Dolor, uoluptas,attinguntte?Si uiſus impedia tur quominuscernat,impedituriã fen ſus. Quòd fi abſos exceptione aliquid appetis,iamid cú rationis capacis par tis incommodo fit :lin communetibi p poſitum eſt, neg læſus es, nec impedi tus. Mentis quidem proprias actiones nihil aliud impedire poteft:nonenimac tingitur ab igni ferro ,tyráno ,autcalum nia ,aut alia ulla talire . Sphæra cum fit ,rotunda manet. Indignum eſt, me mihi ipfi dolorem afferre,quinullum unquam aliúlubens læferim. Alijs aliæ res læticiam afferunt:mihi, fi pars mei princeps fana ſit, ne auerſe tur quenquam uel hominem, uel humanum calum :Sed omnia placidis afpici at oculis , omnia accipiat, ijsý utatur uti dignum est. Difce præsens tempus tibiip, gratificari. Qui commendationem pofterita tis magis curant,nó reputant dos horú Similes futuros,quosnuncægrè ferunt, argipä сcia mortales. Porrò quid om nino tua intercít, a talibusi) uocibuste cantent,autita de te fèntiant. Tolle mc, & ponc quocung uoluc tis, ibi enim utar genio mcopropicio.i. cótéto,& habeat ſe &agar naturæ mica confequenter. Id uerò an dignum eft,ut malè props tereàhabeatanimusmeus, ac feipfo de terius ?abicctus, appetens, anxius;per . territus? Ecquid co dignum inueniam ? Homini dihilaccidere poteft quod nó fit humanum, nccboui,uiti,ſaxo quic quam, quod nonlit confentaneumcius naturæ . Quòd fi unicuigid contifigit; quod & cófuetum eſt,& naturale,quid eft cur indigneris? nihiliticoletabile ci bicommunisadfert natura. Sin propter cttrancam aliquam ré perturbaris: nó A illa tibi,fed tuum de ea iudicium , molc ſtiã affert : id uerò ut abolcás , in tua eſt poteſtate. Quòd fi quid eorú quæ in te ſunt, te moleſtat, quis eſt qui prohibe at,ncopinionem emendes? Similiter Gi doles te hocnon agere,prodeft cogi tare,curnon potius agasaliquid , quàm doleas: ſin aliquod potétiusobſtat,no li dolere, cùm nófiat tua culpa,neagas. At uidetur ujuendum non elle ,nig hoc agatur: placidus ergo uitam relinque: quádo &is qui agit,moritur æquusim pedientibus. Memento partem tui principem ſu perari non poffe, cum in ſe collecta fc ipsa contenta est, neque quicquam pre ter uoluntatem agat, etiam fi noninftru eta ratione pugnam conferat. Quid er gò fier, li étà rõe parata, circúſpectè de reb.iudicet.Itaqmés ab affećtibus libe ta,arx é: nihil.n.munitius homo habet, quò refugiés fuperari nópót.Id qui nó uidit,indoctus est: qui uidit, ncq eòrc fugit, infortunatus. Siqd uiſa aut cogitationes tibi renú. ciāt,caue aliquid cu addas. Renunciacú 'cit, eft ,aliquem tibi malè dixiſſe. Eftoid al latum ,non taméid quo $ ,cflc teleſum. Video puerú ægrotare:uideo, sed g inpericulo Gt,non uideo, Ad hunc modú ſemper ingifte primis uilis, nihilipfein tus adijce:ita nihil mali erit.Imòhocad 1.dc,noſlete omnia quæ in mundo cuc niunt. Cucumis amarus cit ,omitte cum: uc i pres in uia ſunt, declina cas :ncq uerò dicas, Cúrnam hæcin mundo sunt facta. Ridereris enim ab homine naturæ rerű indagatore, haudſecus quàm à fabro aut futore, damnares quòdinofficina ramenta & reſecamenta operum uide : res.Atquihi ca poſſunt aliquo abijce re: uniuerli natura nihil extra fe habet. Verùm hocin cius arte potiſsimùm mirari decet, q cùm ſeipſam circumſcri pâffet, omnia quæ in ſe habet, quæ ob noxia corruptioni,ſeniog , & nulli ele uſus uideantur , in ſeipſam tranſmutat, rurfus ex his alia noua efficit: ita utne que fubftãtiá extra ſe requirat, neqlo cum ,quò uiliores res eijciat.Contenta eſtigitur ſuoloco,materia:& arte. Neqin rebus agendis flu & uandum eſt, ncqucin communi uita turbandú , ncquecogitatiouibus uagandum , nego omnino animus contrahendus, aut fü bito impetu efferendus,ncg uita occu pationibus inanibus attcrenda.Cædes peragunthomines , mactant,exccran tur: quid hęc poffunt,quominus mens tua permancat pura, prudens,modeſta, iufta? Quemadmodum fi quis limpido & dulcifontiaſsiſtens, eiconuicium fa ciat:illa quidem ob id non ceſſat purā aquam ſcaturire: quin &fi quis lurum, aut ftercus inijciat,tamen ſtatim illa dif fipabit atą eluet,ncgabijs obturabit. Quid ergo agendum , ut fontemper en nem habeas,non ciſternam? Compone te ipſum ,ut fis ad oés horas liber, man fuctus,fimplex ,uerecundus. Qui neſcit effe mundum, neſcit ubi ür. Qui neſcit, cuius rei cauſa fit natus, ncß quis ipſefit ,neq; omnino mundú cflefcit.Quorum alterutrum cui decft, is cuius gratia extiterit,dicere ncqucat. Vter uerò tibi elegantior uidetur, isą plaudentium fugit laudem ,anilli, qui ac negubi,nequc qui fint,cognoſcunt, Laudari cupis ab hic , & feipfum ſpa cio unius horæter execrat?placere uis homini, qui ne fibi quidem ipfe proba tur?nifi is probeturlibiipa ,qui ferè om nium eorum , quæ egerit,poenitétia cor ripitur. Non iam tantùm unà ſpirandus eſt circumfuſus aër, fed & confentiendum cum méte quæ uniuerfa complectitur. Haud em minus uis intellectrix omni ci, quod cam trahere poteſt,circumfu fa eft, quam ſpiritus ſpirare uolenti. Generatim malicia mundo non ob eft:inſpccie auté,nihil lædit proximu: Soli ci obeltcui & conceflum eſt , ut cũ primüita uolucrit,liberari ea poſſit. Non magis ad meam uoluntas alie na pertinet, quam uel anima eius , uel caro.Nam etfi maximè uerum eft, una noftrûm cffc alterius cauſa natū , tamé principes noftrum partes ,ſuum quæli. bet dominium obtinct.Etenim curalte rius malicia,mihieſſer malo? cum non Elit uiſum Deo,ut in alterius Gt potefta te, cſſemeinfelicemSol diffufus effe uidetur? atæ omni. no quidem fufus eſt, non tame effuſus, Fulio enim eius,cxtenſio.Itaq & fulgo res eius, quos nos radios,actinas ab ex tendendo Græci dicunt. Quod autem Git natura radij,uidere eſt, fi inſpiciaslu men ſolis per anguſtum in umbrofam donum immiffum . Recta enim im mittitur, & diuiditur ad obiectum foli dum corpus, quòd aërem intercipit :ibi ucrò permanct,ncq decidit. Ita &intel lectum fundiac difundi, non tamen ef fundi oportet: quippe utextendatur,ne quc ui & temerario impetu ad obiecta impedimenta impingat:ne concidat, fed perftet , & illuftretid, à quo acci pitur, id quidem , quòd eum transmit tet,ſplendore ſeipſum priuabit . Qui mortem metuit, aut amiſsioně ſenſuum timet , aut diuerfum fenfum , Quod& amitượt ſenſum ,nihilutig ma lifenriet; lin alium ſenſum adipiſcetur, aliud erit animal, neg amittetuitam . Homines unus alteri cauſa natifunt, Diſccigitur,aut fer, Aliterjaculú,alitermens fertur.Hæc enim etâ cauta ſit, &in deliberatione uerſetur, rectà tamen fertur.ingredi in principem cuiuſuis partem: præbet au tem etiam alij unicuique ingredi in ſu am principalem partem. Viiniuſtè agit, impietatis reus eſt. Etenim cùm uni uer natura ratione prędi ta animantia eò effecerit ut quantum eius dignum eft,unum alteri profit,noceatautem ne quaquam : qui uoluntatem cius præua ricat, impius utißeſtin omniú dcorú primam .Acqui mentitur,etiam impic tatisin candem dcam fefe obligat. Na tura enim uniuerfi,corúcſt natura,quæ funt:hęc autem omnia interfecognata funt . Porrò autem cadem Veritas dicituf,uerorųý primaeft caufa. Quii. tagſtudiò mentitur, cò quod decipit, impius eſt: quinon dedica opera,eò , p ab uniuerh natura diſcrepat , &quòd præter decorum agit, repugnās uniuer, b naturæ :repugnatenim ei, quiin con frariam partem à ueris deflectit, prætop quam iplius natura ferat, quęcioccalio nes præbuit, quibus neglectis non pót jam uera à fallis diſcernere. Impietatis reus is quoque eſt, qui uoluptates tan , quam bonum appetit, dolorem utma, lum fugit.Hic enim peceſſe eſt ſæpenu merà incufet communem natura,quae ſi ça aliquid præter dignitatem bonis malísue tribuerit:ppterca, quod fæpe mal¡ uoluptatibus fruuntur,cag.quib . efficiútur eæ ,poſsidet:boniuero dolo re afficiunt, & in caufas dolorişincidūt. Jam qui dolorem metuit mețuet aliquá do aliquid eorum ,quçinmundo fient: įd uerò impium eſt.Rurfus qui uolupta tem confectatur,non abftinebit fe ab in juſticia :id uerò palàm impietas eít, O portet autě ad ea ,quæ natura in utraq partem æqualia effecit (nca cnim utra que feciffet,niſi ad utranæ partem exx quoſe babuilſet)eum qui naturam uult lequi ducem, fimiliter æqualiter eſſe ef fectum ,Ita & qui dolores & uoluptates, mortem & uitam ,gloriam & ignomini am ,quibusæqualirationcutitur natu 14, nonin eodem ponitmomento, pro culdubiò impiè agit. Quod auté dixi, Naturam communcm ijs exæquo uti, ita intelligendú eſt,qdea cueniút in u traque parté conſequentia quadam, iu xta antiquum prouidentiæ impetum , quo illa ab aliquo principio ſe ad res i ta diſponendas contulit,complexa ra ționes quaſdam corum quæ ellent futu ra , deſtinatis quibusdam facultatib . ex quibus nafcerentur ſubicctæ , muta ţiones, & fucceflus eorum, Gratiofius quidem crat, hominem mendacij, fimulationis, luxus & ſuper biæ omnis inexpertum mori: ſecunda (aiunt)nauigațio eft,fatietate horum af fcctum antemigrareè uita quàm illa ui tia probare. Nondum ne tene experien tia quidem docuit,utpeſtem fugias? Pestis enim eft ca intellectus corruptio, lo gè magis, quàm aëris quædam intempe' ries ifta &mutatio. Hæc enim animali peftis eft,quatenus uiuitillud : hæcho minum, qua ratione ſunt homines. Mortem non contemne, boni camć conſule, quippe remexijs unā,quasna turadecreuit.Qualcenim eftiuueneſco re, ſeneſcere, augerc, uigerc, dentes, barbam, canos ferre, liberos crcare, uterű ferre, parere, reliquæ $ naturales effe ctioncs, quas tempora uiteadferút, tale eft etrādiffolui. 'Hominis ita ßrationc utentis cft,mortem ncggraucm ,ncquc uiolentam , neg contemnendam rem exiſtimarc,fed operiri eam , tanquam u nam è naturalibus actionibus:perinde atque nunc expectas, quando fætus ex utero tuçuxoris edatur, ita expectanda etiam hora, quaanimula tua ex hocre ceptaculo excidat. Quodfi rudequidé, ſed taméquod corattingere poſsit,do cumentum accipis,omninò ut facile fo ras mortem efficiet, fi cogites, quales ij fint à quibus diſcedas, & à quorum morum litanimus tuus ſeparandus col luuica luuie. Iraſci quidé ijs qui tecum uiuút, nequaquam debes, ſed corum curā gc rere,ijsý placidum te prebere:Cogitan dum tamē tibi eſt,te ab hominibusnon idem tecum fentientib . diſcedere. Hoc enim unam erat,quod poterat retinere in uita', G fuiffet homini datum uiuere cum ijs,quieademſentirent:Núc uides quàm laborioſa fitinter unà uiuentes diffenfio ,ita ut dicas:ô mors, uenicele riùs,ne quádo ipſe quog meiipfius ob liuiſcar. Quipeccat,abiipfi peccat: quiiniuftè agit, & biipfi iniuftè agit, ſco malum efficiens ipſum ,lædit. Sæpenu merò iniuriam facitis qui nihil agit, nó is modò quiagit. SiadGt certa de rebus fententia, & a ctio ſocietatem humanam ſpectans, & animus ita affe & us,ut boni cóſulat om nia quæ accidunt præter id quod eſt à cauſa profectum: hæcli adfint, ſuficiút ad opiniones tollendas, Gftendum im petum animi, extinguendum appetitú , &habendum paratam apudſeſc parté principalem . Vna uita brutis animantibus eft dis tributa:unamens, rationem adeptis. Qucmadmodum una eſt terrenorú ter ra, & unam lucem uidemus , unum aêre trahimus. quæcáqucuidendi & uiuédi uim habcmus. Quæ commune aliquid habent,con tendút ad id quod eft eiufdem generis. Omne terrenum ad terramuchit ,omnc item humidum, aut aërcum ad ſuum iti dem genus,ita ut neceſſe fituiea inde in tercludi.Ignis furſum effertur, propter clemétarem igncm: omniuerò hic igni aliquid eſtparatum utinflammctur,ita ut omnis materia paulò ficcior facilè i gnem concipiat,quia minus eft in eius temperic id quod inflammationě pro hibeatItag & omnc, id quod commu nis mentis eſtparticeps, limiliter ad co gnatum ſuum contendit:atq etiam am plius. Quanto enim eſt alijs rebus præ Itantius, tanto &parațius ut cómiſcea tur cum co quod eiufdemcſt generis. I taquc apudipla ſtatim bruta inuenta ſunt examina, greges,pullorum educa tiones, atq id genusquali amores.Ani macnim iam in his eſt, ido quod ea in unum conduceret, apud præftantioré partem reperitur:id quodin plantis,la pidibus &lignis nó inuenitur.Atapud ratione õdita animalia,ciuitatcs funt,ct amiciciç, & domus, & concilia:ingbel lo pacta & induciæ. Apudpræſtátiora, etiam ex diuerfis modis unitio quædá conftat, ut apud aftra adcò aſcenſus ad fuperiora conſenſum etiam in de iua dis cfficere potuit. Atqui apud catan tùm, quæ mentem habent,obliuio mu tui ſtudij & conſenſus reperitur, & hic modònon uidetur quomodò adſe in uicem affluant.Quanquam etiam fi fu giant homincs hanc coniun &tioncm ,ca men ab ea corripiuncur, naturanimirú præualente. Vidcbis autem id quoddi co, li animum aducrtas. Facilius cnim inuenies tcrrcum aliquid nulli terreno adiunctum , quàm hominem ab homini bus auulſum . Fructumfert &homo,& deus,&mú dus,fuo unumquodą temporc : quòd lconfuetum cſtin uite, ut luum fru & ű, nullum communem ferat, tamen ratio fructumfert &communem &propriú, naſcunturg ex eo alia quædam eiuſmo di, qualis est ratio. Peccataliquis.Sipotes,meliusillum doce:fin uerò, meminerismanſuetudi nem tibipropterea datam : nam & ipli dij illis ſunt clementes, qui& nonnul lis ad conſequendam fanitatem diuiti as, &gloriam ,auxilium ferüt:adeò funt benigni. Id & tibi licet, neque impedit quiſquam Labora, non ut miſer, nec ut qui uel miſericordia ,uellaudé conlequi ſtude as:idunum tibi fit propoſitum agere ſe cundum ciuilem rationcm . Hodie omni me periculo exemi,imò uerò omnia quæ uidebantur mala cie ci: nihil enim extrà erat,fed omniaintus in opinione mea. Omnia hæc, quæ in caducis funt, fa miliaria iam mihifecit experientia:du ratione autem ſunt diurna, materia for dida,omniatalia, qualia erat etiã apud illos, quosſepeliuimus. Resipfæ extrafores ſtát,nihilipfæ de feipfisnorūt, neß pnunciát. Quid igit deijs pronunciat?ratio. Negidperſua fione, fionc,ſed actione diſtinguit bonum & malum ciuilis animalis ratione prædi ti: ſicut ncßuirtusneg uitiú in perſua fione, fed actione. Lapidi in altum coniecto nihil mali accidit fi dccidat,ncg bonum , quòdin ſublime effertur. Introſpice corum animos, & uidebis quosij iudices timcant, & ut hi ſeipfos iudicent. Omniafunt in mutatione,ac tuipſe quog in perpetua alteratione, ac quo dammodo corruptione. Quin & totus mundus. Alterius peccatum ibi eſtre linquendum, ut firactionis defcctus,ap petitus,opinionis quics,ac quaſi mors. nihil mali. Tranfi nunc ad ætates , ut puericiam , adoleſcentiam ,iuucatutem ,ſenectam: horum omnium mutatio eft mors.aun quid mali?Trág deinde ad uită ſub auo acam ,ſub matre, ſub patre: quinetiã ali as multas mutationes & fines inucni cs, quære ex teipso, an quid mali Git?Ad cundemmodum eſt etiam totius tuz ui sæ finis, quies,acmutatio. Perpende mentem tuam ,uniuerfi,ac proximi:tuam ,ut ea iuſtam reddas.uni uerfi ut recorderc cuius pars fis: proxi mi, ut uidcas fitnein ca igooratio ,an uc rò incellcctus. Simul intelliges te factú ad explédum ciuile corpus,atqita om nem actionem tuam facere ad uitam ci uilem complendam.Etenim quecúquc tua actio nó ad focictatem humanam , tanquam finem uel propinquum uel remotum refertur ,illa uerò uitam inter polat,& unitatem eius foluit; turbaso ciet,ficut in populo cam plebs ſeceſsio nem facit. Abhac concordantia. Pue . rorumirę,ludicra ſpiritus qui cadauera geſtant:ut co efficacius accidatidquod eſtin Necya. Vade adqualitatem cauſa , čamgå materia ſecretam confidera, tum quàm diu permanerc omnino pofsit ca pro pria qualitas. Paffus esinnumera, eò quod non có tentus fuiſti cua mente agere ca,ad quæ crat facta.Sed hæc fatis. Cum te alius repræhendit aut, odit, aut aliquid talcpronunciat,afpicecorú animulas: intra, & uide quales Gint.Cer nes nihil eſſe tibi laborandú, ut hocuel illud ij de teiudicent. Bene quidem ijs uelle debes: Datura em amicifunt, eos dij omni ratione iuuant,perinſomnia, uaticinia.Hæc quidem de quibus ijcer tant , circulus ſunt rerum mundanaa rum, quæ ſurſum deorſumgab unoz uoin alterum uoluuntur. Aut ad fingulas res uniuerſi intelle ctus ſe applicat, quod fi eftita, id , quò ca ſe applicat:approba. Aut ſemcltan tum impetüfecitipfa més, reliqua om nia conſequéter fiunt.* Et quid unum alicui. Quodam enim modoAtomi. Omninò autem , que Deus fit, recte omnia habent : ſiue temerè ſunt omnia; i nunquid & tu ? lam nosomnesterra occultabit :poſt ipfa quogmutabitur: & res deindealię item in infinitum mutabuntur.Enimuc ro qui fluctusmutationum & motuum confiderabit, earumg celeritatem , is omnia mortalia contemnet. Torrentis inſtar cauſa uniuerſi rapit omnia. lam ó ipſa iſta ciuilia quàm ſuntuilia? & quàm k uidenturhomunciones iſti philoſophi cè agentes,pleni eſſe muci? Quid facien dum ? quod nuncnatura poſcit,cò con tende îi liceat , neqcura ,an fit aliquis mortalium hoccogniturus.Neo Plato nis remp. ſpera: Sed contentuseſto ,G uel minimum procedat:hứcqueipſum ſucceſſum cogita quàm non fit exi guus . Mutat aliquis illorum ſuum placitum ? atquiline horum mutatio ne quid eſt, quàm feruitus gementium, &perſuaſos ſe esse simulantium. Vade nunc et Alexandrum et Philippum et Demetrium Phalereum mihi dic, Vide rint an ſcierint quid communis uolue ritnatura, & an leipfos ſub diſciplina te nuerint.Quod ſi tragicè tantùm ſeſe o tentarunt,nemo me damnauit , ut co gar eos imitari.Opus philoſophiæ ſim-, plex eft , & uerecundum.Nolimeaddu cere ad faſtú, qui præſeferat grauitaté. Supernè contemplari infinitaarmen ta,ſacrificia ,omnis generis diuitias , in tempeſtatibus & ferenitate: quæ facta funt,cum ijs nata, quæitem deceſſerút. Conſidera etiam uitam eorum qui ante te,& qui poſt te uiuét: horú ét, qui hodie apud Barbarosuiuút: @multico rum ne nomen quidem tuum sciant, mul ti ſtatim obliuiſcentur, mulu cũ te núc laudent, ftatim ſunt culpaturi . Deniz quam res nullius momehti lit memoria aut gloria , aut aliquid tale. Vacuitas perturbationum in his quæ ab extrinſe ca cauſa accidunt , iuſticia in ijs , quarū actionum tu es cauſa : hoc eft impe tus animi , & actio , quæ finem habe at ſocietatem humanam : id enim eft tuæ naturæ conſentaneum . Multa fup uacanea ex hisq te perturbát,precidere potes,q tota in tua ſunt opinione fità, multūý laxitatis et ſpacij tibi acqrere. Torūmundū alo cócipe,tuuğæuú per pēde, tú celeré lingularú rerú mutatio . né.breue.f.efſe tēpus ab ortu ad interi.. túid uerò q huncfequit ,idó pillú prę ceſsit,infinitú. Oía quę uides,celerrime interibút: hi quo ,quieorú interitú ui dent, ipfi quog mox peribunt. Qui decrepita lenecta moritur, idem ferer cum co, quiimmaturamorte cadit. Quænam ſunt eorum mentes , quib. rebus ſtudent,quæ habent in honore, quæ amant?iudicate nudas ipforum in tueri animas.Cum uituperando obeſſc, aut prodeſſe laudando ſe putant, quæ cítilla opinio? Amiſsio uitæ nihil eft aliud quàm mu tatio: hacautem delectatur natura uni uerfi, fecundum quam omnia fiunt rc te. Abæternoreseiuſdem formæ natæ ſunt, licg eritin infinitum . Quid ergo dicis omnia facta, & futura male. Ergo nullus inter totdeos repertus eſt, qui ca corrigeret,ſed damnatuseſt mundus ut perpetuis malis conflictetur. Vide quàm putris ſit omniú rerum materia ,aqua, puluis,oſsicula,fætor: rurſus calli terræ ,marmora:fęces, aurű & argentum :crines,ueſtis,fanguis, pur pura,omnia reliqua eiuſdemmodi. Eti am quæ fpiritu conſtant, alio modo ta lia, atq ex hisin hæcmutantur. Satis miſeræ uitæ eft, & murmuris, & & imitationis? Quid perturbaris? quid in hisnoui? Qui terret te ?nú formala ſpicc cã.nú materia ? afpiceilla. Extra hæc nihil eft. Quin &iam crga deos ſim pliciot &melior esfaćtus. Idem eft Gue tribus hæc, live centum annis ea diſcas. Si peccauit , malum apud ipſum eſt: fortaſsis autem non peccauit. Aut ab una aliqua mente tanquam onteomnia progrediuntur, quæ cor poribus accidunt:proinde pars non de bet euentis totiusfuccenfere. Autato miſunt omnia,confufio , & diſsipatio ; quid ergò perturbaris?Menti tuæ dicis . Mortuus es ?perijſti, efferatus es , ſimu las, cs in cætu, aleris? Aut nihil poffunt dij, aut aliquid. Si nihil ,cur non compræcaris eos?Sin pol ſunt,cur non magis etiam pecis ut dét tibi, ne quid horum metuas, autexpe tas,ncque magis doleas ſi abſit,quam ſi adfit.Omnino cnim li poſſunt adiuua reij homines , etiam in hoc poterunt. Fortè dices,Dcusea in meapoſuit pote ftate.Efto . Nónne crgo præſtatteijs ģ in tua ſunt poteſtate uti libere, quàm de · ijs quæ non ſuntin tua man u pofita,ſo icitum eflc , animo feruili & abiecto 9 3 k 3 Quis autem tibi dixit , deos non in his etiam, quæ penes nosſunt,auxilium ad ferre?Incipe ergo precari de his, et uide bis.Precat alius , ut cum aliqua cubet: tu petę , ne eius rei appetitustibioriat. Alius petit, ut certa releuetur, tu, neca leuari tibi op' ft.Alius,ne amittat filiú : tu , ne idipfum metuas. Omninò adhuc modum uota concipe, & quid fitfutu rum uide. Epicurus ait fibicum ægrotaret, nul la fuiffe de corporis affectione cum ſu is colloquia ,fed decaufis rerum natura lium præcedentibus diſputatum conti nenter.Eı rei ſe intentum , mentem ha buifſe perturbationum uacuam, ut quę motuum corpuſculi nullam partem ac ciperet, ſuum bonum cuftodiens,idea qúe ſe ne medicum quidem qui appli caret pharmaca adhibuiffe; Sed uitam benè habuiſſe.Tuquod is in morbo po tuit,hoc liquid alterius rei incidat,ob ſerua. Vt eniin non defiftere à philoſo phia propter quæuis negocia, neg cũ quouis uulgari homine nugari,omnib, Sectis é cómunc.lic in omniactione cie b h ti incumbendum ſoli, q ppoſitum eſt,in ftrumétog quoadidutimur. Si cui? impudentia offenderis,ftatim percótare teipfum , an poſsit fieri, ut nulli fint in múdo impudétes.nó pótaūt hoc fieri: neigitpoſtula id qd herinequit :alio quin ipse quoß un'eris eximpudétib. ijs, quos effe in mundo oportet. Idem de uerſuto ,infideli,omnidenim quocú quemó uitiofo in próptu ſit tibi cogita re.Ná firecorderis neceſſarioid genus hominú efle , fingulos æquioré te prebe bis.Id quoq utileé,ftatimcogitare,quá homini natura uirtuté cótraid pecca tú dederit.Remediū.n.tribuit, cotra in gratos manſuetudiné,cótra aliud uitiū, aliud pharmacũ. Olo aút licet tibi in ui am reducere eu qui errauit: nā oís q pec cat, cò errat, pàppofito aberrat. Denique quid inde tibidamniallatú é:inue nies quidénullú eorú quib.iraſceris, tale quippiam fecisse, quomés tua fit futu ra deterior:atquiin hocunico fitú crat, ut malú tibi atg dánú accideret . Quid verò malum aut novum accidit, fi indoctus į homo agit suo modo: uide ne tu tibiip c 2 0 k 4 ſe potius ſisrepræfendis, quinon præ fenferis fore, utisi: a peccarct. Eenim anſam tibi omnino præbuit ut cogita res, confentaneum eſſe utis ita pecca ret.Ac tamen eius oblitus,miraris eum deliquiſſe? Maximè ucrò fi cui infi delitatis uel ingratitudinis cauſa ſuce cenſes, intra te conuertere. Proculdu bio enim à te peccatum eſt, fi eum ita affectum iudicauifti fidem feruaturum : aucl beneficium conferens,non eo có tentus fuiſti quod dederis , neque fru - & tum teipſa ex actione capere cogitaui ſti. Quid enim aliud requiris, cum ho mini bene facis?non cibi ſatis eſt ,te tuæ naturæ conuenienter egiſſe, ſed & mer cedé inſup defideras, perinde ac fimer çede oculus poſcat,quia uiderit,autpe des ppter grellus. Quéadmodú enim hæc ad certūfiné facta ſunt,ita ut ſecun dúfuam conſtitutioné atą naturam ſi egerint, fuum finem adepta ſciamus:ita homo adbeneficentiam natus , & quid beneficij cótulerit, aut aliud quid ege rit ,quod ſocietati humanæ conducat, fecitid ,cuiusgratia eſt factus, conſecu tus cft id, quod ad eum pertinebat. Ris aliquando , ô anima, bona, simplex, unica , & nuda, ſplendidior corpo re tibi circumiceto . Gu ſtabis olim amoris affo ctum :plɔna eris,nullius indigens , nihil deliderans ncg animati neque inanimi ad fruitiones uoluptatum :ncqtempus requires : quo diutius fruare,neq locũ, regionem , aut aèris commoditatem , nec hominum conuenientiam .Sed có tenta eris præfenti ſtatu , dele & aberis omnibus quæ cruntin promptu, tibig ipfi perſuadebis,omnia tibiadeſſe,om nia cuareétè habere,omnia à Dijs tibial lata,probabisquæcúq ijs probabunt, ac quæ tibi ad perfe&ti animalis ſalu tem dabunt,quod bonum eft, iuſtum , honeſtum ,omnia generat at continet & ample &titur, quæ diſſoluuntur cò, ut alia exiplis exiftant. Eris aliquando ta lis, utita cum Deo & hominibus uiuas, utne quid in ijs repræhendas, neg ab illis damneris.Obferuaquid natura tua requirar , quippe qui tātùm à natura gu berneris :id deinde fac &admitte , nifi tuanatura,qua animales, cò fiat deteri or.Secundo loco animaduertédumeſt, qd animalis natura quæin te eft, requi rat:idgo mne omittendum eſt, nifide terius tit habitura ea natura , ob quam rationis particeps diceris: nempe ciui lis , & rationalis. His uſus regulis, nihil ages fuperuacancum . Omni quod tibi euenit , aut ita euc nit,ut tu laturuses , aut ſecus.Si como do, quo tuid ferre potes , non fer ægrè, fcd utnatura tua te docet: fin cótrà , no litamen indignari, etenim ipſum peri bit.Enimuerò memento cam eſſe tuam naturam ,ut omnia feras ca,quæ an into lerabilia iudicare uelis nécne, in tua eſt fitum poteſtate,ſecundum uiſa, qua id tibi prodeſſe aut conuenirc ducis. Siquis errat; docercillum debes benigne, & oftendere quid non animaduer terit.Siidneſcis,teipfumaccuſa,imò ne teipſum quidem. Quidquid tibieuenit, id omne abę. terno tibi deſtinatum eſt,atą à conne xu caufarum fataliter tributum . Nam &quod tu es, et quæ tibi cueniút, ab æ terno dependent. Siue ex impartilibus corpuſculis, fi uc natura mundus conftat, id primum conſtat,eflcte partem totius quòd à na ra gubernatur.Deinde,coniunctionem tibi quandam eſſe cum eiuſdemgeneris partibus.Horum memor,quatenus par tem me eſſe totius fentio, nihilægrè fe ram eorum , quæ à toto mihi tribuútur. Parti enim nihil poteft nocere, quod to ti prodeſt. At totum nihil habet, quod nóip6 profit.Id , cùm omnibu set có mune naturis , tú Vniuerſi naturæ hoc accedit, quod ne ab ulla quidemextrin feca cauſa poteſt cogi, ut aliquid fibi dá nofum producat. Quatenus uerò mihi cognatio quædam eſt cum partib . quę funt eiuſdem generis , nihil agam quod non refpiciat communitatem , imà ſemper ad communem utilitatem diri gammeas actiones, & à contrario auer tam.Hisita conſtitutis ,necefle eſt uitá proſperos habere ſucceſſus: ficut & ci uis uitam profperam intelligeres,proce dentis per actiones ciuibus utiles , boniş consulentis quæcung ei civitas tribueret. Omnes partes mundi interire necef farium eſt, hoceft, alterari. Quod fi hoc etiam malumipfis fit ,nónne uniuerfum malè poſsit perdurare, partibus ad inte ritum, &alterationem cóparatis. Vtrú enim natura inſtituitſuas partesmalè af ficere,malog obnoxia, & quidéneceſ ſariò,efficere?aut perimprudentia hoc admifit ? Vtrung quidem non eft ueri li mile. Quin etiam ratione Natura omiſ ſa, ipfarum rerum naturam confideret, item ridiculum erit hóc. Simul enim di cere, quod mundi partes à natura factæ ſintad mutationes et carummutatio ncs quafi contra naturam euenientes mirari aut indignè ferre, abſurdum ſit: præſertim cum fingula ex quibus ſunt conflata, in ea etiam diffoluantur. Aut enim diſcretio fit clementorum, cx qui bus concretæ ſunt res, aut mutatio, ſoli di quidem in terram ,aèrci autem in ae rem, ita ut hæc quoß aſſumantur in Ra tionem uniuerfi, fiuehoc certis conuer fionibus inflammabitur, fiue perpetuis uicibus renouatur. Solidas autem &ae reas partesnon opinare ab ortu te habc re : omnia iſta heri & nudiustertius ex alimento et inspirato aêre affluxerunt: hæcgmutanti, non id quod ex utero matris attulifti. Poneaut,hocte admo dum adiungere propriæ qualitati:nihil rcuera,puto ,adid quod dicitur. Cùm fumpferis tibiipfinomina hęc, bonus,uerecundus,uerax, intelligens, prudens,alti animi,caucne quando ifta nomina,amittas,alijsg camutes. Celc riter ea aſo repete, acrecordarcnole in telligentis indicari ſcientia dc fingulis rebus percipiendi, & eú, qui cogitatio nibus alienis non occupetur: pruden tis uerò, uoluntariam approbationem corum , quæ communis natura tribuc rit :altitudine animi,mentis intentioné & ſublimitatem , ſupraleues & duros motus carnis, gloriam ,mortem , aliasg res elatæ. Siigitur teipſum dignum his nominibus præftiteris,non id appetés, utab alijs ita appelleris,alius eris,alião ingredieris uitam . Nam talem te porrò elle,qualis hactenus fuifti,hoceftin hac uita raptari &inquinari, nimis ſtupidi eft hominis, & VITAM AMANTIS, fimiliso eorum , qui in pugna aduerfusferas fe meſi ſunt. Hicnim pleniuulnerum & ta bi,tamen hortantur, ut in craftinum fer ucntur,iterum pugnaturi aduerſus eof dem ungues & dentes. Itaq te paucisi ſtis nominibus accommoda, ac,& qui dem pofsis,ea tuere, perinde at hin In ſulas quaſdam fortunatas commigral ſes.Sin teinferiorem ijs eſſe ſentis, fece de audacter in angulum aliquem ,utibi uictoriam obtineas: aut omnino è uita abi, non iratus,ſed Gimplici & libero ani mo, atæ uerecundo, cùm id unum in ui ta egeris,uteo modo difcedas. Vt auté memoriam illorú nominum retincas, haud exiguú tibi ad feret adiumentú, ſi recorderis deorum , atß eos nolle fe adulari,fcd hocuelle, ut ratione prædita animalia, ipforum quàm fimilima ef ficiantur. Ficus,canis,apis,ſuum quoduis offi ciumfacit: idem eft &hominis partiú. Mimus , bellú, terror,ſtupor,ſeruitus: hæc quotidic delebút facra illa tua pla cita, quæè contemplatione naturæ rc rum hauſta circumfers. Omnia autem, ita ſuntinfpicienda &agenda,ut & cir cumſtantijs fimul ſatisfiat, & cognitio inactioné uertatur,ferueturó animicó ſtátia ex earūſciétia accepta. Ignorat, non tñ cft abfcóditú Quando capies fru &tum fimplicitatis?qñ grauitatis? quan do cognitionis fingularum rerum ? quæ : nimirum fiteius natura, quis in mundo locus, quandiu ferat eius natura ut du ret , quibus ex rebus conflata fit, quis eam poſsit poſsidere,quis dare autadi Aranca, ſi muſcamceperit, exultat: alius G leporem, aut piſciculum ,aut fu cm , aut urſum , autfarmatas ,nónne hi ſunt prædones? Si opiniones exami ncs, quomodo unumin alterum tranf mere. mutetur,uiam ac rationem contempla di parabis.Continenter autem hucani mum aduerte, teý huic parti adlucfac: nihil eſt enim quòd perinde animum magnum efficiat.Corpus enim exue, in telligensgiamiam te ex hominibus di ſcedentem ifta omnia deſerturum ,torů teipſum da iufticiæin actionib . tuis ſer uandæ, in reliquis quę eneniuntrerum naturæ totum te cómitte: quid alij uel fentiant de te, uel agant contra te, ne ad mentem quidem tibi tuam accidat. Duobushis contentus eſto , ut & iuftè agas in præſentia , & id quod nunc tibi obtigit,boniconſulas. Omnes alias oc cupationes,omnia ſtudiamiſſafac ,huic modò intentus,ut rectà ſecundum lege ingrediaris, deum ſequens. Quis lituſusderebus tanquam ſuſpe Etis deliberādis hinc patet. Si quid age dum fit,uideasą id elle ex uſu, firmiter cò procedendum. Sın id nonintelligis, inhibendaactio , & optimis utendum confiliarijs.Quòd G alia his aduerſa oc currant,progrediendum eft iuxta præ fentes occaliones,animo ci quodiuftú uidetur intento . Optimum enim eſt cú áttingere ſcopum . Quietus fimul, & ad motus facilis, fi mul & lætus , & conftans eftis, qui ra-. tionem ubiq fequitur ducem. Interroga ex teipfoftatim à fomno ex pergefactus,nū tua interſit, fi quæ iuſta funt & reétè habent , in aliorum fint poteſtate?Nihilintereſt. Nunquid oblicus es, illi qui aliorum fermonibus & laudibusfeiactant,qua les in lecto fint,quales inméta quid ? a gant ,quæ fugiant, quæ confectentur? quæ furentur,quærapiant? non quidé manibus & pedibus, ſed precioſiſsima ipforum parte,qua acquiri poteſt ( ſi qs uelit) fides, uerecundia,ueritas,lex,bo nusgnius . Omnia danti & recipienti naturæ p bè inſtitutus & uerecundus dicit : Da quicquid uis , aufer quicquid uis . Ne que hocaudacia elatus dicit , fedeio bediens, camś probans. Vitæ cxigua reſtat pars :uiue tanquá inmonte. Nihilem refert hîc ne fisuel illic,modò ſcias te ubig in mundo, tan quam in urbe eſſc. Videant, inquirant hominemhomi nes uerum ac fecundum naturam uiué tem.Sinon ferunt eum , occidant:præ ftat'enimhoc,quàm illo modo uiuere, Noniam præçerea tibidiſputandum eſt, qualísnam ſit uir bonus: fed curan dum, ut fis uir bonus. Subinde tibi ante oculos pone æuũ totum , & uniuerſam natura:cogita, uc res ſingulæ ratione ſubſtantiæ nuclei fint oliuarum ,temporis,tenebri cóuer lio :1dý de ſingulis rebusindaga .Quem admodum exiam diffoluátur, finto in mutatione ac qualiputrefactione & dil ſipatione: utunumquodą ſuam ucluti mortem habeat.Quiſuntilli, qui nunc comedunt,dormiunt,coêunt,uentrem purgant?cum quiimperant alijs, ſuper biunt,indignantur,inferiores increpát? quibusilli paulò antè feruierunt, & qui bus de caulis?quieruntpaulò pòft? Vnicuiqid prodeft, quod naturau niuerG fert,atx co quidem tépore, quo ca fert. Expetit quidem pluuiam terra: expetit autem uenerandus æther cum eſt repletus nubibus in terram decide re,ita & mūdusid agere cupit,quod fit: dico itaqmundo,meei adſentiri. Itag & hocfit, & dicitur fieri, quod mundus uultita fieri.Authic uiuis, & te adſuefe ciſti, aut aliò te confers, & hoc uoluiſti: aut defunctus tuo munere moreris. Nihil eſt præter hæc. Bono ergo esa nimo. Semper fit euidens , hoc efſe agrú : 1 & quomodo omnia funt hieijs qui in ſummo luntmóte,autin littore , autu . biuis. Omnino enim inuenies Platonis illud, ftabulo in monte abditus : & ba lare. Quid eſt mens mca ? ad quid nunc ea utor?Eſtne aliquid mentis uacuum ? cftne aliquid à comunitate diuullum ? num affixum & admixtum carni , ut il ludunàmutetur? Qui dominum ſuum fugit, fugitiuus eſt.Lex autem dominus eft. Ergo qui cótra legem agit, fugitiuus eſt. Acdolo-, rem aliquis,iram , aut metumconcipit, propter aliquid eorum quod facūeſt, uçlât , uel fict ſecundum uoluntatem & eiusqui uniuerſum gubernat.Hic uerò lex eſt tribuens ſuum unicuif. Ergo 13 qui hoc modo timet, dolet , aut irafcit, & fugitiuuseft. Pater semine in uterum matris dimillo abijt. Inde ſuccedés alia cau ſa agit, & abſoluit facum ,animaduerten dum eſt ex quo quid efficiatur. Rurſus cibus per fauces dimittetur,deindealia cauſaluccedens,ſenſum ,appetitum ,ui tam ,robur,omniaģiſta aliaefficit.Ita ea, quæ in tanta occultatione fiunt, co Gderanda ſunt, facultasģita conſiderá da eft ,ut& eam quæ deorſum , & eam quæ ſurſum uergit uidemus, non ocu lis quidem corporeis , fed haud minus tamenperſpicuè. Alsiduò conſiderandumeſt,quomo do omniahęcſint,qualia fuerint,aclint bulæ atqfcenæ earundem in ſpeciem rerum , quasuelexperientia uidiſti, uel exantiquahiſtoria cognouiſti,ut,aulá Adriani,totam Antonii aulam,totam Philippi aulam, Alexandri,CroG.Om nia enimhæc, talia erant. Tantú per alios animo tibi finge cũ, quialicuius rei caufa doletautindigna tur,fimilem efle porcello qui mactatur, & calcitrat at grunnit, Similisetiã ei qui gemitin lectulo ſolustacitè alliga tionem noftram . & quod ſolianimali ratione prędito datum eſt ut rebusque cueniütfpóte obſequat. Olo aut ſequi eas,oíbusé neceſſariū.In fingulis reb. rereexteipfo debes , fitnemors mala, proptereà quòd ea re te fit fpoliatura. Cuni alicuiusoffenderis peccato,fta tim ad te reuertere , ac cogita quain fi milire tu pecces: ut,Quòd argetum ,uo luptatem ,gloriolam in bonisducas. Id iram mox obliuione delebit : accedat autem & hoc,uteum inuitum peccare ſcias. Quid uerò faceret coactus? Tu; li potes,efficene cogatur, Cùm Satyronem uides,Socratium ti bifinge conſpectu dari:cùm Eutychen, Hymenem ,uel Euphratem cervis, Eutychionem, Syluanum, Alciphronem, uel Trophæiferum imaginare: Xenophon . te uiſo , Critonem aut Scuerum: denis ſingulis aliquem priorum certa ratio ne limilem oppone. Simuluerò tibi ad animum accidat,Vbinamfuntilli ? nusquam ,autubicung. Ita nunquam non cernes res humanas fumum ellc & uani tatem.Maximè fi recorderis id quod ſe mel mutatum eſt, nihil fore in infinito tépore . Tu aut in quo tempore es ? aut qui non ſufficit tibi, breue hoc honeſte exigere?quam materiam , o ſubiectum fugis? Quid enim ſunthęcoia,nifi ex ercitia rationis quæ accuratè perfpexiç naturam earum quæ in uița occurrunt rerum . Perduraigitur, dum eas res tibị familiares reddas: Quéadmodú ualid ventriculus oía fibi effiçit familiaria : & ignis ſplendidus quidad ei inijcias, fla mã ex co &fulgore edit. Nulli liccat uerè dicere,nó efſe te fimplicé et bonu: sedmentiatur, quicúq hocde te ſentit. Id uerò omne penes te eſt:quis enim pa hibeat,nelisbonus&fimplex ? Tibimo ftet ſententia ,nó uiuere,nifi talis ſis :ne que enim patiturratio te niâ talem . Quid Git, quod poſsit de propoſita materia rectiſsimè dici, uel agi, conſide ra:quicquid erit,facere tibi uel dicere li cet,nemine obſtate:neo prætēdete im pediri.Nexprius deſine ſolicitudiné, ita ſis affectus,ut qďuoluptuarijs ſunt deliciæ, id tibi fit actio in ſubiecta & ob lata materia , humanæ cóftitutioni co ſentanea.Oé.n.id qdlicet tibi agere ſe cundú natură, p uoluptatehabendú é: licet aút ubią .Nam cylindro quidem non datur,ut quouis loco feraturſuo ,p prio motu, ut negaquæ, neg igni,ne alijs, quęànaturaautanima rationis ex pertereguntur:multa enim ſunt quęob ſtent eis, & intercipiant.Mensautem, ſi ueratio per omnia quæ reſiſtunt perge re poteſt ſecundum ſuam natura & uo luntatem.Hanc facultatem anteoculos tuos ponens, g mens per omnia poſsit ferri, ficut ignis ſurſum , lapis deorſum , cylindrus per decliue,nihilpræterea re quire.Reliquaimpedimenta aut corpo reiſuntcadaueris,autpræteropinioné, ipfius métisremiſsionénó lædunt,ne que ullú afferunt malū :Alioquin is qui impediret,malus confeftim fieret. Na reliquæ res omnes ita ſunt compara tæ ut fi qd eis maliaccidat,ftatim dete riores fiåt.At hîc, a oío dicédüeſt,meli or etiam fit homo , maiorique dignus į aude,fi rectè utatur ijs quæ occurrunt. Omninò autem memoria tenendum eſt,ei qui natura ciuis eſt,nihil poſſe no cumenti accidere, quod nonidem ciui tati noceat.Atqui huic nihilnocet,nifi quod obfit legi.Eorum uerò , quæ incó moda autinfortunia uocant , nihillegi officit :ergo neg ciuitati,ncg ciui. Qui morſus eſt à ueris dogmatibus, ei ad recordationem uacuitatis dolorú & metusſufficiet uel minimum . quale illud: Sternit humi uentus folia. Haud aliter genus humanum . Foliorum uerò rationem obtinent &liberi tui , &ij homines qui acclamát & collaudantita,utfidem mereri uide antur, aut contrà execrantur,aut tacitè repræhendunt & fubfannant. Foliorú rationem obtinent et hi, qui famam po ſteritatis excipient.Hęcenimomniana fcuntur tempore ueris :pòſt animus ea deijcit: inde alia ipſorum in locum ſyla ua producit.Breuitas uerò téporis om nibus eſt communis. Tu autem omnia perinde atque æterna fugis aut appetis, paulò pòft moriturus:& cum quite ef feret,alius lugebit. Sani oculi eft ,omnia uiſlia cernere, & non uiridia tantum uelle, quòd faci unt ij, qui vitio aliquo oculorum laborant.Idem de sano auditu et olfactusentiendum, utriqomnia fui generis senli lia esse promptè appræhendenda: qua ratione etiam uentriculus ad omne a limétum paratus debet effe ,inſtar mo læ , quæ ad quæcunque molienda para ta eſt.Proinde & més ſana parata debet eſſe ad omniaquæ occurrunt. Sed ea ģ hoc tantum curat, ut liberi fint ſalui, ut ab omnib.laudentur eius actiones, ocu lo fimilis eft uiridia, autdenti tenuia tan tum uolenti. Nemo eft adeò felix, cui mortuo non Gintadftituri quidam , qui malú quod ei obtigiſle putatur , haud malè lit con ſulturus:probus,dicent, & fapiens crat: nónne ad extremum aliquis dicet fe cum , Etipfe aliquando reſpirabo-ab hocpædagogo.Nulliquidem noſtrum erat grauis,fed feng tamen clam nos ab coſperni. Hæc de bono uiro dicentur . ant. Nobis quàm multa ſunt alia, ppter quæ multi ſunt, qliberari à nobis cupi Hæcmoriens li cogites, cò facili us diſcedes hinc , reputans te ex ea uita abire , ex quaijipli q ei' ſunt participes, quorum gratia táta certaminafuftinui, precatus ſum ,pcuraui,meuolüt migra re,fortaſſe aliquid meamorte alleuatio nis fperátes. Quidé,curdiutius hic mo rari quæras? Nihilo tn minus benignus illis diſcede,morem tuum ſeruans, ami cus,beneuolus,propicius:negutis qui abripiatur,ſed quibenemoritur,animu la facilè ſe foluente è corpufculo. Eo modo & ab his diſcedendum eſt, quib. nos natura accommodauit & mifcuit. Difloluitnunc? diffoluor et à familias ribus abducor, non reluctans, non vim patiens. est enim et hoc unum corum, quç fiunt secundum naturam. Asvesce, utin omni re teipsum per con teris. Hçustu quorſum hocrefert? A teipso facinitium , teg primo examina, Memento facultatem motricem corporis intus latere. Hæc est facundia, hæcuita, hoc est, ut ita dicam, homo. Nunquam circumiecta vasa animo tibi propone et instrumenta hæc tibi afficta. Similia enini sunt dolabræ, cotantum differentia, quod adnata funt. Alioquin sine causa, quæ ea movet et continet, haud maio ri sunt usui, quàm radius te xtrici, calamus scriptori, flagellum auriga. Aec propria sunt animi ratione præditi. Se ipsum videt, se ipsum componit feipfumtalé, quale vult, efficit, fru &tus quosfert, ipfepercipit,(Erenim plantarú fructus, atg etiam animalium , alij percipiunt.) fuum finem conſequitur, quicung ui tæ fit terminus: nó utin ſaltatione, & a gendis fabulis,alijs id genus rebus fit, ut fi quid offendatur,tota actio fiat irri ta : fed is animus omni in parte, ubicuß depræhendatur, id quod oblatum eſt,e fedum & nullius rei indigum reddit, ita ut dicere poſsit ſeſuum habere.Con plectitur pręterea totum mundum, eiſ inanc circundatum ,figuram eius, infini tatem qui , certis conuerlionibus con Itantem regenerationem uniucrſarum rerum contemplatur. Inde cognoscit, ncgnouum aliquid pofteris cuen turú,nem eos qui ante nos fuere,quica amplius nobisuidiffe:fed quod is qui è quadraginta annorú,fi méte utaturferè oía præcerita &fucura uidet in reb.eiul demformę.Hecquoß eifunt propria, amorproximi,ucritas,uerecundia, utni hil feipſa præſtantius ducat,quod qui dem ei cum Lege eſt commune,itaut ai hilinterfitinterreciam rationem , &ra tionem iufticiæ. Cantilenam iucundam ,faltationem , & pancratium contemnes, Siuocélua uè fonantem diuidas in fingulos fonos, ata ſeorlim de fingulis ex teipfo quæ ras an ab co patiarete uinci:pudorcpro fe & ò afficieris.Idem dereliquis fuomo do intellige.Deniqin omnib .illis quæ nonfunt uirtus, nec à uirtute profici ſcuntur, memento ad partes corum re fpicere, diuifiones illa in cótemptum adducere : ids in uſum totius uitæ eft transferendum. Qualis eſt aia quęparata fit, fiiamde beat à corpore ſolui, & uel extingui,ucl diſsipari,uelconſtare.Vtautem licpara ta ſit , à peculiari iudicio uenit: non ut fimpliciter mortem aliquis ſubcatid Chriſtiani faciunt,fed bene ſubductisra tionibus & cum grauitate, ita ut & alte ri hoclincuerború cxaggeratione per, fuadere poſsis. Egi aliquid ad ſocietatem humana códucens: ergò utilitatem ſum cóſecu tus.Id femp occurrat, nequnquādebt. Quã tenes arte?Bonuseſſe. Quánam fic hocratione? Si contempler , partim na tură uniuerâ partimhominis ſtructurā. Initiò Tragoediæ prolatæ ſunt, quæ monerent de ijs quæaccidere homini bus ſolent, eam eſſe.rerum naturam , ut liceueniant.At uerò quib . in ſceną delectabamini, curijſdem offendimini in maioreuitæ humanæ theatro ? Vide . ris quidem ,quod ita hæcdebuerint per fici,quodý ea feruntetiam ij, qniclama uerunt. Id Cithoron. Et fanè quædam utiliter à poëtis dicuntur , quale eſtil ludin primis. : Quod li dijmenegligút , &liberos, Rationem habet illud.item . Nam reb. iraſciſanènihil expedit. Frugiferam utiſpicam meæ uitæ me tam. aliag id genus. Poft Tragedia uetus Comædia illata eſt,libertatédiſci plinæ accommodatam habens, cazip fa haud inutiliter nos monens, ne faſtu extolleremur. Cuius fimile aliquid etiã Diogenes uſurpauit. Poſthas &media quædã comedia & ad extremú noua aſſumptæ ſunt, haud alium ob finem , a ad ſtudiú artis imitando oftentandæ . Dici enim & ab hisipfis quædam utilia, nonignoratur: fed tota huius poëſeos & fabularum ,ſcriptionis intentio qué nam finem reſpicit? Quomodoeuidens fit,non eſſe aliud uitæ propofitú ita có modú ad philofophádū,ut eftid, quod núc tenes?Ramusà pximoamputari ra monó pót, an & à tota arborere fecet: fic homo etiã ab uno auullus hoie,nó pornó écà toto excidiſſe cætu. Itagra mum quidem alius aliquis, homo feip ſum à proximo feparat, cum eum odit aut auerfatur:ignorat uerò étà tota ciui li ſocietate ſecadéroeabrumpitur. Ve runtamé hoc habemus munere louis, hác ſocietaté cóftituit,ut rurſum adcre ſcere pximo, & explere totú poſsimus: Ettamen ſi hæcauullio fæpius admitta tur ,efficie,ut uniriiterum at coaleſce rehaud facile pofsit id quod erat auul fum :tum uerò , quòdfatent plátatores, non eadem eſt ratio rami qui ab initio floruit cum arbore,manfitgin ea ,&e. ius qui amputatus;rurſus deinde eſt in fitus. Oportet igitur in eadem arborc elle, etfi nonidem cum omnibus ſentias. Qui tibi ſecundum rectam rationem procedenti impedimento funt,ut auer tere teà recta actionenópoffunt,ica ne que tua erga ipſos beneuolentia depel lantte:utrobiß teipſum eundem ferua, utnon modò iniudicado cóftantia, & agédo , fed &aduerſus eosqte phibere conantur, aut aliâs indignantur,māſue tudiné tuearis . Haudem minusinfirmi eſt illis iraſci , ô defiftere ab actione, & concideremetu perculſum : utrunque eft eius qui ordinem ſuú delerit , quod alter mctu facit,alter odio cognati fibi, &amicinatura. Nulla natura arte inferior eſt: quip PC cùm artes fint naturæ imitatrices. Quodſi eſt,utiq naturaomnium perfe & tiſsima &omnia compræhendens, ar tium folertiæ nequaquam cedet. Porro omnes artes præftantiorú gra tia faciunt uiliora:ergo & cómunis na tura. Acoz hic eſt ortusiuſticiæ: ab hac reliquæ uirtutes dependent:non enim conitabitiuſticia,ſi uelrebus ſuapte na tura neqz bonis nec malis nimium tri buamus,uel temerarij,ucl errori procli ues erimus: Non ueniunt ad teres eę, quarum fu ga uel appetitu perturbaris,fed tu quo dam modo ad eas accedis :iudiciumita la que deijs quieſcat,ita etipfçquieſcent, & & ne ſequeris eas,neg fugies. Animus globo ſimiliseſt , figuræ æ quabilis, quandones effertie, negcó trahit,ſed luminefulget, quo in omnib. & rebusueritatem cernit,& in ſe quoque Contemnorab aliquo : uiderit. ego ibi curabo ,nequid contemptu dignum a gam autloquar.Oditmealiquis: uide ip rit.Ego quidem omnibus ſum placidus ces &beneuolus,atco ipſo promptus ad ne ch ere cm que ipſo. 100 god m oftendēdos alijs ſuos errores: neß hoc exprobrādi cauſa, aut ut patientiam o ftentem meam , fed ingenuè & pro bè. Quantus erat Phocion, nifi idip ſum præ ſe tuliffet. Intus enim omnia oportetrectèhabere, & à dijs conſpici hominem nullam rem indignè ferenté, autquiritantem . Quid enim mihi mali accidit,fi alius id agit, quod eſt naturæ tuæ commodum? nó accipies id quod nuncnaturæ uniuerfi eſt opportunum, cum ſis homo eò deftinatus,ut commu ni utilitati inſeruias? Qui contemnunt fe mutuò , ijdem mutuò ſe demerentur: & qui mutuò de primatu contendunt, mutuò libi con cedunt. Quam putiduseſt, & fallusille , qui dicit : Statui fimpliciter tecum agere. Quid agis ? non erat hoc præfari opus: ipla reshocoftendet.Statim ipſo in uul · tuinſcriptus debet efTe fermo,acftatim ex iplis oculisapparere : Quemadmo dúex afpectu amatores ſenlum ſui ama fij.ſtatim cognoſcunt.Omninò uir bo nus & fimplex hircoli debet aliquld fi mile habere, ut qui ei adeft, uelit, nolit, tń cius fimplicitate depræhendat. One tatio aut ſimplicitatis, infidiæ ſunt te étæ :neq uerò quicộ turpius eftfubdo lis acinfidis congreſsib .Hocoím maxi mè fugito. Bonus,fimplex& manſuelº uir ,hæc oíaí oculis habet, ncg calatét, Rectiſsimè uiuédi facultas é in tuo aío pofita,nimirú ut res neg bonas ne quemalas,in nullo ponas diſcrimine. Id fet, & unamquamlibet eorum conté pleris diuiſim , & rationetotius,memor nullam earúin animis noſtris de ſe poſ fe excitare opinionē, negadnos ueni re: sed ipsas quidem quieſcere,nosautem effe, q deijsiudicia faciamus apudnos, easýnobis quali depingamus:cú liceat tñ autoío no depingereillas, aut fihoc oío ſit admiſſum ſtatim delere. Exigui temporis attétio hæc eſt, indefinis erit uitæ .Quid obftas,quo minus hęcrectè habeant ?Quęli ſuntſecundú naturam, gaudeillis, & erútfacilia :ſincótra natu ram ,quære quid fit tibi fecundum natu ram ,atpid contéde et si gloria careat. Ignoſcedūé.n.oīci, ſuuğrit bonum. Videunde uenerint omnia , ex quib. conſtent,in quod mutentur,qualia fint inde futura ,tum nihilmalicis accidere . Primùm , quis mihi ad eos reſpectus. Nati fumusinuicéun ' alcerius gratia.A lia autem ratione natus fum utipfisprę ſim , ficut aries gregi, aut taurus ar mento . Rem altius repetc. Sinó conſtat mú dus ex atomis , utią natura cum guber nat. Quod fi detur, utiq deteriora præ ftantiorumgratiafunt: hæcuerò, unum propter alterum . Deinde, quales illi ſunt in menſa ,le cto ,alibi?Maxime autem quib . illi funt neceſſariò opinionibusaddicti, & qua to cum faſtu aguntſua. Tertium eft . Sircctè faciunt hæc, nó eſt indignè ferendum : ſinfecus, at non ſponte,ledignoratione peccant. Omnis enim anima invita privatur cum veritate, tum eo, ut possit cum uno quoli betut eſt dignum ,uiuere. Itaque dolo reafficiútur,li iniuſti, ingrati, auari,om ninoſiniurij erga aliosdicantur. Quartum eſt.Ipfequoginmultis delinquis, es ipſorum ſimilis:ac tametG quibuſdam peccatis abſtines, tamen ha bitum ea faciendihabes, ac uel metus, uel gloriolæ conſectandem causa, aut aliud ob malum, abstines similibus peccatis. Quintunc hoc quidem ſatis ſcis, an peccent. Quædam enim ordinc fiút. Omnino autem multa experiri opusē, antè quàm certum aliquid dealiorum actionibus ſtatuas. Sextum.ut maximèſtomacheris,ta men uita hominum eftmométanca, ac paulò pòſtomncsmorimur. Septimum.Non actiones ipforúno bis moleſtiam exhibent, cùmeæfint in ipforum animis : fednoftræ opinioncs. Itaq tolle uoluntatem iudicandi de rc aliqua tanquam mala : limul ſuſtuleris iram .Quomodo, inquies,tollam? Sire putes,non eſſerem turpem.Namnig.fo la turpitudomalum eſſet,tu quogne ceffariò multis modis peccares,ficres latro, & omnia tentares. Octauum.Multò grauiora adferunt dolor & ira ,quam obaliorum pecca : ta concipimus, quam ipla illa , ob quæ m 3 raſc imtur & dolemus. Nouú manſuetudo , li genuina fit, no adſcititia aut fucata,inuictač. Quid uerò uel extremæ libidinis homo tibi faciet, fi conſtantermanſuetudinem fer ues, acl res ita ferat , placidè eum hor teris ac doceas eo ipſo tempore , uacás huic reitum , cùm is te lædere nititur. Si dicas,Noli fili, ad alias res nati ſumº: ego quidem non lædar,ſed tu: ido eia pertè & integrè oftendas, neque apes, ullum aliud eorum quæad cætű apta funt natura animalium ita agere. Oportet autem neque irridendi,neque conuitiandi caufa hocfacere,fed aman ter, atq ita ut ne cor mordeatur, néue ccio abuti uidearis , acne quis adftans mirctur,fed ut cum ſolo, ita loqui de bes, etiam fi alijadlint. Horum nouem capitulorum memento, tanquam a Musis li ea dono accepiſſes. Acincipe tan dem homo efle, dum uiuis . Tam vero cavendum ne irascaris eis, quam ne aduleris. Utrunque enim a societate est alienum et damnosum . In promptu tibi fit ira accedente, non iram esse VIRI, fed man ſuetudinem: id ut humanius, ita & VIRILUS EST, requiritgrobur, nervos et fortitudinem: quænon ſunt apud indignan tes & morolos.Nam quanto proping or eftmanſuetudouacuitati affcctuum , tanto & potentia: acquemadmodum dolor,in impotétes cadit, fic & ira. Uter que enim uulnus accepit, &herbápor rexit. Quod fi lubet , etiam decimum à duce Muſarum donum accipe:nempe, Inſani eſſe ,uellene praui homines pec cent.qui enim hocpetit, id petit, quod fieri nó pót.Alijs uerò cócedere ut fint mali, modònein tepeccent, ingrati eſt, et tyranni. Quatuor potiſsimum motus animi continenter ſuntobferuandi, ac, fi eos deprehenderis, inhibendi. Primò, ut dicas. Hæc cogitatio non erat neceflaria. Alterum ,hocfacit ad ſocietatis diſſolu tionem.Tertium, hoc non ex te dices: nam non à le dicere, inter abfurdiſsima eft reputandum . Quartum : tibiipa ex probra , eſſe hoceius, quidiuiniorelui parte uincatur, & cedat ignobiliori & mortali parti , corpori ſcilicet &eius craſsis uoluptatibus. Aêreū, & oésigneęparticulæ quęcó miſtæ ſunt tuo temperamto, cth natu ra ſurſum efferantur,tamen ut obediãt ordini uniuerli,ab ipſa mixtione conti nentur.Similiter omne terrçumin te, & humidum,cùm natura ſua deorſum fe rantur, tamen in ſublimimanét, non in fuo naturaliloco. Adcò elementa uni verſo obtemperant, aca quò deſtinen tur per uim, manent, donec diſſolutio . nis rurſum canat claſsicum.Nonnc igi tur iniquum lit, ſolam tuam rationem nolle obedire,ſuumglocú indigne fer re.Etquidem nihil ei uiolentum impo nịtur: ea modò, quæ eius naturæ conue niunt. Et tamen ea non ſuſtinet, fedin contrarium fertur.Motusenim adiniu fticiam ,luxuriem iram ,dolores, & me tus, nihil aliud eft,quàm ſeceſsio à naru ra: & cùmanimusaliquid corum quęc ueniunt indignèfert, tunc quoqueluú locum deſerit. Etenim ad equalitatem & pietatem cóftructuseſt haud minus, quàm adiuſticiam : quia & hæ (pecies funt uirtutum ,quibus benè defenditur focietas humana, imò etiam antiquio resiplis iuſtis actionibus. Quinon eundem per omnem uitam propofitum habet fcopum , is unus & idem eſſe,p totā uitam nequit.Non fa tis eſt, id quod diximus, niG & hocad datur, qualem eſſe oporteat eú scopú. Quemadmodum enim non eſt Gmilis de bonis utcunqueplurium opinio ,ſed quæ eſt certorum quorundam commu nis:ita & ſcopus ciuilis, & communita tem reſpiciens eſt ſtatuendus, Adhuc qui oés fuos animi impetus direxerit, omnes actiones ſimiles reddet,cogmo ſemper ſuieșit fimilis, Murem montanum, et dameſticum huiusý pauorem & fugam , Socrates, & uulgi opiniones,Lamias uocabat,puerorum terriçulamenta. Lacedæmonij peregrinis ſub umbră fede adugnabāt in ſpectaculis, ipli quo uis loco fedebant, Socrates Perdiccæ quærenticur nő ad ipfum ueniret,refpondit:nc turpiſsi mointeritu peream.hoceft,ne benefi cio affectus, idnon poſsim compenſaa re. In Epheliorum literis crat hocprz ceptum, quod iubebat quotidie remi nilci alicuius ex antiquis, qui uirtutem coluiffent. Pythagorei manè nos coelum afpice se iubebant,ut recordemur eorum ,qui femper fuum officium præſtant: ité or dinis,puritatis, & fimplicitatis nudæ:a ftris cnim nullum eft uelamentum . Memento qualis fuerit Socrates > củ pellem præcingeret, cùm Xáthippe uc fte fumpta procefsit:acquæ dixerit fo cijs Socrates pudorc affectis, ac recede tibus, cum uiderent eúin iſto ornatu . Núquàm fcribere &legere alios do. cebis: nih ipſe prius didiceris: id multò magis inuita eſt præſtandum.Seruus es, ratione cares.tú charũ cor mihi rifum fuftulit. Virtuti grauibus facient conui cia urbis . Infani eſt, ficus hyeme quærere.Tale eft puericiam quærere præteritam . Epictetus puerum oſculatus, interi us cum eo fe collocutum dixit. Fortaſsis cras mortem obibis. Abo minaris hoc : nihil dictu graue cft, ingt, quod aliquod opusnaturæ defignat:ni ſi abominere , quod fpicæ'metuntur: Vua primùm cruda,deinde matura fit, pòſt palla:hæc omnia rei ſuntmutatio nesnonin nihilum, ſed in id quodiam non eft. Nemo ut dicebat Epectetus latro eſt uoluntatis.Ars autem , aitidem , in ueniéda eft in adſentiedo, utgimpetus animiferuentur,ita uthabeátautadiun ctam exceptionem, spectét societatem et dignitatem. Cupiditate omnino abſtinendum çít, neque inclinandum ad ea quæ non ſunt penes nos. Itaq , inquit,non de leuire,ſed de in . fania certatur,nib SOCRATES dixit.Vultis ne compotes rationis animos habere, aut non ?uolumus. Cuiuſmodi, bonos ne an prauos ?ſanos. Cur ergo nó quæritis? Quia habemus. Quid igitur conton ditis? Mnia ista, quæ per circui tus temporum adipiſcio ptas,iam nunc habere potes, nifi tibiipfi invides: hoceft, Siomneid gpręte. rijt ,omittast,uturum prouidentię com mittas,id modò quod præſens eſt ,diri gens ad ſanctitatem & iuſtitiam : alte ram , ut boni conſulas ca quæ tibi fatū tribuit etenimid natura tibi attulit alteram , ut liberè ac fine ambagibus ueri tatem loquaris,agasok ſecundum lege, & ut dignum eſt. Non impediat autem teneg aliena malitia ,aeg opinio ,ncß vox,nequc fenſus circundare tibi carnis. Id enim curet, quod afficitur. Itaq jamio exitu cùm fis,tantummentem tu am ,idç quod eſt in te diuinum ,uenera beris:neo morrem metues,fed nequan do uiuere non fecundum naturam incipias. Sichomo eris dignus mundo quite protulit,nec amplius cris tan quam peregrinus patria tua , admirans ca quæ quotidie eueniunt,ncg de hac uclillare dependebis. Videt dcus omnia mentesnudas à ua lis materialibus & corticibus iftis repurgamentis.Sola enim fua intelllige tia ſola ifta cótingit, quæ abipſohucde fluxerút ac deriuata funt. Quodipfum tu quoque li facere afucſcas,magna cx parte efficies, ne ita circútrahare. Qui cnim nó aſpicit carncm circumicctam , occupaturin ueſte, domo,gloria, relia quisg exterioribus ac quali tabernacu lo contemplando. Tria ſunt ex quibus conſtas:corpus, anima, mens. Priora duo tátum ea ratio ne tua funt, quòd corum curam geris: Tercium folum ucrè tuum est, quod si separes à te. Quæalii dicunt aut faciunt aut quetuipſe,aut ģte futura pturbát, aut quæ corpori tibi circundato, uela nimulæunànatæ præter cuam uolunta tem accidunt , ac quæfluctusexterna . rum rerum uoluit :Ita ut intellectus ab illis rebus, quæ fato una sunt, exemptus libera apud feipfam uitā uiuat, agensiu Ita,probás euéta, dicens uera, fi inquam remoueas à menteres quæ ci conſenſu quodam naturæ adhærent, itemģfutu rum & præteritum tempus , efficies ex tcipfo globú, qualis illcEmpedocleus. Sefolo exultās,totus ceres atqz rotú dus:Diſces id tátú uiuereg uiuis, hocé. in præsentia.I ta fiet, ut ad fine ufo ui tæ tibi ſupereſt, pofsis abſque petürba tionibus generosè,& geniū tuú pbás atq amās exigere. Sæpenumeròmihi mirari ſubijt,quidnãeſſet rei , q homi nes cùm feipfos magis ĝ quenquam ali um diligat, iñ ſuam de ſeſe exiſtimatio nem minoris ducant quàm aliorum . Quòd fi quis Deus,aut prudens præ ceptor mandet, ne quid homo apud fe ipſum cogitet animóue concipiat, nisi id statim lit prolaturus, certè ne unum quidem diemid coleret: adeòmagis ue remur, quid proximus de nobis fit exi stimaturus, qusm quid ipsi nos. Qui fit , quod Dij , cum oía pulchrè & humaniter ordinauerint , hoc unu neglexerint,quod nonnullos homines apprime bonos, acin quos in plurimus ſuam erga deum pictatem quaſi teſſeris fecerunt teſtatam ,unuinig lele familia res multis pijs actionibus et facrificijs effecerunt, femel fato functos nonredu cunt,fedomnia extingui finunt. Idaute Gita é,ſcias deos aliterinſtituturos fuif fe,& aliter fieri expediuiſſet.Nam fieraj iuſtum , erat utiq etiam poſsibile: ac di erat secundum naturam, certe naturaid tulisset. Quod ergò res nó ita habet Si tamen non ita habet,id tibi faciatfidem non fuiſſe ex uſu, ut aliter quàm eft fie ret.Vides enim ipſe quoquete, dúhoc fcrutaris, cum Deodeiure diſceptarc. Atqui non hocmodo cũ dijs colloque remur , nili cos optimos eſle &iuſtiſsi mos putaremus.Si autem tales funt, ni hil certè in rerum difpenfione iniuftè accontra rationem neglectumpręteric runt. Ad sue facte ad ea etiam, de qbus de ſperas.Etenim læua manus, cum adalia obeunda ſitinhabilis ,propterca q non conſueuit: tamen frænumfortius quàm dextra continet. Qualete corripiecmorscorpore et ani mo ?Conlidera uaftitatem æui quod an te & poft te est, brevitatem vitæ, materiæ imbecillitatem. Causas ipsas ab integumentis nudas inspice. Quo referantur actiones vide. Quid dolor, voluptas, mors, gloria, quis sibi ipsi occupationum sit causa.Neminem ab alioimpediri, omnia opinionibus constare. In uſu placitorum Gimilem oportetel ſe pancratiaftæ , nó gladiatori:hic enim enſem quo utit li deponit, interficitur, alter verò manum semper habet paratam, camg ut ex uſu eſt conuertit. Huiuſmodi res conſiderandæ ſunt, diuiſione earum facta in materiam , formam et respectum. Quanta est potentia hominis? Cui licet nihil aliud facere, qid ,quoddeus sit laudaturus et amplecti omnia quæ ei Deusobtulerit. Quodad naturam conſequitur,eius cauſa dei non ſunt culpandi, nam nex volentes ,neg inuiti peccant nec hoíes. Quamridiculus clt & perigrinus, qui ratur ca quæ in vita fiunt. Omnia funt aut neceffitas fatalis,at que ordo ineuitabilis, autprouidentia placabilis : aut confufio inanis & nul lum habés pręfectum .Quòdfi eft necef fitas ineuitabilis, quid reluctaris? fin p uidentia quę admittit placationcm, dignum præbe teipſum diuino auxilio. Sin confufio eft, cui præſtnemo,conté tus eſto , gin tanto rerum fluctuipſe in te habes mentem : quòd ſi te abripiat æftus,abripiat ſanè corpuſculú, animu: lam ,acreliqua:mentem quidemnó ab ripiet. Quaſi uerò lumen candela tanti ſperluceat dum extinguatur, ne @ splendorem amittat: Veritas autem in te et iustitia et temperantia ante obitum tuú extingui debeat. Siquis deſe opinionem peccati præ beat, cogita:ecqd nofti, finepeccatú ? ac fi peccauit:quid ſiipſe ſeipſum dam net , ide perindeeſt ac ſuum ipfius lædere oculum. Qui autem prauos pecca renon uult eius limiliseft, quinon uult ficum in ſuo fructu fuccum ferre, infantes plorare , equum hinnire: acli quz ſunt alia neceſſaria.Quid enim aliud faceret, quihuncfibi habitum contraxit. Si igitur trux eſt, cura eum morbum. Sinon conuenit,neagas:& non eſt uc rum ,ne dicas. Tui animi motusita Gint compoſiti,ut omnia circunfpicias.Co gita , quid fit quod cogitationem tibi commouet: idğ excute dividendo in causam, materiam, respectum, tempus, intra quod ea resdesinet. Senti vel tan dem, elle aliquid in te præſtantius ac di uinius quam ca ſunt, quæ affectus ciét, ac quæ te mouent. Quid enim est intellectus? nummetus, nu suspicio, num CUPIDITAS, num aliquid aliud tale? Primò cogita nihilfruſtra eſſe agen dum, neq quod non aliquò referatur: deinde, ut non aliò ĝad ſocietatehuma nā referatur. Paulo post nusquam eris, nec quicquam eorum quæ núc cernis nco quisq eorû q núc uiuunt. Omnia cnim nata ſuntitaut mutétur, vertatur et pereant , ut in eorum locum alia na ſcantur. Omnia opinione cóſtát:hęc aúteſtin tua poteſtate. Tolle igit,cu lu bet,opinioné,eritộtibi tanĝ pronto riú præteruecto oía ſerena, & linus flu etibusuacans. Nulla, quçcung ca fic actio malú aliquid patitur,fi ſuo tempo re definat : icutnesis, qui agit, ca róc aliquid mali accipit. Itidem & corpus omnium in uniuerſum actionú , quod eſt uita,li ſuo tempore deſinat,nihilma li ea rationcpatitur :neqisquioppor tunè finem facit ſeriei iftiactionú,malú aliqd' fecit. Tepusucrò debitum et terminum natura costituit. Aliquamdo et privatim utin senectute. Oio aut univerli natura. Cuius quidem partib.mutatis, fem perrecens & uigesmundus perdurat. Seper uerò id pulchrū é & fpecioſum , o códucit uniuerſo.Finisita g uitæ, în gulis mala quidẻ có nó pót.gene cúnố fit turpis : quippe necuolútate ènoftra depédens,&àfocietate nó aliena. Bona aútfit: cú & opportune fiat reſpectu u niuerli , & profit, &diuinitus accidat. His cogitatis , tria hæcin ,pmptu habe. Primúut in agendo cures, ne quid fru Itra agas, aut fecus quàna ipſa iuſtitia e giflet:in rebus extrinſecus accidentib. easfortunæ nutu ,aut puidétiæ obtigif fe :quarú neutra éīcuſanda. Secundum, qua le unum quodlibetam privatioe fuéritufa dum animam accepit ,indeý,donccca reddidit :ex quibus conflatum fit et in quæ diffoluatur. Tertium ,ſurſum elato animo humanas res intuere , earumý multiplicem uarietatem : quàm multa circùm in aëre & inætheréhabitét:caſ te uiſurum , quoties in ſublime attolla ris: utſintomnia.unius ſpeciei , & breui tempore durent. Hisne superbimus? Eijce opinionem , & faluus es . nemo id prohibebit. Rem aliquam moleftè ferés, oblitus es omnia fieri fecundum uniuerfi natu rā; &quod peccatum fit alienum :præ terea omnia ita ut nuncfiunt, femper fa eta effe , & futura,núcý fieri ubiq :item quæ homini fit cũ uniuerſo genere ho minú coniunctio:nó ea ſanguinis autſe minis,fed mentis communicatio. Obli tus es etiam mentem uniuſcuiuſg eflc Deum et inde fluxiſſe: nihil cuiĝpro prium effe, ſed illinc & fætum , &cor puſculú & ipſam animulā ueniſſe.Obli t'es oía uerſariin opinione, gid tm qd præſenseít,unuſquitg uiuit, & amittit. Crebrò apud animú tuú recole cose certis de rebus nimium sunt indignati, qui maxima gloria,calamitate, inimicitia, aliáue quacüq fortuna effloruerút. Deinde quære, ubi nam sintista. Nempe fumus sunt, & cinis et fermo. Aut ne hoc ipsum quidem. Simulad mentem tibi accidat, qualia Gntomnia. Ut Fabius Cattullinus rure, Lucius Lupus in hor tis obijt, Stertinius Baijs, Tiberius Caprei, Velius Rufus Et omnino opinionis cauſa diſcrimě inrebus indifferentibus ftatutum.Tum quàm uile fit omne quod reliſtit. Item quanto magis fit philofophięconfenta neum , in data materia tueri iuftitiam , modeſtia ,ac fimpliciterdijs obſequi.Fa ftus enim qui ſuperbiæ uacuitatem o ſtentando exercetur , omnium eſt gravissimus. Qui quærit cur Deos colas, quomo do eos uideris, aut elle deprehenderis, ei reſpondebis, primùm efle cos uigles: deinde absqz hocſit, tamen animam me am cum non uideam ,nihilominusma gnifacio:ita Deosquoq ex uiribus co rum quas identidem percipio ,cùm eſſe intelligo,tum ueneror. In cò ſita eſt uitæ falus, ut fingulas res totas intuea ris, quid in iis formæ sit, quid materiæ: toto ało ageut iufta agas et vera dicas: Quid enim superest, q ut fruaris uita bo nis bona annectédo,ita ut minimú ſpa cium intermittas. Vnú eftlumenſolis, ét fiintercipiaturparietibus, muris,alijs innumeris rebus. Vnaeſt communis na tura,etſi certo modo affectis corporib. infinitis diſtincta.Vna anima, et si naturis in numeris,proprijs circúſcriptio nibus diſtributa uideatur. Una étmens, etsi discreta uideat.Reliquæ proinde di ctorum partes,tanquam ſpiritus & ſub iecta inſenſata, & inuicé nihilcóiunctio nis habentia, tamen ipfa quoqà mente & eius potentia continentur.Atpecu liariter intellectuseiuſdem generis ad iungit ſe naturis, neo a societate divellitur. Quid quæris? Ut vivas? Id est sentire,appetere,creſcere,deſinere, loqui, cogitare. Quid horú deſideratu dignu est? Quod Guilia sunt oia hæc,ad extrc mú te cófer, népe ut fequaris rationem &Deú ducem. Sed utrum huic instituto pugnat, ægrè ferre aliquid , an uerò morsid abolet? Quanta pars immenſi infiniti ę ui attributa eſt unicuiq? celeriterea in æternitate euaneſcit. Quanta pars universi? Quantas est univers? quantula in glebula terræ repis? Hæc omnia tecum cogitans, nihil animo magnum conci pe, hoc tantum , ut ductu naturæ agas, &feras quæ communis fert natura. Id cura, quomodomens tua ſeipſa utatur. In hocenim ſunt omnia. Cætera fine à uoluntate dependeant,quc ſccus, mor tua ſunt, fumus. Id maximè ad contemptum mortis facit, phi ét ,qui dolore in malis, &uo luptaté in bonis duxerüt, tamen ea dei fpexerunt. Quiid tantùmboninom nc dignatur, quod eft opportunum , ac cui perinde eſt pluresne an pauciores fecundum rectam rationem præftiterit actiones,negin aliquo ponit diſcrimi ne,lógioréné an brcuiori tempore mű dum contempletur, ei mors nequaqua eſt terrori. Heustu, ciuis fuiſtiin hac magna urbe, adattinet, utrum quinquénio? Etenim quod secundum leges, id omni bus est æquum. Quid ergo grave accidit, si te urbe emittit dominus. Non is quidem iniustus iudex, sed natura quæ te introduxit; perinde ac fi prætorhi ſtrionem emitrate theatro, in quod cum introduxerit. Quod fi is dicat, fenon quinque, sed tres modo actus recital fe, recte dicet. Atvero in vita tres actus fabulam implet. Finem enim is determinat, qui et concretionis olim fuit et nunc est dissolutionis autor. Tuneutrius es causa. Discedeigitur æquo animo. Nam. &is qui te dimittit, propicius tibi est. Riconosco da Vero, mio avolo, la piacevolezza de’ costumi e'l non adirarmi. Dalla riputazione e ricordanza di mio padre una modestia virile. Dalla madre, la pietà verso gl'iddii, la prontezza nel donare ed il contenerini non solo dall'onprar male ma dal fermarmi cicziandio col pensiero. Ancora la semplicità nelle vivande e l'esser lontano dal vivere dovizioso. Appresi dal bisavolo di non frequentare le pubbliche ragunanze, e di valermi in casa di buoni maestri, col conoscere che in questo è di mestiere lo spendere senza risparmio. Dall'aio, di non parteggiare ne co' prasiani ne co' veneziani, ne co’ palmulari ne con gli scutari. Ditrava gliar volontieri, d'abbisognar di poco, d'operare da me medesimo, ne di troppo infaccendarmi, e difficilmente ammetter le calunnie. Da DIOGNETO, di non perdermi in cose vane e non prestar fede a ciò chei prestigiatori e gli stregoni dell'inicantare e discacciare le demonia e di altre cose tali si vantano, di non nutricare coturnici ne perdersi circa si fatti trattenimenti, di sopportare l'altrui libertà del parlare, D'ESSERMI FATTO DOMESTICA LA FILOSOFIA, l'haver udito primieramente Bacchio, appresso Tandaside, Marciano, l'haver composto nell'era puerile dialoghi, e di contentarmi di uni letticciuolo e di pelle e di tutti altre cose alla greca. Da Rustico: di formar in me concetto che i miei costumi habbiano bisogno di correzione, e di coltura, di non divertirmi all'imitazione de' sofisti, di non comporre sopra MATERIE SPECULATIVE e di distendere orazioncine efore tative, overo con altrui stupore ostentare di esser huoino di A vita rigorosa e benefico, di lasciar la rettorica, la poetica e l'elegante parlare, e no andar con l'abito solenne per casa ed usar si fatte cose, e discriver letteruzze semplicemente, come da lui medesimo fu scritto da Sinoessa a mia madre, di rendermi senza indugio reconciliabile co’ quelli, che danno qualche disguſtoso commettono qual che errore, subito ch'e'volessero ritornare al buono, nella lettura non contentarmi di passarla superficialmente ma con accuratezza, di non esser inconsiderato in dar l’assenso a ciarle e che leggessi i commentarii d'Epitteto, prouedendomi d'un esemplare di quelli ch'egli teneva in casa. Da Apollonio, il proceder con franchezza, con una ferma costanza senza vacillare e non rimirare ad al ître por grande che fosse, che alla ragione e l'esser sempre il medesimo ne' dolori più acerbi, nella perdita della prole e nelle lunghe malattie, dal vivo esemplo di lui riconobbi che può l'huomo esser fiſo e inficmemente rimer ſo . Era egli non tedioſo nello fpiegare;e ſcorgeuafi vn huo. mio, che riputaua ben chiara mente l'infima delle ſue doti la pratica , e ſpedita maniera dello ſpiegare i Theoremi . Da lui ancora imparai come biſogni riceuer dagli amici le grazie , ſenza rimanerne perciò oppreffo,nemeno co me inſenſato ſprezzarle. Da Seſtola piaceuolezza el'eſempio d'vna.caſa guida ta con carità: Il proponimen to di viuere fecondo natura: Vna grauità ſenz'affettazio ne:L'inueſtigare attentamen te il guſto degli amici: Il tollerare gl'idioti, e quelli, che opinano ſenza conſiderazio ne:L'effer con tutti confacce uole, ficchè la sua conversazione aggradiua aſſai più di qualſivoglia anche luſinghe uole adulazione; ed era in quello ſteſſo tempo ſomma mente riyeriro da quelli , che feco erano: E di più yna ap prenſiua nell'inuentare,e diſ porre con buon ordine le maffime neceſſarie al viuere . Non moſtraua mai alcun fe gno ne dira,ne d'altro affetto maera aſfai lontano da tutte le passioni; ed inſieme eglice lebraua, e lodaua gli altri, ma ſenza ecceſſo ; ed era di gran sapere senza ostentazione. Da Aleſſandro Gramatico, il non ilgridare, ne riprén dere ingiurioſamente , ſe al cuno cometteſſe Barbariſmo, o Solleciſmo, o altro,chenon bene fonaua ; ma con bella maniera ſuggerire quel tanto appunto , che ſi douea dire , apportandolo per cagione di riſpoſta , di confermamento , o di conſiderazione ſopra la coſa ſteſſa, non ſopra la paro la, o con qualch'altro manie roſo , e coperto auuertimento , 9 Da Frontone imparai qual ſia il tirannico liuore, la frode, e la doppiezza;e come tutti quelli chiamati da noi “patrizi” sieno in certa manie . m A 4 ra disamorati. D’Alessandro il platonico,non iſpeſſo, ne ſenza ne ceflità il dire , o fcriuere ad alcuno di non hauer punto di reſpiro; e per tal modo ſpeſſo eſentarſi dalle conuenienze che per l'affetto ſono douute a quelli, che con noi viuono ſotto preteſto , che li negozi ciaſſediano. Da CATULO di non havere in poca stima le querele de gli amicisancorchè foffero ir ragioneuoli ; maprocurare di ritornarli nel solito stato ; CO , sì ancora di celebrar di cuo re li precettori;le quali coſe fi rammentano di Domizio, e di Athenodoto : Finalmente di amare con vero affetto i figli uoli. Dal mio fratello Vero l'affezione verso i domeſtici ; l'amor della verità e della giuſtizia . E per fuo mezzo hebbi notizia di Traſca, Elvidio, CATONE L’UTICENSE, Dione, e MARCO BRUTO; c mi formai nell'immagina zione vn reggimento di Re pubblica , con leggi eguali a ciaſcuno , e di vn Regno, che antepone ſopra tutte le coſe la libertà de' ſudditi . Dal medeſimo appreſi la negli genza difeſteiro, e la coſtan za nel PREGIAR LA FILOSOFIA, anteponendola a ciascun'altra cosa; e la beneficenza e la liberalità, non mai intermessa, lo sperar sempre bene e l’asicurarmi di esser AMATO DAGL’AMIICI. Non taceva, lasciando di fare la correzione a coloro, che conosce la meritassero sicchè a quelli , A 5 che gli crano caduti di grazia non lo tene celato. E non bisogna alli suoi amici conghietturare intorno a quello ch'egli voleva o non voleua, ma la di lui volontà e apertamente palese. Fu eſortazione di Massimo esser padron di se stesso, non lasciarsi aggirare in cosa alcuna ed esser di buon animo in tutti gli altri accidenti, ancora nelle malattie. Esser ben aggiustato ne' costumi, foane e onorevole e senza querimonia esecutore delle cose proposteli. E che tutti credessero ch'e' PARLA COME SENTE e che nel fare in nulla male opera. Di niente si maraviglia terriua: in niuna cosa e frettoloso o tardo o perplesso , i ne s'at accdioso o si faceva befe fe o vero era collerico o sospettoso, ma benefico, indulgente, e verace, e pare ch'e'e più tosto retto per natura, che corretto per istudio, ne giammai alcuno si tene da lui disprezzato ne manco presume di stimarſi di lui migliore e ſe fu faceto fu con modo. Appresi dal padre addotivo, l’imperatore ANTONINO PIO, la mansuetudine e la stabilità nelle cose già con esaminamento deliberare, di non esser vanaglorioso negli onori di apparenza ma amatore della fatica, operando di continuo, e di eſſer pronto ad v dir quelli che hanno da suggerir cose PER UTILE COMUNE,  Iin mutabile in dare a ciascuno quello che ſecondo il proprio merito gli era dovuto, ed esser discreto ad usar il rigore, come la moderazione, dove bisogna. Non era egli distratto con l'affetto verso de giovani ma al pubblico totalmente intento. Non merte GLI AMICI in necessità che feco cenassero ne bisogna che lontano peregri nafiero per lui, però lo trovano l'istesso quelli che per qualche necessità erano rima Ai indietro. E ricercatore ne'consigli esquisito e fermo. Non s'attacca ad ogni sufficiente indagazione delle opinioni che gli occorreno. Attento e a conseruarsi GLI AMICI de quali mai non si attedia ne pazzamente amavali e si contenta d’ogni cosa con volto sereno. L’antiuedendo , e preordinando di lontano, eziandio le coſe minime senza strepito. Non vuole sentirsi d'attorno ne acclamazioni ne adulazioni. Tenendo in buona guardia le cose necessarie al principato, e sempre provveduto di ciò che a quello fa mestiere, sopportando con pazienza se di questi e simili rigori viene tacciato. Non e superstizioso circa gl'iddii ne quanto agli huomini troppo popolare, cattando l'aura della plebe, ma in tutto attento, e ſodo, non dimenticando mai il convenevole. E quelle cose che conferiscono in qualche modo agli agi della vita delle quali la fortuna gli tera stata liberale ;vfaua ad un’ora senza fasto , e iſchiettezza , dimodo ch'egli godeua indifferentemête del le preſenti , non bramando ciò chenon haueua . Non vi fu alcuno ; che diceſſe di lui che fosse Sofista, o Caſalingo o pedante ; mavn perſonag gio maturo,perfetto ,ſuperio . re alle adulazioni , capace a gouernar ſe ſteſſo e gli altri ; ed oltre ciò onoraua quelli , che veramente eranoFiloſofi; tuttauia non dileggiava gli altri.Era di più nelle conuer fazioni huomo compagncuo le, egrazioſo, peròfenza te dio.Del proprio corpo tene ua cura quanto conueniua , non come huomo del tutto dedito a prolungare la vita , o per fare il bello , però ne meno con traſcuraggine , ma in maniera tale, che col propio riguardo aſſai rade vol. te haueſſe biſogno di medi camenti , o al di fuori epitçi marſi. E ſpezialmente cedeua ſenza inuidia a que’tali, ch'e rano dotati di qualche facul tà , come a dire , o di ben lare , o dinotizia per via d'if toria, foſſe di leggi, o foſſe di coſtumi, o di altre fi fatte co ſe; anzi ſtudiauaſi che ciaſcu ņo ſecondo il proprio talen to acquiſtaſſe nome e crediato . E facendo ogni coſa ſe condo gl'inſtituti de'maggio . ri,non perciò veniua ad appa fire rigido guardatore dell' antichità, non efſendo amico di muouerſi leggiermente , ſuariare,ma di diinorare ſem pre ne'medeſimi luoghi, ed affari . E dopo i paroliſmidem dolori di teſta tornania ſubito freſco , e vigoroſo alle ſue ſoli te operazioni.Egli non hauea ua di molti arcani , ma po chiſſimi , molto radi, e queſti ſolamente circa gli affari del comune . Andaua con pru denza , e miſura nel conce dere gli ſpettacoli, nelle fab briche pubbliche, e congia rij , e ſimili opere , fi come colui, che riguardava a quel to , che conueniuà di fare e non alla gloria , che dal te coſe fatte ne era per ri fultare : Non vſaua bagni fuor di tempo ,non era vago di edificarc, non inuentore di viuande, ne di teſſiture, etine ture di drappi, ne ambizio fo di ſeruirù di bella preſen za . A Lorio ýſaua la tonica cheſe gli prouuedcua dalla balla villa , e così sſana ordinariamente per Lanuuio : ma nel Tuſculano per ſoprauue fta yn tabarro ; e di tal licen za ne faceua come ſcuſa . Era inſomma tale il ſuo tenor di viuere, non diſguſteuolc, non iinmodefto , non eccedente nelle ſue azioni , ne comeſi dice in prouerbio , Infino al ſudore ; ma tutte le coſe fue ſi annouerauano così ben dif poſte , come ſe foſſero fatte a bellagio , placidamente, or dinatamente, con ogni vigo re , e conſonanza fra diloro . Onde a propoſito di lui ſi po teua dire , ciò che di Socrate ſi racconta ch'egli poteua aſtenerſi, e goderſi di quelle coſe, delle quali molti, e ncll? aftenerſi s' indeboliſcono , e nel goderle ſi moſtrano in temperanti. Ma l'eſfer padro 3 nic di ſe , e lo ſtar ſaldo , e sobrio nell'vno e nell'altro , è da huomo, che ha l'animo ben aggiuſtato , ed inuitto , come ſi vide nella malattia di MASSIMO. Dagl'Iddij riconoſco l'haucr hauuto buoni auoli, buoni genitori , buona ſorel la , buoniprecettori, buoni dimeſtici , parenti, amici , e quaſi ogni coſa buona : che, niun di loro inconfiderata mente io offendeſfi , benchè con tal natural diſpoſizione', che ſe foſſe venuto il caſo , io vi farei traboccato . Tuttauia per grazia degl'Iddij non ſe gui tal combinamento di co le , che ſi diſcopriſſe queſta mia inclinazione: E che io no foſſi più lunga mente alleua to appreſſo la concubiņa di mio auolo , come dell'hauer conferuata immacolata la mia pubertà; e che io non mi riſentiſsi d'eſſer in età virile prima del tempo, anzi in ol tre d'hauer indugiato dopo che io peruenni a quell'età : L'effereſtato ſoggetto ad un Principe padre , il quale era per farmi por giù ogni altcri gia, e per farmi appréderc che ſi può viuere in Corte ſenza che ſieno necaffarie le guardie , le veſti ſegnalate , le cerimonie delle fiaccole, e delle ſtatue, o altro ſimile ap parato ; ma che ſia lecito il trattarſi sù l'andare di priua to,ne quindi auuilirſi , o de primerli per far quello , che conuiene ad vn Principe in riguardo del pubblico go uerno · Ancora d ' efformi tocco in forte vn fratello tae le , che poteua co’ſuoi coſtu. mi eccitare in me vn eſatta cura di me ſteſſo , mentre in- : fieme con l'onore , e con l'a more mi ricreaua : D'hauer hauuto figliuoli d'indole non tralignante, ne di corpicciyo lo mal fatti: Che io non fa ceſſi maggiori progreſſi nella Rettorica , e nella Poctica, o in fi fatti ſtudij , ne'quali for fe mi ſarei troppo ſuagato, ſe mi fofſi auuiſto che in quelli felicemente m' auanzaua : Che io preueniſſi di colloca re nelle dignità i miei edu catori , concioffiecoſa che mi pareua eli lo defiaſſero , non nutrendoli di ſperan za , come che cffendo ano cora giouani poteſſero al pettare quello che poſcia io era per fare : Parimente d'ha uer io conoſciuto Apollonio, Ruſtico , e Maſsimo : Che ſo uente , e chiaramente mi li presétaſse nell'immaginazio nc la forma della vita c011 ueniente alla natura . Onde', per quanto appartiene agli Iddij per le ammonizioni,as ) iuti, ed iſpirazioni da eſsi co partitemi, non vi è ſtata coſa , che mi tolga il viuere rego lato alla natura , o che'l man camento non proceda al tronde , che permia colpa, e per non offeruare io gli au uertimenti, de'quali fui da lo ro come addottrinato : Che: il corpo mio fia durato nella ſorte divita , che io ho menato: Di non mieſſer non ſolo accoſtato ne a Benedetta, ne a Theodoto ; mache ancora dopo dalle paffioni ' amore ho conferuato la men te fana : Che ſpeffe volte tro uandomi adirato con Ruſtico io no fia traſcorſo tantoltre , che me ne habbia hauuto a pétire:E che giacchè mia ma dre era per morir giouane, io viuuto ſia cô eſſa inſieme ne glivltimi anni ſuoi.Ogni vol ta che io habbia voluto fou uenire il pouero ,o qualunque altro biſognoſo, non vdij mai che i denari , co’quali poteffi ciò fare mi mancaffero ; ne mai accadde tal’vrgenza, che io da altri gli accattaffı. D’ hauer conuerfato con vna moglie tanto riuerente , tan .. to amoroſa, e tanto ſchietta : Che ho haluto buona forte negli educatori per li figliuo li: Che in ſognomifieno ſtati fuggeriti molti rimedij, prin cipalmente quello allo ſputo del fangue, e quello alla ver tigine; di ciò hebbi la grazia in Gaeta ed anco in Chre fa: Che, eſſendomi io dato al l'acquiſto della Filoſofia, non m'abbattei in qualcheSofiſta; ne conſumai il tépo in iſqua dernare ſcartafacci, ne in or dire , e ſoluere fillogiſini ; ne mi ſmarrij tra le quiſtioni meteorologiche . Queſte co fe tutte riconoſco dall'aiuto degl'Iddij, e dalla loro for tuna ; dimorando io nel pacſe de' Quadi preſſo il fiu me Granua. Di bel mattino ho così da predire a me ſteſſo: E’faci le che io m'incontri in tale , che ſia o importuno , o diſ grazioſo, o proteruo, o malizioso o invidioso , o nemico di ogni comunanza . Tutti queſti difetti prouennero in eſsi dall'ignoranza del bene', e del malc ; ma hauendo io notizia della natura del be ne, che è l'eſfer'oneſto ; e del male, che porta al no oneſto ; ed eſſendomi inſiememente nota la natura di chi nel male pecca , poſciachè egliè a me , cõgiunto no tanto per la ſimi. gliáza del ſangue, e della ge nerazione, quanto per la mé te , la quale è comeporzione, della diuinità , ne ho da trar re conſeguenza ,che non pof lo rimaner leſo da alcuno de detti difettuoſi;concioffiecofa che niuno mi auuilupperà cô le ſue ſconueneuolezze; e non ho da ſdegnarmi con chi è a me congiunto neodiarlo , im perocchè ſiamo fatti a fin di cooperare, come li piedi , le mani, le palpebre, e de i den til'ordine di ſopra con quel di ſotto . Il contrariarſi dun que l’yno all'altro è contro all'iſteſſa natura , e l'adirarſi , e lodiarſi è vn contrapporſi. Tutto quell'eſſer mio ſi ri ſolue ad vn pezzo di carnuc cia , ad vno ſpiritello , ed al la parte ſuperiore , ch'è la mente. Laſcia da parte i libri, ne coſa alcuna ti diſtragga . Ciò non t'è permeſſo: ma co me sul'orlo della morte ſprez za quella carnuccia, che con ſiſte in ſanguuccio, oſſetti, ed in vna teflitura tramata di nerui, venette , ed arterie . Conſidera ancora che ſia lo ſpirito ? aura che mai non ri mane ľifteffa ; ma ognora B fuori ſi ſpira , e reſpirando di nuouo li attrae.La detta terza parte dunque di noi è quella, che ci gouerna , circa della quale così hai da diſcorrere , Se' vecchio non hai da com portare che queſta più viua in servaggio. E che ſia più per violenza ſtraſcinata dall' im peto , ch'è alieno dall'huma na comunicazione ; e che non fi prenda più faſtidio di quello, che cagioni il fato al preſente, o in auuenire . L ' opere degl'Iddij tutte fon ri piene di prouidenza; e quelle della fortuna non ſono ſenza concorfo della natura , o del la coordinazione , ed intrec ciamento delle coſe guidate dalla prouidenza. Quindi tut to ſcaturiſce. Aggiugni anco ra, che così èneceffario , conferendo all' vniuerfo Mondo, del quale tu se porzione e ad ogni parte della natura è buo no quello che porta la comu ne natura ; e ciò che s'affà al la di lei conferuazione - Però con feruano il Mondo così le mutazioni degli elementi,co . me quelle de compoſti. Que Ite coſe a te ſieno ſufficienti , e perpetui decreti . Caccia ľ auidità de'libri per non mori re fufurrando , ma con vera placidezza , ringraziando di tutto cuoregl'Idddij . Ammcntati da quan to tempo in quà se? andato differendo queſte co ſe; e quante volte de termini, a te aſſegnati da gl'Iddij , non ti ſe’valuto.Biſogna vnavolta che tu riconoſca di qualMon do ſij parte ; e da qual Rettor del Mondo deriui : E come ti è ſtato circonſcritto yn termi ne di tempo , il quale, ſe tu ben non te ne varrai per tran quillarti , trapaſſerà, e tu con esso, leſſo;ne ritornerà più . 2 Sta totalmente, e in ogni tempo intento, come conuie ne ad yn Romano d'animo forte , e maſchio , ad ele guire quello , che hai tra ma no , con attenta , e non affet tata grauità , con humanità con libertà, con giuſtizia, con dar poſa a te ſteſſo, rimo uendo ogni altra immagina zione ; E allora la rimouerai , quando facendo qualche a zione riputerai eſer l'vltima della tua vita , lontana però da ogni temerità , e da ogni appaſſionata auuerſione alla retta ragione , dalla diſſimu lazione e dall'amor di te ſteſ ſo , e da qualſiuoglia diſpia cenza alle coſe a te per fatali tà congiunte . Tu vedi quan te poche ſiento quelle coſe , le quali poffedendo , potrà vno viuere felice , e diuina vita ; poſciachè gl'Iddij niente di più domanderanno a colui , che queſte tali coſe oſſerua 3. Rimprouera, o anima,rim , prouera a te ſteſſa , come t'è ſcorſo il tempo per propria mente honorarti, eſſendo che la vita comunemente ſe'n fugge ;ela tua è già quaſi su I'vltimo, riponendo la tua fe licità nell'opinione degli ani mialtrui . 4 Perchè fe diſtratto dagli ac . cidenti ch'eſtrinſecamente di foprauuengono? Proccura del l'ozio a te ſteſſo , per appren dere qualche bene ; e ceſſa da aggirar la mente. Inoltre hai da guardarti da vn'altro ſua . ria mento : Imperocchè alcu , ni quaſi delirano con le loro aziani : cioè quelli , che tra uagliano aſſai nella vita , ne hanno fine certo , doue indi rizzino ogni inclinazione , e tutta quanta la loro imma ginazione . $ Non fi vedrà facilmente alcuno eſſer infelice , perchè non comprende quel, che ſe gua negli animi altrui: ma è Forza cheinfelici fieno quelli che non offeruano i moui menti del proprio animo. Egli èmeſtiere che ti ri cordi fempre delle coſe ſe guenti: Qual fia la natura de principij vniuerfali, e quale la propria ; ecome ſi riferiſca quefta a quella , equal parte ellaſia, e di qual vniuerfo : E cheniitno impediſce , che tu del continuo non facci, e non dichile cofe congruealla na B · til tura , della quale tu ſe'parte. Filosoficamente diſcor re Theofraſto intorno al far comparazione de'peccati , fe condo che più comunemente fi vſa tal paragonc , afferendo efſer più graui quelli ,che per la concupiſcibile fi commer tono , di quelli, che per l'ira fcibile . Imperocchè l'adirato con qualche dolore, e occulto raggricchiamento dell'animo pare che ſi diſcoſti dalla ra gione; doue quegli, che pec ca per la concupiſcenza , vin to dal piacere , dimoſtra che in certo modo più da intem perante ,e più da effeminato fdruccioli nel peccato. Retta mente dunque, e da filoſofo proferì, maggior colpa incora rere chi pecca con piacere , che qucgli, che pecca con dia ſpiacere : E in ſoinma l’ynos" assomiglia più a colui che per innanzi habbia ricevuto qual che ingiuria , e che, forzato dal dolore, entra in collera;l altro ſpontaneamente fi muor ue all'operare ingiuſtamente , portato a ciò fare dalla con cupiſcibile. 8 In tal modo hai da con durre P opere , ei penſieri , come tu foſſi in punto per vſcir di vita . Ne il dipartirti dagli huomini ti ha dapeſa re; poſciachè, eſſendoci gl'I & dij , quefti non poſſono mai indurre al male; fe poi gl'Iddij non ci foſſero , o nonhaueffen ro alcun penſiero delle coſe humane , che mi giouerà di viuere in yn Mondo manche : uole degl'Iddij , e doue mans chi la prouidenza ?Ma e gl'Id BS dij cifono , ea cura loro ſono le coſe humane; e acciocchè lº huomo non cadetle in quello che veramente è male , il tut to ripoſero nel ſuo volere . Nell'altre coſe , ſe vi fofle del male , haurebbero pure in torno a queſto prouueduto , a cagione che niuno mai vi pericolaffe. E in vero quello che non può render la perfo na peggiore , come potrà far peggiorela vita ſua ?La natura dell' vniuerfo ne ignorante mente , ne ſcientemente , ma per non poterle preferuare,ne taddirizzare le haurà trafcura te Ella certamente non com miſe sì enormepeccato , oper mancanza del potere , odel fapere, che i beni, eimali ac cadano vgualmente , e indif ferentemente agli huomini buoni, e a imaluagi ;giacche la morte e fæ vita la gloria e'l disonore , il trauaglio e I pia cere la ricchezza e la pouertà ; e così fatte coſe auuengono vgualmente agli huomini si buoni , si cattiui, non hauen do elleno in ſe nedell'oneſto ne del difoneſto; dunque non portano feca ne bene , ne male O come il tutto ben pre fto ſuamiſce!NelMondo i pro prij corpi , e dopo anche col tempo le memorie di effi fi dileguano . Di tal condizio ne fonotutte le coſe ſenſibilis e ſingolarmente quelle, che adefcano col piacere', o che atterriſcono col tranaglio , o per lo faſto ſono applætrdite , quanto fonovili,diſpregevo Li, fordide , e facili acorrom B 6 perſi,e già boccheggianti ? 10 Tocca alla facultà intel lettuale l'auuertire , che coſa fieno quelli, nelle opinioni, e voci de'quali fi conftituiſce la gloria : Che coſa ſia il morire; il quale, fe alcuno il contem pla per ſe ſteſio ſolamente ; e conla diſgiunzione della con : fiderazione ne ſepari tutte l? immaginazioni, che con effo vengono rappreſentate, com prenderà non eſſer altro , che yn opera di natura : Onde da fanciulletto è l'atterrirſi ad vi opera della natura ; e pure il morire non ſolo è opera + zione della natura , ma molto a quella conferente: Come s? vniſce l'huomo a Dio ; e con qual parte di ſe , e con qua ! maniera ancora tal particella dell'huomo all' ora è affetta e diſpoſta.  II Niuno è più miſerabile di colui che s'aggira per tut to a rintracciare ogni coſa, e Va razzolando comecolui dice fin nelle viſcere della terra ; e an cora va cercando per con ghietture quello , ch'è negli animi altrui, non accorgen doſi che gli ſarebbe a baſtan za di paſſarfela bene col ſuo genio , e riuerentemente ſe condarlo , eſſendo dentro di lui . Queſta offeruanza però conſiſte nel preferuarlo puro dalle paſſioni, dall'eſſerarro gante, dalli diſguſti,che ſi pi gliano per quello che venga da gl'Iddij, o dagli huominis concioſliecoſa checiò, che vi: ene dagľ Iddij per la virtù s ? ha da venerare;quello cheda: gli huomini, s’ha da amare per la congiunzione della natura: anzi alle volte in yn certo mar do fono degni di compaſſione , per non conofcere il bene , e il male; ne queſta ignoranza è minore dell? offüfcazione di poter diſcernere il bianco dal nero. Eziandio che tre mila anni ti rimaneffero a viuere e di più altrettante decine di migliaia' , nondimeno ricor dati che niuno perde altra vita, che quella , cħeviue', ne altraviue;che quella cheper . de .. Al medeſimo dunque fi riduce così la vita funghiffima, comela breuiffima . Perchè quello , ch'è preſente , a tutti & vguafe,benchè quello , ch'è perduto, a tuttinon è va guale ; ecosì quello, che & perde , pare chefiavn attimo folo. Imperocchène il paffatoy, neil futuro da niuno ſi perde; concioſliecofa che quelloche non ſi ha , come può eſſere tolto da veruno? Però dique ſte due coſe è da ricordarſi : l'vna, che dall'eternită tutte le cofe fono ſtate ſimili , vol. tandoſi in giro , e non v'è niu na differenza, ſe per cento , o per dugento anni, o pure per tempo indeterminato vedrai le medefime coſe : La ſecon da è, che colui, che lunghiſſi mamente ville, come quegli , che preſtiſfimo muore, refta no pareggiati nella perdita , mentre non vengono a rima ner priui, chedelpreſente , il quale ſolo hanno, eciò, che non fiha, non ſi perde. Ogni coſa ſta nell'opia nione, il che appariſce mani feſto dalli diſcorſi con Monimo Cinico . E chiaro farà l've tile di queſti diſcorſi, ſe da quelli ſe ne coglierà il midol lo della verità. Oltraggia ſe ſteſſa l'ani ma dell'huomo:Primieramen te allora che, quanto è per 0 pera fua , diuenta yn’apofte ma , o ghianduccia delmon do;mentre che chiunque mal volentieri prende quello , che il tempo porta , è vn ' diſtacs camento della natura, in par te della quale le nature di cia . fchedun degli altri ficonten gono:Secondariamente ,quan. do ſi ha auuerſione a qualche huomo , o ſe gli opponeper danneggiarlo , come fanno que', che ſi adirano : Nel ter żo luogo tratta male fe me deſimaallora , che ſi arrende al piacere , o al dolore : Nel quarto, oue diſſimulando fina tamente,e ſenza verità, qual che coſa fa , o dice: Nel quin to , quando non indirizza l' azioni fue , eiſuoi moti à niun ſegno; ma opera a cafo , e ſenza congruenza ; effendo neceſſario che ancora le coſe minutiſſime habbiano rela zione al lor fine. Ora il fine degli animali ragioneuoli è di ſeguire la ragione, e la leg ge della Città , e dell'anti chiſſimo gouerno. Il tempo dell' humana vita è vn punto : la ſoſtanza fluſſibile : il ſenſo caliginoſo: e la coagulazione di tutto il corpo facile a putrefarſi:lani moyn continuo rigiro: la for tuna difficile a conghietturarm fi: la fama vna incertezza  E per recare le inolte parole in vna : tutte le coſe corporali vna corrente, quelle dell'ani ma vn ſogno , e vn fuina d'ac qua: la vita yna guerra , e vor pellegrinaggio di vn viandan . te : e la famapoftuma farà di menticanza . Checofà è dun que , che pofſa fare durare 1 huomo Una sola  la Filosofia ; e queſta conſiſte nel con feruare l'interno genio inno cente e ſenza taccia ,ſuperio re a ' piaceri , e a ' dolori; che niente operi temerariamente , ne con bugiane con finzione: e che non habbia biſogno , che altri faccia , o non faccia . In oltre , che ben ricetia ciò , che auuieneso impoſto gli ſias come di là tutto auuenga , donde egli medeſimo è ve nuto; e ſopra tutto cheaſpetti la morte con animno ſërena , non : nonla confiderando , che co mevn diſcioglimento degli clementi, de'quali qualſiuo glia animale fi compone. E ſe agl'iſteſſi elementinon è ma. lala mutazione continua ,che ſi fa di ciaſcuno di eſli in vn altro , per qual ragione hafli a temere la mutazione, e il di fcioglimento di tutti inſie me , giacchè è conforme al la natura e niente è male , eſſendo conforme ad effa ? Fin qui a Carnuto. Ccoveredt gde jeunesse eos POS. Non è ſolamente da confiderare che la vitaſi va di giorno in giorno conſumando ; e che di eſſa ne rimanc il meno ; ma quel lo ancora fi vuole andar ri penſando , che quantunque yno viueffe eziandio d'au uantaggio , pur reſta quegli incerto ſe ſia per durargli la mente habile alla buona in telligenza degli affari , e di quella ſpeculazione , che ri chiede nel trattare le coſe humane , e diuine: Imperoc „chè fe comincierà perauuen . zura l'huomo a delirare , non perciò gli mancheran forze , ne il reſpiro , ne la facultà del nudrirſi, ne l'immaginatiua , ne gli appetiti ,ne ſimili altre potenzc; ma s’eſtinguerà ben ſi affatto in lui quella del po terſi di ſe ſteſſo valere , e di perfettamente adempiere le parti del ſuo miniſtero, e di chiaramente ſpiegare i con cetti dell'animo , e di confi derare altrui , fe tal volta debba a ſe medeſimo dare la morte ; e tutti finalmente quci ſimiglianti affari, i quali per ben riſoluere richiedel vn perfetto , e raffinato di ſcorſo.E'dunque da non iſtar fone a bada , non ſolo perchè la morte ſempre più s'appref ſa , ma perchè in oltre il ra ziocinio , e l ' intelletto noi fpeffe volte abbandonano innanzi alla morte. E'ancora da oſſeruare,che tuttociò, che alle coſe già dal la natura prodotte ſoprattuie ne , aggiugne loro yn certo che di bellezza , edi grazia ; comeper eſemplo, quando il pane ſi cuioce , infrangonfi, e in varie guiſe apronfi four? eſſo alcune particelle di cro ſta , che fuor della creden, za , ed arte del fornaio co sì ſcrepolate con particolar compiacimento muouono P appetito. Così a i fichi, quan dogià ben maturi rompeſi la camicia ; e allylive ſtagiona te , mentre principiano a pu trefarſi , fi viene ad accreſcere in tal particolare alletta mento: le ſpighe , che per lo pelo s' inchinano , il ſopraci glio del Lione, la baua, chc1 Cignale ſchiumando getta dal grifo , e altre coſe , delle quali , ſe ciaſcuna riguardaſi da per fe , appariſce lontana da ogni bellczza ,per lo effe re all'opere della natura con giunte, recano a queſte orna mento , e agli animi deri guardanti diletto ; Ondechi ha l'affetto e la conſiderazio ne intenta intorno a ciò, che vien prodotto nell' vniuerſo , quafi niente troverà anco nel le cofe, che a quelle addiuen gono, come neceſſarie pendi ci , che con qualche buona grazia non le veda congiu gnerfi. E così i veri digrignan ti grifi de viui animali non con ininor piacere rimirerà , che quelli, che con iſcherzo dalla pittura, e dal rilieuo ſo no rappreſentati; e vn certo vigorc , e vna certa maturità d'vna vecchia , o d'vn vec chio , non che la venuſtà de? fanciulletti , potrà con ben purgata viſta rimirare; e mol te ſimili cofe , che non ad ogn’vno ſaranno accette ; ma ſolo a colui , che finceramen te ne'ſegreti,e nell'opere del la natura ſi ſarà internato . 3 Hippocrate , che haueua fanati molti infermi', amma latoſi egli ſe nemorì : I Cal-, dei a molti prediſſero le mor ti , ed eſſi poſcia furono dall : ora fatale portati via : Aler ſandro , Pompeo, e Caio Ce fare , hauendo intiere Città del tutto , e tante volte di ſtrutte , e tagliate a pezzi in battaglia molte decine di migliaia d'huomini tra fanti , e caualieri, eſſi ancora alla fi ne vſcirono di vita : Heracli to , dopo hauer con diſcorſo naturale trattato dell'incen dio del Mondo , gonfio le vi ſcere d'acqua , rauuolto in iſterco bouino, finì i ſuoi gior ni : Democrito da i pidoc chi , Socrate da altri vermi reſtarono eſtinti. A che quc ſti racconti ? Entraſti in bar ca, nauigafti,approdaſti: Eſci fuora , e ſcendi; ſe pervn'al tra vita , iui ancora faranno gl'Iddij , eſſendo quclli per tutto " ; ſe reſterai ſenz'alcun ſenſo , ceſſerai d'eſſere.ratte nuto tra i trauagli, ed i piace ri , e di feruire ad vn vaſel letto tanto inferiore, quanto la porzione è ſuperiore a quello , a cui ella ferue . Poi chè queſta è la mente , e il genio , doue quello terra , e putredine . 4 Non conſumare queila parte di vita, che ti riinane nel darti inipaccio,o penſiero de? fatti altrui, quando quelli non riguardino all vtile comune; altrimente tu reſterai impac ciato in coſa da te aliena, ro fiſticando , che faccia il tale , cd a qual fine e che dica , o penſi, o macchini, e altre co ſe ſimili, le quali ci fanno de uiare dall' offeruanza della parte , ch'è la propria di cia fcuno reggitrice . Concioffie coſa che biſogni nel diuilare ľ immaginazione , sfuggire ogni penſiero intempeſtiuo , e vano , e molto più quello , che habbia del vizioſo e del maluagio : Alucfare ancora vuolſi ſe ſteſſo a penſare ſolo a quelli particolari,de' quali, chi all'improuiſo t’interro gaſſe , che penſi tu adeſſo ? tu polla con franchezza riſpon dere , ſenza interporre tempo di mezzo , queſto , e queſto ; dalle quali riſpoſte ſubito manifeſtamente appariſca che i penſieri tutti ſono in te ſchietti , manſueti , come conuiene a i viuenti per l'hu mana comunicazione ; e che, tu non ſei applicato ' a i piace ri , ne a qualſifia voluttuoſa immaginazione , non alle conteſc , non all'inuidia , o a i ſoſpetti, o ad altro , per lo che tu ti hauefli da arroſſire , diſcoprendo quello , che tu couaui per auuentura nell' C 2 animo . Giacchè vna perſona, così coſtituita , è quaſi vno degli ottimi , qual facerdo te , e miniſtro degl'Iddij,ſer uendoſi di quello, che den tro di lui riſiede Questo rende l'uomo illibato e libero da i piaceri , illeſo da ogni trauaglio , intatto da ogni ingiuria e ſenza vn mini mo ſentore di malizia , cam pione del maggior combat timento , da non eſſer ab battuto da paſſione alcu na , intinto nella giuſtizia in fino all'intimo , che con tut to l'animo ben riceue quanto auuiene , e quanto per defti no gli venga compartito. Non iſpeſſo ne, fuori che in grandi neceſſità , e che ſpet tano all' vtile comune , ri flettente a quello , che altri ſi dica , o faccia , o penſi, ſolo da vn canto intento a ' proprij affari , e dall'altro continu a mente attento a ciò, che per le contingenze dell' vniuefo a lui tocchi; acciocchè s'in duſtrij di rendere quelli di bella oneſtà compiuti , queſto reputi colmo d'ogni vtile e d'ogni bene. Concior ſiecoſa che , quanto a ciaſcu no viene dal fato deſtinato , fia portabile , e del bene ſeco portante . Ed egli tenga a mente , che a lui effcr dee fa migliare tutto quello che ha del ragioneuole, e che la natura dell'huomo richiede, e che dee applicare alla cura di qualunque ſi ſia degli aleri uomini.  Però non ha a vo ler dipendere dall' opinione così d'ognuno , ma ſolo di C 3 coloro, che viuono conforme alla natura ; e dee offcruare quali ſieno quelli , che diuer famente viuono ilmodo, che tengono in caſa , e fuori , il giorno, e la notte, e quali , e con quali conuerſando ſi me ſcolino; Eper ciò non ſi ha ď hauer in alcun grado la lode di coſtoro , che ne meno fe fteſli contentano. Non opererai come con tro tua voglia , ne come ſcor dato del bene comune , ne ſenz' hauer prima ventilato efattamente l'affare, ne ritro fo ; ne attenderai con bellet ti di vago dire a vanamente liſciare i tuoi concetti , non effendo ciarlone, ne troppo faccendiero . Iddio , ch'è in te , preſieda al tuo viuere da perſona virile , e nell'età auanzata , e di vita politica , e da nato Romano, e chema neggia gouerno . Sta in mo do tale apparecchiato e diſ poſto che alla prima chiama ta tu ſij pronto di ſtaccarti da i viui fi intero , che ti fia data credenza senza tuoi giuramenti o teſtimonianze altrui. Queſt'vno non manchi , ch'è tal ſerenità nell'animo , che non occorrono conforti efterni, ne di effere tranquil lato per opera d'altri: s'ha dunque ad cſſer per ſe ſteſſo retto , e non raddirizzato . 6 Se nella vita humana tu trouerai alcuna coſa migliore della giuſtizia , della verità , della temperanza , della for tezza , e in fomma fe altro meglio , che l'eſſer l'opera zione della tua mente sufficiente a ſe ſteſſa , acciò ca gioni , che tu operi ſecondo la retta ragione, e in ciò, che non può dipendere dal pro prio tuo conſiglio , al fato tu ti accomodi : ſe meglio dico di ciò tu truoui , od iſcopri ,a quello volgiti con tutto l'a nimo, e godi dell'ottimo , che haurai ritrouato . Ma fe nulla t'appariſce , che ſia inigliore dell'iſteſſo genio , che in te riſiede , il quale habbia sottomessi a se stesso i proprij mori de'tuoiappetiti, ed eſamini le coſe. immaginate , e che dalle perſuaſioni, o alletta mcnti de' ſenſi, come Socrate dicea , ſia diſtratto , e con 1 affetto attento agli huomini , fi fia fubordinato agl'Iddij : Se di queſto trouerai eſſere ogni altra coſa inferiore , e più vile , non dar luogo nclla mente tua ad altra cofa veru na , alla quale vna volta che tu o propendendo , o decli nando aderifli , ſareſti ferma mente impedito a poter libe ramente preferire ad ogn'al tro il ſingolare , e proprio tuo bene ; non eſſendo giuſto che al bene ragioneuole e operatiuo ſi contrapponga qualſiuoglia altro , che ſia in diuerſo genere , come fareb be l'applauſo della moltitudi ne, o la dignità , o le ric chezze , o il godimento de piaceri;tutte coſe le quali ha. uendo apparcnza , ancorchè in minimo , di adattarſi a noi, repentemente preuarranno , e ci rapiranno . Ondeio ti di co , attienti fchiettamente , e francamente al meglio ; e С aderiſci a quellos e il meglio è quello , che a'te è di profit to ; però ſe ſi confà , come a perſona ragioneuole , queſto riſerbati ; ma ſe ſolo , come. ad animal viuente , riggetta lo , e ſenza gonfiartene,cuſto diſci il fologiudicio , per po ter formare vn eſame certo , e ſicuro . Non iſtimare giam mai , che ſia coſa conferente a te ſteſſo quella, che tal vol ta forzeratti a traſgredire la fede , mancarc all honore , odiare alcuno , ſoſpettare maledire , fintulare , ed ambi re qualche coſa, laquale hab bia biſogno di naſcondimen to di muri , e di velami . Im perocchè chi ſtima fopra tut to la propria ſua mente , e il genio , e l'operazioni della ſua virtù , quegli non fa azione da tragedia , non pia gne , non hannà biſogno di Itar folitario , ne della com pagnia di molti . Esquel che più importa , viuerà ſenza de fiderare , e ſenza sfuggire co fa alcuna ; ne farà molto ca fo , ſe dell'anima circondata dal corpo ſe ne ſeruirà per più lungo , o per più breue tempo : acciocchè qual ora s'haueſſe a dipartire , così franco ſe ne vada , come ha ueffe a disbrigarfi di qualche affare , che gli conueniffe efe guire con decoro , e con ogni modeſtia : ofſeruando queſto folo puntualmente per tutta la vita , che i fuoi penſieri s. aggirino attorno qualche co fa , che ſia propria de viuen ti razionali , e ciuili . 7 Nella mente di perſona C 6 ben aggiuſtata , e purgata non trouerai niente di guaſto , niente di marciume , o che v'habbia fatto ſaccaia . Simil. inente . non troncherà il fato la vita di coſtui imperfetta , come ſi direbbe dell'Iſtrione , fe ,auanti di finire , e compire il Drạmma,gli vditori all'im prouiſo piantaſſe . Di più non trouerai nulla di feruilc , ne di affettato , ne di appicci cante , ne di diſciolto che habbia biſogno d' eſſer corretto , ncd'eſſer ricoper ne to. Habbi in venerazione la facultà , che forma l'appren ſione , dependendo da queſta il tutto ;acciocchè niuna opi nione s' inſeriſca nella tua mente , che non confcnta colla natura , e colla coſtituzione di viuente razionale : E queſta profeſſi di non cor rerc alla cieca, e che l'huomo fi confaccia con gli huomini , e verſo gl’Iddij ſia offequiolo. Rigettate dunque tutt'altre coſe , imprimiti ſolo queſte poche , e ſpesſo rammenta ti che da ciaſcuno ſi viue il ſolo momento preſente, il re fto l'ha gia viuuto , o gliè af fatto ignoto . Piccola adun que è l'età di ciaſcuno : Pic colo è il cantoncino della terra, dove ſi viue , e piccola , benchè lungi s'eſtenda , è a ' poſtuni la fama , proceden do queſta dalla ſucceſſione di homicciuoli , che preſto ſe ne vanno a morire , i quali non conoſcono le ſteſſi , non che colui , il qual di già lungo tcmpo morì. A'già eſpoſti auvertimenti s'aggiunga ancora di far ſem pre vna diffinizione , o de : ſcrizione di quello , che vie ne dall’iinmaginatiua rappre fentato acciocchè qual'è nudamente nella propria ſo ſtanza , e il tutto per tutte le parti diſtintamente , tu rico noſchi,e ſia a te ſteſſo eſpreſ ſo. e paleſato qual ſia il ſuo proprio nome , e i nomi di quelle parti , delle quali è compoſto , e nelle quali ſi ri foluerà . Perchè non è cofa , che a ſolleuare la generoſità dell'animo ſia più poſſente ; quanto l'eſaminare con me todo , e verità ciaſcuna coſa che può accadere nella vita ': c riguardarla del continuo in tal modo , che tu comprenda inſieme a qual Mondo , qual vſo porgano , che poſto tena gano in riguardo dell’yniuer fo , e quale in riguardo dell' huomozil quale è cittadino di quclla ſopraniſlıma Cittade di cui le altre ſono come.abi. tazioni di famiglie : Che co fa ſia , o di quali principij ſia compoſto , e quanto tempo fia per durare quello , che al preſente m’imprime tale im inaginazione ; e qual virtù in torno quello s'habbia da vla re : come a dire della manſue tudine , delle fortezza , della verità , della fede, della ſchiet tezza della contentezza, del la propria ſorte , e d'altre fi mili. Per lo che biſogna dire di ciaſcheduna coſa : Queſto viene da Dio, ma questo per fatale ordinazione, e conneſ fione delle cose del mondo o per una tale congiuntura , e fortuna: E queſto altro pro cede da vn tuo proſſimo , e congiunto , e teco conuer fante , ignaro di quello , che a lui pernatura ſi conuiene . Ma io che lo ſo m’auuaglio d' effo , fecondo le leggi naturali della comunicazione , con af fetto benigno , e giuſtizia ; e inſieme nelle coſe indifferen ti , o mezzane mi ſtudio d' andar conghietturando , qual ftima a quelle habbiaſi a da re . Se tu , della retta ragione feguace , opererai quello che haurai dauanti ſtudiofa mente, validamente , placi damente , e non mirando ad altro che all'intrapreſo nego zio , anzi conferuerai il tuo genio puro , e conſtante , co me ſe già ti abbiſognaſſo di renderlo. Se dunque queſto offeru.crai , a niente altro at tendendo , niente fuggendo ; ma nell'operazione , che hai tra le mani , conformandoti alla natura , e contentandoti d'eſprimere con verità eroica tutto ciò , che a dire intra prendi , tu viucrai felice . In vero non v'ha chi ti potra quefto impedire . u Comei Maeſtri del cu rare hanno ſempre alla mano gli ſtrumenti , e i ferri per ogni inopinata cura così habbi tu pronti i decreti a ri conoſcere per mezzo d'effi le coſe diuine e l'humane , in tutto ciò, che, quantunque mi nimushaurai da operare ; ben ricordcuole come queſte fia no amendue tra di loro con giunte , non potendo far nulla , che appartenga agli huo mini, che per mera corriſpon denza al Cielojne per lo con trario . 12 Non andar più vagan do, mentre non haurai più da leggere i tuoi libretti di me morie , ne i fatti degli an tichi Romani , e Greci , ne le raccolte , che hai eſtratte da varij ſcrittori , le quali riſer bate t'haueui per la vecchia ia . Affrettati adunque ver ſo la fine , e abbandonando , mentre che t'è lecito , le va ne ſperanze , porgi ogni aiu to a te ſtello , ſe tu fe'a cuore a te medeſimo . 13 Gli huomini volgari non fanno quanti ſignificati hab biano le voci rubate, femina re , comperare , ripoſare ; ne fanno diſcernere quello , che s'ha da operare : il chenon ſi fa con la viſta degli occhi, macon altra perſpicacia. Habbiamo il corpo, l'a nima , c la mente : Al corpo appartengono i ſenſi, allani ma gli apperiti, alla merite i decreti . Si formano le imma ginazioni ancora dagli ani inali bruti ; ma il laſciarli trarre dagl'imperi degli ap petiti a guiſa di pupazzi tira ti con cordicelle, è cofa da beſtie , e da effeminaci , e d ' yn Falaride , ed'vn Nerone . L'applicarela reggitrice men : te all' apparenti conuenienze è ancora di coloro , i quali non tengono , che ci ſiano gl’Iddij , e che alle occaſioni abbandonano cziandio la pa tria , e che quando han chiu te le porte , fanno di tutto. Se dunque l'altre coſe ſono comuni alli già detti , reſta proprio dell'huomo dabbene l'amare, e abbracciare ciò che a lui auuenga , e che dal fato gli fia compartito , come il non rimeſcolare , e confon dere il genio , che nel mezzo del petto riſiede , ne pertur barlo colla moltitudine dell' immaginazioni : ma conſer varlo placido , e come a vn Dio , decenteinente portar gli riuerenza , ed oſſequio. Non proferendo mai parola, che tutta yera non ſia ;ne fuo ri del giuſto facendo cofa al cuna . Se poi tutti gli huomi ni non crederanno , ch'egli fchicttamente , e oneſtamen te , e tranquillamente ſe ne viua , non però fi crucсerà con chi che ſia di loro ; ne vſcirà mai dal dritto ſentiero , che lo conduce al fine della vita , al quale fa di meſtiere giugnerepuro,quieto, c pron to a diſcioglierſi, e acco- - modarſi di buona vo glia al proprio de ſtino. Nell interno che domina in noi quando ſi confor ma alla natura , reſta sì indif ferente a tutti gli auueni menti , che ſenza ripugnanza ſempre prontamente ſi tra fporta a ciò; ch'è poſſibile , e conceduto ; Imperocchè non s'obbliga a materia deterininata ; ma è facile verſo ciò , che gli venga propoſto , ben che con qualche eccezione ; e quello , che in luogo dell eſcluſo è introdotto, s'appro pria come ſua materia , in guiſa del fuoco , quando nel le coſe , che incontra predo mina ; dalle quali vna picco la lucernctta verrebbe e ſtinta,la doue vna gran fiam ma trasforma in ſe preſta mente tutto quello , che in nanzile è poſto , e lo conſu ma , e di quell'iſteſſo diuiene maggiore 2 Niun'opera ſi faccia a ca ſo , ne altrimente ſi eſegui ſca , ſe non conforme agli ammaeſtramenti di perfezio ne dell'arte . 3 Proccurano le perſone di ritirarſi nelle campagne,alla -50 he 9 or it 71 za 2 . e 01 marina , e ne' monti , e an co tu queſti ſe' stato particolarmente ſolito d'amaro e queſta è coſa ordinarijfſima agl'idioti; eſſendo a te lecito in qualſifia tempo, che ti pia cerà , ritirarti in te ſteſſo . Ne c'è luogo per l'huomo di più quiete , e più lontano dalle faccende , per ritirarſi di quello del proprio animo ; particolarmente ſe haurà in ſe formato tali concetti, che in quelli internandoti pron tamente rimanga in vna to tale tranquillità . Ne altro dico eſſere queſta calma che l'animo ben compoſto : Ritirati dunque ad oraad o ra , e rinnuoua te ſteſſo . Si eno però breui , è ordinati que' ricordi , i quali ad vn tratto fouuenendoti, ſaran no ſufficienti a liberarti dio gni moleftia , e di rimetterti nelle tue operazioni ; alle quali ſenz' annoiarti farai ri torno . Poſciachè di qual co ſa pigti tu noia ? forſe della maluagità degli huomini ? Rammentati di quel decreto, che i viuenti ragioneuoli ſo no prodotti a pro \ vno dell'altro ; e che il medeſimo ſofferire è part e della giuſti zia dell'huomo: e che quelli, che delinquono , no'l fanno di buona voglia ; e quanti dopo hauere eſercitato l'oſti lità , i ſoſpetti, e gli odij, e trafittiſi ľ .yn l'altro , ſono morti e diſteſi ridotti in cene, re ? quietati dunque vna vol ta . Ma tu non t'appaghi di quello , che dall' vniuerſo ti è ſtato diſtribuito . Richiama : D però nella memoria la pro porzione diſgiugnéte , che ci è , o la prouidenza, o gli atomi, o anco altre coſe , donde ben fi conchiude che il Mondo è in guiſa di ordinata Città. Se poi t'aggrauono le coſe cor poree , tu quì confidera che la mente , dopo che vna vol ta ſi ſarà in ſe ſteſſa raccolta , e haurà riconoſciuta la pro pria dignità , non ſi meſco ſerà con iſpirito , che venga ad eller morbidamente, o ru uidamente agitato . Aggiu gnidi più tutto quello , che del dolore , e del piacere tu hai vdito , e l'hai approuato. Mala gloricota ti diſtrarrà ? Da vno ſguardo , come pre fto va il tutto in dimenti canza , e nel chaos dell'euo da amendue le parti immen fo , e nella vanità d ' yn rim bombo : e quanto mutabili , e ſenza giudicio fono quelli, che di noi poſſono formar concetto , e in quanto poco luogo tutto ciò li circonſcri ue ; mentre tutta la terra è yn punto , e di queſta non è che yn cantoncello la noſtra abitabile ; e quanti, e quali fono quelli , che ſieno per lo darti . Ricordati dunque di ritirarti in quella particella di te ſteſſo ; e ſopra tutto di non ti diftrarre , e di non far refiftenza ; ma fij. franco, e ri guarda l'opere da PERSONA VIRILE, D’UOMO, da cittadino , da viuente mortalc. Ma tra i ricordi più pronti e ſpe diti , i quali hai da conſide rare , fieno queſti due. L'yno, che le coſe iftcffe non s'at D 2 taccano all'anima , ma ſtan no al di fuori immobili ; e che le turbazioni deriuano ſolo dall'opinione interna : l' altro è , che quanto vedi , queſto non iftarà guari a mu tarſi, e più non ci ſarà; e con fidera a quante mutazioni già tu ti ſe trouato, e di con tinuo tieni a mente , che il Mondo ſta nell'alterazione , la vita nell'opinione . 4 Se l'intelletto è comune, comune ancora è la ragione , mediante la quale noi ſiamo ragionevoli. E ſe è vero que ſto , eziandio la ragione, che comanda quello , che ſi deb ba , e che non ſi debba ope rare , ſarà coinune . E ſe è cosi , ſarà comune la legge ; il che ammettendoſi , verre mo noi ad eſſer Cittadini ; donde è, che hauremo da par ticipare di qualche Cittadi nanza ; e conſeguentemente reſta il Mondo eſſere come vna Città . Concio ffiecofa che dirà alcuno : qual'altra Cittadinanza fitruoua fi co mune , della quale tutto il genere humano partecipi ? E da queſta comune Città deriua l'iſteſſo effer noſtro in: tellertilo, e ragineuole, e le gale. O se quindi non ès-don de è perciocchèſi come quel lo , che è di terreſtre in me , da qualche terra a me ſi com , parte , el eſſere vmido da vn altro elemento , e l'eſſere fpiritale da qualche ſcaturi gine di ciò , e'l caldo , e l'i gneo da qualche altra pro pria ſorgente ; imperocchè nulla prouiene dal nulla, co D3 me ne meno ritorna in quel che non è così anche l'intel lettiuo da qualche luogo fi comparte . 5 Tale è la morte , quale è la generazione , e ſono degli arcani della natura ; queſta è miſtura degli elementi, e quel. la è diſcioglimento ne'mede fimi : In ſomma non ſe n'hà d'hauer vergogna , poichè non è contra la conuenienza del viuente intellettuale , ne repugna alla ragione della di lui conſtituzione , 6 La natura porta che queſte cofe da tali ca gioni nafcano neceſſaria mente ; il che , ſe ad alcuno non piacerà , vorrà che'l frutto del fico non habbia lattificio . Quello in tutto , e per tutto rimanga nella mente, che tra breuiſſimo tempo tu , e quel tale vi morrete , e tra poco non ci ſarà , ne pu re il voſtro nome . Leua via l'opinione , che ſarà tolta la querela , che dice , IO SO NO STATO OFFESO , leua queſto dire : IO SONO STA TO OFFESO , e verrà tolta l'offeſa . Quello , che non fa peggiore in ſe l'iſteſſo huo mo , non renderà peggiore la di lui propria vita; e ne in ternamente , ne efternamen te l'offenderà . 7 La natura ad operare in tal modo per lo comune vti le fu neceſſitata . E ciò , che auuiene , giuſtamente auuie ne : il che ſe attentamente of feruerai , trouerai eſſer vero ; ne per ſola conſeguenza di co , che è queſto, ma perchè D4 così vuole il giuſto ; venen do da colui , il quale ſecon do il proprio merito , diſtri buiſce a ciaſcuno il ſuo .Of ſerua dunque tu queſto , co me hai dato principio ; e nel fare qualunque coſa ado pera con qucfta oſſeruazio ne, e con lefſere huomo dab bene; ina di quella maniera , come s'intende propriamen te l'hucmo dabbene . Tutto ciò oſſerua in ogni tua ope razione . 8 Non farai concetto del le cofe fecondo il giudicio di chi t'oltraggia ; ne come e quali eſſo vuole che tu le giudichi ; ma conſiderale , quali eſſe veracemente ſono . 9 Debbonfi ſempre hauer in pronto queſti due punti: primieramente di non operare in modo diuerſo da quello che la ragione, Rcina, e leg gislatrice per l'vtile degli huomini fuggeriſce ; ſecon dariamente d'effer facile a mutarti di parere , ſe qual cuno fi corregga , e rimuoua da qualche opinione ; però queſto rimouimento s'ha ſempre d'appoggiare alla perſuaſione , che porti del giuſto ,o del ben comune, O di coſe ſu queſto andare,non per compiacimento , ouero per apparenza di gloria . Hai tu la ragione ? la tengo : Per chè dunque non te ne ſeruia Che vuoi cu altro , che que ſta , mentre ella fa quello , che è proprio di lei ? 10 Come parte di queſto vniuerſo già ſe'ſtato conftitu ito , così tornando a chi t'ha DS fat 82 LIBRO QVARTO fatto , diſparirai, o più toſtoy con qualche mutazione, fa rai ripoſto nella ragione fe minále di quello . Di molte granella d'incenso su Piſteffo altare vna cade prima dellº: altre , purchè ſi conſumi mula la importa . Tra dieci giorni tu parerai vn Dio a quelli alli quali ora ſembri vna be ftia ; e yna ſcimia , fe ritorni a ri pigliare i decreti, e la vene mazione della ragione. Non fare i conti come fe hauefli ancora a viuere più migliaia d'anni. Il debito fatalc fou raſta , mentre viui,mentre ti è permeſſo diuenta buono .. II Quanto di quiere d'ani mo guadagna chi non bada a quello , che'l vicino diſſe, o fece , o pensò , ma ben fi ſolo a quello , ch' egli ſteſſo fa, acciocchè l'opera ſua ſia giuſta , e pia ? , nericercando va ſe altri ſia di buoni , o rei coſtumi , ma corre a dirittu ra per la linea , ſenza punto da efla ſcoſtarſi ? I2 Chi dietro alla fama apoſtuma ſe ne va,come ſtor dito , non conſidera come cia fcuno di quelli , che di lui li rammenteranno , anch ' egli preſto ſe ne baſirà , e così di nuouo quegli ancora , chea queſto ſuccedera, finchè ogni memoria , per mezzo di huo mini, parte ſtupiditi, parte già morti continuata ſi ſpen ga .Mapreſupponi tu , che quelli che terranno di te me moria fieno immortali , e la memoria rimanga immorta le ? ciò che gioua a te 2 ne ora parlo di quando tu fa D 6 rai nh ada Te ef 1 rai estinto, ma del preſente mentre tu viui. Che è la lo de ſe non certamente yn tal condeſcendimento d'huomi ni . Tralaſcia dunque , come inopportuni i doni della na tura , mentre che dipendo no dal giudicio d'altri . Del reſto tutto quello , che in qualſiuoglia maniera è buo no per ſe ſteſſo è buono , e in ſe ſteſſo fi riſtrigne; ne tra le fue parti annouera la lode ; onde non diuiene ne miglio re , ne peggiore. il lodato . Queſto dico ancora di ciò , che volgarmente ſi chiama buono : quali ſono le coſe , che o per la materia , o per l' operazione dell'arte tali fi ftimano . Ed in vero quello , che è realmente buono , di che ha biſogno di nulla più certamente che la legge , di nulla più che la verità , di nulla più , che la buona mente , che la modeſtia Quale di queſte per lo eſſer lodata diuiene buona, o bia-, fimata ſi corrompe ? forſe di uenta peggiore lo ſineralduc . cio, ſe non è lodato? non di rafli il medeſimo dell'oro, dell'auorio, della porpora, del pugnalett , del fiorellino, dell'arbuscello? Se l'anime ſempre du rano , come fin dall' eternità le può contenere in ſe l'aria ? e come la terra i corpi rac chiudere de' ſepolti di tanti ſecoli: Poichenell'iſteſſo mo. do, che la mutazione, e la re ſoluzione di queſti danno luogo ad altri cadaueri,dopo eſſer per qualche tépo quag. giuſo ſtati, così l'anime poi chè ſono ſtate traggettate nell'aria , e trattenuteuifi al quanto , fi tramutano , e ſi ſtruggono, e s'abbruciano, ri tornando nella ragione ſemio nale del tuttoje in tal modo fanno luogo ad altre , che appreſſo vengono a ricongiu gnerſi. A queſto ſi riſponde, che ſuppoſto che l'anime du rino , biſogna non ſolo con cepire la moltitudine de'cor pi così ſepolti, ma quella an cora degli animali , che cia fcun giorno da noize da altri animali ſi mangiano ; poichè quanto numero le ne confu ma, ecosì in yn certo modo ſi ſeppelliſce nelle viſcere di quelli , che ſe ne cibano de tuttauia capono in questo luogo per la traſmutazione in in sangue , in aria , e in fuoco. Qualeè intorno a que ſto la notizia della verità il . diuiderſi in materiale , e cau-, ſale. Non fi vuole andar con aggiramenti vagando, ma in ogni appetizione dell'animo deefi aſſegnare il giuſto ; ed in ogniimmaginazione con feruare quello , che ſi è compreso. Tutto quello, che a cé , o Mondo , è conueniente , a me ancora ſta bene . Nulla è a me acerbo , o tardivo, che a te ſia ſtagionato; ogni coſa , che portano le tue ſtagioni, è a me frutto . O natura , da te deriua il tutto , in te è il tutto , e a te il tutto ritorna . Diffe colui ; Amata Città di Ci tropese tu non dirai,Amata Cit tà di Gione? Intrigati di poco , diſſe , se tu vuoi ſtare coll' animo quiero Non è miglior cola , che far ſolo ciò , che è neceſſario , e quello , che la ragione all ' huomo,nato per la vita ciui le , detta , e nel modo , che lo detta. Imperocchè queſto non folamente reca la tran quillità , che dal ben fare procede; ma quella ancora , che dal poco operare.ti au uiene. Concioſliecoſa che; fe la maggior parte di quello che ſi dice, o lifa , non eſſen do di neceſſitade , alcuno ri ciderà , egli ſe ne ſtarà int maggior ozio,c meno ſturba to. Perciò biſogna in ciaſcu na coſa in particolare ricor darſi che forſe ella ſi è vna di quelle , che non lon neceſſa rie . Biſogna in oltre non ſo lo toglier vią l'azioni , che non ſon tanto neceſſarie, ma ancora l'iſteffe immagina zioni, perchè così non ſegui ranno azioni ſuperfluc. Fa prova, come ti rie fca la vita d'vn huomo dab bene, cioè, cheſi contenta di ciò , che dall' Vniuerſo gli vien aſſegnato, che ſi ſoddis fa del proprio operare giu ſtamente , e della ſua man fuera diſpoſizione.Hai confi derato queſto.2 rimira queſt altro ; non ti turbare , habbi l'animo tuo aperto. Chi pec ca, contro di fe pecca. Ti au uenne qualche bene ? Dal principio dell'uniuerso ti fu ciò deſtinatose intrecciato in ſieme ognaltro auuenimena to.In ſomma la vita è breue. Vuolſi guadagnare il preſen te gote con feguire la retta ragio ne, e la giuſtizia. Sta attento di non rilaſſarti. 18 O il Mondo è vna bel la ordinanza,o'vn meſcuglio confuſo , tuttauia & Mondo. Ora ſe in te ſteſſo qualche Mondo,cioè,comeper efem plo,vna venuſtà può conſiſte . re , haurà poi da eſſer yn'im monda ſconuenenza neli'yni. uerfo , mentre in effo tutte le cofe fi vedono così diſtinte , c dilatate , con effer inſieme reciprocamente affette ? 19 Ci ſono coſtumi negri , coſtumi effeminati , ferrigni, ferini, e diquelli, che ſono fimili a'brutali , e a ' fanciul leſchi, inſenſati , affettati , buffoneſchi, tauernieri , e ti rannici. Se fireputa pellegri no nel Mondochi non faciò : che in eſſo ſi truoua , molto o più pellegrino è colui , che ignora ciò , che in eſſo ſi fac cia. Fuggitiuo farà chi fugge 0 dalla ragione ciuile , è cieco chi ha chiuſo l'occhio dell' intelletto , mendico chi ha neceffità d'altri, e non ha ap " preſſo di ſe tutto quanto gli è neceſſario per vſo della vi ta. Eyna apoſtema del mondo, chi ſi diparte, e fi difrom pe dalla ragione della comu ne natura , non accomodan dofi agli auuenimenti ; men tre gli produce quella mede fima , che ha te ancora pro dotto.E vna ſtracciatura del la Città , chi diſtacca la pro i pria anima dalla mente r & ei gioneuole, che è vna . 20. Ci è chi filoſofa ſenza tonica , e chi ſenza libro , vn' altro mezz'ignudo. Non ho del pane, diffe, e nonmipar to dalla ragione. Io non ho il cibo degl'inſegnamenti , e pur in eſſi perſcuero : Affe zionati all'articella , che im paraſti , e in quella acqueta ti.Mena il reſto della vita tua con riporre negl'Iddij la cura d'ogni tuo affare , e ciò con tutto l'animo : e dhuomo, che viua,non ti fare ,ne tiran i no , ne fchiauo . 21 Conſidera, verbi gratia, i tempi di Veſpaſiano , tu vi vedrai tutte queſte medefi me coſe , cioè huomini, e far .nozze, ed educar figliuoli, ed ammalati, e morienti, e com battenti, e feſteggiantise mer. catanti, e agricoltori , e adu latori, e arrogantemente par Janti, e ſoſpettoſi, e infidiatori , e deſideranti la morte , e delle coſe , che ſuccedeuano ha lamentantiſi, e innamorati, e at intenti ad ammaſſar teſori, e e ambizioſi di Conſolati , e di 1 Regni; tutti fparirono, e della loro vita già non vi rcſta 1 nulla . Appreffo traſportati all'età di Traiano ; di nuouo I rimirerai tutte le medeſime cofc , e pur la vita di quelli non ci è più.Similmente con ſidera altri ſegnalati inter ualli de' tempi e delle intere nazioni; e offerua,come tanti, e tanti allora gonfiati l' vno * contro l'altro ,dilì a poco ca e dettero , c fi dileguarono ne gli elementi . Specialmente B t'hai da rammentare di quel li, che tu ſteſſo hai conoſcill ti , che vanamente affannati hanno tralaſciato d' operare  conforme alla propria diſpo fizione , e d'aderire tenace mente a quella , e di quclla foddisfarli . E neceſſario an cora di rammentarti,che l'ap plicazione in ciaſcuna azio ne ha la ſua propria conue nienza , e proporzione; per chè così tu non ti dorrai; ſe tu non più di quello chepor ta il pregio in queſte coſe minori, ſarai occupato. 22 Le voci già correnti , ora fono diſufate , e richie dono chioſe ; così i nomi di quelli già tanto celebri fono in yn certo modo al preſente fimilia derte voci: tale è Ca millo, Cefone, Volefo ,Leon .nato; e poco appreffo Scipio ne ; e Catone ; dopo anco Auguſto , c indi Adriano , e Antonino ; perchè ogni coſa ſua Ct colla 211 ap 10 16 ber Ol ſuaniſce , e tofto paſſa in fa uoleggiamenti, cben preſto dentro d' yna totale obbli uione reſta ingoiata.E queſto dico di quelli , che a maraui glia yna volta riſplenderono; poichè gli altri nell'iſteſſo lo ro fpirare reſtarono ignoti, e niuno più ne domanda . Che coſa è dunque queſta eterna memoria ? Tutto vanità. In torno a che dunque s'ha da porreil noſtro ſtudio in que ſto ſolo ; che la mente ſia giu ſta , l'azione diretta al co mun bene,tale la ragione che mai non reſti ingannatå, el animo così diſpoſto, che ciò, che gliaccada, abbracci, co me foſſe a lui neceſſario , e co me famigliare , e come dall' ifteflo comun principio , e fonte deriuato . Di buon ani til zie id 700 DITI OP ON DC1 او و mo gettati nelle braccia del fato ; permettendogli che e inuolga in quelle coſe , che a lui parrà. Il tutto va a giorni, e chi rammenta, e'l rammen tato . Mcdita del continuo , come tutto ciò, che ſi fa a per mezzo delle mutazioni fi fa; e auuezzati a conſiderare , che nulla ama così la natura del l' vniuerſo , come di mutare gli entie far delle coſe nuo ue a quelle aſſomiglianti. Perchè in vn certo modo o gni coſa, che è, ſemenza è di quella , che da eſſa s'ha da produrre; e tu t'immagini ef ſer ſoli ſemi quelli, che ſi traſ mettono nella terra , o nell' vtero. Coteſti fono penſieri da perſona molto idiota. Già ſei all' orlo detta morte e ancora non se' diue hel nen ZIO pe TI che can de nuto ſchierto , e libero dalle rei perturbazioni, da’ſoſpettid' eſſere dagli eſterni leſo , ne bi placido inuerfo tutti;ne ſtimi la prudenza eſſere il ſolo giu ftamente operare. 24 Rimira la mente conducitrice degli altri e ciò, che veramente fuggano e fe de guano i prudenti. Il tuo male non consiste nella mente d'altri o ne' rivolgimenti o variazione dell'ambiente Doue dunque la doue tu hai l'opinionede'tuoimali . Per di ciò non opinare queſto , che il tutto andrà bene; ancor chè il corpicciuolo , che a f quello è propinquo ,fi ſeghi,fi abbruci , marciſca , ſi putre faccia ; purchè rimanga quie ta la particella , la quale for ma l'immaginazione di que dit + C. ef E Ite ſte coſe , cioè che non giudi chi eſſer ne bene , ne male ciò , che può accadere , tanto all'huomo dabbene , quanto al cartiuo , Concioſliecoſa che quello , che ſimilmente auuiene a chi viue , secondo la natura , e a chi viue diuer ſamente , non è ne secondo la natura ne contro di essa. Conſidera del continuo il mondo come un' animale, composto d’una sostanza e di un'anima, e come all ynico ſenſo di quello tutte le coſe ſi riportino, e come con vn'im peto il tutto operi, e come tutte le coſe tra fe di tutto quello che ſi produce , ſon co . muni cagioni;e quale ſia l'in trecciamento, ola teflitura. Sei un'animuccia , che porta un cadauero ; diceua Epitteto. A quelli , che ora ſono ali nella mutazione , niente è di male, come niente è di bene a quelli , che nella mutazio ne ſuffiſtono . 28 L'euo è come un fiume, e come yna corrente violen ta delle coſe , che ſi fanno, perchè, ſubito che ciaſcuna di quelle compariſce, è rapi ta , e altra ne compariſce , e queſta ancora ſi traſporterà. Ogni accidente è così ſolito , e famigliare, come nella pri mauera la roſa , c nella ſtate i frutti . perciocchè tale è la malattia, la morte la maledi cenza , l'inſidie , e ciò che rallegra i pazzi, o gli contri fta . Quello , che proſegue, ſempre ſi connette accon ciamente agli anteceden ti . poichè non è vna nume 1 orazione di coſe tra loro dif crete, e ſuſſiſtenti per necef ſità ſolamente di calculo; ma èyna congiunzione, ſecondo la ragione; e come ſono coor dinate, e ben congiunte tut . te le coſe che eſiſtono , così quelle, che ſifanno non han no vna ſemplice ſucceſſione, ma dimoſtrano vna certa ma rauiglioſa famigliarità, che è tra di loro. 29 Habbiaſi ſempre a mente quel detto d’ERACLITO. La morte della terra eſſere quando diuenta acqua ; e la morte dell' ac qua, quando diventa aria ; come del l'aria, quando fuoco , e così per l'oppoſito . E ancora da ri cordarſi di colui, al quale era ignoto,doue la ſtrada condu ceſſe; e di quelli, che ſpecial mente , e del continuo con uerſano con la ragione , la quale ogni coſa amminiſtra, e nondimeno da quella dif ſentono , e che quelle coſe , nelle quali ogni dis’abbat tono , a loro paiono ſtranie re. e che non biſogna fare , e fauellare in guiſa quafi di dormienti,perchèallora anoi ſembra difare , e di dire ; ne fi hanno da imitare i fanciul li , i quali dicono con ſempli cità : Così habbiamo appreſo dai noftri maggiori . « 30 Se alcuno degl' Iddij ti diceffe , che hai da morire la domane,o al più lungo por domane , non molto ti im portarebbe, che foſſe più to ito domane, che poſdomar nc, ſe non le d'animoin eſtre mo tralignante. Imperocchè E 3 quanto ſi è l'interuallo d'vn giorno cosìno iſtimare gran coſa le fia più toſto dopo moltiſſimi anni che domane. Ripenſa contimamente teco medeſimo; quanti medici ſon morti, che ſpeſſo hanno le ci glia inarcate ſopra de i ma lati ? quanti matematici, che come yn gran caſo le morti d'altri prediffero 2 quanti Fi loſofi dopo mille , e mille contefe della morte , e dell' inmortalità ? quanti prodi in armi , che molti vcciſero ? quanti tiranni,checon gran de preſunzione della loro potestà sopra l'anime ſi feruiro no , quaſi chenon foffero e glino ancora mortali ? quan te Città ſono , per così dire, affatto morte ? Elice , Pom pei , Erculano , e altre innu nie merabili . Traſcorri ancora quanti hai tu conoſcuti l'yno appreſſo l ' altro morti . Que gli dopo hauer fatto i fune rali dell'altro , ha ſteſo egli morendo le gambe , e dopo lui yn'altro . Tutto ciò in bre de tempo . In ſomma ſempre fono da conſiderare tutte le coſe humane,come d'vn gior no , e di prézzo viliffimo: ieri vn pochin di mocci,domanc falſume, o ceneri . E perciò queſto momento di tempo paffalo viuendo , ſecondo la natura , e muori tranquillo , come l'vliua , che fatta ben matura cade laudando la ſua producitrice, e rendendo gra zie all'albero , dal quale fpuntò. 31 Sij ſimile a vn promon torio , nel quale inceffante E 4 mente l'onde s'infrangono; e nulladimeno egli ſta ſaldo, e intorno a lui fi abbonacciano gli orgogli dell’acque . Infe . lice me , perche ciò mi è au uenuto l’anzi al contrario, me ſelice , che essendo miciò accaduto , me ne ſto ſenz'al cun dolore , nedal prefente offeso, ne temendo l'auueni re . imperciocchè queſto po teua ad ogni altro accadere , manon ognuno l'haurebbe ſopportato ſenza dolerſi.Per chè adunque più toſto quello infelicità che queſto felicità farà da noi giudicato ? echia mi tu a pieno infelicità dell' huomo corefto , che non è difauentura alla natura hu mana ? E diſauucntura della natura humana pare a te, che ſia quello , che non è contra ilvo il volere di lei ? Quello che ella voglia , l'hai tu appreſo ? Non é impediſce dunque queſto accidente, che tu non ſij giuſto , magnànimo, tem perato , prudente , conſidera to ,,verace , modesto , libero, con le altre qualità , le quali efſendo preſenti , la natura humana gode ogni ſuo pro prio . Quanto al rimanente ricordati , ogni volta che al. cuna coſa t' induce ad attri ſtarti, di valerti di queſta ſen tenza . Che queſto , che t'è accaduto non ti è d'infelici tà , ma di felicità , foppor tandolo generoſamente . 32 Per certo è volgare aiu to , ma tuttauia efficace, per diſprezzar la morte , il ri membrarſi di quelli , i quali, attaccati al viuere , lungo Es : tempo durarono. Che hebbe, ro più queſti di quelli, che in eri acerba morirono ?Giacor ciono ſenza dubbio in qual che luogo Cadiciano, Fabio , Giuliano , Lepido , e altri fi mili, i quali , dopo hauer fat ti i funerali a molti, eglino ancora furono poſcia ſepolti. Finalinente ci è poco d'inter ftizio , il quale con quante moleſtie , e con quali ſten ti , e in qual corpicciuolo vien ſofferto ? Dunque non ne far gran conto į rimira però indietro all'immenſità dell'euo , e a te dauuanti yn altro infinito . In queſto, che differenza è tra vno morto a capo di tre giorni,e d'vn Ne ſtore di tre ſecoli? Per la ſcortatoia corri ſempre , e quella via , che ſi conforma alla natura , è la fcortatoia saluteuole. Però dì , e fa ogni coſa nella ma niera più ſalateuole . Impe r occhè queſto propofito libe ra dalle fatiche , da i com battimenti , da ogni ſimula zione , e da ogni oſtentazione . Vando dal ſonno neghittofamente la mattina ti fue gli , habbi in pronto . lo mi fueglio all'opera dell'huomo; ancora dunque ripugnanza fento , ſe io vo a fare quello pere , alle quali ſon nato , e per le qualiſono ſtato intro dotto nel Mondo forſe ſono ſtato ordinato, acciò tra piu macciuoli giacendo io mi riſcaldi? Maciò è di maggior guſto. Dunque a pigliarti gu ito, e in ſomma non al fare ne all'operazioni ſei nato ? non vedile pianterelle, i paſ ferotti, le formiche, i ragnis l'api comecooperano all' or namento delMondo, e tu non vorrai fare quello , che ſpet ta all'huomo e non accorri a ciò , ch'è conforme alla nå tura tua ? Ma biſogna pure ripoſarti. Biſogna.Ed in que ſto la natura aſſegnò lemiſu re ; e diedele ancora , ed al mangiare , ed al bere; e non dimeno tu pafli oltre alla mi fura , e oltre alla ſufficienza . Non però così nell'opere; ma affai meno di quello ſi puote; concioffiecoſa che tu non a mi te ſtello , che quando ciò foffe , amereſti la natura , e'l di leivolere . Altri, che amano le loro arti, ſi conſumano ne’lauorij di quelle ſenza go der de bagni, e ſtando digiu ni . Tu fai men conto della tua natura , che il tornitore non fa dell'arte del tornire, o il ſaltatore dell'arte del fal tare , o l'auaro dell'argento , o il vanagloriofo della glo rietta ; e quando queſti s'af fezzionano a cotalicofe, alle qnali ſono inclinati, abban donano più preſto ilmangia re , e il dormite , che il laſciar d'accreſcerle . E a te l'azioni fpettanti alla comunicazione humana appariſcono di più baſſo pregio , e men degne ď accuratezza. Quanto è facile lo ſcace ciare,elo fcancellare ogni turbolenta immaginazione , onon conueniente , e ſubito metterli in iſtato d'ogni tran quillità ? Reputa te ſteſſo de gno d'ogni diſcorſo , e d'ogni azione, che lia conforme alla natura , ne ti ritragga il ri chiamo d'alcuni, o il biaſimo, che ne ſegue ; masſe farà coſa oneſta da operare, o da dire, non te ne ſtimerai indegno . Imperocchè hanno quel li la propria loromente , e v fano della propria inclina zione , alle quali tú non hai da riguardare , ma dei cam minare per la diritta , ſegui tando così la propria comela comunenatura , delle quali amendue èvna via. Io cammi. nando me ne vo per le coſe, che ſono ſecondo la natura , finchè cadendo io mi ripoſe rò, e ſpirando in quello ,don de ciaſcun giorno reſpiro , e si cadendo in quello , donde il ſemuccio da mio padre, e il fanguuccio da mia madre , e il lattuccio dalla inia nutri ce furonoraccolti; e del qua le per tanti anni ogni di mi paſco , e m’abbeuero, che mi foftiene mentre lo calco , e dello ſteſſo in tanti modi in '. abuſo. 3 Non hanno in chemara uigliarſi della tua acutezza fia così . Ci fono molte altre coſe ,delle quali non puoi ne gare , che in te non ſia l'abi lità Mettidunque in opera quelle , che ſono tutte a tua. diſpoſizione, l'eſſere ſincero , grauie,tollerante della fatica , non amico del piacere , non, quereloſo della tua forte , biſognofa di poco , placidos libero,moderato, serio, e magnifico. Non t'accorgi quan te coſe tu hai poter di fare, per le quali tu non hai prete ſto , che la tua natura non fia atta , o abile ; nondimeno di propria elezione te ne reſti, comedappoco al diſotto ? forſe inetto per natural diſpo ſizione ſe neceſſitato a inor morare, ad eſſere tenace , ad adulare , ad incolpare il cor picciuolo , o a luſingarlo , ad effere vano, ed a cotanto nel l'animo agitarti d'eſſer natu ralmente inetto, e dappoco ? Non per gl' Iddij . Ma però già vn pezzo fa di tutte que Ite coſe tu eri da te ſteſſo pof ſente a libcrarti.E ſolamente , ſe però è così,poteui ellerac cuſato come più tardo , e du ro ad apprendere. Ed in que ſto ancora ti doueui eſercitare , non trasuolando altroue con la mente , ne godendo della pigrizia . 4. Euni chi, quando ha vſa to qualche amoreuolezza in riguardo d'alcuno, glie lo di chiara incontanente per gra zia : eď emui ancora chi, ſe non vſa ſeco tal prontezza in ri conoſcerla , nondimeno ap preſſo di ſe penſa , quanto quegli li ſia debitore, e cono ſce molto bene quello , che egli haoperato . Fuui ancora chi in vncerto modo non co noſce quello cheha operato ; ma è fimile alla vite,laquale , prodotto il grappolo,null’al tro di più richiede , dopo ha uer yna volta dato il ſuo frut to . Il cauallo , cheha corſo il cane,che ha cacciato; l'ape , che ha lauorato il mele ; 1 * huoc huomo , che ha ben opcrato , non cerca acclamazioni, ma procede ad yn altr'opera, co me la vite torna a produrre dinuouo alla ſtagione vn al tro grappolo. Fra queſti dun que biſogna in un certo mo do eſſere, come chi ſenza ba dare opera ? fi per certo. Nul ladimeno a queſto iſteſſo s'ha da badare.  Perciocchè , dirà alcuno , è proprio del comu nicatiuo che s'auuegga d'o perare , conformealla comu nicazione; ma perciò ſi vuole, per gl'Iddi, che anco quegli a chi fi comunica , fe n'accor ga . E'veriffimo coteſto , che tu dì, ma ſe tu non compren di quello , che'ora ſi dice , farai per tanto vnodi qnelli, de'quali ſopra s'è fatta men zione: concio ffiecoſa che ancora quelli da certo probabi le diſcorſo'fi diftraggono, ma ſe tu vorrai comprendere quale vna volta fia quello , che s'è detto, non temere; ne perciò laſcia d'operare per beneficio comune. Erano le preghiere degli Atenieſi: Pioni,pioui, ocaro Gion u éjsopra i campise gli orti degli A tenieſi . Però o non bisogna pregare , o farlo con iſchiet tezza, e con libertà. A quello, che comune mente ſi dice : ESCULAPIO ba oi dinqto a queſti il canalcare , o il lauarli con acqua fredda, d'andar a piedi ſcalzi;è fimile anco queſto che la natura dell? vniuerſo ha ordinato a quegli la malattia , o la ſtor piatura , o qualche perdita , o altro ſu queſto andare: poi chè nella parola , Ha ordinato, vi è vn tal ſenſo , che coſti tuiſce queſto in ordine a que ſto , come per riferirſi alla fa nità , e così qui quello , che accade a ciaſcheduno, è con ſtituito per relazione al deſti no . E però diciamo queſte coſe conuenirſi nel modo , che gli artefici dicono le pietre quadrate per le mura , e per le piramidi conuenirſi tra di loro in tale commetti tura combaciandoſi . Perchè in fatti l'armonia è viia , e ' fi come da tutti i corpi ſi viene a compirc vn tal corpo, che è il mondo, così di tutte le cagioni vien ad esser il fato vna tai cagione compita. Comprendono ciò , che dico anco le genti affatto idiote. imperocchè così fauellano. Queſto huyenne a colui, dun que queſto a colui douea ar rivare ; e ciò era dal fato or dito a queſto . Prendiamo dunque ſi queſte coſe , co inc quelle , ſecondo che Eſculapio ordinò - Perchè molte coſe in vero in fc ſter ſe ſono aſpre , e nientediine . no noi l'abbracciamo per la ſperanza della ſanità. Penſa alle coſe , che per la comune natura auuengono , la perfe zione , e il compimento effe re , come a te la ſanità. E così tuto quello , che vien dato ,benchè ti paia vn po co più aſpro ", abbraccialo , perchè conferiſce alla sanità del mondo , c agli proſperi auuenimenti , e beneficenza di Gioue. Concioſliecoſa che queſti non produſſe mai coſa alcuna , fe non per giouare all'vniuerſo ; giacchè qualſifia natura non produce niente , che non ſia congruo al go uernato da lei.Però biſogna che per due ragioni tu amio gni qualunque coſa ti auuie ne . Quanto all'vna, perchè per te ſi fece, e a te s'ordinò , e a te in certo modo attiene, deſtinato da ſourane , e anti chiſime cagioni. Quanto all' altra , perchè al reggimento dell' voiuerfo ancora quel particolare,che a ciaſcuno au uiene, è cagione del progreſ ſo , e della perfezione, come anche in verità dell'iſtella per inanenza . Perciocchè ſi ſtor pia l'integrità del tutto , fe qualſifia particella tu tronche rai della conneſſione e conti nuanza ,così delle parti come delle cagioni ; e , per quanto è in te , lo tronchi , quando non ben lo riceui , ed in vn certo modo lo toglivia. Non s'ha da maledire , non da ſmarrirſi,nc ſtomacar fi , ſe volendo tu operare , ſe condo la rettitudine de'pre cetti , in ciaſcuno di quelli non ti rieſce ; ma ancorchè ſij abbattuto , torna di bel nuouo ad eſſi , e ad abbrac ciarli nelle coſe , che hanno maggiormente dell'humani tà ; e affezionatia quell'azio -ne , alla quale tu riedi. Nc ſi ha da tornare alla filoſofia , nel modo, che ſi fa al pedan te , ma come glinfermi d'oc chi ricorrono alle ſpugnette e all'youo, o come altri all' impiaſtro, e altri al lauamen to. Imperocchècosi non ostenterai d' eller lignoreg giato dalla ragione, ma di ri poſare totalmente in eſſa. Ri cordati , che la Filoſofia ſolo vuole quello ,che la tua natu ra vuole:ma che tu hai voglia d'altro diucrſo dal voler della natura . Qual coſa ha più di queſte deldiletteuolc? poichè il piacere non ingan na egli noi per mezzo di quelle ? ma tu conſidera , ſe più diletto dia la magnani-, mità, la franchezza , la ſchiet tezza, l'equità, la ſantimonia . E qual coſa vi è , che ſia più diletteuole della prudenza , quandoben conſidererai,che ſia il non fallire , e l'eſſer ben docile in tutto quello , che tocca alla facoltà dell'inten dere, e del ſapere ? 8 Sono le coſe in yo certo F modo così ricoperte , che a non pochi Filoſofi, e queſti non ignobili . parue che del tutto fieno incomprenſibili. Anzi agl'iſteſſi Stoici ſembra rono difficili a comprenderſi. Ed eſſendo ogni noſtro aſſen ſo ſoggetto a cadere , e mu tarſi, in che luogo dunque fa rà l' immutabile ? Riuolgiti però col penſiero a queſte co ſe preſenti;e cöſidera quanto ſieno momentanee , e di po ca ſtima : ch' elle poſſono ef ſere poſſedute da vn zanze ro , da vna meretrice , da vn aſſaſſino . Dopo queſto tra paſſa a i coſtumi di quelli che teco viuono , tra quali anco il più da te gradito, malage uolmente da te vien compor tato , per non dir che l'huo mo appena comporta ſe ſtesso. In queſta perciò caligine e immondizia, e in tal Auſli bilità della ſoſtanza del tem po, del moto, e di tutto quel, che ſi muoue, non potrà im maginarſi qual ſia quello che poſſa eſſer degno affatto di ſtima, e d'affetto . Dall'altro canto però biſogna confor tarſi ad aſpettare il natural diſcioglimento , e non dolerſi del rattenimento , ma ac quietarſi in queſte due ſole coſe: L'yna ſi è, che nulla mi auuerrà , che non ſia confor me alla natura dell' vniuerſo; e l'altra , che ſta in mio pote re di non operare contro il mio Dio , e genio :'concioſ fiecoſa che niuno ci forzi a traſgredir queſto. A che finalmente mi va glio ora dell'anima mia? Ad ogni momento ho da in terrogaré me ſteſſo , e ricer care che ſi fa adeſſo da quel la porzione , che reggitri ce viene chiamata ? Di chi dunque preſentemente porto l'anima? per auuentura d'vn : bambolino, o d'vn fanciullo forſe dyna donnicciuola , d'vn tiranno, o d'vn giumen to, o d'una fiera? Quali ficno i beni , che alla moltitudine paiono tali; lo potrai quindi comprende re;poſciachè ſe vno concepi fce nell'animo efferui alcuni veramente beni, come a dire la prudenza , la temperanza la giuſtizia , la fortezzá , chii haurà con la conſiderazione concepito queſte tali cöfe, non potrà più dar luogo ad alcun'altra , che a queſto bene non ſi conformi . Ma ſe nella mente ſi faran concepi te quelle , che con faccia di bene agli più piacciono , da rà luogo , e facilmente rice uerà il detto del comico.Co sì fin il volgo immagina ſimil differenza ;perchè altrimen te quel detto non offende rebbe , e non ſarebbe con if degno mal preſo. Per lo con trario l' ammettiamo come propriamente detto, quando cade ſopra delle ricchezz e, e de cominodi per lo luffo , e per la pompa. Passa più ol e interroga , ſe queſte coſe hai da pregiare , e ſtima re,quando di eſſe li truoua ef ſer detto con gaiezza , e gra zia , che al poſſeditor di det te coſe per la gran copia manca doue egli yoti il triſto facco. Sono ſtato compoſto di cauſa , e di materia, e ne l'vna, ne l'altra fi dilegucrà nel nul. la; giacchè di nulla non fu prodotta . Dunque ognimia parte mutandoli rientrerà in qualche parte del Mondo ; e di nuouo queſta in vn'altra parte del Mondo ſi traſmute rà , e così in infinito . Per mezzo di queſta mutazione ed io ſon venuto , ed i miei genitori; e così retrogradan do in vn altro infinito . Ne ci e chi proibiſca di così parlare , ancorchè per peri odi terminati la macchina mondiale ſi regga. La ragione, e l'iſteſs'ar te ragioneuole ſono facultà a ſe medefime , e alle opere loro proprie ſufficienti. Muo uonli dunque dal loro proprio principio ; e camminano dirittamente al propoſto fine. Per lo che ſi dicono rettifica zioni così nomate queſte azioni a ſignificar la rettitu dine del ſopraddetto cam mino . Neſſuna di queſte co ſe è da dir, che ſia dell'huomo la quale non conuenga all' huomo , come huomo , ne ſi richiedono dall'huomo , ne quelle profeſſa la natura del l'huomo , ne ſono perfezioni della natura humana . Non è dunque ne meno il fine dellº huomo ripoſto in quelle , ne meno il bene , che è il compimento di quel fine . Se pure qualche cofa di queſte foſſe conferente all'huomo , non gli apparterrebbe ne il diſpregiarla, ne il contrariar la : ne farebbe da lodarſi chi si moſtraſſe non hauer biſo gno di elle , anzi chi ſtudiaf fe priuarſi d'alcune di quelle, non ſarebbe buono , mentre quelle foffero buone . Ora però quanto più l'huomo ſi leua queſte coſe dattorno , 0 altre ſimili ; o permette , che ſe gli leuino , tanto più buo no è. Tale farà la tua mente quali ſaranno le coſe , che ſpeſſe volte ti ſono paſſate per la fantaſia :reſtando l'ani ma colorata dall'immagina zione . Immergila dunque in fi fatte continuate immagi nazioni ; delle quali yna ſi è quella che doue ſi puòviuere, iui ſi può anco viuer bene: ma nella Corte ſi può viucre , a dunque nella Corte puoſſi feuza dubbio ben viuere . E dinuouo queſt' altrà , che cia ſcheduna, coſa a qualche co ſa è diſpoſta , e dou' è di ſpoſta ſi porta , e doue fi porta conſiſte il ſuo fine , e doue è il fine , iuiè l'vtile , e il bene di ciaſcuno . Sicchè il bene del viucnte ragion euo le è la comunanza ; e men tre teftè s'è dimoſtrato che perla comunanza ſiamo nati, non è euidente, che l'inferior bene per lo meglio è fat to , come vn meglio per l'al tro meglio?ma migliori deg! inanimati ſono gli animati, e degli animati li ragioneuoli. E da furioſo il profe guir le coſe impoſſibili : ma impoſſibile è che i cattiui non facciano alcune tali co fe . Niente auuiene a niuno , che non gli ſia ſtato dato a portare dalla natura ; ma le medeſime coſe ſuccedono a gli altri, i quali o non com prendono l'accaduto loro , o per oſtentar la magnanimi tà , non ſi muouono dal lor fefto , e lieti ſe ne ſtanno Onde ſtrano parrà che l'in gnoranza , e la propria com piacenza fieno più poſſenti della prudenza . Le coſe per fe fteffe in niun modo tocca -no l'anima ; anzi non hanno in quella l'introito , ne poſſo no piegarla, o muouerla . El la ſola riuolge , e muoue ſe ſteſſa : e le coſe , che le fo prauuengono fono tali, qua ſi ella ſe ne forma i giudicij . 15 Per vn altra ragione la natura degli huomini è a noi famigliariſſima , in quanto che noi dobbiamo far loro del bene , e tollerarli ; in quanto poi alcuni relifto no all'operazioni , che a noi conuengono , l'huomo a me diuiene come vna coſa del le indifferenti non meno del fole , del vento , delle beſtie. Da queſti ſi può impee dire qualche operazione; ma non ſi può dare impedimen to , ne all'appetizione, ne al la diſpoſizione , a cagion della eccezione , e del ri. uolgimento.Conciosfiecoſa che la mente riuolge , e tra muta in coſa a ſe proporzio . nata tutto quello , che all? operare le da impedimento , e quello , che ratterrebbe l'o pera , l'iſteſſo diuiene opera , e quello che innanzi era oſta colo al cammino , ſe le fa . cammino. Di tutto quello , ch'è nel Mondo tu venera l' otti mo; e que to è quello , che , feruendoſi del tutto , il tut to gouerna . E così parimen te di quello, ch'è in te, onora l'ottimo,hauendo queſto fin golar relazione a quello .. Concioſliecoſa che , eſſendo in te , fi vale delle coſe tue, eſotto il di lui gouerno è condotta la tua vita. Quello , che non è di danno alla Città , non nuo ce al Cittadino.Applica que fta regola in ogni occorrenza in cui tu reputi d'eſſer offeſo. Se da queſto la Città non ri ceue nocumento , ne io lo ri ceuo ; e fe la Citrà riceueffe nocumento , non biſogna , che tu t'adiri contra chi l'ha daneggiatta . Ma moſtra in che egli ha traueduto. Conſidera ben fouente la preſtezza,con la quale li por tino via , e ſi fottragghino tutte le coſe , che ſono , e ſi van facendo; poſciachè la ſo ſtanza a guiſa d'yn fiume è in continuo fluſſo , eľ opera zioni in non intermeſſe mu tazioni, e le cagioni ſogget te ad infinite riuolte . Nec è quaſi coſa alcuna, che falda ftia , e che non ſia vicina ad yn'immenſità infinita , sì del paſſato ,come del futuro,ncl la quale il tutto ſpariſce.Co me dunque non è pazzo chi di queſte coſe ſi gonfia,o fe ne trauaglia,o ſi querela dicoſa, che per iſpazio di tempoan , che pochiſſimolo conturba 2 Ricordati della ſoſtanza vni uerſale, della quale tu partecipi per vna minima parte , e del vniuerfal tempo,del qua le vn breue ſpazio , o momen to te n'è aſſegnato ; e nella ſerie fatale che parte fai ? Alcuno pecca : che impor ta queſto a me ? Egli ſe lo ve drà. Egli ha la propria diſpo ſizione , la propria operazio ne. Io al prefente ho quello , chela natura comune vuole , ch'io adcfſo m’habbia , e fo quello , che la mia propria natura vuole , che io adeſſo faccia. 18 La reggitrice , e domi, nante porzione della tua ani maſia immutabile, e inarren . deuole a i moti della carne, o morbidi, o aſpri che ſi fieno; ne vi ſi rimeſcoli,ma conten ga ſe ſteſſa , e confini quegli affetti dentro i ſuoi meinbri. Quando poi per vn'altra ſim patia ſi rinnalzaſſero alla mente , per effer ella vnita al corpo , ſtante l'eſſer il ſen ſo connaturale , non haſli a contraſtare con violenza, pe rò la mente reggitrice da ſe ſteſſa non v'aggiunga l'opi nione inrorno al bene, o al male. S'ha da viuere con gli Iddij . Viue con gl'Iddij chi loro fuela continuamente la fua anima effer contenta del diſtribuitole , ed operando tutto quello, che vuole il ge nio , dato a ciaſcuno da Gio ue per preſidente, e rettore , come parte a ſe medeſimo preſa, e queſto è la mente , e la ragione di ciaſcuno. 20 Non ti adiri tu con co Jui,al quale puton l'aſcelle? E con quegli altresì,che man da fuor dalla bocca fetente fiatore ? che ti farà coſtui ? Egli ha vna bocca ſi fatta , e l'aſcelle di tal condizione : Forza è , che ſimili eſalazioni eſcano da ſimili parti ; Mal huomo , mi dirà alcuno, ha la ragione , e può s' egli au uerte conſiderare in che egli difetti . Buon prò ti faccia . Dunque per hauer tu ancora la ragione rifueglia la ſua ra gioneuole diſpoſizione con la tua , inſegnali aminoniſci lo. Perchè fe quello t'aſcol-. terà , lo riſanerai, e ſarà fu perflua ogni collera . 21 Non fare ne da rappre fentante tragico;ne da mere trice : Nella maniera che tu diſegni vſcir di vita , così ti lece ora di vivere? <a quando non te lo permetteſſero , allora eſci di vita , ma però , come da niuno infortunio abbattuto ,ma quaſi tu dichi : Qui c'è del fumo, e io me ne vado . Ti par queſto gran coſa ? mentre nient'altro mi fa vſci re rimango con la libertà , e niuno mi vieterà di far quel lo , che io vorrò . Vorrò però quello , ch'è conueniente al la natura dell'huomo ragio neuole, e nato per la vita cos mune . 22 La inente dell'yniuerſo è comunicatiua ; e perciò hafat te le coſe peggiori in ordine alle migliori , e le più princi pali tra di loro ſcambieuol mente compoſe • Vedi come le ſubordinò , come inſieme le ordinò , e come quello che cra conueniente detre a cia ſcuna e le più principali con reciproca concordia con giunſe? 23 Come ti ſei portato fin ora con gl'Iddij, con i geni ( tori , co fratelli , con la mo glie , con i figliuoli , co * pre cettori,co'nutricatori, amici, domeſtici , e ferui ? hai tu fin ora oltraggiato alcuno di - loro , o in fatti , o in parole ? -Ricordati di più per qualico fe ſe paſſato , e quali ſe ſtato fufficiente a tollerare,e come di già per te è adempita la • ſtoria della vita, ed è finito il miniſterio.E quante coſe bel le hai vedute ? e quanti pia -ceri , e dolori hai diſprezza ti? quante coſe d' apparente gloria hai neglette ? a quanti fconoſcenti ti dimoſtraſti benigno? Per qual cagione l’ani me ſenz'arte, e fenza ſcienza conturbano il perito nell'ar te , e l'erudito ? quale dun que farà l'anima perita nell' arte , ed erudita nelle ſcicn • ze ? quella , che ha notizia del principio , e del fine ; e di quella ragione , che pene trando ogni ſoſtanza dell' vniuerſo , per tutta l'età , fe condo i periodi ordinaci,reg . ge il tutto . 25 Or or tu farai cenere , é carcame, ' o ſolamente no 1 me,ma ne pur nome , ridu cendoſi il nome in vn poco di ſtrepito , e di riſonanza; e certamente quelle coſe , che in queſta vita s ' hanno in i grandeſtima , ſono vane,pu tride , ſcarſe , e in guiſa dica gnolini, che ſi mordono, e di 2 putti , che contendono , e ri dono, e ad vn tratto paſſano al pianto. Ma la fede, la mo deſtia, la giuſtizia, e la verità Da ilarghi ſpazi della terra alCielo s? innalzarono . Che coſa adunque qui ti rattienca ſe le coſe ſenſibili, ſono faci liffime a mutarſi , e non ſon conſiſtenti , e gli organi del fenſo oſcuri , e facili a ri ceuere falſe impreſſioni, e l' iſteſſa animuccia del ſangue yna eſalazione , l'acquiſtar gloria appreſſo queſti tali è vanità. Che dunque aſpetti? Aſpetta placido o la eſtin zione , o la traportazione . E finchè il teinpo arriui di que ſto , che coſa a te farà ſuffi ciente che altro ſe non il ri uerire gl’Iddij, e lodarli, e be neficare gli huomini, sopportarli e aftenerſi da quelli ? E quanto coſe ſono fuori del confine della carnuccia dello ſpiritello ricordati, che non ſono tre , ne ſotto il tlio comando. Potrai profpcrarti per. fempre, e ben incamminarti, e con buon ordine apprende dre, e operare. Queſte due co ſe ſono comuni così all'ani ma di Dio , come a quella de gli huomini', e d'ogni ra gioneuole viuente , cioè di non poter eſſere impedito da che che altro fi fia , e di porre nella giuſta affezione, e azio ne il ſuo bene; e in queſto ri ftrignere ogni ſuo deliderio. Se ne queſto è malizia naia , ne meno l'operazione procede dalla mia malizia , ne il comune viene offero, perchè di ciò mi trauaglio ? e qual è il danno del comune? Non ti laſciar così totalmen te rapire dalle immaginazio ni, ma aiutati quanto puoi , e conforme alla conuenienza; e ancorchè nelle coſe mezza ne ſieno diffettoſi, non iftima re perciò, che queſto ſia dan no;perchè auuiene da mala conſuetudine . Ma come yn vecchio andandoſene richie deua la trottola del ſuo allies uo , ricordandoſi che al fine era vna trottola , così tu quì, o huomo, quando hai fatto ne’roſt ri qualche coſa di bel lo , non ti ricordi , che coſa queſto fia ? me ne ricordo . Ma quello è pregiato da co loro ; perciò dunque hai an che tu da impazzare? Impaz zauo già vna volta ſoprap preſo , douunque io foſſi , ed ero fortunato; e l'oſſer fortu nato , conſiſte nel dare a ſe hafteſſo vna buona forte : le buone ſorti ſono i buoni mo uimenti dell'animo , le buo ne inclinazioni , le buone azioni. La sostanzia dell'universo è ben ubbidiente e maneggieuole. E pur la ragione , che la reg ge , non ha in ſe cagione al cuna di mal fare; perchè non ha malizia , ne opera malamente , ne da eſſa coſa alcuna riceue leſione ; ma il tutto conforme a quella fi fa e s'affina.  Sia a te indiffcrente d'operare quello , che ſi conuiene ; ſe tu ti ſenti freddo o caldo o pur ſonnacchioſo o fazio di dormire o fc di te bene, o male ſi parli o tu ftij ſulmorire o in qualche altra azione, mentre pure quello è vno degli atti vitali per i quali noi finiamo. Baſta . dunque, e in queſto ben disponi il negozio preſente. Guarda al di dentro, ac ciocchè ne la propria qualità , ne il merito di coſa alcuna fenz ' auuedertene ti scappi . Tutto ciò, che hai dinanzi affai presto si cambierà , o di leguandofi, se la sostanzia consiste per via d'vnione, o dissipandoſi La mente reggitrice conosce bene con che disposizione e che cosa e in qual materia opera . s Belliſſimo modo di ven dicarſi con chi t'offcfe , è il non aſſomigliarſi a lui . In vna ſola cofa hai da godere , e d’acquetarti , cioè di paf ſare da vn atto conueniente alla comunità humana ad vn altra azione , pur conuenien te alla medeſima , con ricor darti , che ci è Dio . 6 La facultà reggitrice è quella , che ſe ſteſſa eccita , e volge , e forma ſe ſteſſa in quella guiſa , che ella voglia, e tutto ciò,cheauuiene ſi rap preſenta , quale più le piace. Ciascuna cosa si conduce a fine conforme la natura dell'universo e non secondo altra natura, che si fia, o esteriormente ambiente o al di dentro riſerrata ouero al di fuori ſeparata . Il mondo o è vn imbro glio , e auuiluppamento , e diſſipazione , ouero vnione , eordine , c prouidenza : Se i primi , per qual cagione deſidero io di conuerfare con questa massa confusa , e cotal nieſcolanza? a che m applico io ad altro , che ad eſſere per qualche modo ter ra ? che ſto a perturbarmi? Concioſliecoſa che qualun que coſa io mi faccia la dif ſipazione al ſicuro m'arriue rà: ma ſe è l'altro detto in fe . condo luogo, io riueriſco co lui , che il tutto diſpone, e in lui m’acqueto e confido. Quando gli anuenimen ti eſtranei ti violentano per qualche verſo a perturbarti , prontamente ritorna in te ſteſſo ; e non vſcire dal tenore , e concerto più diquello, che la neceſſità ti ſpigne. Im perocchè cóſeruerai più con fonanza, ſe toſto in eſſa ti ri metterai . Se inſieme tu ha uelli la matrigna, e la madre, tu quella feruireſti , e niente dimeno del continuio alla madre fareſti ritorno . Non altro a te è ora la Corte , e la Filoſofia : a queſta ſpeſſo ri torna, e in eſſa acquetati, per mezzo della quale le cofe , che in quella occorrono , ti parranno più tollerabili , e tu nell' iſteſſe coſe farai da tollerare. 10 O comeè bene formar ſi nell'immaginatiua intorno alle viuande , e altre cole ſi mili comeſtibili : che queſto ſia cadauero d'yn peſce,quel l'altro cadauero d'vn' vccello d'un porcello . Simil mente , che il falerno ſia pic cola gocciola d’yn grappo lino d'vua , e lo ſcarlatto pe luzzi di pecorella intinta col fanguuccio di vna conchi glia . Così ancora nelle coſe intorno al congiugnimento carnale , che fia vn diletico dell'inteſtino , e conqualche conuulfione yna egeſtione di yn moccino.Ora come queſti fimili conceputi penſieripe netrano je toccano il fon dodelle coſe in modo , che ſi vedano talis quali elle fono in queſta maniera biſogna ſeruirſi di queſti in tutta la vita , e doue le coſe paiono più degne di fede , dinudarz le , e riguardar la loro viltà e ſuilupparie dalla pompa , con la quale foſſero poſte in G 3 alterigia.Poichè l'apparenza è vnagrande ingannatrice e maſſime quando tu penſi di trattare le coſe ferie , allora più che mai t'affaſcini . Mira dunque a quel , che diſſe Cratete di Senocrate . Il più delle coſe , che la inolti tudine degli huomini ammi ra , ſi riduce generalmente a quelle , che hanno dalla na tura le forme, o dall'arte fon loro aggiunte ; per cfemplo , le pietre , le legne , i fichi, le viti , e gli oliui , e quelle , che vengono ſtimate da huo mini alquanto più moderati, fi riducono alle coſe animate, ome a dire, gregge , ar menti : ma quelle , che ſono pregiate da perſone di più garbo, ſono le dotate d'a nima ragioneuole , non già di quell'anima , che è dell' vniuerfale , ma di quella , che fi val dell'arte , o altri mente come con ingegno penetra , o per dirlo ſempli cemente tutto tiene ſogget to , in guiſa d'una quantità diſchiaui. Però chi dell'ani ma ragioneuole, vniuerfale , e ciuile fa conto , non bada a nient'altro , ma ſopra il tutto conferua la propria anima di ſpoſta , e ſemouente ragione uolmcnte , e alla comunica zione humana , é con l'vni uerfale , ch'è del medeſimo genere, coopera . II Alcune coſe s'auanza no al lor facimento , e altre s'auanzano al lordisfaci mento ; e di quello , cheſi va facendo, vna parte già è ſpas rita . I corſi delle coſe , e l'al G 4 te terazioni continuamentc ri nouellano l'infinita eternità , cd il Mondo ; nella maniera , che il corſo non mai man cante del tempo lo rende ſempre recente . E chi è que gli , che in queſta corrente poſſa affezionarſi ad alcuna di quelle coſe , che via traf ſcorrono , mentre in quella non può arreſtarſi a queſti fa + rebbe in guiſa d'vno, che ſi metteſſe ad amare vn paſie rotto di quelli , che col volo trapaſſano, dopo che già dal. la viſta foffe fcappato . La vi ta di ciaſcheduno è come lo ſuaporamento del ſangue , e'l reſpirardell'aria . Poichè. qual'è l'attrarre dell'aria , e il renderla, che del continuo ciaſcuno fa, tale è ogni fa cultà reſpiratiua , che ieri , o ieri 1 ieri l'altro nafcendo fi rice uè , e l’ha da irimandare là , donde primafu colta . 12 Stimabil coſa non è , ne l'efferc fuentolati , come le piante , ne il reſpirare ,come le beſtie , e le fieregne il riceue re l'impreſſioni nell'immagi nazione , ne l'effer tirato dal l'impėto delle paſſioni, ne lº adunarfi inſieme,ne l'alimen tarſi ; poichè queſto è il me deſimo , che lo ſcaricar il fo prauanzo dell'alimento . Di che s'haurà da far conto de lo sbattimento delle mani ? Non già . Dunque ne meno dell'applaufo delle lingue ; poichè gli applaufi , ele ladi della moltitudine altro non fono , che ſtrepito di lingue . Mentre tu dunquc leui via queſta glorietta che ci riina G 5 ne da pregiare ? Io per me re puto ,che ſia il muouerſi, e com tenerſi fecondo la propria conſtituzione là;doue gli ftu dij,e l'arti conducono.Poichè ogni arte ha queſto per mira, che quello, che appreſta , lia abile all'opera , per la quale è diſegnato . Queſto pure ri cerca il lauoratore della vi gna , ed il cozzone de' pule dri, e’lcanattiere . E ledu cazione de' fanciulli, e glin. ſegnamenti a che altro s'in dirizzano ? Qui dunque con ſiſte il pregio , e , ſe ciò ti ſta rà bene , di niente altro ti curerai. Cheſe non ti quie ti , e ſtimeraipiù altre coſe , allora non goderai della li bertà , ne ſarai ſufficiente a te ſteſſo , ne immune dalle paſſioni ; conciofficcola che ti D ti ſarà di meſtiere d'eſercitar Pinuidia , e l'emulazione , e'l ſoſpetto verſo quelli , che habbiano potere di priuarti delle dette cofe ; e anco di macchinar contro quelli » che le da te ftimate poſſiedo no . Onninamente è neceſſa rio che ſi conturbi chi ďal cuna di dette coſe è biſogno fo , e che in oltre ſpeſſo faccia doglienza degl' Iddij . Ma chi la ſua propria mente ris ueriſce , e pregia , compiace rà a ſe ſteſſo , e a quelli , che fecocomunicano s'adatterà , e fi conformerà con gl'Iddij, cioè loderà quanto eſli defti nano , e diſtribuiſcono. Le moſſe degli elemen ti ſono in giù, in fu , e in giro: però il monimento dellavirtù non confifte in niuna di que G 6 ſtę ; + R ng  ſte ;ma come coſa più diuina , per via malageuole a cõpren dere felicemente s'auanza. Che è quello, che fan no glihuomini ? ricuſano di lodare coloro , che nel me deſimo tempo , e inſieme con effi viuono, e poi queſti iſteſ fi fanno gran conto d'eſſer lodati da’ poſteri , i quali ne mai conobbero , ne mai vec dranno ; ed è quaſi lo ſteſſo , che fe tu ti doleſli , che da gli antepaſſati in lode tua non foſſe ſtato mai parlato. Non perchèate ſteſſo quello fia difficile a confe guire, hai d'apprendere ,che Via impoſſibile all'haomo; ma ſe queſto all'huomo è pofſi bile , e conuencuole , Itima che anco tu lo poſſi arriuare. 16 Negli eſercizij corpo rali 1 DIMARCO rali , ſe vno con l'vnghie graffia , o vrtando il capo ha urà fatto piaga , non perciò glie la ſegnamo , ne ce n'of fendiamo , ne ombra ne prendiamo come d'inſidia tore ; ancorchè ci guardiamo da lui , non , come da nimi co , ne con ſoſpetto , ma piaceuolmente ſcanſandoci. Queſto medeſimo s'vſi da noi ancora nell'altre parti , che reſtano della vita noſtra, do ue ci affatichiamo aſſai , co me contro quelli , che con noi s'eſercitano; perchè vn può , come ho detto , fcan fargli ſenza ſoſpetto , e odio . 17 Se alcuno potrà cor reggermi , o moſtrarmi, che io dalretto m’abbaglio con l'opinione , e con l'opere , di buona voglia mimuterò , essendo in me brama della vee rità , la quale non nocque mai ad alcuno: ma egli vien leſo dal proprio errore , e dalla ſua ignoranza , nella quale egli perſiſte.Io fo quel lo , ch'appartiene al mio of ficio ; l'altre coſe non mi di ſtraggono , perchè ſono ina nimate , o irragioneuoli , o che errano e non riconoscono la strada. De viuenti irragioneuoli , e vniuerfal mente di tutte le coſe , e dem ſoggetti tu come ragioneuo le ſeruitene con grandezza d'animo, e franchezza , giac chè ragione non hanno; ma degli huomini , perchè eſ hanno la ragione, ſeruitene nel modo , checonuiene alla focietà humana. E ſopra tutto inuoca gl'Iddij, e non ti pi 1 gliar penadi quanto tempo tu haida porre in queſta o pera , perchè tre fole ore fo no baſteuoli. Alessandro Macedone , e 'l ſuo mulattiere , ora che ſon morti , ſono in tutto ri dotti al medeſimo . Auue gnachè o ſono aſſunti nell' iſteſſe ſeminali ragioni del Mondo 20 parimente ſono difperfi ne gli atomi. Conſidera quante coſes. dell'animo , o del corpo in yn momento di tempo in qualſiuoglia di noi tutte in ſieme fi facciano ; ed in tal guifa non ti marauiglierai , fe molte più coſe , anzi tutto quello , che ſi fà , in queſt vno , c yniuerfo , che noi chiamamo Mondo , parinen te ſufliſtano.in 2Se alcuno t'interro ga , come fi ſcriua il nome & ANTONINO , proferirai tu appuntatamente ciaſcu-. na delle lettere ? Che dun que s'egli entrerà in colles ra ,entrerai ancor tu in collera? Anzi più toſto profe guendo non conterai tu ad vna ad vna con piaceuolezza le lettere ? Però queſto ti ri durrai nella memoria , che ciò , che è conueniente , da alcuni numeri riceue il ſuo compimento.Queſti biſogna offeruare , e ſenza turbarſi, ne ſdegnarſi contro quelli , che prendeſſero Idegno , ter minar la faccenda per lo pro prio cammino. E' come yna crudeltà il non permettere agli huomi ni che ſi diano a far quello , che pare a loro s'adatti , e conuenga . Il che in vn certo modo tu vieti loro di fare , quando, peccando eſſi, tu ti diſguſti, e ti ſdegni; auuegna chè allora ſon portati a quel lo come a coſa, a loro conuc niente, e profitteuole. Ma la cofa , mi dirai , non va così . Dunque tu inſtruiſcili , e ciò dimoſtra loro ſenza alterarti. 22 La morte fa cellare l' impreſſioni, che da i ſenſi si cagionano . , le commozioni violente per l'affezioni, co me ancora gli aggiramenti mentali , e ogni ſeruitù ver ſo della carne . Diſdiceuole coſa è , che in quella ſorte di vita, nella quale il corpo non s'infiacchiſce , l'anima prima del corpo s'infieuoliſca. Guarda di non inccfa rirti , per non intriderti , che così fuole auucnire . Però conferua in te ſteſſo la ſchiettezza, la probità, l'inte grità ,la conueneuelezza, l'in genuità , l'amore del giuſto , la pietà , la piaceuol ezza , l'humanità, la fermezza nell operare cofe comuenienti . Sforzati di mantenerti tale , quale fu l'intento della Filo ſofia di formarci . Venera gľ Iddij , protegi gli huomini. Breue è la vita , e l' vnico frutto del viuer in terra è vna ſanta compoſtura d'ani mo, ed il far opere indirizza te al comun bene degli altri . In ſomma fa ogni coſa da vero allieuo di ANTONINO, Rio cordati , come egli sempre sta in un retto tuono d'operare ſecondo la ragione dell’uguaglianza ſua in tutte le cose della santità, della serenità della faccia della soauità, del diſprezzo della vanagloria e dell'attenzione nell'apprender gli affari . E come egli non haurebbe trapaſſato coſa alcuna , ſe prima non l'haueſſe ben co noſciuta , e perfettamente confiderata ; e come egli comportaua quelli', che di eſſo a torto ſi lamentauano , ſenza ridolerſi diloro ; e co ine in coſa alcuna non s'af frettaua , c non ammetteua calunnie ; ne de' coſtumi, o dell'azioni era curiofo fpia tore , ne rinfacciatore , non timido non ſoſpettoſo , non ſofifta ; ecome conten tauaſi del poco sì nell'abi tare , sì net dormire , sì pel 0 e veſtire, sì nel mangiare , si nella ſeruitù ; come, pronto trauagliaua volontieri nel le fatiche, e con longanimi tà ; e in qual modo fe la paf ſaua fin alla ſera con leggier riſtoro ; non hauendo biſo gno fuor delle ore conſue te delle folite egeſtioni. In oltre conſidera la fermezza di lui fenza niuna variazio ne nell'amicizie ; e la tol leranza' di chi liberamente contradicena a’fuoi pareri, e't godimento , fe venina da al tri moſtrata cofa migliore ; e come era , religioſo ſenza fuperſtizione : acciocchè nel l'vltinio punto della tua vita ti truoui con fi buon co noſcimento di te fteffo , me'anuenne a lui. Riſuegliati e richiama te fter D fteſlo , e di nuouo fuori del fon no conſidera che i ſogni ti perturbauano, Torna riſuc gliato a rimirare queſte coſe humane, come miraui quelli. 25 Son compoſto di cor picciuolo , e d'anima . Al corpicciuolo dunque ogni coſa è vna , poichè egli non può farui differenza ; maall? intendimento tutto quello è indifferente , che non è del le ſue proprie operazioni Ora le ſue operazioni tutte ſono nel di lui potere; e fra queſte, quelle che al preſen te folo maneggia : mentre quelle dell'auuenire , o quel le del paſſato anche eſſe già a lui ſono indifferenti. Non è fuor di natura la fatica alla mano , e al piede, finchè il piede fa quello, che ha da fare il piede, e la ma no quello , che la mano. Co sì ancora all'huomo , come huomo , non è fuor di natu ra la fatica quando opera quello , che ſi ſpetta all’huo mo ; c ſe ciò a lui non è fuor di natura , non gli ſta male . Quanti piaceri ſi goderono i maſnadieri, i zanzeri , i par ricidi, i tiranni ? Non confi deri come i mecanici artiſti infino agl'idioti in vn certo modo s' accomodano nientedimeno ſoſtengono la regola della loro arte , ne comportano , che da quella ſi manchi , Non farà coſa ſconueneuole , che l'archi tetto , o il medico riſpettino più la ragione della propria arte, che l'huomo la ſua , la quale gli è comune con gli Iddij? L'Asia , l'Europa ſono angoli del Mondo : tutto ľ Oceano vna gocciola del Mondo : il monte Atho una zollerella del Mondo : ogni tempo , che corre yn punto dell'eternità . Tutte ſon coſe piccolc , facili a mutarſi , che preſto fuaniſcono là , donde procedono , deriuando tutte dal comun direttore . Sicchè il grifo del Leone , e'l vele no , e ogni maleficio ,come le ſpine, ela mota , ſono giun te forucnute da quelle coſe degne , e buonc . Dunque queſte coſe non reputar alie , ne da quello , che tu riueriſci, ma riuolgi nella tua mente il fonte di tutte le coſe . 28 Chi vede le coſe pre fenti , l'ha vedute tutte , fieno quelle , che furono per tutti i ſe 70 12 lle of chi in ori ſecoli , o quelle , che per gli infiniti ſaranno;eſſendo tutte dell'iſteſſo genere , e confor mità. Conſidera bene ſpeſſo la congiunzione di tutte le coſe mondane,e l'abitudine; o il riſpetto , che vna ha con l'altra ; giacchè in certo mo do tra ſe tutte le coſe ſono intrecciate, e così tra di loro , ſecondo queſto , ſi affeziona no , poichè vna ſeguita l'al tra, o ſiaſi per lo moto loca le , o per la coſpirazione, o per l'vnione della ſoſtanzia. Adatta te ſteſſo a que' negozij; che ci ſono toccati in forte , ea quelli huomini, co’quali ſei deſtinato d'eſſere, poni affetto, ma di vero cuo re. Gl'iſtrumenti, gli arneſi, e ognivaſo, ſe a quello , ache è stato ordinato s'accomoda, è buono ; ancorchè quegli', che lo fabbricò no vi ſia più. Ma di quelle coſe , che ſotto la natura ſi contengono den tro vi è ; eperſeuera la facult tà che le diſpoſe . Perciò tanto più deeſi quella vene rare; e ſtimare , perchè ſe tu opererai , e ti gouernerai conforme al voler di quella , il tutto ti riuſcirà , ſecondo la tua intenzione ; così an cora ad ognuno le cofe - rie ſcono , fecondo la mente di lui . 30 Quando fuor di quello , che cade ſotto la tua elezio ne hai a te ſteſſo preſuppoſto o bene , o male', è neceffa . rio , ſecondo l'auuenimento di detto male' , o miſauueni mento di detto bene , lan H mentarti degl'Iddij , e anco ra odiar ' gli huomini , che ſieno ſtati cagione , o che a te ſieno ſoſpetti, come che poteſſero eſſer cagione di detti miſauuenimenti , o au uenimenti . E per queſta dif. ferenza verremo pure a peca car molto. Ma ſe folo giudi chiamo le coſe buone o cattiue , che ſono in noftro potere, non ci rimane niuna cagione, ne di dolerci di Dio , ne di contro gli huo mini con oſtil ſedizione op porci - 31 Tutti cooperiamo a compiere l'iſteſſo ouraggio , alcuni ſapendo , e compren dendolo alcuni ſenza ſaper lo . E quindi, al mio parere , Heraclito chiama operarij, e cooperarij nel facimento di tutto quello , che nel Mondo ſi fajanco da'dormienti.Altri in altro modo coopera , e molto largamente ancora quegli , che ſi querela, e que gli , che ſi sforza d'opporſi , e di diſtrugger le coſe ,che ſi fanno : concioffiecoſa che , di ciò hebbe meſtiere ilMon do . Reſta dunque , che tu intenda tra quali di queſti tutti annoueri ; poichè l’ ordinator del tutto in ogni maniera ſi ſeruirà bene di te , e ti riceuerà in qualche parte di quelli , che cooperano , 0 poſſono operare ; ma tu fa di non hauer tal parte , quale nel dramavn vile , e ridico lo verſo mentouato da Cri ſippo . Forſe che'l sol ambiſce far da pioggia ? ed Eſculapio da terra fruttifera ? Non vedi com 3 li H 2 me ciaſcuna ſtella, quantun que dall'altre diuerfa , nien tediineno al facimento di vna , e iſteſſa coſa concor re 32 Se dunquegl'Iddij han no deliberato dime, e delle coſe , che a me ſono per au uenire , la deliberazione non farà , ſe non buona : hauena do in fe repugnanza il penſar yn Dio ſenzaconſiglio . Qual cagione lo mouerebbe a far mi del male ? Poſciachè a los ro , e all'vniuerſo , del quale hanno ſpezial promuidenza, da ciò che ne riſulterebbe ? ma ſe intorno a me non de liberarono , certamente in torno dell' vniuerfo hanno deliberato , per cui conſe guenza eſſendo queſti auue nimenti ordinati , debbo ab bracciarli, ed eſſer contento . Se poi di nulla ſi pigliano cura , il che è empio a crede Te , non facrifichiamo noi ? non porghiamo preghiere ? non giuriamo ? e non faccia mo altre coſe , le quali tutte agl' Iddij , come ſe foſſero prefenti , e conuerſaſſero con noi ; indirizziąmo ? E ſean cora niente in riguardo no ftro deliberano , farà lecito ch'io pigli deliberazione di me ftcflojie la mia riſoluzio nenon farà altro , che intor no a quello , che mi torna 'bene ;maquello torna bene a ciaſcheduno', che è fecon do la ſua conſtituzione , e nåtura . Ora la mia natura è ragioneuole , c cittadineſca . La Città , e la patria è a me Roma, in quanto ſon ma in quanto ſon huo . mo è il Mondo . Dunque quelle coſe , che a queſte Cittadi sono d'vtile, quelle fole ſono a mebuone. Quello che a ciaſcuno auuiene, conferiſce al' tutto . Queſto doueua effer fufficientes ma ancora di più quello in ogni maniera con perfpicacia of feruerai , che ciò , che acca de conferente all'huomo , anche agli altri huomini conferiſce . Ma al preſente s'intenda queſta parola Eup Os pov nelle coſe mezzane in ſenſo comune al bene , e al male. Come quanto ti ſi rap preſenta nella faccia del Theatro , o di ſimili luoghi , fe in vn modoſempre ſi ve de , e non mai cambi l'aſpetto, diuiene ſazieuole alla vi fta , l'iſtella apprenſione ſi fa negli auuenimenti per tutta la vita . Poichè ſottoſopra tutte le coſe ſono le medeſi me , e dalle medeſine ca gioni . Sin doue dunque ? Conſidera del continuo tuto te le ſorti d' huomini , e ď ogni ſorte di profeſſione , e di tutte le nazioni, quei che fono morti, con arriuare fi no a Filiſtione , Febo , e Ori ganione . Paffa adeſſo ad al tre nazioni . Colà hauemo da tragettare , doue traget tarono tanti graui oratori, tanti venerandi Filoſofi . He. raclito , Pitagora , Socrate , tanti Eroi primieramente, e poi tanti condottieri , e ti ranni: e appreſſo a loro Eu doſſo, Hipparco, Archimede, e altri di perſpicace ingegno, magnanimi , amatori della fatica , Scaltriti , arroganti : e quelli ancora , che di que fta vita humana caduca, e giornaliera ſi ferono beffe come Menippo, e ſimili. Tut ti queſti conſidera che già yn pezzo fa giacciono . Ora che male è a loro queſto , e che male a quelli ancora , che in tutto ſono ſenza niuna no minata ? Vna coſa iui è dc gna di ſtima , il viucr tran quillamente con li bugiardi , e gl'ingiuſti , vſando la veri , tà ,e la giuſtizia . 34. Quando tu vogli ralle grarti, riuolgil'animo all’ec cellenze di quei : , ché teco viuono : come a dire all'atti uità di quegli , alla modeſtia di queſti , alla liberalità d ? vno e così ad altra virtù di qualche altro . Non ci effen , do cofa , che tanto rallegri , quanto le ſomiglianze delle virtudi alviuo rilucenti nelli coftumi de contemporaneiig le quali tutte in vn tratto in fieme a noi rappreſentano. Per lo cheper quanto è pof fibile , le hai d ' hauer ſempre alle mano. Forſi tu ti duoli , che fei ſolamente di tante libbre, e non di trecento di Nell' iſtefla maniera , che fino a tanti anni prolungherai la vita , e non più . Perchè co me della ſoſtanzia corporea in quanto the determinata e acquieti, così fa ancora del tempo . 36. Sforciamoci di render gli huomini capaci: però o pereremo ancora qualche cofà contra guſto loro, quan do la ragione del giuſto così richieda.E ſe qualcuno vſan doti violenzati si oppone , trapaſſa alla placidezza fen za dolerti; e dell'impedimen to feruitene per vn'altra, vir tù ; e ricordati che tu deſideri le coſe con dell'eccettuazio ne , non appetendocofe im . poflibili. Che coſa dunque appetiſco ? quel certo defi derio regolato ; e queſto tu ottieniquando , arriua quel lo , che primo, e principal mente viene deſiderato. L'amator della gloria dall'opere d'altri ſi perſuade il proprio bene; quegli , che ama la voluttà , dalle ſue pafſioni : ma chi ha ceruello , dalla propria operazione! E' in tuo potere ſopra ciò non formarne opinione , e non perturbarti nell'animo. concioſliecoſa che niuna co fa ha vna natural poffanza ſopra i noſtri giudicii. Auuezzate ſteſſo ad apo plicare attentamente a quel le coſe , che da vn'altro fo no dette ; e più che puoi in ternâtinell'animo di chi fta parlandoti . 40 Quello, che non è gio . neuoleallo fciame , ne' meno gioua alla pecchia.  Se i marinari parlaffe Fo male del loro piloto , 0 gli ammalari del loro media co , forſe per ciò ad altro ar tenderebbono, che all'opera re , quegli per la ſaluezza de' nauiganti, e queſti per la fanità di quei , che fi ciira no? Quanti fon già morti diquelli, che meco ſon en trati nel Mondo ? -43. Aglitterici pare ilme-, le amaro : e a ' morſi da ani mal rabbioſo l'acqua è di terrore : e alli putti è coſa bella il palloncino . A che dunque io m'adiro ? forſi.pa re a te , che habbia minor forza quello , che falſamen te s'apprende , di quello cheha la bile nell'itterico , o'l veleno nell'arrabbiato a Non t'impedirà perſona , che tu non viua ſecondo la condizione della tua natu rà: e niente t'amierrà fuori della ragione della natura dell’vniuerfo .. 44 Quali ſono quelli , alli quali ſi deſidcra d'andar a verſo, e per qualiauuenimen , ti , e con quali opere ? 0 quanto preſto i ſecoli ogni coſa copriranno , e quante han di già ricoperte! Che coſa è la mal nagità? è quello , che ſpeſſo hai veduto ; e ad ognicoſa , che ti ſoprauuenga , prontamente rappreſon tati, eſſer lo ſteſſo , che ſpef fo hai veduto . Vniucrſala mente nelle coſe ſuperiori , ed inferiori , trouerai le me deſime, delle quali ſono pie nele Storie antiche , e quelle di mezzo tempo, e lemoder ne , e ora ne ſono piene le cittadi , e le caſe . Non ci è niente di nuouo, tutto è vſa to , e di corta durata. I dogmi , in qual' altra maniera ſi potranno in te cancellare ſe l'immagina zioni., che a quelli ſono con formi non ſi eſtinguono , le quali, a te ſta di continua menté rauuiuare? Reſta in mio poter di fare intorno a ciò quel concetto , che ſi conuiene: e ſe ſta nel poter mio , a chemi turbo ? Quel lo , ch'è fuori della mia men te , non ha che fare in modo alcuno con la medeſima mente . Queſtoſia il tuo ſen timento , e cositu ſei retto . 3 Pofciache in tua balia è il ritornare in vita, riconoſci le coſe nel modo , che le hai già vedute ; perchè in ciò conſiſte il ritornare in vita : Tali ſono la vana curioſità delle pompe , le rappreſen tazioni nelle fecne , i bran chi d'animali , le mandre, i giuochi d'arme ; vn ofſetto gettato a cagnolini; i minuz žoli di pane buttati nel viua io de' pefci , i trauagli , e il vettureggiare delle formi che, le corfe in quà se'n là de toperti ſpauentati , i bam bocei, a quali ſi fanno far de moti con cordićelle . Bi fogna dunque tra queſte coſe fermarſi con animo tranquil lo , e ſenza ſtrepito : e confe guentemente apprendere , che tanto ciaſcun vale,quan to vagliono le coſe , intorno alle quali s'affanna . 4 E' neceſſario attendere nel parlare parola per parola a quello , che ſi dice : e nell' operare ad ogni moto : e nel l'vno riguardare ſubito a qual fine ſi rapporti ; e nell? altro oſſeruare quello , che venga ſignificato 5 E' ſufficiente il mio intel letto per queſto , o non è ? s' egli è ſufficiente io me ne vaglio come d'inſtrumento datomi dalla natura dell'yni uerſo nell'opcrare ; se non è ſufficiente , o io cedo l'ope ra a chi poffa meglio di me condurla a fine, ſe non foſſe a me ſteſſo ſpettante , o vero la fo come poffo , feruendomi dell'aiuto di quegli, che può cooperando col mio intellet to effettuare quelloche ſia di preſente opportuno , e vtile alla comunione humana:per ciocchè ciò che fo, o da per 3 2 3 ine me ſolo , o con altri, dee ſolo indirizzarſi a quello ch'è pro ficuo , e più proporzionato al comune . Quanti , che ſom mamente furono celebrati , di già ſono paſſati nell'obbli uione ? E quanti, che li cele brarono già tempo fa , ſono ſpariti a Non ti vergognar d effere aiutato; poichè ti con uiene operare quello, che ti appartiene , come ad vn ſol dato nell'affalto d'vna mura glia . Che dunque fareſti , ſe azzopppato non poteffi ſolo aſcendere fu i merli, e con yn altro poteſſi farlo ? 6 Quello, che ha da auueni re non ti ſgomenti, perchè giugnerai a quello , fe ſarà di vopo , fornito dell'iſteſſa ra ; gione , della quale tu ora ti ferui in ciò , che t'è preſente. olo bro gal ]l DO ď ti -7 Tutte le coſe ſono tra di loro auuinte , ed il nodo è fa cro , e quaſi' niuna è all'altra ſtraniera . Concioffie cofa che tra fc sono ordinatamente disposte, e adornano l'istesso mondo , poichè di tutte le coſe queſto è vno , e Dio è vno per tutto , vna la natura , e yna la legge , vna la ragio ne comune a tutti i viuenti intellettuali , e la verità yna, doue pure vna è la perfezio ne di quelli, che ſono dell' iſteſſo genere, e di quei, che della medeſima ragione par ticipano. Ogni coſa materia le preſtamente va a ſuanire nella ſoſtanzia dell'vniuerfo : e ogni cagione'efficiente pre ſtamente è aſſorbita dalla ragione vniuerſale . I ſecoli ancora dentro di fe ſeppelli ſcono lo ni. che id at to s ſcono preſtamente la mc moria di ciaſcheduno, s,is :: 8 L'animal ragioneuole ha la medeſima opcrazionéry fe condo la natura se ſecondo la ragione , o retto o raddirizzato. Con qual? abitudine fi riguardano i membrivnitid vn corpo con tale fi confans no gli enti ragioneuoli, ben chè diſuniti, PER HAVER DISPOSIZIONE A CONCORRERE IN UNA COOPERAZIONE. E maggior mente ti s'imprimerà l'intelligenza di queſto , ſe ſpeffe fiate diraia te ſteffo « Io ſono membro di queſto , aduna mento di razionali . Ma ſe col mutamento d'yna lettera dip'sno , cioè membro, farai fe'egos, che fuona parte, non di cuore porterai amore agli huo INC die a re ſteſſo . id -11 huomini , ene anche tu non ti compiacerai fenz hauere altro fine della beneficienza f operando per 'mera conue polo nienza , e non come per far beneficio . 10 Accada ciò che ſi vuole i d'eſteriori arucnimenti ſopra a coloro , che poſſono patir queſti accidenti, e quelli pa tendo ſi querelino pure à lor e voglia : che quanto a me , se io non reputo che ſia male l'auuenuto accidente ,non ne reſto lefo : ora da me dipen de il non reputarlo. II Qualunque coſa altri ſi faccia, o ſi dica, tocca a med eſſer huomo dabbene:non al trimente, che ſe l'oroj ouero lo ſmeraldo , o la porporaco si delcontinuo diceſse ; Che che altri ſi faccia , o dica ; a na or el file 7110 Nad fe -em are di col me 1POC fuc da са ) ſim bil vie La 011 me tocca d ' eſſere ſmeraldo, e di ritenere il mio proprio colore. La porzione , che è in noi reggitrice,non è a ſe ſteſ ſa moleſta , cioè à dire , ella non s'atterriſce ne s'affige con la cupidigia , e ſe altri è poſſente d'atterrirla, ò di contriftarla, lo faccia . Certo è cheda per ſe ſteſſa con l'ap prenſione non fi riuolgerà a tali commouimenti . Alcor , picciuolo ſi laſci il penſiero , che non patiſca coſa alcuna , ſe potrà; e ſe patiſce lo dica. Però l'animuccia, che teme, e s'attriſta , e riceuc total mente l'apprenſione , niente patirà ; concioffiecofa che non procederà mai al giudizio di cose simili. Quanto a ſe ſteſſa la por qu Id nd CC n  A 0 porzione in noi réggitrice è fuori d'ognibiſogno, ſepure da ſe ſteſſa ella non ſi fabbri ca la neceſsità , e nella mede fima maniera è imperturba bile, ed incapace d'impedi mento , fe da ſe ſteſſa non vien perturbata, o impedita. La felicità è il buon genio, o l'iſteſſo bene. Che dunque quì fai o fantaſia ? deh pergľ Iddij, vattene comevenifti , nonho vopo di te.Seivenuta conforme all'antica vfanza: non m'adiro teco ; ma vatte ne vna volta . 14 Alcuno ha paura della tramutazione ; e qual coſa può eſſere ſenza tramutazio ne , e quale è più di lei ami ca , o domeſtica alla natura dell'yniuerfo ? Ti potreſti tu lauare, ſe le legne non ſi tra 2 1 21 -2 al che d 1 mil 1mutaſsero ? ti potreſti nutri re, ſe i camangiari non ſi tra mutaſſero ? che altro fi com pierebbe di neceſſario ſenza la mutazione?Non vedi dun que come ancora il tuo tra mutarti è confacerole, e pa rimenre neceſſario alla natu ra dell'yniuerſo ?. Per l'effen za di queſto trapaſſano quaſi per yn torrente tutti i cor pi connaturali; e cooperanti con l'yniuerfo , almodo che le parti noſtre tra di loro cooperano. QuantiChriſippi, quanti Socrati , quantiEpit teti il tempo s'è inghiottito? l'iſteſſo in fatti ti ſouuenga di qualunque huomo, e di qua lunque coſa . Vna coſa fola cruciandomi mi ſcontorce, cioè, che io non forſe faccia quello, che la conſtituzione dell'huomo non vuole , o nel la maniera , che non vuole , o come al preſente non vuole . Tra poco tu ti ſcorderai di tutti, e tra poco tutti ſi ſcor deranno di te. 15 Proprio è dell'huomo amare anco quelli, che erra no;e queſto ſi fa, ſe nel mede ſimo tempo ti ſouuerrà , che quelli , che peccano , ſono a te congiunti ; e che o per ignoranza , o non volendo, peccano; e come tra breuil ſimo tempo , e tu , e quellive n'andrete: e ſopra tutto per chè non ti ha leſo , mentre la porzione tua principale non l'ha deteriorata più che per linnanzi ella ſi foſſe. 16 La natura dell' vniuerfo dall'eſſenza vniuerfale, come ha ora formato vn ca : 3 . da cera , 194 LIBRO SETTIMO caualluccio , e poi, quello di ftruggendo, ſe n'è valuta per materia d ' yn albero di poi d'vn homicciuolo , e appref lo per qualch' altra coſa ; e ciaſcuna di queſte ha durato per cortiffimo ſpazio . Non reca al caffettino molcftia if diſcomporlo , ficome non gliela recò ne meno il fabbricarlo. La ſdegnoſa torbidez za del volto è oltre modo fuordel naturale; perchè fa fpeſſe fiate ſuanire la gratia di quello , ouero alla fine in guifa l'eſtingue , ch'ella non poſla giammai più ràuuiuarſi: Dunque, per queſto iſteſſo sforzati di apprendere che quello è fuori della ragione ; poſciachè, ſe il riſentimento contra il peccare fi perde, a che gioua il viuere ? 18 Le coſe , che tu vedi , tutto tra poco le muterà la natura , che gouerna il tutto ; e dall'eſſere di queſte pro durrà altre cofe , come di nuouo altre dall' effenza di quelle , acciocchè il Mondo di continuo ſi conferui in giouentù . 19 Quando vn commerta errore contro di re , toſto conſidera , che coſa egli pec Cando s'immaginò di bene , o dimale : perchè,conoſcen do queſto , lo compatirai , ſenza marauigliarti, o adi Tarti . Pofciache o formerai l'isteſſo concetto del bene ch' eſſo formò , o altro ſimi le a quello concepirai , on de fia neceſſario perdonar gli . Ma quando anco tu non 1 3 2 I 2 facefli lifteffo concetto del bene, o delmale , ti renderai più facilmente benigno ver fo colui , che ha traueduto . 20 Non s'hanno da conſi derare le coſe aſſenti nel ino do di quelle , che ora ſono : ma fi dee ſcegliere delle preſenti le più abili , e ricor darſi con quanto ſtudio quc fte fi cercherebbono , fe non foſſero preſenti. Però è inſic me da guardare cheper trop. po gradirle non ti auuezzi a ſtimarle vantaggioſamente ., a ſegno tale , che, ſe ti inan caffero , te ne turbaſſi . 1.21 Raccogliti in te mede mo. La parte ragioncuole , e principale , è di tal natura , ch'è ſufficiente a ſe ſteffa , quando giuſtamente opera ; e in ciò truoua la sua quiere. Scancella l'immaginazione, arreſta la violenza delle par fioni , circonfcriui il prefente del tempo , riconoſci quello, che auuiene così a te , come ad altri : diftingui , e partiſci quello , che ti ſta fra mano nelle fue cagionimateriali, e caufali: figurati l'vltima ora : laſcia l'errore comineffo a quello , e dove fu l'errore. L'animo dee star applicato a quanto si dice e la mente dee internarsi nelle cose operate, e negli operanti : Abbelliſci te ſteffo colla ſemplicità, è vergogna , e coll indifferenza , ch'è in mezzo tra la virtù, e'l vizio . Ama il genere humano, con formati con Dio . Quegli diſſe, ogni coſa eſſer ordina ta con legge certa , ma gl’elementi soli muoverſi con mouimento incerto , e for tuito . Baſta hauer nella me moria tutte le coſe eſſere rc golate con legge fiſſa , c po chiffime andare a caſo .. 23 Intorno alla morte : 0 è diſipazione , o atomi, o euacuazione , o eſtinzione, o trapaſſo . Intorno al dolore : fe non è ſoffribile porta via ſe fi allunga nõ è inſoffribile; e l'animo nel formare i con cetti conferua la ſua pro pria tranquillità , e la parte ſuperiore non peggiora: le parti affitre dal dolore , ſe poſſono,palefino il loro ſen timento . Intorno alla glo ria : riguarda gli animi di co loro , quali ſieno, e qualico fe abborriſchino, e qualiap petiſchino : e come l'arene de i lidi , che vna ſopra l'al tra venendo a ſoprapporſi naſcondono le prime, fimil mente nel noſtro viuere le coſe antecedenti ſono dalle foprauuenute ben preſto ca cellate . 24 Da Platone. Penſi tu dunque , che quegli, che ha penfieri da magnanimo colla fpeculazione d'ogni tempo , e d'ogni ſoſtanzia faccia gran concetto del viuere dell'huo po ? Non può eſſer che ſia , riſpoſe . Dunque ne queſti potrà reputare che ſia male la morte . Non per certo . Detto di Antiftene. E' coſa da Re operar bene, e riceuer ne biaſimo . E ' ſconuenelio le , che'l noſtro volto obbe diſca , e ſi regoli, e s'abbel liſca , come la noſtra mente I 4 or 200 LIBRO SETTIMO ordina , e che queſta per fe medeſima non ſi regoli, ne ſi abbelliſca . Se con le cofe diſdegnar ti vuoi Che non curan diſdegno, il tutto è vano . A i mumi da cui morte va lontano Diaſi allegreza ,e diaſi pur'a noi. Che ſi tronchi la vita , come ſuole Matura Spiga , e un viua, e un ' altro mora Che di me cura , e de' miei figli 'ancora Non ſi prendan gl'Iddij, ragion il vuole . 26 Da Platone . Io riſpon derei con giuſta riſpoſta . Che tu , o huomo , non ben diſcorri, ſe penſi douere fti mar coſa di gran momento il viuere , o il morire dell huomo, per poco ch'effo va glia , e non più toſto queſto solo confiderare , cioè , ſe quando opera , operi coſe giuſte , o non giufte e da huo mo buono , o cattiuo . Così il vero ſta , o citta dini d ' Athene : fe alcuno reputando il poſto cfler otti mo vi ſi collocherà Principe vi farà collocato , " conuiene , come a me pare , ch'iui ſi fermi , anco che vi foſſc pericolo , non facendo conto ne della morte d'altro , fuori che della brut tezza . Ma poni cura , o galant huomo , ſe altra coſa è l'effer buono , e generoſo , che'l faluare altri , e faluare ſe Ateffo · Concioffiecoſa che non è da deſiderarſi dall ' huomo veramente prodc la vita lunga ,ne dee ftare appiccicato al yiuere , ma rimet terſi intorno a tutto ciò in Dio , credendo alle donne , che neſſuno può ſcanſare il fato ; e in conſeguenza qui ha da premere in qual ma niera poſſa impiegare , per ottimamente viuere , il tem po , che gli reſta da viuere. Offerua il corſo delle ſtelle , comeſe tu giraffi in compagnia loro e confide ra del continuo le vicende uoli tramutazioni degli ele menti ; perchè coll' appren fioni di queſte coſe fi purifi cano l'immondizie della vi ta terrena . Bene ne i diſcorſi dell'huomo fu da Platone af ſerito che ſi debbono con templar le coſe terrene, co me da alto in baſſo , le con greghe , gli eſerciti , i lano ri et is 20 90 7.1 her III le in ri de'campi, i congiugnimen ti de' parentadi , i diſciogli menti, le nafcite , le morti , gli ſtrepiti de' tribunali , i paefi diſertati, le varietà del te genti barbare , le feſte , i pianti , imercati,il rimeſco famento del tutto, e l'abbel limento del Mondo per le coſe tra di loro contrarie. Riuedi conſideratamen te le coſe dianzi ſuccedute : le tante mutazioni degl'Im perij. E lecito ancora preue dere le coſe future: perchè a tutti i modi hauranno l' iſteffa ſomiglianza , c non trauſeranno mai dall' ordine di quelle, che al preſente ſi fanno . Quindi auuione che il miſurar la vita humana con anni quaranta non ſia diffe rent e dal miſurarla con an 1 fir 1 0 I 6 ni 204ni diecimila. Perchè qual coſa vedrai tu di più ? Vanno indietro le coſe, e ciò che diede La terra in terra , e nel celefte templo Ciò che venne dall'etera ſen riede Ouero queſta è , yna riſolu zione degl'intrecciamenti de gli atomised vna diſſipazione degli elementi, che non ſog giacciono à paſſione. Con beuande,con cibi,e con magia Della morte cerchiam ſuolger la via . Conuien Soffrir con ftenti , e ad occhi afciutti Il vento,ch'a noiSpira dagl'Iddi 29 Rieſce vno più di te de ftro nella lotta per atterrare gli altri : ma non ſia più co municatiuo , non più riſpet toſo , non più compofto ne gli accidenti , non più benigno verso gli abbagliamenti de ' profſimi. 30.: Douc , secondo l'intendimento comune agl’Iddij , e agli huomini,ſi può condurre vn'opera à fine , iui non è del male : auuegnachè doue è le cito di trouar l'vtile per l'o perazione , che proſpera mente s’auanza , e non trali gna dalla ſua diſpoſizione , iuinon s'ha da ſoſpettar di danno . In ogni luogo , e in ogni tempo ſta in re il pren der a grado , con la douuta pietà , quello , che preſente mente accade , e di portarti con glihuomini , li quali con te conuiuono , giuſtamente , ed eſaminare efattamente quello , che fi rappreſenta all'immaginazione ; accioc chè non vi fubentri qualche coſa , che non ſia per prima bene compreſa . 31 Non inueftigare ciò che ad altri paſſa per la men te , ma riguarda diritta mente à quello , a che la natura ti conduce, o ſia quel la dell'vniuerfo , per le coſe che ti accadono , ouero la tua , per l'azioni , che da te dependono . Ora quellos? haurà a fare da ciaſcuno, che conſeguentemente corriſpo de alla ſua diſpoſizione . Per rò tutte l'altre coſe ſono diſm poſte per quelli , che ſono ragioneuoli , come in ogni altra l'inferiori in riguardo delle migliori, e le ragioner. uoli l'vna per l'altra.Dunque il primo e principale nella: diſpoſizione dell'huomo ſi è l’essere COMMUNICATIVO. Secondariamente non arrenderſi alle corporali inclinazioni . Concioſliecoſa che proprio del mouimiento ragioneuo le , e . intellettuale è dicir confcriuer fc fteffo , e non laſciarſi ſottomettere da mo. ti ſenſuali, o impetuolis poi chè tanto gli yni , quanto gli altri hanno del beſtiale . Ma la intellettiua vuol la preininenza, e non eſſere do minata da quelli : e a ragio ne ; perchè è fatta per feruir ſi di tutti quelli. Il terzo nel la ragioneuole conſtruzione , è di non trauedere , nc d'ef ſer ſoppiantato. A queſte co ſe dunque applicata la men te proceda a dirittura , e co si conſeguirà quello , ch'è fuo proprio . 32 Come tu non hauefli havuto a uiuere , che fin ora , e già foffi morto , queſto fo pra più che c'è dato diuiuere , dourai viuerlo fecondo la natura , folamente contento di quello , che ti auuenga , e che ti è deſtinato dal fato, imperocchè qual coſa ti può efferpiù couveniente ? 33 In ogni accidente vo glionfi hauere auanti agli oc chiquellija' quali occorſero cafi fimili , e che poi fi dole uano, e ſembrado loro ftrano fi lamentauano . Doue dun que ſono eglino ora ? in niun fuogo. Vorrai tu dunque fare altrettanto ? Perchè non la fci gli altrui rigui alli rigi ranti, e rigirati ?: e non te ne ftai tutto intento come ti habbi da ſeruire di tali acci denti ? Te ne feruirai dunque bene , e quelli ti ſerui ranno per materia. In ogni coſa , che farai; non hai da applicare ad altro , ne altro proccurare , che d'effer a te Iteffo buono . Nell' yno , e -nell'altro ( fia di ciò , che hai da ſcanſare , o ſia di ciò , che hai da fare ricordati che'l foggetto dell'operazione è indifferente. Con perspicacia rimira dentro te stesso, che la fonte del benc è dentro di te , la quale non ceſſerà mai di ſca turire , ſe tu di continuo la terrai ſcanata . 35 Il corpo ha da ſtar fiffo , e non ſi ſtorcere , o fia nel moto , o fia nella poſtura . Perchè nel modo , che l'ani mo imprime vn certo che nella faccia , ferbandola ſe 7 1 Il ria , e ben composta , al trettanto ſi dee ricercare che ſegua intieramente nel corpo ; e tutte queſte coſe s'hanno da offeruare fcirza affettazione . Il noſtro modo di viuere è più da affomi gliarſi alla Paleſtra , o lotta , che all'Orcheſtra , o al ballo; douendo alle coſeche ſopra uuengono , e non ſono pre ucdute trouarſi appareccħia to , e fermo pernon cadere. Giammai non laſcerai d'eſaminare quali ſieno quel li , dalli quali tu brami le te ſtimonianze , e quali l'inten zionidella loro mentc: per chè ne accuſerai quelli , i quali peccano inuolontaria mente , ne ricercherai la lo ro teftimonianza , fc rimire rai da qual fonte ſcaturiſco no 10 a ,al ercare ate ni € fcuzi mode allomis Torta ballo lopera t no le loro opinioni, e i loro appetiti. Niun'anima , diſſe que gli , di ſua fpontanea elezio ne ſi priua della verità. L'i ſteſſo s'ha da dire intorno al la giuſtizia , alla temperanza, alla benignità, e a tutte le ſi mili.Però è fommamente ne ceffario di non mai ſcordar d'ognuno ſarai più benigno. In ogni coſa penoſa, che ti ſucceda , ti fouuenga prontamente che quella non ha bruttezza , ne può peggiorare la mente in noi reggitrice ; poichè non le nuoce , nene in quanto è ragio neuole , ne in quanto è co municatiua ; e nella maggior parte de dolori ti venga in mente quello d'Epicuro ; Che to pre cchia dere ulcera quel let inter : per Uli, / taria a lo mit rico no 2 I 2Che non è intollerabile , o non è eterno ; ricordandoti però di laſciarlo ne' ſuoi termini fen za aggiugnerui altro con la tua opinione . Ancora quel lo hai da hauer a mente , che molte coſe , che partecipa 110 propriamente del dolore, copertaméte ci trauagliano : come è l'hauer ſonnolenza , lo fmaniar di caldo , il patir faſtio di ſtomaco ' . Quando dunquc alcuna diqueſte coſe maltolenticri ſopporti, con feffa a te fteffo d' ellerti arre ſo al dolore. Auuerti di non hauere tal volta quell' auuerſione agl'inhumani, che gl'inhu manihanno agli huomini . 40 Donde argomentiamo, che Socrate foffe illuſtre , e di diſpoſizione d'animo migliore? Mentre non baſta , che haueffe vna morte delle più glorioſe, c più acutamen te co ' Sofiſti diſputaſſe più ſofferentemente ſopra'l ghiaccio pernottaſſe , e co mandato a condurre quel Salaminio , più d'ogni altro generoſamente fi moſtraſſe renitente , e che per le ſtrade andaſſe con graue contegno . Intorno a che era aſſai da in ueftigare le così era vera mente . Maquello è neceffa rio conſiderare , qual ' animo s'haueſſe Socrate , e ſe egli po teſſe appagarſi d'effer giuſto inuerſo gl’huomini , e fanto inuerſo gļIddij,nő iſdegnan doſi temerariamente contro la malizia , ne punto feruen do all'ignoranza d'alcuno , ne accettando come ſtranie Fit Ho fe je . Te ne ng€ ra uc PC PE ra alcuna cofa datagli dall' vniuerſo , o ſopportandola come intollerabilc: në hauef ſe mai acconſentito , c piega to l'animo alle paſſioni della carnuccia. La natura non in fi corporò talmente il compó fto , quaſi che l'huomo non poſſariſtrignere , e regolar ſe lo medeſimo e far le ſue proprie VE coſe foggiaceré a ſe feflo . 41 Può eſſere facilmente , in che vn diuenga huomo diri no , e non fia conoſciuto da alcuno . Ricordati ſempre di queſto : e in oltre di quello , 1 che ?l viucre felicemente conſiſte in pochiſſime coſe . E non perchè habbi tu per duto la ſperanza d' eſſere Dialettico , o Fiſico, ti ſtime rai rigettato dal poter eſſer libero , pudico , comunicati uO. E I uo , e oſsequente a Dio . 42 Senza alcuna violenza potrai trapaſſare la vita in vna piena giocondità , an corchè tutti ſtrepitino ,come fi voglino, ancorchè le belue ſtrappino i membricciuoli di queſta mafsa , che t'è cres ſciuta addoſſo , perchè , che vieta in tutte queſte coſe ala l'animo di conferuar ſe ſteſso in tranquillità , e nel giudi cio vero delli circonſtanti accidenti , e collyſo pronto i delle coſe preſenzialmente ayuemute : in modo che poſsa il giudicio ſentenziare ſopra è quello , che vien accadendo: queſto fe' in ſoſtanza , ben chè lecondo l'opinione , al tro appariſci; e l'vſo poſsa di re all'accidente : tu fe' quel lo , ch'io cercaua . Perchè fem - 01 te elle est sempre quello , ch'è preſen te , ferue per materia della virtù ragioneuole , e ciuile; e inſomma è materia dell'ar te dell'huomo,ouero di Dio. Laonde tutto quello , che auuiene ſi fà famigliare a Dio o all'huomo; e non è coſa nuoua , ne intrattabile , ma conoſciuta , e maneggieuo le . 43 La perfezione de'coſtu mi porta feco queſto ; ch? ogni giorno ſi trapaſſi come fe foffe l'vltimo , non ſi com mouendo a coſa alcuna , ne con iftordimento , ne con fi mulazione 44 GI'Iddij eſsendo immor tålicnon hanno a male , che in tanti ſecoli ſia a tutti lo to neceſsario comportare ta li , e tanti fcelerati , anzi han Q b f Uella bile ar Dio. che Dio cola m2 Cuo hanno in oltre di quelli vna total cura ; e tu che ſtai già per mancare ti ſtracchi, non oſtante che tu ſij vno degli ſcelerati ? è da riderſenc ; tu non fuggi la tua propria mal uagità , il che è poſſibile , ę fuggi quella deglialtri, il che t'è impoffibile . 45 Quello , che la facultà ragioneuole , e ciuile truoua , non fecondo l'intelletto , ne ſecondo la ſocietà , con buon dettame lo giudica più viledi fe ftefla . 46 Quando tu hai benéfica to, e vi altro ha riceuuto il beneficio , oltre di queſto che terza cofa pretendi,comefan no i pazzi , di parer d'hauer fatto bene , e d'hauer a rice uere il contracambio ? niuno s'affatica, mentre riceue vtili K tå , oſtur ch 9 come COM 2, ne ont 7mor s che tti lo are ta anzi 9 Tantà , e mentre l'vtile è azione ſecondo la natura ; non ti af, fannar dunque riceuendo yti lità in quello che tu ſe'di gio uamento agli altri . La natura dell’yniuerlo per proprio inſtinto venne alla fabbrica del mondo , donde è che ora tutto ciò , che ſi va facendo, procede in ſeguime to di quello ; ouero le coſe principaliffime , alle quali la mente reggitrice del Mondo ha:vna particolar inclinazio ne, ſono ſenza ragion prodot te . Se tu ciò a memoria ha urai, ti renderà più tranquillo in molte cse. E è azione non tia4 ndowe 'digia erloper e alla Ponde fi va imé coff lila 1 do 1 10 ota 1 Vello ancora è gio ueuole contro la vanagloria , con fiderare , che non iſta più in tuo potere l'eſſer viuuto tutta la vita , o almeno la paſſata dopo la giouentù , filoſofica mente: ma a molti altri , e a te medeſimo hai dato a co nofcere , che tu ſeben lonta no dalla DALLA FILOSOFIA. Dunque ti truoui imbrogliato : perchè K 2 1 1 # oramai non ti è più facile.d ' acquiſtare ſtima di Filoſofo , ſenza che ti è contraria ancor ra la tua profeſſione. Se adun que tu penetraſti veramente fin doue conſiſte ľaffare , non ti curar quale tú habbi da ef ſer riputato , ma baſtiti ſe tu il reſto menerai della vita,fe cõdo il dertame della tua na : tura . Conſidera dunque quel lo ,ch'eſſa ſivoglia, ne altroiti diſtragga : perciocchè hai già prouato per quantecoſe ſe'i to vagando , ne mai in niuna hai trouato il ben viuere , ne nel fillogizzare , ne nella ric chezza, ne nella gloria,nenei piaceri, ne in che ſi fia . Don ue dunque farà ? nell'operare ciò , che richiede l'iſteffa na tura humana. Come dunque queſto li eſeguirà ? quand'v no faciled Elofoto ta anch eader zmente y101 dach fetu 2,fe na no haurà nell'animo fermati queidogmi, dalli quali han no origine gliappetiti , elo pere. E quali ſono queſti do gmi? quelli, che appartengo no ai beni , e a i mali, come nulla eſſer bene all'huomo , che non lo renda giuſto, tem peratoforte, liberale, enulla male, ſe non quello, che ope ra il contrario delle coſe ſud dette , 2 In ogni operazione in terroga così te ſteſſo : in qual maniera queſtaa me fi confà ? forfe appreffo non ine ne pen . cirò a Di qui ' a poco io farò porto , e ogni coſa fuanirà. Che coſa di più ricerco, ſe no che l'azione preſente cõuen ga ad animale ragioneuole , e comunicatiuo , e che nella legge ſi conformi con Dio? Alessandro, Caiose Pompeio , che coſa ſono appetto a DIOGENE, ERACLITO, E SOCRATE? Queſti penetrarono le coſe, e le cagioni,e le materie , e tali erano le menti loro : ma quelli a quanti haueuano da prouedere ? a quanti haueua no da ſeruire ? 4 Ancorchè tu crepaffi tutttauolta gli huomini fará no l'iſteſſe coſe . Al bel primo non ti ſtare a turbare ; poichè tutte le cole, fuccedono fe condo la natura dell'vniuerſo ; e tra poco tempo tu farai nič te ; ed in niun luogo , come non é Adriano, ne Auguſto . Appreſſo fiſſandoti nell'opera ſteſſa, conſiderala , ed inſieme riducendoti a memoria che ti biſogna eſſere huomo dab bene, e ciò che la natura del l'huomo richiede , fa ciò , che tu ti proponeſti con inuaria bile fermezza , e parla come giuſtiflimo ti parrà ; però con placidezza e con rispetto e senza ſimulazione. Questa é della natura dell'uniuerso l'opera e'l ministero. Le cose che ſono qui traſportar colà , tramutarle leuarle di quà, ed iui riporle. Ogni cosa è mutazione , non però sì , che s'habbia da te mcre di nouità , andando il tutto ſecondo il conſueto ; anzi le diſtribuzioni delle co fe fono eguali . Ogni natura ſi ſoddisfàdi ſe ſteſſa , s'ella cà. mina per la propria via . E la natura ragioneuole cammina bene, quando nelle immagi nazioni non conſente al falfo, o all'incerto ; e negli appetiti, quando alle ſole opere co munali gli dirizza ; e nellide fiderij, e nelle auuerſioni, qua do le reſtrigne a quelle coſe fole , che ſtanno in noſtro ar bitrio ; e abbraccia volentie ri tutto quello , che dalla na tura comune le vien datos poichè è parte di quella , co me la natura della foglia è parte della natura della pian ta , ſe non che iui la natura della foglia è parte di natura , che è ſenza ſenſo , e ſenza ra gione, e che ſi può impedire : doue la natura dell'huomo è parte della natura ad impedi mento non ſoggiacente , in tellettuale , e giufta ; mentre eſſa , ſecondo l'egualità , ei meriti, diſtribuiſce a ciaſcuno i compartimenti de' tempi , delle ſoſtanzie della cagione,  dell'operazione, e delle con tingenze. " Anuertiperò ,che non trouerai in niuna coſa , conſideratele ad vna ad vna , queſta vguaglianza pari ad vn tutto ;maſi bene accumulata mente , conferendo il tutto dell'vne col tutto dell'altre . 6 Non te conceduto di poter leggere,maè in tuio po tere il non far delle ingiurie , -il vincere i piaceri , e idolori, l'effer ſuperiore alla glorietta: di più ,il non alterarti contro de i difenfati , e degļingrati : anzi tè conceduto l'hauere etiandio cura di loro. Niuno ti oda querelarti del viuer nella Corte, neme no di quello, che tocca a te. 8 Il pentimento è vna tal riprenſione di te ſteſſo per yn ytile traſcurato . Ora il bene de' efſere qualche vtile , e de eſſere procurato.dall'huomo dabbene, e di buoni coſtumi. Ma neſſuno huomo dabbene, e bene accoſtumato haurà pen. timento di hauer traſcurato qualche piacere. Non è dun que coſa vtile , ne buona il piacere . 9 Che cofa è queſto ſecon do te ſteſſo nellapropria con ftituzione ? Quale è il ſuo ſo ſtanziale , e materiale ? Quale è il ſuo caufale ? A che serve nel mondo? E quanto tempo fulliſterà? Quando ti ſuegli con di fguſto dal ſonno ricordati ciò etſer conforme alla tua conſtituzione , e fecondo la condizione naturale dell'huo . mo di produrre operazione a prò dell humana focietà : dove il dormire è comune an cora agli animali irragiuneuo. li. Quello perù , ch'è naturale ad ognvno , quello è più pro prio , e più comodo , ed è più giocondo . II Continuamente , ed in ogni immaginazione , giuſta tua poffa , eſamina la ſua na tura, ricerca le fue paſſioni, e dialetticamete intorno a quel. la diſcorri . In chiunque t'ab batti , prontamente diſcorri dentro di te ; Queſti che maf fime può hauere intorno al bene, e intorno almale ?. Im perocchè , fe ha tali , e tali maſſime intorno al piacere, e al dolore, e le cagioni dell’y -no , e dell'altro , intorno alla gloria , all'ignominia , alla morte, e alla vita, non mi ma rauiglierò , ne mi parrà coſa K 6 ſtrana , s'egli opera tali coſe; e mi rammenterò , che quegli è violentato ad operare in fi mile maniera . Rammentati , che come è coſa difdiceuole lo ſtimare ſtrano , che'l fico produca fichi così che'l Mon do produca quelle coſe, delle quali è fecondo . E ſimilmen te ancora farebbe vergogna al medico , ed al piloto il pa rer loro ſtrauaganza , ſe viene ad yno la febbre , e fe il ven to ſoffia in contrario . 12 Ricordati , che tanto il mutarſi quanto il conformar fi a chi ti corregge, non ti to glie l'eſſer libero ; perciocchè l'azione è tua , e ſecondo il tuo appetito , e giudicio , co me anco conforme al tuo in, tendimento, ſi riduce a fine . 13 Se depende da te, pers ché in chè lo fai ? ſe depende da al tri , di che ti lamenti ? degli atomi, o degl'Iddij ? mentre così l'vna , come l'altra è paz zia . Non dei querelarti d'al cuno : perchè ſe è in tuo po tere queſto , correggi l'iſteſſa azione ; ma ſe quello non tuo potere , a che gioua il do lerti, giacché non conuiene far coſa alcuna inuano ? 14 Ciò che morì non caſca fuori del Mondo :ſe reſta dun que qui , e qui fi muta , anco qui ſi riſolue nelle coſe pro prie , le quali ſono elementi del Mondo, e tuoi; e queſti pure ſoggiacciono a mutazio ni, nc fi qucrelano. Ciò che è, per qualche coſa è fatto , come a dire il ca uallo, la vite.Di che ti maraui. gli ? Il Sole pure dirà , per qual'effetto ſon fatto , e così gli altr’Iddij . Tu dunque per qual coſa per pigliarti piace re ? conſidera ſe l'intclletto lo comporta. La natura s'ha preſo pen fiero diciaſcuno , non meno del fine , che del principio , e della durata dellavita. 17 Quando alcuno tira in alto vna palla, che di bene ne riporta fa palla quando va balzata in alto , o che di male quando fcende, e quando ca de in terra ? E che di bene n'auuiene alla bolla dell'ac qua , ſe dura in eſſere , e che di male, ſe fi dilegua. In que ſta guiſa puoi ancora diſcor rere della lucerna . Riuolta il corpo, e vedi quale è , e in uecchiandoſi , quale diuiene , o pure cadendo in infermità , o dap  o dappoi che s'ha preſo i ſuoi guſti carnali . 18 E ' di breuc durata echi loda , e chi vien lodato: il men touato , e chi lo mentoua.Ag giugniui , che ciò ſuccede in yn cantone di queſta regione, ne in quello ancora tutti ſono del medeſino ſentimento ; ne pur yno è ſempre del medeſi mo con ſe ſtcffo.E tutta la ter ra è finalmente yn punto . 19. Applica l'animo a quel lo che ti ſi appreſenta, o al de. creto, o all'operazione , oal fignificato . Giuſtamente que ſto patiſci, perchè vuoi diffe rire a domane a diuenirc huo . mo dabbene , più roſto ch'er ſerlo oggi? 20 S'io fo coſa alcuna, la fo riferendola a bencficio d'huo. mini . Se m'auuiene qualche ? l 1 P cofil 232coſa la riceuo , riferendola al.. tresì agl Iddij , e al forte d'or gni coſà , dal quale tutto ciò che auuiene inſiemederiua. Che ti pare che ſia il la uarſi ? olio , fudore , fucidu , me, acqua', ſtrofinacci , coſe tutte difpiaceuoli: I ale èogni parte della vita, e tutto quel lo,che a noi fotto ſta . 22 Lucilla ſeppelli Vero , appreſſo morì Lucilla. Secon da fepellìMaflimo, appreſſo morì Seconda . Epitinchanó Diotimo, appreſſo Epitinchano. Antonino ſeppellà Fauſti na', appreſſo morìAntonino . In tal modo cammina ogni cofa . Celere ſeppellì Adria no , appreſſo morì Celere . Quelli anco d'acuto ſpirito, o indouini; o fuperbi, doue ho ra ſono ? come Charace, Demetrio il Platonico , Eudemone , e altri ſimili d'acuto spirito tutte le coſe ſono tran. ſitorie in yn giorno , e di già morte , e mancate : alcuni ne meno per poco rcſtarono nel la memoria : altri trapaſſaro no in fauole ; altri già dall'i ſteſſe fauole ſcancellati, Quel lo dunque non è da ſcordarſi, che biſogna o diſſiparli queſta tua compoſizioncella, o eſtin guerſi lo ſpiritello , o traſpor tarſi, e altroue riporſi. - 23 La conſolazione dell' huomo conſiſte nell' operare ciò , che appartiene all’huo mo ; e appartienſi all'huomo il voler bene a quello , che gli è ſimile per natura : ſprez zare i moti delfenſo , diſcer ner le probabili apparenze , contemplar la natura dell'y Olli" ello 300 ha 710 on te ho DP niwer niuerſo , e tutto ciò , che in quella ſi produce . Tre fono le abitudini , l'vna alla ca gione,che circoncigne, l'altra alla cauſa diuina , dalla qua le il tutto a tutti deriua , la terza a quelli, che con noi vi uono. Il dolore o è male del corpo , el corpo ſia quello , che lo paleſi , o è dell'animo : ma l'animo ha in ſua balia il conſeruar la propria tranquil lità, e ſerenità, e di non rcpu tar , che quello fia male . Per chè ogni giudicio , e inclinac zione, e appetizione , e de clinamento ſta nel didentro e da indi non afcende male neſſuno . 25 Scancella l'immagina zioni del continuo dicendo a te fteffo : Ora è in mio potere, che in 10 tra 12 10 vi del 09 70: che in queſt'anima non hab bia luogo alcuna maluagità , ne la cupidigia , ne qualſiuo glia turbolenza : ma cono fcendo ciaſcuna coſa , fecon do il ſuo eſſere , mi ſerua di ciaſcuna per quanto vale. Ri cordati di queſta facultà a te conceduta dalla natura . 26 Parla nel Scnato , e con ciaſcun'altro in particolare co decoro , e non con troppa li fciatura , ma vſa vn modo fa no di parlare. La corte d'AUGUSTO, la moglie, la figlia , i nepoti, i defcendenti; la ſorella, Agri pa si parenti, I famigliari, gli a mici, Ario ,Mecenate , i medici, i sacerdoti, tutta quel la corte è svanita con la morte. Mettiti poi a conſiderare altre famiglie,nelle quali non trouerai la morte d'vn huo mo ſolo , ma di tutte , come dei Pompeij . Mancò quella, e ne' fepolcri iſteffi leggiamo chi fu Byltimo di quella gen te : come anco. quello , che viene ſcolpito ne'monumen ti , vltimo della ſua gente . Conſidera poi quanto fi tra uagliarono i loro antenati , di laſciar yni fucceſſore , e pure fu di neceſſità , che alcuno for ſe l'vltimo , e qui parimente conſidera la fine di tutta quel. la gente . 28. S'ha collazioni ad vna ad yna a compor la vita ; e ſe ciaſcuna vi ha la ſua parte , Thuomote nºha đa content - re; e che quella non habbia il ſuo pienoaſufficienza , niuno lo potrà impedire.Se poi s'op- ' poneſſe qualche cofa eftra nea ?1€ lagi 110 11 Pr di 24 nea ? niente al certo s'oppor rà al giuſto, modefto , e confi derato . Ma forſe qualche al tra operazione l'impedirà?Pc rò ſe tu prendi a grado l'iſteſ fo impedimento , e trapaſſe rai coll'animo ben aggiuſtato a quello, che ti vien dato ti ſi furrogherà vn'altra operazioa ne, che quadri a quella com poſizione d'animo di cui ora ſi parla, che veramente firice na ſenza fato , e fi laſci pure con facilità 29 Se mai vedeſti vga ma no, o vn piede troncati, avna tefta dal reſto del corpo reci fa in qualche luogo giacere ; a queſti ſimile per quanto a il Luiſta ſi rendechiunque ricu fa le coſe ch’auuengono , e ſe ftetſo quafi tronca , o fa quel ſa lo, chenon ſi confaccia al be ne of Tele nd f noto iF ne degli altri , col diucller i in certo modo dall' vnione della natura; mentre tu effen do nato parte di cffa , da te ſteſſo te ne fe'reciſo , ma qui cade in acconcio il dire , che in tuo potere ſta di ritornarti a riunire : il che Dio a niuna altra parte ha conceduto, che ſegregata ,e reciſa , di nuouo fi tornaffe a congiugnere. Però confidera la fouranz bontà , che tanto onore conceffe all' huomo . Poichè nel principio poſe inſuo potere il non di uel'crſi dal corpo intero , e dopo diuelto, il ritornare, ed il ricongiugnerſised il ricupe rare il poſto di parte. 30 Come ciafcuno de'ragio . neuoli ottenne dalla natura tutte l'altre facultà quaſi qua to è capace la condizione del. boz fa  € 1li ragioneuoli, così ancora da lei riceuemmo queſta facultà , la quale è, che in quel modo , che quella tutto ciò , che le reſiſte , e le oſta, lo conuerte , e rimette nel fato, e lo fa ſua parte , così l'animal ragione uole può d'ogni impedimen to farſi propria materia, e ben vſar di quello , a che ella per iſtinto e portata . 31 Non ti confonda l'imma ginazione di tutta la vita Non iſtare a ghiribizzare pen ſando quanti, e quali trauagli poſſano ſoprauuenirti; ma in qualunque delle coſe , che ti ſi preſentino,interroga te ſtefa ſo : in queſto fatto ,che ci è d'incomportabile , che ci è d ' intolerabile ? Concioſliecofaa che t'arroſſirai di confeſſarlo . Appreſſo ricorda a te ſteſſo , che 7 ge 10 14 fel 2 t C a C che ne il futuro,ne quello che è paſſato t'aggraua , ma ſem pre quello che è preſente ; é queſto ſiſminuiſce,ſe diſtinta mente lo ſeparerai, e la men te tua riprenderai, ch'ella non fia baſtante a reſiſtere a que ſto ſolo . 32 Forſe aſſiſte per ancora al ſepolcro del ſuo Signore Panthea , o Pergamo ? o pure a quello di Adriano Cabria , o Diotimo ? E ' da riderſene , E ſe aſſiſteſſero , ne haureb. bono ſentimento ? E ſe ne ha uefíero ſentimento , haureb bono godimento di queſto E ſe haueſſero godimento, fa rebbono diuenuti per queſto immortali ? Non portò il f to , che ancora queſti prima diueniſſero vecchi, e vecchie, ed appreſſo moriſſero ? Che dun il 762 en 101 JUICE Con 701 dunque erano perfare quelli, dopo che queſti foffero mor ti 2 Il tuttoè puzza , e mar cia in yn ſacco . 33 Se tu haiacuta viſta , adoprala , difle quegli ſauia mente , nel giudicare . 34 Non vedo , che nella conſtruzione dell'animal ra gioneuole ſia virtù alcuna re pugnante allagiuſtizia : ma fi bene vedo cffer repugnante al piacere la virtù della con tinenza . 35 Sea quello chepare ap porti a te meſtizia , detrarrai la tua apprenſione, tu ſteſſo ti ſe’poſto in ſicuro . Chi è quel tu ſteffo ? la ragione. Ma io non ſono la ragione. Così fia: dunque la ragione non tra uagli ſe ſteſſa . Maſe qualche altra coſa in te patiſce del L male 16 han Foi [ um 10 The  male, ella medefima ne formi il fuo concetto. L'impedimento del fen ſo è male della natura vitale , e ſimilmente è male della na tura vitale l'impedimento del l'appetito : ed ecci eziandio vn altro parimente impedi mento , e male della conftitu . zione vegetatiuas. Così duna que l'impedimento dellamé te è male della natura intel lettiua ; applica : tutte queſte coſe a te ſteſſo. Il dolore, e ? I piacereti co muotono ? il ſenſo fę n'auuer . drà . Nell'apperire ti ſi poſe oſtacólo ſe tu ti folli moffo fenza ſottraimento , e rifertias allora farebbe male delura : gioneuole ;mia fe tu lo riceuí, come coſa comune tu non fe'dannificato , ne impedito , po es el Bio di tu né ele poſciache nigni altra cola ſuo le impedire le coſe proprie della mente : perchè in quieta la ne fuoco , ne ferro , ne ti ranno , ne maledicenza , ne altra coſa del Mondo può pe netrare :che cheſi faccia della palla, eſſa ſempre rimane tony da.:' 37 E' coſa indegna il mole ſtar me ſteſſo , mentre a niun ? altro mai di proprio volere ho dato moleftia Altre coſe cagionano allegrezza in altri; io m'allegro , ſe la mia facul tà guidatrice ſtarà fana , la quale non habbia auuerſione ad alcuno huomo, ne adal cuna coſa di quelle , che fuc cedono agli huomini , mail tutto rimiri con occhi placi di; e riceua ciaſcuno , e dieſſo fi ferua,fecondo il ſuo pregio. L 2 38 Ve có LIF CA Mo It This 700 TO : Vedi di ſpendere a tuo prò queſto tempo preſente . Coloro, che più affettano la fama apoftuma , non conſidc rano , che quelli , da’quali la ſperano ', faranno tali , quali al preſente ſono coloro , che a lor non piacciono, poichè eſſi ancora ſono mortali. In ſom ma che t'importa , ſe quelli con tali, o tali voci ftrepitino, o habbiano di te queſta , o quella opinione ? 39 Prendimise gettami do ue vuoi : poichè iui ancora trouerò il mio genio buono , e propizio , cioè a dire a me ſufficiente , purchè habbia e operi quello , che è confor me alla propria fua condizione. E' forſe coſa che meriti, cheper eſſa s'incommodi l'animo mio , e peggiori ſe ſteſ ſo con auuilirſi , appctire , confonderſi , e ſgomentarſi ? E che trouerai, che tanto ine riti ? Non può auuenire coſa a vn huomo, che non ſia acci dente , che non habbia dell? humano ; ne al bue che non ſia accidente , che egli non habbia del bue ; ne alla vite , che non ſia della vite ; ne alla pietra , che non ſia proprio della pietra . Se accade dun que a ciaſcuno quello , che è folito , e connaturale, perchè t'attriſti ? mentre non è intol lerabile quello, che la natura comune a te contribuiſce . E ſe ti pigli moleſtia per qual che coſa eſtranea , non certo efla ti moleſta ,mail tuo giudi cio intorno a quella . E pure il cancellar quello depende da L 3 te. E ſe ti trauaglia qualche cofa nella diſpoſizione del tuo animo , chi è quegli , che ti vieta di rettificare il tuo concetto Con tutto ciò ſe tu ti affanni , perchè non operi tu ciò , che a te pare ben fat to ? Perchè più toſto non ope ri , che contriſtarti ? Mavna coſa più valeuole mi oſta Dunque non ti affannare; poi chè non proccde da te la ca gione del non operare . Ma non par che conuenga di più viuere, fe ciò non fi fa . Dùn que placidamente finifti la vita : mentre ancora quegli fa qualche coſa , che muore benigno eziandio verſo colo ro ; che gli fanno oſtacolo. Osserva che la princi pal parte dell'huomo resta inespugnabil , quando in ſe Iter ko fel he UNO steſſa ritirandoſi di ſe ſi con tenta non facendo quello che effa non vuole, ancorché ſi metta in battaglia ſenza la. iuto della ragione . Che dun queſarà , quando coll'aiuto della ragione prudentemen te giudicherà qualche coſa ? Per queſto la mente libera delle paſſioni è come vn'alta rocca , giacchè l'huomo non ha coſa più forte , nella quale ritiraro rimanga poi ſempre incípugnabile. Chì dunque queſto no comprende è igno rante : chi l'ha comprefo , non ſe ne vale,difgraziato. 42 Niente di più ſuggeri fci a te ſteffo di quello , che portarlo Ic mere priine ap prenſioni. T'è ſtato riferto , che il tale dice malc di te ; queſto è vn rapporto . Ma L 4 che tu ſij ſtato, offeſo , non ſi contiene nel rapporto . Veg gio , che il figliolino è am malato , queſto ilvedo , ma che ſia in pericolo nol vedo già. Dunque reſta ſempre ne gli primi apprendimenti della immaginazione , e non v'ag. giugnere dentro da te ſteſſo niente d'autantaggio : e così niente ti ſopragiugne ; anzi aggiugni , che non ti viene nuoua qualunque coſa , che nel Mondo accade . Il cóco mero è amaro , laſcialo ; le fpine ſono nella ſtrada , ſchi fale , baſta ; non iſtar a fog giugnere: e perchè queſte co fe ſono ſtate fatte nelMondo concioffiecoſa che ſi burle rebbe di te ogn'huomo, che fia inueſtigatore della natura: come appunto ſareſti derifo da of 12 do De le SI da vn fabbro , o da yn coiaio , ſe tu li condennafſi , per ve dere nella ſua bottega fca muzzoli , e ritagli delle coſe , che effi lauorano. E pure que gli hanno doue gittar queſte coſé ; il che non può fare fuori di ſe la natura dell'vni. uerſo : maciò che recamara uiglia di queſta ſua arte è, che circonſcritta in ſe ſteſſa , quan to dentro di fe fi corrompe , e s'inuecchia , e appariſce non eſſer più ad alcun yſo , tutto in ſe ſteſſa tramuta , e di nuo uo di quelli forma cole recen tizin tal guiſa , ch'ella non ri cerca ſoſtanzia eftrinfeca , ne ha biſogno di luogo per git tarui le coſe più corrotte . Così le ſono baſteuoli la ſua regione , la ſua materia , e la propria arte . Dzi De TC O le Dj D D? 7 0 L 5 43 Non andar vacillando nelle azioni; e nelli congreſi non far confufione . Nelle immaginazioni non andar ya. gandojne in modo alcuno con Panimo o angoſcioſo, o trop po impetuoſo, non accupare ja vita in fouerchie faccende. Se ammazzano , fe mandano a fil difpada , fe con efecra zioni infeftano , che nuocono quefte coſe al conſeruarti Ja mente pura , prudente, contes nente , e giuſta ? fiati per e fcmplo : le vno auuicinatofi ad vna fonte di dolce; c limpi da acqua,a quella diceſſe del le ingiurie,non perciò ceffereb be di porger l'acqua da bere, e fe ancora vi gettafle del fan go , ' e dello ſterco , immanti nente ella lo ſegregherebbe , e diffiperebbe , e in neſſun modo Llande agreb Nelli dara 1000 Otrop CINK cord ndan Mocht OCOMO artil СОЛь modo fe n'imbratterebbe .. Come farai dınque per hauer vna fontana ſempre viua ; e non vn pozzo d'acqua fta gnante ? Merci te ſteſſo ad ognora in libertà , ſtando con l'aniino trãquillo, ſchiet to , e modeſto . 44 Chì non sa , che coſa ſia il Mondo , non fa doue egli fia.E chi non ſa a che fine egli medelino fia ſtato fatto , non få ne qual'egli fi lia ,ne che co. fa ſia il Mondo . A chi manca vna di queſte coſe , non può dire a che fine egli fia fatto Chi dunque pare a te , che ftia più contento , quegli, che fugge le lodi degliadulatoris o quelli, che nonfanno doue, o quali eſli fi fiano Ti com piaci d'effer lodaro da vnos che tre volte l'ora maledice Del & zarob limpi edel flerech berty bhe cfiun do L 6 se ſteſſo ? Vuoi piacere ad huomo, che ne pure ſoddisfà a ſe ſteffodroddisfà a ſe mede ſimo quegli, che in tutte quafi le azioni, alle quali pon ma no, ſi pente? Avverti per l'avvenire non ſolo di reſpirare nell'am biente dell'aria , ma ancora di conformare i tuoi penſieri con l'intelletto , che tutte le coſe contiene . Concioffieco fache non meno queſta facul tà intellettuale fi diffonde, ed entra in quello che la puòat trarre , che quella dell'aria in quello , che può reſpirare . 46. Generalmente la mali zia non danneggia il mondo ; e quella che riſguarda il par ticolare , non fa danno ad vn altro , ma a quel folo e noci ua , al quale ancora è conce duto read Idishi med quafi ma enie l'am ncora ofieri tele eco cu duto di libcrarſene , qualun que volta egli ſia pronto a volerlo. Al mio arbitrio è indift ferente egualmente l'arbitrio del proſſimo , ficome anco il fuo fpiritello , e la carnuccia : Imperciocchè fe bene ſiamo fatti principalmente l'vno per l'altro , niétcdimcno ciaſcuna delle menti noftre ha il fuo dominio particolare ; altri mente ſeguirebbe, che la ma lizia del profſimo foſſe il mio male , coſa che non è piaciu ta a Dio , acciò non dependa da altri il far il mio ſtato in felice. Il Sole par, che fià dif fuſo , c veramente per tutto fi fpande , ma non però con queſto Ipandimento fi fparge, e perde; perchè queſta ſua ef fuſio Ged at iain ali doi par yn ci ce fuſione è vn diſtendimento': che però gli ſplendori ſuoi , o raggi ſi chiamano in Greco con parola , che viene dallo diftenderk . Ma quale sia la natura di queſto raggio , tu la potrai conoſcere,fe riguardila luce del sole penetrata per qualche feſſura in vna ofcura ftanza imperocchéciò ſi fa di rettamente , e quaſi vien diui fose ſquarciato da ogni corpo folidojin cui s'incontri no am * mettente più oltre l'aria : e qui ſi ferma,nc inciampa, ne cade. Tal effuſione , e diffuſione del eſſere della mente , non ell çuamento, ma diſtendimento ; ficche agl'impedimenti chein. contro le ſi parano non violen. temcntene temerariamente re fifta , mà refti ſtabile , e illumi. ni ciò che la riceue. Imperoc chè  llo be 1 ih pier lill chè priua fe ſteſſo di luce, quegli , che non l' ammets te . 49 Chi teme la morte, o te me la perdita de'fenſi, o qual che altra forte di ſenſo , ſe non haurà niun fenſo , non fentirà male alcuno . Se poſſederà vn'altra ſorte di ſenſo , farà yn altro animante , e non reſterà di viuere . 50 Gli huomini ſono fatti P'yno per l'altro ; Dunque in ſegna, o ſoffriſci. Altrimente la faetta , al trimente ſcorre l'intelletto . Ma l'intelletto e quando cau tamente procede , e quando alla conſiderazione ſi volge , non meno ſi porta per diritto , ed al berſaglio . S'ha da penetrare den tro alla mente di ciaſcuno e per DO 1] Te te } 0 re e permetter altresì ad ognu no di penetrare dentro la pro pria tua mente. Chi fa ingiuſtizia fa vn atto d'empietà . Im perocchè , hauendo la natura dell' vniuerfo fabbricato gli animali ragionevoli , vno a prò dell'altro , acciocchè , ſe condo il douere , vno gioui all'altro , e in niuna guiſa gli muoca , chi traſgrediſce tal decreto di queſta , commette manifeſta empietà contro il nume' antichiſſiino tra gľ Id dij. Concioffiecofache la natura dell' vniuerſo è natura di enti , e gli enti hanno vna coral fratellanza con tutte l'altre coſe eſiſtenti. Di più queſt' iſteſſa fi noma verità , ed è prima cagione di tutte le cofe vere . Onde chi ſponta neamente mentiſce è empio in quanto con l'inganno fa in . giuſtizia, come ancora chi in uolontariamente mentiſce, in quanto difcorda dalla natura dell'vniuerfo, e in quanto ca gion deformità , ripugnando alla natura del Monda . Im; perocchè ripugna quegli, che per ſe ſteſſo è portato alla contrarietà delle coſe vere : giacchè haueua innanzirice uuto dalla natura alcuni in ſtinti, i quali poi eſſo traſcu rando , non può ora diſcerne re le coſe falſe dalle vore . E pure chi ſegue i piaceri, come coſa buona , e fugge il traua glio , comemale, commette empietà. Perchè è neceſſario, che coftui fi quereli ſpeſſe vol te della comune natura , qua fi ch'ella faccia diſtribuzioni di beni a traſcurati , ed a fol leciti contra il lor merito ; effendo che fouente i traſcu rati fieno di piaceri abbon danti, e di quelle coſe ond'ef fi deriuano ; ed i ſolleciti al l'incontro fieno da dolori op preſli , e cadano in quelle co fe , che dolore cagionano • In oltre chi teme i dolori , ha urà ancora in orrore qualchu na di quelle coſe , che hanno da ſucceder nel Mondo ; e ciò fimilmente ha dell'empietà . chi va dietro a’piaceri, non s'afterrà dal far'ingiuſtizia , e qucſto Lira Ck Ho che all te: Ice FCH E re queſto è chiaramente empie tà . Biſogna, che a quelle co ſe , alle quali la natura comu ne egualmente ſi porta ( per chènon haurebbefatta l'vna, e l'altra , fe all'vna, e all'altra di queſte coſe indifferenti non foffe ftata vgualmente pro penfa ) quelli , che vogliono eſſere ſeguaci della natura , hauendo i medeſimi ſenti menti , con eſſa ſiano vgual mente affetti. Dunquc chi a' dolori , ed a'piaceri , o alla morte, e alla vita , o alla glo ria , e al diſonore , delle quali egualmente fi vale la natura dell'vniuerſo , non è per fe ſteſſo parimente affetto, chia ra cofa è , che fia empio . Io però dico valerſi di queſti v gualmente la natura comune, in luogo di dire , che auuengono vgualmente per certa conſeguenza alle coſe , che ſi fanno, o che vanno ſucceden do conforme allancico im pulſo della prouidenza , col quale ſi moſſe ſin dal princi pio ad ordinare queſta bella macchina mondiale, hauendo concepute alcune ragioni del. le coſe future , e determinate le facultà feconde dell'eſi ſtenze , delle traſmutazioni, e di fimili fuccedimenti . 2 Migliore , e più deſidera bil coſa certamenteper l'huo mo ſarebbe ch'egli da quefta vita partiſſe digiuno affatto ; così dire ,del mentire, del ſimulare , del luſſo , e della fu perbia : defiderabile dopo ciò ( quaſi come vna ſeconda men profpera nauigazione) ſareb be , che almeno vno già fazio 1:22 il alla to ali UTA per f j 10 j” 19 21 di queſte coſe ,voleſſe più to fto morendo fpirare , che nel la prauità continuare viuen do" . E non t'inſegna ancora l'eſperienza a fuggire dalla peſte ? e la corruttela dell'a niina è aſſai peggior peſte a riſpetto di quella, che dall intemperie , e mutazione del l'aria , che d'intorno fi fpande, e fpira : poichè queſta peſte è degli animali in quanto fo no animati : e quella è degli huomini in quanto fono huo mini . 3 Non diſprezzar la morte , ma fija quella ben affctto , ef ſendo ancor eſſa yria delle co ſe ; che la natura richiede ; poichè quale è la giouentù ; la vecchiaia , il creſcere , l'in uigorire , il naſcere de’denti , la barba , i canuti , il genera re100 nel ICP 1000 dali ell Mei de ant re figliuoli, portargli nel ven tre , e partorirgli, e altre ope re naturali., le quali prodịco, no le ſtagioni della tuavita , tale è ancora il diffoluerfi . Dunque queſto è da huomo, che ben ſi ſerue della ragione ne ſuperficialmente, ne impet tuoſamente, ne ſuperbamente fiporta verſo la morte ;, ina l'attende come yn'opera del la natura . Nel inodo che tu ora , aſpetti o cheſca il fe to del ventre ditua moglic , .com hai da caſpetar l'ora , nella quale la tua animuccia diqueſto ricettacolo eſca ca dendo . E fe vuoi ancora vn conforto cordiale , benchè volgareztirenderàſoprammo do prontoalla morte l'appli cazione alle coſe preſenta nec , dalle quali douraieſſere ſe A oto des Tak ler jed Simi Jä Teni Nem If feparato , e a'coſtumi di colo ro , con i quali non t'haurai più da meſcolare : tuttavia con quelli non s'ha da rompe re , ma ſtudiare di curarli , e placidamente ſoffrirli . Onde hai da rammentarti, che que ſta ſegregazione s'ha da fare da huomini, i quali non han no teco glifteſli ſentimeriti : mentre queſto folo potrebbe ſeruirci di contrappeſo,e rite nerci in vita , ſe ne foſſe con ceduto il conuiuere con quel li; che haueſſero gl'iſteſifen timenti . Ma tu- ora vedi quanto malageuole ſia il con uiuere in tanta diffonanza de' conuiuenti . Sicché ſi può di re : Sollecita o morte a veni re , accioché io non arriui a fcordarmi vna volta di me ſteffo . 4 Chi  rola aurai mpe afait har caini ebbe 4 Chi péccas contro le ſtefi ſo pecca • Chi opera ingiu ftamentega ſe medeſimo nuô ce , rendendo maluagio ſe ſteſſo ; è ingiuſto ſpeſſe volte , non ſolo chi opera alcuna co fa , ma ancora quegli , che nonfa qualche cosa. Basta la presente opinione apprensiua e la preſente operazione comunicativa e la presence disposizione, che fi compiace d'ogni cosa , che da principiocauſante prouen . ga; per iſcancellar l'immagi nazione arreſtar l'impeto de gli affetti, temprare gli appe titieper mantenere nella ſua facultà la parte principale . 6 Fra i bruti viuenti è diui:. ſå vnà fòl'anima: c tra i viuen . ti ragioneuoli è compartita vn’animà intellettuale : fico. M me COlle auch Tere vad COll ade bel oni qili? mi me a tutte le coſe terreftri è vna ſola terra , e tutti quanti habbiamo facultà di vedere e facultà diviuere, con vna lu cc vediamo , c d'un aria respiriamo. Tutti quelli , che partecipano d' vna coſa co mune a quella, che è del me deſimo genere, anſiofaniente fi portano . Ogni coſa terrc ſtre inchina alla terra . Tutto l'ymido va inſieme ſcorren do,ogniaereo ſimilmente : ſic chè biſogna diuidergli a for za . Il fuoco s'erge a cagione del fuoco elementare . Tutto il fuoco , ch'è quà giù, è così pronto ad ardere con l'elc mentare, come ogni materia le alquanto più ſecco è facile ad accenderſi pereſſere meno abbondante di quello , che impediſce l'accenderſi. Dun que  letes re CO me In 170 za que tutto quello che è parte cipe della comune natura in tellettuale, corre ſimilmente verſo il ſuo connaturale, anzi più ;: perchè quanto è meglio degli altri, tanto è più diſpo fto à miſchiarſi inſieme col ſuo famigliare - Anticameji te dunque furono tra i bruti inuentati gli fciami, le greg ge > i pollai , e quaſi ynioni d'affetti; imperciocchè ancor? efli hanno animais ecosi la virtù congregatiua tra i min gliori ſpicca maggiormente, il che non è nell'erbe , non è ne faffi , non è ne’tegni. Ma tra gli animali ragioneuoli fi truouano leRepubbliche;lean micizie , le famiglie leraunan ze , e in tempo di guerra le paci, e le tregue . Anzi nelle coſe piùveccellenti, benchè M 2 ell fit 01 DINE TTO OSİ [ 7110 Fle 70 7e tra ſe lontane, in qualchemo do vi è vnione , come a dire, tra le ſtelle, così il deſiderio d'auanzarſi al meglio ha po tuto operare la ſimpatia ezian. dio tra le coſe diſtanti. Vedi dunque quello che ora ſi fa . Perchè foli gl'intellettuali ſi ſono ſcordati del conſenti mento, e dell'affetto tra loro ; e queſto concorrimento in effi ſolamente non ſi vede; e nien tedimeno, ancorchè fuggano, reſtano accerchiati , e preſi, poichè la natura in ciò pre uale . E vedrai queſto, che di co , offeruando, che più preſto trouerai qualche coſa terre ftre non congiunta ad altra terreſtre , che vn'huomo dall' altr'huomo totalmente diſ giunto . 7 Producon fruttto e l'huomo dire deria apo 2126 Vedi fifa. alii enti. oro; mo, e Dio e il Mondo; e ſi pro duce ciaſcun frutto nelle ſue proprie ſtagioni ; e ſe la con ſuetudine principalmente ſi ferue di queſto modo di dire nelle vitije altre ſimili piante, cið poco importa : però la ra gione produce il frutto si proprio , come il comune; e da quella fi propagano altre tali cofe , della condizione delle quali è ancora l'iſteffa ragione . 8 Se tu puoi , inſegna ſem pre il meglio a quelli, che er rano ; e ſe non puoi, ricordati che per ciò fare t'è ſtata data l'amoreuolezza , e che gl'Id dij ſon amoreuoli verſo que? tali , e tanto ſon benigni in alcune coſe ,ch'e'dan loro aiu to per la ſanità ,per le ricchez ze, e per la gloria . E queſto a neft viera 2110 vrela pre edi ceſto erre Ultra dall ' dile 10 M 3 te lice , o ſeno , dichiara , chi te lo vieta ? 9 Trauaglia , non come vn tapino, ne meno a fine di pro cacciarti compaſſione, o mara. uiglia : ma vn folo fia il tuo fine di muouerti , e di fermar ti , fecondo che la ragione ci uile richiede . 10 Oggi vſcij d'ogni mole ftia , anzi ſcacciai fuori tutte le moleſtie; poichè quelle non erano eſterne , ma couauano dentro nelle opinioni . 11 Tutte queſte coſe fami gliari per l'yſo di vn fol dì quanto al tempo , fordide per la materia , ſono ora tutte le medeſime, quali furono a tem po diquelli , che habbiamo ſepolti. 12 Le coſe ſtanno in ſe ſteſ ſe fuori , per così dire , delle por ch meni dipro mara il 2016 Amal onec 1270 tutte porte , е da per ſe medeſime , niente fanno del ſuo eſſere , e niente a noi fanno apparire . Che dunque è quello , che le diſcuopre? la ragione . Non nella perſuaſione , ma nella operazione conſiſte il bene ,e'l male dell'animal ragionclio le ciuile: ſicome ancora la vir tù , e’lvizio di queſto non è nella perſuafione , ma nell'o perazione.Alla pietra fcaglia ta non ſuccede male ſe caſca , ne bene , tirandoſi in alto . 13 Entra più addentro nelle menti degli huamini, cſcor gerai quali giudici tu tcma , e quali ſieno elli giudici intorno a fe ſtelli . 14 Tutte le coſe ſtanno in continua mutazione, e tu ſtef fo in vna continua alterazio nc , c in vn certo modo cor jenon Lidlo fami Cold de pe urtel atem bilam ' efter dell corruzione, e così ancora tut to il Mondo . 15 L'errore d’yn altro biſo gna laſciarlo doue è . 16 Il finire della operazio ne , il ceffare dell'appetito , e dell'apprenſione , e quaſi la loro inorte , e nulla nuoce : Fa ora paſſaggio all'età,qual'è la pucrile , alladolcfcenza,al la giouentù , alla vecchiaia . Ogni ſcambiamento di cia ſcuna di queſte è morte . E per ciò ne auuiene danno ? Paſ. fa adeſſo ricercando il tempo, che ſe’viuuto fotto l'auolo ; appreſſo, quello , cheſotto la madre, dopo ſotto il padre , e trouando altre molte diuerſi tà, mutazioni , e termini , di manda a te medefimo, ſe ve alcun' nocumento . Dunque fimilmente pe manco nel finire , nel ceſſare , e nel mutarfi del total tuo viuere . 17 Rifletti alla propria tua mente, e a quella dellyniuer fo , e a quella d'altri; alla tua per farla giuſta , a quella del I'vniuerſo per rainmentarti di chi ſei parte, a quella d'altri per conoſcere , le viene da ignoranza , o da animo deli berato ; e nell'iſteſſo tempo fa tua ragione , che colui e a te congiunto.Sicome tu ſe'ſtato fatto per dar compimento al la conſtituzione d’yn corpo ciuile , così ogni tua azione compia la vita ciuile , Dun que qualſiuoglia tua amone , che non iſtà in tal modo che o proſſimamente, o remo tamente non ſi riferiſca a quc. ſto comun fine , quella fcon certa la vita , ne le permette , che continui l'iſteſſa ; ed è di M 5 più fedizioſa , quale è colui nel popolo , il quale diſtrae il fuo partito da fimile concor dia . 18 Riffc , e giuochi di figlio letti , e ſpiritelli foftenenti cadaueri ; acciocchè con più efficacia fi rapprefenti il Dra ma del martorio. Applica alla qualità del la cagione ; c conſiderala aftratta dalla matcria , dopo preferiui il tempo , in cuitale , è tal coſa in particolare ſia per più lungamente durare . : 20 Haiſofferto mille coſe per eſſerti nö ſoddisfatto del la tua mente operante quello , in ordine a cui ella fu fatta : ma queſto baſti . 21 Quando alcuno ti biafi ma , o t'odia , o con ſomiglian ticoncctri di te ſparla, rifletti all'animucce di cotoro pene tra 1 nione ? 3 tra dentro , e ſcorgi quali quel. le filiano. Vedrai, che non bi ſogna trauagliarti per l'opi ch'elli hanno dite , ma è neceffario voler loro be ne, ftante che, ſecondo la na tura, foto amici, e gl’ladij in ogni manicra li foccorrono con fogni, e vaticinij, ancora in quelle coſe , nelle qualief fi difſentono . 22 Queſti fono i rivolgi menti fotto e fopra del Mon do , da vn ſecolo all'altro. . E la mente dell' vniuerſo oli applica alli particolari , e fe ciò è , riceir volentieri ciò che quella ti porta : ouero, ſe vna volta dette la molla , e l'al tre coſe camminano per con ſeguenza , e come vna è nell' altra; perchè queſti in qual che maniera o ſono atomi, a M 6 corpi 276 LIBRO NONO corpi indiuiſibili : e in fom ma, ſe ci è alcun Dio , ogni coſa ſta bene : ſe il tutto è a caſo , e tu non le'a caſo? Fra poco la terra naſcon derà tutti noi ; appreſſo anco ra eſſa fi muterà , e quelle co fc, in cui eſſa s'è mutata, in in finito fi muteranno , e quelle di bel nuouo fi cambieranno in infinito . Perciò chi conſi dera queſti maroſi delle mu tazioni, e alterazioni, e la ve locità di quelle , diſprezzerà ogni coſa caduca. La caufa vniuerfale è vn torrente , che rapiſce il tut to . Quanto vilc e ancora queſta politicheria , e queſte faccende humane , ſe filoſo ficamente vno le conſidera , quanto ſono piene di mocci ? O huomo fa yna volta quello che ora la natura richie de . Se ti da facultà accorriui, e non riguardare fe alcuno ſe n'accorge : ne hauere fperan-. za di vedere la Repubblica di Platone : ma contentati ſe la cofa, ancorchè mcnomiffima , ti rieſce profitteuole , e l'eſito di quella conſidera non come coſa piccola. Imperocchè chì mutcrà i loro deliberamenti ? e ſenza la mutazione delli de. liberamenti , che altro farà che yna feruitù di lamentoſi , e di fimulanti di obbedire in Ora paffa auanti. Raccontami d'Aleſſandro , di Filippo, e di Demetrio il Falereo:vedran no eſſi ſe conobbero quel lo , che voleua la natura vni uerfale , e ſe inſtruirono bene ſe ſteſſi , o fe pure fecero da recitanti di Tragedia , Niu j -1 no m'ha condannato ad imi tarli: l'opere da Filoſofo fona fincerità , e modeftia ; non mi traſportare alla faftoſa graui tà . 25 Conſidera per lo paſſato gregge d'Armenti fenza nu mero, innumerabili ſacrificij e nauigazioni d'ogni forte, e nelle procelle , e nelle bonac ce ; e diuerſità di coſe , che fi fanno , che inſiemefi fanno , e che ſi disfanno . Conſidera ancora la vita già viuuta ſot to d'altri , e quella, che dopo te s'haurà da viuere, e quella, che oggidi fra barbare genti ſi viue . E quanti vifono, che non ſanno ne manco il tuo nome ? Quanti pure prefto fe lo ſcorderanno? E quanti , che ora ti lodano, di qui a po . co t’incolperanno . E coine non è da fare ftima , ne della gloria , nc d'altro tal, qual a fia . Sij tu imperturbabile in torno a quello, che da cagio ne eſtrinfeca ti auuiene , ela giuſtizia fia nelle operazioni, delle quali tu ſela cagione, cioè a dire , che habbiano i moti dell'animo , ele aziciri da terminare nell'operare conforme al ben comune, co me quello, che a te appartie ne , fecondo la natura.1 526 Molte coſe fuperflue , che ti trauagliano , puoirife gare , le quali ſono ripoſte to talmente nella tua opinione : e così yn molto ampio cam po a te ftcffo dilaterai. 27 Concepifci nella tua mē te l ' vniuerfo Mondo , e va conſiderando il ſecolo , nel quale ſci ; e medita la preſta mutazione di ciaſcuna cofa ; e particolarmente come è bre. ue il tempo dalla naſcita al diſcioglimento; quanto è im menſo quello , che è ſtato a uanti al naſcere ; e come pa rimente infinito è quello, che ha da ſeguire dopo il diſcio glimento . Tutte le coſe, che tu vedi periranno preſtiſſima mente , e quelli, che al pre fente le rimirano perire , pre ftiffimamente anch'eglino pe. riranno . E quegli , che nella decrepità fi muore , paſſerà a Atato pari con quegli , che muore immaturamente . 28 Quali ſono le menti di coloro , e a quali coſe atteſe rose per quali cagioni le ama no , ele onorano ? Reputa 11!. de l'animucce di queſti tali ; perchè hanno apparenza di C nuocere , mentre biaſimano , e di giouare ,mentre lodano. O quanto è vana queſta im maginazione ! 29 Il perire non è altro che mutazione : e di queſta gode la natura vniuerfale , in con formità della quale tutte le coſe bene ſi fanno . Ab eter no tutte le coſe ſono ſtate dell'iſtetfa forma, e così in in finito altre coſe ſaranno. Per chè dunque tu dì , che tutte le coſc fatte , e tutte quelle , che ſi faranno ſempre faranno mali? E tra tanti Iddij non mai s'è trouato niuno di tanto va lore , che poteſſe vna volta correggere queſte coſe ? ma è ſtato condennato il Mondo ad eſſere coſtretto da mali che mai non ceffano ? 30 La putredine della materia, che è ſoggetta a ciaſcu na coſa, è acqua, poluere, of ficelli,immondezza , o pur cal li della terra , come i marmi ; o feccia,comeè l'oro , e l'ar gento; o peli, come la veſte ; o ſangue, come la porpora , e tutte le altre cofe fimili . Elo fpiritello ,benchè altro , è tale, e di queſto in altre cofe ſi tra finuta . 31 Sc'viuato affai in queſta vita trauaglioſa, di mormora rione, e alla ſciiniatica. A che ti perturbiè che ci è di nuouoa che ti fa attonito . Lacaufiri, guardala. O forſe la nateriale riguarda quella , fuori di que fte non è cofa veruna: mna vna volta inuerfo gPIddij diuieni e migliore , e più piaceuole . 32 Il medefimo è , che tu habbi conoſciutoqueſte coſe per  CH sof cz. mi te ; o 2,6 Elo tra per cent'anni , o per tre . 33 Se quegli peccò, egli ha ilmale , ma forſe non peccò. Certamente, come in yn corpo , da vna fonte intellet tuale tutte le coſe deriuanose non biſogna , che la parte fi quereli delle coſe fatte a pro del tutto ; ouero fonoatomi, e nient'altro : ouero yn me ſcuglio , e diſſipazione , che ti conturbi dunque? Alla men . te tu dì ſe'morta, fe’perdutå , ſe'rigettata , ti congreghi , e a modo di armenti ti pafci? O gl’Iddij non poſſono far niente , o lo poſſono. Se non poſſono a che li preghi? ma ſe poſſono , perchè più preſto loro non dimandi , che ti concedino di non temere coſa alcuna, che ſi ſia di queſte, ne di bramare quella , ne di do clie 012 che 2012 VII CITI leer le dolerti di qualſiuoglia di effe più toſto , perchè eſſe non ſi habbiano , che acciò fi hab biano.Imperocchè,ſe nel tut to poſſono foccorrere agli huomini , poſſono ancora in torno a queſte coſe giouare . Ma forſe dirai. Poſero gl'Id dij queſte coſe in mio potere. Non è dunque meglio valerſi con libertà di quello, che de pende da te , che laſciarti di ſtrarre con feruitù , e baſſezza intorno a quello , che da te non depende ? Machi ti diſſe , che gli Iddij non aiutano in quelle coſe , che ſono in no ſtro potere ? Comincia dun que a pregargli intorno di effe e vedrai. Prega il tale diccn. do: come potrò io godere co . lei ? tu anzi dì; come potrò io non deſiderar di goderla ? vn altre dichi 11001 Thebe elcut e agli Ora in Quare 8 !!!! Orere valení hede altro: come mi libererò io da colui ? tu dì: come non haurò biſogno di priuarmene? vn al. tro : come non perderò il fi gliolino ? tu dì : come non temerò di perderlo ? In ſom ma in queſta maniera indirizza le tue preghiere, c conſidera che ne ſuccede. 36 Dice Epicuro : Nella malattia i ſuoi diſcorſi non ef ſere ſtati intorno alli pati menti del corpicciuolo i ne meno con quelli , chelo viſi tauano hauer di coſe ſimili fa . uellato : ma hauer ragionato filoſofando ſopra la naturą delle coſe premeditate; tutto intento a queſto , cioè, come. partecipando la mente di co tali mozioni , ch'erano nella carnuccia, ſteſſe imperturbabi. le conſeruando il proprio be ortida lezza dar idilli 110 i in no dur dielli dicas reca troi tre ne. Ne hauer dato occa fiorea' medici, che ſi vantaſſero d'ha uer operato qualche coſa, ma che contuttociò ſe n'andaua tirando'auanti la vita tran quillamente,e bene.Il medeſi. mosch'egli fece in quella ma lattia, tu hai da fare, ſe ti ſen . tiffi male, o ſe ti trouaſſi in al. tro trauaglio . Poichè il non partirſi dallaFiloſofia in qual fiuoglia cofa , che vada acca dendo ; e il non applicare alle bagattelle degl'idioti' , e fofi fti è comune diqualſiuoglia fetta , è di ſtar fiffo ſolo nella coſa, che al preſente l'huomo fase nello ſtrumento permez zo del quale ſi opera :" ) 37 Se vienioffeſo dalla sfac. tiạtezza di alcuno, ſubito in : terroga te fteſfo : Può forſe il Mondo essere senza sfacciati non 0 ca fara ' cobs vanda ta tra ētiles trinal non può . Non ricercare dunque l'impoſſibile : poſcia chè queſti è yno di quelli sfacciati, i quali è neceſſario, che ſieno nel Mondo. L'ifter ſo ſia del macchinante, e del l'infedele , e di qualſiuoglia vizioſo. Habbi qucſto ſempre in pronto ; Quando ancora ti ricorderai eſſere impollibile , che tal forte di gente non ſia, tu ſarai più placido iuuerfo ciaſcuno di eſſi . Sarà pari mente gioueuole il conſidera. re ſubito qual virtù habbia dato la natura all ' huomo contra di queſto vizio : men tre ha dato , come antidoto contra l'ingratitudine, lc mã , ſuetudine , come contra d'vn altro qualche altra virtù . E ſopra tutto t'è lecito di diſin gannare chi errò . Ora ogni aqual 1107 ve all chat uoghi JOMO m.cz sfac it feil nii 10 ,no,che erra , Si deuia da quel, che gli fu propoſto , e va va gando . E poi in che ſe'ſtato danneggiato ? poſčiachè tro uerai ,, che niuno di coloro , contro de'quali tu ſei eſacer bato , habbia operató tal fat to,dal quale la tua inenté po teiſe cffere peggiorata ; men tre in queſto è ogni ſuſſiſten zadel tuo dannose malé.Che đi male , o di ſtrano è ſtato fatto , ſe vn'ignorante opera da ignorantc ?Guarda,che tu non habbi più toſto a ripren dere te ſteſſo del non hauer hauuto riguardo , ch'egli for: fe per commettere tal man camento ; done tu haueui i motiui della ragione à conſi derare, ch'era veriſimile; che quegli in tal modopeccaſſe : E nientedimeno ſcordato ti maAtato 170 1001 opo per ter marauigli, ch'egli fia caduto? quel principalmente quãdo tu l'ac. the cuſi, come d'infedele , o d'in . grato, rifetti in te ſteſſo :con cioſliecoſache più che manis oros feſtamente l'errore é tuo , ſe credeſti , che yno sin tal mort fue do diſpoſto , e haueſſe ad of feruare, la fede ; e ſe facen dogli delle grazie , non le haidate coinpitamente, ne in che modo da riceuere dall'iſteſſa tua azione tutto il frutto ſu bito . Perchè qual coſa più deſideri , che di hauerbenefi cato vn'huomo? e ciò non ti baſta, che tu hai operato coſa conforme alla tua natura ? e di quefto ricerchi lamercede ? come ſe l'occhio domandafle la ricompenfa , perchè vede , ei piedi perchè camminano . E fi come queſti membri ſo N no 7210 Toy tell for 2014 alf che Te ! 2 ho farti a queſto effetto , e ſe condo la loro conſtituzione operando si ne ritraggono quello che è loro proprio : così l'huomo dalla natura pro dotto benefico , quando be nefica , o nelle coſe mezzane coopera, ha operato, ſecondo la fua condizione , e ottiene quello , che a lui ſpetta . Fine del Libro Nono . LI 10 291 180 ,CH tituziar TAGION propri cura on do be 70272 cond l’Anima ſarai tu mai Ovna volta buona, e ſemplice , e vna , e quda, più ſplendida del corpo , che ti circonda guſterai tu giammai della diſpoſizioneamicabile e caritatiua quando farai pienamente fornita,e von bi. fognofa, e di niente altro de fideroſa , e di niente o ani mato , o inanimato anida, per N 2 prender piaceri ? ne di temo Po , nel quale più lungamen te habbi da fruire : ne di luo go , o paeſe, o buona tempe. rie d'aria : ne d'huomini au uenenti ; ma ti compiacerai del preſente ſtato , e goderai di tutte le coſe a te preſenti , e inſieme perſuaderai a te Itefla , che tutto ciò , che ti fia dauanti , tutto bene ti ſtia , e che dagl'Iddij a te venga , e ti parrà bene tutto quello , che a loro piacerà', e quello , che da loro ſi concederà s'in riguardo della ſalute , e con ſeruazione d'vn animal per ferto, buono, e giuſto , ebel los é quello , chetutte le co fe genera; contiene, circon da , e abbraccia , le quali fi diſſoluono , generando altre cofe fimili . Sarai dunque finalmente talc , che tu ſij atta à viuere in cittadinanza con gl’Iddij, e con gli huoinini in modo che tu non c'habbi da dolere di quelli in coſa alcu na, ne quelli t'habbiano a condannare . 2 Oſſerua quello, che la na tura tua richiede in quanto dalla mera natura vien diret to : poſcia fa quello , cab ) braccialo , fe la natura tua , 7 come diviuente , per queſto non ſia da peggiorare • Ha urai daoferitare appreffo ,che 1 coſa richieda la natura tua , come di viuénte, e tutto ciò f hai da riceuere , ſe da queſto la natura tua come quella d'un animal ragioneuole , , nó fia perdiucnirne peggiore, e'l ragioneuole, nell'iſteſſo tempo ancora ciuile . Ditali 01 N 3 regole ſeruendoti non andar cercando altro curioſamente . 3 Tutto ciò , che e ' auuie ne, o in modo ti fuccede che ſij per natura abile a com portarlo , o pure a non com portarlo . Se dunque t'accade nella maniera , che puoi fof. ferirlo , non l'haucre a male ma ſopportalo,fecondo chefe naturalmente idoneo'; fe poi non fe'idoneo per fofferirlo , aðn ti diſguſtare: perciocchè, confumando té , confumerà fe parimente . Niente dimet no ricordati , che tu ' se fatto per fofferirc ognicoſa ; ' eche ſia in potere della tua opinio ne di farla tollerabile , cfof. feribile, fecondo il concerto che farai, che quello ti conferiſca , o che ti conuenga ſofferirlo. Se qualchuna erra man fueramente s'ha da inſtruire , e moſtrargli quello , ch'hab , bia traucduto . Però ſe ciò non ti rieſce , la colpa è di te ſteffo , anzi ne meno di te ſteſſo . 5 Qualunque coſa c'auuie ne , queſta ab eterno ti ſi prc. paraua , e l'intralciamento delle cauſe fin dall'eternità fi aggomitolaua inſieme con Peffer tuo , e con quelli au venimenti. 6 O fieno gli atomi , o ſia la natura , ftabiliſcafi primie ramente che io ſon parte dell'yniuerfo , che la natura gouerna ; appreffo, che io ho vna famigliarità in vn certo modo con le parti della me deſima forte; pofciachè ricor dandomi di queſte coſe , in quan 40 TO ON ng N quanto io ſon parte,non pren derò a male coſa alcuna , che venga compartita dall'vni uerlo : concioffiecofache ni ente , che conferiſca all'vni. uerfale può nuocere alla par te :imperocche non vi è coſa , che all'vniucrfo non conferi ſca.E ciò hanno comune tutte le nature ; e quella del Mondo ha queſto di più , che da niu na cagione eſtrinſeca può ef ſere forzata a produrre cofa alcuna a ſe nociua ; e ſecondo quella ricordanza , che io fon parte di talvniuerfo, mi com piacerò ditutto ciò , che au uiene ; e ſecondo che io ho fi fatta famigliarità colle parti , della medeſima forte , non o pererò coſa , che non ſia co municatiua con queſte , ma più toſto porrò mira alle parti della medeſima forte , e condurrò ogni mia inclina zione all'vtile del comune , e dal contrario me ne ritrarrò Queſte cofe così da te con dotte , ne ſegue neceffaria mente, che ci traſcorra la vi ta felice,quale ſtimereſti quel. la d'vn citttadino , che gui daſſe il ſuo viuere in azioni vtili a i cittadini , c.abbrac ciaſſe tutto quello , che dalla città a lui determinato viene. 7 A tutte le parti dell'vni uerſo , quelle dico , che il Mondo contiene , è di necel ſità il corromperſi ,cioè a di re, l'alterarſi, ma ſe aggiungo, ciò , che loro è necellario , el fere dannoſo, non ſi gouerne rebbe bene l'yniucrfo , eſſen do le parti di lui nell'altere zione diſpoſte a corromperſi in diuerſe maniere Diremo N dunque, o che la natura ftef- . ſa intraprendeſſe a fabbricare il male alle ſue parti , e le fa ceffe fuggette al male , e che di neceſſità caſcaſſero a far il male , o'che inconſiderata mente non s'accorgeſſe , che le faceffe tali : ma ne I'vno' , ne l'altro certamente è da credere . E ſe qualcheduno laſciando da yn canto la nas voleſſe dir , ch'effe ſom no così nate , quanto ſarebbe ridicolo nell'iſteſſo tempo il dire , che la naſcita loro le porta , come parti dellyni uerſo ,alle mutazioni, e in ſieme marauigliarſi, e hauer ciò a male , come ſe auuenifs ſe fuori della natura dell'yni. uerfo ? Tanto più , che la dif ſoluzione vien fatta in quel le coſe , delle quali ciaſcuna è compoſta , e conſiſte . Im perocchè , o è diſgregazione degli elementi , dequali le coſe eran permiſchiate , o conuerſione del folido nel terreſtre ; o dello ſpirituale nell'acreo , in modo , che queſte coſe fi ritornino nella ragione dell'vniuerfo : o è che dopo più periodi di temu ро ſe ne vada in fuoco , o po re con perpetue viciffitudini fi rinnuoui. E queſto folido , e queſto ſpiritale , non t'im maginar , che fia dalla prima naſcita , perchè tutto queſto l'altro giorno , o al più tre di fa dall'alimento ; e dall'aria attratta riceuè l'accreſcimen to . Dunque queſto , che ri ceuè fi muta, non quello che la madre partori; e,fupponi, che - quello ti riduce affai N 6 vicino alle qualità del ſug getto particolare , che a ri ſpettodi quello , che ora fi dice, ſecondo la mia opinio , ncé nicnte . 8 Quelli titoli , che ti se poſto dibuono , di modeſto , di verace , d'accorto , dipru dente , di magnanimo , au uerti che giammai non ti ſi cambino, e,ſe li perdi , ſolle citamente torna a ripigliarli . Ricordati, che col nome d'ac corto ti ſi ſignifica l'attenzio ne, che tu deiporre per com prendere diſtintamente ciaf cuna coſa ſenza abbarbagliar. ti la mente : con quel di pru dente , la ſpontanea approua zione delle coſe , che dalla natura comune vengono di Itribuite: con quel di magna. nimo , l'alcanzamento della particella del fenno ſopra i moti della carne , ſieno aſpri, o morbidi , intorno alla glo rietta , intorno al morire , o a coſe si farte . Se dunque tra queſti nomiriſtrigni te ſteſſo , e di riceuer queſti titolida al tri non ambirai , farai yn al tro , e darai principio a dif ferente vita. Concioſliecofa che il proſeguire d'eſſer come finora ſe'ſtato , e ſtraſcinarti in tal vita , e imbrattarti , è da troppo inſenſato , e da in namorato del viuere , e da fi mile a quelli che, combatten do colle beſtie, reſtano ſmoz zicati , i quali,pieni di ferite , e di marciumi, ſi raccoman dano ad eſſere riſerbati fin ål giorno ſeguente,per rigettar fi di nuouo , così come ſono alle medefime'vnghie , e zan ne. Interna dunque te fteffo nella confiderazione di queſti pochinomi, e ſe puoi man tenerti in quelli,fermati, qua fi traſportato a ſtanziar' inal cuna dell'Iſole Fortunate.Ma fe t'accorgi chetu ſcappi fuo. ra , e non reſti ſuperiorez riti. rati con ardimento in qual che cantone , doue fignoreg gerai, quero in tutto eper tut to eſci di vita , non iſdegnan doti, ma con ſemplicità , li bertà , e modeftia ; mentre non hai pretefo altro in queſta vita che di cosi vſcirne. A conſeruarti peròla memo ria di queſti titoli grande mente t'aiuterà il rammentar. ti degl'Iddij ; e come quelli non vogliono eſſere adulati , ma chei ragioneuoli tutti so afſomiglino a loro. E come ! 1 il fico fa quello , che appar tiene al fico , e'l cane opera da cane , e l'ape da ape , così Phuomo da huomo . 9 Il giullare, la guerra, lo , sbigottimento, il terrore , la feruicù ſcancelleranno coti dianamente da te que' ſacri decreti,che tu eſaminator del la natura ti fe'nella mente tra ſmeffo coll'immaginazione . Però abbiſogna conſiderare il tutto , e operare in modo che inſieme s'habbia da adempie re quello, che la congiuntura porta, e che nell'iſteſſo tempo ciò che s'è fpeculato ſi metta in opera ; e la franchezza , che s'acquiſta dalla ſcienza in torno a ciaſcuna coſa , fi con ferui occulta sì , ma non - for terrata . Dunque quando go derai della ſemplicità ? quai do della grauità d e quando della notizia di ciaſcuna coſa in particolare, quale ſecondo la ſua ſoſtanzia ella fi fia , e qual luogo habbia nel Mon do , e per quanto debba du rare , e di quali coſe ſia com poſta , e chifia' per hauerla , e chi fienoquelli che poſſono darla , e ritoglierla a · 10 Il ragnetto grandemen te s'infuperbiſce per hauer predato vna moſca : ma vna perſona pervn leprotto, altri per vn'alice prefa nella rete , e altri per i porcaftri , . vn'al tro per g’orſie altri per i Sar . mati. Non faranno queſti la droni fe eſaminerai i conce pimenti della mente loro ? 11 Seruiti del metodo fpe culatiuo , oſſeruando , come tutte le coſe in fe RECIPROCAMENTE fi trafinutano , e di con . tinuo ſta applicato,e intorno a queſta parte eſercitati ; im perocchè niuna coſa ti cagio nerà altrettanto la magnani mità . Del corpo ſi Spogliò . E conſiderando , come ben pre ſto partendo dagli huomini, gli biſognerà laſciar'il tutto , ſottopoſe intieramente ſe ſteſ ſo alla rettitudine ' , nell'ope rar quello , che da luidepen de , e alla natura dell'vniuer ſo negli altri accidenti . Ma che dica alcun di lui , ouero creda , o faccia contro di lui , ne pur colla mente vi bada : contento di queſte due coſe , dell'operare giuſtamente ciò che al preſente opera ; e di compiacerſi di quello , che a lui preſentemente vien diſtri buito , e libero da ogn'altra occupazione , e ſtudio , non altro vuole che paſſarſela dirittamente in vigor della legge e ſeguir Dio ,che a dia rittura cammina . Perchè hai da vſare il ſoſpetto , quando ti è lecito di conſiderare quel che ſi dee operare e fe lo conoſci , proſeguirai in quel lo dibonariamente , e fenza mai voltarti indietro : ma fe tu non lo conoſci , trattieni il giudicio , e feraiti di confi glieri ottimi. Se poi ii ſucce dono in contrario di queſto altre coſe , cammina pruden temente fecondo l'occaſioni , che ti s'offerifcono,adcrendo al giuſto, che fecondo l'appa renza ti fi porge innanzi: per chè è boniffima coſa arriuare a quello, nel quale il non ac certare ſia caduta . Quegli , che in tutto ſegue la ragione è inſiememente agile, e poſa to , e vnitamente viuace, e co Itante . 12 Subito che dal forno ſe fuegliato interroga te fteffo , ſe hauratti a importare , che quello che è giuſto é, retto , da qualch'altro fi efeguiſca? Non t'haurà a importäre . Ti fe'forſe ſcordato, che queſti , i quali ſi vanagloriano nelle lodi, e ne biafimialtrui , tali ſono nel letto , e tali nella menfa : e quali coſc fanno , quali fuggono , quali ambi fcono , quali naſcondono quali rapiſcono', non con le mani, o'con i piedi , ma con la digniffima parte di loro , colla quale ,volendo jacqui ftar potevano la fede, la mo deſtia , la verità , la legge, e'l buon genio . 13 Il ben diſciplinato , e modefto,dice alla natura,che da il tutto , e riceue: Da ciò che vroi,ritogli ciò chevuoi:ne queſto dirà con tracotanza , ma con pura obbedienza pienezza di gratitudine verſo quella . 14 Poco è quello che ti re ſta ;paſſalo come tu ſteſſi in vn monte : imperocchè niente importa che qui , o lì fi ftia , quando doinunque fi fia , s'ha da viuere nel Mondo , come in vna Città . Veggano , eri conoſcano gli huomini yn huomo vero , che viua con forme alla natura . Se non lo ſopportano , l’ýccidino: per chèqueſto èmeglio che viuer nella maniera di quelli. !! 15 Tu non timpiegherai più tutto in difcorrere qual fia, l'huomo dabbene , ma proccurerai d'eſſer tale . 16 Conſidera del continuo tutto l'euo e la ſoſtanzia vni uerſa ; e comeognicoſa par ticolare riſpetto alla ſuſtan zia è come vn granello di mi glio ; e riſpettoal tempo vn roteare di trapano : e appli. candoti a ciaſcuna delle coſe prelenti, conſiderala già nel disfacimento , e nellamuta zione , e comenella putrefa zione,o diſlipazioncs o ſecon do che ciaſcuna coſa è ſtata fatta in ordine al finire. Con. ſidera quali fono quelli , che, mangiano,che dormono, che attendono alla generazione , che mandano fuori gli cſere menti , t. altre coſe fimili : appreſſo quelli cheſignoreg : giano gli huomini , e s'inſu perbiſcono , o li ſdegnano , e come fuperiori inſultano , e pure poco innanzi a quanti feruiuano , e per quali occa fioni, e di quì a poco in che fi ridurranno 17 Ad ognuno conferiſce quello , che apporta a ciaſcu no la natura dell'vniuerfos, e allora conferiſce quando ella l'apporta . La terra ama-cer. tamente la pioggia, amaque ftaianco l'almo etera , amai Mondod’eſeguire quelloche ha da effere lo dico dun que al Mondo : '10 ti Tono compagno nell' amore . Non fi fa ancora queſto se fi dice ; che s'ama di far quefto ; 0 quello 18 O quà tu viui , e a queſta vita fei di già accoftumato , o elci di effa, e ciò era quello , che tu voleui , e hai finito l'officio tuo ; fuori di queſto non c'è altro . Dunque ita di buon animo . 19 Habbi ſempre per cui dente , che ogni luogo è fi mile ad vna campagna, e che tutte le coſe rieſcono le me. deſime a chi ſtia fopra ad vn alto monte , o sul lido del mare , o douunque ti piaccia . Perchè chiaramente incon trerai da pertutto quello che diſie Platone : la greggia Ata torniata di fiepi? ful monte 501 Che coſa è in me la mérite mia 2 e quale ora io la fac cio ? Ache di quella di pré fente mi ſerito a forfe, che è qualche coſa vacua d'ogni in telligenza ? forſe è qualche cofa diſciolta, e diſtratta dalp accomunamento di forfu qualche coſa liquefatta,e me ſchiata nella carnuccia ,ſicchè habbia da commutarſi con quella ? 20 Chi fugge dal padrone chiamafi feruo fuggitiuo: la legge è la padrona, echi ope ra contro la legge , é fuggiti. uo . E inſieme , chi ſi da alla malinconia , o alla collera , o al timore , per qualche coſa delle ordinate , che già ſon fatte , o fi fanno , o ſono per farſi da quello, che governa il tutto , che è legge, così det ta dal diſtribuire a ciaſchedu no quello , che gli vienę. Chi dunque fi daal timore; o alla malinconia , oall'ira è feruo fuggitiuo 21 Depofto che alcuno ha lo ſperma nell'utero , fi dipar tegte appreſſo , qualch'altra cagione raccogliendolo , lo perfeziona , e compie il feto : di qual materia ? è quale è ? ſimilmente tramiſe l'alimento per la gola , e poi qualche altra cagione raccogliendolo, produce il ſentimento, l'ap petito , la vita , e la robuſtez za , e altre coſe ( c quante , c quali ? ) Biſogna dunque, che tu contempli quelle co fe , che ſotto tal copertura ſi fanno, e in queſta manicra ri conoſcere la facultà come noi vediamo, c quella cheaggra ua , e quella cheſolleua, non con gli occhi, ma non meno euidentemente. 22 Del continuo conſidera, come tutte le coſe ſono tali , quali ora ſi fanno, e già ſono ſtate; e conſidera quelle , che ſono per eſſere , erappreſen O tatele auanti agli occhi come intiere fauole , e ſcene , cun forme alle coſe le quali o per tua eſperienza , o per antichi racconti ti fono note . Verbi gratia tutta la Corte di Adria no, tutta la Corte di Antoni no, tutta la Corte di Filippo, di Alessandro, di Creso, poi chè tutte quelle erano l'iſteſ fe, che queſte , variando ſolo ne'perſonaggi. Immaginati , che que gli, il quale per qualſivoglia coſa ſi rammarica , e s'afflige, è fimile ad vn porcello , che fi macella calcitrante , e gru gnente; ne è diuerfo chì pian. ge solo ſopra il letto con si lenzio la noſtra dappocaggi ne ; e immaginati , che al fo lo animal ragioneuole è con ccduto d'accomodarſi volon ta  hi volontariamente agli accidenti , e l' accomodarli ſemplicemen te è a tutti neceffario. 24 In ciaſcuna delle coſe , bi che tu operi applicando a parte a parte la mente, in tcrroga te ſteſſo , le la morte 01 pare terribile a cagione , che habbiamo a reſtare priui di e quella tal cofa . 25 Subito, che tu ti offendi per l'altrui peccare ,, rientran do in te ſteſo , fa tua ragione, 111 ſe in caſo fimilcru erri : come a dire giudicando, che ſia co fa buona la moneta , il piace re , e la glorietta , e altre co ſe sì fatte. Perciocchè con fi qneſta conſiderazione preſta mente ſmorzerai la collera , venendoti inſieme in mente , che colui opera forzatamen te . Che ha egli dunque da fare? ſe è in tuo potere , libe ralo dalla violenza. Vedendo Satirione, vno de Socratici , immaginati o Eutichete , o Himene : e ve dendo Eufrate , immaginati di vedere Eutichione , o Sil uano : e vedendo Alcifrone , di vedere Tropeoforo ; e ve dendo Senofonte , immagi nati Critone , o Seuero : e ri mirando te ſteſſo , immagina ti qualcheduno de ' Ceſari , e in ciaſcun altro qualche coſa {imile a proporzione . Ap preſſo ti ſouuenga , doue ſo -no dunque quelli? o in nilt no , o in qualſiuoglia luogo . Così di continuo vedrai le coſe humaneeffer fummo, vn nulla ; maſſime fe eandrai rammentando , che il mu tato vna volta per tutta l'infinità de'ſecoli non tornerà ad accadere . E tu quanto tem po ſtarai a mutarti ? perchè dunque queſto breue tempo non ti baſta per degnamente paſſarlo ? qual materia, e qual foggetto abborriſci ? che al tro ſono tutte queſte coſe , che eſercizij della ragione, la quale accuratamente ha con fiderato , e diſcorſo ſopra la natura di quello , che è nella vita? Perſiſti dunque finchè tu ti renda famigliare queſti , in guiſa d'vn gagliardo ſtoma co che ognicofa abbraccia , e come il chiaro fuoco di qua lunque coſa , che tu gli butti dentro ne forma fiamına , e fplendore. Non poſſa alcun veritie ro dire di te , che tu non se {chietto , o huomo dabbene. Il Do le ai 0 3 .ma mentiſca chiunque di te ha fimile opinione . E rutto queſto è in tuo potere . Per chè chi t'impediſce , che non fij huomo dabbene , c ſchiet to ? A te folo ſta lo ftatuire di non voler viuer più , ſe tik pon farai tale : imperocche non comporta la ragione , che tu non ſij tale. Che coſa è , che ſi pora fa intorno a queſta materia rettiſſimamente operare , je dire ? qualunque coſa queſta fia è lecito di farla , e dirla , e non metter préteſto d'effe re impedito . Non prima cef ſerai di lamentárti , che tu ſij ridotto a queſto , che quale è agli huomini voluttuoſi il luſſo , queſto è a te l'operare nella ſoggetta , e ſommini Itrata materia , conneniente alla conſtituzione humana Imperocchè s'ha da concepi re perdelicia tutto quello , che farà lecito d'operare con forme alla propria natura , e queſto è lecito in ogni luogo. Perchè al cilindro non è con ceduto di portarſi per qualſi uoglia luogo col proprio mo. to , come ne meno all'acqnas ne al fuoco , ne ad altre coſe , le quali ſono rette dalla na tura, o dall'anima irragione uole ; eſſendo molti li rat tenimenti , e gli oſtacoli:ma la mente , e la ragione può . penetrare pertutti gl'impedi menti, ſecondo la ſua natura , e a ſuo beneplacito . Queſta facultà , poſta che tu te Phai innanzi gli occhi , fecondo la quale la ragione potrà portar fi per tutto , come il fuoco in 04 alto , come la pietra al baſſo , come il cilindro per dio , nicnt'altro ricerca. Per chè gli altri impedimenti che. procedono o dal corpo , ch'è yn cadauero , o ſenza l'opi nione , e inchinamento dell' iſteffa ragione , non fanno . leſione, ne apportano danno alcuno , altrimente a yn trat toil patiente di quello diuer rebbe cattiuo : perciocche in tutti gli altri apparatid'opera, quel danno , che ad alcuno auuiene rende peggiore quel lo , che lo patiſce . Ma quì , le è lecito il dirlo , ſi fa l'huo. mo migliore , e più degno di lode , ſeruendoſi rettamente di queſti incontri . In ſomma ricordati, che a colui, il quale è per natura cittadino , nien te nuoce , che alla Città non 1 nuoca: e a queſta non fa dan no chi alla legge non fa dan no . E niuna di queſte , che chiamano difgrazie offende la legge . Quello dunque che non offende la legge , non offende ne la Città , ne il cittadino , - 29 A quello che gia è toc co da veri dogmi , è fuficien te ogni piccoliffimo, e ordi nario incontro per ricordarli di sbandire ogni dolore , e ti more . Quale è queſto ? Delle foglie altre il vento a terra abbatte, Altre produce il verdegiante bosco ; Quando la primauera fa ritorno. Cosi ſuccede alla natura lumana', Che mentre Spriiita l’vil , l'altro ; dien em . Fogliucce fono i tuoi figlio lini : fogliucce ancora que fti , alle acclamazioni de qua 70 ol 70. di ite yle 00 05 322 quali ſi da tanto credito , e che parlano bene del fatto tuo ; o pure per lo contrario quelli , che maledicono , o tacitamente biafimano , o di leggiano:fogliucce ſimilmen te ſono quelli, i quali aderi ranno alla tua fama dopo la tua morte . Perchè tutte que fte coſe naſcono al tempo della primavera, dopo il ven to le butta a terra , e appref fola felua in luogo loro altre produce. La breuità del tem po'è a tutti comune. Ma tu ogni coſa fuggi, e appetiſci tutte le cose , quafi chefoffero per eſſer perpetue. Tra poco tu ferrerai gli occhi , e vn al tro piangerà quello , che ben preſto ti porterà alla ſepoltu . 30 L'occhio fano è dime ra . Itie ftiere , che veda tutte le coſe viſibili ; e non dire : Amo ve dere il verde , che queſto è perchi patiſce di viſta ; e l'v dito fano , o l'odorato biſo gna , che ſieno pronti a tutte le coſe da vdirſi, e da odorar fi ; e lo ſtomaco ſano a tutte le cofe , che nudriſcono : pa rimente , come yna macina dee eſfer ammannita per tuta te le coſe da macinare , nell' ifteſſo modo la mente ſana dee effer difpoſta a tutti gli auuenimenti ; maquella , che dice : Sieno faluii figliolini , e tut ti lodino quello, che io farò ; fono occhio , che cerca il verde , o denti , che cercano il tenero. Niuno è talmente feli . ce , che qualcuno di quelli , che ſi truouano alla ſua morte O 6 non ſia per godere di qucl . cattivo accidente . Era egli di valore , era fauio ? non fa rà alla fine chi del medeſimo fra feſteffo dica ? reſpireremo pur una volta da queſto pedante , Non era faſtidioſo con alcuni di noi, ma io m'accorſi , che tacitamente ci riprendeua . E queſto d'vn huo mo di valore;main noi quan te altre coſe ci ſono , per le quali molti bramano liberarſi da noi ? queſto dunque confi dererai nel punto del morire ; e meno trauaglioſo ti riuſcirà diſcorrendo come ſegue. Da quella vita io parto , dalla quale quelli , che meco co municano , e per li quali ho trauagliato intante cofe , ho pregato , m'ho preſo tanti penſieri, quegl'iſteſſi deſide rano ich DO 100 Ilo son O le rano , che io me ne vada, fpe randone facilmente da que ſto qualche ſollieuo . Chi dunque non saccomoderà a non far più lunga dimora in queſte parti? Non partirai per ciò da quelli men verſo foro benigno; majconſeruando il proprio tenore , amoreuole , beneuolo , e propizio : e non come ſe foſli per forza ſtrap pato , ma come a quegli, che felicemente trapaſſa , facil mente l'animuccia ſi diſtacca dalcorpo , così biſogna , che fi faccia queſta ſeparazione. dalle coſe preſenti ; giacchè la natura con quelle ci vnì , e congiunte . Doue ora ti diſ giugne ? mi diſgiungo perciò, come da famigliari, non già con renitenza ,ma fpontanea mente ; poichè queſto anco rfi [ rà 12 y 0 0 ti ra è vna delle coſe conformi alla natura . 32 In tutti gli atti , che da ciaſcuno ſi fanno , cerca d'af fuefarti, per quanto c'è poſsi bile, di ricercar dentro di te: Il tale fa quefto , per qual ca gione ? comincia però da te medeſimo , e printieramente eſamina te fteſso . Ricordati , che , comequelle cordicine , che tirano i bambocci , non appaiono , così quello , che t'addolora , è dentro nafco fto . Quello è la perfuafiga , quello è la vita , quello , ſe conuiene cosi dirlo , è l'huo mo .Non fantaſticar dunque di quello , chea guiſa di vafo ti circonda, e di queſti inſtru mengucci , che attorno a te fono formati; poichè queſti ſono ſimili all'aſcia , folo in 1 1 ciò diffcrenti , che ſono con naturali . Mentre ſenza la ca gione , che gli muoue , e rat ticne , non è maggior l'vtile , che da queſti membri s'ha , di quello, che ne ha la teſli trice dalla fpola, gli ſcrittori dalla penna , e dalla fruſta i ! cocchicro. E proprietà dell'anima ragioneuole ſono , il ri mirare ſe ſteſſa, ſe ſteſſa minu tamente ricercare, fare fe fter ſa quale più a lei piace:il frut to,ch'ella produce lo produce a ſe ſteſſa ( giacchèi frutti del. le piante , e ſimilmente quelli degli animali , altri godono ) in qualunque luogo le ſoprau uenga il termine della vita , arriua ella al fuo proprio fine: non come ne i balli , e nelle rappreſentazioni, e in fimili coſe , nelle quali, ſe qualche impedimento s'intrapone,tut ta l'azione rimane imperfetta : ma ella in qualſiuoglia parte, e douunque s'interrompa ,ren de tutto quello che ſe le pro pone innanzi perfetto , e non biſognoſo di coſa alcuna; ſic chè può dire ; lo poſſiedo il mio . In oltre , traſcorre per tutto il Mondo , e per lo va cuo, ch'è intorno ad eſſo , e al la di lui figura : ella s'eſtende nell'infinità de'ſecoli , eleri generazioni di tutte le coſe , che a certi giri de' tempi ſi fanno , comprende, intende , e diuiſa , che niente più di nuouo ſono per vedere i po ſteri , e niente di più videro i . noftri aſtepaſſati: ma in certo modo chi haurà quaranta an ni, s'ha fior d'ingegno, haurà veduto tutte le coſe paffare , future , per la ſomiglianza tra effe. Di più è proprio del l'anima ragionevole amare il proſſimo, effer verace , mo deſta , e non iftimare niuna co . ſa più di ſe ſteſſa . Il che è proa prio ancor della legge . In queſta maniera tra laretta ra giòne , e tra la ragione del la giuſtizia non è differen za . 2 Sprezzerai il canto Infin gheuole , il faltare , e'l pan crazio , cioè l'eſercizio degli atleri : ſe tu ſpartirai la voce armoniofain ciaſcuno de'tuor ni, e in qualſiuoglia di quelli interroga te fteffo : Se da quel lo tu refti vinto ; perchè in ve ro te ne vergognerai . Nell' eſercizio del ſaltare farai l'i ſteſſo a proporzione, a cia ſcun moto, egefto; il medefi mointorno al pancrazio . In ſomma, in tutto quello , che e fuori della virtù , o da quel la non deriua , ricordati di traſcorrerlo a parte a parte; e con la diuiſione di quelle ver rai a vilipenderlo . E queſto l'hai da traſportare allvſodi tutta la vita 3 Quale è l'anima , che ſta pronta, fe già bifognaffe , a fcioglierſi dal corpo , o eſtin guerſi , o diſliparfi , o a rima nerui ? pronta , dico , ma che tal prontezza prouenga da vn particolare diſcernimento di mente ,non da vna nudacapar. bietà , comeè quella de'Chri ſtiani , mi conprudente diſ corſo , e maturità da poter ciò perfuadere ad altri ſenza tragica impreſione, 4 Operai qualche cofa ap partenente al comune ? Dun que n'ho ritratto dell'vtile . Queſto ſia fempre alla mano in ogni occorrenza,fenza mai traſcurarlo. Qual'è il tuome ſtiere ? l'eſſer buono ; ma que fto non ſi fa bene, ſe non per mezzo delle fpeculazioni, e maſſime, o intorno la natura . dell'vniucrfo , oltero intorno la propria conſtituzione della huomo. 5. Al principio furono in trodotte le Tragedie , per rammemotar agli huomini gli accidenti ; e che queſti così naturalmente, loro fogliono auuenire . E acciocchè quelle coſe , che ſu le ſcene vi ricre aſſero l'animo , non vi contri- , ftal ila NO jai 76 il Her e ftaffero nella ſcena maggio re , Perchè vedete eſſer così neceſſario che queſte coſe in cotal modo ſi terminino ; e così le comportano quelli, che eſclamano:Oh CitheroneE fi dicono alcune coſe vtil mente da quelli , che com pongono ii Drami , quale è particolarmente quella . Che di me cura , ne de’mieifigli uoli . Non ſi prendan gl'Iddi ragion il vuole E parimente Che con le coſe diſdegnar non lice . E Cheſi mieta la vita,come ſuole Matura spiga . 119 e altre coſe ſimili. Pure dopo la Tragedia fu introdotta l'antica Commedia hauente vna libertà di maeſtreuol 10 2 Blo cer li si 0 mente correggere , rammen tando non inutilmente col fuo retto parlare la modera zione del faſto ; al quale me defimo fine in qualche modo Diogene ſe ne valeua . Dopo queſta conſidera quale è la Commcdia mezzana ; e ap preſſo la nuoua , a che fine fu poſta in vſo , o come a poco a poco per l'arte , e applica zione dell'imitare ſubcntrò ; mentre ſi ſa, che anco da que TE fte fi dicono alcunecoſe gio fe ueuoli; ma l'vniuerſale inten to di tal forte di poeſia , o rappreſentazione mimica a qual ſegno hebbe la mira ? C 6 Come truouafi euidente non ci eſſer altro modo di vi PE vere tanto a propoſito per fi po loſofare di queſto, nel quale VE tu se'di preſente ? to ta 7 II zenu co TIE • H 0 - Mode 7 Il ramo non ſi può ſchian tare dal vicino ramo , ſe non fi diſtacca inſieme da tutta la pianta ; cosìyn huomo non ſi può difceuerare da vn altro huomo, ſe non ſi ſepara dalla comunione . Il ramo dunque Jo diuide vn altro , ma l'huo mo li ſegrega da per ſe ſteſſo dal proſſimo, con odiarlo , e renderſigli auuerſo. Però non ſi auuede , come dalla gene rale cittadinanza ha ſeparato ſe ſteſſo E nulladimeno quella è yn dono particolare di Gioue il quale ha conſtitui to queſta comunicazione . Concioffiecolache è lecito di nuouo ricongiugnerſi col proſſimo , e dinuouo incor porarſi colla perfezione dell' vniuerſo ; ma ſe ſimile ſepa razione fi fpeſſeggia , fi rende ľu più niC di le ds .81 tra tutduqunat più dificile il riunirſi , e'l tor nar a rallignarſi . In ſomma il ramo , che da principio ger minò con l'altro , e como conſpirando conſiſte , non é fimile a quello , che dopo il taglio vn altra volta è ſtato inneſtato . Il che pur dicono gliagricoltori . Biſogna effe re dell'iſteſſo germoglio , ma non dell'iſteſſa lembianza . 8 Quelli , che ad impedirti ti ſi frappongono , quando tu cammini conformealla retta ragione , ſi come non ti po - tranno trauolgere dalla fana operazione , così non t'han no da ritirare dalla buona vo lontà verſo di loro : ma cuſto diſci te ſteſſo egualmentenel I'vno , e nell'altro ; ne folo colcoſtante giudicio , ecol l'azione , ma col portarti per9 all anttö ting allaOr? allo tejla -1 man zumail coloro , che ſtudiano d'impe manſuetamente ancora verſo 1 tor ger COM 1100 opo il Stato , ma d . dirti dirri , o in altro modo ti mo leſtano Imperocchè così è da animo iinpotente lo sde gnarſi contro di quelli comeil tralaſciar di operare, e abbat cono i tuto arrenderſi. Perchè amen. effe due abbandonano il poſto , queſti intimorito , quegli alie nato dal congiunto , camico per natura , 9 Niuna natura è inferiore retta all'arte ; concio liecofache le arti imitano le nature . Sc pe Cana rò queſto è , la natura perfet tiffima tra tutte l'altre, e che il tutto abbraccia , non cederà Ao alla più atificioſa induſtria . Ora da tutte le arti in ordine alle coſe migliori ſi fanno le inferiori.Dunque anco dal la natura comune ; donde é , P che Jo tu ipo han vo nel ! olo 04 arti  ſo & 11 re M che da quella deriua la giu ſtizia , e da queſta poi tutte le virtù hanno la ſua ſufiften za . Perchè non ſi conferucrà il giuſto, fe o alle coſe di mez zo troppo attribuirem'o , o fa remo facili a prender errore , ead cſſer temcrarij , e muta bili . 10 Se non vengono a te le coſe , delle quali il proſegui mento , o la fuga ri perturba 110 , ma tu in certo inodo a quelle ti conduci , dunque il giudicio intorno ad eſſe s'ac quieri , e quelle rimanghino immote, e tu non ſarai vedu to , neappetirle , ne fuggirle. La sfera dell'anima è luminosa , quando ella non ſi eſtende fuori a qualche co fa , ne dentro ſi ritira , o fr conſtipa , ma riſplende con P d d . a 0 fc PE 9 mi ch ch quel a Giv tutti Tilter TUOTI Legii proccurerò di eſſer manſueto , quel lume, col quale ſcorge la verità di tutte le coſe , e quella , che è in lei medesima .Mi fprezzerà talvno ? ſe n'accorgerà cgli . Io mi guarderò bene , che niſſuno mi truoui o opcrare, o parla re coſa degna di diſprezzo Miodierà ? guardiſi egli. Io mez ot TOTE , MUT tele urb.2 do 1 quei rhino reche e di eſſer di buon volere verſo di ognuno , e con queſto me deſimo ancora pronto a farlo accorgere detfuo trauedere , non per modo di rinfacciare , o di far moſtra della mia fof. ferenza ; ma con ingenuità , e probità , nell'iſteſſo modo di quel Focione, ſe pure non fi mulaua. Perchè così biſogna, che ſieno le coſe interiori , e che l'huomo ſia veduto dag! P 2 Iddij irle 1.2 € 1101 CO 0 h C011 I iddij , così diſpoſto a non ri ceucre coſa alcuna con iſde . gno , con querele . Poſcia. chè di che danno è a te , ſe tu fteſſo fai al presére quello, che e proprio della tua natura ? non accetterai tu ciò , che ora è opportuno alla natura dell' vniucrlo , o huomo ordinato per far qucllo , che conferiſce al comune 13 Quelli , che l'vn l'altro fi difprezzano , l'un l'altro fi luſingano : e quelli , che cer cano diſoprauanzar l’yn l'al tro , l'vn all'altro ſi ſottomci tono. Quanto rancido , e non ſincero èil dire: Miſono propoſto di portarmi teco ſchiettamente. Che fai , o huomo ? non è di me ftiere far queſto prologo : apparirà da per ſe . Nella fronte iſtekla dce eſſere ſcrit ta la voce . Quello , che hai dentro , ſubito viene eſpref fo negli occhi , come nel lo ſguardo degli amanti il tutto fubitamente conoſce Pamato . Tale inſomma biſo gna , che ſia il fincero, e buo no , che ſappia vn poco di ca prino; acciocchè chi ſe gli ac coſta , nell'iſteſſo primo in contro voglia , o non voglia , al fiuto lo riconoſca . L'affet tazione della femplicità è vn ferro traditore . Niuna coſa è più brutta, che l'amicizia lu pina . Fuggila più di ogni al tra . Gli occhi del buono del ſemplice, del manfueto han no queſto chenicite in quel li ſi naſconde . 15 La facultà di vinere ot timamente è poſta nell’anima. Se pur le coſe indifferen ti le piglia indifferentemente : e le prenderà indifferente merte , ſe ciafcuna di quelle contemplerà ſeparatamente , e con riguardo al tutto ricor dandoſi , che niuna di quelle può formae in noi l'opinione di ſe ſteſſa , ne a noi venire : ma quelle ſtanno ferme,e noi fiamo quelli , che formiamo i giudici di quelle , come in noi dipignendole ; mentre è lecito laſciar di dipigaerle , è lecito ancora,ſe furtivamente s'infinuaffcr, o di ſubito ſcan cellarle. Che queſta attenzio ne ſarà per corto tempo , e appreffo terminerà la vita . E che difficultà ci è in ben pi gliar queſte coſe concioſie cofache ſe ſono ſecondo la naturai , habbile care , e ti 8 a I rega antes cate uck Ente; ca uelle vant 1 enoi moi ne if färanno facili; ſe ſono contro la natura , cerca quello , che ſia ſecondo la tua natura , e intorno a queſto ſtudiati , an corchè ſia ſenza gloria , eſſen đo da vſare indulgenza con chi cerca il proprio bene . 16. Conſidera donde ciaſcu na coſa è venuta , e di quali fubbietti ciaſcuna conſiſta , e in quali ſi muti , e mutandoſi quale ſarà , c come non ſog opere di giacerà a dannoniuno. E pri ma qualabitudine ſia in me verſo di quelli , eſſendo che ſiamo nati vno a prò dell'al tro ; e ſecondo vn altra 'ragio ne ſon fatto per preſedere a quelli , come ariete al greg : ge , o toro all'armento . Poida queſto paſſa a raziocinar più alto ', che ſe non è vn concor fo diatomi, è la natura , che: legi ente car Slicet ndo ed P4 il tutto regge; e ſe ciò è, l'infe. riori coſe ſono fatte per le mi gliori , e queſte l'vna per l'altra. Secondo offerua , quali ſie no nella menfa , quali nel letticciuolo , e in altri luo ghi, ma ſpezialmente quali neceſſità apportino loro i dog mi , che effi fi ſono profiſſi, e con quanta preſunzione met tino in opera quegl' ifteffi lo ro decreti. Per terzo . Se quelli retta mente queſte coſe operano , non è da diſpiacerci; ma fe non rettamente , chiara co fa è , che operano per for za , o per ignoranza ; perchè ogni anima dimala ſua voglia reſta priua come del vero ,co sì di comportarſi con ciaſcu no fecondo la ſua conucneuo lezza ; e perciò prendono a ma  , afe ml 12 fit re 110 cal 105 et FO male l'eſſer chiamati ingiuſti, ingrati,auari,e al tutto procli ui al peccarecótra de proſſimi. In quarto luogo . Che tu ancora fai di molti errori , e come yn aftro di loro pecchi; ſe da alcuni errori ti aſtieni , tuttauia hai l'abito di com mettergli , quantuinquc per cagione di tinore , o di glo ria , o d'altro ſimile vizio tu ti rattenghi da si fatti crrori . Per Quinto . Che manco hai ben penetrato , ſe errano: auuenendo molte volte , che lo fanno diſpenſatiuamente; c in ſomma è neceffario d'ap prendere molte coſe auanti di pronunciare aſſeuerante mente delle azionialtrui. Per feſto.Che quando fuor di miſura tir ti degni,o da im pazienzia fei prcfo ,fouuenga DI H ľ ¿ 2 P 5 tia 346 [ f fi ti , che la vita humana è mo montanea; e che tra poco tut ti ſtaremo diſteſi . Settimo. Che non ſono l'o perazioni loro ', che ci pertur bano ; imperocchè eſſe ſono nelle menti di quelli , ma ben sì i noſtri apprendimenti. Deponili dunque, e conten tati di laſciarne il giudicio , come di coſa a te graue ; e la collera farà ſùanita . Or bene in qual maniera li deporrò ? diſcorrendo ;che non té inter. venuto niente di diſdicevo le ; poichè ſe non foſſe fe nori quel ſolo ', ch'è diſdice uole ,male', néceſſario fareb be, che tu in molti modi pec cafſi , diuenendo ladro , e af fatro ſcelerato . Qttauo. Quanto fono coſe più graui quelle , che apport tano C t t C te al more f per le 30 tano per cagionc loro i cor rucci, e languſtie dell'animo, che non ſono le coſe i, quali ci contriftiamo, c adi riamocon quelli. Che la manſuetudine.è inuincibile, quando ſia fincera , e non affettata fimulata. Che ti farà vno per fouerchieuoliſſimo , che cgli fi fia: , ſe tu perfeueri d'eſſere con lui piaceuolc ? E , ſe così t'auueniffe, placidamente l'aer uertirai ' , e meglio l'inſegne rai' , attendendo a ciò quieta mente in quell'iſteſſo tempo ni che colui fi ftudia di fare a re il male , dicendogli tu :: Non figliuolo , noi ſiamoprodottiat altre coſe . Io non rimarrà l'offeſo , ma tu bon fi ,figliuolo ; e con de ſtrezza e fommariamente gli moſtrerai , che la cofa paf P 6 ſa cosi . E che ne le api ciò fanno , ne niuno di quegli animali , che per lor natu ra inſieme ſi congregano E però di biſogno , che ciò ſi faccia lontano dall'irriſione , o dall'improperio ; ma ami cheuolmente , e ſenza mor dergli l'animo , e non come nelle ſcuole , ne acciocchè altri, chepreſente ſia , faccia delle marauiglie , ma a ſolo a ſolo , quantunque alcuni altri vi ficno intorno . Queſti noue capitoli tiengli a mente , come doni a te fatti dalle Muſe: e yna volta, men. tre se'in vita , da principio ad eſſer huomo . Però biſogna guardarſi egualmente , come di non adirarti contro quelli, così di non adularli ; perchè l'vno , e l'altro ſono contro l'hu D. l'humana comunione , e tira no al danno . Ti ſia in pronto, mentre ti traſporta la collera, che non è da prode huomo l'adirarſi; ma la placidezza , e la manſuetudine , quanto più fono da huomo , tanto più hanno del maſchio ; poichè. queſti partecipa più della for tezza , e della neruoſità, e det vigore , ma non già chi è ſdegnofo , e diſamoreuole. Perché quanto più queſtoè proprio della tranquillità dell' animo , altrettanto è ancora del vigore. E come la triſtez za è de deboli , così è la col lera . Poſciachègli vni , e gli altri ſono feriti, e ſi arrendo no . E ſe ti piace, dal principe delle muse riccuiancora que ſto Decimo dono: Che è da furioſo il non volere j , che i cit 350 1 cattiui pecchino , concioffie colache in ciò fi pretenda l'impoſſibile .Ora il concede re, che verſo gli altri ſieno tali , e il volere , che contro di te non pecchino", è cofa da : huomo- ftolido , c.da tiranno. S'ha del continuo da of ſeruare', eſfer principalmente quattro i moti dell'anima . E quando tu li ſcoprirai , gli hai da ſcancellare; dicendo fra te ſteſſo ſopra ciaſcuno. Queſta immaginazione non è necef-. ſaria: Queſto diſcioglie la co -- munanza : Queſto non lo di rai di capo tuo ;perché il non dirlo da fenno, reputalo tra le coſe ſtrauagantiſſime : II quarto è , che tu a te ſteſſo rimprouererai queſto eſſere yn dare per vinta la portione più diuina , che in te è, e fot to و in te è , bench cometterla alla parte più i gnobile,e mortale del corpo, e alle ſuematcriali voluttà. Il tuo spiritello e tutto quello d'igncos che è in te miſchiato ,diſua natura tende 1 in alto' , nondimeno per ob bedire all'ordinanza dell'vni uerſo dentro del miſto ficon tiene . Ancora' , tutto quanto di terreſtre , e d'humido , che tuttauia refta ſollevato', e ſta non ſecondo il natural ſuo ſito. Così gli elementi ancora obbediſcono alle cofe vni verfali , quando , douunque fieno traſportati, reſtano per forza,finchè dinuouo lorven. ga fignificata la facultà di di fciorli . Dunque non è egli mal fatto che la ſola tua par ce intellettuale ſia dura all'obbedire, e che ſdegni la ſua re gione ? e pure non ſe le ordi na niente di violento , ma ſo lo quello , che é ſecondo la natura fua ; tuttauia non vi s'accomoda, ma corre al con trario . Concioffiecofache on gni commozione verſo l'in giuſtizie, le lafciuie , i ran cori, c i terrori non è altro che vna riuolta contro la natura . E quando la mente piglia mal volentieri qualche coſa di quelle , cheauuengono ,allo ra abbandona il ſuo poſto ; giacchè quella è fata diſpoſta all'equanimità , e pietà verſo gl’Iddij , non meno , che alla giuſtizia ; perchè queſte ſono d'yna tal forte , che tendono alla buona comunanza , e fo no più antiche delle iſtelle opere giuſte. A cui non è ſempre vno, e'l medeſimo fine della vira , non può eſſer vno, e'l medeſi mo per tutto il tempo della fua vita .Ma non baſta quefto, che s'è detto , ſe non aggiu gni à quello , quale dee effere queſto fine. Imperocchè co me non è ſimile l'apprendi mento di tutte le coſe, che in qualſiuoglia modoalli più pa iono buone, ma di quelle di vna tal forte , cioè di quelle, che ſon volte al comune, così anco il fine dee eſſere diretto alla vita comune , e ciuile . Perchè chi a queſto indirizza - tutti i proprij appetiti, rende rà vniformi tutte le azioni, ed egli in tal modo farà ſempre il medeſimo. Conſidera il topo nion tagnolo , el domeſtico , e la 4 Vand S vana paura , e fuga di queſto . Così l'opinioni del volgo chia. maua Socrate lamie , e spaventacchi de'putti. I Lacedemonij negli ſpettacoli poneuano i fora ſtieri ne ſedili all'ombra; effi ſedeuano doue a forte loro toccaua .. 22. Socrate riſpondendo a Perdicca , perchè non andaua da lui, diſfc ; Acciò io. non periſca di così infame morte ; mentre non po teſſi corriſpondere alla grazia , che riceueſji. Tra gli ſcrittide gli E feij taua vn auuertimento y che ſpeſſe volte ſi ricordaſſero di qualcheduno degli anti chi, i quali haueſſero eſſerci-. tato la virtù. I pitagorici ordinavano, che di mattino si riguardatſe: ili 8 po fe BE il Cielo ; acciocchè ſempre ci ricordaſſimo di quelli , che ſempre ſimilmente , e nell'i ſteifa maniera compiono l'o pere loro e dell'ordine, e del la purità , e difuelamento; im perocchè niun velo hanno le feller 25 Ti fouuenga quale cra Socrate cinto d'vna pelle , quando Santippe coperta del la di lui veſte vſcila fuori di caſa ; e' rammentati quello , che diffé Socrate alli compa. gni, che fi vergognauano , e ſi ritirauano , quando lo vidde ro in tal'abito : 26 Non far il maeſtro di fcriuere, e leggere ad altri, in nanzi che ſij ammacſtrato ciò è da oſſeruare molto più nella vita . Seruo tu Lei peròparlar non dei. Allora io di buon cuo re me ne riſto Rampognan la virtù con aſpri det ti . 27 E' da pazzo domandar i fichi l'imerno . Tale è chì quando non è più tempo d'ha: uerne , deſidera yn figlioli no . Epitteto ammoniua quc gli, che baciaua il figliolino , che diceſſe tra di fe: domanefor fi morrà . Sono parole di mal augurio coteſte ? Non è , di ceua cglig parlar di male au gurio vſar parole ſignificanti qualch' opera conforme alla natura : altrimente il mietere le ſpighe, ſarebbe yn cattivo augurio , L'vua è prima agre ſto , poi matura , e poi paſla. Ogni coſa foggiace a mu tarſi , non nel non eſſere , ma in quello , che di preſente non è. Detto è d'Epitetto , che Ninno è ladro della volonti . Vn arte , diſſe egli,s'ha da ritro uare d'aggiuſtar gli affenfi , e in materia degli appetiti biſo gna conſeruare l'attenzione , acciocchè ſieno con eccezio ne , e che s'indirizzino al be. ne comune, e ſecondo la con ueneuolezza e totalmente aſtenerſi dall' auide voglie e non iſchifare coſa alcuna , che non ſia in noſtro arbitrio. Non è dunque , diſſe egli , la conteſa intorno ad vna coſa ordinaria ; ma intorno all'ef fer pazzo , o ſauio . Diceua Socrate , che anime volete ha uere, de'ragioncuoli, o degl'ir. ragioncuoli de'ragioneuoli. Di quali ragioneuoli, de’lani, o de’deprauati ? de'fani . Per chè dunque non le cercate ? perché le habbiamo :dunque a'che contraſtate , e diſcor date ? Fine del Libro Vndecimo , CO b pa te fa fa PI all ace Vie LI 359 INO cercarei curse dike op. G là fta in tuo potere di poſſeder tutte quelle coſe , alle quali anſioſamente bramafti con aggiramenti di peruenire , ſe tu non inuidij a te ſteſſo : cioè a dire, ſe tu non farai più caſo di tutto il paf fato , e 1 futuro laſcerai alla pronuidenza,e'l preſente ſolo bu indirizzerai alla ſantità , e alla giuſtizia . Alla ſantità , acciò tu ami quello , che ti vien deſtinato ; concioffieco C1 facció 0 li fache la natura ha portato quello a te , comc te a quel to . Ma alla giuſtizia liberamente fuori d'auuilup pamenti tu dica parlando la verità, c operi ſecondo la leg fi ge , e la conueneuolezza . E non ti ſia d'impedimento ne l'altrui maluagità , ne l'opi nione , ne le ciarle , ne meno ti il ſenſo della carnuccia teco connutrita . Però , chi pati- re. ſce , cipenſi . Se tu dunque tú quando in qualſiuoglia tem po t'approſſimi all’yſcita, ab bandonando tutte l'altre co ſe , solo stimerai la tua mente, e quello che di divino è in te; e non temerai il cessar vna volta dal vivere, ma il non haper cominciato giammai a vivere secondo la natura , ſa rai huomo degno del Mondo, che le TOLE to mi che wani DI110 ne Oi 70 c0 ti chet ha generato , e nonſarai più foreſtiere nella patria , e non ti marauiglierai,come di coſe inopinate, di quelle, che alla giornata auuengono ,'e finiraidi rimaner ſoſpeſo per queſta, o per quell'altra co fa . 2 Iddio ſcorge tuttelemen. ti diſpogliate de’yaſi materia li , delle corteccie e lordu re. Poichè con la ſua ſola vir tù intellettuale attigne quel le coſe , che da eſſo ſcaturi rono , e deriuarono in queſte eofe materiali . Il che,ſe tu ti auuezzerai di fare , ti liberc rai da molti ſpafimi. Percioc chè chiriguardo non haalle carnucce chelo circondano,fi tratterrà forfi a badare al ve ſtito alla caſa , alla gloria, é a fimili abbigliamentie arredi? Tre ſono le coſe , delle qualitu fe conpofto, 'il cor picciololo fpiritello, vela mente . Di queſte le prime duefono cue , finche ta dilo To habbi cora. La terza fo la è propria rerire, tua . Setu fequeſtrerai da te , cioè dalla tua confiderazione in tutte quelle coſe che alla faccia no , o dicano , e quelle ,'che Tu hai-detto e fatro , e que te ,'che ,comefe falfero per auucnire, ti- boiterbhojne quelle ancora cheper lo cort picciuolo , che ti circondala per Minneſtæto " piritello tohi tro tua vogliati fuccedchos de quelle, che intenten einer hohen mente con vina contratttváre tiğine ſi rivolgonoi, fieche; rendendo la potenza santé fertuale efente delle cofejohe fono inſieme fatali, pura , eili ibera viuerà in fe fteſfa', ope rando : le cofe " giufte , te rice uendo volentieri gli auueni menti, e proferendo la veri tà : Se tu ſeparerai, dicdi, da quefta potenzaquefte. cofend elfæaderentiper graditimpa zia, edaltempo, quelleche hanno da auuenire appreffo.. pilepaffate, etiformerairale, qualeè la palla sfericadiem pedocle ; Chestutta titanda guide della-poluere, ch'attornojpelte rigiza, attenderai ſolo alviuere , the gu viui, cioè al preſente, e po tmisfio alla morte viuendo trapalaretuttoquello che ti reſta imperturbato gencroſa mente si emanſuetamente, fet condo il tuo genio. Speffo miſonimarauiglia TO :, come ciaſcuno più di tut Q :2 ti  ti ami ſe ſteſſo; e come non dimeno tenga in minor conto l'opinione propria intorno a ſe medeſimo , di quella degli altri. Se dunque Dio ſoprau uenendo , o vn macſtro pru dente , comandi ad alcuno , che nulla dentro dife penfi, o diſcorra , che ſubito l'ha conceputo, non lo palefi, non lo razterrebbe ne pure per vn giorno. Cosìpiù temiamo di quello , che i proſſimi giudi cano di noi, che di quello, che noi medeſimi giudichia mo. : 5 Come farà mai , cheha uendo ordinato il tutto gl'Id dij bene, e con carità verſo l'huomo , queſto folo habbia no traſcurato ,che alcuni degli huomini, e molto buonije che colla diuinità hāno tenuto co me  01 700 011 22 TU 101 olis ha On di me ſpeſſi commercij, e che ſouentemente per l'opere fan te , e ſacrificij ſi ſono reſi à quella famigliari, queſti, vna volta morti , non ſi facciano ritornare , ma rimangano del tutto eſtinti ? Queſto , ſe pu re così ſta , tu hai da ſapere , che fc altrimente biſognaſſe , che foffe ; l'haurebbero fat to . Concioffiecoſa che ſe era giuſto , era poſſibile, e ſe era ſecondo la natura , l'haureb be prodotto la natura . Dal non eſſer così , ſe così non è , tu ti hai da perſuadere non eſſere ſtato neceſſario , che al trimente fi faceſſe . Imperoc chè tu ſteſſo t'auuedi , che ciò ricercando , tu entri a con tendere in giudicio con Dio . Ma noi non diſcorreremmoco sì con gl’Iddij , ſe ottimi , e Q 3 giufillimi non foſſero . E ſe così è , nicnte ingiuſtamente hanno traſcurato , e irragio nevolmente negletto nellab Tellimento dell'vniuerſo .. 6 Afſucfatti ancora a quel le coſe , delle quali non bene ſperi.Imperocchè la mano fi miltia inabile per non eſſere aylata all'altre coſe , reggeil freno più fortemente , che la deſtra , e queſto perchè vi s'e ZUL Czzata. Penſa quale biſogna , che tú ti truoui,e del corpo,e del Panima, ſopraggiunto che fą rai dalla morte : la breuità della vita , la vaſtità de'ſecoli ayanti , e dopo , la debolez za d'ogoi materia . Content pla ſpogliate d'ognicorteccia le caufalità , le relazioni dold' opere ; che fią la fatica , che'l piacere , che la morte , chela gloria : chi ſia a ſe ſteſſo cagio ne deltrauaglio , e coine niu nofią impeditodaaltrise che ognicoſa lia opinione. & Nell'vſo delle tue maffime è neceffario , che tų fij, limi le non all'accoltellatore , ma al combattente maneſcamen . te con le pugną. Concioſſie cofache quegli, ſe pone giù la 1pada, della quale ſi ſerue, re fta vcciſo , ma queſti ſempre ha la mano , nę gli biſogna nient'altro , che ſerrarla . 9. Di queſta fatta s'hanno a riguardar le coſe , diuidendo ke in materia , forma , e rela zione Quanto potere hą l'huomo a non faraltro , faluo quello, che Dio ſia per gradi re , e riceuere tutto quello , che Dio gli diſtribuiſca , con Q 4 forme all'ordine della natu ra . To Non s'ha da querelarſi degl'Idij, mentre non ſono , nevolendo, ne non volendo, ſoggetti ad errori ; ne meno ſono da áccufare gli huomi ni ; perchè non peccano , fe non contra voglia , Diniuno dunque s'hanno da far querele. Quanto è ridicolo, e ftra niero chi s'ammira di qualſi uoglia coſa , che nella vita occorre! Oviè la neceſſità fatale e ordinazione inuiolabile , o prouuidenza piegheuole , o confuſione temeraria ſenza gouerno . Se è neceflità iné witabile , a che ti contraponi? ſe è prouvidenza che ammet tc eſſer piegata , fa degno te ſteffo del fuſſidio diuino : ſe è confuſione ſenza reggimen to , rallegrati , chein queſta tempefta tu medeſimo hai in te ſteſſo per gouernatrice qualche mente : e ſe la tem peſta t'aggira , fia traportata la carnuccia , lo ſpiritello , e l'altre coſe , ma la mente non farà traportata . Il lume della lucerna , finché fi ſpenga , 'ri luce sì , e non perde lo ſplen. dore : ma la verità , che è in te , e la giuſtizia, e la tempe ranza , anticipatamente s'e ſtingueranno? Dove l'immaginazione concepiſca , che vno ha peca cato , rifletterò donde ho,che queſto fia peccato , e ſe que gli peccò, ſe fi fia egli reſo reo per quell'atto ? perchè ciò ſa rebbe quali vn lacerarſi il proprio volto. Poſcia rifletti, che chì non vuole , che'l cattivo, pecchi; è da raſſomigliarſi ad VCO , che voglia , che l'arbo re de i fichi non produca il lattificio , e i bambini non piangano, ei cauallinon ani triſching, e altre coſe taliche feguono di neceſſità . Pero , che coſa ha da fare , hauen do contratto " va cotal mal abito ? Dunque , ſe ti ſenti da ciò , riſanalo. Se non conuiene , non do fare . Se non è vero , non lo dire, ma l'appetito dia fox , to dite per conſiderare il gut to che è quello , che fa im preſſione nella tua immaginas zione , e diſcutilo , diuidenz dolo nel formale , nel mate , riale nella relazione neltem po , dentro al quale quello ha da Vis petto ? forſe cupidigia a forfe da finiie. Riconoſci una vol ta , che in ce è vna coſa più eccellente , e più diuina di quelle , che te paffioni in te cagionano. E in ſomma,quan te cofefono ,che in qràge in la in guiſa d'un bamboccio con de cordicelle ti abburattano . Che’çoſà è ora il mio penfie rodforfe timore ? forfe for . cofa alia fimile : 15 Primieramente penfais che niente è a caso e niente, senza relazione . Secondaria mente chea niun altro fine , che a quello della focictà fi riduc. Che non molto dopo niūno in niun loco farai, ne pur cofa alcuna fari di tutte quelle , che orá vedi , ne al cuno di quello che ora : vi -91 I Qo NOuono ; conciofficcofache tut te le coſe ſono nate per mu tarſi , trasformarſi , e perire , acciò altre per ſucceſſione ſe guano. Ogni cosa è opinione,e queſta depende da te . Togli dunque, quando tu vuoi, l’opinione; e , come chi volge al ridoſſo d'vn promontorio trouerai ferenità ferma di tutte le coſe , e vn ſeno tran quillo . : -18 Vna , e qualſiuoglia fi fia operazione che a ſuo tem po finiſce , nonpariſce danno niuno , perchè finì ; ne l'ope rator di quella , per hauer finito, patiſce mal alcuno . In ſimil modo dunque il ſiſte ma, o fabbrica ditutte l'ope razioni, che è la vita , ſe in qualche tempo finiſce , non rice etut or me erine Quel one, Togh oila ageal torio ma Stra / di riceue alcun danno , percioca chè fini; ne quegli , che in tal tempo terminò queſta ſerie , fu malamente trattato . Il tempo , e'l termine fono dále la natura conſtituiti , talvolta dalla propria ,come nella vec chiaia; ma generalmente dal I'vniuerſale , le cui parti con tinuamente mutandoſi , reſta tutto il Mondo ſempre nouel . lo , e vigoroſo . Tutto ciò del continuo è buono , e oppor tuno , che all'yniuerfo.confe riſce . Dunque il finir del vi uere a chiunque tocchi , non è coſa cattiua , perchè non è vergognofa , come non de pende dal noſtro volere , ne contraria al comun bene del l'yniuerſo . Anzi è buono quando è opportuno , e con ferente all' vniucrſo , e con quel elial tem dan l'ope verf olfille 12 l'ope ſe i non . lo 1 quello è inheme portato Concioffiecofache è portato da Dio quegli , che fi perta vnitamente con Dio , e a quel le ifteffe cofe collintendimen to fi conduce. ! 19. Queſte tre coſe hanno da cflere fempre in pronto.. Primieramente in ciò , che tu fai, non fia niente inuano , ne altrimente fi facciay.che felis fefla giuſtizia haveſſe,opera to : ma nelle cofe , che anlı uengono di fuori , mentre quelle o fono procedurea ca fo , o fecondo la prouuidenza non s ' ha da querelarſidel ca fe , ne accufare la prouuiden za Secondariamente qual cofa faccia ciafcuro dal non effene , fino all'animazione , e dall'animazione , fino al ren dimento dell'anima, e da qua. li coſe da fatto l'adunamento, e in quali il diſcioglimentos Terzo come ſe ſoprad'yu’ers minenza follcuato tu rimiral G le coſe humane', e dopo ha. ụer compreſa, la lor gran va rietà inſiemeconoſcelli quan to ci ſia dell'abitato, e nel l'acre , e nell'etera , e çoine quante volte cu foffi cosi fol leuato , vedreſti le medeſime, l'iſteſſa ſpecie, la breue dura ta . Ed in queſte éla noſtra ſu perbia , 29. Gitta fuori l' opinio ne, ſarai ſaluo. Chi dunque e’impediſce il gittarla. Quando perqualche co ſa ti prendi diſguſto,ti ſe (cor dat , che ogni coſa li fa', le condo la natura yniuerſale , che quel peccato è d'altri. E oltre queſto , che tutto ciò , che pure , che ſi fa,cosìſempre's'è fatto, e li farà, e di preſente ſi fa per tutto: ancora , quanta è la co gnazione dell'huomo con l'o niuerſo human genere ; per chè non è la comunione del fanguccio, ò della poca ſe menza ; ma della mente . Ti fcordaſti che la mente di ciaſcheduno è Dio , e che da lui ſcaturì, non eſſendoui coſa alcuna propria di niuno , anzi il figliolino, e'l corpic ciuolo , e l'iſteſſo ſpiritello in di vennero . E ancora ti ſcor daſti, che ogni coſa è opinio ne, e parimente, che ciaſche duno il preſente ſolo viue, e che queſto ſolo ſi-perde. Del continuo riuolgi nell'animo quelli , che per qualche coſa li corrucciarono, e quelli, che in grandiſſime glorie , o calamità , o inimicia zie , o in alcuni altri auueni menti li ſegnalarono . Dopo medita , doue fono al preſente tut te queſte coſe?in fummosin cenc re, c fauole, e ne meno favole . Tiſouuenga di tutto queſto', cioè, come furono Fabio Catullino in Villa, e Lucio Lupo, e Stertinio a Baia, e Tiberio a Caprise à Velia Rutfo ; e in ſomma di chi ha fatto con l'apprenſione gran caſo di qualunque ſia cofa : ecome ſia di vil prezzo turto , che in tentamente appreſe , e finala mente quanto più foffe da Fi loſofo nella materia toccata gli, portarſi da giuſto , e da fa uio e da ossequioso schietta mente agl'iddii. Imperocchè la superbia, che sotto velo di umiltà si nasconde è la più l’intolerabile daograbra. Agudligiche dimanda nosperchè vonsrigť Iddij acat me turgli habbi vechutia e dom de tu habbi appreso, che vi freno Primieramente risponde, che sono visibili agl’occhi, e poi a benchè io, non abbia veduta la mia anima, tuttavia l'onoro. Così dunque è degl'iddii, la potenza de’ quali mentre ogni giorno io pruqyosda questo comprendo, che ci sono, e gli venero. La salvezza della vita consiste, che ciascuno riguar di che cosa sia il tutto, il materiale, il formal, che con tutto l'animo FACCIA IL GIUSTO, DICA IL VERO.  Che resta altro, che goder della vita , aggiugnendo un ben fatto all'altro, sicche ne pur si perda un brevissimo spazio di tempo? Il lume del Sole, è uno a benchè venga interrotto dal: o e pareti, dai monti , e da altre mille cose. Una è la sostanzia comune, ancorchè ſia di partita tra migliaia di corpi, qualificati dalle loro proprietà. Una è l'anima con tutto che si distribuisca a mille e mille nature con ſsngolari circonscrizioni. Una è l'anima all'intelligente, se bene apparisce, che si divida. L'altre parti dunque delle cose dette: s, com! me gli spiriti, ei subbietti; so no senza senso, ne famigliarmente si uniscono insieme. Questi nondimeno contiene LA MENTE UNIVERSALE e poi la propensione, che al congiugnere gli spinse. Ma l'intelletto propriamente propende all'istesso suo genere, è s’unisce, ne fi può fradicare l'affetto al ben comune. Che cerchi? Di campare? o'pur di sentire, d’appetire, di crescere, e poscia diterminare? Di valersi della voce di DISCORRERE con la mente? Qual cosa di queste ti pare degna d'essere desiderata Male que ste una ad una non sono da frezzare, portati alla conclusione d'ossequiare la ragione e gl’iddei. Ma li fa contro alla stima di queste cotrammaricar si di rimaner perla morte privo d'alcune di queste. Quanta parte dell'immensa e infinita durata a cia. founo é compartita? Poichè ben prestissimo si dilegua nell' eternità. Quanta parte di tutta la sostanzia? Quanta parte di tutta l'anima? In quanta zolletta di tutta la terra ferpendo tu vai? A tutte coteste cose applicando l'animo, non t'immaginare niente di grande o questo solo se tu operi come la tua natura ti conduce, e soffri come la natura universale portage comeliva. le di se stessa la parte tua reggitrice; polciachè in cio il tutto consiste. Tutte le altre cose, o sieno nel tuo arbitrib. no fuori di quello. Sono cadaveri, e fummo: om.svisli! Efficacissimo è il rifletterre, per eccitarci al disprezzo della morte, che quelli ancora, che stimano essere il bene nella voluttà, e'l male nel dolore, nondimeno quella disprezzarono. A chi quel so. Lo che è opportuno è bene je a chì tanto è l'aver molte azioni fatte. Secondo la ragione retta, quanto poche. Ie a chì non iinporta contemplare il mondo in maggiore, o minor spazio di tempo, nemanco la morte è terribile. O huomo sosti cittadino in que sta gran città che ti fa te per cinque anni mentre quello. Che è conforme alle leggi ad ognuno è dellistesso peso. Perchè dunque ti ègraine, se dalla città ti manda via non il tiranno, o un ingiusto giudice, ma da natura, che vi t'introdulfezlic come dalla see, na licenzialse vas comico il capo della truppai che l'han keva, condotto. Però tu dii, non vappresentaii i cinque atti, ma solo tre. Tu dibeneze a proposito mentre che nella vita anche tre atti compiono tutto il drama. Conciossieco fache quegli impone il termine, dove abbia da finire, che allora ordina l'adunamento, cora fa lo scioglimento, nel li quali tu non ci hai avuto parte. Vattene dunque placido. Poichè quegli che ti licenzia, è placido. Dal mio avolo, Vero, la gentilezza del costume, e il non adirarmi. Dalla fama e dalla memoria del  mio genitore, l’esser verecondo e  maschio. Dalla madre, l’esser pio, il donar volentieri, l’astenermi non solo  dal fare il male ma anche dal venirne in pensiero. [Ancora, l’esser  Sottintendi, come nei paragrafi seguenti,  il verbo ‘imparai’, ovvero ‘riconosco’, nel senso di iono riconoscente ili aver ricevuto chessia, cosa, o esempio di qualsivoglia cosa o virtù), o altra espressione che riempia  acconciamente le ellissi. ‘Maschio’: intendi forte costante, non molle ed effeminate], frugale nel vitto e alienissimo dall’usanze dei ricchi. Dal mio bisavolo il non essere andato alle pubbliche scuole, l’avere avuto di buoni maestri per casa e  il conoscere che in siffatte cose non  si vuol guardare alla spesa. Dal mio aio: il non essere stato nè di parte prasina nè di parte veneta, nè parmulario, nè scuta-    [Il bisavolo paterno di Antonino e Aunio Vero. Il bisavolo materno e Catilio Severo. Non è  chiaro di quale dei due si parli nel testo. Intendi: la scola elementare. Poiché ognun sa che Antonino frequenta assiduamente come ‘scolaro’ le varie ‘scuole’ dei fìlosofi a Roma. Non si conosce il nome dell’aio] [elio morendo lascia grande desiderio di sè in Antonino. Sono i colori che distingueno i due  grandi partiti degli aunghi del circo, che  non sono piccola parte nella storia delle follie dell’impero. Nunc favent panno, pannum amant,’ disse energicamente Plinio il  giovane, IX, 6. Lucio Vero, collega d’Antonino, la pensava altrimenti, secondo le  parole di Capitolino. Rio]. Il reggere alla fatica, l’aver bisogno di poco, il saper fare da me, il non intromettermi nelle faccende altrui e il non porger facilmente orecchio ai delatori. Da Diogneto imparai il non occuparmi d’inezie, il non dar fede a ciò che  i magi e i fattucchieri dicono intorno alle malie, allo scongiurare gli spiriti e altre cose di tal fatta, il non avere atteso a nutrir quaglie nè essermi dilettato di simili cose, il  patire ehe altri mi parli francamente.    [Parmularius e il gladiatore  armato di un piccolo scudo di cuoio detto ‘parma’ o parmula, e ‘scutarius’ quegli che porta lo ‘scutum’, grande e lungo. Questo Diogneto era non solamente filosofo, ma anche pittore, secondo Capitolino, ed avea dato intorno a quest' arte alcune  lezioni ad Antonino. Si allude ad un giuoco dei romani  aveano prego dai greci,. Si faceano combattere fra loro questi uccelli, o dai casi del combattimento si traevano presage]. L’ESSERMI DATO ALLA FILOSOFIA. L’avere udito primieramente Bacchio, poi Tandaride e Marciano. L’avere scritto dialoghi da ragazzo. L’ avere voluto il lettuccio con la pelle sopravi e le altre cose che vanno appresso nella educazione greca. Da Rustico: l’esser venuto in  pensiero che i miei costumi avean bisogno di correzione e di coltura. Il  non essermi sviato dietro ad un’ambizione di sofista, o scrivendo su materie speculative, o declamando orazioncelle esortatorie, o facendo, per dar nell’occhio altrui, 1’uomo austero e benefico e l’avere abbandonato la rettorica e la poetica e il bel favellare, e il non passeggiare togato per casa e altre tali cose e lo scriver le lettere semplicemente [Era uno stoico come quell’altro romano fatto uccidere da Domiziano per aver  lodato Trasea Peto] e naturalmente, come quella ch’egli scrisse da la citta di Sinuessa a mia madre, e il non serbar rancore verso le persone che si son, meco adirate e m’ hanno offeso e rappacificarmi volentieri con loro tosto eh’ elle si voglion ricredere, e e il leggere con attenzione e non contentarmi di capire così air ingrosso, nè assentire troppo di leggieri a quel che i circostanti dicono, e lo avere avuto contezza  dei ‘Ricordi’ d’Epitteto che Rustico mi dona di suo proprio moto. Da Apollonio: la libertà dell’animo e la fermezza nel proposito senza dar mai nulla al caso, il non  guardare ad altro mai, nè anche per poco, che alla ragione, l’esser sempre uguale, nei sommi dolori, nella perdita del figlio, nelle lunghe malattie, l’aver veduto ad evidenza nel vivo esempio di lui siccome può  la stessa persona essere gagliardissima ad un’ ora e rimessa e il non impazientarsi nello spiegare e l’aver conosciuto un uomo che manifestamente tene pel minimo de’ suoi  pregi la pratica e la facilità ch’egli ha del comunicare altrui la scienza, e l’avere imparato come convenga liceverc fivelli che il volgo chiama benefizi dagli amici, senza  diventai, e loro divoto per ciò nè per altra parte, lasciando correre la  ('osa senza saperne grado. Da Sesto: l’amorevolezza e l’esempio del governare da buon padre una casa e il concetto di vivere “secondo natura” e la gravità non affettata, e l’indagare con sollecitudine quello di die gli amici  hanno uopo, e il sopportare gl’ignoranti e il sapersi adattare a  Nello spiegare. [Intendi: nel dare altrui  tutte le spiegazioni di die possa aver d’nopo per ben capire le cose]. [Intendi: senza diventar loro obbligato in modo che nìccia alla Ina libertà]  tutti per modo ch’il CONVERSARE con esso lui era più dolce cosa che l’adulare di chicchessia ed e egli nondimeno in quello stesso punto ed  appo quelle stesse persone in venerazione grandissima, e la chiarezza  di mente e la sagacità con cui trovava ed ordinava le verità filosofiche necessarie alla vita, e il non aver dato mai indizio di collera nè d’altra passione, ma essere stato ad un’ ora il più impassibile uomo ed il più tenero, e il dir volentieri liene d’altrui, senza menar remore per ciò, e la molta dottrina senza  che paresse.  Da Alessandro: il non isgridare e il non riprendere ingiuriosamente chi faccia un barbarismo o un solecismo o un cattivo accozzamento di suoni, parlando; ma  profferire destramente ciò che quegl’avrebbe dovuto dire, per modo di risposta, o di conferma, o come volendo esaminar con esso la cosa, non già la parola, o per qualsivoglia *altro modo di suggerimento indiretto* [IMPLICATURA], garbatamente. Da Frontone: quanta invidia, quanta malizia, quanta simulazione, sia nella tirannide. E siccome questi da noi chiamati ‘patrizi’ son cattivi padri anzi che no. Da Alessandro, il platonico: il non dir sovente nè senza necessità a nessuno, nè scriver per lettera, ch’io sono occupato, nè contrarre r abito di disimpegnarmi in  tal modo dei doveri verso le persone con le quali io vivo, allegando per iscusa le faccende. Da Catulo: il non tener poco conto delle doglianze di un amico, quand’ anche si dolga fuor di ragione. [Secondo Filostrato e un segretario di  Antonino]. [Cinna Catulo, filosofo stoico, menzionato da Capitolino] ma anzi sforzarmi di ricondurlo alle  maniere di prima, e il parlar bene e volonterosamente dei maestri, come si narra di Domizio e di Atenodoto, e l’amar i figli con vero affetto. Dal mio fratello, Severo, l’affezione ai dimestici, l’amor del vero e del giusto, l’avere, per mezzo  di lui, avuto contezza di Trasea, d’Elvidio, di Catone Uticense, di Dione, di Marco Bruto, ed essere venuto in pensiero di un reggimento civile dove la legge sia una per tutti e pari i [Neppure l’eruditissimo e diligentissimo  Qataker potè chiarire chi fosse questo Severo che Antonino chiama fratello. A tutto quello che ci è dimestico] [Una delle più illustri vittime della crudeltà di Nerone] [Genero di Trasea, esiliato da Nerone]. [L'illustre stoico Catone Uticense] [L' amico di Platone, l’avversario di Dionigi tiranno di Siracusa, la cui vita fu scritta da Plutarco] [Marco Bruto, la cui vita fu pure scritta da Plutarco] diritti di ciascheduno, e di un governo regio che sovra ad ogni altra cosa tenga conto della libertà dei governati. Ancora quel suo tenor costante ed uniforme nel culto della filosofia e la beneficenza e il far  parte altrui volentieri e senza rispar-  mio delle proprie sostanze; e lo sperar bene; e l’aver fede nell’amicizia degli amici e quel suo non infìngersi con le persone quando disapprova alcuna cosa in loro; e il  non aver mai avuto bisogno gl’amici di lui di andare indovinando che cosa egli volesse o non volesse, sendo l’animo di lui sempre aperto. Da Claudio Màssimo: il contener sè medesimo, e non lasciarsi andare in nulla malgrado suo, l’esser di buon  animo nelle malattie e negli altri casi avversi e quella temperatezza  di costume, soave ad un tempo e  [Clandio Massimo filosofo stoico] dignitoso e l’eseguir prontamente senza querimonia qualunque cosa gli accadesse di dover fare e la credenza che tutti avevano di lui, ch’egli  pensas tutto che dicee fa a  lìn di bene tutto che fa; e il non istupir di nulla, non isgomentarsi di nulla, non esser mai nè frettoloso nò tardo, nè imbarazzato, nè sfiduciato, nè infingardo, nè ripentito del consiglio preso, nè sospettoso e il  beneficare e il perdonar volentieri, e l’esser veritiero e il parer  piuttosto uomo per natura incontaminato che non per arte emendato e siccome nessuno fu mai che o si credesse dispregiato da lui, o ardisse riputar sè migliore di lui; e quel suo piacevoleggiare a proposito. Da mio padre adottivo: l’imperatore Antonino Pio]: l’esser bonario, e irremovibilmente fermo nondimeno nei partiti pi'esi dopo accurata disamina, il non trar vanità da  quelli che il volgo chiama onori, l’amore al lavoro e l’assiduita; il  dare ascolto a chiunque avesse da  proporre qualche cosa di utile al comune; il non lasciare che nessuna considerazione lo distornasse dal retribuire a ciascuno secondo il merito, il conoscere dove bisognasse esser rigido e dove indulgente, L’AVER POSTO FINE AGL’AMORI DE’ RAGAZZI e il  sentire modestamente di sè e volere stare ad uno stesso ragguaglio con gl’altri, il permettere agli amici di non cenar punto con lui, e di non accompagnarlo nei viaggi, e lo accoglier con gli stessi modi di prima chi per qualche sua bisogna non lo avea potuto seguire; e la diligenza e la persistenza con che esamina le cose  nei consigli, non come quell’altro di cui è stato detto che tòsto lascia la deliberazione contentandosi dei primi pensieri che gli furon venuti, e il conservar gli amici, non recandosi a fastidio nessuno, nè incapricciandosi di nessuno; e il sopperire  a sè stesso, sempre; e la serenità del volto; e l’antivederei da lontano e pral ovvedere senza scliifiltà anche alle rnenome cose e l’aver dato bando alle acclamazioni e alle adulazioni d’ogni genere e il tenere allestito  sempre quanto era necessario per le  occorrenze dello stato, moderando le spese e sopportando di buon animo  la taccia che alcuni gli davano per ciò, e l’essere alieno e dalla superstizione verso gli dei e dalla piagenteria verso gli uomini, non curandosi di acquistar grazia appo il  popolo o con le larghezze, o con le1 Luogo intricato. Nota due modi condannevoli e vani: di  acquistar grazia appo gli Dei, con pratiche  superstiziose; appo gli nomini, con l’andar loro a genio e secondarli anche a costo del  dovere lusinglie, o con lo imitare i modi  di quello] ma sobrio in ogni cosa e saldo, e non mai altro che dilicato e gentile e osservatore della convenienza e del costume stabilito, 0 il servirsi seifza boria e senza scrupolo di tutte quelle cose che conferiscono agli agi della vita, delle quali la fortuna è larga a’ suoi pari, per modo che delle presenti ei si giova senza farne casa e le assenti non desidera; e siccome nessuno  avria mai detto di lui ch’egli fosse un sofista o un dileggino o un pedante, ma sibbene un uom maturo,  perfetto, nemico dell’adulazione, capace a governar sè medesimo ed altri. Eri inoltre quel suo onorare i filosofi veri e non fare scherno de’ falsi, non lasciandosi nulla dimeno facilmente ingannare da loro  e il conversare sciolto, e quella sua grazia Come tanti imperatori die It) avevano  preceduto. che non ristuccava; e il tener cura  del proprio corpo, non tanta da parer tenero deliavita, o damerino, nè tanto poca da parere trascurato, ma quanta  basta per non avere quasi punto bisogno di medicine o simili cose. E sovratutto quel suo cedere senza invidia a chi avesse acquistato abilità in qualche cosa, come nell’eloquenza o nella conoscenza delle leggi e dei costumi de’ popoli, e altro di cotal fatta e lo adoprarsi insieme con essi  perchè ottenessero fama, ciascuno nell’arte in che primeggia e quel  suo fare ogni cosa secondo gl’institnti d’ maggiori, senza dare a divedere che avesse nessuno intento particolare, nè anche quello di volere conservare essi institnti. Ancora il  non esser nè randagio nè avventato, ma continuar volentieri a star nel medesimo luogo e ad occuparsi delle  medesime cose; e dopo passati gli  accessi del dolor di capo, ritornar   iU^teu Aurelio. fresco e vigoroso ai lavori solidi; e il non aver di molti segreti, ma anzi pochissimi, e di rado, e solamente  nelle cose di stato; e la prudenza e la misuratezza nel dare spettacoli, nell’ intraprendere opere pubbliche, nel far distribuzioni ai soldati, e simili cose; siccome uomo che riguardava a quello che conveniva fare, e non alla fama che gli sarebbe venuta dalle cose fatte. Non al bagno fuor d’ora, non la smania del fabbricare, non ricercatezza nel cibo o nella tessitura de’ panni o tintura, o nell’appariscenza de’ servi. La toga dalla villa inferiore e da quelle di  Lanuvio il più sovente; i modi che tenne col pubblicano in Tusculo, che supplica; e altre sue simili maniere. Nulla di men che umano, nulla d’ immisericorde, nulla di violento, nè, come direbbe taluno, siìw al su-   dove; tutte le cose di lui, pensate, distintamente avvertite, con pacatezza, con ordine, con vigore, e d’accordo le une con le altre, come se  le avesse premeditate per ozio. Ed  a lui si potrebbe applicare ciò che VIEN DETTO DI SOCRATE, che egli poteva e astenersi e godere colà dove a gran parte degli uomini manca la forza per 1’uno e la temperanza per l’altro. E il saper reggere con fortezza e con sobrietà ad ambedue non  appartiene se non a colui che ha  l’animo sano ed invitto, quale egli il dimostrò nella malattia di Massimo. Dagli dei: l’avere avuto buoni  avoli, buoni genitori, buona sorella,  buoni maestri, domestici, congiunti, amici, tutti, a un dipresso, buoni. E il non avere offeso mai nessun di loro, benché talmente disposto di 1 Claudio Massimo menzionato] natura, che io l’avrei fatto forse, ove fosse venuto il caso: ma per  bontà degli dei non incontra mai tal concorso di cose che mi ponesse a  repentaglio. Il non essere statò più lungamente allevato appresso la concubina del mio avolo; l’avere serbato nel fior degli anni la purezza del costume e non aver dato saggio di età virile prima del tempo, anzi avere soprastato anche più in là, l’essere  stato sottoposto ad un principe e padre il quale doveva sgombrar da me ogni sorta di boria e farmica pace come egli si può vivere in corte  e non aver bisogno nè di guardie nè di vesti screziate nè di fiaccole nè di statue, come s’usa, nè d’altre  simili pompe; ma anzi, che egli v’ha un modo di ristrignersi quasi alla  ondizione di private e non perder  nulla però nè della dignità nè del nerbo necessario al trattar le cose dello stato, l’essermi tocco in sorte il fratello ch’io ho il quale se è  d’incitamento a me co’ suoi costumi, ad invigilare sui miei, mi consola  nondimeno e mi rallegra con la riverenza e con l’amore ch’egli mi  porta, l’avere avuto figli nè ottusi d’ ingegno nè contraffatti di corpo, il non aver fatto maggiori progressi  nella rettorica nè nella poetica nè  nelle altre arti, dove sarei forse rimasto allacciato s’ io mi fossi accorto ch’io vi riusciva, l’eessermi sbrigato di costituire in dignità i miei educatori, come parve a me ch’essi  bramassero e non avere indugiato con  la speranza del potere far cotesto di poi, sendo essi ancor giovani, l’avere conosciuto Apollonio, Rustico, Massimo. Lo aver concepito chiaramente e più volte qual sia la vita  [Lucio Vero fratello per adozione, uomo  in vero viziosissimo, più assai, probabilmente, che non fosse noto ad Antonino; ma devotissimo e affezionatissimo a Ini] secondo natura: s'i che per gli dei non manca, nè per aiuti e suggerimenti ed ispirazioni loro, ch’io non  vivessi a quel modo; manca bensì  por me, il quale non osservai gli  avvisi e, sto per dire, gli insegnamenti che essi mi dano, l’aver potuto reggere della persona durante cotanto tempo in cotal vita. Il non  aver avuto a fare ne con Benedetta  nè con TEODOTO e che di poi, CADUTO novamente nella PASSION D’AMORE passion d’amore, io abbia potuto guarirne. Che, essendomi adirato più volte con Rustico,  io non abbia fatto nulla di che avessi  poi a pentirmi; che, dovendo mia  madre morir giovane, abbia nondimeno vissuto con me gli ultimi suoi anni; e che, ogni volta eh io volli soccorrere alcuno, o povero o  altrimenti bisognoso, non mi fu mai  detto ch’io non avessi danari per  farlo e il non essermi trovato mai  io medesimo in simigliante occorrenza, da dovere aver ricorso ad altri, l’avere la moglie ch’io ho, così docile, così amorevole, così alla buona; il non essermi mancato acconci educatori pe’ miei figli, l’essermi stati dati rimedi in sogno, e, fra gli altri, contro lo sputo di sangue e contro le vertigini, e il non  essere caduto nelle mani di un qualche sofista, quando io venni in desiderio della filosofia, nè essermi posto a far lo scrittore, o a risolver sillogismi, o a speculare sui fenomeni del  cielo. Le quali cose tutte richiedono  l’aiuta degli dei e della fortuna.  Fra i Quadi,  ulle sponde del Or amia. A FauRtiiia non dovè esser diffìcile il celare coir astuzia o colla fìnta tenerezza! [Suoi pessimi portamenti ad un nomo di sì  poco sospettosa natura qual era Antonino, massime verso dii mostravagli affeziono]. Al mattino, fa’ che tu dica a te stesso. Avrò da fare con un curioso, con un ingrato, con un soperchiatore, con un furbo, con un invidioso, con un insociale. Tutti questi difetti han per causa la ignoranza dei beni  e dei mali. Ma io, il quale conosco la natura del bene, e so ch’egli è l’onesto; e quella del male, e so  cb’egli è l’inonesto; e quella di lui  medesimo che pecca, e so ch’egli è  mio congiunto; non perch’egli sia d’ uno stesso sangue o d’uno stesso seme con me, ma perchè partecipa  «r una stessa mente e d’ una stessa  origine divina. Io non posso ricever danno da nessun di loro. Giacché  nessuno mi farà incappar mai nell’inonesto malgrado mio; nè adirarmi posso col mio congiunto, nè diventargli inimico; perchè NOI SIAM NATI PER COOPERARE L’UN COLL’ALTRO, siccome i piedi, siccome le mani, siccome le palpebre, siccome i denti di sopra e i denti di sotto. E però l’andare a ritroso l’ un dell’altro è cosa contro natura, ed è uno andare a ritroso lo adirarsi l’un coll’altro e l’aversi in dispetto. Questo checchessia, che io mi sono, è un composto di carni, di fiato, e della parte sovrana. Lascia  stare i libri; non travagliartene più;  non ne hai più il tempo. Ma, come quegli che sei presso a morire, metti le carni in non cale; elle non sono  altro che sangue, ossicini, e una rezza, per così dire, di nervi, di vene  [La parte sovrana, cioè la ragione o la  mente e d’arterie. Vedi anche il fiato che  cos’è: imvento; e non sempre il  medesimo, ma di continuo rigettato  e rinnovellato. Rimane la parte sovrana. A questa hai da badare. Tu sei vecchio. Non lasciare che ella serva più oltre. Non lasciare che ella sia tirata più oltre, quasi fantoccino, da appetizioni insociali; non lasciare  che ella contraddica più oltre al destino, 0 crucciandosi delle cose presenti o respignendo da sè le cose  avvenire. Le opere degli dei sono ripiene di  provvidenza. Le opere della fortuna  non sono infuori della natura, cioè  di quella coordinazione e connessione di cause cui la provvidenza  governa. Tutto scaturisce di là. Aggiugni che quanto è, di necessità è, ed è utile all’ universo di che tu sei parte. Ora, ad ogni parte della natura è buono ciò che porta la natura comune e che è sostentativo di quella. E sostentano il mondo, siccome  le mutazioni degli elementi, cosi ancora le mutazioni dei composti di essi  elementi. Queste cose ti bastino, queste sieno sempre mai le tue ferme credenze. E caccia via quella tua sete di libri, affinchè tu non muoia morando, ma sereno e ringraziando gli dei sinceramente e di cuore. Ricordati da quanto tempo tu vai differendo queste cose, e quante volte, avendo ricevuto opportunità  dagli dei, non te ne sei valuto. E convien pure che tu riconosca una  volta di qual mondo fai parte e da quale reggitor del mondo sei emanato; e siccome un tempo ti è prefìsso, del quale se tu non fai uso per  acquistare la tranquillità dell’ animo, egli passerà, e tu passerai, e non sarà  più. per ritornare. Sii sempre INTENTO AD OPERAR GAGLIARDAMENTE DA ROMANO E DA MASCHIO QUAL SEI, quel che hai por le mani, con serietà diligente e non punto affettata, con amorevolezza, con libertà, con integrità; e sgom-bra l’animo tuo da ogni altra cui*a. Lo sgombrerai, se farai ciascuna tua azione come se fosse l’ultima della tua vita, scevra affatto di leggerezza, e di avversione appassionata ai consigli della ragione, e di doppiezza, e di amor proprio, e di scontentezza  per le cose condestinate ab eterno con te. Vedi quanto poco ci vuole perchè altri possa vivere una vita  avventurosa e accetta agli dei! Chè  di fatti gli dei non richiederanno  nulla più da chi osserva cotesto. Disonorati su, disonorati, o anima; d’onorarti poi, non ti rimarrà  più tempo. Perchè tanto di bene ha ciascheduno, quanto la sua vita glie  ne arreca; e tu hai pressoché consumato la tua, non già rispettando. Con/’ala/ia, disse CICERONE usando anch’egli una voce ignota sinallora ai latini. 2t)   te medesima, ma riponendo nelle  anime altrui la tua felicità. Se’ tu svagato dalle impressioni  del di fuori? Concedi agio a te stesso  di imparare alcun che di buono, o cessa dall’errare qua e là. Ornai anche hai da guardarti da un  secondo svagamento. Perchè vaneggiano anche con le azioni gli uomini  stanchi della vita e non aventi uno scopo a cui dirigano ogni loro sforzo  ed ogni lor pensiero qualunque. Per non avere avvertito ciò che  succede nell’anima d’un altro, di  rado l’uomo fu mai veduto infelice, ma chi non avverte i moti dell’ anima  propria, è infelice di necessità. Queste ione conviene avere a  mente sempre. Quale è la natura dell’universo e quale la mia. Qual relazione ha questa con quella. Qual parte è del tutto e di qual tutto. E come nessuno può impedirti dal far sempre E DIRE ciò che è consentaneo alla natura di che sei parte.  Filosoficamente Teofrasto, nel  paragone ch’ei fa dei peccati, secondo che volgarmente si suole,  afferrna esser più gravi le colpe che  si commettono PER CONCUPISCENZA  che  non quelle che si commettono PER IRA. Imperocché non senza un certo dolore e raggricchiamento segreto  deir animo mostra l’uomo adirato ch’egli si torca dalla ragione; laddove CHI PECCA PER CONCUSPISCENZA, VINTO DAL PIACERE, sembra, in un certo modo, più intemperante e più EFFEMINTATO nel fallo. Rettamente adunque e con molta filosofia dice egl’essere maggiore la colpa di chi PECCA CON PIACERE che non di chi pecca con  dolore. Ed infine,’ uno rassomiglia  piuttosto a persona ingiustamente  [volgarmeutu: detto por opposiziono al dettato stoico, essere i peccati uguali. olTesa, che il dolore abbia sforzato a  sdegnarsi. Ma l’altro si muove spontaneo e da per sè all’ingiustizia, recandosi PER CONCUPISCENZA  a far checchessia. Convien pensare ed operare  ogni cosa come se tu dovessi uscir di vita in quell’ ora. Uscir di vita, se ci sono gli Dei, non è punto cosa tremenda. Da che non è possibile ch’essi ti vogliano fare incappar nel male e se non ci sono, o se non  curano le cose umane, a che vivere  in un mondo orbo di provvidenza e d’Iddei? Ma e ci sono gl’iddei, e si  piglian cura dell’uomo; e perch’egli  non inciampasse nei mali veri, posero in arbitrio di lui la cosa; dei  rimanenti se alcun fosse male, a  quello ancora avrian provveduto, sì  che potesse ognuno guardarsene. Ma  quello che non fa peggiore l’uomo,  come farebbe peggiore la vita dell’uomo? Oltre che la natura dell’ universo non saria stata mai trascurata A TAL SEGNO non, perdi ella non sapesse; non, perchè sapendo non potesse); non saria mai, dico, nè per  impotenza nè per disavvedutezza incorsa in tanto errore da lasciare che  i beni e i mali toccassero del pari  e senza differenza nessuna ai buoni  ed ai tristi. E pur noi veggiamo che  la morte e la vita, la gloria e l’infamia, il dolore e il piacere, le ricchezze o la povertà, cose tutte che  non sono nè oneste nè inoneste, toccano senza differenza ai tristi ed ai  buoni. Adunque, nè benf olle sono  nè mali. Come tosto svanisce e va a per-  dersi ogni cosa, nel vortice del mon-  do i corpi, e nello avvicendarsi del  tempo la memoria di quelli! quali  sono tutte le cose sensibili, e mas-  simamente quelle clic adescano col  piacere o atterriscono col dolore o  sono dalla vanità degli uomini celebrate! quanto son vili, dispregevoli,  sucide, corrottibili, morte! questo è  . da considerare per una facoltà intel-  lettiva: che cosa son coloro le opi-  nioni dei quali e le voci distribui-  scono la fama ; che cosa è il morire ;  e siccome, chi lo considera solo da  per sè, separandolo con la mente da  tutto ciò che la fantasia v’ ha aggiunto, non se ne fa più concetto se  non come di operazione della natura :  ora il temere un’ operazione della na-  tura è cosa da fanciullo. E questa  non solo è operazione della natura,  ma operazione utile a quella. In  che maniera 1’ uomo comunica con  Dio, e per qual parte di sè; e come  disposta debb’ essere allora questa  parte dell’ uomo. Non v’ ha misero al pari di  colui che va esplorando in giro ogni  cosa, come disse quell’ altro, anche  le cose di sotterra, e vuol penetrare,  per via di congetture, ciò che sta nell’ animo del vicino, senza accor-  gersi che gli basterebbe pure tenersi  accanto al genio che è in- lui, e servir quello di cuore. Servire il genio  che è in noi,' vuol dire mantenerlo  netto di passione, di operar teme-  rario, e di scontentezza per cosa che  venga dagli Dei o dagli uomini. Per-  chè quel che viene dagli Dei è ve-  nerabile, per la virtù eh’ è in loro :  quel che vien dagli uomini è ami-  chevole, per la parentela che abbiam  con loro; e talvolta anche compas- 1  sionevole per l’ ignoranza in che '  sono de’ beni e dei mali ; cecità non  minore di quella che impedisce di  scernere il bianco dal nero.  Quand’ anche tu avessi a vivere  tre migliaia d’ anni ed altrettante  diecine di migliaia, sovvengati non-  dimeno che r uomo non perde altra  vita che quella eh’ egli vive, nè vive    ' Inteudi la ragione.   altra vita che quella ch’egli perde.  Ad uno stesso fine adunque riescono  e la più lunga vita e la più breve.  Perchè il presente è uguale per tutti,  se bene non è uguale lo spazio di  vita insino allora trascorso; e così  appare che il tempo che l’ uom perde  è un momento indivisibile. Nè il pas-  sato di fatti nè il futuro non può  perdere egli mai; come perdere ciò  che non ha ? Di questi due punti  adunque ti hai da ricordare; l’uno,  che il mondo va eternalmente sem-  pre ad un modo, ravvolgendosi come  in un cerchio, e che non v’ ha dif-  ferenza dal vedere le stesse cose per  cento anni al vederle per dugehto o  per la infinità dei secoli; l’ altro, che  ugual vita perde e chi muor decrepito  e chi muore'per tempissimo ; perchè  il presente è la sola vita che venga  lor tolta, essendo la sola che ciascun  d’ essi abbia, e nessuno non potendo  perdere quel che non ha. Siccome tutto è opinione. È noto il detto di Monimo il cinico. E  nota anche V utilità di quello, chi ne  colga il midollo per insino ai confini  del vero. L’anima umana fa onta a sè  stessa, primieramente quando ella ;  diventa, per quanto sta in lei, come  chi dicesse un apostema o tumore  del mondo, ritraendosi da quello co-  me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un accidente  qualunque è un ritrarsi dalla natura  univei-sale, dentro alla quale son  contenute, siccome parti di quella,  tutte le nature degli altri. In secondo  luogo, quando ha avversione a un  [Diceva che] [Ogni nostra opinione è fumo e boria. “Apostema” in greco vuol dire ad un tempo  ed apostema e ritiramento. È solenne agli  stoici il torre esempi, nelle cose morali,  dalla natura fisica, siccome quella in cui è  contenuta, secondo loro, ancho la natura  morale. qualche uomo, od anche se gli volge  contro per nuocergli, come le anime  degli adirati. In terzo luogo ella fa  onta a sè stessa quando si lascia vin-  cere dal piacere o dal dolore. Quarto,  quando ella s’ infinge ed opera o  parla con simulazione e contro la  verità. Quinto, quando ella non in-  dirizza a nessuno scopo una qualche  sua azione o una qualche sua deter-  minazione di volontà, ma opera a  caso e senza sapere che cosa si fac-  cia; laddove nè anche le minime cose  non (iovrian farsi mai se non con rela-  zione al fine. E il fine degli animali ra-  gionevoli è il conformai'si alla ragione  e legge della più antica fra le città e  le repubbliche e della più veneranda. Della vita umana, la durata è  un punto; la materia, fluente; il  senso, tenebre ; la compagine di tutto  il corpo , corruzione ; l’anima,* un   La città e repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo certamente  ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa  mala a prevedere; la fama, cosa  senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda il corpo, è un torrente; ciò che riguarda l’ anima, so-  gno e fumo ; la vita tutta intera,  guerra e pellegrinaggio; e la rino-  manza che le vien dopo, oblio. Che i  adunque v’ ha a cui tu ti possa atte-  nere? Sola ed unica una cosa; la  filosofia. E questa consiste nel custo-  dire per tal modo il genio interno,  eh’ egli non riceva nè onta nè danno,  sia superiore al piacere e alla pena,  non operi nulla a caso, nè infìnta-  mente 0 con animo d’ ingannare, nè  abbia bisogno mai che altri faccia o  non faccia checchessia; inoltre ac-  cetti ogni avvenimento a lui desti-   r anima ragionevole, nè la mente, o la parte  sovrana, o il genio interno menzionato nelle ,  linee segnenti; ma solamente il principio della vita animale [Una distinzione è fatta distinzione fra corpo, anima e mente. nato siccome cosa che gli viene di  colà d’ onde è venuto egli stesso ;  sovra tutto poi, aspetti la morte con  mente serena, siccome nulla più che  dissoluzione degli elementi onde ogni  animale è composto; ai. quali se non  è grave lo essere trasmutati di conti-  nuo r uno nell’ altro, per qual ca-  gione si avrà ella a temere la tras-  mutazione e la dissoluzione d’ essi  tutti in una volta? Ella è cosa se-  condo natura; e nulla che sia se-  condo natura non è mai un male. Tn Carnvnto,  Non solamonte è da considerare che la vita si va consumando  ogni dì, e che sempre ce ne riman  meno, ma eziandio che egli è incerto, ove ancor l’uomo viva lungamente, s’egli avrà sempre vigor 'di  mente che basti per la intelligenza  degli affari e la contemplazione che  ha per iseopo la conoscenza delle  cose divine ed umane. Perchè, quan-  do egli incominci a vaneggiare, non  cesserà però, egli è vero, nè di tra-  spirare, nè di nudrirsi, nè di avere  immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose di tal fatta; ma valersi di sè  stesso, ma avvertire distintamente  tutti i numeri * del dovere, ma chia-  rire i propri concetti, ma, quel che  importerebbe allora, deliberare se  sia già tempo per lui di andatene,®  e quante altre cose richieggono una  raziocinativa molto bene esercitata,  cotesto non potrà egli più, chè la  facoltà sarà spenta anzi tempo. Con-  viene adunque affrettJirsi, non sola-  mente perchè ci facciamo ognora  più vicini alla morte , ma ancora  perchè cessano in noi anzi il finir  della vita la intelligenza e la com-  prensione delle cose. È degno pure d’ osservazione  che anche quelle cose le quali sono  un mero accompagnamento necessario  [‘Onesto’ chiamano gli stoici il perfetto  bene per lo avere esso tutti i numeri che la  natura richiede.] [Secondo gli stoici non dovea rimanere  in vita r nomo che non potea più adempire  gli uffici d’uomo] d’ ima operazione della natura  hanno un non so che di grazioso e  di dilettevole. Per esempio, cocen-  dosi il pane, si screpola in certi luo-  ghi. Or bene, anche quelle così fatte  screpolature che stan là, per così  dire, fuori dell’ intenzione del for-  naio, hanno un certo garbo o muo-  vono r appetito in un certo modo  lor proprio. Ancora i fichi, quando  sono ben maturi, si aprono. E nelle  ulive lasciate lunga pezza in su V al-  bero, quello stesso essere già vicine  a corrompersi, aggiugne al frutto  una certa bellezza particolare. E le  spighe che s’ inchinano, e la guar-  datura del leone, e la schiuma che  esce fuori di bocca al cinghiale, e  molte altre cose le quali, considerate  da per sè, sono lontane da ogni bellezza, nondimeno, perch’ elle accom-  pagnano necessariamente un’ opera  della natura, aggiungono a quella  ornamento e dilettano altrui. Di maniera che, chi avesse altezza d’ in-  gegno e considerasse ad una ad una  le cose che accadono nell’ universo  mondo, nessuna ne troverebbe per  avventura, anche di quelle che sono  mera conseguenza- necessaria delle  altre, la quale non gli paresse farsi  con una certa grazia. Costui vedreb-  be la gola spalancata d’ una fièra viva  con non meno piacere che quando  gli scultori o i pittori glie la fan  vedere imitata; e nelle vecchiarelle  e nei vecchi scorgerebbe un certo  che di finito e di maturo non meno  piacevole ai casti occhi di lui che  là venustà dei fanciulli ; e molte altre  cose gl’ incontrerebbe di vedere, che  non fan senso in tutti, ma solamente  in chi s’ è veramente addimesticato  con la natura e con le opere di  quella. Ippocrate cura di molti ammalati. Poi s’ammala egli stesso, e muore. I caldei predicono a molti la morte, e poi venne anche per loro  la morte. Alessandro e Pompeo e Giulio Caio Cesare, i quali distrussero dalle fondamenta le tante città, e tagliarono a pezzi in giornata campale le tante migliaia di cavalli e di fanti, usceno poi anch’essi di vita, alla  fine. Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e ragioni naturali discorso intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli d’acqua il corpo,  coperto di letame se ne muore. DEMOCRITO e spento da’ pidocchi, SOCRATE da pidocchi d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’ imbarcato, hai navigato, sei giunto; esci di nave. Se  per andare ad un’altra vita, nessun  luogo è vuoto di iddii, e nè anche [Diogene Laerzio narra che Democrito  mori di vecchiaia. LUCREZIO, che nscì spontaneamente di vita, perchè sente il suo  spirito indebolirsi per effetto degli anni. Non trovasi nota alcuna  tradizione che concordi con ciò che qui dice Antonino] quello dove vai; se per rimanere  senza sentimento, avrai finito di soffrire i dolori E I PIACERI e di dovere andare a versi ad un vaso che è di  tanto inferiore a quel che gli serve. Perchè l’ uno è mente e genio, e l’altro è terra e sangue. Non consumare quella porzione  che ti rimane di vita nel pensare ai  fatti altrui, ogni volta che tu noi  faccia con un fine di comune utilità. Cioè nello andar fantasticando che cosa opera il tale e per qual cagione, e che dice, e che pensa, e che macchina, e somiglianti cose, le quali  tutte ti fan deviare dalla custodia  della tua parte sovrana. Conviene adunque guardarsi, nella succession  dei pensieri, dall’ozioso e dal vano, ma molto ancora^più dal curioso e dal maligno; ed avvezzar sè stesso a pensar solo tali cose che, quando  altri, all’improvviso ti domandasse, che pensi ora? Tu possa risponder tosto e senza tema. Questo, o quest’altro. Onde appaia subito manifestamente non avervi nulla in te  che non sia schietto e benevolo,  nulla che non convenga ad animai  socievole; il quale non si compiace  nelle immaginazioni di piacere o di  godimento qual eh’ ei sia, o di gaiti  o d’invidia o di sospetto, o di qua-  lunque altra cosa ti facesse arrossire  quando tu avessi a confessare che  l'avevi in mente. Un uomo di tal  fatta, il quale non indugia d’ oggi in  domani a por sè nel novero degli  ottimi, è come un sacerdote e un  ministro degli Dei, devoto, non meno  che agli altri, a quello che ha il suo  tempio in lui medesimo; per virtù  del quale l’ uomo diventa inconta-  minabile ad ogni jiiacere, invulne-  rabile ad ogni dolore, inviolabile ad  ogni ingiuria, insensibile ad ogni  malizia, sostenitore in campo della  massima fra le imprese, quella del non essere abbattuto da nessuna  passione, imbevuto di giustizia in-  sino al fondo, disposto ad accogliere  con tutta r anima quanto accàSe e  gli vien destinato, e non occupan-  tesi se non di rado nè mai senza  una grande e pubblica necessità, di  CIÒ che altri fa o dice o pensa ; perch’ egli non ha altre azioni in sua  balìa che le proprie, e pensa conti-  nuamente alle cose che il fato del-  r universo gli arreca; per far si che  le prime sieno oneste, siccome ha  fede che le seconde sien buone ;  quando la sorte attribuita all’ uomo  procede dalla stessa causa che l’ uo-  mo e concorre insieme con 1’ uomo  ad un medesimo fine. Sa inoltre che  tutti gli esseri ragionevoli han pa-  rentela fra loro; che è quindi con-  forme alla natura dell’ uomo il tener  cura di tutti ; benché non sia da far  conto deir opinione di tutti, ma solo  di coloro che vivono secondo natura. Quanto a quelli che vivono altra-  mente, egli tien sempre a memoria  che sorta cT uomini sono, e quali, e  in casa e fuor di casa, e di notte e di  giorno, si dimostrano, e con quali  praticano; non ha quindi in pregio  nessuno la lode che gli può venire  da tallente, la quale nè anche a sè  stessa non piace.   5. Non operar mai nè contro al  tuo volere, nè senza relazione al  bene della società, nè senza avere  esaminato la cosa, nò con renitenza ;  non adornare con isquisitezza di frasi  il tuo pensiero: non esser uomo nè  di molte parole, nè di molte faccen-  de.' Ancora, fa’ che il Dio tuo in-  terno abbia a governare in te un  animale maschio, attempato, citta-  dino, romano, imperatore, apparec-  chiato di tutto punto, siccome quegli  che non aspetta ornai se non il suono Di molte faccende in cattivo senso, come  chi dicesse faccendone, o faccendiere. della tromba* per uscir della vita,  e non occorre sforzarlovi nè col giu-  ramento, nè con la testimonianza  (f altr’uomo ; nel lieto aspetto del  quale ben si scorge non avere egli  bisogno nè dell’ aiuto che vien dal  di fuori, nè della tranquillità che gli  altri procurano. Conviene adunque  esser ritto in piedi già, e non riz-  zarui solamente. Se tu trovi qualche cosa di meglio nella vita dell’ uomo che la giustizia, che la verità, che la temperanza. che la fortezza, e, in una pa-  rola, che quella disposizione della  mente per cui ella si appaga di sè  medesima nelle cose die ti fa ope-  rare secondo la retta ragione,, e del  fato, nelle cose che senza parteci-  pazione della tua volontà ti vengono  distribuite; se, dico, tu trovi alcun  che di meglio che questo, a quello   1 Similitudine tolta dagli ordini della  milizia appo i Romani. voiti con tutta l’ anima e godine  siccome di cosa che hai ritrovato  esser l’ottima. Ma se nulla ti si presenta di meglio che il genio stesso  tuo interno, quando si è fatto signore  de’ propri moti, e rivoca ad esame  le proprie immaginazioni, e si è sot-  tratto^ come dice SOCRATE, dalle  passioni del senso, e vive sottomesso  . agli Dei e pigliandosi cura degli uomini. Se, a paragone di questa, tutte  . le rimanenti cose ti paion picciole  e vili, non dar più luogo appresso  te a nessuna altra, alla quale una  volta che tu ti sentissi propendere,  più non potresti senza repugnanza  preferire a tutti quel bene che è proprio di te ed è il tuo; perchè al  bene j’azionale ed efficiente non  vien contrapposto impunemente mai  nulla che sia di natura diversa, come  le lodi della moltitudine, o il comandare, o i piaceri del senso ; tutte  queste cose, per poco che le si paiano   Ò1   adattare,' ti sopralfamio in un attimo  e ti strascinano. Or tu, dico io, sce-  gli schiettamente e liberamente il  meglio, e a quello ti attieni. — Ma  il meglio è l’utile. Se l’utile all’uomo in quanto è ragionevole, bene  sta, quello procura: se l’ utile all’ uo mo in quanto animale, dillo su aper-  tamente e vivi di poi senza boria nò  fasto, secondo quella determinazio-  ne. Ma bada, ve’, che non ti inganni  nell’ esame. Non riguardare giammai come i [Par ch’Antonino alluda qui alla teoria dell’adattare le nozioni generali alle cose  particolari, o, del concetto alla rappresentazione, che è ciò in che  consisto il giudizio]. Dillo spiattellatamente, se ardisci, senza  avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi  tutte le conseguenze di quel tuo detto: cioè,  vivi poi da animale mero e puro, senza in-  gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù  nè di giustizia, nè d* altro simile, che in  quel caso sarebbero un vano fasto di parole. E provocazione al senso intimo dell'uomo. Utile a te nulla che sia per isforzarti  un dì a violar la fede, abbandonare  il pudore, odiare alcuno sospettare,  maledire, simulare, desiderar cosa j  che abbia bisogno di pareti e di ve-  lame . Chi ha posto innanzi ad ogni  altra cosa la sua mente e genio, e  il culto della virtù eh’ è propria di  quello, non fa tragedie, non geme,  non ha bisogno di solitudine, non  di frequenza d’ uomini; quel che più  impoita, vive senza ricercar nulla  nè fuggire; abbia ad esser lungo o ,  abbia ad esser corto Tintèrv^allo di  tempo durante il quale sarà conte-  nuta nel corpo l’ anima con che egli  lia a fare,' non se ne piglia nè an-  clic il minimo pensiero; e quando Con che egli ha a fare. Non veggo che  cosa abbia voluto dire l’ornato. [Il senso letterale del testo è: sia lungo o sia breve  il tempo, eh' egli avrà a far uso dell' ani-  ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi-  vale a dire: sia lungo, o sia breve il tempo  ch'egli ha a vivere. L’è giunta l’ora dello sgombrare, cosi  spiccio se ne va, come se imprendesse un’ altra qualunque di quelle  azioni che si possono con verecondia  e con dignità operare; da questo  solo guardandosi per tutta la vita, ,  che veruno dei moti della sua men-  te non sia mai men che convene-  vole ad animale intelligente o sociabile.  Nella mente dell’ uom castigato  e puro non troverai nulla di marcio,  nè tampoco nulla di contaminato o  che paia sano al di fuori e noi sia.  La vita di lui, a qualsivoglia ora lo  sorprenda la morte, non è mai imperfetta, come tu diresti quella tragedia d’onde un attore si fosso riti-  rato prima d’ aver condotto a fine  la sua parte. Ancora non è in lui  nulla di villano, nè nulla di artata-  mente gentile; nulla che il leghi  alle cose esteriori nè nulla che lo  separi da quelle; nulla onde egli sia palesemente ripreso,' nè nulla che  covi addentro nascosto.  Abbi in rispetto la facoltà giudicativa.^ Per lei sta che non si ge-  neri nella tua parte sovrana nessuna  opinione che non sia consona alla  natura o al fine per che 1’ uomo è  ordinato. Ed essa promette la infallibilità, e l’amicizia con gli uomini  e l’ubbidienza agli Dei. Messe adunque da banda tutte  le altre cose, queste poche sole abbi  in mente; ed ancora ricordati che i  r uomo non vive altro tempo che  questo presente, cioè un attimo; il  rimanente o lo ha vissuto o non sa  se il vivrà. Picciola cosa pertanto è  [Intendi: nulla che appaia manifestamente vizioso. Ossia la virtù del non cadere in errore ; che vien definita da Zenone la  scienza del quando conviene assentire ad i  un' apparenza, e quando no. Questa accompagna sempre il giudizio comprensivo,  che è il criterio della verità appo gli  stoici. 0 Digitizedh, Cnoi^li:    il tempo che l’ uom vive, picciola cosa rangoletto della terra dov’egli vive. Picciola cosa la fama anche la  più lunga eh’ egli lascerà dietro sè,  e questa tramandantesi per successione d’ omiciattoli in omiciattoli, morti quasi appena nati, ed ignari  anche di sè medesimi, non che di  colui il quale moriva è già gran  pezza.   li. Agli avvertimenti dati sin qui  s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de-  finir sempre o descrivere l’oggetto  che cade sotto al tuo senso, si che  tu lo scorga a parte a parte distin-  tamente e tutt’ insieme quale egli è  nella sua essenza nudo, e dir teco  stesso il nome proprio di quello e  il nome delle cose di che è compo-  sto e in che s’ ha da risolvere. Perchè non v’ ha nulla che sublimi  cotanto l’animo quanto il potere arguire per la diritta via e con verità  ciascuna delle cose che incontrano  nella vita, e saperle vedere per ino»  do da conoscere nello stesso tempo  di qual uso sendo questa tal cosa  al mondo, e a qual mondo, qual  valore ha rispetto al tutto e quale  rispetto air uomo, che è cittadino  della suprema fra le città, della  quale le altre città sono' come al-  trettante famiglie. Che cosa è, e di  che cosa è composto, e quanto tempo  è por duiare ij cesto che fa impres-  sione ora sul mio senso; di che virtù  s’ ha da far uso con esso, per esem-  pio, della mansuetudine, della for-  tezza, della veracità, della fede, della  semplicità, della frugalità, o simili.  Però, intorno a ciascuna cosa, con-  vien dire : questa mi viene da Dio. Questa dalla sorte, dalla complica-  zione delle cause condestinate, e so-  miglianti cose; quest’ altra dal mio  consorto, dal mio congiunto, dal  partecipe d’ una stessa società con  me, il quale ignora nondimenò ciò  che è secondo natura per lui. Ma   10 non lo ignoro ; e però mi governo  con lui secondo la legge naturale  della società, con benevolenza e giu-  stizia; e ad uno stesso tempo ho  riguardo, nelle cose mezzane,' al  valore di ciascheduna. Se tu operi secondo la retta  ragione quel che hai fra mano, stu-  diosamente, c vigorosamente, placi-  damente, e non t’ occupi d’ altra cosa  tra via, ma conservi puro ed intatto   11 genio tuo, come se tu dovessi già  rassegnarlo ; se a lui ti tieni stret-   Si chiamai! còse mezzane appo gli stoici  quelle che non sono nè ben nè male, cioè  nè virtù nè vizio. Le quali, comecché da  per sè non meritino d' esser cercato nè fug-  gite, si accettano nondimeno o si rigettano  per r aiuto o disainto che elle possono ar-  recare alla vita secondo natura. Quelle che  arrecan più aiuto, han più valore: quelle  che più disainto, più disvalore. Di questò  ha da tener conto il savio, ed accettare,  quando gli è data la scelga, quelle che han  più valore, o che han meno disvalore. 0.  Sottintendi « a chi tol diede. » to, nulla aspettando, da nulla rifug-  gendo, contentandoti dell’ azion tua  presente secondo natura e della eroi-  ca verità d’ ogni cosa che tu dica:  felicemente vivrai. Ora non v’ ha  nessuno' che ti possa questo impedire. Come i medici han pronti sem-  pre i loro ferri e strumenti per le  cure inopinate, così abbi tu alla mano  i principi! * per la cognizione delle  cose divine ed umane; e non far  nulla mai, per poco che sia, senza  ricordarti del legame che unisce  queste con quelle. Perchè nulla di  umano farai tu bene se non lo ri-  ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando; per-  chè non sei per rileggere oramai nè  i tuoi ricordi, hè le azioni degli an-  tichi romani e greci, nè gli estratti  Punti fondamentali di credenza, cre-  denze prime, dommi : decreta . appo CICERONE. d’ autori che riserbavi per la vec-  chiaia. Studiati dunque d’ arrivare  al fine, e poste da banda le spe-  ranze vane, soccorri a te stesso, se  pur ti cale di te, mentre che il puoi.   15. Non sanno * quanti significati  abbiano le parole rubare, seminare,  comperare, riposare, veder quel che  sia da fare, il che non si reca ad  effetto con gli occhi, ma con un’al-  tra sorta di vista. Corpo, anima, mente ; del corpo  son le sensazioni, deh’ anima le ap-  petizioni, della mente le credenze.^  Ricevere impressioni nella fantasia  è cosa anche da giumento; esser  mosso da appetiti è cosa anche da  fiera, anche da androgino, anche  da Falaride, anche da Nerone; avere  per iscorta la mente a quello che  ci pare nostro ufficio, è cosa anche    I Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci par eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano  Dei, da chi abbandona la patria, da  chi fa, quando ha chiuso le porte,  ogni opera nefanda. Se adunque  tutte queste cose abbiam comuni  cogli anzidetti, resta che sia proprio  dell’ uomo dabbene lo amare ed ab-  bracciare gli accidenti ad esso con-  destinati e guardarsi dal macchiare  e turbare con immaginazioni sconce  il genio che risiede nel petto di lui,  ma conservarlo propizio, seguendolo  modestamente* come un Iddio, non  dicendo mai nulla che sia contro  al vero, nè dicendo mai nulla che  sia contro al giusto. Che se nissuno    ttro interene. Questo è il significato generale della parola ufficio appo gli stoici. Solo allor quando le si aggingne l'epiteto di  perfetto denota essa il dovere^ che è come  V intereae iublime dell' uomo. Noto questo  perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo  anche il Corai, hanno maravigliosamente  scompaginato - e interpolato questo passo;  frantendendolo. V. Diog. Laerz.; Stobeo ; Cic.  de Officiùt otc. degli uomini non gli vuol credere  eh’ egli viva con semplicità, con ve-  recondia, e di buon animo ; nè s’adira  egli contro costoro, nè si svia dalla  strada che conduce al fine della yita.  al quale si vuol giunger puro, tranquillo, spedito, e conformato di vo-  lontà col proprio destino. La parte che dentro di noi regna, quando è nel suo stato natu-  rale, ha tal disposizione verso gli  accidenti, che senza difficoltà si rivolge sempre al possibile e al dato.  Perch’ella non ama nessuna mate-  ria determinata ; ma si porta con  eccezione* a quello che si ha pro-  posto, e quando alcun che se le  viene ad attraversare per via, ella  si fa di quello stesso materia ; come  il fuoco, quando s’ impadronisce delle  [La parte sovrana o dominante.  [Eccezione : vocabolo stoico. Indica limitazione del proponimento al possibile]. Farò  la tal cosa, se non sarò impedito] cose die incontra, dalle quali una  picciola lampana sarebbe spenta. Ma lo splendido fuoco assimila a sè tosto ogni cosa che se gli butti dentro, e  la consuma, e per quella stessa s’in-  nalza più in su.   2. Nessuna azione sia fatta a caso  mai, nè altrimente che secondo una  delle regole costitutive dell’arte. Van cercando ritiri, alla campa-  gna, alla marina, sui monti; e tu  stesso suoli desiderare siffatti luoghi.  Ma cotesto è da uomo ignorantissi-  mo, potendo tu, a quell’ ora che tu  vuoi, ritirairti in te stesso. Perchè [Ad ogni caso della vita corrispondo  una virtù da esercitare (vedi sopra, III, 11,  e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni virtù è  appo gli stoici nna scienza nello stesso  tempo ed un’ arte: parlo delle virtù pro-  priamente dette. Come scienza quindi e  come arte consta di certo proposizioni o re-  gole, ciascuna delle quali è parte integrante  di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni ufficio consta di corti numeri.      inroRDi.    «4   in nessuno altro luogo si ritira l’ uomo con più tranquillità e con meno  brighe che nell’ anima sua ; massi-  mamente chi ci ha dentro tanto  alti oggetti di contemplazione che  il solo affacciarsi a loro procaccia  tosto ogni sorta di agevolezza. Quan-  do dico agevolezza, non voglio dir  altro che buon ordine. Concedi adun-  que sovente a te questo ritiro e rin-  novella quivi te stesso. Breve sia  r espressione ed elementare la forma  di quelle verità contemplative che  avran forza di rasserenare al primo  incontro V anima tua c. rimandarti  senza corruccio alle cose alle quali  ritorni. Perchè, di che cosa ti coi'-  rucci? Della malizia degli uomini?  Rammentati di quella sentenza, che  gli esseri ragionevoli son fatti gli uni  per gli altri; che il sofferire è parte  della giustizia; che malgrado loro  peccano ; che tanti si son già inimi-  cati, sospettati, odiati,  perseguitatisi  a morte, i quali ora sono spenti, son  fatti cenere; e te ne darai pace. 0  ti crucci tu di quella parte che a te  Vien compartita dell’ universale de-  stino? Rinnovella il dilemma. 0 è  la provvidenza o son gli atomi,' op-  pure gli argomenti con che s’ è di-  mostrato che il mondo è come una  città. Ma forse tu ti contristi delle  affezioni del corpo? Pensa che non  han più nulla che fare con la mente  i moti o sieno soavi o sieno aspri  del senso, ogni volta che questa s’ è raccolta in sè medesima ed ha cono-  sciuto la sua propria potenza; al che  potrai aggiugnere quelle altre cose  che intorno al piacere e al dolore  hai apparato ed accettato per vere.   0 sarà forse T amor di gloria quello  che ti turba? Considera come è ratto   Si allude al  sistema atomistico di- Epicuro, il quale ne-  gava la previdenza, e attribuiva il mondo e  tutti i fenomeni del mondo ad una causa  non intelligente. l’oblio d'ogni cosa, interminato dal -  runa parte e dall’ altra* il caos della  età, vana cosa il rumore, mutabile,  e inconsiderato chi in apparenza ti‘  esalta, angusto il luogo dove è cir-  coscritto il suo dire. Perchè tutta la  t.erra' è un punto: e qual parte di  essa è l’angoletto che tu abiti? e  quivi ancora quanti avrai lodatori, e  quali? D’or innanzi adunque sov-  vengati di ritirarti in questa tua vil-  letta di te medesimo; e sopra tutto,  non. t' affannare, non t’agitare, ma  sii libero e vedi le cose da uomo, da ‘  maschio, da cittadino, da mortale.  Ed abbi in pronto, fra le verità alle  quali dovrai far ricprso, queste due  principalmente: 1’ una, che le cose  non arrivano sino all’ anima, anzi  stanno al di fuori immobili;* e i  turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante e a parte pott come dice  la scuola. [nione, che è dentro. L’ altra, che  quanto tu vedi già già si muta e più  non è quel desso ; e rivolgi in mente  ciascuna delle mutazioni alle quali  tu stesso sei inten'enuto. Il mondo^ alterazione. La vita, opinione.  Se la intelligenza ci è comune  a tutti, anche la ragione per cui  siam ragionevoli ci è comune; se  cotesto è, anche la ragione imperativa di ciò che si dee fare o non fare  ci è comune; adunque anche la legge  ò comune; aifunque siam concittadi-  ni ; adunque partecipiamo tutti ad  una specie di reggimento civile ;  adunque il mondo è come una città.  Perchè qual altro direm noi che sia  quel reggimento civile di cui tutto  il genere umano partecipa? Di colà,  da quella città comune, viene a noi  r intelligenza, la ragione, la legge,  o d’ onde verrebbon esse? perchè,  siccome quanto v’ ha in me di terreo viene da una certa terra di cui fa  parte; e quanto v’ ha in me d’umido,  da un altro elemento; e quanto v’ha  di caldo e d’ igneo, da una certa  sorgente propria (nulla venendo mai  dal nulla nè ritornando nel nulla);  così anche la intelligenza dee venire  da qualche cosa.  La morte è come la nascita, un  mistero della natura. Composizione  e risoluzione di certi elementi in  quegli elementi medesimi. Ad ogni  modo non è cosa di  che1’ uomo  debba arrossire ; perchè non è cosa  che repugni alla natura dell’ animale  intellettivo o disconsegua al principio della formazione di quello. Tali cose debbono di necessità  farsi in tal modo da questi tali; chi  le vuole altrimente, vuole che il fico  non abbia lattificcio. Del tutto, sov-  vengati che in brevissimo tempo e    * Intendi ripugni, non aia conforme. !'•   tu e costui sarete morti: e che, poco  dopo, non rimarrà più di voi nè an-  che il nome. Togli via r opinione, ed è tolto  via il « sono stato offeso : » togli via  il « sono stato offeso, » ed è tolta via  r offesa.  Quello che non fa peggiore l’uomo non fa nè anche peggiore la vita  di lui, nè le nuoce, nè esternamente  nè internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la na-  tura a far cotesto. Siccome ogni cosa che accade,  giustamente accade; il che, se tu  osserverai con attenzione, troverai   1 Comune. Più letteralmente : « È necessitata la na-  tura deir utile a far cotesto.» La natura  deir utile, cioè il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente  in questo luogo la voce natura), il quale  evolvendosi, come ragion seminale, successivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia  bene. Perchè non conviene dimenticar mai  che, appo gli stoici, l'utile non è altro che  il bene. sempre vero: non solamente, dico,  secondo l’ordine di conseguenza, ma  ancora secondo l’ordine di giustizia;  come se le cose procedessero da tale  che distribuisse a ciascuno secondo il  merito. Osserva adunque, come hai  cominciato ; ed ogni cosa che tu fai,  falla con questa condizione, che tu  sia uom dabbene, nel vero signifi-  cato della parola dabbene. Questo  carattere conserva in ogni tua azione. Non concepir le cose quali le  giudica colui che fa ingiuria, o quali  egli vuole che tu le giudichi; ma  vedile quali sono in realtà. Conviene esser sempre pronto  a queste due cose ; fai' solamente  quello che la ragion dell’ arte regia  e legislativa ti suggerisce per 1’ uti-  lità degli uomini ; e cangiar partito,  quando altri viene a raddrizzarti e  rimuoverti da una qualche falsa opi-  nione. Ma questo cangiamento dee  farsi sempre per un qualche motivo plausibile, come di giustizia, o  d’ utilità comune, o somigliante ; e  non mai perchè la cosa ti piaccia o  sia per arrecarti gloria. Hai la ragione? Si. Che  dunque non 1’ adoperi? Perchè, se  essa fa quanto le spetta, che ti resta  a desiderare? Sei venuto al mondo qual parte ; disparirai dentro al tuo generatore. 0, piuttosto, ti raccoglierai nella  ragion seminale di lui, per via di mutazione. Molti grani d’ incenso su uno  stesso altare: l’uno è caduto prima  e l’altro dopo. È lo stesso.  Tra dieci giorni parrai un Dio  a coloro, ai quali pari ora una bestia  e una scimmia, se fai ritorno ai prin-  cipii e al culto della ragione.  Non come se tu avessi a vi-  vere molte migliaia d’ anni. La morte  ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti è  dato, fa’ che tu sia uom dabbene.  Di quante brighe si libera chi  non bada a quello che ha detto il vi-  cino, o ha fatto, o ha pensato, ma solo  a quello eh’ egli stesso fa, affinchè  r opera sua sia giusta, e santa, e  qual si richiede dall’ uomo dabbene !   Non andar guatando attorno i neri  costumi, ma corrér diritto in sulla  linea senza volgersi a destra nè a  manca. Chi vive abbagliato dal  pensiero di lasciar fama dopo morte,  non considera come ciascun di quelli  che si ricordano di lui morrà tosto  aneli’ egli, e poi ancora chi sarà a  costui succeduto, sinattantochè, pas-  sando da abbagliato in abbagliato e  da morente in morente, venga a spe-  gnersi affatto ogni memoria. Ma sup-  poni anche immortale chi s’ ha a ri-  cordare di te, ed immortale la fama ;  che fa ssi abbia, e nessuno non potendo  perdere quel che non ha. Siccome tutto è opinione. È   «   noto il detto di Monimo il cinico. E  nota anche V utilità di quello, chi ne  colga il midollo per insino ai confini  del vero. L’anima umana fa onta a sè  stessa, primieramente quando ella ;  diventa, per quanto sta in lei, come  chi dicesse un apostema o tumore  del mondo, ritraendosi da quello co-  me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un accidente  qualunque è un ritrarsi dalla natura  univei-sale, dentro alla quale son  contenute, siccome parti di quella,  tutte le nature degli altri. In secondo  luogo, quando ha avversione a un   * Diceva che   «Ogni nostra opinione è fumo e boria. Apostema in greco vuol dire ad un tempo  ed apostema e ritiramento. È solenne agli  stoici il torre esempi, nelle cose morali,  dalla natura fisica, siccome quella in cui è  contenuta, secondo loro, ancho la natura  morale. qualche uomo, od anche se gli volge  contro per nuocergli, come le anime  degli adirati. In terzo luogo ella fa  onta a sè stessa quando si lascia vin-  cere dal piacere o dal dolore. Quarto,  quando ella s’ infinge ed opera o  parla con simulazione e contro la  verità. Quinto, quando ella non in-  dirizza a nessuno scopo una qualche  sua azione o una qualche sua determinazione di volontà, ma opera a  caso e senza sapere che cosa si fac-  cia; laddove nè anche le minime cose  non (iovrian farsi mai se non con rela-  zione al fine. E il fine degli animali ragionevoli è il conformai'si alla ragione  e legge della più antica fra le città e le repubbliche e della più veneranda. Della vita umana, la durata è  un punto; la materia, fluente; il  senso, tenebre ; la compagine di tutto  il corpo , corruzione ; l’anima,* un   [La città e repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo certamente   ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa  mala a prevedere; la fama, cosa  senza giudizio. E a dirla in breve,  ciò che riguarda il corpo, è un tor-  rente ; ciò che riguarda l’ anima, so-  gno e fumo ; la vita tutta intera,  guerra e pellegrinaggio; e la rino-  manza che le vien dopo, oblio. Che i  adunque v’ ha a cui tu ti possa atte-  nere? Sola ed unica una cosa; la  filosofia. E questa consiste nel custo-  dire per tal modo il genio interno,  eh’ egli non riceva nè onta nè danno,  sia superiore al piacere e alla pena,  non operi nulla a caso, nè infìnta-  mente 0 con animo d’ ingannare, nè  abbia bisogno mai che altri faccia o  non faccia checchessia; inoltre ac-  cetti ogni avvenimento a lui desti-   r anima ragionevole, nè la mente, o la parte  sovrana, o il genio interno menzionato nelle ,  linee segnenti; ma solamente il principio ’  della vita animale. Vedi il § 16 del lib. Ili |  dei Bicordi, ove è fatta distinzione fra corpo,  anima c mente. P. I    nato siccome cosa che gli viene di  colà d’ onde è venuto egli stesso ;  sovra tutto poi, aspetti la morte con  mente serena, siccome nulla più che  dissoluzione degli elementi onde ogni  animale è composto; ai. quali se non  è grave lo essere trasmutati di conti-  nuo r uno nell’ altro, per qual ca-  gione si avrà ella a temere la tras-  mutazione e la dissoluzione d’ essi  tutti in una volta? Ella è cosa secondo natura; e nulla che sia se-  condo natura non è mai un male. Tn Carnvnto,   Non solamonte è da considerare che la vita si va consumando  ogni dì, e che sempre ce ne riman  meno, ma eziandio che egli è in-  certo, ove ancor 1’ uomo viva lunga-  mente, s’egli avrà sempre vigor 'di  mente che basti per la intelligenza  degli affari e la contemplazione che  ha per iseopo la conoscenza delle  cose divine ed umane. Perchè, quan-  do egli incominci a vaneggiare,* non  cesserà però, egli è vero, nè di tra-  spirare, nè di nudrirsi, nè di avere  immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose di tal fatta; ma valersi di sè  stesso, ma avvertire distintamente  tutti i numeri * del dovere, ma chia-  rire i propri concetti, ma, quel che  importerebbe allora, deliberare se  sia già tempo per lui di andatene e quante altre cose richieggono una  raziocinativa molto bene esercitata,  cotesto non potrà egli più, chè la  facoltà sarà spenta anzi tempo. Con-  viene adunque affrettJirsi, non sola-  mente perchè ci facciamo ognora  più vicini alla morte , ma ancora  perchè cessano in noi anzi il finir  della vita la intelligenza e la com-  prensione delle cose.  È degno pure d’ osservazione  che anche quelle cose le quali sono  un mero accompagnamento neces-   [“Onesto” chiamano (gli stoici) il perfetto  bene per lo avere esso tutti i numeri che la  natura richiede. Secondo gli stoici non dovea rimanere  in vita r nomo che non potea più adempire  gli uffici d’uomo, 0. ] sario d’ ima operazione della natura  hanno un non so che di grazioso e  di dilettevole. Per esempio, cocen-  dosi il pane, si screpola in certi luo-  ghi. Or bene, anche quelle così fatte  screpolature che stan là, per così  dire, fuori dell’ intenzione del for-  naio, hanno un certo garbo o muo-  vono r appetito in un certo modo  lor proprio. Ancora i fichi, quando  sono ben maturi, si aprono. E nelle  ulive lasciate lunga pezza in su V al-  bero, quello stesso essere già vicine  a corrompersi, aggiugne al frutto  una certa bellezza particolare. E le  spighe che s’ inchinano, e la guar-  datura del leone, e la schiuma che  esce fuori di bocca al cinghiale, e  molte altre cose le quali, considerate  da per sè, sono lontane da ogni bel-  lezza, nondimeno, perch’ elle accom-  pagnano necessariamente un’ opera  della natura, aggiungono a quella  ornamento e dilettano altrui. Di maniera che, chi avesse altezza d’ in-  gegno e considerasse ad una ad una  le cose che accadono nell’ universo  mondo, nessuna ne troverebbe per  avventura, anche di quelle che sono  mera conseguenza- necessaria delle  altre, la quale non gli paresse farsi  con una certa grazia. Costui vedreb-  be la gola spalancata d’ una fièra viva  con non meno piacere che quando  gli scultori o i pittori glie la fan  vedere imitata; e nelle vecchiarelle  e nei vecchi scorgerebbe un certo  che di finito e di maturo non meno  piacevole ai casti occhi di lui che  là venustà dei fanciulli ; e molte altre  cose gl’ incontrerebbe di vedere, che  non fan senso in tutti, ma solamente  in chi s’ è veramente addimesticato  con la natura e con le opere di  quella.  Ippocrate curò di molti ammalati, e poi s’ ammalò egli stesso e  muore. I caldei predissero a molti la morte, e poi venne anche per loro  la morte. Alessandro e Pompeo e Caio Cesare, i quali distrussero dalle  fondamenta le tante città, e taglia-  rono a pezzi in giornata campale le  tante migliaia di cavalli e di fanti,  uscirono poi anch’ essi di vita, alla  fine. Eraclito, dopo avere con tanta  sapienza e ragioni naturali discorso  intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli d’acqua il corpo,  coperto di letame se ne morì. DEMOCRITO e spento da’ pidocchi, SOCRATE da pidocchi d’ un’ altra sorta.  Che è ciò? Ti se’ imbarcato, hai na-  vigato, sei giunto; esci di nave. Se  per andare ad un’ altra vita, nessun  luogo è vuoto di Iddii, e nè anche   [Diogene Laerzio narra che Democrito  mori di vecchiaia; Lncrezio, che nscì spontaneamente di vita, perchè sentiva il suo  spirito indebolirsi per effetto degli anni.  Non trovasi nell' antichità a noi nota alcuna  tradizione che concordi con ciò che qni dice  Antonino. P.    quello dove vai ; se per rimanere  senza sentimento, avrai Unito di sof-  frire i dolori e i piaceri, e di dovere  andare a versi ad un vaso che è di  tanto inferiore a quel che gli serve.  Perchè l’ uno è mente e genio, e  r altro è terra e sangue. Non consumare quella porzione  che ti rimane di vita nel pensare ai  fatti altrui, ogni volta che * tu noi  faccia con un fine di comune utilità;  cioè nello andar fantasticando che  cosa opera il tale e per qual cagione,  e che dice, e che pensa, e che mac-  china, e somiglianti cose, le quali  tutte ti fan deviare dalla custodia  della tua parte sovrana. Conviene  adunque guardarsi, nella succession  dei pensieri, dall’ ozioso e dal vano,  ma molto ancora^più dal curioso e  dal maligno; ed avvezzar sè stesso  a pensar solo tali cose che, quando  altri, all’ improvviso ti domandasse,  che pensi ora? tu possa risponder tosto e senza tema: questo, o que-  st’ altro ; onde appaia subito mani-  festamente non avervi nulla in te  che non sia schietto e benevolo,  nulla che non convenga ad animai  socievole; il quale non si compiace  nelle immaginazioni di piacere^ o di  godimento qual eh’ ei sia, o di gaiti  o d’invidia o di sospetto, o di qua-  lunque altra cosa ti facesse arrossire  quando tu avessi a confessare che  l'avevi in mente. Un uomo di tal  fatta, il quale non indugia d’ oggi in  domani a por sè nel novero degli  ottimi, è come un sacerdote e un  ministro degli Dei, devoto, non meno  che agli altri, a quello che ha il suo  tempio in lui medesimo; per virtù  del quale l’ uomo diventa inconta-  minabile ad ogni jiiacere, invulne-  rabile ad ogni dolore, inviolabile ad  ogni ingiuria, insensibile ad ogni  malizia, sostenitore in campo della  massima fra le imprese, quella del non essere abbattuto da nessuna  passione, imbevuto di giustizia in-  sino al fondo, disposto ad accogliere  con tutta r anima quanto accàSe e  gli vien destinato, e non occupan-  tesi se non di rado nè mai senza  una grande e pubblica necessità, di  CIÒ che altri fa o dice o pensa ; per-  ch’ egli non ha altre azioni in sua  balìa che le proprie, e pensa conti-  nuamente alle cose che il fato del-  r universo gli arreca; per far si che  le prime sieno oneste, siccome ha  fede che le seconde sien buone ;  quando la sorte attribuita all’ uomo  procede dalla stessa causa che l’ uo-  mo e concorre insieme con 1’ uomo  ad un medesimo fine. Sa inoltre che  tutti gli esseri ragionevoli han pa-  rentela fra loro; che è quindi con-  forme alla natura dell’ uomo il tener  cura di tutti ; benché non sia da far  conto deir opinione di tutti, ma solo  di coloro che vivono secondo natura.   Quanto a quelli che vivono altra-  mente, egli tien sempre a memoria  che sorta cT uomini sono, e quali, e  in casa e fuor di casa, e di notte e di  giorno, si dimostrano, e con quali  praticano; non ha quindi in pregio  nessuno la lode che gli può venire  da tallente, la quale nè anche a sè  stessa non piace. Non operar mai nè contro al  tuo volere, nè senza relazione al  bene della società, nè senza avere  esaminato la cosa, nò con renitenza ;  non adornare con isquisitezza di frasi  il tuo pensiero: non esser uomo nè  di molte parole, nè di molte faccende.' Ancora, fa’ che il Dio tuo in-  terno abbia a governare in te un  animale maschio, attempato, citta-  dino, romano, imperatore, apparec-  chiato di tutto punto, siccome quegli  che non aspetta ornai se non il suono   [Di molte faccende in cattivo senso, come  chi dicesse faccendone, o faccendiere. della tromba* per uscir della vita,  e non occorre sforzarlovi nè col giu-  ramento, nè con la testimonianza  (f altr’ uomo ; nel lieto aspetto del  quale ben si scorge non avere egli  bisogno nè dell’ aiuto che vien dal  di fuori, nè della tranquillità che gli  altri procurano. Conviene adunque  esser ritto in piedi già, e non riz-  zarui solamente.   6. Se tu trovi qualche cosa di me- •  glio nella vita dell’ uomo che la giu-  stizia, che la verità, che la tempe-  ranza. che la fortezza, e, in una parola, che quella disposizione della  mente per cui ella si appaga di sè  medesima nelle cose die ti fa ope-  rare secondo la retta ragione,, e del  fato, nelle cose che senza parteci-  pazione della tua volontà ti vengono  distribuite; se, dico, tu trovi alcun  che di meglio che questo, a quello [Similitudine tolta dagli ordini della  milizia appo I ROMANI. 0Virco \urcIio. rivolgiti con tutta l’ anima e godine  siccome di cosa che hai ritrovato  esser V ottima. Ma se nulla ti si pre-  senta di meglio che il genio stesso  tuo interno, quando si è fatto signore  de’ propri moti, e rivoca ad esame  le proprie immaginazioni, e si è sot-  tratto^ come diceva Socrate, dalle  passioni del senso, e vive sottomesso  . agli Dei e pigliandosi cura degli uo-  mini ; se, a paragone di questa, tutte  . le rimanenti cose ti paion picciole  e vili, non dar più luogo appresso  te a nessuna altra, alla quale una  volta che tu ti sentissi propendere,  più non potresti senza repugnanza  preferire a tutti quel bene che è pro-  prio di te ed è il tuo; perchè al  bene j’azionale ed efficiente (3) non  vien contrapposto impunemente mai  nulla che sia di natura diversa, come  le lodi della moltitudine, o il co-  mandare, o i piaceri del senso ; tutte  queste cose, per poco che le si paiano adattare,' ti sopralfamio in un attimo  e ti strascinano. Or tu, dico io, scegli schiettamente e liberamente il  meglio, e a quello ti attieni. — Ma  il meglio è l’utile. Se l’utile al-  r uomo in quanto è ragionevole, bene  sta, quello procura: se l’ utile all’ uo-  mo in quanto animale, dillo su aper-  tamente® e vivi di poi senza boria nò  fasto, secondo quella determinazio-  ne. Ma bada, ve’, che non ti inganni  nell’ esame.  Non riguardare giammai come    i [Par che Antonino alluda qui alla teoria  dello adattare le nozioni generali alle cose  particolari, o, come diremmo noi, del con-  cetto alla rappresentazione, che è ciò in che  consisto il giudizio. Dillo spiattellatamente, se ardisci, senza  avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi  tutte le conseguenze di quel tuo detto: cioè,  vivi poi da animale mero e puro, senza in-  gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù  nè di giustizia, nè d* altro simile, che in  quel caso sarebbero un vano fasto di pa-  role. E provocazione al senso intimo dell'uo-mo. Utile a te nulla che sia per isforzarti  un dì a violar la fede, abbandonare  il pudore, odiare alcuno^ sospettare,  maledire, simulare, desiderar cosa j  che abbia bisogno di pareti e di ve-  lame . Chi ha posto innanzi ad ogni  altra cosa la sua mente e genio, e  il culto della virtù eh’ è propria di  quello, non fa tragedie, non geme,  non ha bisogno di solitudine, non  di frequenza d’ uomini; quel che più  impoita, vive senza ricercar nulla  nè fuggire; abbia ad esser lungo o ,  abbia ad esser corto Tintèrv^allo di  tempo durante il quale sarà conte-  nuta nel corpo l’ anima con che egli  lia a fare,' non se ne piglia nè an-  clic il minimo pensiero; e quando   [Con che egli ha a fare. Non veggo che  cosa abbia voluto dire Ornato. Il senso letterale del testo è: sia lungo o sia breve  il tempo, eh' egli avrà a far uso dell' ani-  ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi-  vale a dire: sia lungo, o sia breve il tempo  ch'egli ha a vivere. è giunta V ora dello sgombrare, cosi  spiccio se ne va, come se impren-  desse un’ altra qualunque di quelle  azioni che si possono con verecondia  e con dignità operare; da questo  solo guardandosi per tutta la vita, ,  che veruno dei moti della sua men-  te non sia mai men che convene-  vole ad animale intelligente o so-  ciabile. Nella mente dell’ uom castigato  e puro non troverai nulla di marcio,  nè tampoco nulla di contaminato o  che paia sano al di fuori e noi sia.  La vita di lui, a qualsivoglia ora lo  sorprenda la morte, non è mai im-  perfetta, come tu diresti quella tra-  gedia d’onde un attore si fosso riti-  rato prima d’ aver condotto a fine  la sua parte. Ancora non è in lui  nulla di villano, nè nulla di artata-  mente gentile; nulla che il leghi  alle cose esteriori nè nulla che lo  separi da quelle; nulla onde egli sia palesemente ripreso,' nè nulla che  covi addentro nascosto.  Abbi in rispetto la facoltà giu-  dicativa.^ Per lei sta che non si ge-  neri nella tua parte sovrana nessuna  opinione che non sia consona alla  natura o al fine per che 1’ uomo è  ordinato. Ed essa promette la infal-  libilità,* e l’amicizia con gli uomini  e r ubbidienza agli Dei.Messe adunque da banda tutte  le altre cose, queste poche sole abbi  in mente; ed ancora ricordati che i  r uomo non vive altro tempo che  questo presente, cioè un attimo; il  rimanente o lo ha vissuto o non sa  se il vivrà. Picciola cosa pertanto è   1 Intendi: nulla che appaia manifesta-  mente vizioso. Ossia la virtù del non cadere in er-  rore ; che vien definita da Zenono « la  scienza del quando conviene assentire ad i  un' apparenza, e quando no. > Questa ac-  compagna sempre il giudizio comprensivo,  che è il criterio della verità appo g-li  stoici. 0.  Digitizedh, Cnoi^li:   il tempo che l’ uom vive, picciola  cosa rangoletto della terra dov’egli  vive ; picciola cosa la fama anche la  più lunga eh’ egli lascerà dietro sè,  e questa tramandantesi per succes- sione d’ omiciattoli in omiciattoli,  morti quasi appena nati, ed ignari  anche di sè medesimi, non che di  colui il quale moriva è già gran  pezza.   li. Agli avvertimenti dati sin qui  s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de-  finir sempre o descrivere l’oggetto  che cade sotto al tuo senso, si che  tu lo scorga a parte a parte distin-  tamente e tutt’ insieme quale egli è  nella sua essenza nudo, e dir teco  stesso il nome proprio di quello e  il nome delle cose di che è compo-  sto e in che s’ ha da risolvere. Per-  chè non v’ ha nulla che sublimi  cotanto l’animo quanto il potere ar-  guire per la diritta via e con verità  ciascuna delle cose che incontrano nella vita, e saperle vedere per ino»  do da conoscere nello stesso tempo  di qual uso sendo questa tal cosa  al mondo, e a qual mondo, qual  valore ha rispetto al tutto e quale  rispetto air uomo, che è cittadino  della suprema fra le città, della  quale le altre città sono' come al-  trettante famiglie. Che cosa è, e di  che cosa è composto, e quanto tempo  è por duiare ij cesto che fa impres-  sione ora sul mio senso; di che virtù  s’ ha da far uso con esso, per esem-  pio, della mansuetudine, della for-  tezza, della veracità, della fede, della  semplicità, della frugalità, o simili.  Però, intorno a ciascuna cosa, con-  vien dire : questa mi viene da Dio ;  questa dalla sorte, dalla complica-  zione delle cause condestinate, e so-  miglianti cose; quest’ altra dal mio  consorto, dal mio congiunto, dal  partecipe d’ una stessa società con  me, il quale ignora nondimenò ciò  che è secondo natura per lui. Ma   10 non lo ignoro ; e però mi governo  con lui secondo la legge naturale  della società, con benevolenza e giu-  stizia; e ad uno stesso tempo ho  riguardo, nelle cose mezzane,' al  valore di ciascheduna. Se tu operi secondo la retta  ragione quel che hai fra mano, stu-  diosamente, c vigorosamente, placi-  damente, e non t’ occupi d’ altra cosa  tra via, ma conservi puro ed intatto   11 genio tuo, come se tu dovessi già  rassegnarlo ; * se a lui ti tieni stret-  Si chiamai! còse mezzane appo gli stoici  quelle che non sono nè ben nè male, cioè  nè virtù nè vizio. Le quali, comecché da  per sè non meritino d' esser cercato nè fug-  gite, si accettano nondimeno o si rigettano  per r aiuto o disainto che elle possono ar-  recare alla vita secondo natura. Quelle che  arrecan più aiuto, han più valore: quelle  che più disainto, più disvalore. Di questò  ha da tener conto il savio, ed accettare,  quando gli è data la scelga, quelle che han  più valore, o che han meno disvalore. 0.   ^ Sottintendi « a chi tol diede. » to, nulla aspettando, da nulla rifug-  gendo, contentandoti dell’ azion tua  presente secondo natura e della eroi-  ca verità d’ ogni cosa che tu dica:  felicemente vivrai. Ora non v’ ha  nessuno' che ti possa questo impedire. Come i medici han pronti sem-  pre i loro ferri e strumenti per le  cure inopinate, così abbi tu alla mano  i principi! * per la cognizione delle  cose divine ed umane; e non far  nulla mai, per poco che sia, senza  ricordarti del legame che unisce  queste con quelle. Perchè nulla di  umano farai tu bene se non lo ri-  ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando; per-  chè non sei per rileggere oramai nè  i tuoi ricordi, hè le azioni degli an-  tichi romani e greci, nè gli estratti   * Punti fondamentali di credenza, cre-  denze prime, dommi : decreta .appo Cicerone. d’ autori che riserbavi per la vec-  chiaia. Studiati dunque d’ arrivare  al fine, e poste da banda le spe-  ranze vane, soccorri a te stesso, se  pur ti cale di te, mentre che il puoi.   15. Non sanno * quanti significati  abbiano le parole rubare, seminare,  comperare, riposare, veder quel che  sia da fare, il che non si reca ad  effetto con gli occhi, ma con un’al-  tra sorta di vista. Corpo, anima, mente ; del corpo  son le sensazioni, deh’ anima le ap-  petizioni, della mente le credenze.^  Ricevere impressioni nella fantasia  è cosa anche da giumento; esser  mosso da appetiti è cosa anche da  fiera, anche da androgino, anche  da Falaride, anche da Nerone; avere  per iscorta la mente a quello che  ci pare nostro ufficio,* è cosa anche  Sottintendi c gli nomini del volgo.  Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci par eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano  Dei, da chi abbandona la patria, da  chi fa, quando ha chiuso le porte,  ogni opera nefanda. Se adunque  tutte queste cose abbiam comuni  cogli anzidetti, resta che sia proprio  dell’ uomo dabbene lo amare ed ab-  bracciare gli accidenti ad esso con-  destinati e guardarsi dal macchiare  e turbare con immaginazioni sconce  il genio che risiede nel petto di lui,  ma conservarlo propizio, seguendolo  modestamente* come un Iddio, non  dicendo mai nulla che sia contro  al vero, nè dicendo *mai nulla che  sia contro al giusto. Che se nissuno    ttro interene. Questo è il significato gene-  rale della parola ufficio appo gli stoici. Solo  allor quando le si aggingne l'epiteto di  perfetto denota essa il dovere^ che è come  V intereae iublime dell' uomo. Noto questo  perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo  anche il Corai, hanno maravigliosamente  scompaginato - e interpolato questo passo;  frantendendolo. Diog. Laerz.; Stobeo ; Cic.  de Officiùt otc. 0.    degli uomini non gli vuol credere  eh’ egli viva con semplicità, con ve-  recondia, e di buon animo ; nè s’adira  egli contro costoro, nè si svia dalla  strada che conduce al fine della yita.  al quale si vuol giunger puro, tran-  quillo, spedito, e conformato di vo-  lontà col proprio destino.  La parte che dentro di noi re-  gna,* quando è nel suo stato natu-  rale, ha tal disposizione verso gli  accidenti, che senza difficoltà si ri-  volge sempre al possibile e al dato.  Perch’ella non ama nessuna mate-  ria determinata ; ma si porta con  eccezione* a quello che si ha pro-  posto, e quando alcun che se le  viene ad attraversare per via, ella  si fa di quello stesso materia ; come  il fuoco, quando s’ impadronisce delle   [La parte sovrana o dominante.   [Eccezione : vocabolo stoico. Indica limi-  tazione del proponimento al possibile. Farò  la tal cosa, se non sarò impedito. cose die incontra, dalle quali una  picciola lampana sarebbe spenta ; ma  lo splendido fuoco assimila a sè tosto  ogni cosa che se gli butti dentro, e  la consuma, e per quella stessa s’innalza più in su.   [Nessuna azione sia fatta a caso  mai, nè altrimente che secondo una  delle regole costitutive dell’arte.*   3. Van cercando ritiri, alla campa-  gna, alla marina, sui monti; e tu  stesso suoli desiderare siffatti luoghi.  Ma cotesto è da uomo ignorantissi-  mo, potendo tu, a quell’ ora che tu  vuoi, ritirairti in te stesso. Perchè   * Ad ogni caso della vita corrispondo  una virtù da esercitare (vedi sopra, III, 11,  e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni virtù è  appo gli stoici nna scienza nello stesso  tempo ed un’ arte: parlo delle virtù pro-  priamente dette. Come scienza quindi e  come arte consta di certo proposizioni o re-  gole, ciascuna delle quali è parte integrante  di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni ufficio consta di corti nu meri. 0.      inroRDi.    «4   in nessuno altro luogo si ritira l’uomo con più tranquillità e con meno  brighe che nell’ anima sua ; massi-  mamente chi ci ha dentro tanto  alti oggetti di contemplazione che  il solo affacciarsi a loro procaccia  tosto ogni sorta di agevolezza. Quan-  do dico agevolezza, non voglio dir  altro che buon ordine. Concedi adun-  que sovente a te questo ritiro e rin-  novella quivi te stesso. Breve sia  r espressione ed elementare la forma  di quelle verità contemplative che  avran forza di rasserenare al primo  incontro V anima tua c. rimandarti  senza corruccio alle cose alle quali  ritorni. Perchè, di che cosa ti coi'-  rucci? Della malizia degli uomini?  Rammentati di quella sentenza, che  gli esseri ragionevoli son fatti gli uni  per gli altri; che il sofferire è parte  della giustizia; che malgrado loro  peccano ; che tanti si son già inimi-  cati, sospettati, odiati, ^perseguitatisi   a morte, i quali ora sono spenti, son  fatti cenere; e te ne darai pace. 0  ti crucci tu di quella parte che a te  Vien compartita dell’ universale de-  stino? Rinnovella il dilemma. 0 è  la provvidenza o son gli atomi,' op-  pure gli argomenti con che s’ è di-  mostrato che il mondo è come una  città. Ma forse tu ti contristi delle  affezioni del corpo? Pensa che non  han più nulla che fare con la mente  i moti o sieno soavi o sieno aspri  del senso, ogni volta che questa s’ è .  raccolta in sè medesima ed ha cono-  sciuto la sua propria potenza; al che  potrai aggiugnere quelle altre cose  che intorno al piacere e al dolore  hai apparato ed accettato per vere.   0 sarà forse T amor di gloria quello  che ti turba? Considera come è ratto   [Si allude al  sistema atomistico d’Epicuro, il quale nega la previdenza, e attribuisce il mondo e tutti i fenomeni del mondo ad una causa  non intelligente.. l’oblio d'ogni cosa, interminato dal -  runa parte e dall’ altra* il caos della  età, vana cosa il rumore, mutabile,  e inconsiderato chi in apparenza ti‘  esalta, angusto il luogo dove è cir-  coscritto il suo dire. Perchè tutta la  t.erra' è un punto: e qual parte di  essa è l’angoletto che tu abiti? e  quivi ancora quanti avrai lodatori, e  quali? D’or innanzi adunque sovvengati di ritirarti in questa tua vil-  letta di te medesimo; e sopra tutto,  non. t' affannare, non t’agitare, ma  sii libero e vedi le cose da uomo, da ‘  maschio, da cittadino, da mortale.  Ed abbi in pronto, fra le verità alle  quali dovrai far ricprso, queste due  principalmente. L’una, che le cose  non arrivano sino all’anima, anzi  stanno al di fuori immobili  e i  turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante e a parte pott come dice  la scuola], che è dentro. L’ altra, che  quanto tu vedi già già si muta e più  non è quel desso ; e rivolgi in mente  ciascuna delle mutazioni alle quali  tu stesso sei inten'enuto. Il mondo, alterazione. La vita, opinione. Se la intelligenza ci è comune  a tutti, anche la ragione per cui  siam ragionevoli ci è comune; se  cotesto è, anche la ragione impera-  tiva di ciò che si dee fare o non fare  ci è comune; adunque anche la legge  ò comune; aifunque siam concittadini ; adunque partecipiamo tutti ad  una specie di reggimento civile ;  adunque il mondo è come una città. Perchè qual altro direm noi che sia  quel reggimento civile di cui tutto  il genere umano partecipa? Di colà,  da quella città comune, viene a noi  r intelligenza, la ragione, la legge,  o d’ onde verrebbon esse? Perchè,  siccome quanto v’ha in me di terreo viene da una certa terra di cui fa  parte; e quanto v’ ha in me d’umido,  da un altro elemento; e quanto v’ha  di caldo e d’ igneo, da una certa  sorgente propria (nulla venendo mai  dal nulla nè ritornando nel nulla);  così anche la intelligenza dee venire  da qualche cosa. La morte è come la nascita, un  mistero della natura; composizione  e risoluzione di certi elementi in  quegli elementi medesimi. Ad ogni  modo non è cosa di che 1’ uomo  debba arrossire ; perchè non è cosa  che repugni alla natura dell’ animale  intellettivo o disconsegua* al prin-  cipio della formazione di quello.   6. Tali cose debbono di necessità  farsi in tal modo da questi tali; chi  le vuole altrimente, vuole che il fico  non abbia lattificcio. Del tutto, sov-  vengati che in brevissimo tempo e   [Intendi: ripugni, non aia conforme. !'•    tu e costui sarete morti: e che, poco  dopo, non rimarrà più di voi nè an-  che il nome. Togli via r opinione, ed è tolto  via il « sono stato offeso : » togli via  il « sono stato offeso, » ed è tolta via  r offesa. Quello che non fa peggiore l’ uo-  mo non fa nè anche peggiore la vita  di lui, nè le nuoce, nè esternamente  nè internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la natura a far cotesto. Siccome ogni cosa che accade,  giustamente accade; il che, se tu  osserverai con attenzione, troverai   [Comune. Più letteralmente: « È necessitata la na-  tura deir utile a far cotesto.» La natura  deir utile, cioè il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente  in questo luogo la voce natura), il quale  evolvendosi, come ragion seminale, succes-  sivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia  bene. Perchè non conviene dimenticar mai  che, appo gli stoici, l'utile non è altro che  il bene. Digilized by sempre vero: non solamente, dico,  secondo l’ ordine di conseguenza, ma  ancora secondo 1’ ordine di giustizia;  come se le cose procedessero da tale  che distribuisse a ciascuno secondo il  merito. Osserva adunque, come hai  cominciato ; ed ogni cosa che tu fai,  falla con questa condizione, che tu  sia uom dabbene, nel vero signifi-  cato della parola dabbene. Questo  carattere conserva in ogni tua azione. Non concepir le cose quali le  giudica colui che fa ingiuria, o quali  egli vuole che tu le giudichi; ma  vedile quali sono in realtà. Conviene esser sempre pronto  a queste due cose ; fai' solamente  quello che la ragion dell’ arte regia  e legislativa ti suggerisce per 1’ uti-  lità degli uomini ; e cangiar partito,  quando altri viene a raddrizzarti e  rimuoverti da una qualche falsa opi-  nione. Ma questo cangiamento dee  farsi sempre per un qualche motivo plausibile, come di giustizia, o  d’ utilità comune, o somigliante ; e  non mai perchè la cosa ti piaccia o  sia per arrecarti gloria.  Hai la ragione? Si. Che  dunque non 1’ adoperi? Perchè, se  essa fa quanto le spetta, che ti resta  a desiderare? Sei venuto al mondo qual parte ; disparirai dentro al tuo generatore. 0, piuttosto, ti raccoglierai nella  ragion seminale di lui, per via di mutazione. Molti grani d’ incenso su uno  stesso altare: l’uno è caduto prima  e l’altro dopo. È lo stesso.   16. Tra dieci giorni parrai un Dio  a coloro, ai quali pari ora una bestia  e una scimmia, se fai ritorno ai prin-  cipii e al culto della ragione. Non come se tu avessi a vi-  vere molte migliaia d’ anni. La morte  ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti è  dato, fa’ che tu sia uom dabbene. Di quante brighe si libera chi  non bada a quello che ha detto il vi-  cino, o ha fatto, o ha pensato, ma solo  a quello eh’ egli stesso fa, affinchè  r opera sua sia giusta, e santa, e  qual si richiede dall’ uomo dabbene !   Non andar guatando attorno i neri  costumi, ma corrér diritto in sulla  linea senza volgersi a destra nè a  manca. Chi vive abbagliato dal  pensiero di lasciar fama dopo morte,  non considera come ciascun di quelli  che si ricordano di lui morrà tosto  aneli’ egli, e poi ancora chi sarà a  costui succeduto, sinattantochè, pas-  sando da abbagliato in abbagliato e  da morente in morente, venga a spegnersi affatto ogni memoria. Ma sup-  poni anche immortale chi s’ ha a ri-  cordare di te, ed immortale la fama ;  che fa egli a te cotesto? E non dico.   a te quando sarai morto, ma a te  mentre sei vivo: che è la lode, se  on forse talora un mezzo per una  qualche dispensazione? Lascia stare ora, che sarebbe inopportuna, la  considerazione dello essere secondo  natura o no e cosa quindi che non  ha pregio se non per rispetto d’ una  qualche altra. Tutto che è bello,  qual che egli sia, è bello da per sè,  ha il termine della sua bellezza dentro di sè, nè annovera tra le sue parti  la lode, e lodato, non diventa nè peg-  giore, nè migliore. Dico, anche i belli  volgari, le cose belle per materia o  per lavoro artificioso (perchè, in  quanto al bello per essenza, ha egli  mai bisogno di lode alcuna? No,  niente più che la legge, niente più  che la verità, niente più che la be-  nevolenza o la verecondia). Quale di  esse è bella per venir lodata o perde  per venir biasimata? Lo smeraldo  diventa egli peggiore, se non si loda?  E l’oro, l’avorio, la poi^pora, una cetra, una spada; un fiorellino, un arboscello?  Se le anime sussistono dopo  morte, come può, dalla eternità in  qua, contenerle in sè l’aria? E  come contiene la terra i corpi che  da tanti secoli vi sono seppelliti?  Perchè nell’ istesso modo che questi,  dopo essersi conservati alcun tratto  di tempo, col mutarsi di poi e col dis-  solversi dan luogo ad altri cadaveri :  cosi le anime che passano nell’ aria,  soffermatevisi un certo tempo, si mu-  tano si struggono e accendono, e ve-  nendo accolte nella ragion seminale  dell’universo, fan luogo alle altre che  lor vengono appresso. Questo si può  rispondere nella ipotesi che le anime  sussistono dopo morte. E convien  recarsi a mente il numero non solo  dei corpi seppelliti a questo modo,  ma anche di quelli che ogni di e da  noi e dagli altri animali si mangiano. Perchè quanti se ne consuma egli e  se ne seppellisce, per così dire, nei  corpi di coloro che se ne cibano! E  pur nondimeno li cape uno stesso  luogo, pel convertirsi, eh’ essi fanno,  in sangue, pel trasmutarsi loro in  aria od in fuoco. Come giugnere, intorno a ciò, alla  cognizione del vero? Col distinguere  in materia ed in causa. Non isviarti ; ma fa’ sì che ogni  atto della tua volontà rappresenti il  giusto e che ogni tuo giudizio serbi  il carattere di comprensivo.  Tutto a me conviene quel che  a te conviene, o mondo. Non è im-  matura per me nè tardiva nessuna  cosa che sia opportuna per te. Tutto  è frutto per me quel che portano le  tue stagioni, o natura. Da te viene. 0il tutto, in te è il tutto, a te ritorna  il tutto. — Queir altro dice: 0 amica  città di Cecrope! ‘ e tu non dirai :  0 amica città di Giove?  Fa’ poche cose » dice colui, se vuoi viver contento. Non era meglio il dire, fa’ le cose che son necessarie, quelle che vuol la ragione d’un animai socievole, e a quel modo ch’ella le vuole? Cosi acquisterai la  contentezza non solo che nasce dal  far bene le cose, ma quella ancora  dell’ averne a far poche. Perchè, se  dalle cose che diciamo e facciamo lu  tronchi via le non necessarie, che  sono il maggior numero, assai più  agio ti rimarrà ed assai brighe avrai  meno. Quindi, ad ogni cosa che sei  per fare, domanderai a te stesso:  Non è questa una di quelle che non   [Aristofane, nella commedia de' contadini [DEMOCRITO, in un frammento conservatoci dallo Stobeo] sono necessarie? E conviene troncar via, non solo le azioni che non  son necessarie, ma anche i pensieri ;  perchè in questo modo non avrai nè  anche più* a temere che azioni so-  verchie li seguano.   Fa’ un po’ il saggio dei  come ti riesce la vita dell’ uomo dab-  bene, dell’ uomo che accetta con pia-  cere ogni cosa che gli venga com-  partita dal tutto ed a cui basta che  r azion sua propria sia giusta e la  disposizione dell’ animo suo bene-  vola. Hai tu veduto quelle cose? Vedi  anco queste. Non turbar te medesimo. Fa’ che tu sia semplice. Pecca  egli, un tale? A sè medesimo pecca.  T’ è accaduto qualche cosa? Bene sta;  ab eterno era stato destinato per te,  destinato insieme con te, tutto ciò  che ti accade. Al postutto, breve è  la vita: conviene far guadagno del   [seguendo la ragione ed il  giusto] Sii in te anche quando ti ricrei.  il mondo o è ordinato da una  mente, o è un accozzamento fortuito  di cose, venute d’ ogni parte, sì, ma  non di meno ordinate. 0 credi tu  che possa avervi un cotal ordine in  te e che nell’ universo alberghi il  disordine? massimamente quando ci  vedi, le cose cosi distinte le une dal-  r altre, così mescolate le une con  r altre e cosi intimamente collegate  tutte insieme col vincolo di reciproca  dipendenza?   28. Neri costumi, eiremminati co-  stumi, costumi duri, brutali, pecorini, puerili, infingardi, falsi, buffo-  neschi, taverneschi, tirannéschi.   29. Se è uno estraneo nel mondo  chi non sa che cosa c’ è nel mondo,  non è meno un estraneo chi non sa  che cosa vi si fa; un fuoruscito chi  esce fuori della ragion civile ; un cieco chi chiude gli occhi della men-  te ; un mendico chi abbisogna d’ al-  trui e non ha in sè quanto gli fa  d’uopo alla vita: un apostema' del  mondo chi si separa é allontana dalla  ragione della natura comune, avendo  a male ciò che accade; perchè quella  te lo arreca la quale arrecò te* me-  desimo ancora; una smozzicatura di  città chi distacca la propria anima  dall’ anima comune degli esseri in-  telligenti, che è una.  Chi filosofa senza tunica, e chi  senza libro. Quest’altro, mezzo ignudo. Non ho pane, die’ egli, e pure  sto fermo nella ragione. Ed io non  ho il cibo della dottrina, e pur ci sto fermo anch’io. Ama l’arte che hai apparato;  in essa ti acqueta ; e vivi il rimanente  della tua vita come quegli che ha  accomandato le cose sue con tutta l’anima agli Dei, e che di nessun  uomo non vuol essere ne tiranno nè  servo. Figurati, per esempio, i tempi  di Vespasiano; vedrai le stesse cose  che adesso: uomini che s'accasano,  che educan figli, che s’ammalano,  che muoiono, che fan guerra, che fan  festa, che mercatano, che coltivan la  terra, che adulano, che presumon di  sè, che sospettano, che tendono insi-  die, che desideran la morte di alcuno,  che mormorano del presente , che  fanno all’amore, che ammassan te-  sori, che voglion diventar consoli,  diventar principi. Or tutta quell età  è sparita. Passa ai tempi di Traiano] le stesse cose di nuovo. Quella età  è spenta anch’ essa. Considera nello  stesso modo le altre generazioni d’ uo-  mini e le nazioni tutte intere, e vedi  quanti si travagliarono e straziarono  per morir poi poco stante e risol-  versi negli elementi. Massimamente ricorderai coloro i quali hai veduto  a’ tuoi di aiTaticarsi per cose da nulla  e trascurare quello per che eran nati,  dove era da attendere a questo uni-  camente e non cercare altra cosa.   Qui è pur necessario il rammen-  tarti che a ciascuna azione corri-  sponde un certo valore e un grado  di applicazione proporzionato.* Per-  chè allora solamente eviterai il rin-  crescimento e la noia, quando non  ti occuperai più di quel che conven-  ga, nelle cose da poco.   33. Le voci che altre volte erano  in uso, or sono antiquate; così an-   [Termine stoico. Un grado di applicazione (dovutale per  parte deir uomo) proporzionato al valore,  cioè air importanza di essa. E vuol dire che  dobbiamo attendere e applicarci a ciascuna  azione secondo il valore o l' importanza di  essa azione, cioè molto a quelle che hanuo  un gran valore, e meno a quelle che ne hanno  un minore; e fra due di valore ineguale,  attendere piuttosto alla più importante, che  alla meno importante. che i nomi di coloro che una volta  furon celebri, or sono, per cosi dire,  antiquati; Cammillo, Cesene, Voleso,  Leonnato ; e poco dopo, Scipione, Catone ; poscia Augusto, poscia Adriano  c Antonino. Incerti e favolosi presto  diventano; presto ancora son sepolti  nell’ oblio universale. Parlo di co-  loro che in un qualche modo furon  chiari e ammirati ; perchè, quanto  agli altri, appena han reso l’ ultimo  soffio. «Nessun ne parla più, nessun  ne chiede. Ma che è ella poi,  alla fin fine, la. eternità del nome? Vanità pura. Che è dunque quello  a cui dobbiamo seriamente badare?  Questo solo : che le_ nostre intenzioni  sien giuste; le azioni, utili alla so-  cietà; le parole, non mai menzogne-  re; e r animo, disposto ad accettare  tutto che accade, siccome cosa ne-  cessaria, siccome cosa amica, sicco-  me cosa derivante dallo stesso prin-  cipio e dallo stesso fonte che noi. Volontario i’ abbandona nelle  mani del Fato, lasciando eh’ egli ti  destini a quelle cose eh’ ei vuole.  E il ricordante e il ricordato,  ambidue han la vita d’ un giorno.  Osserva di continuo coipe ogni  cosa nasce per via di mutazione ; ed  avvezzati a pensare che nulla ama  tanto la natura dell’universo, quanto  di mutar le cose che esistono e farne  dell’ altre simili. Perchè ogni cosa  che esiste è seme, in un certo modo,  di quella che per essa esisterà. Ma  tu ti immagini come semi quelli so-  lamente che si gittano nella terra  0 nell’utero. Cotesto è da uomo rozzo  assai. Or ora moirai, e non sei giunto  per anche ad esser semplice, nè im-  perturbato, nè senza sospetto che le  cose esterne ti possano nuocere, nè  sereno inverso tutti, nè a riporre la  prudenza nel solo operar con giu-  stizia,     Guarda alle menti di costoro,  e dei prudenti fra loro; quali cose  fuggono, e quali cercano!   39. Nella mente d’ un altro non  istà il tuo male; nè tampoco in un i  qualche cambiamento o alterazione   di quello che ti circonda. Dove sta  egli adunque?  In quella parte di  te, che giudica intorno ai mali. Quella  parte adunque non giudichi, e tutto  andrà bene. Ancorché la cosa a lei  più vicina, io voglio dire il corpo,  sia tagliata, sia abbruciata, marcisca,  infracidisca, stiasi nondimeno quieta  la pjirte che giudica di siffatti acci-  denti; cioè giudichi non esser nè j  male nè bene ciò che può accadere !  ugualmente al tristo ed al buono.  Perchè quello che accade ugual- ^  mente e a chi vive contro natura e  a chi vive secondo quella, non è cosa  nè secondo natura nè contro. Avvezzati a considerare il mon-  do come un animale unico, avente  un corpo unico ed un’ anima unica ;  e come ad un senso unico, che è il  senso di lui, ogni cosa risponda;  come con un impulso unico - ogni  cosa operi ; come ogni cosa concorra  alla produzione d’ogni cosa; e qual  sia la connessione e il concatena-  mento di tutte.   Sei una animuccia che porta  un cadavero, come diceva Epitteto.  Non è punto un male il venire a mutazione, come non è punto  un bene l’esser nato da mutazione. L’età è come un fiume di cose  che accadono, e una corrente rovi-  nosa; ' appena vedi 1’ una, ed è già  passata ed un’ altra passa, ed un’al-  tra passerà. Tutto quel che accade è cosa  tanto solita e tanto familiare quanto  le rose nella primavera e le frutta  [Intendi rapidissima e non cagione di  rovine , il che sarebbe nn disordine nel mondo,  che è 1' ordine per eccellenza. sa   nella state ; nè son da riguardare  altramente la malattia, la’ morte, le  calunnie, le insidie, e tutto quello  che allegra o attrista gli sciocchi. Nella successione dei casi,  quelli che seguitano han sempre re-  lazione di parentela con quelli ché  li han preceduti. Perchè non è già  quivi come un novero di cose indi-  pendenti r una dall' altra, cui la sola  necessità * insieme costringa, ma  sibbene una connessione ragionevo-  le ; e come negli enti si ravvisa una  coordinazione armonica degli uni  con gli altri, cosi negli accidenti si  manifesta, non già semplicemente  la successione, ma un certo modo  di parentela mai'aviglioso.   4C. Abbi a mente ognora il detto  di Eraclito ; che la morte della terra  è il diventar acqua, la morte del-  r acqua è il diventare aria, la morte    I Intendi «necessità esterna.» dell’ aria il diventar fuoco e viceversa.* Ricordati ancora di colui che  non sa dove inette la via;* e sicco-  me la ragione con la quale gli uo-  mini conversano il più assiduamente,  e che governa ogni cosa, è quella  per r appunto con che essi non van  d’ accordo ; e le cose in che s’ imbat-  tono ogni dì, son quelle che ad essi  paiono più strane. E siccome non  conviene fare nè dire a guisa di dormienti; perchè anche dormendo ci  par di fare e di dire; nè come fan-  ciulli che van dietro ai lor padri,  cioè nudamente e semplicemente a  quel modo che abbiamo appreso.   47. Come se un Dio ti avesse detto  che domani sarai morto, o posdomani [Pasfio famoso di ERACLITO, rammentato  da Diog. Laorzio, Plutarco, Massimo Tirio,  Clem. Aless. Filone, ecc., allegati tutti dal  Gataker a questo luogo]. Anche questo, come i seguenti, pare un  detto di ERACLITO. Vi fa allusione, credo,    al più, tu non ti cureresti gran fatto  dell’ avere a morire posdomani piut-  tosto che domani, ove tu non sia il  più codardo degli uomini; perchè,  quanto sarebbe il divario? così non  ti paia nè anche gran fatto l’avere  a morire piuttosto in capo a molte  diecine d’anni che domani.   48. Pensa di continuo quanti me-  dici son morti, che sovente in su  gli ammalati le ciglia aggrottarono ;  quanti astrologi, che la morte altrui,  come un gran caso, predissero; quan-  ti filosofi, che intorno alla morte o  alla immortalità migliaia di discorsi  fecero ; quanti prodi, che molti am-  mazzarono; quanti tiranni, che con  orribil ferocia, quasi non avessero  essi mai a morire, la podestà in sulle  vite esercitarono; quante città tutte  intere, per dir così, son morte. Elice, Pompei, Ercolano, altre senza  fine. Rammemora ancora quanti hai  conosciuto, l’ un dopo V altro : questi  fece a colui la sepoltura, e poi morì  egli, e queir altro la fece a lui; tutto  ciò in breve. La somma è, che le  cose umane son da riguardare come  di nessuna durata nè pregio; un po’ di  moccio, ieri ; mummia o ceneri, doma-  ni. E quindi, questo attimo presente  di tempo, si vuol passarlo conforme  la natura richiede, e finirsela in  pace; come oliva matura che cada,  benedicendo la terra che la portò,  e ringraziando l’ albero da cui fu ge-  nerata.   49. Sii simile ad un promontorio,  contro al quale incessantemente s’in-  frangono fonde, e quegli sta saldo,  e s’abbonacciano intorno a lui i  gorgogli dell’ acque. Sventurato  me, che la tal cosa ra’ è accaduta. Anzi, avventurato, che, la tal  cosa essendomi accaduta, me ne sto  nondimeno senza cruccio, nè ango-  sciato del presente nè pauroso del-  f avvenire. Ad ogni altro poteva accadere ; ma ogni altro non l’avria  senza angoscia sopportata. Perchè  adunque sarà quello una sventura  piuttosto che questo una ventura.*  E poi, chiami tu. sventura per l’ uo-  mo quello che non defrauda punto  la natura dell’uomo? E ti par egli  che defraudi la natura dell’ uomo  quello che non va contro al volere  di quella? E che? il volere della  natura tu il sai; forse che questo  accidente ti impedirà dall’ esser giu-  sto, magnanimo, temperante, pru-  dente, cauto, veritiero, verecondo, libero, fornito, in somma, di tutte  quelle doti che. unite insieme appagano e soddisfano intieramente la  natura dell’ uomo. Sovvengati adun-  que, ogni volta che una qualche  cosa ti contristerà, di ricoiTere a   1 Cioè a dire: c perchè chiameresti dun-  que sventura V esserti accaduta la tal cosa,  piuttosto che chiamare avventura felice  r aver tu saputo sopportarla con impertur-  bata costanza? » questo pensiero: che non solamen-  te essa non è sventura, ma anzi  il sopportarla da forte. è una buona  ventura.  Volgare aiuto, sì, ma nondi-  meno efficace per disprezzar la morte  è il rimembrar coloro che durarono  lentamente vivendo sino all’ età più  decrepita. Che hanno essi ora di più  che gli spenti di morte immatura?  Kcco, son buttati là in un qualche canto essi pure e Cadiciano e Fabio  e Giuliano e Lepido e quanti altri ve n’ebbe di cotal fatta, i quali accompagnarono molti alla tomba, e  poi ci furono accompagnati essi alla  fine. Breve, ad ogni modo, è l’in-  tervallo che l’uom vive, e questo  breve, tra quali cose, con quali uo-  mini, in qual corpicciuolo conviene  stentarlo! Non farne adunque gran  caso. Vedi, dietro a te, una eternità  senza fondo, e un’altra eternità in-  nanzi a te : posto così in mezzo, che  divario fai tu ,da una vita di tre  giorni ad una di tre secoli?  Fa’ che tu vada sempre per la  più corta via. E la più corta via è  la via secondo natura. Seguirai quin-  di, in ogni cosa che tu abbia da fare  o da dire, il più sano partito. Que-  sto proponimento ti libera dai tra-  vagli, dai combattimenti interni, e  da ogni sorta di dispensazioni* e  d’astuzie. Al mattino, quando con difficoltà  ti svegli, abbi in pronto questo pen-  siero: Mi sveglio all’ufficio d’uomo;  come adunque m’ incresce, s’ io vo  a far quello per che son nato e in  grazia di che sono stato messo al  mondo? 0 sono io stato fbrmato  forse per riscaldarmi giacendo in  sul letto? Ma quest© mi dà più  gusto. Per pigliarti gusto adunque  sei nato? e non anzi per operare?  per essere attivo? Non vedi le pian-  te, le passere, le formiche, i ragni,   [Intendi: cO il fine a cui nacqui è for-  se di giacermi a godere questo tepore del  letto?»   le pecchie, far ciascheduna l’ ufficio  suo, concorrer, ciascheduna all’ordi-  namento di quel mondo che le è  proprio? E tu non vuoi-far l’ufficio d’uomo? Non intendi a quello che  è secondo natura per te?  Ma è  necessario poi anche il riposo. È  necessario, è vero; ma la natura vi  ha posto un limite ; ve n’ ha posto  anche al mangiare ed al bere; e tu  nondimeno varchi quei limiti, vai al  di là del bisogno; quando si tratta  di fare, poi, la è un’altra cosa, tu  stai sempre al di qua del possibile. Gli è perchè tu non ami te  .stesso. Se tu amassi te stesso, ame-  resti anche* la natura tua, e la vo-  lontà di lei.* Gli artisti, che amano  l’arte loro, si consumano in sui la-  vori di quella, dimenticando il ba-  gno ed il cibo : ma tu, fai men caso  della tua natura che il tornitore del  [Intendi agire, operare, essere attivo, e  non infingardo] torniare, che il ballerino del ballare,  che r avaro della moneta, che il va-  nitoso della gloriuzza. Quando la  passione ha preso. piede in costoro,  lascian piuttosto di mangiare e di  bere che di attendere ad avanzare  la cosa a che son portati. E a te, le azioni sociali paiono esse cosa di  men pregio, cosa men degna di applicazione?   Come è facile il respingere e  il cancellare ogni immaginazione  turbolenta o disconvenevole, e tro-  varsi tosto in piena calma! Reputa degna di te ogni parola  ed azione che sia secondo natura;  e non ti persuada il biasimo od il  garrire che ne seguirà di taluni ; ma,  se è onesto il farla o il dirla, credi  eh’ ella è anche cosa da te. Perchè  quei tali hanno una mente lor pro-  pria per guida, ed operano per una  lor propria volontà; alle quali tu  non badare, ma va’ innanzi per la  diritta, seguendo la natura comune  e la tua. La via dell* una e dell’ al-  tra è una sola.  Vo per la carriera delle cose secondo natura, sino a tanto che  cadendo io trovi requie ; esalando lo  spirito in quello di che ogni giorno  respiro; giacendo su quello di che  mio padre raccolse il seme, mia ma-  dre il sangue, la balia il latte; di  che da cotanti anni mi pascolo e mi  abbevero, che sopporta me il quale  lo calpesto e in tanti e sì vari modi  lo adopro. Non s’ ammirerà la prontezza  del tuo ingegno. E sia. Molte altre [Intendi: «Vo per la via per cui vanno  tutte le cose che sono secondo natura, in-  sino a che cadendo io trovi requie; esa-  lando lo spirito in quest' aria che ogni  giorno respiro, per essere sepolto in que-  sta terra onde mio padre raccolse il seme  dell* esser mio, mia madre il sangue, la ba-  lia il latte; dalla quale da tanti anni io  traggo di che nutrirmi e abbeverarmi, che  mi sostiene mentre ora la calco coi piedi  0 ne uso ed abuso in tanti modi.» P.  cose ei sono, delle quali non puoi  dire, la natura non mi ci ha dato  disposizione. In quelle adunque ti  esercita, le quali dipendono intera-  mente da te : la sincerità, la gravità,  r amore al lavoro, l’ indifferenza al  piacere, la rassegnazione, la fruga-  lità, la mansuetudine, la libertà dello  spirito, r incuriosità, la serietà, la  generosità. Non vedi quante cose  puoi acquistare, dove certo non ha  luogo la scusa dello esserci disadat-  to, e tralasci per colpa tua? 0 è ella  forse la tua mala disposizione natu-  rale quella che ti sforza a mormo-  rare, a star neghittoso, a piaggiare,  ad accagionare il corpo, a lusingare,  a millantare, a passare per tanti e  tanti turbamenti dell’animo? No, per  gli Dei ! Da lungo tempo tu potevi  esser libero da tutto cotesto ; ma  solo avevi a cuore, se pur l’avevi,  di non farti scorgere per uno ottuso  e di poca penetrativa! E questo [Antonino ancora si vuol correggere col por  mente alle cose, e non istar sopra  pensiero, nè compiacerti nella tua  propria infingardaggine.  V’ ha chi, quando ha prestato un  rpialclie servigio ad alcuno, è pronto  anche a domandargliene il contracambio. Un altro non domanda con-  traccambio veramente, ma riguarda  colui come suo debitore nel suo se-  greto,, e sa quello che lia fatto. Un  terzo poi, non sa, per cosi dire, nè  anclie quello che ha fatto, ma so-  miglia ad una vite che ha portato  un grappolo, e non cerca nulla più  in là, messo eh’ ella ha fuoià il frutto  a lei proprio. Il cavallo die ha ga-  loppato, il cane che lia ormato, l’ape  che ha fatto il miele, e cosi Tuomo   1 Intonili: e questo t/t/'cf/o ancora si vuol  nondimeno correggere, quello cioè dell’ es-  sere ottuso e di poca penetrativa. Il testo  in questo luogo, e nelle linee che precedo-  no, è molto ellittico e poco chiaro, e diversamente spiegato dagli interpreti. che ha prestato un servigio, non  Lschiamazza,' ma passa atl altro, co-  me passa la vite a portar di nuovo un  grappolo d’ uva nella stagione. S’ha  egli adunque ad essere un di coloro  che fanno il bene, per così dire,  senza saperlo? Sì Ma convien  pure che 1’ uom sappia quello che  fa : sendo proprio dell’ animai sociabile il conoscere ch’egli opera so-  cialmente, e, per Giove, il votere  che anche colui, con chi egli ha a  fare, lo conosca. Tu di’ il vero:  ma non. pigli pel lor verso lo mie  parole; quindi sarai anche tu un di  coloro di che ho fatto menzione  quassù. Perchè anche essi son tratti  in errore da una qualche apparenza  di ragione. Ma se vorrai intendere  che cosa è quello eh’ io dico, vivi si-  curo che non avrai a lasciare indie-  tro nessuna azione sociale per questo.  Cioè non dee schiamazzare, ma passuire  ad altro ecc. Preghiera degli A.teniesi: «Pio-  vi, piovi, o amico Giove, sui campi  degli Ateniesi e sui prati. )> 0 non  s’ha da pregare, o così alla buona  s’ ha da pregare e con libertà di parole. Come s’ usa di dire, Esculapio  ordinò a colui il cavalcare, o il ba-  gnarsi nell’ acqua fredda, o l’andare  a piè nudi, si dice del pari, e con  locuzione non diversa, la natura or-  dinò a colui una malattia, una stor-  piatura, una perdita, o altro simile.  In quella prima frase, di fatti, la  parola « ordinò » vuol dire assegnò  la tal cosa a colui siccome correla-  tiva alla salute; e in questa, i casi  che avvengono all’ uomo gli sono as-  segnati, in un certo modo, come  correlativi al destino. Così ancora si  dice « i casi (die avvengono a come  son dette dagli artefici « avvenii*si »  le pietre quadre nelle mura o nelle  piramidi quando elle s* adattano l’ una air altra secondo un disegno deter-  minato. Perchè del tutto l’armonia  è una. E siccome di tutti i corpi  presi insieme è composto il gran  corpo del mondo, cosi di tutte le  c,ause prese insieme è composta la  gran causa del fato. Intendono ciò  eh’ io voglio dire anche i più rozzi,  quando dicono : * ella è toccata a lui.  Adunque ella andava a lui, adunque  era ordinata per lui. Riceviamo per-  tanto gli ordinamenti della natura  come facciamo quei d’Esculapio. Anche in questi v’ ha molto dell’ amaro,  e pur gli accettiamo di buon grado  per la speranza della sanità. Or be-  ne, r adempimento di ciò che la  natura ha voluto sia lo stesso per te  che la tua sanità. Accetta di buon  grado, per dura che ti paia, ogni  cosa che accade,- pensando che ella  conferisce alla sanità del mondo e  [Vale a dire: « itiostrauo di intendere] quando dicono ecc. al buon successo dei disegni di Giove. Perchè ella non sarebbe venuta  a qualcheduno, se non fosse conve-  nuta al tutto: sendo questo il pro-  prio d’ogni natura, e poni anche la  più infima, che quanto ella arreca  sia sempre acconcio al governato da  iei. Per due ragioni adunque dèi  tu aver caro ciò che accade: Tuna,  che questo accade a te, è ordinato  per te, ha attinenza in un certo  modo con te, essendo stato conde-  stinato di lassù con te dalla più an-  tica delle cause e dalla più veneran-  da; l’altra, che quanto tocca in sorte  a ciascuno, concorre, come causa par-  ticolare, alla prosperità, alla perfe-  zione, e, sto per dire, alla perma-  nenza istessa del reggitore del tutto.  Perchè diventa mozzo l’intero quando  tu tronchi via un minimo che, sia  dalla continuità delle parti, sia dalla  concatenazione delle cause. E tu lo  tronchi,- per quanto sta in te, e lo distruggi, per così dire, quando ti  corrucci di quel di’ è accaduto.  Non dèi indispettirti, nè per-  derti d’ animo, nè impazientirti teco  stesso, se la non ti riesce cosi per be-  ne ogni volta il governarti secondo i  retti principii in quello che tu fai;  ma, uscito di via, ritornarci; quando  la maggior parte delle tue azioni  sono passabilmente degne d’un uo-  mo, contentartene; ed amare quello  a che ritorni ; RITORNANDO ALLA FILOSOFIA, non come ad un pedagogo, ma come  un eh’ abbia mal d’occhi alla spugna  ed all’uovo, un altro al cataplasma o alla doccia. Così non ti darà più  fastidio il dovere ubbidire alla ragione, ma anzi troverai in quella il  riposo. E ricordati che la filosofia  vuole quello solamente -che la tua  natura vuole; e che sei tu quegli il  quale volevi altro, che non era secondo natura. Ma pure, che v’ha  egli di piii liisingliiero? E il piacere, non t’ inganna egli appunto  perchè è lusinghiero? Ma vedi se  non fossero cosa più lusinghiera la  magnanimità, la libertà, la sempli-  cità, la bonarietà, la santità. Quanto  alla prudenza poi, v’ ha egli cosa più  lusinghiera di quella? se tu badi allo  andar esente da ogni fallo e all' avere  a seconda ogni cosa, che è il proprio della virtù comprensiva e intellettiva?  Le cose stanno immerse, per  cosi dire, dentro a un buio tanto  folto, che a filosofi non pochi, e non  dei più volgari, elle son parate del  tutto incomprensibili. E gli stoici  essi medesimi tengono che elle sieno -  comprensibili sì, ma difficilmente:  e che ogni nostro assentimento sia  mal certo;* perchè, dove è fuomo [Questa ed altri Inoghi dei Ricordi provano che gli Stoici dopo Crisippo venivan.<»i  facondo sempre più scettici, ed aveano essi  medesimi il sentimento della debolezza scientìfica della loro scuola. che non si sia mai ricreduto? Prendi quindi a considerare gli og-  getti in sè stessi; come poco dura-  no, come poco valgono, come possono  - cader nelle mani d’ un bagascione,  d’ una cortigiana, d’ un malandri-  no. “- Passa ai costumi degli uomini  con chi tu vivi; il più gentile dei  quali appena si può tollerare, per  non dire che appena v’ ha fra loro  chi possa tollerar sè medesimo. In  tanta caligine adunque, in tanto lez-  zo, in un tal flusso continuo e della  materia e del tempo, e del moto e  di quanto è in moto, qual cosa v’ ab-  bia mai che meriti la nostra stima,  o anche pur solo la nostra premura,  io noi so immaginare nè vedere.  Che anzi ci bisogna confortar noi  medesimi con l’aspettativa della dissoluzion naturale, e non adirarci  dell’indugio, ma acquietarci in que-  ste sole due cose : T una, che nulla  mi può accadere che non sia secondo la natura dell’ universo ; l’ altra, che  è in mia potestà il non far nulla  contro il Dio e il Genio mio. Perchè  nissuno y’ ha che mi possa sforzare  mai ad offenderlo.   il. Che uso fo io ora della mia  anima? cpiesta interrogazione con-  vien fare a sè medesimo in ogni  circostanza, ed esaminar sè stesso,  che v’ ha egli ora in quella parte di  me la quale è detta sovrana? e che  sorta d’ anima è ella ora la mia? Non  è un’ anima di fanciullo? o di gio-  vinetto? o di donnicciuola? di tiran-  no? di giumento? di fiera. Quali sieno quelli die al volgo  })aion beni, tu il potrai conoscere  anche da questo. Chi ha preconce-  pito nella mente, qual bene, alcuna  di quelle cose che sono un bene  davvero, come, per esempio, la prudenza, la temperanza, la giustizia. la fortezza, non può, sincliè un tal  concetto gli dura, pre^star più orec-  chio a chi venga a dire in sulla scena,   «Tanta ho di ben dovizia .... eco. I   perchè questo ripugnerà al bene al  (juale egli pensa. Ma chi ha precon-  cepito alcun dei beni volgari, ascol-  terà ed accoglierà con piacere sic-  come arrecato a proposito, quello  che il comico dice. Così persino il  volgo s’ accorge della differenza. Altrimenti non rigetterebbe nell' un  .de’ casi quel motto, che accoglie poi,’  siccome calzante e faceto, nell’altro,  quando lo vede applicato alle ricchezze o a quelle altre cose che fo-  mentano la effemminatezza o l’am-  bizione. Fàtti innanzi adunque e  domanda se si hanno da stimare e  [Verso di tm autor comico, che dovea  esser famigerato in sul teatro a quei tem-  pi; il senso del quale, benché Tautore noi  citi intero, appare dall' ultime linee di que-  sto paragrafo]  da riguardar come beni quelle cose  rispetto alle quali può molto accon-  ciamente venir soggiunto, che al  possessor loro, per la soverchia ab-  bondanza, non riman più luogo ove  fare i suoi agi.  Sono un composto di causa e  di materia. Ora nè questa nè quella  non è per ridursi a nulla mai; co-  me neppure non è venuta dal nulla.  Adunque ciascuna parte di me di-  venterà per via di mutazione una  qiìalche parte del mondo, e quella  poi ancora un’ altra parte del mon-  do, e così all’ infinito. Da una simi-  gliante mutazione ho avuto io resi-  stenza, e la ebbero i miei genitori, e  così risalendo, sino ad un^altro in-  finito; perchè nulla osta che si fa-  velli a questo modo, quand’ anche  vogliamo stabilire che il mondo si  regga a periodi determinati.'   1 Allusione alla c conflagrazione del mondo »  domma Eraolitico, la quale doveva accadere. La ragione e V arte ragionativa  sono facoltà che si contentano uni-  camente di sè medesime e delle  operazioni lor proprie. Piglian le  mosse dal principio peculiare a loro ;  vanno dirittamente al fine proposto;  ondechè son nomate catortosi le  azioni di cotal sorta, significando col  nome la rettitudine della via. Non è da dire che sia dell’uo-  mo nessuna di quelle cose che non  ispettano all' uomo in quanto uomo.  Non sono punto requisiti dell’uomo,  nè le promette la natura dell’ uo-   a certi tempi, e distruggersi allora tutto  r ordine esistente delle cose, per dar luogo  ad un nuovo. Fu accettato dagli stoici ante-  riori, modificato e cangiato dai posteriori :  tra i quali non volle decider nulla Antonino.  por essere consumato ivi  dal fuoco, se T universo va soggetto a con-  flagrazioni periodiche, o per servire con  vicenda perpetua al rinnovamento di lui  s'egli dura eterno o incorrotto. Beota effectio appo Cicerone, lib. Ili de  Fin., cui vedi. Ciò che in questo § è no-  mato catortoei è l'aziono conforme al dovere,  ed è voce solenne alla scuola.  lYio o attende complemento da quel-  le. Adunque non istà nè anche in  loro 11 fine dell’uomo, nè iLbene. per conseguenza, che è parte integrante del fine. Ancora, se alcuna  di queste coso spettasse all’ uomo,  non ispetterebbe a lui il dispregiarle  o r opporsi ad esse ; nè sarebbe lo-  devole chi mostrasse non averne  bisogno; nè sarebbe buono chi se  ne disdice alcuna, se buone elle  fossero, f^ppure, quanto più Tuoino  si priva di queste cotali cose, o so-  stiene d’ esserne privato, tanto più  buono è tenuto.'   IG. Quali saranno i tuoi pensieri  abituali, tale sarà la tua mente:  perché si tigne dai pensieri la men-  te.^ Tignila adunque con l’ abitudine   ' Dunque queste cotali cose non sono veri  beni per l' uomo in quanto è uomo, cioè ragionevole. [Questa conclusione è sott' intesa]. [Demostene più di una volta nelle sue  Filipj iche disse che quali sono le azioni in    (li pensieri come questo, per esempio: Dove si può vivere, quivi si può  anche ben vivere. Nella corte si può  vivere; adunque anclie nella corti;  si può ben vivere. K come quest’ altro: Una cosa eh’ ò fatta a contem-  plazione d' un’ altra, è fatta per qucl-  r altra; se è fatta per quell’ altra, a  quella ò portata; se a quella c por-  tata, quivi è il suo fine; se quivi è  il suo fine, quivi è anche il suo utile  e il suo bene. Adunque il bene del-  r animai ragionevole è la comunità;  sendo dimostrato già da lunga pezza  che per la comunità siam nati> O  non era evidente forse, che gli es-  seri men degni son fatti a contem-  plazione dei più degni, e i più de-  gni, a contemplazione gli uni degli  altri? che gli esseri animati son più  degni che gli inanimati, e i ragio-  nevoli più degni che gli animati?   cui sogliono versare gli uomini, tali soglio-  no pur essere i sentimenti deU’animo loro, Andar dietro all’ impossibile è  cosa da stolto. Ora è impossibile  che i malvagi non facciano cose di  questa sorta. Nulla accade a nessuno, che  egli non sia nato per sopportare.  Le stesse cose accadono a un altro,  il quale, o ignorando eh’ elle sieiio  accadute, o volendo dar a divedere  grandezza d’ animo, sta inaltérabile  e non se ne duole. Tristo a noi, se  la ignoranza o il rispetto umano  avran più forza che la prudenza. Le cose, per sè stesse, non  toccano l’ anima punto; nè hanno  accesso all’ anima; nè posson volger  r anima nè muoverla. Si volge ella  e si muove da per sè sola; e quali  sono i giudizi di che ella si reputa  degna, tali ella fa che sieno per lei  gli oggetti che le stan presso. Cioè, quali io le vedo fare a costui,  ora. Cioè a dire: «quali sono i giudizi che    Per un riguardo, l’ uomo è di  quelle cose che ci toccano il più  strettamente, in quanto convien far  del bene agli uomini e sopportarli;  ma in quanto si oppongono alcuni  alle azioni debite, diventa per me  cosa indifferente 1’ uomo, non meno  che il sole, non meno che il vento,  non meno che le bestie. Dalle quali  cose può benissimo venir impedita  una qualche azione; ma la volontà,  ma la disposizione interna non in-  contrano impedimento mai, per l’ ec-  cezione ‘ con che l’anima accompagna  i suoi conati e pel rimovere, eh’ ella  fa, l’ostacolo. Perchè l’anima ha  facoltà di rivolgere al suo scopo ogni  cosa che s’ opponga alla attività di  lei; e serve quindi ad un’ azione ciò  che impediva quella certa azione, e   ella stima degno di sè il fare delle cose  esteriori, cotali ella fa che per lei sieno le  dette cose. diventa una via ciò che le sbarrava  quella certa via.  Di quanto v’ lia al mondo, onora  r eccellentissimo. L’ eccellentissimo  ò quello che si vale di tutto il resto  e che tutto il resto governa. E così  ancora, di quanto v’ ha in te, onora  l’eccellentissimo. L’eccellentissimo  in te è quello che v’ ha in te di  congenere a quel primo. Di fatti esso  si vale in te di tutto il resto, e da  esso è governata la tua vita. Quello che non offende la città,  non offende il cittadino. Ad ogni  pensiero di offesa che ti paia aver  ricevuto applica questa regola; se la  città non è offesa da costui, non  sono offeso nè anche io. Che se la  città è offesa, non conviene adirarsi,  ma insegnare ‘ a chi l’ha offesa  dove sta il mancamento. Do il mio pieno voto alla correzione  dello Schultz, preceduto dal Gatakero, ben-  ché questi non sapesse così bono porro al  suo luogo le pardo scadute. Considera sovente la rapidità  con die passa e si dilegua tutto  quello che esiste e che nasce. Per-  chè la materia, a guisa d’ un fiume,  è in un flusso perpetuo; le azioni,  in uno avvicendarsi continuo ; le  cause, in mille determinazioni di-  verse; nulla, per cosi dire, che stia;  e questo infinito che presso presso  t’incalza, del passato e del futuro,  è un abisso dentro al quale si spro-  fonda ogni cosa. Come adunque non  è uno stolto chi, fra questi termini,  si gonfia, o si travaglia, o guaisce,  per cosa che minimamente il mo-  lesti, come s’ ella avesse pure a du-  rare un buon tratto di tempo? Pensa a tutta quanta la materia, della quale per una minima  parte partecipi; e a tutta quanta la  età, della quale un breve e momen-  taneo intervallo ti è assegnato; e  all’ universale destino, del quale che  parte aliquota sei?  /Ucuno pecca. A me che fa?  Tocca a lui il pensarci; sua è la  volontà, sua 1’ azione. Io ho adesso  quel che la natura comune vuol che  adesso io abbia, e fo quello che la  natura mia propria vuol che adesso  io faccia. La parte sovrana e dominante  deir anima tua stia salda ai moti  della carne, o sien piacevoli o in-  grati, e non vi partecipi, ma circo-  scriva sè stessa e tenga confinate  nelle membra quelle passioni. Che  se elle penetrano ciò nondimeno  sino alla mente, per la simpatia in-  volontaria che han fra loro le parti  d’ uno stesso tutto ; allora, al senso,  che è cosa naturale, non -si vuol  tentar di resistere; ma si guardi la  parte sovrana dallo aggiungervi del  suo r opinione che quello sia un  bene od un male.  Vivere con gli Dei. E que-  gli vive con gli Dei, il quale di con-  tinuo appresenta loro T anima sua  disposta di tal maniera che élla si  contenti di quanto le vien distribui-  to e faccia quanto vuole il Genio cui  Giove distaccò da sè stesso e diede  a lei per reggitore e per guida. Questo è la mente e la ragione di  ciascheduno.  T’adiri tu con quello che sa  di caprino? T’adiri tu con quello a  cui pute la bocca? Che vuoi tu che  ci faccia? Egli ha la bocca a quel  modo, egli ha le ascelle a quel modo,  di necessità debbono uscirne esala-  zioni a quel modo. Ma, odo chi  dice, r uomo ha la ragione, e può  scorgere, rillettendo, in che pecca. Egregiamente. E anche tu, dunque,  hai la ragione ; eccita, con la disposi-  zione razionale, in lui la disposizione  razionale; ammaestralo; ammonisci-  lo. Perchè, s’egli ti ascolta, lo gua-  rirai, e non c’ è più uopo di collera.   28. ' Nè eroe di tragedia, nè putta. Come fai conto di vivere uscito  di qua,^ puoi vivere in quello stesso  modo anche qua. Che se non tei  permettono, allora esci pur anche  <lalla vita: ma come quegli a cui  non incontra nulla di male. C’è del  fumo qua, io me ne vado. Perchè  stimi questo gran cosa? Ma sin-   [Queste parole nella vulgata stanno alla  fine del § precedente; ma, se non sono cor-  rotte, debbono essere separate e formare da  por sè sole un paragrafo.   2 Cioè, non camminar sui trampoli, e non  istrascinartì per terra: non tanto alto da  parer gonfio o affettato, non tanto basso da  muovere a schifo altrui. Cioè, dalla corto. Allude, secondo che ci avverte il Gata-  kero, al proverbio :« tre esserle cose che ci  caccian fuori dì casa; il fumo, il pioverci  dal tetto, e la moglie astiosa.» Vuol dun-  que che r uomo esca di vita con quella in-  differenza con che uscirebbe dalla camera  dove vi avesse fumo. tantoché nulla di somigliante non  mi sforza a partire, me ne rimango  libero, e nessuno m’ impedirà dal  fare le cose eh’ io vorrò ; e vorrò se-  condo la natura d’un animai ragio-  nevole e sociabile.  La mente dell’ universo ama la  comunanza. Perciò ha fatto gli esseri  men degni in grazia dei più degni,  e i più degni ha conciliato gli uni con  gli altri. Tu vedi come essa gli ha  subordinati, coordinati, dato a cia-  scuno secondo il suo grado, e ridotto  a mutuo consenso i primi tra loro. Come ti sei portato sinora con  gli Dei, co’ genitori, coi fratelli, con  la moglie, coi figli, coi maestri, co-  gli educatori, con gli amici, coi fa-  migliari, co’ servi; se, riguardo a  tutti, puoi dire insino ad ora:   « Nè d’ opre mai nè di parole oltraggio   A nullo io fea.* »   ' Omero, Odiss. Kanimenta per quali traversie sei  passato e quali hai avuto la forza  di tollerare : e siccome è piena ornai  per te la storia della vita e termi-  nato r incarico. Che cosa s’ è potuto scorgere in te di bello; quanti  piaceri e quanti dolori hai dispre-  giato ; quante occasioni di gloria hai  negletto ; a quanti sconoscenti ti sei  dimostrato amorevole. Forse tutto il paragrafo sarà più chiaro,  e il pensiero di Antonino meno ambigua-  mente espresso se diremo : < Qual fosti  infino ad ora verso gli Iddii, i parenti, i  fratelli, la moglie, i figlinoli, i maestri, gli  educatori, gli amici, i servi? Puoi tu dire,  rispetto a tutti: nè d'opra mai, ni di parole  oltraggio a nullo io /«a ? De' passati tuoi  casi e delle passate fortune, quante hai  saputo tollerare da uomo? Conchiuso per te  oramai è il dramma della vita, finita la parte  che ti era assegnata. Ebbene, quante sono le  buone azioni che di te puoi ric-ordare?  Quanti piaceri, quanti dolori hai saputo  disprezzare? quante cose stimate gloriose,  * non curare? a quanti ingrati essere bene-  fico e amorevole?» In questo paragrafo il  Pierron ed altri dei migliori interpreti pre-  sero alcuni grossi granchi ; 1' Ornato intese   Per qual cagione certe anime  inesperte ed ignare confondono esse  una esperimentata e sapiente? Qual è dunque l’ anima esperimen-  tata e sapiente? Quella che sa il prin-  cipio ed il fine, e conosce la ragione  che penetra la materia delle cose e  governa, secondo cicli determinati,  per tutta la eternità 1’ universo.  Oramai sei cenere, e schele-  tro, e un nome, o nè anco un no-  me; e il nome è strepito e rimbombo  mero. Le cose di che si fa gran  conto nella vita son vuote, fracide,  picciòle, cagnolini che si mordono,  fanciullini astiosi che ridono e poco  stante guaiscono. E la fede, e la ve-  recondia, é la giustizia, e la verità,   oc Air Olimpo, la terra abbandonando  Dalle vie spaziose.* »    meglio di tutti ; ma troppo fedele alla let-  tera del testo, non fu chiaro abbastanza  nello esprimerne il senso. Esiodo, opere e giorni, v. 195. Sottin-   Che dunque ti può trattenere qui  ancora? quando le cose sensibili sono  senza costanza nè sussistenza; gli  organi del senso, ottusi- e pronti a  impressionarsi del falso; l’animuc-  cfa * tua stessa, non altro che una  esalazione del sangue ; e 1’ aver fama  appo cotali, cosa del tutto vuota.  Che dunque aspetti? Con pazienza  il tuo qual eh’ ei sia o spegnimento  0 traslocamento. Ed intanto che quel-  lo viene, che cosa ti basta? Che  altro, se non venerar gli Dei e bene-  dirli, beneficar gli uomini e soppor-  tarli e astenerti con loro,^ ricordan-  doti che quanto è fuor dei limiti del  tuo corpicciuolo e della tua aniinuc-  cia non è nè in tuo potere nè tuo?    tendi un verbo, recaronsi o altro che più  ti piaccia. P.   t Per antniuccta, intende* spesso Antonino  il principio animale mero, comune anche ai  bruti, vedi la nota (6) in fino del volume. Cioè nelle tue relazioni con loro. Tu puoi prosperar sempre,  giacché puoi andar per la diritta  sempre, giacché puoi giudicare di-  rittamente sempre ed operare. Due  proprietà son queste, comuni al-  l’anima e di Dio ' e dell’ uomo e  d’ogni animai ragionevole: il non  potere essere impedito da altrui, e  lo avere il proprio bene interamen-  te riposto nella disposizione interna  e nella azione conforme alla giustizia, senza che il desiderio arrivi  più oltre. Comuni all'anima e di Dio e dell'uomo. Secondo il concetto stoico Iddio ora  un corpo o un essere vivente ed eterno,  non simile all' uomo, ma composto tuttavia,  come rnomo. d’anima e di corpo. L’unità  del corpo divino coll’anima divina ora per  essi il mondo, e quindi si accordavano a  dire che Dio è il mondo, cioè la materia,  dotata di una certa qualità e forma, colla  forza attiva in essa immanente. L'anima  di Dio sarebbe dunque questa forza attiva  immanente nel mondo, cioè nel corpo divino. Se cotesto non è malizia mia,   ' nè azione procedente da malizia mia, '  nè riceve danno la società, perchè  me ne do io fastidio? E qual dan-  no per la società v’ ha egli? Non lasciarti portar via dalla  immaginazione al primo incontro;  porgi aiuto altrui, sì, a tuo potere  e secondo l’ importanza .del caso,  qiiand’ anche lo scapito non sia se  non di cose mezzane ; * ma guardati •  dall’ immaginare che sia un danno.  Perchè è una cattiva abitudine. Come quel vecchio che nel partirsi  domandava la trottola del suo allie-  vo, sapendo bene che ella era solo  una trottola: così hai da fare anche   tu * sui rostri. L’uomo, hai tu  dimenticato che cose son queste? No. Mma costoro ne fanno gran caso. E per questo hai da diventare  stolto anche tu ? ® Dovunque il   colga la morte, uomo avventurato. E avventurato vuol dire che ha dato  buona ventura a sè stesso ; e buona  ventura sono i buoni moti dell’ ani-  mo, le buone volontà, le buone  azioni. La materia delle cose è ar-  rendevole e piglia volentieri ogni  forma. E la ragione che 1’ ammini-  stra non ha in sè nessuna causa di  mal fare, non avendo malizia, e non  fa (juindi male a nulla, nè nulla è  dannificato da lei. Ed ogni cosa av-  viene ed ha compimento per essa.  Non ti curare che tu stia al  freddo o che tu stia al caldo, quando  fai il tuo dovere; che tu caschi di  sonno 0 che tu abbia a sufficienza  dormito ; che te ne venga biasimo o  che te ne venga lode ; che tu muoia,  o che tu attenda ad un’ altra azione  qualunque. Perchè ella è anche una delle azioni pertinenti alla vita,  quella per cui si muore; e basta  anche quivi, per conseguenza, ben  disporre del presente.   3. Vedi addentro; nè la qualità  propria di nessuna cosa nè il valore  ti sfugga.  Tutti gli oggetti in brevissimo  tempo si mutano; ed o avvampe-  ranno, se la materia è unificata, o si  disperderanno. La ragione governatrice sa bene  con qual intenzione e che cosa opera,  e su qual materia. Il miglior modo di vendicarsi  d’ una ingiuria è il non rassomigliare  a chi r ha fatta. D’ una sola cosa prendi piacere,  è di quella ti soddisfa; del passare  dall’ una azion sociale all’ altra azion  sociale, ricordandoti di Dio. [Intendi per aziono sociale una aziono  utile alla comunità dogli uomini, e qual si  conviene ad un animalo socievole qual è l’uomo. La parte sovrana è quella che  eccita e volge sè medesima; che fa  sè quale ella vuole,* e fa parere a  sè quali ella vuole tutte le cose che  aw^engono. Secondo la natura dell’ universo  ogni cosa si fa; non potendosi fare  secondo una qualche altra natura la  (piale 0 conterrebbe in sè quella, o  sarebbe contenuta in quella, o sta-  rebbe separata al di fuori di quella. 0 confusion d’ ogni cosa, accozzamento d’atomi, e disperdimento; o unità nel tutto, ordine, prov-  videnza. Se- il primo supposto ha  luogo, come desidero io di rimanere [Cioè che ha il potere di modificare sè  stessa come ella vuole. Se contenesse in sè la prima, non sa-  rebbe più questa la natura universale, ma  r altra; se fosse contenuta in essa, quel  che si farebbe secondo lei sarebbe fatto, a  fortiori, secondo l' altra: e se stesse sepa-  rata al di fuori, ci sarebbe qualche cosa  fuori dell* universo, il che è assurdo. più .a lungo in un guazzabuglio di  quella fatta e lordume? Che altro  mi debbe star a cuore che il « diven-  tare terra a qualunque modo? » E di  che mi turbo io? Verrà il disperdi-  mento a me, checché io mi faccia. Ma se è vero il secondo, adoro il  reggitore dell’universo, e in lui sto  fermo e confido. Quando vieni sforzato punto  punto dalle circostanti cose a tur-  barti, rientra subitamente in te stes-  so, e non istar fuori del ritmo ’ pili  di quello che la necessità ti costringa.  Perchè ti farai più valente nella  misura col ritornare ad essa di continuo. Se tu avessi la matrigna e la  madre nel tempo istesso, alla prima  faresti onore, ma torneresti pur non-  dimeno sempre accanto alla madre.  Cotali son per te la corte e la filosofia [Paragona la vita alla mimica. 0.  Ifarco Aurelio]. Torna sovente alla seconda e in essa ti riposa, la quale fa a te  sopportabil la corte, e te sopportabile in quella. Come ti fai concetto di tale  o tal altra vivanda, dicendo teco  stesso: è un cadavero di pesce, è  un cadavero d’ uccello o di porco ;  e del falerno, è succo di grappoletti  d’uva; e della porpora, son peluzzi  di pecora intinti nel sangue d’ una  conchiglia; e del congiugnimento, è  attrito di membrane ed escrezione di  moccio con un po’ di spasmo ; come  tu giudichi allora, penetrando col  concetto sino alle cose esse mede-  sime e rappresentandole nella es-  senza loro quali sono; così hai da  fare in tutte le occorrenze della vita;  e quando le cose ti si fanno innanzi  con molta appariscenza, denudarle,  e scorgerne la bassezza, tolto che  avrai d' intorno a loro la pompa onde  si fan magnifiche. Imperocché gran  madre illusioni è la boria; e quando  tu credi più fermamente eh’ elle sieno  serie le cose a cui attendi, allora sei  più affascinato. Vedi che cosa dice Cratete di Senocrate stesso.’  Le cose che il volgo apprezza  sono per la maggior parte di estremo  genere ed infimo, di quelle cioè che  dall’ abito (0) o dalla natura son go-  vernate : pietre, legni, fichi, viti, ulivi,  (rii uomini un po’men rozzi tengono  in pregio quelle che son governate  dall’anima: greggio, per esempio, e  mandre. Gli uomini ancor più còlti,  quelle che son governate dall’anima  ragionevole; non tuttavia in quanto  è universale, ma in quanto è arti-  ficiosa o, come che sia, ingegnosa.    1 StìTi Socrate tu discepolo di Platone, e  famoso per l’austerità del suo carattere,  (guanto al Cratete qui menzionato, ignorasi se fosse il filosofo Cratete di Atene, oppure  il cinico di Tebe; come ignorasi pariraentn  qual fosse il detto a cui si acceuna in questo luogo.  1 m2 ricordi.   V   od anche senza relazione a nulla, '  come il possedere semplicemente  una moltitudine di schiavi.* Quegli  poi che fa stima dell’anima ragione-  vole universale e sociale, non si  cura delle altre cose più punto; ma  si studia di consolidare in istati ed  in moti conformi alla ragione e  volti al bene della società 1’ anima  sua, ed aiuta il suo congenere a far  lo stesso. Una cosa s’affretta a nascere,  iin’ altra a venir meno, e di quella  stessa che nasce ima qualche parte  è già spenta; il flusso e l’alterazione  ringiovaniscono ad ogni ora il mondo,  come lo scorrere non interrotto del  tempo fa sempre nuova 1’ eternità.  Tn tal fiumana di cose che vengono  e passano, che v’ ha egli che altri   1 Intendi che costoro ameranno possedere*  nn gran numero di schiavi come i detti  pocanzi ameranno possedere nna mandra  numerosa. debba aver caro, quando ,su nulla  può' far fondamento? Gli è come se  imprendesse ad amare uno degli uc-  celletti che volano, e quegli è già  sparito via.   La vita di ciascheduno è non al-  trimenti che una esalazione del san-  gue o una respirazione dell’aria. Pei>  chè non v’ lia differenza, che tu tragga •  a te l’aria una volta e la renda, il  che tu fai tuttodì, o che tu renda  tutta insieme colà d’ onde l’ hai tratta  la facoltà respiratrice che ieri o ier  l’altro nascendo acquistavi.   16. Non il traspirare, come le  piante, è degno di stima, non il re-  spirare, come i giumenti e le bere,  non il. ricevere impressioni nella  fantasia, non Tesser mosso dagli ap-  petiti, non l’adunarsi in branco, non  il nutricarsi ; cosa non dissimile dal  mandar fuori il soverchiò del nutri-  mento. Che è degno di stima adun-  que? lo strepito? No. K per conseguenza nè anche lo strepito delle  lingue. Ora le acclamazioni del volgo  non sono altro che strepito delle  lingue. Anche la gloriuzza hai posto  adunque da banda. Che rimane, che  s«i degno di stima? Il muoversi, pare  a me, e il ristarsi * secondo il prin-  cipio della propria costituzione, al  che conducono ancora le arti e le  culture diverse. Perché ogni arte ha  questo per iscopo, che il formato da  lei sia acconcio alPopra per la quale  è formato ; e il vignaiuolo che coltiva  la vite, e il cavallerizzo, e il canat-  tiere, cercano pur questo. E le educazioni, e le scuòle, a che tendono?  Questo adunque è il degno di stima.  E se questo vien condotto a bene,  non occorre procacciar più altro. —  Non finisci di stimare ancora molte  altre cose?* Nè libero adunque sarai   1 L'operare e il non operare. 0.   ^ Cioè, non cesserai dallo avere in pre-  gio molte altre cose?  tu mai, nè bastevole a te, nè im-  passibile ; perchè ti sarà mestieri  invidiare, ingelosire, sospettare chi  ti può tórre le cose che stimi, mac-  chinar contro a chi le ha; in fine,  conturbato convien che sia chi  d’ alcuna di quelle è privo, ed ol-  tracciò, che mormori contro agli Dei  bene' spesso; laddove la riverenza  della propria mente e la stima ti  farà accetto a te medesimo, accomo -  devole agli uomini e consonante agli  Dei,* io voglio dire, contento di tutto  che essi distribuiscono e di tutto che  hanno ordinato.  Air insù, all’ ingiù, a cerchio  intorno, son le mosse degli elementi.  La virtù non si muove in nessuna   ^ cDi modo che ciascheduno che procac-  cia di desiderare e fuggire solamente quello  che è da essere desiderato e fuggito, pro-  caccia al tempo medesimo di esser pio -- Epitteto, Manuale, traduz. di  G. Leopardi. Vedi tutto questo capitolo del  Manuale. di queste guise, ma in una certa sua  più divina, e per via mal compren-  . sibile procedendo va di bene in  meglio. Che cosa è mai quel che fanno !  Ai loro contemporanei, che insieme  con essi vivono, non voglion dar lode ;  ed essi medesimi poi agognano di aver  lode dai posteri i quali non videro  mai, nè vedranno. Gli è come se tu  ti dolessi del ' non aver lode anche  da’ tuoi antenati.  Non ogni volta che una cosa  è malagevole a te, hai da credere  però eh’ ella sia impossibile all’uomo ;  anzi, ogni volta ch’ella è possibile  all’ uomo e dimestica, credi ch’ella  è conseguibile anco da te.  Nell’ esercizio della lotta alcuno talora ci graffia, o venendoci  addosso ci percote malamente col   [Merico Casaabono cita qui, siccome  un bel comento a questo §, il saggio di Giobbe, che vuol leggersi tutto  intero. capo. Ma noi diamo a divedere, e  non ce ne tenghiamo olfesi, nè stiamo  in apprensione di lui quindi innanzi,  come se ci insidiasse ; ce ne guardiamo, sì, ma non come da nemico, nè  con. animo sospettoso; lo scansiamo  con piacevolezza. Questo medesimo  s’ha da fare in tutte le altre parti  della vita: molte cose lasciar correre,  come tra persone che lottano. Perch’egli si può, come ho detto, schi-  vare altrui, e non averlo però a so-  spetto nè odiarlo.Se altri mi può convincere  e far capace eh’ io penso ed opero  non rettamente, di buon grado son  per ricredermi; perchè io cerco la  verità, la quale non noeque mai a  nessuno. Nuoce bensì altrui il li-  manere nell’ inganno e nell’ ignoranza propria. Quanto a me, io so l’ufficio mio;  le altre cose non me ne distolgono ;  perchè o sono inanimate, o irragionevoli, o vanno errate e non conoscon  la via. Gli animali irragionevoli e le  cose in generale a te sottoposte,  quando esse non han la ragione e  tu r hai, usa senza riguardi altera-  mente; gli uomini, che han la ra-  gione, usa come vuol la legge di com-  pagnia. In ogni cosa poi, invoca gli  Dei. E non curarti del più o men  tempo che tu durerai a far cotesto :  perchè bastano anche tre sole ore  cotali. Alessandro il Macedone e il  mulattiere di lui si ridussero, morendo, alla medesima stregua. Perchè,  o furon ricevuti ambidue nelle stesse  ragioni seminali del mondo,' o si  dispersero del pari in atomi. Pensa quante cose, in un  medesimo istante, dentro a ciascuno   * Nel caso che sia vero il sìsteina ato-  mistico di Epicuro. di noi han luogo, relative al corpo  nello stesso tempo ed all’ anima ; e  non istupirai che molte più, anzi  tutte quelle che avvengono, coesi-  stano simultanee in quel tutto ed  uno a cui diamo il nome di mondo.   Se qualcheduno ti domanda  come si scriva il nome d’ Antonino,  proferirai tu forse con isforzo di voce  ogni sillaba? E se quegli s’adira,  t’adirerai alla tua volta anche tu?  Non annovererai tu piuttosto, pa-  catamente procedendo, l’una dopo  l’altra le lettere? Cosi hai da fare  anche adesso. Ricordati che ogni  ufficio* consta di certi numeri; col-  r osservare i quali, e non col tur-  barti, e non coll’ adirarti con chi  s’adira, arriverai direttamente al fine ,  proposto.  Come è crudele il non per-  mettere agli uomini che seguano quel che sembra a loro convenevole  ed utile? E tu noi permetti, in un  certo modo, quando ti corrucci del  loro fallire. Perchè del tutto e’ non  vi si indifcono se non in quanto il  credono convenevole ed utile a loro.  Ma non è così. Dunque ammae-  strali e falli capaci, senza corrucciarti.  La morte è una pausa alla im-  pressione dei sensi, allo stimolo degli  appetiti, al discorrer della mente èd  alla servitù verso la carne.  È un vituperio che in quella  vita dove non ti s’è stancato ancora  il còrpo, ti si sia stancata innanzi  tempo r anima.  Bada a non incesarirti,* a non  imbrattarti; chè cosi suole avvenii-e.  Conservati adunque semplice, buono,   ^ Intendi : sebbene tu sia stato adottato  nella famiglia dei Cesari, bada a non t«cc-  sarirli, cioè cadere nei costumi viziosi di  molti dei Cesari o imperatori che. ti hanno,  preceduto. intemerato, grave, ingenuo, amico  del giusto, pio, mansueto, amorevo-  le, saldo nell’ adempire al tuo ufficio.  Combatti per mantenerti tale, quale  ti ha voluto fare la filosofìa. Venera  gli Dei, fa’del bene agli uomini. Breve  è la vita; e l’unico frutto di questa  esistenza terrena è la santa disposi-  zione deir animo e 1’ opere indiriz-  zate al comun bene. Ogni cosa da  vero discepolo di Antonino quel  suo vigor costante in ciò che operava  secondo ragione, e 1 umor sempre  uguale, e la santità della condotta,  e la serenità del volto, e la soavità  dei modi, e il dispregio della vana  gloria, e l’ ardore nel voler comprender le cose, e come non avrebbe lasciato andar nulla mai, ch’egli non  avesse ben bene considerato in prima  e chiarito; e come sopportava quelli  che si dolevano di lui ingiustamente,  [Antonino Pio, suo padre di adozione. senza ridolersi egli di loro; come  non faceva mai nulla in furia ; come  non dava adito ai delatori; come era  diligente esploratore dei costumi e  delle azioni, non maldicente nè te-  mente i rumori, non sospettoso,  non sofistico; come si contentava di  poco, in materia d’abitazione, per  esempio, di letto, di vestito, di cibo,  di servidori; come era operoso, lon-  ganime, e di tal tempra da poter  durare in uno stesso luogo sino alla  sera, senza aver uopo, per la fruga-  lità del vitto, nè anche di uscire ai  bisogni del corpo fuor dell’ ora con-  sueta; e la costanza e il tenor sempre  uguale nelle amicizie ; e il sopportare  che altri contraddicesse con libertà  di parole al suo parere, e rallegrai’si  quando glien era mostro un migliore ;  e come era religioso senza supersti-  zione; affinchè, con una buona coscienza pari alla, sua, tu incontri  come egli incontrò l’ultima ora. Esci dall’ ebrezza, ritorna in  te; e cacciato via il sonno, e veduto  ch’eran sogni quelli che ti turba-  vano, risvegliati una seconda volta,  e guarda le cose della vita come tu  guardavi quelle altre. Son composto di un corpicciuolo e d’un’ anima. Al corpicciuolo  tutte le cose sono indilferenti; non  potendo egli nè manco far differenza.  Air anima sono indifferenti tutte  Qui r Ornato volea fare una nota, come  è indicato nel manoscritto, ma non la fece.  Verosimilmente egli volea gìnstiiicare e il-  Instrare la sna interpretazione di questo  luogo, alquanto diversa da quella degli altri interpreti. La traduzione letterale di  tutto il § è cEsci d'ebrezza, richiama te  stesso; e cacciato via il sonno, e veduto che  eran sogni quelli che ti turbavano, desto  una seconda volta, guarda queste cose, co-  me tu guardasti quelle altre.  Intendi anima razionale, la quale per  gli Stoici non era altro che ragione e vo-  lontà, esclusa la sensibilità appartenente  solo airantmwccta, mero principio animale  comune anche ai bruti. quelle che non sono azioni di lei. E  quelle che sono azioni di lei, stantìo  tutte in balia di lei. E di queste an-  cora, quelle sole che riguardano il  presente. Perchè le azioni future  e le passate sono pure indififerenti  per lei. Il lavoro non è cosa contro  natura nè per la mano nè pel piede,  sintantoché il piede fa le cose del  piede, e la mano le cose della mano. .  Quindi non è nè anche cosa contro  natura per V uomo, in quanto uomo,  fìnch’egli fa le cose dell’uomo. E  se non è cosa contro natura per lui,  non è nè anche per lui un male. Quanti piaceri non godono i  malandrini, i bagascioni, i parricidi,  i tiranni? Non vedi come gli artisti mec- *  canici condiscendono bene in .qual-  Sottintendi ; € hanno importanza per  lei. che cosa agli imperiti, ma non  seguitai! meno però la ragione del-  l’arte, e da quella non si vogliono  distaccare? Non è ella una vergogna  che l’architetto e il medico abbiano  più rispetto per la ragion dell’ arte  loro propria, che l’ uomo per la sua, la quale egli ha in comune con gli dei?   L’Asia e l’Europa son cantucci  del mondo; tutto il mare, una goc-  ciola del mondo ; l’ Athos, una zolletta  del mondo ; ciascuno degl’istanti pre-  senti del tempo, un punto dell’ eter-  nità. Tutto è piccola cosa, mutabile,  peritura. Tutto vien di colà, da quella  mente comune, o voluto da lei, o per  concomitanza.* E quindi la gola del  leone, e il veleno, ed ogni cosa ma-  lefica, come le spine ed il loto, sono  un accompagnamento e quasi una  produzion necessaria di quanto v’ha d’eccelso e di bello. 'Non immaginai ti  adunque che sien cose aliene da  quello che tu veneri; ma pensa alla  sorgente del tutto. Chi ha veduto le cose d’ adesso,  ha veduto tutte le cose, quante per  gl’ infiniti secoli furono e per gli  jiltri infiniti saranno ; perch’ elle son  tutte d' uno stesso genere e d’ uno  stesso coloi'e.  Considera sovente la concate-  nazione di tutte le cose nel mondo  e la relazione dell’ una all’altra. Per-  di’ elle son tutte intrecciate, dirò  così, r una colf altra, e tutte, per  (piesto motivo, amiche l’ una del-  l’altra. Di fatti all’ una vien sempre  dietro 1’ altra ; del che è cagione iJ  moto tonico e consenso di tutte e  r unità della rnateiia prima.  Alle cose che ti sono date in  sorte, ti devi adattare; e gli uomini,  coi quali hai comune la sorte, li devi  amai'e, ma amar veramente. Uno strumento, un ordigno,  un arnese qualunque, se è atto, a  tutto quello per che è stato formato,  va bene; ancorché non ci sia più  chi r ha formato. Ma negli esseri  governati dalla natura è immanente  dentro e continua la virtù che li  formò; per lo che conviene ancor  più venerarla, e stimare .che, ove  secondo il voler di quella tu viva,  sia per riuscirti secondo il tuo in-  tento ogni cosa. E questo ò quello  che succede all’ universo, che gli  riesce secondo il suo intento ogni  cosa.   il. Quale che sia la cosa dove tu  riponi il tuo bene o il tuo male,  s’ ella è una di quelle che non di-  pendono dalla tua volontà, di neces-  sità debbe accadere che, incorrendo  tu in quel male, o non conseguendo  quel bene, tu accusi gli Dei, e che  tu odii inoltre gli uomini, i quali ti  saran causa, o i quali tu sospetterai avere ad esserti causa del non  conseguir 1’ uno o dell’ incorrer nel-  l’altro; e molte iniquità, certo, com-  mettiam noi, per non essere indif-  ferenti a siffatte cose. Ma se noi  tenghiamo per beni o per mali quelle  cose soltanto che dipendono da noi,  nessuna causa rimane più nè di ac-  cusare Iddio, nè di stare in ostilità  verso l’uomo. ANBEDUE COOPERIAMO AD UN MEDESIMO FINE. Gl’uniscienti e intelligenti, gl’altri alla cieca; per modo che anche i dormienti, come disse  Eraclito, se non erro, lavorano e  COOPERANO a ciò che si fa nel mondo. L’ uno ci lavora in una guisa, l’altro in un’altra; e ancorché senza  suo prò, ci lavora e coopera anche  colui che si va querelando e fa prova   ' Vedi il § 16 di questo medesimo libro.  Con questo § finisce il volgarizzamento del-  r Ornato, e col § seguente incomincia il volgarizzamento rifatto da me. di resìstere e distruggere l’opera  altrui: perchè anche di questi ha  bisogno il mondo. Rimane dunque  che tu vegga nel novero di quali tu  ti vuoi porre : perchè chi governa  il tutto, saprìi ben valersi di te in  ogni modo, ricevendoti in questa o  in queir altra banda de’ suoi lavora-  tori e cooperatori. Se non che hai  da badare che tu non sia tal parte  della brigata, qual è del dramma  quel povero e ridicolo verso di cui  parla Crisippo. Il sole vuol egli fare le veci  della pioggia? o Esculapio quelle di  Cerere? E gli astri non hanno essi  i loro uffici diversi, ciascuno il suo,    1 Plutarco {de comm. adv. Stoicot) cita le  parole di Crisippo, alle quali allude Anto-  nino: «In quel modo che le commedie hanno  talvolta dei versi ridicoli e facezie che non  hanno alcun valore in sè, ma giovano non-  dimeno all'effetto generale del poema; pa-  rimente il vizio è certamente riprovevole  in sè, ma non è inutile a tutto il rimanente  delle cose.» ma COOPERANTI AMBI AD UN MEDESIMO FINE?  Se gli Dei hanno deliberato  intorno a me ed alle cose che deb-  bono incontrarmi, hanno bene deli-  berato e provveduto : perchè un Dio  senza senno e improvvido non pos-  siamo neppure immaginare. E farmi  del male, per qual motivo l’ avreb-  bero essi voluto? Qual pio ne sa-  rebbe venuto ad essi o al tutto di  che prendono sì gran cura? Che se  non hanno deliberato intorno a me  in particolare, essi hanno al certo  deliberato universalmente intorno a  tutto il complesso delle cose. Io  debbo quindi accettare e aver caro  tutto che mi accade, come conse-  guenza necessaria di quella loro ge-  nerale determinazione. Che se poi  non pensano nè provvedono a nulla  (è una empietà il crederlo ; o vera-  mente non facciam più sacrifici, nè  preghiere, nè alcuna di quelle cose che suppongono presenti gli Dei e  viventi con noi); ’ se, dico non pen-  sano nè provvedono in. alcun modo  a niuna delle cose mie; posso io  almeno pensare e provvedere a me  stesso: e mio primo pensiero debbe  essere di conoscere in che consiste  Futile mio. Ora egli è utile ad un  essere qualsivoglia ciò chcs è con-  forme alla costituzione e natura di  lui. La mia costituzione è ragionevole e socievole: la mia società e  LA MIA PATRIA, come Antonino, è ROMA; come uomo, è il mondo. Ciò solo adunque che giova a queste  due patrie, ò utile a me. Ciò che avviene a ciascheduno, è utile al tutto. Questo solo basta. Ma tu osserverai ancora, so  tu ci badi, che per F ordinario ciò  che succede ad un uomo, è utile an-  cora agli altri uomini. Intendo ora   ^ Intendi: «che suppongono la presenza J  e la provvidenza divina.»  r utile nel senso volgare, cioè attri-  buendo utilità alle cose medie. Quello effetto che fanno in te  gli spettacoli degli anfiteatri e di  simili luoghi, chè per essere sem-  pre le medesime cose, ti rechi a  noia il vederle, quello effetto me-  desimo facciano in te tutte le cose  della vita: perchè esse sono, dalla  cima al fondo, sempre le stesse, e  nate sempre dalle stesse. K fino a  quando adunque?  Non cessare di rappresentarti  al pensiero uomini’ trapassati di ogni  fatta 0 di ogni sorta di condizioni,  discendendo anche a Filistione, a  Febo e a Origanione;* passa di poi  ad altri generi di viventi. Colà dob-   I[Vi fu un Filistione poeta comico, contemporaneo di Socrate; vi fu ancora un  Filistione di Locri, il quale era medico, e  da alcuni creduto autore dei libri sulla  dieta che fanno parte della collezione ip-  pocratica. Quanto a Febo e Origanione ci  sono al tutto incogniti. biamo andare anche noi dove sono  iti tanti valenti oratori, tanti gravi  filosofi, Eraclito, Pitagora, Socrate;  tanti eroi prima di loro, tanti capi-  tani dopo, tanti tiranni; e insieme  con loro EUDSOSSO, IPPARCO, ARCHIMEDE altri acuti ingegni, uomini  magnanimi, laboriosi, scaltri, arro-  ganti, beffardi, schernitori di questa  povera vita di un giorno, siccome fu MENIPPO ed altri simili a lui.  Pensa che tutti costoro sono spenti. II celebro matematico discepolo di Platone, il cui sistema è esposto nel XII della  Metafisica di Aristotele ; e che insieme cou  Speusippo assorbì tutto il Platonismo nella  teoria dei numeri. A lui si applica, non  meno che a Speusippo,!' osservazione di Ari-  stotele: «la matematica è divenuta tutta  la filosofia del nostro tempo. [Matematico contemporaneo di Tolomeo  Filadelfo, nato in Nicea] [Filosofi» cinico nato a Gadara, dal quale  un certo genere di satiro che furono dette menippee: orasi beffato dei filosofi e delio  loro dispute scrivendo con uno spirito e  una vena inesauribile, che gli fu invidiata,  come pare, anche da Luciano. da gran tempo. Ora che male per  essi? che male per coloro dei quali  non resta pure il nome? Solo una  cosa è qui da avere in gran pregio :  r osservar sempre la veracità e la  giustizia, comportandoci benevol-  mente anche verso i bugiardi e gli  ingiusti.   48. Quando vorrai rallegrare te  stesso, rappresentati al pensiero le  migliori qualità degli uomini coi  quali tu vivi: per esempio, l’ope-  rosità efficace di questo, la vere-  condia di quello, la liberalità di quel-  r altro, e cosi via via. Perciocché  non è cosa che tanto rallegri, quan-  to le sembianze della virtù espres-  se nei costumi delle persone colle  quali viviamo, e quanto più esser  possa, accumulate e frequenti. Vuoisi dunque averle pronte alla memoria.  Ti quereli tu del pesare solo  cotante libbre e non tre cento? Così non ti querelare dello aver a vivere  solo tanti anni e non più. Come ti  tieni per pago e lieto della quantità  di materia che ti fu assegnata, così  accontentati del tempo. Fa’ prova di persuaderli ; ma  non lasciar di operare anchh mal-  grado loro, quando ragione di giu-  stizia il richieda. Che se altri ti  impedisce colla forza, volgiti alla  rassegnazione, e serba la serenità  dell’anima, facendo uso di quello  impedimento per l’ esercizio di un’altra virtù. E ricordati che tu vuoi  condizionalmente,* e che non si ri-  chiede da te r impossibile. Ora che  si richiede adunque? Una cotale determinazione di volontà. E questa  [ La volontà giusta è solo scopo e termine di sè medesima, sia o non sia ella  efficace, cioè a dire, sia o non sia seguita  dall' effetto esteriore, il che dipende dalle  circostanze esterne. tu l’hai: il fine a cui sei venuto  nel mondo è conseguito. L’ambizioso ripone il ben suo  nell’ azione altrui; il voluttuoso nelle  proprie passioni ; ' il savio nella sua  propria azione. Io posso astenermi dal fare  concetto alcuno intorno a ciò, e non  turbarme nell’anima. Non le cose,  ma noi siamo gli autori dei nostri  giudizi. Fa’ di avvezzarti ad ascoltare  senza distrazioni ciò che altri dice,  e ad entrare quanto più puoi nel-  l’animo di chi favella. Ciò che non giova allo sciame,  non giova neppure alla pecchia. Quando i naviganti mormorano   contro al nocchiero, o gli infermi. Meno stoicamente direbbesi nel soddisfacimento delle proprie passioni, » cioè  nel piacere procurato da questo soddisfaci-  mento. Perchè il piacere stesso è per gli  Stoici una passione, un patire e non un  agire dell' anima. Di  contro al medico,' qual motivo può  moverli a ciò se non se il modo  con che il medico e il nocchiero  procacciano la sanità e la salvezza  loro? Quanti di coloro, coi quali io  venni al mondo, se ne sono già andati!  Agli itterici sembra amaro il  miele, l’acqua è spaventevole al-  r idrofobo, pel fanciullo è bellissimi  una palla. A che dunque mi adiro?  Stimi tu men potente una falsa opi-  nione che la bile nell’itterico, o il  veleno nell’idrofobo?  Niuno può recarti impedimento  al vivere secondo la legge della tua  natura; nulla accaderti contro la  legge della natura comune. Che è il vizio? è ciò che tu  spesso hai veduto. E ad ogni acci-  dente che t’ intervenga abbi apparecchiato questo pensiero, che è cosa  da te spesso veduta. Su e giù, a  dritta e a manca troverai pur sem-  pre le stesse cose, di che sono piene  le antiche storie, le mezzane e le  moderne; di che ora son piene le  città e le case. Nulla di nuovo : tutto  consueto e di poca durata. La fede nei domini come può  venir meno se non se collo spegnersi  di quei pensieri che sogliono ali-  mentarla? i quali sta in te jl ride-  «^tar di continuo. Posso pensare di una cosa quel che ne debbo pensare :  se questo è in mia facoltà, a che  mi turbo? Ciò che è fuori ilella mia  mente, non ha nulla che fare colla  mia mente. Fa’ di essere cosi dispo-  sto e sei ritto. Il risorgere sta in  poter tuo : vedi di nuovo le cose a  quel modo che tu le vedevi: sarà il  tuo risorgimento.'   3. Pompe, trionfi, vani apparati,  drammi che si recitano in sulla sce-  na, greggi, armenti umani, scara-  mucce, ossicciuolo gittate al cagno-  lino, tozzo di pane ai pesci nel vivaio,  affanni e lavorar di formiche,, discorrimenti qua e là di topi spaventati,  fantoccini mossi da un filo. È mestieri  assistere a codeste cose con viso  benevolo e non burbero, ma non  però dimenticare che tanto vale cia-  Pare che ad Antonino in un momento di  sconforto sombrasse aver perduta la fede  nei domrai della filosofia. E si conforta a ri-  cuperarla. Bello e profondo paragrafo, stoicamente considerate] scuno quanto vaglion le cose cui dà  le sue cure. Conviene por mente parola per  parola a ciò che si dice, e atto per  atto a ciò che si fa. E veder tosto  nell’ una cosa qual è lo scopo ; nel-  l’altra, qual è il significato.   5. Basta, o non basta il mio in-  gegno a proccurare questo effetto? Se basta, io ne fo uso come di uno  stromento che la natura dell’ universo mi diede. Se non basta, ove  non osti il dover mio, lascio fare  r opera a chi può condurla a fine  meglio di me; ovvero io la fo co-  me posso, giovandomi dell’aiuto di  tale, che possa, scorto dal mio pro-  prio consiglio, recare ad effetto ciò  che è utile ed opportuno alla co-  munità. Perchè questo deve esser  sempre il fine di ciò che io faccia,  sia da per me solo, sia coll’aiuto altrui: l’utile e il convenevole al  comune.   6. Quanti lodatissimi sono già stati  dati all’oblio! e quanti che li loda-  rono sono scomparsi, già è gran  tempo!   7. Non ti vergognare dell’essere  aiutato. Tu ci sei per fare quello che  tocca a te, come un soldato ad una  battaglia murale. Ora se tu, offeso  in una gamba, non potessi solo salire  in sui merli, e ti venisse fatto col-  r aiuto di un compagno? Non ti mettere affanno delle cose  future. Tu arriverai ad esso, se il  dovrai, recando teco quella mede-  sima ragione di che fai uso nelle  cose presenti.   D, Tutte le cose sono reciproca-  mente collegate fra loro; sacro è il  legame che le unisce, e niuna cosa  può dirsi estranea ad un’altra. Esse  sono tutte coordinate insieme e con-  corrono ad ornare lo stesso mondo. Perchè uno è il mondo che è formato  di esse tutte, uno Iddio che penetra  tutto, una la materia prima, una la  legge, una la ragione comune a tutti  t?li esseri intellettivi, una la verità: .  essendo pur anche una sola la perfezione di tutti gli esseri congeneri  e partecipi della stessa ragione. Presto svanisce ogni corpo, risolvendosi nella sostanza universale ;  presto svanisce ogni causa, rientran-  do nella ragione universale; e la  memoria di ciascheduna cosa è presto  inghiottita nell’abisso del tempo. Per l’animale ragionevole, la  stessa azione che è secondo natura,  è anche secondo ragione.  Se non sei ritto, dirizzati. Quella relazione che hanno fra   loro le membra del corpo nell’ ani- '  male individuo, hanno fra loro gli  esseri intelligenti nel corpo collet-  tivo della società: tutti sono fatti per  cooperare insieme ad uno scopo comune. E per meglio ricordartene  avrai cura di ripetere . spesso a te  medesimo: io sono un membro del  sistema degli esseri intelligenti. Ma  se tu di’ solamente : io sono una  parte, tu non ami ancora di cuore  gli uomini ; il beneficarli non è  ancora per te cosa che per se me-  desima ti diletti e ti contenti : tu il  fai tuttavia per pretto dovere, non  perchè tu senta di beneficare ad un  tempo te stesso.  Accada che vuole al di fuori a  quelle parti che possono ricevere  nocumento da cotali accidenti : se  ne dorranno esse che patiscono,’ se  il vogliono. Quanto si è a me, ove  io non faccia concetto di siffatti ac-  cidenti come di un male, non ne  ricevo nocumento veruno. E sta in  mia facoltà il non fare cotali concetti. Che che altri faccia o dica, a  ine conviene essere uomo dabbene:  per appunto come se V oro, o la  porpora, o lo smeraldo dicesse : che  che altri faccia o dica, a me conviene  essere smeraldo, e avere il mio pro-  prio colore.   16. (7) La parte sovrana non dà  mai noia a sè stessa, vale a dire, non  è mai cagione nè di tristezza, nè di  timore, nè di concupiscenze a sè  stessa. Se altro v’ ha che possa moverla a ciò, vi si adoperi. Quanto a  lei, operando razionalmente, non  sarà mai a sè stessa cagione di cotai  moti. Provveda il corpo, se può, al  non avere a soffrire; e se soffre, lo  dica. Quanto si è all’animuccia, nella  (filale veramente cade la tristezza e  il terrore, basterà solo che la parte  ove si formano i giudizi* del terribile   [Animuccia ; intendi il principio della  &dìoi&1o   e del tristo, non dia luogo a quelli:  essa animuccia non ha attitudine a  formare giudizi cotali. La parte sovrana, considerata in sè, non ha mai  manco di nulla, ove ella non venga  meno a sè stessa: e similmente non  è mai turbata nè impedita, ove non  turbi o impedisca ella sè medesima. Beatitudine vuol dire buon  genio, vuol dire mente buona. Che  fai dunque tu qui, o immaginazione?  Va’ via, te ne prego per gli Dei, vat-  tene come sei venuta: non ho bisogno  di te. Tu sei venuta secondo l’usanza  tua vecchia. Non mi adiro teco ; ma  vattene.  V’ha chi teme il mutamento?  Ma che può farsi mai senza muta-  mento e trasformazione? E che v’ha  di più caro, di più proprio e consueto  alla natura dell’universo? E puoi tu  stesso prendere un bagno se le legna  non si trasformano? puoi tu nutrirti,  se non si trasformano i cibi? E v’ha egli alcuna delle altre cose necessarie  alla vita che possa elfettuarsi senza  trasformazione? Non vedi tu dunque  che il dovere tu ancora essere trasformato, va del pari con tutte le  altre trasformazioni,, ed è parimente  necessario alla natura dell* universo?   19. Per entro la sostanza dell' uni-  verso, come per entro a un torrente,  passano tutti i corpi connaturati a  (jiiello, siccome sono connaturate a  noi, e cooperano con noi le nostre  membra. Quanti Crisippi ha già inghiottiti il tempo, quanti Socrati,  quanti Epitteti! Lo stesso sovvengati  (l;ogni altro uomo, o cosa qualsi-  voglia.  Una sola cosa mi turba : la tema  di far cosa che la natura dell’ uomo  non voglia, o come essa non voglia,  o quando essa non voglia. Presto avrai tutto obliato, e  presto ancora sarai obliato da tutti. È proprio dell’ uomo l’ amare anche colui che ci offende. Il che ti  verrà fatto se tu penserai che egli è  pur tuo congiunto,^ che ha peccato  per ignoranza e suo malgrado, che  fra poco sarete morti ambidue, e so-  pra tutto che egli non ti ha nociuto:  perchè non fece peggiore che olla  prima si fosse la tua parte sovrana. La materia comune di tutte le  cose è nelle mani della natura universale, come la cera in quelle dello  scultore.^ Ora ella ne fa un cavallo,  poi, rifusa la materia del cavallo, ne  fa uso alla produzione di un albero,  poi a quella di un omiciattolo, poi  a quella di qualche altra cosa, e  ciascuna di queste cose dura un  brevissimo spazio di tempo. Ma e'non  è oggi più tremendo pel forzierino  r essere sconficcato e disfatto, che  non fu ieri 1’ esser fatto. Il quale si serve di essa cera per fare  i modelli delle sue statue. II livore in sul viso è cosa  contro natura, da che spesso vi al-  tera anche il colore che naturalmente   10 abbellisce, e che alla fine vi si  spegne in modo da non potervisi più  ravvivare. Questo ti provi che è cosa  eziandio contro ragione: perchè se  anche la coscienza del peccare si  perde, qual motivo di più vivere? Tutte le cose che vedi, già già  le viene mutando la natura reggitrice  del tutto, la quale ne farà altre della  materia loro, e poi altre della ma-  teria di queste, affinchè il mondo  sia sempre giovane.   Quando altri ti offende in che  che sia, considera tosto qual cosa  egli abbia dovuto estimare come un  bene o come un male perchè fosse  così mosso ad offenderti. La qual  cosa scorto che tu abbia, tu avrai  compassione airuomo, e cesserai dal maravigliarti e dallo adirarti. Perdiè  o tu stesso stimerai tuttavia come  un bene o come un male quella  medesima cosa od altra somigliante ;  e allora gli si vuol perdonare; o tu  farai altra estimazione ch’egli non  fece, e più facilmente benigno sarai  a chi travide malgrado suo.  Non pensare alle cose che tu  ancora non hai come se tu g»à le  avessi. ^Ma facendo piuttosto il no-  vero delle più comode tra quelle che  liai, sovvengati quale studio porresti  in procacciarle se tu non le avessi.  Bada nondimeno che questo tuo  averle in grado non ti venga avvez-  zando a stimarle in modo da turbar-  tene poi quando elle ti mancassero. Ravvolgiti in te stesso. La parte sovrana e ragionevole dell’ uomo ha  natura tale che basta a sè quando  agisce rettamente e sa trovare in  ciò la sua quiete.   29. Cancella le immaginazioni, raffrena gli appetiti, circoscrivi il pre-  sente del tempo. Conosci ciò che  accade a te e ad altrui. Dividi e ri-  solvi ne’ suoi elementi, la parte  causale c la parte materiale, ogni  oggetto di appetizione o di aver-  sione. Pensa all’ ultima ora. Lascia  stare il peccato altrui colà dove ò  nato.   no. Segui col pensiero le altrui  parole. Penetra coll’ acume della  mente nelle cose che si fanno e nel-  r animo di coloro che le fanno.   31. Adornati di verecondia, di sem-  plicità e di indifferenza verso tutte  le cose che non sono nè virtù nè  vizio. Ama il genere umano. Obbedisci a Dio. Tutto le cose, disse  colui, si fanno secondo una legge  immutabile. 0 gli Dei, o gli atomi. Ma basta il ricordare che tutto si fa   [Cioè a dire : o v' ha una provvidenza  divina, o non v' ha, secondo il sistema ato-  mistico di Epicuro. secondo una legge. Ma troppo è anche  il poco già detto. Quanto alla morte, o essa a un disperdimento, se la vita ò un  accozzamento fortuito di atomi o altra  aggregazione qualsiasi. Ovvero essa è uno spegnimento, ovvero un  traslocamento. Quanto al dolore, se è intollerabile, ti uccide. Se dura, è tollerabile. E la mente conserva la sua tranquillità se si raccoglie in sè stessa:  e la parte dominante non si è fatta  peggiore. Quanto alle parti che sono  offese dal dolore, ce lo dicano se il  possono. Quanto alla gloria, vedi le menti  loro, quali cose fuggono e quali cose  ricercano. E ancora, che a quel modo  stesso che gli strati di arena novel-  lamente gittati in sul lido ricoprono  i precedenti; similmente nella vita  le cose nuove ricoprono, sovrappo-  nendosi, per così dire, ad esse, e fanno dimenticare quelle a cui succedono.   Di Platone: Ad uomo di  eccelsa mente, al quale sia dato di  abbracciar col pensiero tutta la serie  dei tempi e l’ università degli esseri,  credi tu che la vita sia per sembrare  un gran che? Impossibile, disse  quegli. E la morte, per conseguenza. non sarà punto stimata da  lui una tremenda cosa. — No certo. »   Di Antistene: Operar bene  ed essere lacerate è cosa da re.  È vergogna che il volto ubbidisca alla mente e si componga ed  assesti come ella vuole; e che la  mente poi non sappia comporre e«l  assestar sè medesima.  Contro le cose lo adirarsi è vano,  Ch'esse non se ne curano. 1 Fiat. Rep. lib. VI. [Lacerato, intendi, dai maldicenti. Plutarco negli Apoftegmi attribuisce questo detto ad Alessandro]. [Tratto dal ‘Bellorofonte’, tragedia perduta di Euripide. E gli immortali e noi di te fa lieti. Mieter la vita  Come spica matura, e morir l' uno,   E viver l’altro. Sed ime vède’nii eigl’ilddii non curano,  Ciò pure ha sua ragione. Che il bene e il dritto è dalla mia. Non pianger con altrui nè esultare.  (Di Platone). A chi mi favellasse in colai guisa, potrei con giu-  stizia rispondere: Tu erri dal vero,  o amico, se tu credi che un nonio  di qualche vaglia debba, quando im-  prende a far che che sia, computare  le probabilità dello avere a morire  0 a vivere ; e non piuttosto conside-  rare unicamente se ciò ch’egli im-   t Nel testo è un verso esametro, ma igno-  rasi onde 1' abbia tratto Antonino. P.   2 Due versi dell' Isipile, tragedia perduta  di Euripide. II primo di questi due versi è citato  anche al § 6 del lib. XI, come verso di un  tragico ; ma il nome del poeta non è noto. D’ ARISTOFANE negli Acarnesi. P.   5 I §§ 44 e 45 sono tratti dall’Apologia  di SOCRATE; il § 46 dal ‘GORGIA’] prende a fare sia giusto od ingiusto, se  azione da uomo dabbene, o da tristo. Perchè così è veramente, o  Ateniesi : quale che sia il posto che altri scelse nell’ordinanza, giudicatolo  il migliore, o in che sia stato collocato  dal capitano; egli vi dee perseverare,  secondo che mi pare, e sostenervi tutti i pericoli, non avendo in conto di  nulla la morte ne altro checchessia,  in paragone della disonestà e vergo-  gna che sarebbe lo abbandonarlo.   Ma bada bene, o valentuomo,  che altra cosa non sia la gentilezza,  d’animo e la virtù, ed altra il pro-  cacciare salvezza asèe ad altrui; e  che ufficio deir uomo, dico chi voglia  essere uomo veramente, non sia per  avventura, anziché lo ingegnarsi di  campar lungo tempo avendo cara  sopra ogni altra cosa la vita, il ri-  mettersene piuttosto a Dio; e pre-  stando fede a ciò che dicono le fem-  mine. essere inevitabile il destino di ciascheduno, studiare il modo di vi-  vere, il più virtuosamente ch’ei può.  quel tempo che ha a vivere. Contemplai’e il giro degli astri  accompagnandoli, per cosi dire, nel  loro corso; e ripensare di continuo  al perpetuo tramutarsi degli elemen-  ti da una in altra forma. Cotali pensieri purgano l’anima dalle lordure  di questa vita terrestre.   48. Bello è quel luogo di Platone:  « Chi ragiona* degli uomini, deve an-  che osservare, come da un’ alta ve-  detta, tutte queste cose terrene :  adunanze popolari, eserciti campeg-  gianti, agriculture, nozze, divorzi,  nascimenti',’ morti, strepiti di tribu-  nali, contrade inabitate, varietà di  nazioni, feste, lutti, mercati, e que-  sto miscuglio di tutti i contrari, e  l’ordine di questo miscuglio di che  si compone il mondo. Questo brano di Platone non si trova  nelle opere che ci rimangono di lui. E’ giova il rimembrare le cose  che furono prima di noi: tanti mu-  tamenti, tanti e sì grandi rivolgi-  menti di stati. Puoi anche conside-  rare le cose che seguiranno in futuro,  perchè esse saranno pur sempre  ti’ un taglio, e non è possibile che  escano mai del tenore usato infino  ad ora. Onde che tanto vale il ri-  cercare gli eventi di che si compone  il vivere umano ^ in un periodo di  t^uarant’ anni, quanto in uno di dieci  mila. Che potresti trovare di più? E questo. Ciò die fu terreo torna alla terra ;   Ciò die d’ etereo seme è germoglio.   Del deio etereo torna allo sfere. Che vuol dir ciò? Separazione degli  atomi terrei che erano insieme ag-  gregati, e somigliante separazione  degli elementi attivi.^   ^ Intendi il vivere dell' umanità, o non  deir individuo umano. Gli elementi attivi erano, secondo gli  dE con cibi il torrente e con bevande  £ con incanti di stornar proccnra  Perchè a morte noi tragga. Con quel vento   Che Dio ne manda navigar ci è d'uopo,  £ non spargere inutile lamento.»  Pili valente nella lotta, ma  non piò devoto al ben comune, non  piò verecondo, non piò indulgente  e piò benevolo verso il prossimo  che ha peccato. Ogni volta che può condursi a  fine una impresa secondo i precetti  della ragione comune agli Dei e agli  uomini, non hai nulla da temere:  perchè dove sta in te lo avvantag-  giarti coir esercizio libero della tua  operosità, procedendo secondo la  costituzione dell’ uomo, quivi non è  luogo a timore di avere a soffrire  alcun danno.   stoici, Paria e il fuoco, con che intende-  vano il freddo e il caldo; i passivi, la terra  e l’acqua. In ogni luogo e in ogni tempo  è in tua facoltà lo acconciarti di  buon grado e con pia rassegnazione  all’ evento che ti occorre ; e il por-  tarti con rettitudine verso gli uomini  coi quali ti trovi; e il vegliare dili-  gentemente con quelli spedienti che  tu sai sopra ogni tuo pensiero pre-  sente, affinchè non v’entri inavver-  titamente nulla che tu non abbia  perfettamente compreso.  Non andare investigando in  qual modo credano di doversi governare gli altri, ma guarda dritto   . Non andare investigando gli altri. [Intendo: non curarti di ciò che le menti  degli altri approvano o disapprovano; bada  dirittamente a ciò che approva la tua. Noto  questo perchè altri non creda essere il qui  detto da Antonino cosa contraria a ciò che  disse in molti altri luoghi, e segnatamente  nell’ Vili, 61: entrare nella parte sovrana di  ognuno. Le sono due cose diverse. In quanto  al tuo operare, non badare a ciò che le menti  degli altri prescrivono, bada a ciò che prescri-  ve la tua. In quanto ai giudizi che tu fai degli altri, entra il più che puoi nelle menti loro,  per vedere quai motivi li spingano. allo scopo verso il quale ti scorge  la natura universale per mezzo degli  eventi che essa ti manda ; e la tua  propria natura per mezzo dei doveri  che essa ti impone. E dovere di cia-  scheduno sono quelle azioni che cor-  rispondono al fine pel quale è stato  formato. Ora gli esseri non ragio-  nevoli sono stati formati per gli es-  seri ragionevoli (come universal-  mente tutte le cose che hanno minor  valore, per quelle che ne hanno un  maggiore); e gli esseri ragionevoli,  gli imi per gli altri. Primo dovere  adunque dell’ uomo, in conseguenza  della sua costituzione, è di cooperare  al bene di tutti i suoi simili. Il secondo è lo star saldo contro gl’appetiti e le AFFEZIONE DEL CORPO. Essendo  proprio della forza razionate e intellettiva il serbarsi pura e distinta,  circonvallando, come a dire, sè stessa, e noh essere vinta mai dalla  t Vale a dire che non deve ammettere in forza sia sensitiva sia appetitiva. Perchè queste due forze sono animale-  sche, e sopra di esse quella vuole  aver primato e signoria, e non la-  sciarsi signoreggiare da esse. E con  ragione: quella essendo fatta per  servirsi di queste. Terzo dovere del-  r uomo \i è il procedere cautamente  ne’ suoi giudizi, per non cadere in  errore. A queste cose applicandosi  la parte tua sovrana, compia per la  diritta via il suo corso; ed ha tutto  ciò che le spetta. Come se tu avessi dovuto mo-  rire testé e fornito già tutto il corso  della tua vita; vivi secondo natuia  (piei giorni che ti rimangono, con-  siderandoli come un soprappiù che  tu non avessi sperato.’   se alcuna mistura di elementi estranei alla  sua natura, . e apparir quindi distinta con  taglio nettissimo da tutto ciò che ha na-  tura diversa dalla sua. [A  quel modo che se ci trovassimo al punto della Cari ti sieno quelli eventi soltanto che t’ incontrano, e sono quindi come a dire contesti insieme collo  stame della tua vita. Che potresti  desiderare di più accomodato a te? Ad ogni accidente che ti occorre abbiti davanti agli occhi coloro  ai quali incontrarono le stesse cose;  ed essi se ne adirarono, parve loro  strano, se ne querelarono. Ora dove  sono coloro? In niun luogo. Perchè  vuoi tu dunque rassomigliar loro? e  non lasci piuttosto a chi li vuole  quei moti alieni da te, e non badi  unicamente all’ uso che devi fare  deir accidente intervenuto? Perchè  tu ne farai buon uso, e ti sarà nuova  materia a virtuosamente operare,  solo che tu intenda ad esser uomo   morte senza speranza di riaverci e consi-  derassimo la nostra vita trascorsa; ci dor-  remmo di averla male impiegata, e vor-  remmo caldamente impiegarla meglio per  l’avvenire, scampando; cosi dobbiamo vo-  lere ora ec. dabbene agli occhi tuoi propri, sia  qual si voglia la cosa che tu faccia; e  ti sovvenga di queste due verità: im-  portare assai quale sia l’ azione, e non importare nulla in che cada razione. Guarda dentro di te. Ivi è la  fonte del bene, la quale non sarà  esausta mai, solo che tu ci vada  scavando di continuo.   60. Anche il corpo, e nel cammi-  nare e nello stare, serbi un contegno  egualmente alieno dalla avventatezza  e dalla mollezza. Imperocché siccome l’anima si rivela nel volto, imprimendovi un certo che di assennato  e di composto; così ella dee rivelarsi  anche nel rimanente del corpo. Ma  ciò vuoisi fare naturalmente, senza  che vi appaia studio nè affettazione.  La volontà giusta è per gli Stoici solo  scopo e termine di sè medesima, sia, o non  sia ella efficace, cioè a dire sia o non sia  seguita dall' effetto esteriore, il che dipende  dalle circostanze esterne. La virtù sola è  huona.essa sola basta alla beatitudino. L’arte del vivei e virtuosamente  rassomiglia piuttosto all’arte della  lotta che a quella della danza, in  quanto bisogna essere apparecchiati  ad ogni accidente non preveduto, e  saldi per non cadere. Non cessare di recarti a mente  le qualità di coloro dai quali vorre-  sti essere lodato, e quelle delle menti  loro. Così non ti avverrà di trascor-  rere all’ ira contro uomini che fallano  malgrado loro, nè ti curerai dell’es-  sere da loro lodato o biasimato, ve-  dendo qual sia la fonte onde moiVono  i giudizi loro e le loro azioni. Non per sua elezione, dicea  quegli, ma sempre malgrado suo, è l’anima umana priva del vero.' E   [La sentenza è di Platone, ed è citata anche da Epitteto (Dissert.),  il quale nomina T autore. Nel Sofista parti-  colarmente, Platone intende a provare che  r ignoranza è sempre involontaria, e che  sempre malgrado suo è l’uomo privo della cognizione del vero. parimente malgrado suo è priva della  giustizia, della temperanza, della  mansuetudine e di tutte le altre cose  cotali. Sommamente importa che tu  r abbi sempre a mente : sarai più  mite c be_nigno inverso di ognuno.   Oi. In ogni caso di dolore abbi  apparecchiato questo pensiero, che  non è cosa disonesta, non tale da  far peggiore la mente che ti gover-  na: perocché non le nuoce nè in  quanto ella è ragionevole, nè in quan-  to ella è socievole. Nel maggior nu-  mero dei casi troverai soccorso efficace anche in quel detto di Epicuro:  il dolore non esser mai nè intollerabile nè di lunga durata, solo che  tu non lo ingrandisca colla tua im-  maginativa, nia lo vegga ne' limiti  suoi naturali. Avverti ancora che  molte cose ci muovono ad atti di  impazienza senza quasi che vi ponghiaino mente, le quali non sono  pur altro che dolore: siccome lo  aver sonno quando vorremmo veglia-  re, r essere travagliati dal caldo, o  r avere inappetenza. Ora quando tu  sostieni malvolentieri alcuna di que-  ste cotali cose, di’ a te medesimo  che tu hai ceduto al dolore.*   65. Bada a non comportarti mai  verso i disumani, come i disumani si  comportano verso gli altri uomini. Come sappiamo noi che Telauge, quanto alle disposizioni dell’animo, non soprastasse a SOCRATE? [Intendi che non basta reggere ai dolori  gravi, ma conviene saper vincere anche i  leggieri: coi quali sovente non ci pigliani  briga di combattere, perchè la loro piccio-  Iczza fa che non ci badiamo; o ci troviamo  vinti senza accorgercene. In quei casi, dico  r autore, di’ a te stesso: « ho ceduto al do-  lore: » qnasi volendo, col rammentare quel  nome, che è il vero, faro a sò stesso parere  più gravo il caso,o destare cosi la sua attenzione. [Filosofo del quale Eschine Socratico  diede il nome ad uno de' suoi dialoghi].  Imperocché non basta che la morte  di SOCRATE Socrate sia stata più famosa, nè  eh’ egli abbia fatto prova di mag-  giore sagacità nel disputar coi sofisti, di maggiore fortezza col pas-  sare la notte in sul ghiaccio, di più  nobile coraggio col disobbedire al  comando di andare a prendere quel-  r uomo di Salamina,' nè eh’ egli  camminasse per le vie con altero  contegno : la qual cosa sarebbe mas-  simamente da considerare quando  fosse vera. Ma vorrebbesi vedere  quale intimamente fosse l’animo di  Socrate. Se egli potea contentarsi  dell’ esser giusto verso gli uomini e  [Quest’ nomo chiamavasi Leone e posse-  dea grandi ricchezze. Delle quali i trenta  tiranni sperando poter fare lor preda, avea-  no comandato a Socrate che andasèe, ac-  compagnato da altri quattro, ad arrestarlo.  Socrate, con pericolo della sua vita, disub-  bidì al comando. Questo fatto è ricorda-  to nell’ Apologia di Platone, da Eschine  il Socratico, da Diogene Laerzio e da Epitteto. santo verso gli Dei se non gli accadesse mai di adirarsi ciecamente  contro il vizio, nè di servire all’altrui  ignoranza, nè di accogliere come  strana o incomoda o intollerabile  veruna delle cose che gli venivano  compartite dal tutto,* nè di lasciare  che la mente sua partecipasse delle  affezioni della carne. Cioè [8’ egli riponeva in ciò solo, nella  santità e nella giustizia, la sua felicità,  Renza nulla desiderare di più. Da queste parole di Antonino non bassi  ad inferire che egli particolarmente dubi-  tasse della grandezza mórale di Socrate;  ma esse vogliono piuttosto esser prese in un  senso generale, servendosi Antonino del nome illustre di SOCRATE, come di un esempio,  por avvertire quanto sia malagevole il giudicare del valore morale degli uomini da  alcune loro azioni esteriori, sieno buone o  sieno cattive; e come l’eccellenza morale  non consista solamente nel compiere este-  riormente qualche grande atto di virtù, ma  richiegga inoltre tutte quelle disposizioni  intime e abituali di cui fa la rassegna. Detto di Fociono. La mente non fu dalla natura  mescolata per modo e confusa in-  sieme col corpo che essa non possa  distinguersi da esso e come a dire circonvallare sò medesima, ed eser-  citare libera signoria sopra ciò che  è ‘suo; sendo che possa darsi benissimo che un uomo sia sommamente buono, e che nissùno il vegga. Questo abbiti a mente, e ancora, che  in pochissime cose consiste il vivere Ecco come intendo io questo luogo: Noi  conosciamo altrui dalle azioni e dalle parole, quindi sempre per qualche organo corporeo, quindi dal corpo. Ora può benissimo  immaginarsi il caso che un uomo moralmente eccellente sia posto in tali condizioni, o per malattia, o per estrema povertà,  0 altra forza esteriore, da non poter usare  in verun modo del corpo per compiere alcuno di quelli atti che sono la manifestazione esteriore delle disposizioni virtuose  deir animo. In questo caso esse non potranno essere conosciute. E però quando  Antonino dice: «esercitare libera signoria  sopra ciò che è suo, non vuol dire sopra  il corpo, ma sulle facoltà stesse della mente. felice. E per ciò che tu abbia dispe-  rato di dover essere mai eccellente  nella dialettica o nella fìsica, non  disperare medesimamente di dover  esser libero, e verecondo, e socievole, e obbediente a Dio. Vivere non vinto da alcuna  forza esteriore e colla più grande  contentezza d’animo, ancora che tutti  gli uomini schiamazzino a posta loro  contro di te, e le fiere mettano in  brani le membra di codesta conge-  riedi carne e d’ ossa che ti è venuta  crescendo intorno; sì' tu lo puoi. E  che v’ ha in fatti in tutti questi co [tali casi, che possa impedire la mente  tua dal serbarsi mai sempre imperturbata, dal fare sempre giusta estimazione delle cose circostanti e uso  ragionevole degli accidenti che intervengono? Per tal modo che la tua  facoltà giudicativa dica all’ oggetto  presente: « secondo T opinione tu sei  altra cosa; ma Tessere tuo vero, è  cotale. E la tua facoltà operativa  dica immantinente all’ accidente in-  tervenuto: « te appunto io cercava:  perchè io non ho altro intento che  di operare razionalmente e socievole  mente, e tutto che accada me ne  porge occasione, tutto può essere  materia ad esercitare questa virtù,  quest’ arte umana e divina. Perchè  qualsiasi cosa che intervenga, ha qualche relazione di convenienza o con  Dio 0 con l’uomo, e può questi acconciarvisi, e non è mai nuova nè dif-  ficile, ma sempre nota e consueta, e facile 1’ uso che hassene a fare. Perfettamente costumato è co-  lui il quale vive ciascun giorno come se quello fosse l’ ultimo. Non mai  affannosamente operoso, non neghittoso, non infinto mai.  Gli Dei che sono immortali,  non indispettiscono d’ avere del continuo a tollerare, e per tanta durata  di tempo, tanti e cotali dappochi: ed oltre a ciò prendono ogni cura di  loro. E tu che oramai sei per finire,  tu rinneghi la pazienza, e quando sei  tu medesimo uno di quel novero? È cosa da ridere che l’uomo  non voglia fuggire la propria malizia,  il che è possibile e voglia poi fuggire la malizia, il che è  impossibile. Tutto ciò che la ragione speculativa e civile non vede essere ragionevole e socievole, è da lei giudicato inferiore a sè stessa. Quando tu fai del bene ed io ricevo quel bene, che vai tu cercando, come gli stolti,  una terza cosa di più, cioè, che si sa che tu fai del bene, o che te ne sia reso il contraccambio? Nissuno si stanca del ricevere giovamento ed è a giovamento nostro  [Cioè del novero di quei dappochi, anche per la ragione appunto che tu non sai tollerarli, come sarebbe tuo dovere di fare] e d’altrui ogni azione conforme alla natura. Non istancarti dunque di giovare a te medesimo col giovare ad altrui. La natura universale produsse il mondo. Ora o tutte le cose che succedono nel mondo sono conformi  alla intenzione di quella natura; ovvero sarebbero *sragionevoli*, cioè dilformi dalla detta intenzione, anche talune delle cose principali che si fanno  pel ministero particolare della mente che governa il mondo. In molti casi sarai più tranquillo se avrai questo a mente. A ritrarti dal vano amore della gloria giove anche il considerare come non è più in poter tuo il fare che tu sia vissuto da FILOSOFO tutta la tua vita, cioè insino dalla giovanezza: cioè anzi molti si ricordano di un tempo, e te ne ricordi benissimo tu stesso, nel quale tu eri LONTANO DALLA FILOSOFIA. Sicché tu sei contaminato. Non è dunque più facil cosa per te l’acquistar rinomanza di FILOSOFO al che si oppone anche  la condizione del tuo stato. E però, se tu hai veramente scorto dove batta il punto, lascerai da banda il pensiero dell’opinione che altri sia per avere di te, e ti contenterai di vivere conforme alla tua natura quel rimanente di vita che ti è conceduto. Pensa adunque che cosa vuole la tua natura, e niuna altra cura ti  distragga da ciò. Perchè tu sai bene di quante altre cose hai voluto fare esperimento e in nissuna di esse hai TROVATO LA BEATITUDINE. Non nei sillogismi, non nelle ricchezze, non nella  gloria, non NEL GODIMENTO DEI PIACERI, in niun luogo, insomma. Dove sta  essa adunque? Nel fare ciò che richiede la natura dell’uomo. E come fai tu cotesto? Lo fai, se hai la credenza che e produttrice di quella azione. Quale credenza? Quella intorno al buono ed al malo. Non essere il buono per l’uomo ver una cosa che non lo faccia essere giusto, temperante, forte  e libero. Non essere il malo veruna cosa che  non lo faccia essere il contrario. Cioè non lo contamini del vizio opposto alla VIRTÙ. Ad ogni tuo atto interrogate  medesimo. Che relazione ha esso con me? Non avrò io da pentirmene? Ancora un poco e son morto e  tutto è finito. Se ciò che so ora è  conforme alla natura di un essere  intelligente, socievole e avente le stesse leggi che gli’idei, che cerco io di più? Alessandro, o Caio, o Pompeo, che e rispetto a Diogene, Eraclito, o Socrate? Diogene, o Eraclito, o Socrate conosce la cosa e la causa e la materia de la cosa;  e la parte sovrana e in Diogene, o Eraclito, o Socrate, veramente sovrana. Ma quelli, che cosa Giulio Cesare. seppero prevedere? E di quante non sono schiavi? Credi pure che non cesseranno di fare la medesima cosa quando pure tu avessi a scoppiare predicando il contrario. In primo luogo non turbarti. Ogni cosa succede secondo la natura dell'universo. E tra breve tu non ci sarai più in nissun luogo, siccome non ci *sono* più. Nè Adriano  nè Augusto. Di poi affisando lo sguardo nella cosa, vedi che è. E rammentando che ti bisogna essere uomo dabbene e quello che richiede la natura dell’uomo, fallo senza guardarti indietro, e favella ciò che a te *sembra* esser giusto, ponendo  mente soltanto che questo tu faccia e dica sempre con amorevolezza, con verecondia e senza simulazione. Intendi la cosa che ti turba. Questa faccenda ha la natura  dell’universo. Trasportare colà le cose che sono qui, cangiarle, tramutarle da uno in altro luogo. Tutto è mutazione. Non però in modo che s’abbia a temere nulla di nuovo. Tutto  è cosa solita ed anche tutto è distribuito egualmente. Ogni natura qualsiasi è contenta di sè, quando procede libera  nella propria via. E la natura ragionevole procede libera nella sua via, quando non assente ad alcuna rappresentazione falsa od oscura, quando indirizza i suoi sforzi verso la sola cosa che e utile al comune, quando non ischifa nè appetisce se non la cosa che e in nostro potere, quando si accomoda. Il tutto non è che un giro; onde che non v' ha nulla di nuovo da temere. Di buon grado ad ogni cosa che le venga compartita dalla natura comune. Perchè essa è parte di questa, a quel modo stesso che la natura della foglia è parte della natura della pianta. Se non che la natura della  foglia è parte di una natura senza senso e senza ragione, e che può  essere impedita. Dove che la natura  dell’*uomo* è parte di una natura che non è sottoposta a ricevere impedimento ed è intelligente e giusta. Poiché distribuisce egualmente, e secondo i meriti di ciascheduno, il tempo, la sostanza, la causa, razione, l’accidente. La quale egualità di distribuzione potrai osservai e se tu paragm. r^rai non già separatamente l’una cosa di questo con l’una  cosa di quello, ma *complessivamente* ogni cosa di questo con ogni cosa di quell’altro. Non puoi leggere. Ma reprimere ì moti insolentì dell’animo, tu il puoi. Ma non lasciarti SIGNOREGGIARE DAL PIACERE o dal dolore, tu il puoi. Ma essere disprezzatore della gloriuzza. Tu il puoi. Ma non adirarti contro gli stolti e gl’ingrati ed anche pigliar cura  di loro, questo ancora tu il puoi. Fa che ninno t’oda più quind’ innanzi querelarti della vita in corte nè della tua. Il pentirsi è un rampognare se stesso dell’aver trascurato qualche cosa di utile. Ora il bene conviene di necessità  che sia qualche cosa di utile, e però l’uomo onesto deve averne gran cura. Ma l’uomo onesto non si pentirà mai dell’aver trascurato un piacere. Adunque IL PIACERE non è il buono o cosa utile. Che è questa cosa considerate. Sottintendi: e questa è la ragione per cui l’uomo onesto si pente di aver trascurato di far del bene. In se stessa e nell’essere suo proprio? che v’ha in essa di sostanziale e di materiale? che v’ha di causale? Che fa essa nel mondo ? Quanto tempo è per durare? Quando peni a riscuoterti dal  sonno, sovvengati essere particolar mente conforme all’esser tuo e alla natura dell’uomo il fare opere socievoli. Dove che il DORMIRE ti è comune cogli animali irragionevoli. Ora ciò che è più particolarmente conforme alla nostra natura, è anche più particolarmente accomodato a  noi, più facile e ancora più giocondo a fare. Non ommetter in verun caso li esaminare, per quanto è possibile, ogni cosa, facendo uso degl’ammaestramenti della FISICA, di quelli dell’ETICA e di quelli della LOGICA. Divisioni principali della filosofia appo gli stoici. In chiunque tu ti avvenga, di’tosto a te medesimo. Che opinioni  ha costui intorno al buono? Perchè se egli ha intorno al PIACERE piacere o alla cosa che e produttrice del PIACERE, e intorno alla gloria e all’ infamia, alla  morte e alla vita, certe cotali opinioni, non mi pare rnaraviglioso nè strano che faccia certe cotali cose. E mi ricordo sempre lui essere sforzato ad operare in tal guisa. Ricordati che siccome è da vuol dire. Esamiua ogni oggetto, riferendolo alla natura generale, e vedendo, secondo il precetto della fisica, elio relazione  ha col tutto. Riferendolo a te stesso, in quanto sei capace di felicità, la quale non può mai andare disgiunta dalla VIRTÙ ed è sostanzialmente identica  con essa, e vedendo a che cosa ti giova,  secondo il precetto dell'etica; paragonando il giudìzio che tu ne fai con altri giudizi anteriori, e vedendo se non ìstà in contraddizione con quelli; esaminando inoltre le conseguenze che si possono dedurre da  questo giudizio: tutto ciò secondo il precetto della LOGICA. stolto il maravigliarsi che la ficaia  produca il fico, così è il maravigliarsi  che il mondo produca quelle cose che è destinato a produrre. Non altrimenti che stolti sarebbero quel  medico e quel pilota i quali si maravigliassero che altri avesse la febbre e che il vento fosse contrario. Non dimenticare essere da uomo libero anche il mutar parere e seguire il consiglio di chi propone un avviso migliore del tuo. Perchè egli è pur sempre tua l’azione che tu fai coir esercizio della tua volontà, della tua facoltà giudicativa, e secondo il tuo intendimento. Se la cosa sta in poter tuo, perchè la fai? Se sta in potere altrui, di chi ti lagni? Degli atomi o degli dei? E di questi e di quelli il [Se sta in te il fare o non fare yna cosa, o l’impedire che si faccia da altri, perchè la fai, o lasci che ai faccia per dolertene poi? lagnarsi è pazzia. Non occorre lagnarsi di nissuno. Perchè se il puoi, hai a correggere l’uomo. Se non puoi l’uomo, hai a correggere la cosa. E se anche questa non puoi, il lagnarti a che giova? Non vuoisi far nulla a caso e senza scopo. Fuori del mondo non può cadere chi muore. E se riman quivi, quivi anche e non altrove si trasforma e si risolve ne’ suoi principi, che sono gl’elementi del mondo e tuoi. E questi ancora si trasmutano d’una  in altra forma, e non mormorano. Non è cosa che non sia nata ad un certo fine: il cavallo, la  vite ecc. Qual meraviglia? Anche il Sole Febo Apollo dice. Io nacqui ad un certo fine e similmente gl’altri iddii. E tu a che sei nato? A darti bel tempo? Vedi se ciò concorda col concetto  che tu fai dell’uomo. Non meno che il cominciare. Cioè nel mondo e crescere delle cose la natura ha in mira il loro decrescere e finire,  non altrimenti che il giocatore che gitta la palla. Ora c^ual bene per questa il salire o il discendere, od anche il cadere a terra? e qual bene per la bolla d’aria il formarsi e qual  male il dileguarsi? Il medesimo puoi  dire della lucerna. Arrovescialo codesto corpo e vedi qual è: e qual diventa invecchiando, e ammalandosi e depravandosi.Di corta vita sono e il laudante e il laudato, il ricordante e il ricordato; ed anche ciò accade in un [Il qual giocatore non lancia la palla  perchè abbia solo ad andare in alto, ma ancora perchè abbia a discendere. La quale si accende, arde e si spegne, o tutto è naturale egualmente.  S Àrroveciato codc lo corpo. Mettendo coir immaginazione al di fuori ciò che sta al di dentro. Depravandosi coll’ABUSO DEI PIACERI SENSUALI. angolo di questa contrada, nè quivi  pure sono tutti d’accordo, e v’ha  tale che non è neppure d’accordo con sè medesimo: e tutta la terra  non è poi altro che un punto. Applicati all’oggetto, o al  domma, o all’azione, o al significato. È tua colpa se questo ti accade. Tu vuoi piuttosto diventare domani  che essere oggi uomo dabbene. So io una cosa? La so riferendola al bene degli uomini. Mi accade una cosa? La ricevo riferendola agli dei e alla fonte di tutte  le cose, dalla quale procedono in-  Cioè fa' che la tua attenzione sia sempre rivolta ad una di queste quattro cose. O all'oggetto su che tu operi, esaminando che è in realtà: o al domma o credenza per virtù della quale tu operi, esaminando se  ella è vera; o all’azione tua stessa, esaminando se tu la fai come vuoi farla; o al SIGNIFICATO della parole, cioè riferendo il particolare al generale, per capire l’ESSENZA della COSA SIGNIFICATA. sieme conserte le une colle altre tutte le. cose che accadono. Che ti pare che sia il lavarsi? Olio, sudore, sudiciume, acqua fecciosa, cose tutte stomachevoli. Tali  sono tutte le singole parti della vita,  tutti li oggetti esteriori. Lucilla fe il corrotto a Vero, poi altri a Lucilla; Seconda a Massimo, poi altri a Seconda; Epitincano a Diotiino, poi altri a Epitincano. Antonino a Faustina, poi altri ad Antonino; Celere ad Adriano. Poi altri a Celere. Sempre e in tutto il medesimo tenore. E quei belli  spiriti, quelli antiveditori dell’avvenire, quei burbanzosi dove sono egli-  no? Come per esempio, fra i belli spiriti, Carace, Demetrio il Platonico, Eudemone e simili? Tutti sono vissuti un giorno, tutti son morti da  lunga pezza; di alcuni non si è fatta  più menzione nè anche per un poco. Altri sono passati nelle favole, e alcuni di essi scomparvero già anche dalle favole! Sovvengati dunque come  bisognerà pure che o si dissolva codesto tuo composto, o si spenga codesto tuo spirito vitale, o sia tramutato altrove e vengagli assegnato un  altro posto. È letizia dell’uomo il fare ciò che è proprio dell’ uomo. E proprio  dell’ uomo è il voler bene a’ suoi congeneri, disprezzare i moti del senso, distinguere fra le rappresentazioni quelle che sono degne di fede, contemplare la natura dell’universo e le cose che conformemente a quella si producono. Tre relazioni. L’una colla causa  circostante. L’altra colla causa divina, dalla quale procede tutto che  accade ad ognuno. La terza cogli  uomini che vivono con noi. O il dolore è un male pel corpo, e se questo è, il corpo ce lo dica. O è un male per l’anima. Ma  questa ha in poter suo il conservar  sempre la sua calma e serenità, e il non fare concetto del dolore come  di un male. Imperocché ogni giudizio, ogni volizione, ogni appetizione o avversione qualsivoglia è un atto del tuo principio interno, e niun male  può salire insino ad esso. Rimovi da te le false rappresentazioni dicendo continuamente a  te stesso. Ora sta in poter mio il  fare che in questa mia anima non  sia veruna malizia, veruna concupiscenza , veruna perturbazione, in  somma; e vedendo le cose nel vero  esser loro, fare uso di ciascheduna  secondo il valore di essa. Nel senato e con chicchessia  parla compostamente, fuggendo il soverchio delle parole, e il tuo ragionare sia senza orpello. Corte di Augusto. Moglie, figlia,  nipoti, progenitori, sorelle. Agrippa,  congiunti, famigliari, amici. Ario,  mecenate, medici, sacrificatori. Tutta  una corte che è morta. Procedi innanzi e considera il venir meno non  delle persone ad una ad una, ma,  per esempio, della famiglia Pompeia. E quella scritta che si legge sui sepolcri. L’ultimo della sua schiatta ; w  e pensa quanto s’ebbero a travagliare gli antenati di colui perchè non mancasse loro un successore. Nondimeno è pur forza che qualcheduno sia l’ultimo, ed ecco allora la morte di una intera prosapia. Colla bontà delle singole azioni  vuoisi procacciare di ben comporre  la vita. E se ciascuna di esse, per quanto è possibile, fa quelli effetti che dee fare, ti basti. Nè ciò  può essere impedito mai da checchessia. Sorgerà qualche impedimento esteriore. Ninno impedimento  che possa toglierti di operar giustamente, temperantemente, razionalmente. Tale o tale altra opera  potrà essere impedita. Ma se tu accetti di buon animo quello impedimento, e passi alacremente a far buon uso della nuova occasione che  ti vien data, ecco posta nella serie  degli atti di che si compone la vita,  in luogo di quella che ti avevi pro-  posta, un’ altra azione la quale non  è meno acconcia a quella buona  composizione della vita di che si favella. 33. Ricevi senza boria, lascia an-  dare senza ripugnanza. Vedesti mai una mano tronca.    t Cioè i beni della fortuna. Gli è come  se dicesse: Non tenerti per da più, quando  la fortuna ti viene a trovare; non tenerti  per da meno, quando ella se ne va. o un piede, o una testa giacenti  lungi dal corpo onde furono recisi?  Cotale si rende, per quanto sta in  lui, chi ripugna ad accomodarsi r  ciò che accade, e si separa a questo  modo dalla società comune, o fa  qualche atto contrario al bene di  quella. Tu te ne stai là gittate in un  canto, fuori dell’ unione naturale  degli esseri. Perchè tu eri nato parte  di quella, e te ne sei spiccato. Se  non che tu puoi sempre rappiccar-  viti di nuovo, usando della facoltà a  te concessa da Dio, e non concessa  a veruna altra parte di checchessia,  che spiccata una volta dall’ intero  potesse rappiccarvisi.Evedi di quanta  eccellenza volle Iddio adornare la  costituzione dell'uomo: chè, primie-  ramente, egli pose in potestà di lui  il non separarsi punto dal tutto ; e  poi il rapprendersi e compigliarsi di  nuovo con quello, quando se ne fosse  spiccato, e riprendere il suo posto e le condizioni sue come parte aderente qual era da prima.   35. Dalla natura degli intelligenti  ha ricevuto ciascuno di noi,’ come  tutte le altre facoltà (e sono tante  quasi e tali, quante e quali quella  medesima ne avea ricevute*), e così  anche quest’ una: che a somiglianza  di lei, la quale volge e dispone nella  serie del fato, facendone cosa sua e  quasi parte di sè medesima, tutto  che a lei si venga ad attraversare e  a resisterle; così può T animai ra-  gionevole far cosa sua di ogni im-  pedimento, pigliandone materia al  suo operare e all’ esercizio della  propria virtù ; sia pur qualsivoglia  la cosa nella quale venisse impe-  dito (14).   36. Non ti turbi il pensiero, quale [Intendi: in qnanto siani ragionevoli]. [Sottintendi: da chi è maggioro di lei. sia per essere tutta la tua vita, e  non darti pena e sconforto coll’an-  dare fantafticando quanti e quali  travagli avrai forse ancora a soste-  nere : ma ad ogni caso presente in-  terroga te stesso col dire: che v’ha  in ciò d’impossibile a sopportare?  Perchè avrai vergogna di rispondere  affermando che v’ abbia alcun che  di tale. E poi ricorda a te medesi-  mo, non essere mai nè il futuro nè  il passato quello che ti grava, ma  pur sempre solo il presente. E que-  sto presente s’ impicciolisce assai  quando tu il consideri ne’ suoi pro-  pri confini, chiedendo poi alla tua  mente, se anche così impicciolito  ella non sia buona da sopportarlo. Pantea o Pergamo stansi forse  tuttavia seduti presso alla tomba di  Vero? o Cauria e Diotiino presso a  quella di Adriano? è follia il chie-  derlo. Ma quando pure stessero tut-  tavia colà seduti, forse che ai loro signori ne giungerebbe notizia? e  quando ciò fosse, forse che ne avreb-  bero diletto? e quando ne avessero,  sarebbero Pantea e Pergamo e Caiirio e Diotimo immortali? non era  egli destino che anche questi invec-  chiassero e poi morissero? e morti  che fossero, che rimarrebbe a fare  ai loro signori ? fetore è tutto cotesto, e marciume in un sacco. Se hai la vista acuta, dice egli, '  adoprala, giudicando saviamente delle cose. Una virtù che si opponga alla  giustizia non veggo nella costituzio-  ne deir animai ragionevole ; ma una  che si opponga al piacere veggo io  bene: la temperanza. Togli via il tuo concetto in-   1 Epitteto. P.  Intendi: se hai P ingegno sottile, fa'  che la tna condotta il dimostri, cioè non  contentarti di dire le belle cose, falle. Dai  giudizi dipendono, secondo gli stoici, ne-  cessariamente le azioni. torno alle cose che sembrano darti  noia, e tu ti troverai al sicuro. Ma  chi è questo tu a cui favelli? La  ragione. Ma io non sono ragione. Sta bene. La ragione non dia  dunque noia a se stessa. E se poi  v’ ha altro in te che si dolga, faccia  egli concetto di quel suo dolore. Un male per la natura anima-  le è r impedimento del senso. Ancora un male per lei è ciò che può  impedire la soddisfazione dell’appetito. Medesimamente v’ hanno im-  pedimenti alla natura vegetale, e  sono quindi un male per essa. Adun-  (jue ciò'che può recare impedimento  alla mente è un male per la natura  intellettiva. Fa’ l’ applicazione di que-  sto ragionamento a te stesso. Il do-  lore ti tocca o il piacere? lascia che  ci badi il senso. Qualche ostacolo è  sorto ad impedire un effetto da te  voluto? se tu volesti senza la debita  riserva, questo invero fu un male per te, in quanto sei animale ragio-  nevole. Ma se fu una appetizione  nel significato comune, tu non hai  ricevuto nocumento nè impedimento  alcuno. Perocché tutto che è pro-  prio della mente non può essere  impedito che da lei stessa; non  è dato nè a fuoco, nè a ferro, nè  a tiranno, nè a maldicenza il giun-  gere insino ad essa: quando si è  fatta sferica, permane liscia e rotonda. Allusione ad alcuni versi d’Empedocle, il quale considerava la  sfera come la più perfetta delle figure ; onde  che appo Orazio la rotondità potè anche  essere immagine a significare l’eccellenza  morale, Sat. II, 7; «Quisnara igitur liber?  Sapiens, sibique imperiosus: Quera neque  pauperies, neque mors, neque vincula ter-  reni: Responsare cupidinibus, contemnere  bonores Fortis, et in seipso totus teres,  atque rotundus: etc. » Ai quali versi di  Orazio alludeva pur forse Antonino in que-  sto luogo. Anche a Dante piacque una figura  geometrica come immagine di una virtù  morale quando disse: < Ben tetragono ai  colpi di ventura. Non debbo, io, che non ho mai  voluto contristare altrui, voler con-  tristare me stesso. Chi piglia piacere ad una cosa,  chi ad un’ altra. A me fa piacere se  ho una mente sana, che non abbia  avversione a verun uomo, nè a ve-  runa delle cose che sogliono acca-  dere all’ uomo, ma guardi ed accetti  ogni cosa con sereno occhio, facendo  uso di ciascheduna secondo il valore  di essa.   44. Pigliati questo tempo presente:  chi vuol piuttosto darsi pensiero  della fama che lascerà dopo sè, non  considera che i posteri saranno tali  tuttavia quali sono i contemporanei  eh’ egli ha in fastidio, e mortali essi  pure. A te che rileva al postutto che  dalle bocche loro s’ oda echeggiare  tale piuttosto o tal altro suono, e  che essi abbiano di te tale piuttosto  o tale altra opinione? Toglimi di qua e gittami dove vuoi. Colà ancora* avrò meco il mio  genio propizio, vale a dire pago di  sè medesimo, quando le disposizioni .  sue sieno conformi alla sua propria  natura.   Ciò * vale il pregio che la mia ani-  ma se ne turbi e voglia farsi peg-  giore di sè, essere travagliata da  desiderii e timori, sconfortata, im-  miserita? E qual cosa troverai tu '  che lo valga?   4G. Air uomo non può nulla ac-  cadere che non sia un accidente  umano, nè al bue che non sia acci-  dente’ proprio del bue, nè alla vite  che non sia accidente proprio della  vite, nè alla pietra che non sia ac-  cidente proprio della pietra. Ora se  a ciascheduno accade quello che è  solito accadergli e gli è connatura-   * Intendi: colà ancora dove mi avrai git-  tato, e dove-che sia, avrò meco ec. Intendi : ciò che ora mi accade, o chec-  ché altro di somigliante. le, a che ti crucceresti? la natura  comune non può arrecarti nulla che  tu non sia fatto per tollerare. Se ti attristi per alcuna cosa  esteriore, non è la cosa esteriore  quella che ti turba, ma si il giudizio  che tu ne fai. E lo annullare quel  giudizio sta in te. Se ti attristi per  alcun che del tuo stato interiore,  chi ti impedisce che tu non raddrizzi l’opinione onde deriva quel  tuo stato? Che se ti attristi perchè  non fai tale o tal altra cosa che ti  par buona, chè non ti volgi al farla  anzi che attristarti? — Ma sorse osta-  colo più potente di me. Non attristarti adunque se tua non è la colpa  del non fare. Ma non porta il pre-  gio di vivere, se questo non posso fare. Esci dunque pacatamente di  vita (dacché muore anche colui cui  vien fatta la cosa che imprende), o  con animo benevolo verso chi ti ha  contrariato. Sovvengati come divenga ines-  pugnabile la parte sovrana dell’ uomo  quando rinchiusa in sè stessa non  abbia altro proponimento'che di non  lasciarsi indurre a far cosa che essa  non voglia, anche nei òasi in' che  quel suo ostinarsi a non volere fosse  fuor di ragione. Ora che non sarà  quando la sua risoluzione proceda  da sano e ben ponderato consiglio?  La mente scevra da passioni è dun-  que una eccelsa rócca, nè 1’ uomo  ha luogo più validamente munito  ove raccogliersi per non esser vinto  mai. Chi non conosce questo- rifu-  gio, è un ignorante ; chi lo conosce  e non vi ricovera, è uno sciagurato.   49. Non dire tu a te stesso più  che non siati annunciato dalla per-  cezione immediata. Ti si annuncia  che il tale sparla di te. Questo ti si  annuncia ; ma che tu ne riceva no-  cumento, non ti è annunciato. Vedo  che il figliuolo è ammalato. Questo veggo io ; ma ch’egli sia in pericolo  non vedo. Fa’ dunque di attenerti  sempre a ciò che ti dice la perce-  zione immediata, non aggiungendovi  nulla del tuo, e così non ti accadrà  nulla mai.' Anzi aggiiignivi pur qual-  che cosa, e siano le riflessioni di un  uomo che conosce le relazioni e le  con»lizioni vere di tutte lé cose che  accadono nel mondo. Il cocomero è amaro? non man-  giarlo. V’hanno sterpi nella via? fa  di non inciamparvi. Tanto ti basti.  Non farti a dire: che bisogno ci avea  anche di cotali cose nel mondo?  perchè ne avresti le beffe dell’ uomo  versato nella scienza della natura,  come avresti quelle del legnaiuolo Nulla di male, intendi, perchè tutto  quello che sarà oggetto immediato della  percezione, senza alcuna aggiunta del tuo,  non sarà mai gran male. Cioè che tutto che accade è nell' ordine  della natura, e vuol essere accettato di  buon grado. e del calzolaio se ti facessi a biasi-  marli del trovarsi trucioli e ritagli  nelle loro botteghe.' E nondimeno  per costoro v’ha luogo ove gittarli  fuori delle loro officineT mentre la  natura dell’ universo non ha fuori  dell’ universo alcun luogo. Ma questo è appunto il mirabile dell’ arte  di costei, che essendo essa circo-  scritta da quei limiti che ella pose  a sè stessa, tutto ciò che nella sua  officina sembra guasto, vieto, non  più utile a nulla, ella riprende in  sè stessa e ne fa materia alla pro-  duzione di cose nuove. Perchè ella  non vuole aver bisogno mai nè di  estranea materia, nè di luogo este-  riore ove gittare il vietume, e a  lei basta il suo proprio luogo, la  sua propria materia e l’arte sua propria.  Fa’ di non essere molle o negligente nell’ operare, non confuso  nel favellare, non vagante qua e là  senza scopo nel pensare; fuggi, in  quanto si è agli affetti, lo scoramento  e la subitanea gioia, e nel tenore  della vita lo impigliarti in troppe  faccende. Ammazzano, tagliano a  pezzi, fanno imprecazioni. Che vale  tutto questo ad impedire che la tua  mente non si conservi pura, assen-  nata, temperante e giusta? Se alcu-  no fattosi vicino ad una fontana lim-  pida e dolce si ponesse a maledirla,  forse che da quella cesserebbe di  scaturire acqua potabile? Vi gittasse  ancor dentro fango e sterco, essa lo  avrebbe sciolto ed espulso in poco  d’ ora, e non ne rimarrebbe conta-  minata. Come avrai tu dunque in te  una fontana limpida e perenne, e  non un pozzo? Col non cessare di  rivendicarti in libertà, serbandoti  sempre mansueto, schietto e verecondo. Chi non sa che cosa è il mondo,  non sa dove sia egli stesso. E chi  non sa a che il mondo e stato fatto,  non sa nò qual sia egli stesso, nè   " che cosa sia il mondo.* E chi ignoia  r una di queste due cose, non può  neppur dire a che fine egli stesso  sia nato. Ora che ti pare di colui  che ambisce esser lodato da tali che  non sanno nè dove essi sono, nè   quali essi sono?^   53. Vuoi tu essere lodato dall’uo-  mo che tre volte all’ora maledice  se stesso? Vuoi tu piacere all uomo  il quale non piace egli stesso a sè  medesimo? Piace egli a se medesimo  chi si ripente quasi di ogni cosa die  va facendo? Oramai non ti basti' più sola-   E chi non so o che il mondo ..... nè  che cosa sto il mondo. StiU" interpretazione  di questo luogo diversamente inteso dagli  interpreti, si può vedere la nota nell' edi-zione di Torino. [Intendi quali ^ieno le loro condizioni. mente il respirare* con l’aria* che  ti circonda, ma fa’ eziandio di pen-  sare e di volere con l’ intelligenza  universale* che in sè contiene ogni  cosa. Perchè la potenza intellettiva  si diffonde e penetra per ogni dove,  chi voglia attingere da essa, non   [Respirare: intendi vivere la vita sensitiva per mezzo della respirazione. Il verbo “respirare” e il corrispondente nel testo hanno  nelle dne lingue rispettive oltre al senso proprio, quello di vivere. [Con “l’aria”: intendi coll’ aiuto e cooperazione dell’aria, conformemente - alla na-  tura di essa aria, e insieme con essa; chè  essa pure vive è spira, o respira. La preposizione con e la corrispondente in greco esprìmono nelle due lingue rispettive, oltre  alla relazione di compagnia, quella ancora di conformità, aiuto reciproco o COOPERAZIONE', esprimono ancora il rapporto di causa sia istrumentale, sia materiale. Tutte queste rela-  zioni di compagnia, conformità, aiuto e causa  materiale, vogliono intendersi come simul-  taneamente espresse, confuse insieme in una  idea complessa, nelle dette preposizioni, così  in questa come nella frase seguente.  Coll’intelligenza universale : intendi  coir aiuto di ossa, conformemente ad essa e  insieme con essa. meno che l’aria rispetto a chi la  aspira. Il vizio, universalmente, non  nuoce al mondo; e singolarmente,  non nuoce ad altrui. Nuoce solo a  colui al quale è dato di potersene  liberare al primo momento che il  voglia. Alla mia volontà la volontà  del vicino ò cosa tanto indifferente  quanto la anim uccia di lui e il cor-  picciuolo di lui. Perchè, sebbene  siam nati tutti gli uni per gli altri,  la parte sovrana di ciascuno di noi  ha nondimeno il suo proprio domi-  nio separato; altrimenti la malvagità  del vicino potrebbe essere un male  per me. Il che non fu voluto da Dio,  affinchè non fosse in potestà altrui  il far me infelice. Il sole sembra versarsi per  ogni dove, e effettivamente si diffonde   ' Cioè alPuomo vizioso, che può cessare  di esser tale tosto che il voglia. da tutti i lati, ma non però si effon-  de.* Quel suo diftbndersi è uno esten-  dersi: e però gli splendori di lui si  chiamano actines (raggi) da ecteine-  sthai (estendersi).* Tu puoi vedere  che cosa è un raggio guardando la  luce del sole che penetra per un  piccol buco in una camera oscura:  ella si allunga in diritta linea e va  come ad applicarsi sul corpo opaco  qual siasi, che le si fa incontro e  intercetta 1’ aria al di là.* Quivi si  ferma senza sdrucciolare giù nè ca-  dere. Cosi dee pure diffondersi la  mente, non effondersi, ma esten-  dersi ; e quando s’ appresenta un  ostacolo, applicarvisi senza violenza  nè urto, nè tampoco cader giù, ma Non si versa fuori in modo eh' egli ab-  bandoni il luogo onde parte la sua luce. [Falsa etimologia, simile a tante altre  che puoi incontrare presso' gli antichi. Vale a dire intercetta come corpo opaco  il passaggio della luce agli strati d' aria  che sono al di là. star ferma e- illuminare 1’ obb ietto  che la riceve. Che se questo non  vorrà trasmettere la luce, tal sia  di lui se rimarrà privo di essa.Chi teme la morte, teme o di  non dover più aver sentimento, o  di dover avere un sentimento diverso dal presente. Ma se tu non avrai  più sentimento, non sentirai verun  male; e se tu avrai un sentimento  diverso, sarai un animale diverso, e  non avrai cessato di vivere. Gli uomini sono nati gli uni  per gli altri. Ammaestrali dunque,  o sopportali.  Altro è il moto della freccia,  altro quello della mente. Perchè la  mente anche quando procede cautamente e s’ aggira* nel deliberare, va   1 Intendi: non vorrà lasciarsi penetrare  da essa luce, dandole passaggio nelle parti  più interne. Cioè illuminato solo esteriormente, ma  al buio nell' interno. nondimeno per la diritta via verso  Io scopo.   61. Entrare nella parte sovrana  di ciascheduno, e far sì che ognuno  possa penetrare nella parte sovrana  di noi medesimi. Chi fa ingiuria ad altrui, è reo  d’ empietà. Perchè la natura univer-  sale avendo fatto gli animali ragio-  nevoli gli uni per gli altri, affinchè  r uno giovi air altro, secondo il merito, e non gli noccia; il trasgre-  dire le intenzioni di lei, è manife-  stamente un peccare contro la più  veneranda fra le Dee. Chi mente, è  pur reo di quel medesimo peccato.  Perchè la natura universale è natura  degli enti, e gli enti hanno relazione  di parentela con tutti gli esistenti. [Secondo il merito; frase stoica. Di tutti gl'interpreti anteriori all’ornato il Kmtz è il solo che intendesse bene   Oltre che ella è nomata la verità,  ed è la causa prima di tutti i very. E però *chi MENTE CON INTENZIONE*, è  reo verso di lei, in quanto fa torto  ad altrui ingannando; e chi mente  senza intenzione,' in quanto che ad  ogni modo discorda dalla natura  universale, e turba V ordine andan-  do a ritroso della natura del mon-  do ; * perchè va a ritroso di essa  non senza sua colpa anche colui  che insciente va a ritroso del vero; sendo che non per altro che  per non aver profittato di quelli  indirizzi e sussidi di cui gli fu prov-  vida la natura, non è egli più in  grado di distinguere il vero dal falso.  Ancora è reo di empietà chi segue  il piacere come un bene e schifa il  dolore come un male. Perchè non   questo luogo, ancora che un po' troppo pla-  tonicamente. Vedi la nota dell' Ornato nel-  l'edizione di Torino. Cioè per ignoranza, o a caso. P.   * Che è l'ordine per eccellenza. può essere che costui non mormori  spesso contro la natura comune, quasi ’ ella non abbia riguardo al  merito nelle dispensazioni che va  facendo ai buoni ed ai tristi, veg-  gendosi spesso i tristi vivere nei  piaceri e nella abbondanza di tutte  le cose che li procurano, quando i  buoni cadono nel dolore e van sog-  getti a tutti gli accidenti che ne  sono cagione. Oltre che chi teme il  dolore, temerà pure talvolta alcune  delle cose che sono per accadere  nel mondo: il che è già da per sè  cosa empia;* e chi va in cerca del  piacere non si asterrà dal far torto  agli altri. Del resto, chi viiol seguire  la natura, dee consentire colla natura [Epitteto, Manuale XXXII, 4.   « Di modo che ciascuno che procacci di  desiderare e fuggire solamente quello che è  da essere desiderato e fuggito, procaccia al  tempo medesimo di esser pio » (traduz. di  G. Leopardi). Cfr. Manuale. ed essere indifferente rispetto a tutte  quelle cose rispetto alle quali ella si  dimostra indifferente col far che suc-  cedano egualmente nel mondo. K •  però chi non fa eguale stima del  dolore e del piacere, della morte e  della vita, dell’ infamia e della gloria, delle quali cose fa uso egual-  mente la natura universale, è mani-  festamente reo di empietà : dico che  la natura ne fa uso egualmente, vo-  lendo significare che sono accidenti  a cui sono deipari sottoposti secondo  la legge di anteriorità e posteriorità,'  tutti gli esseri che nascono e si suc-  cedono gli uni agli altri per conseguenza necessaria di .quello impulso  primordiale con cui la previdenza  concependo in sè certe ragioni del  futuro,* e determinando virtù gene-  ratrici di esistenze, di cangiamenti   1 Abbiamo seguito l' emenda^siono del Ce-  rai. Ragioni seminali. e di successioni conformi a quelle,'  diè principio a questo ordinamento  di cose.   2. Certo meglio era per te serbarti  puro di menzogna e di ogni sorta di  finzione e di boria sino al punto  della tua dipartenza dagli nomini.  Ora il partire nauseato di queste  cose è, dopo quello, il miglior par-  tito che ti rimanga. 0 hai tu forse  deliberato di marcir sempre nel vizio,  e r esperienza stessa non ti persua-  de ancora a fuggire dalla peste?  Perchè è peste la corruzione della  mente ancor più che lo infettarsi c  corrompersi di quest’ aria che ne  circonda. L’ una è peste degli ani-  mali in quanto sono animali ; l’altro  è peste degli uomini in quanto sono  uomini.   3. Non disprezzare la morte, ma  accettala di buon grado, siccome  Conformi a quelle ragioni seminali. quella che è una delle cose che la  natura vuole. Perchè quale è il giun-  gere alla adolescenza, alla vecchiaia,  il crescere, il giungere alla virilità,  il mettere i denti e la barba, il ge-  nerare figliuoli, portarli, partorirli,  e tutti gli altri effetti che arrecano  le stagioni della vita, tale è ancorji  il dissolversi. Appartiensi dunque ad  uomo assennato il non procedere alla  cieca colla morte, nè all’ avventata  nè con superbia, ma aspettarla come  uno dei tanti effetti naturali: come  aspetti l’ora che dall’utero della mo-  glie esca il feto, a quello stesso modo  aspetta l' ora in che l’ anima tua  uscirà di codesto suo invoglio. Che  se ti è bisogno anche di uno em-  piastro da idiota il quale s’ applichi  al cuore,' ti gioverà il considerare  Che se ti è bisogno anche appli-   chi al cuore. Le parole del testo, chi ben  le intenda, non sono, a parer mìo, senza  una certa ironia. Perchè a far riguardare quali sieno le cose onde t’ hai a  dipartire, e gli umori degli uomini  tra i quali l’anima tua non sarà più  impigliata. Non che tu abbia a re-  carteli a noia, chè anzi hai da averne  cura e sopportarli con amore ; ma  potrai ricordare che non sei per di-  partirti da uomini che la pensino  come te. Perchè, se ci avesse cosa   con indifferenza la morte, la ragione specu-  lativa data già innanzi dovrebbe, secondo l’autore, bastare al filosofo, al quale non  dovrebbero abbisognare argomenti che ai  indirizzino alla sensibilità, e che Antonino  chiama “empiastri da idiota che s’ applicano al cuore”. Ornato traduce  questo luogo come segue: Che se vuoi  inoltre uno espediente da nomo materiale  che ti muova sensibilmente:» notando al margine: c anzi tutto conveniva far capire  il senso, e qui era maggior fedeltà il la-  sciare la lettera. Il primo mezzo, dice An-  tonino, era da filosofo: questo secondo da  illetterato: e però quello era speculativo,  questo pratico. Ma vedi se puoi dir meglio,  chè sono scontento assai. » Per dir meglio  io ho stimato che fosse da conservare il  linguaggio figurato e l'ironia del testo, non  tanto difficile poi a capire anche nella traduzione. che dovesse affezionarci alla vita,  questa sarebbe fuor di dubbio; lo  averla a passare con chi sente e  giudica come noi.  Chi pecca, pecca a suo danno :  chi commette ingiustizia, fa ingiuria  a sè medesimo, facendo sè malva-  gio.   5. È ingiusto soventi volte non  solo chi fa, ma ancora chi non fa.  Se il giudizio che tu fai nel  momento presente è vero ; se l’azione  che tu fai nel momento presente si  riferisce al ben comune ; se la disposizione in che sei nel momento pre-  sente è di accettare di buon grado  quanto avviene per virtù della causa  esteriore ; non ti abbisogna più  altro. Togli via le false immagina-  zioni ; contieni i moti dell’ animo ;  spegni i desiderii troppo accesi ; fa’  che la mente sia padrona di sè. Una è l’anima distribuita fra tutti gli animali irragionevoli; una  la ragione compartita a tutti i ra-  gionevoli come una è la terra di  tutte le cose terree, una la luce per  cui veggiamo, ed una 1 aiia che respiriamo tutti quanti abbiamo vista! e respiro.  Tutte le cose che hanno alcun  che di comune fra loro, tendono  l’una verso dell’altra. Il terreo  tende verso la terra, V umido s ac-  costa all’umido, l’aereo all’aereo.   Il fuoco va in su per cagione del  fuoco elementare ; e quaggiù è così  pronto ad unirsi con altro fuoco, che  ogni materia un po’ secca s accende  di leggieri per lo esservi mescolata  dentro minor quantità di ciò che  impedisce l’unione, h sunilmente  ciò che partecipa della natura intellettiva tende verso il suo congene-  re, e con più forza eziandio : perchè  quanto ha più eccellenza delle altre  cose, tanto ha maggiore inclinazione ad unirsi con chi ha somigliante  natum, e a confondersi con esso. E però tu trovi appo gli animali  privi di ragione sciami, mandre, nidiate, e come chi dicesse amori:  sono già anime in essi, e la virtù  unitiva, più intensa nel più perfet-  to, vi si manifesta quale non è an-  cora nelle piante, nelle pietre o nei  legni. Ed appo i ragionevoli tu vedi  città, amicizie, famiglie, radunanze  pubbliche; e anco nelle guerre patti  e tregue. E appo gli esseri ancora  più eccellenti l’unione ha luogo in  certo modo anche fra i disgiunti e  lontani, come puoi vedere negli astri.'  Cosi un più alto grado di eccellenza  può generare scambievole corrispon-. Molti degli  Dei popolari riferivano gli stoici ai gran  corpi celesti, al sole, alla luna, alle stelle.  Gli Dei medesimi non sono pure, agli occhi degli stoici, ciascnno per sò medesimo;  ma tutti sono per tutti, per la loro comunità, pel Dio supremo, pel mondo ecdexiza negli esseri anche a mal grado  della distanza che è tra mezzo. Ma  vedi ora a che siamo : soli i ragio-  nevoli sembrano talora aver posto  in oblio la loro qualità che li chiama  ad unirsi reciprocamente gli uni cogli altri, e quivi solo pare che non si  trovi sempre concorso reciproco.  Nondimeno con tutto che essi fug-  gano a poter loro, e’ sono da ogni  parte arrestati ; chè la natura è. più  potente di loro. Tu vedrai manifesto  (j nello che io dico, se tu saprai osservare. Perchè ti verrà più agevolmente fatto di trovar terra scompa-  gnata dalla terra, che non uomo  scompagnato dall’ uomo. Porta il suo frutto anche l’ uomo, ed anche Dio, ed anche il mon-  do: e ogni cosa nella sua stagione  porta il suo frutto. Che se l’uso ap-  plica questo modo di dire propria-  mente alla vite e alle altre cose di  simil fatta, non monta nulla. La ragione poi porta un frutto c per gli  altri e per sè stessa,* e nascono da  lei cose che hanno natura e qualità  simili alle sue proprie. Se tu il puoi, fa’ che si ricre-  da ; se non puoi, sovvengati che la  benignità ti è stata data per questo.*  Anche gli Dei sono benigni a questi  tali ; e in certe cose eziandio li aiu-  tano, come a conservare e ricuperare la sanità, ad acquistare fama e  ricchezza: cotanto sono essi amorevoli. Il medesimo puoi fare .tu an-  cora ; o veramente di’ chi ti impedisce che tu noi faccia. Lavora non già come un ta-  pino nè come chi voglia farsi com-  miscrare o ammirare ; ma intendi a  ciò solamente: operare e astenerti. Cioè per tollerare amorevolmente an-  che chi erra e non vuole o non può ricredersi. Intendi « agire o non agire, » frase solenne appo gli stoici, non traducibile. secondo che la ragion civile * richiede. Oggi sono uscito d’ ogni mia  noia, 0 per dir più vero, ho cacciato  fuori ogni mia noia, perchè non era  fuori di me, ma dentro, nelle mie  opinioni. Sion tutte cose, in quanto al  numero delle volte che si sono ripetute, consuete ; in quanto alla durata,  transitorie ; in quanto alla materia,  sordide. Tutte sono ora quali erano  al tempo di coloro che abbiam sep-  pelliti.  Le cose stan fuori dell’ uscio, ^  dapersè, nulla sapendo disè, nè giu-  dicando. Chi è dunque che giudica  intorno a loro? la parte sovrana. Intendi il bene della società. Intendi fuori di noi, e non hanno adito  a noi nè potenza di turbarci, se noi non  apriamo loro l’uscio, facendo stima di loro  disuguale al vero. Ho creduto di dover con-  servare l'espressione figurata del testo greco. Cioè la ragione. Non nella passione, ma nella  razione sta il bene e il male dell’animai ragionevole e socievole;  come non istà nella passione ma  nell’ azione la virtù di lui e il vizio. Alla pietra scagliata in aria  non è punto un male lo andare in  giù, nè un bene lo andare in su.  Penetra nell’interno delle menti  loro, e vedrai che gente è quella di  cui tu temi il giudizio, e che sorta  di giudici sono anche verso di sè medesimi. L’esistenza delle cose è un  passare incessante da una in altra  forma. E tu stesso non perduri un  istante nel medesimo stato, ma ti  vai di continuo alterando e come a  dire dissolvendoti.  E l’universo  parimente. Cioè iniqui anche verso sè stessi, non  che verso gli altri; dannando essi la lo(o  parte sovrana a servire alla inferiore. Il fallo altrui coiivien lasciarlo  dov’è. Il finire di una azione, il cessare di una volontà o di un pensiero  e, per così dire, il morir loro, non  è punto un male. Considera ora le  diverse età: l’infanzia, L’ADOLESCENZA, la giovinezza, la vecchiaia. Il cessare di quella che precede per dar  luogo a quella che segue, è ancora, come a dire, una morte. È egli un  male? Passa a considerare la vita  che vivesti sotto 1’ avolo, poi quella  sotto la madre, e rammenta ancora  molte altre diversità di stati, e mutamenti dall’ uno in un altro, e ces-  sazioni ; e interroga te stesso; è egli  cotesto un male? Adunque nò anco   il cessare e concludersi della vita,  nè il totale mutamento di essa non  è punto un male. Cioè in chi n’è autore, il quale non  nuoce che a sè medesimo. Bada alla tua parte sovrana,  a quella dell’ universo, a quella di  costui. Alla tua, per ridurla giusta  ed imparziale ; a quella dell’ uni-  verso, per non dimenticare di che  sei parte; a quella di costui, per  chiarire s’ egli operò per ignoranza ovvero con intenzione, e ricor-  dati ad un tempo che egli ti è congiunto. Come tu medesimo sei parte  del corpo sociale, così anche ciascuna delle tue azioni è parte inte-  grante della vita di quello. Adunque  se una qualsivoglia di esse non ha  per iscopo, o immediato o mediato,  il bene della società, ella turba la  vita comune rompendone l’ unità,  ed è sediziosa come è sedizioso chi  parteggia in una città e guasta,  per quanto è in lui, la comune concordia. Sdegni fanciulleschi, bambo-  late, animucce che portano cadaveri, cose che rappresentano al vivo  ciò che narra Omero delle anime  degli spenti. Considera la qualità della causa,  e separando quella dalla materia, fa’  di contemplarla distintamente in sè  stessa; di poi vedi anche e circoscrivi  distintamente entro i suoi confini il  tempo che, al sommo, possa cotal  cosa per la natura sua durare. Hai sofferto mille travagli per  non aver voluto appagarti unicamente  del far quello a che sei stato ordinato: ma basti. Quando altri ti lacera o ti odia,  o che schiamazzano contro di te,  come fanno ora, pensa alle animucce Farla di tutte le cose di questo mondo. L’Odissea, lib. XI, discesa di Ulisse all’Inferno. Intendi: per non aver riposto unica-  mente il tuo bene nel far quello ohe ec.Come schiamazzano ora ; relativo a  qualche caso particolare. di questi tali, penetra loro addentro e osserva che uomini sono. Ve-  drai che non ti conviene il dar;(:i  briga perchè essi abbiano di te piut-  tosto tale che tale altra opinione.  Hai nondimeno a voler loro bene :  chè sono per natura amici tuoi. IC  anche gli Dei non lasciano di giovar  loro in ogni modo, per mezzo di  sogni, di oracoli, sebbene in quelle  cose soltanto che da costoro si pregiano. Cotale è il perpetuo giro delle  cose mondiali ; all’ insù all’ ingiù,  d’ età in età. 0 la mente dell’ uni-  verso determina con atti particolari  di volontà ciascuna cosa ; e se que-  sto è, tu hai da ricevere con amore  il voluto da lei : o ella ha voluto e  determinato una volta per sempre, o  tutto pende e procede da quella determinazione ; e allora a che il ri-  calcitrare? Egli è, in certo modo,  come se non ci avesse altro che atomi e indivisibili. Al postutto, o  egli v’ ha un Dio intelligente e provvido, e tutto sta bene ; o le cose si  governano dal caso ; e tu almeno non  governare a caso te stesso. Oramai  la terra ci ricoprirà tutti quanti siamo ; e poi anche la terra si trasformerà; e poi si trasformerà quello  ancora in che si sarà trasformata la  terra ; e quest’ altro ancora di nuovo,  air infinito. Davvero chi ripensa a  un cotale incalzarsi di mutamenti e  di moti e alla rapidità con che si suc-  cedono, non può essere che al tutto  non disprezzi ogni cosa mortale. La causa universale è un tor-  rente che trae seco ogni cosa. E que-  sti omicciuoli che al parer loro ma-  neggiano secondo filosofia gli affari  «li Stato, come son piccioli! Veri  bimbi in culla.* 0 uomo, attendi a  Letteralmento : « pieni ,di moccio, moc-  ciosi, » cioè « bimbi col moccio al naso.  far quello, che che sia, che la natura richiede da te nel momento  presente, e non andar guardando attorno se altri il saprà. Non isperare  la repubblica di Platone, e sii contento ad ogni po’ di progresso che  tu vegga ; pensando che anche il ridurre questo ad- effetto non è pic-  cola cosa. Perchè le opinioni degli  uomini chi può mutarle? E senza  correggere le opinioni, che puoi tu  avere se non ischiavi che gemono e  s’infingono di obbedire ? Or va’, non  istar più ad allegarmi Alessandro,  Filippo, Demetrio Falereo. Buon per loro, se conobbero che cosa vuol la  natura comune, e seppero raffrenare  e governar sè medesimi. Che se operarono solo per parere,' nissuno ha   moT'oeuXy direbbero i Francesi. Dal novero  di questi bimbi non pare che Antonino intendesse escludere sè medesimo. Fare il bene per amor del bene piutto-  sto che della lode, voler essere piuttosto  che parere ottimo, è il tratto più essenziale condannato me ad imitarli. Semplice  e modesta è l’opera della filosofia.  Non indurmi ad ostentazione di gravità. Contempla, come da un’ alta  vetta, mandre infinite d’uomini, usi  di religione innumerevoli, e un na-  vigar da ogni banda, in tempesta,  in bonaccia, e diversità di nascenti,  di conviventi, di morenti ; pensa an-  cora alla vita che si vivea per lo  addietro, e a quella che si vivrà dopo  te, e a quella che tra le nazioni  barbare si vive ora, e quanti v’ ha  che di te ignorano anche il nome,   dì un gran carattere morale, dipinto da  Eschilo con tre versi sublimi nei Sette a  Tebe parlando di Amfiarao, in parte fran-  tesi dal Belletti; e la cui traduzione let-  terale, per quanto è possibile, sarebbe : « non  sembrare, ma essere ottimo ei vuole, fa-  cendo fruttificare il fertile terreno della  sua mente, ove germinano gli assennati pensieri. [ Bellissimo e nobilissimo paragrafo !  quanti insegnamenti, e per quanti, si compendiano in esso! P e quanti che sono per dimenticarlo  in breve, e quanti che ti lodano  forse ora, e ti biasimeranno tantosto:  e come non è da fare stima nè della  ricordanza, nè della gloria, nè di ve-  runa cosa quaggiù.  Imperturbabilità rispetto alle  cose che procedono dalle cause este-  riori; rettitudine nelle cose di che  tu stesso sei causa : vale a dire, determinazioni ed azioni non aventi  altro fine che sè medesime, cioè d’o-  perare socievolmente, siccome cosa  che è secondo la tua natura.  Fra le cose che ti molestano,  molte le quali hanno sede nella tua  opinione, tu puoi sgombrare da te, o  darai cosi campo ed agio a te stesso.   Fa’ di abbracciar colla mente l’uni-  verso mondo, e concepir nel pensie-  ro r eternità dei secoli, e considera  la rapida trasformazione di ciascuna  cosa particolare, e quanto è breve  l’intervallo dalla nascita alla dissoluzione, e infinito il tempo che precedet-  te la nascita, e infinito del pari quello  che terrà dietro alla dissoluzione.  Tutte le cose che tu vedi si  tlissolverannò tra breve, e coloro che  le vedranno dissolversi, si dissolveranno tra breve anch’essi. E chi  morrà d'estrema vecchiezza, si tro-  verà ad un medesimo ragguaglio  con chi mori anzi tempo. Che menti son quelle di costoro ! e per che motivi amano e  onorano altrui! abbi in uso diveder  nude le loro animucce. Quando si  credono nuocere biasimando, o giovare lodando, che vanità! Una perdita di che che sia non è altro che una trasformazione. Edi '  questo si compiace la natura dell’universo, conforme alla quale tutto   [Intendi: qual vanissimo errore!] Perchè la lode e il biasimo di chi che sia noii  aggiunge e non toglie nulla al valor vero  degli uomini o dello cose. si fa bene. Per secoli innumerevoli  le cose si sono fatte a questo modo,  e continueranno a farsi' a questo  modo per altri secoli innumerevoli. Che dirai dunque? Che sempre sensi  fatte male, e che continueranno a  farsi male per l’avvenire? Or nis-  suno dunque s’ è mai trovato fra co-  tanti Iddìi, il quale avesse potestà  <li correggere tutto questo? E il mon-  do è egli condannato a mali che  non avranno mai fine? Vedi il marcio della materia  che sottosta alle cose: acqua, polvere, ossicini, sudiciume. Il  marmo, callosità della terra; l’oro  e r argento, capomorto di quella ;  la veste, peli ; la porpora, sangue :  cosi di tutto il rimanente. E la materia organica vivente, altrettale: di  La conclusione è che le perdite, i mu-  tamenti, e tante coso allo quali il^ volgo  dà il nome di mali, non sono mali veri. quei medesimi ingredienti si com-  pone, e in quelli si risolve.  Abbastanza hai tapinato, abbastanza hai mormorato, abbastanza  hai fatto la scimmia. Che ti turba?  Che t’interviene di nuovo? Che è  ciò che ti trae dal senno? La causa?  vedila. La materia? vedi la materia.  Da queste cose in fuori non v’ ha  nulla. Ma anche fa’ di essere più pio  verso gli Dei e più semplice.   Lo stare a veder queste cose tre  o cento anni è tutt’uno.  Se egli ha peccato, in lui sta  il male. Ma forse non ha peccato. 0 da una sola fonte intelligen-  te, come in corpo organato procedono tutte le cose ; e se ciò è, non  appartiensi alla parte il querelarsi  di ciò che fassi ad utilità comune  del tutto ; o sono gli atomi. E tutto che esiste, accozzamento del caso,  vien dissipato dal caso. A che dunque ti turbi?   Di’ alla parte sovrana : sei tu morta? sei tu fradicia ? sei tu altra cosa  che te? sei tu imbestiata? sei tu  giumento ? sei tu pecora?  gli Dei non possono far nul-  la, o possono. Se non possono ; a  che li preghi? Ma se possono, che  non li preghi piuttosto perchè ti  concedano di non temere nè desidarare alcuna di queste cose, nè di  rattristarti per esse, anzi che pre-  garli che tu possa ottenerle o evitarle? perchè ad ogni modo, se e’ pos-  sono aiutare gli uomini, debbono  poterli aiutare anche in questo. Dirai forse : cotesto gli Dei hanno posto  in mia facoltà. 0, non è dunque  meglio valerti con altezza d’ animo  indipendente di ciò che sta in poter  tuo, anzi c he affannarti abbiettamente e servilmente per ciò che non  dipende da te? E poi chi ti ha detto  che gli Dei non ci aiutino anche  nelle cose che stanno in poter no-  stro? provati di pregarli, e vedrai.  Altri prega : fa’ che io possa giacere  con colei. E tu prega: fa’ che io non  desideri di giacere con colei. Altri :  fa’ che io mi possa liberare dal tale. E tu: fa’ che io non abbia bisogno li liberarmi dal tale. Altri ancora :  fa’ che io non perda il figliuolo. E  tu: fa’ che io non tema di perderlo.  In somma raddrizza cosi le tue pre-  ghiere, e sta’ a vedere che ne segue.   4L Dice Epicuro : « Ammalato, io  non facea mai parola delle affezioni  del mio corpicciuolo nè d’altre co-  tali cose, quali sogliono essere quelle  di che amano gli infermi inti’atte-  nersi con coloro che li vengono a  visitare. Ma attendeva tuttavia a ragionare intorno ai punti principali  della filosofia naturale, soprasUmdo   ad investigare e dimostrare ciò ap-  punto : come possa V anima, ancora  che partecipe dei moti del corpo,  serbarsi nondimeno imperturbata, e  conservare in sè quel bene che è  proprio di lei: nè dava, aggiunge  egli, materia ai medici d’insupei-  bire, come se facessero gran che :  chè la mia vita, anche in quello  stato, non era senza calma e giocon-  dità. » Ora fa’ tu altrettanto, sia,  ponghiamo caso, che tu ammali, o  t’ intervenga qualsivoglia altra mo-  lestia: perchè"' il dover serbar fede  alla filosofia in ogni congiuntura  qualsiasi, e non delirare con lo stolto  e con l’ignaro, è precetto comune  a tutte le sètte. Bada unicamente a ciò che tu fai  nel momento presente, e all’ istro-  rnento con che il fai. Quando ti senti offeso dall’impudenza di alcuno, interroga tosto  te n'iedesimo : ò egli possibile che  non ci abbia impudenti nel mondo?  Non è. Non voler dunque l’impos-  sibile : questo è uno di quelli impu-  denti che di necessità hanno ad essorci. Lo stesso hai da dirti e del  furbo e del disleale, e di qualunque  altro vizioso che pecchi in qualsi-  voglia modo. Perchè ricordandoti  essere impossibile che tal sorta di  gente non sia, tu ti farai più mite  verso ciascuno. Giova ancora il pen-  sare subito. Qual virtù ha dato all’uomo la natura contro questo peccato'? Ha dato, per modo di eseni-   [Intendi: tosto che ci sentiamo offesi por  tale 0 tal altro fatto biasimevole di chicchessia. Intendi : contro al sentirsi offeso da  questo peccato del vicino. Perchè colle stesse  parole in altro luogo potrebbesi anche si-  gnificare: qual virtù diede all'uomo la na-  tura .per combattere in sè medesimo questo  peccato e serbarne puro sè stesso. pio, contro all’ ingrato la mansuotudino, 0 contro a ciascuno altro vizio,  altre virtù. Ad ogni modo tu puoi  far prova di ravviare quel traviato;  perchè chi fallisce, fallisce Io scopo  a cui mirava, ed è quindi traviato.'  E ancora tu hai a pensare qual danno  te ne viene : eli è troverai nissuno  di costoro, contro ai quali ti adiri,  aver fatto cosa per cui la mente tua  sia. per divenir peggiore. Ed ogni tuo  male, ogni tuo danno, ben sai, non  poter essere altrove che in quella.  E poi che male ci ha, o che v’ ha  egli di strano se l’indotto fa cose  da indotto?- Vedi piuttosto che tu  non abbia a rampognar te medesimo, il quale non hai aspettato da  colui tal sorta di fallo. Perchè a te  la ragione porgeva argomenti a pre-  vedere che costui fallirebbe probabilmente in quella guisa; ’ e tu non  badasti, ed ora ti vai maravigliando  eh’ egli abbia fallito. Massimamente  (juando parratti aver rimproveri a  fare a un disleale, a un ingrato, fa’  che tu rivolga contro te medesimo  r accusa : sendo manifestamente tuo  r errore se hai creduto che un uomo  in cotale disposizione d’animo fosse  ' per mantenere la fede; o,se facendo  tu del bene ad altrui, non l’hai fatto  senza un rispetto al mondo ad altra  cosa che al bene che volevi fare, nè  con r intento di avere a raccogliere  immediatamente e unicamente dal  fatto stesso dello aver compiuta una  buona azione, tutto ed intero il frutto  di essa. Nel vero quando tu hai  beneficato un uomo, che vuoi tu an-  cora di più?^ Non ti basta aver fatto II saggio, diceano gli stoici, avrà amici, ma li amerà per utile loro, e non di sè  stesso. un’azione che è conforme alla tua  natura, e vuoi inoltre ima mercede,  come se gli occhi avessero ad esser  pagati perchè vedono, e i piedi perchè camminano? Perchè siccome  queste membra furono così confor-  mate affinchè avessero a fare cotali  uffici, e quando hanno fatto i servigi a che furono ordinate, hanno  ricevuto tutto ciò che è dovuto loro;  cosi l’uomo, per 'natura benefico,  quando ha operato alcun che di bene, o semplicemente aiutato altrui nelle cose medie, ha fatto quello a che  è stato ordinato ed ha ricevuto tutto  quello che gli è dovuto. E quando mai, o anima, sarai  tu buona, o schietta, ed una, e ignuda, e più appariscente ' del corpo  che ti (àrconda? Quando gusterai tu  di quello stato che è tutto dilezione  ed amore? Quando sarai tu fornita  di tutto punto, non mancante di  nulla, non agognando nè desiderando  nissuna cosa, sia animata o sia ina-  nimata, per pigliarne diletto ? nè  tempo perchè il diletto più duri? nè '  luogo od opportunità di paese o di  clima, nè conformità d’uomini che  ti vadano a genio? ma sarai paga   [Intendi visibile, chè questo senso ha  pure il vocabolo appariscente] del tuo stato presente, facendo piacer  tuo di tutte le cose presenti, e persuadendo a te stessa che tu hai tutto  e che tutto va bene, e che tutto li  viene dagli Dei e tutto andrà bene,  checché piaccia ad essi d’ inviarti  per la salute di quello animale per-  fetto e buono e giusto e bello, il  quale genera tutte le cose, e tutte  le contiene ed abbraccia e riceve al-  lorché si dissolvono per la riprodu-  zione di altre simiglianti? Quando  mai sarai tale che, vivendo in una  società con gli' Dei e con gli uomi-  ni, non ti accada mai né di dolerti  di loro, né di essere condannato da  loro? Vedi quello che richiede la tua  natura in quanto sei governato dalla  sola natura,’ e fàllo o accettalo ogni  volta che non sia per patirne danno  la tua natura d’animale; Di poi os-  Cioè a dire in quanto soi organismo viventi. serva quel che richiede la tua na-  tura d’ animale , e questo ancora ri-  duci ad atto ogni volta che non sia  per patirne danno la tua natura razionale. Ma il razionale importa,  qual conseguenza immediata, il so-  cievole. Metti in pratica queste re-  gole, e non darti pensiero più d’altro. Checché ti accada, è o non è  comportabile alla tua natura. Se è,  non hai motivo di crucciartene, ma  Adunque Antonino, come già gli stoici  antichi, come i fllosofl moderni (vedi particolarmente Burdach, Antropologia), tre diverse nature, o per dire più propriamente,  tre diversi gradi simultanei di vita distin-  gueva nell' uomo : la vita plastica o vegeta-  tiva, la vita animale, e la vita razionale.  Quanto al principio unico, o moltiplico di  queste tre vite, le idee degli stoici erano  confuse. E Antonino errava lungi dal vero  quando diceva, parlando della vita plastica  o vegetativa, questa essere « governata dalla  sola natura, » se con ciò intendea che a  produrne, o a spiegarne tutti i fenomeni  bastassero quelle leg^ che i moderni chia-  mano « leggi generali della natura. attendi a portartelo in pace, essendo  tu nato a ciò. Se non è, ancora non  crucciartene ; perchè verrà meno  come prima ti avrà consunto. Ma  sovvengati che sei tale per natura  da poter tollerare tutto ciò che sta  in potere della tua mente di rendere  tollerabile col persuaderti che ti  giovi 0 sia dover tuo il tollerarlo. Se falla, correggilo amorevol-  mente, e mostragli in che ha falla-  to. Se noi puoi, incolpane te stesso,  o veramente nè anche te stesso. Qualunque accidente ti occorra, egli ti era da secoli innumerevoli predestinato, e la serie fatale  delle cause * avea connesso insieme  quello accidente colla tua esistenza.   6. Atomi, o nature, quale che fosse  dei due, io pongo per fermo  in primo luogo che io sono parte di   ^ Concatenazione delle cause, o serie delle  cause è appo gli stoici la definizione stessa  del fato. un tutto governato da una natura;  e- in secondo luogo che io ho rela-  zione di affinità con tutte le parti a  ine congeneri. Avendo ferme nel-  r animo queste due cose, in quanto  io sono parte, non avrò a grave nulla  di ciò che mi viene compartito dal  tutto, non essendo nocevole alla  parte quello che al tutto è giovevo-  le ; nè potendo il tutto aver nulla in  sè che non conferisca al bene di  lui ; primieramente perchè questa è  proprietà generale di tutte le na-  ture, e poi perchè la natura del-  r universo ha questo ancora di più,  che non è càusa alcuna esteriore da  cui possa essere necessitata a pro-  durre mai cosa la quale sia per nuo-  cerle. Ricordandomi adunque che io  sono parte di un tutto cotale, avrò  caro ogni cosa che avvenga. E in  quanto ho relazione di affinità colle  parti a me congeneri, attenderò a  non far nulla mai che non si riferisca a quelle ; ma anzi mirando sem-  pre a» miei simili, rivolgerò tutte le  mie forze a procacciare il ben co-  mune, e mi asterrò da tutto che  possa ridondare in altrui danno. E  così governandomi' non può essere  che la vita non abbia un corso fe-  lice ; come felice stimeresti il corso  della vita del cittadino il quale pro-  cedesse d’ una in altra opera giove-  vole ai suoi compagni di patria, e  avesse caro tutto quello che fosse  voluto dal comune. Alle parti del tutto, quante per  natura contengonsi nell’ universo, è  necessità il corrompersi: questo sia  •detto per significare lo alterarsi di  esse. Il quale alterarsi se fosse per  natura un male, come è una neces-  sità, poco felici sarebbero le condi-  zioni del tutto, le parti di lui es-  sendo, come a dire, avute in odio  da chi governa, e da lui fatte tali  da doversi chi in uno, chi in altro modo corrompere. Dove converrebbe  dire o che la natura avesse' voluto  nuocere ella stessa alle proprie sue  parti (20), sottoponendole al male, e  facendole tali che dovessero neces-  sariamente incappare ' nel male, o  che ciò sia avvenuto senza che sia  stato voluto nè avvertito da lei. Delle  quali cose nè V una nè 1’ altra ò da  credere. Che se taluno, messa da  canto la natura, presumesse espli-  care il nodo affermando le cose essere  nate a ciò, non sarà punto meno  strano il dire essere le parti del  tutto nate ai mutamenti, e ad un  tempo il maravigliarsi e dolersi quan-  do questi mutamenti si compiono:  massimamente quando noi veggiamo  che esse risolvonsi sempre in quei  medesimi elementi di che è compo-  sta ciascuna. Avvegnaché la corru-  zione o dissoluzione delle cose altro  non possa essere e non sia in ef-  fetto che una disgregazione e dispersione di quegli elementi, del cui ag-  gregato esse si compongono, o vogliam dire un ritorno al terreo di  I ciò che v’ ha in esse di solido, e al-  r aereo di ciò che v’ha in esse di  vitale,' di modo che la ragione se-  minale dell’universo riprenda di nuo-  vo in sè questi elementi, perchè al-  r ultimo sieho consunti dal fuoco, se  r universo è sottoposto a conflagrazioni periodiche, o servano con per-  petua vicenda al continuo rinnovel-  lamento di lui, se egli dura eterno  ed incorrotto.* E questo solido e que-  sto vitale non darti già a credere  I che sia quello che tu avesti dalla  madre nascendo : perchè ieri, e ier  r altro è venuto ad aggregarsi in te [Ricorda siccome appo gli stoici la vita  consiste nella respirazione, e quindi T es-  senza di quella è 1' aria. Opinione degli stoici più antichi: Ze-  none, Cleante, Crisippo. Opinione di molti stoici posteriori: Zenone da Tarso, Boeto, Posidouiu, Panezio. e tiai cibi, e (-l’aria die hai respi rata. Questo adunque che ti si è  assrefiato ora si trasforma, e non   oo o   più. quello che partoriva la madre.  Fa’ che tu vi sottoponga col pensiero  quel che ti lega sì strettamente a  ([ueste tali e tali altre cose, le quali  sono un nulla, cred’ io, jrispetto a  quello di che io ragiono Avendo tu imposto a te mede-  simo questi nomi di buono, di mc-  ciosto, di veritiero, di assennato, di,  consenziente, di magnanimo, fa’ che  non abbiansi a mutare nei loro con-  trari ; e ove mai ti accadesse di per-  dere quelli, fa’ che tu non tardi a ri-  cuperarli. E ricordati che con la pa-  rola assennata, tu volevi significare  r attenzione discernitiva a ciascuna  cosa presente, e il non pensare ad  altro in quel mentre. Con la parola  consenziente, l’accettazione volontaria di quanto ti viene compartito  dalla natura comune; e con la parola ma( filammo, la elevazione dello  spirito al di sopra di ogni moto soave  o insoave della carne, e al di sopra  I della gloriuzza, della morte c di si-  mili cose. Se adunque tu ti assicu-  rerai il possesso di quei nomi senza  bramare che ti vengano dati da al-  trui, sarai un alti ò uomo ed entrerai  in ima vita nuova. Percìiè il continuare ad essere per lo innanzi quale  sei stato infino ad ora, e il continuare a voltolarti fra le brutture e  I Je angosce di una vita cotale, troppo  è da uomo stupido e codardo, simile  a quei bestiari ' mezzo rosi dalle  fiere, i quali pieni di ferite e con-  taminati di sangue e di loto, pre-  gano pure di essere conservati infine  al domani, ancora che .consapevoli  di dover essere di nuovo esposti,  conci in quel modo, alle medesi-  Cosi chiamavano i Romani quelli accoltollatori che negli spettacoli combatte-  vano contro le fiere. me unghie e ai medesimi denti.  Gittati adunque con animo delibe-  rato in su quei pochi nomi, e se  puoi tenertivi saldo ed eretto, tien-  tivi, non altrimenti che se tu fossi  venuto ad abitare in qualche isola  fortunata ; se ti accorgi che tu vi  tentenni, e non possa vincere la  prova, vattene animoso in qualche  cantuccio ove tu sia certo di vincer-  la ; od anche esci al tutto di vita,  senza adirarti, ma semplicemente,  liberamente, modestamente contento  di aver fatto pure una cosa nella  vita: Tesserne uscito in cotal modo.*  E al farti ricordare di quei nomi gio-  verà non poco il ricordarti degli Dei,  i quali non vogliono essere adulati ; *  ma bensì che tutti gli esseri ragio-  nevoli facciano di assomigliarsi a   Epitteto, Manuale. La pietà  verso gli Dei consiste massimanientG in  avere sane e rette opinioni intorno a quelli (traduz. del Leopardi).  loro, e che il fico faccia le cose che  s’appartengono al fico, il cane quelle  che si appartengono al cane, e Tuomo  quelle che s’appartengono all’ uomo.  Il teatro, la guerra, lo sbigot-  timento, la torpidezza, la servilità  andranno in te cancellando di giorno  in giorno quelle sante massime, le  quali tu apprendi bensì colla imma-  ginativa e confidi alla memoria, ma  senza dar loro fondamento nè fer-  marle colla considerazione del tuttto 022) . Egli ti bisogna vedere le cose  e fare in modo che e il particolare  che è intorno a te, sia bene osser-  vato, e la relazione di quello al tutto  sia contemplata, e quella compia-  cenza di sè medesimo che nasce  dalla scienza di ciascuna cosa si con-  servi nell’ interno tuo, segreta, ma  non celata. Altrimenti quando godrai  i frutti della semplicità? quando  quelli della gravità e sodezza ? quan-  do quelli della conoscenza di ciascuna cosa, quale ella è per essenza, che posto occupa nel mondo,  quanto tempo è per sussistere, di  che è composta, in quali obbietti si  può trovare, e chi sono coloro che  possono darla o toglierla. Il ragno superbisce se ha preso  una mosca ; altri, se un lepratto ;  altri, se un’ acciuga; altri, se un  cinghiale o un orso; altri, se fece  prigioni alcuni Sarmati. Non sono  dunque assassini costoro se tu consideri i principii che li movono?  Fa’ che tu impari il modo ac-  concio di contemplare come tutte le  cose si mutano le ime nelle altre,  e attendi senza ristare a questa parte  della filosofìa, e vienti esercitando  in essa. Perchè nuli’ altro è che  tanto innalzi 1’ animo. Chi è assiduo  in questa contemplazione si spoglia,  sto quasi per dire, del corpo, e considerando siccome in poco d’ ora gli  converrà lasciare tutte le cose di qua e partirsi dagli uomini, non at-  tende più ad altro che a conformarsi  alla. giustizia e alla natura dell’ uni-  verso in tutto che egli fa o patisce.  Che dirà un tale, che opinione avrà  di lui 0 che farà contro di lui uìi  tal altro, egli non se ne dà un pen-  siero al mondo, pago e contento di  queste sole due cose ; se egli fa con  giustizia ciò che egli fa nel mo-  mento presente, e s’ egli ha caro  qualsiasi cosa presentemente gli ac-  cada. Tutte le altre cure e negozi  lascia andare, e d’ altro non gli calo  che di camminare perla diritUivia,  tenendo dietro a chi sempre cam-  mina per la diritta via, a Dio. A che il sospetto quando tu  puoi ricercare che cosa è da fare  nella congiuntura presente? Che se  tu il vedi, mettiti a ciò, e va’ in-  nanzi alacremente per quella via,  senza guardarti dietro ; se noi vedi,  sospendi il giud^io, e aiutati del consiglio degli ottimi. Se insorgono  ostacoli al compiere quello che hai  deliberato, governati razionalmente  secondo la nuova occasione che si  presenta,* attenendoti sempre a quel-  lo che ti par giusto. Perchè questa  è r ottima cosa da conseguire, sendo  che lo scostarsi dalla giustizia è un  decadere dalla natura umana. Egli  è un certo che di lento e posato e  insieme di mobile ed alacre, di ilare  e sereno e insieme di serio e grave,  colui che segue la ragione in ogni  cosa. Appena riscosso dal sonno  chiedi a te medesimo se ti impor-  terà che da altri anzi che da te  si faccia quello che sta bene ed è  giusto. Non te ne importerà : o avre-  sti tu dimenticato quali sono costoro  che superbiscono nel farsi dispensa-   M   t Cioè volgi l'ostacolo a profitto, servendoti di Ini come di nuova materia ad  azione. tori della lode e del biasimo, quali  nel letto, quali a mensa; e quali  cose facciano e quali fuggano, a quali  intendano, e quali rubino e quali  rapiscano ' non colle mani o coi pie-  di: ma colla parte più nobile di loro,  la quale può diventare, solo ch’ella  il voglia, fede, verecondia, verità,  legge, buon genio. Alla natura che dà e ritoglie  tutte le cose, 1’ uomo bene instituito  e modesto dice : « Da’ quello che vuoi,  togli quello che vuoi, o natura.  E questo dice non già con baldanza  orgogliosa, ma con intimo senso di  alfettuosa obbedienza verso di lei. Appo gli stoici imà virtù è la parte so-  vrana deir anima talmente modificata. [‘Natura’ per gli stoici è lo stesso che ‘Dio’. Queste parole di Marcaurelio corri-  spondono perfettamente a quelle di Giobbe:  Dominui dedita Dominus abstulit, osserva  qui bouissimo il Pierron. Poco^ è questo che ti rimane  a vivere. Vivi dunque come in sulla  montagna. Perchè a qui, o colà,  nulla monta, se, dove che tu sii, tu  vivi sempre nel mondo come in una  città. E veggano e conoscano pure*  gli uomini un uomo davvero, il quale  vive secondo natura. Se noi possono  tollerare, uccidanlo. Meglio questo  che vivere com’ essi fanno.*   1(». Non è più tempo di far parola  intorno a ciò che deve essere Tiiomo  dabbene, ma di incominciare ad esserlo.  Il pensiero del tempo universo  e della materia universa ti sia del  continuo presente, e che tutte le  cose particolari sono, rispetto a que-  sta, un granello di miglio, e rispetto  a quello, un batter d’ occhiò. Considerando ciascuno degli  obbietti che offronsi alla tua osser-  Letteralmente: un volger di trapano. vazione, fa’ di rappresentartelo come  già in atto di dissolversi e trasfor-  marsi; d’ infradiciare, per esempio,  o dileguarsi in fumo, o altro, secondo  il genere di morte a cui nacque. Vedili quando mangiano, quan-  do dormono, quando usano con fem-  mina, quando sono al cesso, o fanno  altre cose tali. Vedili poi (piando  stanno in sussiego o fan cipiglio,  quando van tronfi e pettoruti, o s'adi-  rano, rabbuffano altrui con alterigia.  E poco innanzi servivano pure come  schiavi a tante cose, e per quali  motivi ! E poco dopo ritorneranno  a quelle medesime cose.  Giova a ciascuno ciò che ar-  reca a ciascuno la natura comune.  Ed allora giova, quando essa lo arreca.   La terra ama la pioggia; e l’ama ancora 1’etere venerando. E il mondo ama far quello che è  per accadere. Dico adunque al mondo: Io amo con te. E non dicesi egli  parimenti che una tal cosa ama accadere?  0 tu vivi qua, e ci sei già avvezzo ; 0 vai fuori, e questo tu desi-  deravi ; 0 muori, ed hai finito il tuo  compito. Fuori di questi tre casi non  v’ ha altro. Adunque stattene di buona  voglia.  Abbiti sempre per certo che  quel tuo vivere in villa non è punto  diverso da questo, e che tutte son  qui le cose come in sulla cima del  monte, o sulla spiaggia del mare, o  dove che tu voglia. Perchè ti si pa-  rerà davanti a bella prima il detto  di Platone : « Egli sta nella reggia  come in una capanna sul monte,  mugnendo l’armento. Che è in questo istante la mia  parte sovrana ? e quale la fo io ? A  che Tadop ro io? Non è ella per av-   8Ìde«nd^‘°R sognando o deventura vuota di ragione? Non è ella  separata, divelta dalla comunità?  Non è ella cosi congiunta, conglu-  tinata col corpo, da doverne seguire  tutti i moti?*   25. Chi fugge dal suo signore, è  servo fuggitivo. Ma la legge è signora: chi trasgredisce la legge, è  dunque un servo fuggitivo. E similmente chi s’ attrista, o teme, o non  vorrebbe che fosse accaduta o acca-  desse 0 fosse per accadere alcuna  qualsivoglia di quelle cose che ha  ordinato il reggitore di ogni cosa,  cioè la legge distributrice di quello  che tocca a ciascheduno. Adunque  Bene rammenta qnì ìi Gataker ciò che  Platone avea già .detto nel Fedone: «Cia-  scun piacere e ciascun dolore, non altri-  menti che un chiodo confìgge l'anima al  corpo e con esso la unifica per modo che  ella, accetta per vero tutto che è affermato  dal corpo. La legge di cui qui parla Antonino è la  legge universale, quella della natura, di  Dio. chi teme, o s’ attrista, o s’ adira, è  nn servo fuggitivo.   2(ì. Chi introdusse il seme nella  matrice, se ne va ; un’ altra causa  sottentra immantinente, e lavora e  conduce a termine il feto. Qual cosa  e da quale? Ancora, egli manda giù  il cibo per la gola : e tosto un’ altra  causa sottentrando produce senso,  moto, vita, vigore, eccetera. Quante  e quali cose? Queste maraviglie, che  si compiono sotto un velo si impe-  netrabile, sianti spesso subbietto di  contemplazione, e sappi fare  concetto della potenza operatrice di  ({uelle, come facciamo della causa che  fa gravitare i corpi o li spinge in al-  to, la quale non vediamo cogli occhi,  ma non però meno certamente. Non dimenticare che tutte  queste cose, che ora si fanno, si  sono fatte prima d’ ora: e pensa* che  si faranno per l’avvenire. Pònti da-  vanti agli occhi quanti drammi o scene vedesti tu stesso, o leggesti  nelle antiche storie : come, verbi-  grazia, tutta intera la Corte di Adrian  no, tutta intera quella di Antonino,  tutta intera quella di Filippo, di  Alessandro, di Creso: perchè erano  tutte la stessa cosa che adesso, solamente erano diversi gli attori.  Fa’ ragione che colui il quale  si attrista d’ alcuna cosa, o l’ ha a  male, non è punto dissomigliante  dal porcellino percosso dal ferro del  sagrifìcatore, il quale ricalcitra e  grida. Non altro concetto hai da  farti di chi lamenta solitario sul suo  lettuccio le catene che ne stringono. E pensa come al solo animale  ragionevole è dato seguire volontario gli eventi : che in quanto al se-  guirli ad ogni modo, è forza di ne-  cessità per tutti.   1 Lettuccio è qui come chi dicesse il  canapè su cui l’uomo lavora e studia. Cosi,  bene il Casaubono. Considera segregatamente in  sè stessa ciascuna delle cose che vai  facendo, e interroga te medesimo se  la morte è un male perchè ti priverà del potere di farla. Quando per l’ altrui fallo ti  senti montare la collera, rivolgiti  tosto sopra te stesso ed esamina in  qual cosa simile a quella tu pecchi :  stimando, per esempio, che le ricchezze siano un bene, o il piacere,  o la gloria; secondo il genere del-  l’altrui peccato che ti sprona all’ira. Perchè se tu badi a ciò, presto  cesserà la tua collera. E ancora con-  sidererai che colui è forzato.* E in  vero che farebbe egli? Ovvero, se tu  il puoi, rimovi da lui ciò che lo  sforza. Cioè a dire, rimovi dalla sua mente  l’errore, il falso giudizio; perchè gli stoici  deriTavano interamente il bene morale dal  giudizio razionale, e riferivano quindi uni-  camente alla luce della ragione le risoln-    [Veggendo Satirione, immagina  di vedere Socratico o Imene : veggendo Eufrate, immagina Eutichione  0 Silvano : quando vedi Alcifrone,  immagina Tropeoforo. Qquando vedi  Senofonte, immagina Oritene o Severo; e in te stesso figurati di ve-  dere qualcheduno dei Cesari ; e così  via via. Poi ti occorra alla mente :  ora dove sono costoro? In nissun  luogo, 0 chi sa dove. Di questa maniera tu verrai avvezzandoti a consi-  derare le cose umane come un fumo  ed un nulla : massimamente se ti  rammenterai come ciò che fu mu-  tato una volta, non riprenderà mai  più quella forma in tutto il tempo  infinito. E tu in qual tempo? Che  non ti basta adunque il passare co-   zioni virtuose della volontà: secondo essi il  giudizio determina la volontà necessariamente. Intendi: se gli altri non ci ritornano  mai più, ti credi tu di averci a ritornare  tu solo? 0, stumatamente questo poco che ti è  dato ? Da qual materia d’ azione, da  quale impresa rifuggi? Tutte queste  cose che ti accadono, sono esse altro  che occasioni di esercizio alla ra-  gione, la quale abbia diligentemen-  te, e come si addice allo studioso  della natura, considerate le cose che  avvengono nella vita? Rimanti adun-  que finché tu abbia assimilato a te  medesimo ancor questo,' come il  valente stomaco assimila a sè tutti  i cibi, come lo splendido fuoco fa  fiamma e luce di tutto che tu getti  in esso. Nissuno sia veritiero il quale dica di te che non sei sempli-  ce e schietto, che non sei uomo  dabbene: ma menta chiunque fac-  cia di te un tal giudizio. E tutto  ciò sta in poter tuo. Perchè chi è  [Intendi: ciò che ora ti è dato per ma-  teria di azione f frase solenne ad Antonino. quegli che ti possa impedire che  tu non sii schietto e dabbene? Solo che tu abbia fermo nell’ animo  di non voler più vivere quando tu  non sii tale. Nè la ragione il vorrebbe. Che è ciò che in questa occa-  sione che mi è data si può fare o  dire per lo meglio? Checché egli sia,  è in mia facoltà il farlo, o il dirlo.  Non iscusarti col dire che ne sei im-  pedito. Non prima cesserai dai lamenti che non sii fatto tale, che  r operare conforme air istituzione  tua in (jualsivoglia caso non sia  per te la stessa cosa che è pel sen-  suale la voluttà. Perocché ciò ap-  punto vuoisi dall’ uomo avere in  conto di vero godimento. L’operare. In questa occasione - in qualsivoglia  caso.» Chi preferisse la frase stoica dica:  « in questa materia — in qualunque materia a te sottoposta » come disse Ornato.  A me parve troppo alieno dall’ uso, ed anche poco chiaro in italiano. conformemente alla propria natura.  E questo può egli in ogni caso. Al  cilindro in tutti i casi non è dato  potersi muovere in quella forma di  moto che gli è propria, nè all’acqua,  nè al fuoco, nè a nissuna delle cose  che sono governate o da natura inanimata, 0 da anima irrazionale : molti  sono gli impedimenti che loro si  frappongono, molte le resistenze. Ma  la mente, la ragione può seguire,  solo che il voglia, la sua propria via  vincendo tutti gli ostacoli. Questo  potere e agevolezza che ha la ragione di seguire la sua via in tutte  le direzioni, all’alto, al basso, per   10 declive, come il fuoco, la pietra, il cilindro, pònti davanti agli occhi,  e non cercare più oltre. Tutti gli  ostacoli che tu puoi incontrare non  hanno relazione se non se al corpo  che è cosa morta ; o veramente, se  non sottentra l’ opinione, e se la  mente non cede, non possono nuocere nè far male veruno. Altrimenti  chi ne patisse, dovrebbe eziandio pa-  tire deterioramento, come veggiamo  di tutte le altre produzioni sia della  natura sia dell’ arte ; le quali tutte  trovansi deteriorate ove incolga loro  alcun male ; ma, qui al contrario,  r uomo, se ho a dirlo, si fa migliore  e più degno d’ encomio, quando fa  retto uso degli accidenti, quali essi  sieno, che gli incontrano. In som-  ma ricordati che non offende il ve-  ro cittadino ciò che non offende  la città; che non offende la città  ciò che non offende la legge; e  che nissuna di tutte queste così  dette avversità offende la legge. E  se non offende la legge, non of-  fende adunque nè la città nè il citadino.  A colui che fu ben penetrato  dalle vere credenze, basta il più breve  detto, anche di quelli che sono a  tutti i più noti, a sgombrargli dall’animo la tristezza o il timore. Per  esempio. Quali sono le foglie, e tali sono  Le schiatte degli umani. Quelle il vento  A terra sparge, ed altre ne produce  La germogliante selva a primavera.   Cosi le schiatte degli umani : questa Or nasce, or quella muore. Foglie sono i tuoi figliuoli, foglie tutti  costoro che ti acclamano, e schiamazzano sì forte da far credere che  dicano il vero ; foglie questi altri che  altamente ti maledicono, o ti vilipen-  dono e lacerano in segreto. Foglie  sono ancora quelli che ricorderanno  il tuo nome dopo la tua morte. Tutte  queste cose spuntano fuori alla verde  stagione, poi fi vento le sparge a  terra, e(i altre in loro vece ne ri-  produce' la germofjliante selva. Il  durar poco è comune a tutte. Ma tu  le fuggi 0 le cerchi come se aves-  sero a durar sempre. Ancora un poco  e chiuderai gli occhi; e a quello che ti comporrà sul rogo, altri farà il  corrotto.   35. L’ occhio sano deve essere dis-  posto a vedere tutto ciò che è vi-  sibile, e non dire: io voglio vedere  solamente il verde ; perchè ciò è da  occhio ammalato. L’ orecchio sano  e r odorato debbono essere disposti  a udire tutti i suoni e a sentire tutti  gli odori. E lo stomaco sano deve  essere preparato a digerire tutti i  cibi, non altrimenti che la macina è  pronta a macinare tutto quello che  ella fu fatta per macinare. E così  pure la mente sana deve essere  pronta ad accettare tutto quello che  accade. Colui il quale dice : « sieno  salvi i figliuoli » e « tutti lodino le  mie azioni » è come 1’ occhio che  vuol vedere solamente il verde, o  come i denti che vogliono masticare  sol cose tenere.   36. Nissuno è tanto avventurato  che al suo morire non sia per avere intorno a sè chi si rallegrerà del  male che gli incontra. Savio e dab-  ben uomo sia stato ; non mancherà  all’ ultimo chi in sè stesso dirà. Respireremo una volta da questo  pedagogo. A nissuno di noi diede  noia con rampogne, è vero; ma ci  siam pure avveduti che in cuor suo  ci condannava. » Questo si dirà del-  r uom savio. E di noi, quante altre  cose possono fare a molti desiderare  che ce ne andiamo! A questo pen-  serai quando sarai per morire, e la  tua partenza ti verrà fatta più facile.  Ragionerai teco stesso: me ne vo  da questa vita, dalla quale questi  miei concittadini, pei quali ho in  essa tanti travagli sostenuto, tante  preghiere fatto, tante cure avuto,  vogliono ora essi medesimi. eh’ io me  ne vada, sperando forse che debba  seguirne loro qualche profitto. Chi  dunqu e potrebbe desiderare d’avere  a starci più lungamente? Non per questo partirai tu men benevolo  verso di quelli, ma, serbando inai-  terato il costume e 1’ indole tua,  amico loro tuttavia qual fosti, pro-  pizio e amorevole a tutti, e non  però mesto nè ripugnante. Ma co-  me veggiamo in chi muore di fa-  cile morte V anima soavemente scio-  gliersi dal corpo, cosi conviene che  si faccia la tua separazione da co-  loro. Perchè la natura ti avea pure  congiunto e complicato con essi. Ora me ne disgiunge? Ed io mi  lascio disgiungere come da amici  e carissimi congiunti, non però turbato nè ripugnante, ma tranquillo  e di mio buon grado. Perchè anche  questa è una delle cose volute dalla  natura.  A ciascuna cosa che tu vegga  fare a chicchessia, vienti avvezzando,  per quanto è possibile, a ricercare,  ragionando teco medesimo : costui  a che riferisce quello che sta facendo? E incomincia da te, esami-  nando te stesso il primo.   38. Ricordati che chi dà V impulso  e muove, per cosi dire, le fila del  fantoccino, è il celato nel di dentro.  Quello è il dicitore che persuade,  t|uello è la vita, quello è, se vogliam  dire il vero, V uomo propriamente.  Guardati dal figurartelo come una  sola cosa con esso il vaso le cui pa-  reti lo circondano, o con questi in-  gegni che songli cresciuti intorno.*  Questi somigliano alla scure ; se non  che gli sono per natura aderenti.   Si capisce facilmente che per ingegni bassi qui ad in-  tendere ordigni, cioè gli organi e le mem-  bra del corpo. Gli Inglesi e i Francesi  presero dai classici Italiani questa parola  ingegno con questo senso, e dicono quelli  engine e questi engin ; come ne presero  tante altre bellissime o utilissime dello  quali si servono quotidianamente ; e di tali  ancora che noi abbiamo interamente dimen-  ticato: e per significar poi quelle cose di  cui abbiamo dimenticato i nomi italiani, an-  diamo ad accattar vocaboli dai forestieri, E in effetto, allontanata la causa che  li muove, non è uso alcuno di essi  pili che non sia della spola, senza  la mano, al tesserandolo, nè della  penna allo scrittore, nè della frusta  al cocchiere. È proprio deir anima razionale'  il veder sè medesima; il conoscere  partitamente sè medesima ; il far sè  meilesima quale ella vuole: il cogliere essa medesima il frutto che  ella produce, laddove i frutti delle  piante e i portati degli animali sono  colti da altrui; il giugnere sempre  allo scopo che è proprio di lei, in  qualsivoglia punto arrivi il termine  della vita : perchè 1’ azione di lei, in  qualsiasi momento ne sia arrestato  il corso, non rimane imperfetta, co-   [Razionale per distinguerla da quella  dei bruti, che dagli stoici è chiamata anima semplicemente. me nelle rappresentazioni sceniche  o nel hallo, o in simili cose; ma  anzi in qualsivoglia istante, in qual-  sivoglia luogo le sopravvenga la mor-  te, ella compie nondimeno intera-  mente, e in modo soddisfacente a sè  stessa, quanto si avea proposto (28),  e può dir sempre: io ho tutto il mio.  Ancora ella va spaziando colla speculazione per tutto il mondo e il  vuoto che lo circonda, e contempla  la forma di quello, e si estende nella  infinità dei secoli, e abbraccia col  pensiero i rinascimenti periodici della  università delle cose; e contemplan-  doli si fa capace che non rimane da  vedere nulla di nuovo ai nostri po-  steri, siccome nulla di più videro i  nostri antichi ; chè anzi 1’ uomo  giunto all’età di quaranf anni, per  poco che abbia di buon discorso, ha   1 Tutto il mondo : intendi ciò che noi di-  remmo tntto il creato. Ma l'idea di crea-  zione era aliena dagli stoici. in certo modo veduto e conosciuto  tutto ciò che fu e tutto ciò che sarà  per la somiglianza che hanno le  cose fra loro. Ancora è proprio del-  r anima razionale l’ amore del pros-  simo, la veracità e la verecondia, e  il non anteporre nulla a sè mede-  sima: * il che è proprio eziandio della  legge. Onde segue che la retta ra-  gione e la ragione di giustizia sono  una sola cosa.  I canti aggradevoli e le danze  e gli esercizi ginnastici ti cadranno  Bene avverte qui il Gataker come an-che la legge cristiana ci prescrive di non  avere a nulla maggior rispetto che alla propria anima (confer. s. Matt. Evang. XVI, 26;  s. Marco Vili, 36). E san Gregorio Nazianzeno: c nulla, disse, è più prezioso a ciascuno  che la propria anima» riproducendo quasi  nella sua prosa il verso 301 dell’Alceste di  Euripide. [Esercizi ginnastici, letteralmente il  pancrazio. Ognuno sa che i romani per mezzo  della ginnastica voleano esercitata la forza del corpo con signiftcazione di leggiadria. E quindi i giuochi ginnastici erano pur uno  degli spettacoli più graditi ad un popolo,   in disprezzo, se tu dividi, per esempio, la cantilena melodiosa in ciascuno dei suoni di che ella si compone, e ad uno ad uno considerandoli, domandi a te stesso, è egli  questo quel che mi vince? » perchè  ne avrai vergogna. E similmente in-  torno alla danza, considerando sepa-  ratamente ciascuno dei moti, cia-  scuno degli atteggiamenti; e così  per gli esercizi ginnastici. E gene-  ralmente in tutto ciò che non è  virtù, o che non procede da virtù, i  sovvengati di ricorrere alla divisione  delle cose nelle parti loro (29), si che  divise a quel modo elle ti cadano in  dispregio. Fa’ l’applicazione di ciò  anche alla vita intera. Quale debba essere 1’ anima   in tutto r ordine della cui vita regnava  sovranamente l'idea della bellezza. Cioè, dividi la vita umana in tante pic-  cole porzioni, per disprezzarla tutta insieme. Sottintendi ronsi'lera, o ricordati. apparecchiata a sciogliersi, ove oc-  corra, immantinente dal corpo, a spegnersi o a dissiparsi, o ad entrare in  una nuova condizione di esistenza. E questa disposizione proceda da  giudizio particolare della mente, non  da sola pervicacia di volontà, come nei Cristiani; sia scevra da ogni  tragica ostentazione, non però senza  dignità, da poter anche persuadere  gli altri. Ho io fatto qualche cosa che  giovi alla società? Adunque ho gio-  0 ad entrare eiUtenta ; letteralmente: 0 a perdurare. Ornato traduce: o a rimanere ancora dopo morte  Non mi piacque, ma la mia versione, che  svolge il pensiero dell’ autore, ha un coloro  troppo moderno.  I Cristiani erano ancora comunemente  mal conosciuti, e creduti settari fanatici,  nemici dell’ impero. Cioè a dire; sia tale, non solo intimamente. ma anche pe’ suoi caratteri esteriori,  da poter persuadere altrui che essa procede  da ben ponderato giudizio,* nòn da codardia  0 vanità o da intemperata esaltazione o  concitazione di mente.  vate a me stesso.' Questo pensiero  ti occorra sempre pronto alla mente,  e ti conforti a perseverare.  Qual è r arte tua? L’esser buono. E quest’ arte come altrimenti s’acquista, se non per le buone dottrine,  le une intorno alla natura dell’uni-  verso, le altre intorno alla costituzione propria dell’ uomo?  Da prima fu istituita la tragedia  a ricordare i casi che sogliono av-  venire e come essi sieno così fatti  per natura, e ad avvertirci nel medesimo tempo essere una contrad-  dizione il pigliarne diletto quando  li vediamo sulla scena del teatro e  dolercene poi quando accadono sopra  una scena maggiore. Voi vedete di   [Sono le parole di' Salomone, Prov. XI,  17: « Benefacit sibi ipsi vir beneficus.»  Epitteto svolgo il medesimo concetto, dis-  sert. I, 19; Seneca, epist. 48, disse: «Non  potest beate degere qui se tantum intuetur,  qui omnia ad utilitates suas couvertit: al-  teri viVas oportet, si vis tibi vivere.»  fatti essere pur forza che 1’ azione si  compia a quel modo (30), e che deb-  bono ad ogni modo soffrirlo anche  coloro che esclamano : « 0 Citerone,  ahi lasso.* w E invero alcune cose  diconsi utilmente dagli autori di tra-  gedie siccome questa:   Che se gli Iddìi   Di me nè de’ miei tigli non han cura,   Ragion pur anco a ciò li move. E quest’ altra. Contro alle cose lo adirarsi è vano. »   E ancora quest’ altra:   € Mieter la vita   Come spiga matura -»   E le altre di cotal fatta.   Dopo la tragedia fu introdotta hi   t Parole di Edipo. Vedi Sofocle, Edipo re,  vers. 1391. Ecco, secondo la traduzione del  Belletti, i tre versi che formano il periodo  intero di cui quelle parole sono il comin-  ciamonto:   Oh Citeron! perchè raccormi? o tosto  Perchè morte non darmi, ond' io giammai  L'origin mia non rivelassi al mondo! vecchia commedia, la quale, con  quella sua libertà, facesse come da  aio al popolo, e con quel suo chia-  mare le cose coi nomi loro, ne ri-  cordasse agli uomini la vanità: i  quali modi assunse poi Diogene ezian-  dio ad un fine somigliante. Dopo la  vecchia, quale sia stata la mezzana  commedia, ed ultimamente poi la  nuova, e quale scopo abbia questa,  che a poco^a poco si è ridotta ad, essere puro artificio di imitazione,  lascio a te il considerare. Che anche  da costoro si dicano alcune cose  utili, non è da negare : ma l’ inten-  zione generale di un tal genere di  poesia e di composizioni drammati-  che, qual è ella mai?  Come vedi tu chiaro nissun’ al-  tra setta' essere così acconcia al    1 Setta, intendo della setta illosodca in  che Marco vivea, e non dello stato o- condizione sociale. Ho qualche dubbio, e parrai che il 3iou    filosofare, come quella in che sei ora?  Un ramo spiccato da un altro  ramo non può non essere separato  dalla pianta intera. Parimente un  uomo diviso da un altro uomo è sca-  duto dalla società intera degli uo-  mini. Il ramo vien divelto per mano  d’altri. L’uomo si separa egli stesso  dal suo vicino, quando egli l’ odia,  quando lo ha in dispetto; e non  s’ avvede eh’ egli si distacca ad un ,  tempo dalla intera comunità. Se non  che, per dono di Giove autore dplla  comunità, può ciascuno di noi che  siasi distaccato dal prossimo, riap-   ÙTTóOeo'.y potrebbe anche voler dire qualche  cosa che non fosse nè la condizione sociale-y  nè la setta filosofica^ ma bensi il modo e  r ordine ili vita adottato da Antonino nella  condizione sociale in cui vivea: e cosi l’in-  tesero anche il Gatakero e lo Schultz, i  quali_ tradussero vitee genus. Ma siccome  rOrriato pare che fosse ben fermo in quella  sua opinione, ho conservato la sua parola  fetta. P, piccarvisi e farsi di nuovo parte in-  tegrante del tutto. Vero è che quando ciò accade più volte, più diffìcile  diviene la riunione o il ristabili-  mento a suo luogo della parte stac-  cata. E ad ogni modo egli è diverso  il ramo che crebbe da principio in-  sieme cogli altri e sempre rimase  unito con essi, dal ramo che vi fu  innestato dopo esserne stato divelto:  checche ne dicano i giardinieri, fa  un albero solo cogli altri rami, ma  non un solo disegno. La vegetazione è una, ma la forma non  è una. Questo potrebbe dirsi di un ramo di pe-  sco, p. es,, che fosse innestato in quello di  un noce ; ma quando un ramo del uoco che  ne fosse stato spiccato fosse innestato in  un altro ramo del noce medesimo, sarebbe  una la vegetazione cd una ancora la forma.  Mi è anco sospetto quello ófJioJoyjjiaTetv  parlandosi di piante. Io propendo a credere,  coi migliori critici, questo luogo corrotto o  manchevole nel testo. Alcuni di quest' ulti-  ma frase fanno un paragrafo separato: e  remato stesso non era ben risoluto. Chiunque voglia avversarti in  cosa che tu faccia secondo la retta  ragione, siccome non avrà forza dà  distoglierti dall’ azione incominciata,  cosi ancora non ti riinova dal sen-  timento di benevolenza che devi avere  per lui : ma fa’ che tu ti serbi co-  stante nel giudicare e nell’ operar  rettamente, e ad un tempo amore-  vole verso chi cerca di impedirti o  in qualsivoglia modo ripugni a ciò  che tu fai. Perchè non sarebbe mi-  nore fiacchezza lo adirarti contro  questi tali, che il ritrarti dall’ im-  presa e dar luogo per paura; essendo  egualmente disertore chi teine e  fugge dall’ ordinanza, e chi s’ allon-  tana dal congiunto e dall’ amico suo  naturale.   IO. Non è natura alcuna la quale  sia da meno dell’ arte che ne è imi-  tatrice ; nè la più perfetta fra le na-  ture, quella che comprende in sè  tutte le nature, può essere da meno di un’ arte qualsivoglia. Ora le arti  tutte fanno le parti inen nobili di  ciascuna delle opere loro per amore  delle più nobili;' adunque anche la  natura comune. Quindi ha origine la  giustizia, e da questa procedono tutte  le altre virtù. Perchè mal potrà  conservarsi giusto colui, il quale o  non sarà indiflerente verso le cose  medie, o si lascierà facilmente in-  gannare dalle apparenze, o sarà pre-  Come, per esempio, un pittore farà ciò  che pone nel fondo di un suo quadro per  dare maggior risalto a ciò che ne è il sog-  getto principale. E (la questa procedono tutte le altre virtù.  Intendo che dallo aver la natura voluto che  si osservasse la giustizia, procedette che  essa natura istituisse le altre virtù; quelle  cioè di cui parla poco dopò ; le quali sono  necessarie alla pratica della giustizia e fu-  rono dalla natura istituite per amore di  essa giustizia, còme un artefice fa le parti  men nobili di una sua opera per amore delle  più nobili. Ricordi il lettore che appo gli  stoici posteriori parte sovrana della filosofia •  era la morale : la logica, anche per gli stoici  antichi, era subordinata alla morale.  cipitoso nel giudicare, o mal fermo  nel giudizio fatto. Non le cose, il cui desiderio  o timore ti turba, vengono alla volta  tua; ma tu in certo modo vai alla  volta loro.' Ora fa’ che il tuo giudi-  zio intorno a quelle stia cheto, e  quelle rimarransi quete del pari, e  tu non sarai veduto desiderar nulla  nè temere.  La sfera dell’anima ha la forma che è propria di lei, quando ella  nè si estende al di fuori verso checchessia, nè si ritrae al di dentro, nè  si dissipa, nè si accascia,* ma splende  di una luce per la quale ella vede  la verità che è nell’ universo e quella  che è in lei.  Un tale mi disprezza?  Tal sia  di lui. A me basta parlare e operare Inteudi che l' anima è nello stato con-  forme a natura, quando ella non ha nè de-  siderio, nè timore, nè piacere, nè dolore. in modo che nissun mio detto o fatto  meriti disprezzo. Mi odierà? Tal sia  di lui. Quanto si è a me, io mi ser-  berò mansueto e benevolo verso ognu-  no, pronto a chiarire dell’ error suo  anche colui che mi odia, non con  parole di rimprovero nè ostentando  pazienza, ma cortesemente e con sin-  cera amorevólezza, come Focione so-  lea fare (31), supposto che non s’infin-  gesse. Perchè la mansuetudine vuol  essere interna, sì che gli Dei veggano in te un uomo disposto a non  ricevere nulla con isdegno nè a ma-  lincuore. Qual malej in fatti, per te,  se tu fai ora quel che s’ addice alla  tua natura e ricevi ciòcche ora è giu-  dicato opportuno dalla natura uni-  versale, tu uomo ordinato a questo  fine che sempre si faccia il comun  bene, sia qualsivoglia lo strumento  per cui si faccia? Si disprezzano l’un l’altro, e  si vanno piaggiando l’un 1’altro. L'uno vuol essere da pii» che l’altro,  e s’ inchinano 1’uno all’ altro scawi-  bievolmente. Che fradiciume e che doppiez-  za non è il dir di taluno : a Io ho  deliberato di trattar teco schietta-  mente. » 0 uomo che fai? Non è  bisogno' di questo preambolo. Alla  prova si vedrà. Sulla fronte conviene  ti si legga immantinente ciò che tu  di’, perchè è cosa di tal natura che  tosto si manifesta negli occhi, come  nello sguardo dell’ amante ogni cosa  conosce immantinente l’ amato. L’uo-  mo schietto e buono dev’ essere come  chi sa di caprino, sì che al solo ac-  costarsegli altri il senta, voglia o  non voglia. La schiettezza simulata  è un’ arme da traditore. Non è cosa  più turpe che l’amicizia del lupo. L’ amicizia del lupo espressione proverbiale presso i romani, ed era allusione a  quella favola di Esopo, nella quale i lupi  persuadono le pecore a dar loro i cani come  ostaggi, e ad accettare alcuni giovani lupi   A tutto potere fuggi cotesto. Alfuom  dabbene, all’ uomo schietto, all’ uom  benevolo sono appariscenti negli oc-  chi tjuelle qìialità loro, e non è bisogno di parole a manifestarle. Vivere beatamente è cosa che  sta in potere dell’anima, solo ch’ella  voglia essere indifferente verso le  cose indifferenti. E questo le succederà se ella considererà ciascheduna di esse nelle sue parti e nelle  sue relazioni col tutto, non dimen-  ticando che nissuna di esse viene  alla volta nostra nè ci sforza a fare  di lei tale o tal altro concetto ; ma •  anzi elle si stanno tutte immobili  dove sono, e noi siamo quelli che  facciamo i. giudizi intorno ad esse,  e li scriviamo, per così dire, dentro  di noi, potendo non farlo; e ancora.    come gaardiatii in luogo di quelli; e divo-  rano poi le infelici che lascìaronsi gabbare  dalle belle parole e dalle belle promesse. Cioè le cose fuori di noi. quando ciò ne venga fatto inavver-  titamente e senza avvedercene, po-  tendoli cancellare immediatamente e rammentando inoltre che pocd^ha  a durare questa fatica di considerare  le cose in tal modo, e saremo poi  fuori della vita per sempre. E che  v’ha poi di tanto arduo in esse? Se  sono secondo natura, pigliane piacere, e ti diverranno facili ; se sono  contro natura, vedi tu che cosa è  secondo la tua natura, e a quello  attendi, ancora che sia senza gloria.  È sempre degno di scusa chi va in  traccia del proprio bene. Donde sia venuta ciascuna  cosa, di che elementi sia composta,  ed in che si trasformi, e qual divenga trasformata, e siccome non è  per soffrire alcun male per la trasformazione. E in primo luogo,* quale rela-   [Sottintendi: Considera] [Sottintendido considerare, o altra  zione io abbiaceli essi e come siam  nati gli uni per gli altri, ed io, per  altri rispetti sono nato per essere  loro guida, come l’ariete della greggia e il toro deir armento. Risali più  in alto: se gli atomi non sono, la  natura è quella che governa l’uni-  verso ; e se questo è, gli esseri meno  perfetti sono nati pei più perfetti, e  questi gli uni per gli altri. Quali essi sono a mensa, a letto,  negli altri momenti della vita. E massimamente a che sorta di azioni siano necessitati per le credenze che  essi hanno, e con quanta presun-  zione di sapere fanno essi ciò che  fanno. Che se essi fanno ciò a buon  diritto, e’ non ti bisogna avertelo a  male ; se a torto, essi il fanno indubitatamente malgrado loro, non sa-  pendo quel che si fanno. Perciocché   frase cotale ; e cosi al principio di ciascuno  degli otto capi seguenti. siccome è involontaria negli uomini  la privazione del vero, così involon-  tario è ancora il non portarsi verso  altrui secondo le norme del giusto:  il che provano collo adirarsi quando  sono chiamati ingiusti, ingrati, cu-  pidi dello altrui, o rei di qualsivoglia colpa verso il vicino. Che tu ancora pecchi non di  rado, e sei pur uno del numero loro;  e se da certi peccati ti astieni, hai  nondimeno la disposizione a com-  metterli, benché, sia per difetto di  audacia, sia per vanità o per altro  cotal vizio, tu noi faccia. Ancora, che tu non sai di certa  scienza che essi pecchino: perchè  molte azioni, che paiono malvage  si fanno talora a fin di bene o per  meno male: e ad ogni modo è me-  stieri sapere di molte cose a poter  sentenziare convenientemente sulle  azioni altrui.   6® Quando senti che sìa per occuparti r ira od anche solo l’ impazienza ; che la vita umana dura un mo-  mento, e poi saremo tutti sotterra. Che non sono le azioni loro  quelle che ti turbano, standosi quelle  nei loro autori, ma bensì le nostre  opinioni. Adunque togli via, sappi  rimovere da te il concetto che tu  fai di quelle, e l’ ira se ne andrà  parimente. E come rimovere quel  concetto ? Col considerare che le  azioni altrui non hanno nulla di dis-  onesto per te. Che se il male tutto  non consistesse nella sola disonestà  dell’agente, di necessità peccheresti  tu ancora, e saresti tu pure assas-  sino, e macchiato di ribalderie d’ogni  forma.  Siccome le ire, i rammarichi  intorno a siffatte cose arrecano seco  troppo più gravi danni che non siano  quelli di che ci adiriamo e ramma-  richiamo. Che r amorevolezza è sempre vittoriosa, quando sia schietta, e non  sia una affettazione o una parte che  tu reciti. E in vero che ti può egli  fare 1’ uomo il più iracondo e inso-  lente, se tu ti mostri a lui tuttavia  amorevole e se, venendo il caso, tu  lo ammonisci cortesemente e cerchi  di farlo ricredere in quel tempo me-  desimo che egli intende ad offen-  derti? No, figliuol mio; noi  siamo nati ad altro. A me tu non  nuoci; a te bensì, figliuol mio. E gli dimostri e fai toccar con mano  che la cosa sta COSI universalmente;  e come nè le pecchie si comportano  in quella guisa, nè alcun altro ani-  male che sia nato a vivere in co-  munanza. Le quali cose vogliono es-  ser dette senza ombra alcuna di  ironia nè di rimprovero, ma bensì  con amorevolezza, e senza amaritu-  dine alcuna nell’animo; nè ancora  come si direbbero da un maestro in  iscuola, nè per farsi ammirare dai  circostanti; ma da solo a solo, e se  v’ha altri presente, *   Di questi nove capi fa’ che tu ti  ricordi come se tu li avessi ricevuti  in dono dalle muse; e incomincia  pure una volta ad esser uomo men-  tre hai vita.* E’ ti conviene ad un  tempo guardarti dallo adulare gli  uomini non mejio che dallo adirarti  contro di essi: perchè le sono cose  egualmente antisociali e nocive.  Quando ti sentirai provocato all’ira,  ti occorra alla mente questo pen-  siero: non esser punto cosa virile  lo adirarsi ; ma anzi la pacatezza, la  mansuetudine, siccome sono cose  più umane, così sono anche più vi-  rili ; e che la costanza, il vigore, la  fortezza sono nel mansueto, non in  [Ornato collo Schultz, anzi più riso-  Intamento che lo Schultz, stimò che qui il  testo fosse manchevole.  Seneca, De ira, 111,43,  disse. Humanitatem colamns, dnm inter  homines snmus. »  chi si adira o s’impazientisce. Per-  chè più quegli si avvicina alla im-  passibilità, tanto più partecipa della  forza; laddove l’ ira, siccome il do-  lore, è propria del debole : lo adirato  e lo addolorato furono egualmente  piagati e ambidue cedettero egual-  mente.   E un decimo ricordo ancora ricevi, se vuoi, dal Musagete: * essere  da pazzo il volere che i malvagi non  pecchino, perch’ egli è un voler l’im-  possibile. Il voler poi che essi por-  tinsi da pari loro verso tutti gli altri  e noi facciano con te, è da stolto e da tiranno. Contro quattro specie di de-  terminazioni* della parte tua prin-  cipale ti bisogna sopra tutto stare in  guardia, e tosto che una ti venga   [Conduttor delle muse, o Apollo, o se  vuoi. Ercole. Piuttosto quello che questo. Vedi il Gatakero] nsieri, moti, determinazioni, volon-   avvertita, cancellarla, ragionando teco medesimo intorno a ciascuna di  esse in questa guisa : Intorno a  quelle della prima specie : questo  pensiero non è necessario. Intorno  a quelle -della seconda : questo pen-  siero tende a sciogliere la società.  Intorno a quelle della terza: tu stai  ora per dire cose che intimamente  non credi: e il dir cose che inti-  mamente non credonsi è da essere  annoverato fra le massime assurdi-  tà. Intorno a quelle finalmente del-  la quarta specie, rampognerai te  medesimo dicendo: tu lasciasti che  fosse vinta la parte più divina di  te, e sottoposta a quella che è  men nobile e mortale, cioè a di-  re al corpo e ai grossi piaceri di  quello. Quattro cose da prevenire od allontanare. Pensieri inutili oziosi. Volontà od azioni ingiuste, dove sono  anche compresi i moti di irascibilità;  Quanto è in te di aereo e di  igneo, benché abbia naturale ten-  denza ad innalzarsi, acconciandosi  nondimeno all’ordinamento del tutto  si rimane quaggiù nel tuo corpo. E similmente le parti terree é le acquo- |  se, benché tendano naturalmente allo '  ingiù, tengonsi non pertanto solle-  vate ed erette in una forma che non  é loro naturale : tanto anche gli ele-  menti sono obbedienti alla legge  dell’ universo, e facendo forza a sé  medesimi serbano costantemente il  posto in che furono collocati, finché  da quella medesima legge sia dato  il segno dello scioglimento. Ora non  é egli singolarmente strano che sola  la parte intelligente dell’ esser tuo  non voglia obbedire e si rammarichi  del posto che le fu assegnato? e  pure nulla di violento le è comandato  [Disaccordo della mente e delle parole;  cioè falsità voluta, o non avvertita. Moti di concupiscenza], ma cose soltanto che sono secondo la natura di lei. Con tutto ciò  non vi si vuole acconciare, e vuole  andare a ritroso. Perchè le ingiu-  stizie, le dissolutezze, l’ira, la tristezza, il timore, sonò tutti moti a  ritroso della natura. E ancora allor-  quando r anima non s’ acconcia di  buon grado agli avvenimenti, ella  abbandona il suo posto, essendo ella  stata instituita alla santità, alla  pietà, non meno che alla giustizia,  poiché quelle non meno di questa  fanno parte della sociabilità : chè  anzi gli atti di giustizia succedono  piuttosto (-he non precedano a quelli  della pietà e della santità. Intendi la pietà religiosa, o la pietà  verso Dio o la natura, che è tutt’uno presso  gli stoici, e non dimenticare che il rasse-  gnarsi volentieri a tutti i casi esteriori, è  atto religioso appo gli stoici. Cioè Tnomo ha relazioni con Dio prima  che con gli nomini, e le sue relazioni con  questi hanno per fondamento le sue relazioni con quello. Chi non ha sempre il medesimo proposito, il medesimo istituto  di vita, non può essere in tutta la  vita il medesimo uomo. Ma ciò non  basta se non aggiungi ancora quale  esser debba questo proposito o isti-  tuto di vita. Perchè siccome non di  tutti quelli che al volgo paiono beni  è invariabile negli uomini il giudizio,  ma di quelli soltanto che sono univer-  sali e comuni; ' così lo scopo comune  e civile dell’ umana famiglia, è quello  che l’uomo dee proporre a sè stesso.  Colui adunque il quale indirizzerà a  questo scopo comune l’esercizio di  tutte le sue facoltà, quegli farà che  tutte le sue azioni sieno fra loro  somiglianti, e per tal guisa sarà egli  costantemente il medesimo uomo. Intendi che T idea del bene privato varia  nella stessa persona, secondo che varia la  sensibilità; laddove l'idea del bene pubblico  è costante e invariabile, siccome quella che  dipende solo dalla ragione, la quale non  varia. Rammenta il topo di monta-  gna e il topo di casa, e lo spavento -  di questo e il correre precipitoso.'   Socrate chiamava befane le  credenze del volgo, spauracchi di  fanciulli. I Lacedemoni nella loro solen-  nità ponevano pei forestieri i sedili  all’ ombra, ed essi sedevano dovunque.   A Perdicca, che gii chiedea  perchè non andasse a lui, Socrate  rispondea, Per non morire di pes-  sima morte » cioè a dire, « per non  ridurmi alla condizione di non poter  ricambiare beneficii eh’ io avessi ricevuti.  Nelle lettere degli Epicurei era  una esortazione all’ aver sempre pre-  sente al pensiero alcuno di quelli  antichi che praticarono la virtù. I Pitagorici prescriveano che  [Gli interpreti allegano Orazio, sat. VI,  lib. II. Ma riscontra in Esopo, fav. 301.  Ogni giorno di buon mattino si do-  vesse volgere gli sguardi al Cielo,  affinchè per la contemplazione di  quelli esseri che sempre percorrono  le medesime vie e sempre compiono  a un modo il loro ufficio, l’ uomo  avesse ad ìfver sempre vivo in sè il  pensiero dell’ordine, della purità e  della nudità.' Perchè le stelle non  hanno velo che le ricovera. Qual fu a vedere Socrate cinto di una pelliccia, allorché uscì fuori  Santippe colla veste di lui ; e le  cose che egli disse agli amici i quali  arrossivano e si ritraevano indietro,  vedendolo assettato in quel modo. Nell’arte dello scrivere nè in  quella del leggere non puoi essere  maestro se prima non fosti discepo-   [Il diligentissimo ed ernditissimo Gatalcer  non seppe egli pnre trovare qual fosse il caso particolare della vita di Socrate, e il  detto di Ini, ai quali fa qui allusione Antonino. Meno amcora lo potrai nell’arte  (Iella vita.   Sei servo, a te concesso  favellar non è. Ed il mio cor ne rise. E la virtute   Àccuseran con rigido parole. Pazzo chi vuole aver fìchf di  verno; pazzo ancora chi desidera  aver iigliolanza quando non è più  tempo da ciò.  Quando tu baci un tuo figliuolo, esortava Epitteto, fa' che tu dica  teco medesimo : domani sarà forse  morto. Cattivi augurii, cotesti. Nulla è cattivo augurio di ciò  che accenna ad un effetto naturale. Agresto, uva, zibibbo, tutte   [Nei testo è un verso iambico di autore incognito a noi. È la fine del verso 413, lib. I  dell'Odissea.  Nel testo è un verso esametro che ha  qualche somiglianza con un verso di Esiodo mutazioni ; non dall’ essere al non  essere, ma dall’ essere ciò che è  all’ essere ciò che ora non è.  Assassini della volontà non ci  sono ; sentenza di Epitteto. Diceva ancora (Epitteto) dovensi procacciare V arte dello assen-  tire ; stare all’ erta coi moti della  volontà, affinchè tutti sieno condi-  zionali, sempre indirizzati ad un fine,  al bene universale, sempre propor-  zionati in intensità al valore intrinseco delle cose; astenerci in tutto  dalla appetizione, e non dare luogo  mai all’ avversione per cose che non  sieno in nostra potestà. Piccolo adunque, diceva egli,  non è il frutto della vittoria o il  danno della sconfìtta ; ma l’ esser  savio, o r esser pazzo.   39. Socrate dicea: che volete voi! Vuol dire Antonino che il libero eser-  cizio della volontà non può esserci tolto da  nìssuna forza esteriore. avere anime di animali ragionevoli,   0 di irragionevoli? Di ragionevoli. Di quali ragionevoli? di sani o di  corrotti? Di sani. Perchè dunque non le cercate? Perchè già  le abbiamo. Perchè dunque batta-  gliate fra voi e siete discordi? Anche il Gataker non potè trovare da  quale opera socratica abbia tratto Antonino  questa argomentazione: ma moltissimi scritti  della scuola socratica non abbiamo più noi, i quali esistevano ai tempi di Marco nostro.  Tutte quelle cose, alle quali tu  . studi di pervenire per mille andiri-  vieni, tu puoi avere immediatamente,  se tu non vuoi male a te stesso. E  ciò sarà, se tu metti da banda il pas-  sato e lasci alla Provvidenza la cura  del futuro, e attendi solo ad usare  il presente, secondo le norme della  santità e della giustizia: della san-  tità, coir accettare volonterosamente  i casi tutti che ti intervengono, es-  sendo essi dalla natura prodotti per  te, e tu per essi; della giustìzia,  col dire liberamente e senza ambagi la verità e far ciò che è con-  forme alla legge e alla dignità delle    l'ose,’ non lasciandoti frastornare mai  nè da malizia altrui, nè da opinione,  nè da discorso di chi che sia, nè da  affezione veruna di quel corpicciuolo  che ti è venuto crescendo all’ intor-  no : sta a lui che è il paziente a pen-  sarci. Or dunque, prossimo o lontano  sia per essere il termine della tua  vita, se tu, deposto ogni altro pen-  siero, non attenderai che ad onorare  la parte principale e divina dell’ os-  sei’ tuo, e tuo solo timore sarà, non  già di dover cessare quando che sia  di vivere, ma di non aver per anco  incominciato a vivere secondo natu-  ra; tu sarai uomo degno del mondo  che ti ha generato, non sarai più  [Le prescrizioni della l^igge sono gene-  rali ; la dignità delle cose esteriori serve  di guida nell' applicazione della legge. Ta  altro modo si potea dire : « ciò che è confor-  me alla legge nelle circostanze particolari  in che ti’ trovi.» Ma quello è più stoica-  mente detto. Per dignità delle cose intendi il loro va-  lore ret»tivo.     straniero nella tua patria, non ti  maraviglierai più di ciò che accade  tutto dì come di cosa insolita; non  sarai più dipendente da chi nè da  che che sia. Iddio vede tutte le menti de-  nudate di questi vasi materiali e involucri e sudiciumi. Quelle solo egli  attinge colla pura sua intelligenza,  le quali da lui scaturite sono deri-^  vate in essi. Se ti avvezzi a far tu  pure il medesimo, tu avrai meno di  molte distrazioni e perturbazioni.  Perchè chi non guarda all’ involucro  della carne, si lascierà egli turbare  o distrarre alla vista dell’abito, o  delle case, o della riputazione, o di  altri cosi fatti involucri e addobbi?  Di tre cose sei composto: il  corpicciuolo, il soffio vitale e la  mente. Delle quali le due prime non  sono tue se non in quanto tu hai a  prenderne cura; la terza, questa  sola è tua veramente. Laonde se tu rimovi da te, o per dir più proprio  dal tuo pensiero, tutte le cose che  altri fa e dice in presente, e le pas-  sate che tu facesti e dicesti, e le  future delle quali 1’ aspqttamento ti  turba, e quelle che riferendosi al  corpo onde sei circondato e al soffio  vitale congenito con esso, sono in  te involontarie, e quelle che il vor-  tice di fuori va agitando intorno a  te, si che pura e sciolta da ogni  esterna fatalità la potenza intellet-  tiva se ne viva libera da sè, ope-  rando il giusto, avendo caro ogni  evento qualsiasi, e dicendo il vero;  se, dico, tu rimovi da codesta parte  dell’ esser tuo tutto ciò che presen-  temente le sta come a dire appiccato  per mezzo dello appetito sensitivo,  e tutto r avvenire e tutto il passa-  to, e ti fai siccome quella di Empedocle da GIRGENTU ri tonda   Sfera che posa e in suo posar s’ appaga, e attendi solo a vivere quel tempo  che vivi, cioè il presente; ti verrà  fatto di passare tranquillamente, nobilmente e in pace col genio tuo,  quello che ti rimane ancora insino  al morire. Soventi volte mi sono maravi-  gliato che ciascuno arai sè stesso  più che non arai qualunque altro  uomo, e faccia poi minor conto dei  propri giudizi intorno a sè medesimo, che di quelli degli altri.' Per-  chè se a taluno fosse da un Dio che  gli apparisse, o da qualche savio  maestro comandato che non pen-  sasse e non volgesse nulla in mente  che tosto, appena ne fosse conscio   ' Anche i Pitagorici, benché non ne fa-  cessero nn precetto assoluto, raccomanda-  vano che ciascuno avesse massimamente rispetto a sè medesimo, cioè ai propri giudizi  intorno a sè stesso. Tra i versi dorati at-  tribuiti a Pitagora, ecco la traduzione di  quello che compendiosamente esprime la  detta raccomandazione. Più che di chiunque altro abbi vergogna di te ste.««so. »  a sè stesso, noi manifestasse; noi  sosterrebbe pure un solo giorno.  Tanto abbiamo noi maggiore rispetto  a ciò che di noi potrà pensare il vicino, che a ciò che ne pensiamo  noi stessi. Come mai avendo gli Dei propizi all’uomo ottimamente ordinato ogni cosa, questo solo lasciarono  passare inavvertito, che anco i migliori fra gli uomini, quelli i quali  entrarono, sto per dire, in più stretta  alleanza colla divinità, e per la pietà  e santità loro vissero in più intimo  commercio con essa, quando una  volta sian morti, non abbiano più  mai a rivivere, ma sieno spenti  per sempre? Se tale è veramente la  condizione di tutti gli uomini indi-  stintamente, abbi per indubitato, che  ove avesse dovuto essere altrimenti,  avrebbero gli Dei altrimenti ordinato : perchè se un ordine diverso  fosse stato giusto, sarebbe anche Stato possibile ; e se fosse stato secondo natura, la natura lo avrebbe  recato ad effetto. Ora dal non essere  le cose in questi termini, supposto  che veramente non sieno, tu hai a  trarre argomento che non dovea essere altrimenti da quello che è. Per-  chè tu vedi pure che mentre tu  vai facendo queste investigazioni, tu .  disputi del diritto con Dio; la qual  cosa non faremmo con gli Dei, se  essi non fossero ottimi e giustissimi ;  e tali essendo, non possono aver  mai tollerato nè lasciato correre  inavvertitamente nell’ ordinamento  del tutto, nulla che fosse ingiusto  0 irragionevole.  Vienti esercitando anche in ciò  a che tu credi aver poca attitudine.  La mano sinistra, la quale per difetto di esercizio è disadatta ad altri  uffici, tiene il freno più saldamente  che noi faccia la destra, perchè a  ciò fu esercitata.  In che stato debba essere l’uo-  mo, e rispetto al corpo e rispetto  all’ anima, al sopraggiungere della  morte ; ' la brevità della vita, l’abisso  del tempo passato e del tempo avvenire, la debolezza di tutta la materia. Osservare le cause denudate  della loro corteccia; il fine delle  azioni; che sia il dolore, che il pia-  cere, che la morte, che la gloria;  chi sia quegli che è cagione di tra-  vagli a sè stesso; siccome nissuno  è mai impedito da altrui; che tutto  è opinione. Nel far uso dei precetti della  filosofia, fa’ di rassomigliare piutto-  sto al pugillatore che al gladiatore;  perchè questi, lasciata cadere la  spada, vien morto ; ma quegli ha la  destra sempre, e non gli è mestieri  d’altro che di chiudere e scagliare  il pugno. Sottintendi: contidera. Vedere quali sono le cose  in sè stesse, risolvendole nei loro  elementi, la materia, la causa, il  fine.  Che potere ha l’uomo ! di non  fare se non ciò solamente che Iddio  sia per approvare, e di accettare  tutto che Iddio sia per inviargli. Ciò che è conforme alla natura. Non ti dolere degli Dei, perchè gli Dei non peccano nè volon-  tariamente nè involontariamente;  nè degli uomini, perchè gli uomini  non peccano mai se non malgrado  loro. Di nessuno dunque ti devi doere.  Quanto è mai ridicoloso e nuovo colui che si maraviglia di al-  cuna delle -cose che accadono nella  vita! In tutte le edizioni che io conosco si  incomincia con questa frase il paragrafo se-  guente; ma non si fa alt^o che guastarvi  il senso. O necessità fatale e ordine di  cose impreteribile, o‘ provvidenza  esorabile, o confusione a caso e senza  governo. Se necessità inflessibile *, a  che resisti? Se provvidenza esora-  bile ; fa’ che tu sia degno dell’ aiuto  divino. Se confusione senza governo;  pur beato che in tanta tempesta tu  hai dentro di te una mente governatrice. Che se la bufera ti rapisce  seco, rapisca a sua posta il corpicciuolo e la parte animale di te e  cotali altre cose; non potrà rapir  seco la mente.  Che ? il lume della lampada,  fmch’ ella non si estingue, risplende  e non perde della sua luce; e in te,  prima che la vita si spegneranno la  verità, la giustizia, la temperanza?  Quando altri ti dà materia a  supporre che egli abbia permeato,  di’ teco stesso : come so io che ciò  sia un peccato? E se è peccato, ch’egli  non siasi già condannato da per sè? il che h come nn graffìarsi il pro-  prio volto. ' Pensa ancora che il non  volere che il dappoco erri, è un non  volere che il fico acerbo abbia lattifìcìo, che i bambini vagiscano, che  il cavallo annitrisca, ed altri simili  effetti naturali e necessari. E che  può egli fare in cotale disposizione?  Se tu sei da tanto, incomincia a curar quella.  Se non è giusto, noi fare; se  non è vero, noi dire : perchè la tua  volontà è libera.  Esaminare in ogni incontro  che è la cosa che fa impressione in  te, ed esplicarla distinguendovi la  causa, la materia, il tempo entro il  quale avrà a cessare. Seneca, De ira. Nulla maior  pccna neqnìtiie est-, quiim quod sibi displicet. Con questo paragrafo finisco Pinterpro'  taziono lasciata dalPOrnato, la quale, tran-  ne i luoghi indicati, io ho fodcljnonto .seguita  noi mio volgarizzamento dal § 42 del lib. VI,    Accorgiti finalmente che tu hai  in te stesso alcun che di più potente,  di più divino che non sia ciò da cui  si generano gli affetti e che al tutto  ti trac qua e là come per ima fu-  nicella. Che è ora la mia mente?  Non è ella timore? Sospetto? Cupidità, 0 altra cosa cotale?  Primieramente nulla si faccia  a caso, nè senza uno scopo. Poi,  nulla sia riferito ad altro fine che a  quello universale e civile di tutta l’umanità. Che in breve tu non sarai più,  nè alcuna delle cose che vedi, nè  alcuno di quelli che ora vivono. Per-  chè ogni cosa nacque per alterarsi,  mutarsi o morire, affinchè altre possano nascere secondo l’ordine di  successione.    fin qni. Quanto all' interpretazione dei pa-  ragrafi che seguono, l'Ornato lasciò sola-  mente due otre note delle quali sarà parlato  al loro luogo. Che tutto è opinione, e questa  è in poter tuo. Adunque togli via,  quando ti piaccia, l’opinione, e come  navigante che appena superato il  passo di un promontorio, trovasi in  acque tranquille; così tu ti troverai  in perfetta calma e, come a dire,  entrato in un seno non agitati) da  .alcun flutto.   23. Una azione qualsivoglia, quando  cessa a suo tempo, non patisce al-  cun male per la cessazione. Ancora  r autore dell’ azione, per la medesi-  ma cessazione, non patisce alcun  male. Medesimamente il complesso,  0 vogliasi dire la serie di tutte le  azioni, che è quanto dire la vita, quando cessa a suo tempo, non pa-  tisce alcun male per la cessazione,   , nè ancora chi cessa da questa serie  di azioni, soffre per ciò alcun male.  Il tempo proprio poi è determinato  dalla natura: talvolta dalla natura  .particolare, quando avviene nella vecchiezza, ma ad ogni modo dalla  natura dell’ universo: le cui parti  trasformandosi e rinnovandosi del  continuo, ne segue che sempre nuovo  e sempre giovane si conserva nella  sua totalità il mondo. E bello sem-  pre e tempestivo è ciò che profitta  al tutto. Adunque la cessazione della  vita non è un male all’ uomo individuo, poiché non è cosa disonesta,  come quella che non dipende dal-  r arbitrio di lui, nè ripugna al fine  universale e sociale della umanità;  ed è in sé stessa un bene, perchè è  tempestiva e profittevole al tutto e  armonizzante con esso. E similmente  è divino r uomo che è mosso nella  medesima direzione e verso i mede-  simi fini che Iddio, ed ha caro di  essere mosso verso questi fini e in  questa medesima direzione. Tutto questo periodo è nel testo gre-  co oscurissimo e diversamente inteso dai  comontatori. Chi è grecista vegga nella  Queste tre cose non dimenticare. In primo luogo, per rispetto a  ciò che tu fai, che nulla sia fatto a  caso nè altrimenti che si farebbe  dalla giustizia in persona; e per  rispetto agli avvenimenti esteriori,  sieno essi effetti del caso o della  Provvidenza, che non vuoisi mai nè  incolpare il caso, nè mormorare con-  tro la Provvidenza. In secondo luo-  go, qual sia ciascun vivente dal mo-  mento della fecondazione sino a  quello della animazione, e da quello  della animazione fino a quello in cui  cessa la vita,' e di che elementi sia    nota a questo paragrafo nell' edizione di To-  rino le ragioni della nostra interpretazione  diversa da tntte le precedenti. Bene ricorda qui Gatakero com'egli  era opinione degli stoici il feto non essere  animato fino al momento in cui ^sce dal  seno materno. Fino a quel momento essi  consideravanlo come parte del corpo della  iinadre, come un ramo vegetante sul tronco  dell'albero a cui appartiene. Abbiamo ve-  duto (vedi la nota (26) in fine del volnme)  composto e in quali sia per risol-  versi. In terzo luogo, che se tu levato in altissima parte vedessi di là  tutte le cose umane e la grande  varietà loro, e vedessi ad un’ ora  quanta sia la moltitudine degli es-  seri aerei ed eterei che popolano  gli spazi all’ intorno; per quante  volte che tu venissi cosi levato in  alto, vedresti pur sempre le medesime cose, la somiglianza ^ che  sempre hanno fra loro e la breve  durata di tutte. Di cotali cose insu-  perbisci?   25. Espelli da te T opinione, e sei  salvo. Chi dunque ti impedisce que-  sta espulsione ?   26. Quando stai di mala voglia per  cagione di qualsisia cosa o persona,  tu dimentichi che tutto succede se-    come gli stoici fossero ignoranti di anato-  mia: lo erano ancora più di fisiologia. Intendi le succedenti rispetto allo antecedenti. condo la natura dell’ imiverso ; che  l’altrui colpa è male altrui; e inol-  tre che le cose che avvengono sono  sempre. avvenute e sempre avver-  ranno, e avvengono ora in ogni luogo al modo stesso; e ancora tu di-  mentichi quanto intima sia la pa-  rentela che ha ciascun uomo con  tutta la famiglia umana : perocché  non di sangue o di seme, ma è co-^  munanza di mente. Tu dimentichi  ancora che la mente di ciascun uomo  è divina e da Dio scaturita; che nulla  è proprio di nissuno, ma e il figlio-  lino, e il corpicciuolo e Tanimuccia  stessa, tutto venne da quello. Tu di-  mentichi finalmente che tutto è opi-  nione ; che ciascuno vive solo il mo-  mento presente, e perde solo il  momento presente.  Recati spesso al pensiero co-  loro i quali di alcun che fieramente  adiraronsi, coloro che per grandis-  simi onori, o sventure, o inimicizie, o altre fortune quali si fossero, di-  vennero illustri ; poi- chiedi a te  stesso; ora dove sono? Fumo, ce-  nere, languido romore di” fama, o  neppur questo. Poi ti occorrano alla  mente tutti questi cotali ; Fabio Ca-  tullinOjin villa, Lucio Lupo negli  .orti, Stertinio a Baia, Tiberio nel-  r isola di Capri, Rufo a Velia, e, per  dire in somma, tutte queste diverse  inclinazioni verso checchessia gene-  rate dall’ opinione; e quanto sieno  di poco pregio in sè medesime tutte  queste cose che con tanto studio si  ricercano; e quanto sia più da filo-  sofo il saper far buon uso delle cir-  costanze qualunque esse sieno, o per  dir più proprio, della materia quale ci è data, serbandoci sempre giusti,  temperanti e con semplicità obbedienti a Dio. Perchè 1’orgoglio dell’umiltà è di tutti il più abbomi-  nevple. A colóro che ti chiedono dove tu iibbia veduto gli Dei e donde  avuto certa otizia dell’ esser loro,  perchè tu abbia a venerarli - rispondi  primieramente. Anche alla vista  sono percettibili. E poi. Nè ancora la mia mente veggo io, e nondimeno io l’ho in onore: e così da  quelli effetti che mi rivelano la loro  potenza argomentando che essi sono,  venero io gli Dei. Salvezza di tutta la vita è il  vedere ciascuna cosa quale sia in sè  stessa, quale la materia di essa, quale  la ' causa ; e attendere con tutta  r anima a operare il giusto e a dire  il vero. Poi, che ti rimane a faie, se  non se godere della vita, facendo  senza ristare che un bene succeda Opportunamente avverto qui il Gatakero  come Antonino potesse, stoicamente, dire  benissimo, gli Dei essere visibili anche al-  r occhio, poiché il mondo primieramente  era per essi il Dio supremo; e poi fra gli  Dei generati essi veneravano il sole, gli  astri, gli elementi eo.  immediatamente ad un altro, non  lasciando fra due neppure un menomo intervallo? Una è la luco del sole, ancora  che divisa all’ infinito da pareti, da  •monti, da altri obbietti innumerevoli.  Una è la materia comune, ancora  che divisa in una moltitudine innu-  merevole di corpi, ciascuno dei quali  ha le proprie qualità. Una è la vita,  ancora che distribuita in una molti-  tudine innumerevole di nature particolari. Una è r anima intelligente, '  ancora che sembri divisa in tante  unità. Ora tutte le altre cose sopra-  scritte, esseri organici viventi ed es-  seri privi di vita; non hanno comunanza. [Intendi: Quando tu sia ben risolato di  non attendere ad altro chò ad operare il  giusto e a dire il vero, non avrai più briga  alcuna, e non avrai che a godere della vita;  il qual godimento consiste appunto nel dire  il vero e praticare la giustizia; e il godi-  mento .sarà continuo, se tu non cessi un  momento dalle azioni virtuose che sono il  vero bene. nanzà fra loro nè corrispondenza  alcuna di sensibilità, sebbene anche  ad esse il respirare e il gravitare  verso un centro sia a tutte comune.’  Ma alla mente è proprio il tendere  verso ciò che le è congenere, e con •  esso ella si unisce, nè può essere  esclusa da lei questa corrispondenza  di affetti e di sensi. Che brami? Campare? Non  questo. Che dunque? Aver sensazioni, moto, incremento, appetiti? Far uso della facoltà della parola, di quella del raziocinio? E che  di tutto ciò ti sembra degno da desiderare ? Se ciascuna di queste cose  ti sembra dunque in sè poco prege-  vole, volgiti à quella che sola rima-  ne, al seguire la ragione e Dio. Ma  a questo culto ripugna eh’ e’ ti gravi   [Il testo in questo luogo è certamente  corrotto. Chi ' vuol vedere come sia stato  emendato e quindi interpretato dair Ornato  in una lunga sua nota, ricorra all' Adizione  di Torino] il dover essere per la morte escluso dalle cose dette dianzi. Qual particella del tempo infinito fu assegnata a ciascuno? Tosto  perderassi nell’eternità. Qual particella di tutfii la materia? Qual particella di tutta l’anima? Sopra qual  particella di tutta la .terra ti vai  strascicando? Questi pensieri ti ricordino che non hai a fare gran  caso di nulla, fuori l’operare se-  condo che la natura ti guida, e tol-  lerare tuttociò che la natura comune  ti arreca.  Che uso fa di sè stessa la  mente? Questo è il tutto per te.  Tutto il rimanente, sia o non sia  sottoposto alla tua volontà, è per te  cadavere e fumo.   34. A farti disprezzare la morte  gioverà il pensare come anche coloro che ebbero il piacere per un  bene e il dolore per un male, non  di meno la disprezzarono. A colui al quale ciò solo che  è tempestivo è un bene, poco importandogli il maggiore o minor  numero di azioni virtuose che saràgli concesso di compiere, a colui, dico, la morte non ha nulla di  pauroso. L’ uomo, facesti le tue parti di  cittadino in questa grande città. Che  rileva a te se per cinque o solo tre anni ? Ciò che è secondo la legge, è  giusto ed equo per tutti. Come puoi  dunque rammaricarti se sei rimandato, non da un tiranno, non da un  giudice iniquo, ma dalla natura che ti avea introdotto, non altrimenti che un attore è rimandato dalla scena  dal direttore della commedia che ve  lo avea chiamato? Ma io non ho  recitato i cinque atti. Bene dicesti. Ma nella vita anche tre atti bastano a compiere il dramma. Perciocché chi ne determina il fine, è  quel medesimo che allora fu autore  della plasmazione, cd ora ò della  dissoluzione. Tu non fosti autore nè dell’ una nè dell’altra. Vattene dunque in pace e contento, chè quegli  ancóra che ti accommiata è contento e propizio. Aurelio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, Marc'Aurelio e Frontino,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

aosta– Grice: “I like Aosta; my favuorite piece of his philosophising is strangely nott he one on paronymy – or the worn-off paralogism on God’s existence; rather, the more obscure “De casu primi angeli,’ on the fall of the most beautiful angels of all! And more seriously – the previous ‘de casu diaboli’ – his rambles on ‘Dialectica’ – or dialettica, as the Italians prefer; you see axioma was Elio Gelliio thinks in “Notti attiche’ – and Varrone – the ‘proloquium,’ from ‘proloquor’ of course – the ‘pro’ suggests something like a ‘prae-miss’ – This is all very stoic, but we are not sure if Aosta knew this!”  Grice: “Aosta would of course be familiar with Augustin’s De Dialectica, where ‘proloquium’ means ‘pro-positio,’ something Quine abhorred!” -- Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia successiva.  Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto vantaggioso per i religiosi.  La riflessione filosofica e teologica di Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio, indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato originale, alla grazia e in generale al male.  Anselmo venne canonizzato nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI (1649–1721). Sant'Anselmo d'Aosta AnselmstatuecanterburycathedraloutsideUna statua di Anselmo d'Aosta collocata all'esterno della cattedrale di Canterbury.   Arcivescovo di Canterbury, santo e dottore della Chiesa    NascitaAosta, 1033 o 1034 MorteCanterbury, 21 aprile 1109 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana CanonizzazioneAutorizzazione all'elevazione del corpo concessa da Papa Alessandro III nel 1163[1] Ricorrenza21 aprile[1] Attributibastone pastorale[1] e nave. Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia successiva.  Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto vantaggioso per i religiosi.  La riflessione filosofica e teologica di Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio, indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato originale, alla grazia e in generale al male.  Anselmo venne canonizzato nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI (1649–1721). Una targa a memoria di Anselmo è collocata sulla sua presunta casa natale ad Aosta, via Sant'Anselmo.Anselmo nacque nel 1033[3][4] (o all'inizio del 1034)[5] a[6] (o nei pressi di)[7] Aosta, allora parte del regno di Arles[6] al confine con la Lombardia.[8]  La sua era una famiglia nobile, anche se in declino,[9] imparentata con la casa Savoia[10] e con ampi possedimenti terrieri. Suo padre, Gundulfo (o Gandolfo),[11] era un longobardo, apparentemente molto dedito agli affari e non particolarmente affettuoso verso il figlio; sua madre, Ermemberga (o Eremberga),[11] apparteneva a un'antica famiglia nobile burgunda ed era legata da rapporti di parentela a Oddone di Savoia; risulta che fosse una madre di famiglia pia e virtuosa.[1][12]  Fin da bambino Anselmo espresse un forte sentimento religioso e un'altrettanta forte sete di conoscenza; il suo biografo Eadmero di Canterbury riferisce che, vivendo in una zona montuosa, il giovinetto si formò l'ingenua convinzione che il paradiso, in cui Dio stesso doveva risiedere, si trovasse in cima alle montagne.[12] Anselmo venne affidato a un istitutore, suo parente, che però si rivelò tanto severo da produrre in lui uno stato di infermità, dal quale guarì lentamente grazie alle cure materne. La sua educazione successiva venne affidata ai benedettini di Aosta.[1] All'età di quindici anni Anselmo espresse il desiderio di diventare monaco; il padre tuttavia, fermamente intenzionato a fare del ragazzo il proprio erede, si oppose a questa decisione e i monaci del convento locale, non volendo contrariare Gandolfo, respinsero la domanda di Anselmo.[1][12]  La delusione e la frustrazione per il rifiuto causarono una forte reazione nel giovane, che, sempre secondo il biografo, pregò Dio di ammalarsi in modo tale da impietosire i monaci e convincerli così ad accoglierlo; una crisi psicosomatica effettivamente si verificò, ma questo non bastò a far sì che Anselmo venisse accettato nel monastero.[12] In seguito l'ardore religioso del giovane si raffreddò e, benché egli rimanesse intenzionato a ottenere il suo scopo in un futuro più o meno lontano, poco alla volta le passioni mondane lo coinvolsero e, soprattutto dopo la morte della madre (che avvenne nel 1050),[5] si dedicò sempre più spesso a interessi di carattere materiale.[12] Nel frattempo i suoi rapporti con il padre si facevano sempre più tesi, e infine, all'età di ventitré anni,[8] Anselmo partì, accompagnato da un servo, con l'intenzione di oltrepassare il colle del Moncenisio alla volta della Francia.[1][12]  Superate le Alpi, Anselmo e il suo compagno girovagarono per tre anni tra la Burgundia e la Francia prima di giungere ad Avranches, in Normandia, nel 1059;[8] qui Anselmo venne a sapere dell'abbazia benedettina che era stata fondata a Bec nel 1034, dove insegnava il famoso dialettico Lanfranco di Pavia; attirato dalla fama di Lanfranco vi si recò, riuscendo nel 1060 ad esservi ammesso come novizio.[8][12] Il ventisettenne Anselmo si sottometteva così alla regola benedettina, che nel corso del decennio successivo ne avrebbe influenzato significativamente il pensiero.[13]   L'abbazia di Notre-Dame du Bec. Da Bec a Canterbury I progressi di Anselmo negli studi furono rapidi e brillanti e il giovane entrò presto nelle grazie del maestro, tanto che, quando nel 1063 Lanfranco venne nominato abate dell'abbazia di Saint-Étienne di Caen, Anselmo (pur avendo intrapreso la vita monastica da appena tre anni) venne eletto a succedergli quale priore dell'abbazia di Bec.[12][14] Alcuni dei monaci più anziani, ritenendosi maggiormente in diritto di ricoprire la carica di priore, si considerarono offesi dalla sua promozione; tuttavia ben presto le sue doti di cortesia, il suo senso della misura nel gestire la carica e le sue competenze di insegnante gli valsero l'affetto di tutta la comunità monastica.[12]  Nei quindici anni in cui fu priore a Bec, diviso tra i doveri derivanti dalla sua carica e l'aspirazione all'isolamento e alla contemplazione, Anselmo era solito rimanere desto durante la notte, impegnato nella preghiera o nella scrittura. Risale infatti a quegli anni (a partire dal 1070) l'inizio della sua attività di scrittore, che aveva principalmente il fine di munire i suoi allievi all'interno del monastero (ma anche alcune nobildonne laiche al di fuori di esso) di testi su cui meditare e pregare.[15] La composizione di due delle sue opere teologiche più rilevanti, il Monologion (Soliloquio) del 1076 e il Proslogion (Colloquio) del 1078, avvenne proprio in quel periodo.[1][12]  Nel 1078, alla morte del fondatore dell'abbazia di Bec, Erluino, Anselmo gli succedette come abate venendo consacrato il 22 febbraio 1079 dal vescovo di Évreux.[16] Fu con riluttanza che Anselmo accettò la carica, che avrebbe comportato ulteriori responsabilità e doveri sottraendogli tempo alla riflessione e alla preghiera;[12] la resistenza di Anselmo fu vinta dalle insistenze unanimi dei confratelli.[1]  Anselmo fu molto apprezzato come abate per via del suo acume, della virtuosità con cui conduceva la sua vita e della sua capacità di rapportarsi con gentilezza con tutti dentro e fuori il monastero;[1] la nuova carica lo portò a stringere rapporti con l'Inghilterra, dove l'abbazia normanna aveva alcuni possedimenti; viaggiò fino a Canterbury, di cui Lanfranco era diventato arcivescovo nel 1070, ed ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare dalla nobiltà e dalla corte inglesi,[1][12] oltre che dallo stesso re Guglielmo il Conquistatore;[11] divenne così il candidato naturale a succedere a Lanfranco come arcivescovo di Canterbury.[17] Anselmo fu anche costretto a battersi per conservare l'indipendenza dell'abbazia di Bec dalle autorità civili ed ecclesiastiche.[18] Nonostante la rilevanza dei suoi impegni di amministratore e di guida, e la puntualità con cui li assolveva, Anselmo rimase per tutta la vita innanzitutto un intellettuale:[3] nel periodo in cui fu abate di Bec portò avanti una significativa attività pedagogica e didattica e, tra il 1080 e il 1085, compose il De grammatico (Sul significato della parola "grammatico") e i tre dialoghi sulla libertà, il De veritate (Sulla verità), il De libertate arbitrii (Sulla libertà della volontà) e il De casu diaboli (La caduta del diavolo).[19] Sotto Anselmo, Bec divenne uno dei centri di studio e insegnamento più importanti d'Europa, attirando studenti da tutta la Francia, dall'Italia e da altri Paesi.[20]   La cattedrale di Canterbury, sede dell'arcivescovato di Canterbury, in un'incisione del 1821. Quando, nel 1089, morì Lanfranco di Pavia, Guglielmo II d'Inghilterra confiscò i possedimenti e le rendite della sede arcivescovile di Canterbury e si astenne dal nominare un successore di Lanfranco.[12] Anselmo, che pure desiderava tenersi lontano dall'Inghilterra per non far pensare che aspirasse al ruolo vacante di arcivescovo di Canterbury, accettò l'invito di Ugo d'Avranches a recarsi oltremanica nel 1092.[12] Fu costretto a trattenervisi per quasi quattro mesi, e in un'occasione, giungendo in Canterbury alla vigilia della Natività della Beata Vergine Maria, venne salutato entusiasticamente dalla folla come prossimo arcivescovo; quando ebbe esaurito i suoi impegni, il re gli negò il permesso di rientrare in Francia.[12] Nel 1093, però, Guglielmo cadde gravemente malato ad Alveston e, desideroso di fare ammenda per la condotta peccaminosa alla quale attribuiva la causa del suo male,[21] ordinò che Anselmo venisse nominato arcivescovo di Canterbury all'inizio di marzo.[11][22]  Nei mesi successivi, tuttavia, Anselmo tentò di rifiutare la carica sostenendo di non essere adatto, in quanto monaco, a occuparsi di affari secolari[17] e adducendo come scuse anche l'età e alcuni problemi di salute.[6] Il 24 agosto Anselmo sottopose a Guglielmo le condizioni alle quali avrebbe accettato l'arcivescovato (condizioni peraltro in linea con il programma della riforma gregoriana): che Guglielmo restituisse le terre confiscate; che accettasse la preminenza di Anselmo sul piano spirituale; che riconoscesse Urbano II come Papa, in opposizione all'antipapa Clemente III.[23] Guglielmo era estremamente riluttante ad accettare tali richieste e, benché la situazione favorisse Anselmo, il re era disposto ad accondiscendere solo alla prima.[24] Arrivò al punto di sospendere i preparativi per l'investitura di Anselmo, ma infine, sotto la pressione della volontà pubblica, fu costretto a portare a termine l'assegnazione della carica. Riuscì tuttavia ad accordarsi con Anselmo raggiungendo un compromesso vantaggioso per la monarchia: la restituzione delle terre rimase l'unica concessione fatta dal re all'arcivescovato.[25] Anselmo ottenne dunque il consenso dei suoi ex confratelli ad essere dispensato dai doveri che lo legavano all'abbazia di Bec, rese l'omaggio feudale a Guglielmo, e il 25 settembre 1093 si insediò a Canterbury,[11] ricevendo le terre precedentemente confiscate all'arcivescovato;[24] il 4 dicembre dello stesso anno venne consacrato arcivescovo di Canterbury.[24]  È stato messo in dubbio che la riluttanza di Anselmo ad accettare la carica fosse sincera: mentre studiosi come R. W. Southern sostengono che avrebbe davvero preferito rimanere a Bec, altri, come Sally Vaughn, sottolineano che una certa recalcitranza nell'accettare importanti posizioni di potere ecclesiastiche era d'uso nel Medioevo, dal momento che se per esempio Anselmo avesse espresso il desiderio di succedere a Lanfranco come arcivescovo sarebbe stato considerato un ambizioso carrierista; inoltre, sostiene sempre Vaughn, Anselmo comprendeva gli obiettivi di Guglielmo e agì in modo da ottenere i massimi vantaggi per il suo eventuale arcivescovato oltre che per il movimento riformista gregoriano.[26]  Arcivescovo di Canterbury sotto Guglielmo II    Scena raffigurante Anselmo costretto quasi a forza ad accettare il bastone pastorale, simbolo della carica di vescovo, da Guglielmo II d'Inghilterra gravemente malato. Prima ancora della fine di quello stesso anno 1093 ebbe luogo uno dei primi conflitti tra Anselmo e Guglielmo: il re era in procinto di avviare una spedizione militare contro suo fratello maggiore, Roberto II di Normandia, e avendo bisogno di fondi aspettava una donazione dall'arcivescovo di Canterbury;[27] Anselmo mise a disposizione 500 sterline, che il re rifiutò chiedendo una somma due volte maggiore.[12] Più tardi, un gruppo di vescovi convinse Guglielmo ad accettare la cifra originale, ma Anselmo fece loro sapere di aver già donato il denaro ai poveri.[11]  Quando si recò ad Hastings per benedire la spedizione che si accingeva a salpare per la Normandia, Anselmo rinnovò le pressioni volte a tutelare gli interessi di Canterbury e della Chiesa inglese, oltre che, più in generale, a riformare il rapporto tra Stato e Chiesa[11] secondo la visione della «teocrazia pontificia» espressa da papa Gregorio VII:[28] Anselmo concepiva la Chiesa come un'entità universale, con la sua autonomia e autorità, dalla quale lo Stato doveva dipendere per la sua missione e per la sua investitura;[29] questo andava in direzione opposta rispetto alla visione di Guglielmo la quale, in continuità con quanto già sostenuto dal suo predecessore, attribuiva al re il controllo sia sullo Stato che sulla Chiesa.[11][30] La figura di Anselmo, in effetti, è vista dagli storici tanto come quella di un monaco assorto nella contemplazione quanto come quella di un politico intelligente e capace, determinato a conservare i privilegi della sede episcopale di Canterbury.[31]  Nuovi attriti sorsero subito dopo, quando, come era tradizione, Anselmo avrebbe dovuto ottenere il pallio dalle mani del Papa per rendere definitiva la consacrazione: in quel periodo, infatti, la legittimità di papa Urbano II era messa in discussione dall'antipapa Clemente III. Quest'ultimo, nel 1074, aveva rifiutato esplicitamente l'autorità di papa Gregorio VII e, con il supporto di Enrico IV di Franconia, si era fatto eleggere Papa nel 1080, venendo qualificato da coloro che rimasero fedeli a Gregorio e ai suoi successori come "Antipapa".[32] Guglielmo vietò ad Anselmo di partire per Roma, dove si trovava la sede di Urbano II, riconosciuto dal regno di Francia così come da Anselmo stesso; non sembra che il re d'Inghilterra fosse incline a riconoscere l'autorità di Clemente III, ma insisteva affinché la decisione dell'arcivescovo di Canterbury di partire per Roma fosse subordinata al suo riconoscimento ufficiale di Urbano II, riconoscimento che si faceva attendere. Per dirimere la questione venne convocato a Rockingham, nel marzo 1095, un consiglio del regno in cui Anselmo, tenendo un discorso che rimane una testimonianza memorabile della dottrina della supremazia papale, ribadì la sua fedeltà a Urbano II come unico vero successore di Pietro.[12] Il concilio nazionale di Rockingham, che fu un momento di grande tensione tra i vescovi, i nobili e la monarchia dell'Inghilterra, fu per Anselmo una vittoria morale, ma per il momento la questione dell'investitura rimase insoluta.[11]  Anselmo, allora, inviò in segreto a Roma alcuni messaggeri.[33] Urbano II, in risposta, mandò a Canterbury un suo legato, Gualterio di Albano, per consegnare il pallio ad Anselmo in sua vece.[34] Guglielmo e Gualterio negoziarono in privato la questione, e infine il re acconsentì a riconoscere Urbano II come Papa in cambio del diritto di autorizzare o negare agli ecclesiastici la possibilità di ricevere lettere del papato; ottenne inoltre che Urbano non gli inviasse più alcun legato se non su esplicita richiesta. Guglielmo avrebbe anche voluto che Anselmo venisse deposto, ma finì per riconoscere l'autorità di papa Urbano II senza che ci fosse alcun avvicendamento per la carica di arcivescovo di Canterbury. Il re tentò allora di avere del denaro da Anselmo in cambio del pallio, ma senza esito; cercò anche di ottenere di poter consegnare personalmente il pallio all'arcivescovo, ma anche questo gli venne negato: si raggiunse un compromesso facendo in modo che Gualtiero, in rappresentanza del Papa, deponesse l'oggetto sacro sull'altare della cattedrale anziché consegnarlo ad Anselmo con le sue mani; Anselmo indossò quindi da solo il pallio nel corso di una cerimonia solenne che si tenne nella cattedrale di Canterbury nel giugno 1095.[35]  Nei due anni successivi non ci furono aperte dispute tra Anselmo e il re, anche se questi fece del suo meglio per impedire che Anselmo portasse avanti una riforma della Chiesa in senso gregoriano. Nel frattempo, nel 1094, Anselmo aveva ultimato la composizione dell'Epistola de incarnatione Verbi (Lettera sull'incarnazione del Verbo), il cui dedicatario era proprio Urbano II.[11]  Nel 1097, dopo l'insuccesso di una campagna militare diretta a sedare una rivolta in Galles, Guglielmo accusò Anselmo di avergli fornito una quantità insufficiente di truppe e gli ordinò di comparire presso il tribunale reale;[12] Anselmo rifiutò e chiese al re di potersi recare a Roma per chiedere consiglio al Papa, ma ciò gli venne negato.[36] Nel corso di un negoziato che si tenne a Winchester, Anselmo venne messo di fronte a due possibilità: partire, ma in questo caso non avrebbe più potuto fare ritorno al suo incarico di arcivescovo, o rimanere, ma avrebbe dovuto pagare un risarcimento a Guglielmo e rinunciare a ogni ulteriore appello a Roma.[36] Anselmo, deciso a difendere la visione di una Chiesa non sottomessa ad alcuna autorità terrena,[30] scelse l'esilio, e nell'ottobre 1097 lasciò l'Inghilterra diretto a Roma.[12] Guglielmo si impossessò immediatamente delle rendite della sede arcivescovile di Canterbury, anche se formalmente Anselmo conservò la carica di arcivescovo.[37]  Primo esilio  Ritratto di Anselmo nel Salone ducale del municipio di Aosta. Anselmo giunse a Cluny in dicembre, e passò il resto dell'inverno a Lione, presso il suo amico Ugo di Romans; nella primavera del 1098 riprese il viaggio, e attraversò il Moncenisio in compagnia di due confratelli. All'arrivo a Roma, Anselmo fu salutato dal Papa con grandi manifestazioni di stima e simpatia. Urbano II, che non voleva essere coinvolto più del necessario nelle vicende che contrapponevano Anselmo a Guglielmo II, non poté fare altro che indirizzare al sovrano inglese una lettera di rimostranze e l'invito a reintegrare l'arcivescovo nella carica.[12] Anselmo passò l'estate a Sclavia, presso il suo amico (già monaco a Bec e ora abate del monastero di Telese) Giovanni di Telese; qui terminò la sua opera Cur Deus homo (Perché Dio [si è fatto] uomo), che aveva iniziato in Inghilterra.[11]   Incisione della prima metà del XVI secolo raffigurante Anselmo d'Aosta. Anselmo trascorse quindi un periodo presso Capua, dove fu raggiunto da papa Urbano II. Questi, nell'ottobre 1098, indisse a Bari un concilio destinato a risolvere una questione dottrinale posta dalla Chiesa greca a proposito della processione dello Spirito Santo; più in generale, tra gli obiettivi del sinodo era quello di ricondurre a una comune posizione teologica i due grandi ceppi ecclesiastici venutisi a formare con lo scisma del 1054.[1] Ad Anselmo, che già si era espresso sull'argomento nell'Epistola de incarnatione Verbi,[11] fu chiesto di partecipare alla discussione e il Papa gli assegnò un ruolo importante nella disputa: espose infatti la posizione della Chiesa latina, secondo la quale lo Spirito Santo procede tanto dal Padre quanto dal Figlio, in modo così convincente da risolvere la disputa e persuadere i rappresentanti della Chiesa greca[1] (i suoi argomenti in seguito sarebbero stati raccolti nel testo De processione Spiritus Sancti, Sulla processione dello Spirito Santo). Anche il caso individuale di Anselmo venne sottoposto all'attenzione dell'assemblea, la quale avrebbe scomunicato Guglielmo se non fosse stato per l'intercessione di Anselmo stesso.[12]  Anselmo e i suoi compagni, a questo punto, sarebbero volentieri rientrati a Lione, ma venne loro ordinato di trattenersi in Italia per partecipare a un altro concilio, che doveva tenersi a Roma verso il periodo di Pasqua del 1099. Durante questo sinodo venne nuovamente ed energicamente sottolineata la posizione della Chiesa contro l'investitura del potere spirituale da parte dei laici,[30] contro la simonia e contro il concubinato dei religiosi.[1] A Roma si verificarono ulteriori attriti tra Urbano II e Guglielmo di Warelwast, rappresentante di Guglielmo II d'Inghilterra, con nuove minacce di scomunica al re se Anselmo non avesse riottenuto la sua carica; tuttavia, ancora una volta, la questione venne rimandata e, a causa della morte di Urbano in luglio, rimase di fatto insoluta.[11]  Infine, nel corso dello stesso anno 1099, Anselmo poté tornare a Lione; durante il soggiorno in questa città portò a compimento il trattato De conceptu virginali et originali peccato (Sull'Immacolata Concezione e sul peccato originale) e la Meditatio de humana redemptione (Meditazione sulla redenzione dell'uomo).[11]  Ritorno in Inghilterra sotto Enrico I Guglielmo II rimase ucciso durante una partita di caccia il 2 agosto dell'anno 1100. Gli succedette il fratello minore, Enrico I, il quale invitò Anselmo a tornare in Inghilterra e si impegnò a farne un suo consigliere.[38] Enrico cercava di ottenere l'appoggio di Anselmo nella propria rivendicazione del trono, a discapito, tra gli altri, del fratello maggiore Roberto.  Di ritorno, in settembre, Anselmo fu accolto con calore, ma il problema delle investiture si pose subito e in modo grave: il re, che pure inizialmente era stato del tutto conciliante, esigeva che Anselmo gli rendesse l'omaggio feudale[39] e che si assoggettasse a ricevere da lui l'investitura ad arcivescovo di Canterbury.[40] Anselmo non poteva tuttavia sottomettersi a queste richieste, dal momento che il papato (proprio con il recente concilio di Roma) aveva vietato agli ecclesiastici di rendere l'omaggio ai laici e di ricevere da questi l'investitura a cariche religiose.[12]  Enrico e Anselmo inviarono messaggeri a Roma a richiedere un'esenzione che consentisse al re di investire personalmente l'arcivescovo e di ottenerne l'omaggio.[12] Nel frattempo i due riuscirono a collaborare: Anselmo contribuì a rimuovere gli ostacoli al matrimonio di Enrico con Matilde di Scozia, l'erede dei sovrani di Sassonia, ostacoli dati dal fatto che Matilde era entrata in convento per qualche tempo pur senza prendere i voti; diede poi la sua personale benedizione a tale matrimonio[12] e rimase sempre in contatto epistolare con la nuova regina.[11] Inoltre, mentre l'Inghilterra era minacciata d'invasione da parte delle truppe di Roberto II di Normandia, Anselmo si schierò pubblicamente a favore di Enrico e, minacciando Roberto e i suoi sostenitori di scomunica, contribuì a volgere la situazione in favore del sovrano inglese, causando la ritirata del rivale.[12][41]  Papa Pasquale II, succeduto a Urbano II, non era intenzionato a derogare ai divieti del suo predecessore riguardo all'investitura da parte del potere laico e l'omaggio feudale.[41] Un nuovo gruppo di legati (due uomini di Anselmo e tre di Enrico) lasciò l'Inghilterra diretto verso la sede pontificia, nonostante alcuni ritardi dovuti all'impegno del re nel sedare la rivolta di Roberto II di Bellême; al loro ritorno i legati di Enrico, pur recando una lettera che continuava a sostenere le posizioni iniziali del pontefice, affermarono che Pasquale aveva acconsentito a un'eccezione nel caso di Enrico e Anselmo e che non aveva messo per iscritto questa decisione onde evitare di offendere gli altri sovrani europei. Tutto ciò fu però negato dai legati di Anselmo, il quale continuò a rifiutarsi di consacrare i vescovi investiti dal re.[11] Enrico chiese allora ad Anselmo di recarsi a Roma personalmente e questi, pur conscio di essere prossimo a un nuovo esilio, decise di partire per discutere la questione con il Papa.[12] Accompagnato dal funzionario del re Guglielmo di Warelwast, Anselmo lasciò l'Inghilterra il 27 aprile 1103.[11][42]  Secondo esilio Anselmo si trattenne a Bec sino quasi alla fine dell'estate per evitare di trovarsi a Roma nel periodo più caldo dell'anno; quando giunse nella sede pontificia e discusse con Pasquale II la questione dei rapporti tra potere temporale e spirituale, ottenne dal Papa ancora una volta una netta opposizione all'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e all'omaggio; l'ambasciatore del re d'Inghilterra, Guglielmo di Warelwast, non ebbe miglior successo. Sulla via del ritorno, a Lione, tra la fine del 1103 e l'inizio del 1104, Anselmo ricevette un messaggio di Guglielmo che interpretò come un invito a non tornare in Inghilterra se non con l'intenzione di (e l'autorizzazione a) ripristinare le pratiche dell'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e dell'omaggio. Anselmo dunque rimase a Lione, dove stese il De processione spiritus sancti.[11]  Anselmo si trattenne a Lione fino al marzo 1105, quando il Papa scomunicò Roberto di Beaumont, consigliere di Enrico I, che aveva insistito affinché il re continuasse a praticare l'investitura da parte di laici,[43] insieme ad altri prelati investiti da Enrico o da altri rappresentanti del potere temporale,[44] mentre si limitò, per il sovrano, a minacciare la scomunica.[11] Anselmo, che non sperava più in un aiuto concreto del Papa, si recò in Normandia per incontrare Enrico e minacciarlo personalmente di scomunica,[11][45] con lo scopo di costringerlo una volta per tutte a raggiungere un accordo sulla questione delle investiture.[46]  Anche grazie alla mediazione della sorella di Enrico, Adele d'Inghilterra, che Anselmo aveva assistito durante una malattia, l'arcivescovo e il re riuscirono a incontrarsi a l'Aigle nel luglio 1105 e raggiunsero un compromesso: la scomunica di Roberto di Beaumont e degli altri funzionari di Enrico I venne revocata (cosa che Anselmo fece grazie alla sua sola autorità, e di cui dovette poi rendere conto a papa Pasquale II)[43][47] a patto che essi tenessero sempre conto della volontà della Chiesa nel consigliare il re; inoltre Enrico avrebbe rinunciato al diritto di investire gli ecclesiastici se Anselmo avesse ottenuto dal Papa che agli ecclesiastici venisse consentito l'omaggio ai nobili laici; le entrate della sede arcivescovile di Canterbury furono restituite alla Chiesa e venne confermato il divieto per i sacerdoti di prendere moglie. Prima di tornare in Inghilterra, comunque, Anselmo volle che l'accordo fosse approvato dal Papa; questi, con una lettera del 23 marzo 1106, ratificò il compromesso: nonostante la rinuncia da parte del re al diritto di investitura costituisse un'importante vittoria per la Chiesa,[47] sia Anselmo che Pasquale consideravano il compromesso di l'Aigle come un accordo temporaneo, in vista di ulteriori azioni che, perseguendo gli obiettivi della riforma gregoriana, avrebbero dovuto abolire anche la pratica dell'omaggio degli ecclesiastici ai laici.[48] La lettera del Papa autorizzava Anselmo anche a revocare la scomunica di coloro che erano stati investiti da laici o che a laici avevano reso l'omaggio feudale, e lo invitava ad assolvere il re e la regina d'Inghilterra da tutti i loro peccati.[11]  Il ritorno di Anselmo a Canterbury comunque fu rimandato, anche a causa di alcuni problemi di salute dell'anziano arcivescovo; il 15 agosto Anselmo incontrò Enrico a Bec; il re aggiunse alle concessioni fatte anche la restituzione delle chiese confiscate a suo tempo da Guglielmo II e promise di risarcire il clero inglese dei danni economici patiti a causa della lotta per le investiture. Così, i due si riappacificarono.[11]  Ritorno in Inghilterra e ultimi anni Anselmo fece trionfale ritorno in Inghilterra nel 1107. Da un'assemblea dei vescovi e dei principi inglesi tenuta il 1º agosto risultò il "concordato di Londra", che formalizzava e annunciava pubblicamente il compromesso tra Enrico e Anselmo:[49] nessun vescovo avrebbe dovuto ricevere l'investitura da un laico, ma il fatto di aver reso l'omaggio a un laico non avrebbe impedito a nessuno di ricoprire la carica di vescovo. Le sedi vescovili e abbaziali vacanti (alcune delle quali erano vacanti ancora dai tempi di Guglielmo II) vennero assegnate, e Anselmo, riprese le funzioni di arcivescovo di Canterbury, consacrò tutti i nuovi vescovi.[11]  Anche nella fase finale della sua vita Anselmo continuò ad occuparsi dei doveri di arcivescovo e, contemporaneamente, a meditare e a scrivere testi di teologia, come il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio (Sulla compatibilità della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio con il libero arbitrio). Anselmo lavorò per innalzare il livello spirituale del regno e, in particolare, delle regioni dell'Irlanda e della Scozia; fu inoltre coinvolto in una disputa circa il primato dell'arcidiocesi di Canterbury su quella di York, disputa che non sarebbe stata superata (con la riaffermazione della supremazia di Canterbury) se non dopo la sua morte.[11]  Anselmo morì il 21 aprile 1109, mercoledì santo, e venne sepolto nella cattedrale di Canterbury. Le sue spoglie vennero però esumate durante i disordini a sfondo religioso che ebbero luogo durante il regno di Enrico VIII d'Inghilterra e se ne persero le tracce.[11]   La tomba di Anselmo all'interno della cattedrale di Canterbury. Il processo di canonizzazione di Anselmo fu avviato da Tommaso Becket (uno di coloro che ne continuarono l'opera volta a garantire l'indipendenza della Chiesa inglese dal potere politico) e venne portato a termine da papa Alessandro III nel 1163. Anselmo fu dichiarato dottore della Chiesa da papa Clemente XI il 3 febbraio 1720[50].  Pensiero Oltre ad aver svolto un importante ruolo politico nella disputa sulle investiture in Inghilterra, Anselmo d'Aosta fu anche un pensatore di grande spessore nell'ambito della filosofia cristiana medievale, considerato uno dei principali esponenti della riflessione di area europea[3], il principale filosofo dell'XI secolo[8][51] e il primo grande pensatore del Medioevo dopo Giovanni Scoto Eriugena[4].  Influenze Il lavoro di Anselmo è caratterizzato da una grande originalità e sono rari, nella sua opera, i riferimenti a pensatori del passato: ciò rende difficile identificare le influenze che hanno contribuito a dar forma al suo pensiero[15]. Posto che la fonte principale della riflessione di Anselmo è l'autorità della Bibbia, è tuttavia ugualmente possibile riconoscere nel neoplatonismo cristiano di Agostino d'Ippona un importante punto di riferimento; l'importanza dell'influenza di pensatori come Giovanni Scoto Eriugena e lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, un tempo considerata significativa, è oggi giudicata tutto sommato trascurabile, mentre si tende a evidenziare l'importanza rivestita da Aristotele e dal suo traduttore e commentatore Severino Boezio nel determinare certi aspetti dialettici della filosofia di Anselmo, oltre che, tra le altre cose, la sua concezione del male come privo di positività ontologica e la teoria dei futuri contingenti che garantiscono la compatibilità della prescienza di Dio con la libertà umana[52]. L'influenza del maestro Lanfranco probabilmente non fu, se non forse per l'interesse alla dialettica, determinante[15].  Rapporto tra ragione e fede Nella riflessione di Anselmo, che pure ha un carattere prevalentemente teologico, la ragione svolge un ruolo di fondamentale importanza: nella concezione anselmiana del rapporto che, per un buon filosofo cristiano, dovrebbe sussistere tra la ragione e la fede (cioè, sostanzialmente, tra la filosofia e la teologia) la dimensione della ricerca razionale ha infatti un posto molto rilevante[3].  Anselmo riteneva che il presupposto di ogni sapere dovesse essere necessariamente la fede nella rivelazione delle sacre scritture, e che, quindi, si dovesse credere per comprendere piuttosto che comprendere per credere ("credo ut intelligam")[53]; in altre parole sosteneva, ispirandosi alle parole di Isaia (7, 9) «se non hai fede, non capirai» ("nisi credideritis, non intelligetis")[54], che il fondamento di ogni conoscenza dovesse provenire dalla fede, e che solo su di essa potesse innestarsi il lavoro della ragione, volto all'approfondimento e alla comprensione dei dogmi[53].  Anselmo tuttavia riponeva grande fiducia nella capacità della ragione di portare avanti con successo questo suo ruolo di chiarificazione e comprensione dei dati di fede: come disse il medievista francese Étienne Gilson, egli giudicava «presunzione non mettere per prima cosa la fede, [...] negligenza non fare successivamente appello alla ragione»[53]. Dunque, benché fosse per lui impensabile sottomettere o subordinare i misteri della fede alla dialettica, cioè alla logica, Anselmo riteneva che fondandosi saldamente sulla rivelazione fosse possibile usare la ragione per approfondire la comprensione di tali misteri o, anche, per dimostrare inconfutabilmente la necessità di accettarli come tali[55]. In effetti per lui esistevano dogmi non suscettibili di esatta comprensione razionale, come ad esempio quello della Trinità, ma riteneva che fosse ugualmente possibile raggiungere, tramite ragionamenti per analogia, una parziale comprensione di tali dogmi e che, inoltre, fosse possibile provare razionalmente la necessità di abbracciarli[56]. Una significativa espressione anselmiana, che può essere considerata il suo motto filosofico, è «la fede in cerca della comprensione»[8]. Con ciò Anselmo intendeva riaffermare la priorità della fede e, parallelamente, l'opportunità di tentare di rischiarare i contenuti della rivelazione per mezzo della riflessione razionale, senza che la ragione prendesse il posto della fede e senza che la fede soffocasse la ragione[8].  Nella concezione anselmiana della fede aveva molta importanza la dimensione affettiva (cioè legata all'ambito della volontà): l'amore di Dio che alimenta la fede è in gran parte assimilabile a un amore per la conoscenza di Dio stesso, e dunque viene attribuita una notevole importanza alla ragione, in quanto veicolo di questa ricerca di conoscenza[8]. Alcuni commentatori evidenziano come nella riflessione di Anselmo gli elementi esistenziali e legati all'ambito morale siano strettamente interconnessi con quelli teoretici e legati all'ambito della ricerca razionale[57].  Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a posteriori: il Monologion Magnifying glass icon mgx2.svgMonologion. Benché concepisse la fede come fondamento di ogni conoscenza, Anselmo riteneva che un argomento razionale potesse convincere anche un non credente.[8] Nel suo primo scritto filosofico importante, il Monologion, Anselmo si pone dalla prospettiva di chi ignori la rivelazione cristiana o non vi creda e, adottando tale prospettiva, intende dimostrare l'esistenza di Dio e dedurre alcuni dei suoi attributi per mezzo di procedimenti razionali a posteriori (cioè basati su evidenze tratte dal mondo sensibile e sviluppate con procedimenti razionali).[3][53]  La dimostrazione dell'esistenza di Dio proposta da Anselmo nel Monologion è di ascendenza platonica,[58] ed è ispirata almeno in parte al neoplatonismo di Agostino d'Ippona.[59] Il fondamentale presupposto di tale prova infatti, a parte la constatazione che le cose del mondo sono caratterizzate da gradi diversi di perfezione, è la convinzione che se le cose sono più o meno perfette (o comunque presentano una certa caratteristica positiva con grado maggiore o minore di intensità), ciò dipende dal fatto che tali cose partecipano in maniera più o meno diretta di un ente assolutamente perfetto (o che comunque possiede quella certa caratteristica positiva al massimo grado).[59]   Iniziale miniata da un manoscritto del Monologion risalente al XII secolo. Tale idea viene sviluppata, per esempio, a proposito del bene: dal momento che possiamo constatare che esistono nella realtà molti beni, diversi tra loro e buoni in grado maggiore o minore, dobbiamo secondo Anselmo dedurne con certezza che essi sono buoni in virtù di un solo principio del bene assoluto, cioè a causa della loro partecipazione in diverso modo e in diverso grado di un unico sommo bene; tale bene è buono in sé e per sé, mentre ogni altra cosa è buona riferendola a quel bene che si colloca a un livello gerarchicamente superiore a ogni altro bene.[58]  Dopodiché, avendo dimostrato che deve esistere un ente che corrisponde al sommo bene, Anselmo applica il medesimo procedimento ad attributi come la perfezione e la stessa esistenza, così da provare che deve esistere qualcosa caratterizzato da assoluta perfezione e assoluta pienezza d'essere (e dal quale tutte le creature finite ricavano la loro misura di perfezione e di esistenza).[58]  Secondo Anselmo, tanto l'ente sommamente buono, quanto quello caratterizzato dal sommo grado di esistenza, quanto quello sommamente perfetto, coincidono con il Dio della rivelazione cristiana, la cui esistenza è quindi provata a partire da dati di esperienza come la gradazione del bene e della perfezione, e come il processo di causazione degli enti da un essere primo.[60]  La seconda parte, quantitativamente preponderante, del Monologion è dedicata all'analisi degli attributi, cioè delle caratteristiche, di Dio.[61] Alcuni di questi attributi divini (come la bontà, la perfezione e il ruolo di causa incausata di tutti gli esseri finiti) sono conseguenze immediate dell'argomento appena esposto. Tuttavia Anselmo intende spingersi oltre nella definizione degli attributi di Dio, e sostiene che la perfezione divina implica, per esempio, anche le caratteristiche di eternità e intelligenza.[58]  Alla luce del carattere creativo di Dio, dal quale dipende tutto l'esistente, Anselmo propone poi una rielaborazione della dottrina del Logos (Verbo),[15] tradizionalmente inteso come corrispondente alla seconda persona della Trinità (il Figlio) e come intermediario tra Dio e il Mondo, così come nella filosofia neoplatonica era intermediario tra l'Uno e il Mondo.[62] Anselmo giunge alla conclusione che ogni ente creato dal nulla esisteva, prima di essere creato, nella mente di Dio.[15] Pertanto Anselmo sostiene che nella mente di Dio esistono i modelli ideali su cui sono costruiti tutti gli enti finiti che risultano dalla creazione, e che la creazione consiste nell'atto con cui Dio pronuncia fra sé e sé il Verbo che è fondamento di tutte le creature.[58]  Anselmo, discutendo dell'analogia che sussiste tra il Verbo divino e il pensiero (o Logos) umano, sostiene che gli uomini conoscono le cose per mezzo di immagini delle cose stesse, e che tali immagini sono tanto più veritiere quanto più aderiscono alla cosa; simmetricamente, in Dio esiste il Verbo, che costituisce l'essenza delle cose, e le cose sono modellate su di esso.[15] La terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, viene identificata con la facoltà umana dell'amore. In Dio, afferma Anselmo, sussistono tre distinte persone che formano una sola essenza e una sola divinità;[15] questo può essere reso più comprensibile alla ragione per mezzo di un'analogia di origine agostiniana: come l'anima umana, pur essendo assolutamente unitaria, si compone di tre facoltà (memoria, intelligenza e volontà), così Dio, pur essendo assolutamente unitario, si compone di tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo).[63]  L'autore analizza poi altri modi per descrivere la sostanza divina, e propone di considerarla come ciò che c'è di più grande, di sommo, cioè maggiore di tutte le creature; o, ancora, come ciò che presenta tutte e sole le caratteristiche che è meglio avere piuttosto che non avere.[15] Con ciò, Dio comunque possiede tali caratteristiche in virtù di sé stesso, e non di altri principi; inoltre la molteplicità di tali caratteristiche non significa che Dio sia composito, dal momento che nell'essenza divina ogni attributo coincide con tutti gli altri e con la stessa essenza divina in una suprema unità e semplicità.[15]  Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a priori: il Proslogion Magnifying glass icon mgx2.svgProslogion e Argomento ontologico.  Statua di Anselmo ad Aosta, in via Xavier de Maistre. Sullo sfondo, i campanili della cattedrale di Aosta; a destra si intravede il seminario maggiore. (la) «Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit. Quoniam namque valet cogitari esse aliquid huiusmodi: si tu non es hoc ipsum, potest cogitari aliquid maius te; quod fieri nequit.» «O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, ma sei più grande di tutto quanto si possa pensare; poiché infatti è lecito pensare che esista qualcosa di simile. Se tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile.»  (Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 15, 235C) Anselmo rimase parzialmente insoddisfatto della dimostrazione dell'esistenza di Dio e dell'indagine sulle sue caratteristiche per come esse erano state condotte nel Monologion: egli aspirava infatti a costruire un argomento più semplice e interamente autosufficiente in grado di portare alle stesse conclusioni. Un simile argomento, ricercato affannosamente e infine trovato[64], venne esposto nel Proslogion (il cui titolo, originariamente, era stato Fides quaerens intellectum, cioè «la fede in cerca della comprensione»)[65][66].  L'argomento del Proslogion (noto anche, secondo una denominazione attribuitagli da Immanuel Kant, come argomento ontologico)[8] è del tipo a priori: è cioè basato su una definizione di Dio ricavata dalla fede e sviluppata secondo un procedimento razionale che aspira ad essere valido in sé, anteriormente a ogni dato di esperienza[66].  Schema logico dell'argomento ontologico Chi nega l'esistenza di Dio (come lo stolto del Salmo: «che disse in cuor suo: Dio non esiste».) deve avere il concetto di Dio non si può infatti negare la realtà di qualcosa che non si pensa neppure, per negarla devo pensarla avere il concetto di Dio significa: pensare un essere di cui non si può pensare nulla di maggiore ("aliquid quo nihil maius cogitari possit") ma poiché «si potrebbe pensare un ente che, oltre agli attributi riconosciuti proprî di Dio, possedesse anche quello dell'esistenza, e quindi fosse maggiore di lui.»[67] questa, allora, sarebbe un'idea maggiore di quella di Dio quindi, ciò di cui non possiamo pensare nulla di maggiore, essendo il maggiore di tutti gli enti, non può non avere la caratteristica dell'esistenza: esistere senza dubbio sia nell'intelletto sia nella realtà ("existit ergo procul dubio aliquid quo maius cogitari non valet, et in intellectu et in re")[68] L'argomentazione di Anselmo prende dunque le mosse dalla definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore». Egli sostiene che chiunque, incluso lo «stolto» che, secondo i Salmi (14, 1 e 53, 1) «disse in cuor suo: Dio non esiste»[65], comprende tale definizione, anche se non comprende che l'oggetto di tale definizione esiste; comunque, nel comprenderla, si forma mentalmente il concetto di un ente sommamente grande, del quale sia impossibile pensare qualcosa di maggiore.  Ora, sostiene Anselmo, il concetto di «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore» esiste nella mente dello «stolto» (o di chiunque altro) come nella mente del pittore esiste l'immagine di qualcosa che egli è in procinto di disegnare, ma che ancora non esiste al di fuori del suo pensiero.  Tuttavia, qualcosa che esiste solamente nella mente di qualcuno non è tanto grande quanto qualcosa che esiste anche nella realtà esterna, nel mondo effettivo delle cose: pertanto ciò di cui non può essere pensato nulla di maggiore non sarebbe tale se non fosse dotato di un'esistenza effettiva anche fuori dalla mente di chi si forma quel concetto. Il che conduce alla conclusione per cui esiste necessariamente qualcosa di cui non può essere pensato niente di maggiore[65][66], e che non può essere pensato se non come esistente[15]. Si tratta in fondo di una dimostrazione per assurdo[69], basata in gran parte sull'approccio apofatico della teologia negativa[70], in base al quale è doveroso per la mente umana riconoscere l'esistenza di Dio come suo limite[71].  (LA) «Sic ergo vere es, Domine, Deus meus, ut nec cogitari possis non esse; et merito. Si enim aliqua mens posset cogitare aliquid melius te, ascenderet creatura super Creatorem.» «Dunque esisti in modo così vero, o Signore, mio Dio, che non si può neppure pensare che non esisti. E giustamente. Se infatti una mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe sopra il Creatore.»  (Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 3, 228B-228C) Come il Monologion, il Proslogion contiene numerosi capitoli nei quali l'autore indaga gli attributi di Dio: partendo dalla definizione della divinità come ciò di cui non può essere pensato il maggiore, Anselmo conclude che Dio deve essere necessariamente l'essere supremo, e quindi supremamente buono, giusto e felice[72]. Sempre in relazione al Monologion, risulta ora tanto più giustificata l'idea che Dio debba essere caratterizzato da tutte le peculiarità che è preferibile avere piuttosto che non avere.[72]  In effetti risulta che un Dio come questo, che (in accordo anche con gli insegnamenti della Bibbia) è necessariamente onnipotente, deve essere impossibilitato a fare il male perché è anche assolutamente benevolo; questo non è però contraddittorio dal momento che, per Anselmo, la capacità di fare il male non è in realtà una vera potenza, quanto piuttosto un'impotenza (il che è coerente con la sua interpretazione del male come privazione, cioè come pura negazione dell'essere e del bene, non dotata di un'autonoma positività ontologica). Non deve quindi stupire, secondo lui, che Dio non possa fare il male o contraddirsi[72].  Nei capitoli conclusivi del testo, Anselmo ribadisce e approfondisce l'analisi degli attributi divini iniziata nel Monologion, aggiungendo inoltre un accenno all'identità di esistenza ed essenza in Dio il quale prefigurava, anche se da lontano, i risultati che avrebbe raggiunto più tardi Tommaso d'Aquino[73].  Le critiche di Gaunilone all'argomento ontologico e la risposta di Anselmo (LA) «Gratias ago benignitati tuae et in reprehensione et in laude mei opusculi. Cum enim ea, quae tibi digna susceptione videntur, tanta laude extulisti, satis apparet, quia, quae tibi infirma visa sunt, benevolentia, non malevolentia reprehendisti.» «Ringrazio della tua benevolenza, sia per le critiche sia per le lodi del mio opuscolo.[74] Poiché infatti hai tanto lodato quelle parti che ti sembravano degne d'essere accettate, risulta chiaro che hai censurato per benevolenza, non per malevolenza, quelle che ti sono apparse deboli.»  (Anselmo, Sancti Anselmi liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro insipiente, 10, 260B) Schema logico delle obiezioni di Gaunilone e la risposta di Anselmo nel suo Libro a difesa dello sciocco il monaco Gaunilone obietta:  in realtà l'ateo ha in mente solo la parola Dio non l'idea di Dio di cui è impossibile per la sua infinitudine avere una conoscenza sostanziale: ma anche ammesso di avere un'idea perfetta questo non significa che poi vi debba necessariamente corrisponderne l'esistenza: se così fosse basterebbe pensare alle mitiche perfette Isole Fortunate perché poi queste esistessero nella realtà. S.Anselmo controbatte che il suo argomento vale solo per quella realtà perfettissima che è Dio, in grado cioè non solo di riempire, ma di trascendere il pensiero stesso che lo ospita. Dio infatti non è soltanto «ciò di cui non si può pensare nulla di più grande» (id quo maius cogitari nequit), ma è anche «più grande di quel che si possa pensare» (quod maior sit quam cogitari):[75] l'ammissione dei propri limiti costringe l'intelletto umano a riconoscere una realtà ontologica che lo sovrasta.[76] Per spiegare come sia possibile che lo «stolto» neghi l'esistenza di Dio, nel Proslogion Anselmo afferma che chiunque dica «Dio non esiste» in realtà proferisce suoni completamente vuoti, parole di cui non comprende il senso, fermandosi ai segni senza cogliere i significati[77]. Gaunilone, un monaco benedettino contemporaneo di Anselmo, usò un argomento simile a questo per attaccare la prova a priori del Proslogion[78] in un testo intitolato Liber pro insipiente (Libro a difesa dello stolto); a Gaunilone Anselmo rispose nel Liber apologeticus adversus respondentem pro insipientem (Libro apologetico contro la risposta in difesa dello stolto) e da allora, per volontà dello stesso Anselmo, il Proslogion venne sempre riprodotto con il corredo di questa doppia appendice[79].  L'argomentazione del Liber pro insipiente, articolata su diversi punti e accompagnata da alcuni esempi, si può sintetizzare nell'osservazione di Gaunilone secondo cui il fatto di avere nell'intelletto un concetto come quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e di pensarlo come esistente, è profondamente diverso dal fatto che ciò di cui non può essere pensato il maggiore effettivamente esista: egli cioè sostiene che non si può passare direttamente dal piano del pensiero al piano dell'esistenza[80]. Aggiunge inoltre che quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» è un concetto inaccessibile a un intelletto umano, sostanzialmente superiore alle sue forze: chi ascolta e comprende tale concetto, afferma Gaunilone, non lo comprende in realtà più di quanto secondo Anselmo lo «stolto» comprende l'espressione «Dio non esiste»[78]; quindi pensare Dio come ciò di cui non può essere pensato il maggiore è possibile solamente a posteriori, e cioè questa concezione di Dio (di per sé giudicata legittima) deve essere sviluppata a partire da argomenti simili, per esempio, a quelli platonizzanti del Monologion[80].  Nella sua risposta alle obiezioni di Gaunilone (il quale peraltro loda il Monologion e tutte le parti del Proslogion diverse dall'argomento ontologico) Anselmo si stupisce di ricevere critiche da qualcuno che è uno stolto ma un cattolico. Rispondendo quindi «al cattolico», Anselmo ravvisa nelle parole di Gaunilone una certa confusione tra «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», limite innegabile del pensiero, e «la cosa più grande di tutte», che essendo un concetto impreciso può ancora essere negato senza cadere in contraddizione. Nella parte principale della sua replica alla replica Anselmo aggiunge che «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» non è un concetto incomprensibile per l'intelletto umano,[81] a meno di fingere di non capire il concetto stesso che si vuole negare, «perché se anche ci fosse qualcuno abbastanza sciocco da dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore non è niente, non sarà così impudente da dire di non riuscire a capire o pensare quel che sta dicendo. O se invece si trovasse qualcuno di questo genere, non solo il discorso è da respingere (respuendus), ma lui stesso da coprire di sputi (conspuendus)»[82]. L'esperienza delle cose del mondo, del resto, rende evidente che gli enti posseggono le diverse perfezioni in diversi gradi e che, dunque, è possibile stabilire una gerarchia di grandezza in cui di ogni cosa è possibile pensare qualcosa di maggiore finché si giunge a qualcosa di cui, appunto, non si può pensare niente di maggiore[83]. È stato fatto notare che con questa operazione, però, Anselmo dà parzialmente ragione a Gaunilone e riconduce la prova a priori del Proslogion alla prova a posteriori del Monologion, ammettendo che il concetto di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» si origina dall'esperienza[84][85]. In tal modo l'autosufficienza della prova del Proslogion può risultare compromessa, ma viene stabilita tra esso e il Monologion una continuità che fa delle due opere altrettanti momenti di un unico argomento per l'esistenza di Dio, in cui tale esistenza viene dimostrata inizialmente a partire da osservazioni empiriche, assicurando nel contempo la legittimità della definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e quindi viene dimostrato che a partire da tale definizione risulta che Dio non è concepibile se non come dotato dell'esistenza[72][84].  Anselmo dialettico: il De grammatico e gli altri scritti logici L'aspetto del pensiero di Anselmo legato alla logica (la quale nel Medioevo era indicata indifferentemente come dialettica o anche come grammatica, in una prospettiva paragonabile a quella della moderna filosofia del linguaggio) ha un'importanza non trascurabile, anche se tale importanza è stata rivalutata solo dalla critica della seconda metà del XX secolo[84].   Anselmo ritratto in una vetrata inglese. Anselmo considerava la logica uno strumento utile per il teologo: già nel Monologion il suo approccio si era caratterizzato per l'attenta disamina delle possibili ambiguità legate a espressioni come «[esistenza] per sé» e «[creazione dal] nulla», e anche nel Proslogion Anselmo aveva compiuto operazioni simili; ora, nel De grammatico, egli analizza nello specifico il problema della paronimia, ossia dello scambio di due parole dal suono simile ma prive di attinenza nel significato: si trattava di capire se la parola "grammatico" (così come tutti gli altri «denominativi», cioè quelle parole che derivano da una radice da cui differiscono solo per la desinenza, in questo caso "grammatica"), corrispondano a sostanze o qualità[86].  In effetti, sostiene Anselmo, pare ugualmente possibile sostenere che "grammatico" sia sostanza (essenza) o che sia qualità (accidente):[87] nel primo caso perché "grammatico" indica un uomo, e a ogni uomo corrisponde una sostanza; nel secondo perché "grammatico" indica una particolare caratteristica dell'uomo in questione. Anselmo afferma però che non ci troviamo di fronte a una contraddizione, dal momento che i due modi di intendere la parola si riferiscono a due punti di vista ben diversi: è infatti necessario, prosegue, distinguere la significatio di un termine, cioè il piano del suo significato, dalla sua appellatio, cioè il piano del suo riferimento. Pertanto "grammatico" è una significazione della grammatica, ma il suo riferimento è all'uomo[88]. Inoltre, aggiunge Anselmo, per se (cioè in modo diretto, cioè sul piano della significazione) la parola "grammatico" significa una qualità, ma può anche fare riferimento per aliud (cioè in modo indiretto, cioè sul piano del riferimento) a una sostanza[15][88]. Alcuni commentatori hanno rilevato che, con questo, Anselmo prefigurava la teoria della suppositio che sarebbe stata approfondita dai dialettici del XIII secolo e successivi[88].  In altre opere di carattere logico, abbozzate da Anselmo ma mai stese in forma compiuta, egli analizzava altre possibili ambiguità linguistiche legate all'uso di certe parole in filosofia e teologia: considerò con particolare attenzione i concetti e i termini necessitas ("necessità"), potestas ("potenza", "capacità"), voluntas ("volontà"), facere ("fare", ma anche "far fare", "patire") e aliquid ("qualcosa")[89].  Il problema del male, dell'onnipotenza divina e del libero arbitrio nella trilogia sulla libertà Nella cosiddetta «trilogia della libertà», composta dai dialoghi De veritate, De libertate arbitrii e De casu diaboli, Anselmo analizza le questioni etiche legate alla rettitudine[19] da un punto di vista teologico-dogmatico (analogo a quello che avrebbe adottato anche nelle opere successive) piuttosto che strettamente filosofico (come era stato invece quello adottato nei testi precedenti)[90].  La scelta della forma dialogica, debitrice in qualche misura della tradizione platonica ma non priva di una sua originalità d'interpretazione, era dovuta all'esigenza di rendere più vivace la discussione dei problemi teologici e al vantaggio di poter risolvere dialetticamente le difficoltà che via via si presentavano; essa inoltre corrispondeva al modo in cui Anselmo teneva le sue lezioni, le quali consistevano sostanzialmente in conversazioni tra gruppi ristretti di discenti legati da rapporti reciproci di confidenza che facilitavano il confronto di idee[91].  Il De veritate Magnifying glass icon mgx2.svgDe veritate (Anselmo d'Aosta). Il De veritate (primo in ordine logico, anche se non è chiaro in che ordine cronologico furono composte le tre opere) analizza in particolare il rapporto sussistente tra la virtù morale, la verità e la giustizia.[19]  Anselmo propone una teoria della verità in cui sono compresenti una matrice platonica (per cui la verità delle cose e delle affermazioni particolari risiede nella loro partecipazione alla verità in sé) e la tesi della verità come corrispondenza tra discorso e realtà (per cui la verità sta nell'aderenza delle asserzioni allo stato delle cose); la nozione di verità per come la intende Anselmo, quindi, è particolarmente ampia proprio perché per l'appunto essa è ricondotta sia alla corrispondenza di linguaggio e realtà sia all'aderenza di un'azione al suo fine teleologicamente proprio (che nel caso del linguaggio è esattamente quello di significare la realtà);[8] traducendosi in un più ampio concetto di rettitudine, la verità può quindi essere propria anche della volontà (la volontà vera è volontà retta) e delle azioni (le azioni vere sono azioni buone), oltre che dei sensi, delle essenze stesse delle cose eccetera.[8][15]  Tuttavia, aggiunge Anselmo, dal momento che tutte le cose veridiche devono trarre la loro verità da una verità suprema che, evidentemente, viene identificata con Dio, e dal momento che Dio è ugualmente fonte di tutta la verità e di tutto l'essere, tutto ciò che esiste deve esistere veridicamente e, quindi, rettamente; è qui che, data l'esperienza comune a tutti dell'esistenza del male, la questione acquisisce la sua importanza sul piano etico, dal momento che sorge per l'appunto il problema del male.[15]  La questione di come sia possibile che qualcosa di male accada a causa di (o nonostante) un Dio buono è risolta nel De Veritate osservando che, se i due termini opposti vengono considerati sotto rispetti diversi, l'apparente contraddizione tra l'esistenza del male e la bontà di Dio non è realmente problematica: Dio può permettere che il male esista senza causare il male, e d'altro canto quello che risulta malvagio in una prospettiva umana non è necessariamente malvagio in senso proprio. Anselmo sostiene che, come è possibile che un uomo riceva a buon diritto delle percosse benché per un certo altro uomo sia illegittimo somministrargliele, così è in generale possibile che essere l'oggetto passivo di un'azione sia male mentre esserne il soggetto attivo sia bene o viceversa; e, quindi, il problema di conciliare l'esperienza del male con un Dio onnipotente e buono si risolve se si considera che Dio e il male vengono considerati da due differenti punti di vista.[15]  In conclusione, Anselmo chiama verità quel particolare tipo di rettitudine che è percettibile solo alla mente; benché infatti in generale i concetti di verità, giustizia e rettitudine siano interscambiabili la verità ha un carattere proprio di retta intellezione, mentre la giustizia è legata più strettamente alla rettitudine della volontà.[15]  La rettitudine della volontà è poi direttamente collegata con l'aderenza del volere dell'uomo a quello di Dio, e la verità stessa ha la sua unità garantita dalla sua relazione con la verità suprema e assoluta di Dio: l'apparenza di molte verità particolari separate e indipendenti non toglie che ciascuna di esse sia vera unitamente a tutte le altre nella partecipazione a Dio.[15]  Il De libertate arbitrii Magnifying glass icon mgx2.svgDe libertate arbitrii. Il De libertate arbitrii è il testo della trilogia dedicato specificamente alla libertà della volontà dell'uomo in relazione alla sua facoltà di compiere il bene o di peccare e, in generale, al problema della grazia e del male.[92]  Fin dalle prime pagine dell'opera Anselmo rifiuta la definizione della libertà come la possibilità di scegliere senza condizionamenti se peccare o non peccare:[93] se, infatti, la facoltà di peccare rientrasse in tale definizione, la libertà vedrebbe irrimediabilmente compromesso il suo valore positivo (se, cioè, fosse la libertà a rendere possibile il peccato, essa non sarebbe più un carattere buono); e ne risulterebbe inoltre la conclusione assurda che Dio, non potendo fare il male (cioè non potendo peccare), non sarebbe libero.[72][92]  Anselmo sostiene al contrario che il peccato è dovuto non tanto alla libertà in sé quanto a una degenerazione della libertà; e aggiunge, alla luce di queste considerazioni, che la più opportuna definizione di libertà sarebbe quella per cui essa è «potere di conservare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa».[94] La libertà è dunque sostanzialmente la facoltà che ci consente non di perseguire ciò che vogliamo senza condizionamenti, ma di adeguare la nostra volontà a ciò che è giusto che noi vogliamo (a ciò che, in altre parole, sarebbe nostro dovere volere).[94] La libertà dunque è tanto più libera (tanto più corrispondente all'ideale di libertà) quanto più è retta.[96] Questo comunque non toglie che la volontà possa cedere a una tentazione: in questo caso essa si rivolgerà al peccato anziché alla grazia e lo farà non per costrizione da parte dei condizionamenti esterni, ma in modo autonomo;[96] tuttavia, stante la definizione che si è data sopra, questo non sarà un esempio di libertà ma un esempio di corruzione della libertà.  Infine Anselmo spiega che, in ogni caso, il modo in cui la libertà della volontà ci consente di volere ciò che è giusto che noi vogliamo (e di volerlo unicamente in virtù del fatto che è giusto che lo vogliamo) è legato strettamente all'intervento divino: in seguito alla caduta, infatti, all'uomo è preclusa la possibilità di agire bene in modo disinteressato con le sue sole forze (e, più in generale, un peccatore è incapace di risollevarsi senza aiuto)[97] ed è dunque solo con l'intercessione della grazia di Dio che la libertà si può esplicare al massimo delle sue potenzialità e può realmente condurre l'uomo verso Dio.[95] In conclusione l'autore propone una distinzione tra la libertà increata e interamente autonoma che è propria di Dio e la libertà creata che gli angeli e gli uomini ricevono da Dio; e ribadisce che la libertà pur imperfetta dell'uomo, aiutata dalla grazia, può e dovrebbe elevarsi a Dio.[98]  Il De casu diaboli Magnifying glass icon mgx2.svgDe casu diaboli. Il De casu diaboli tratta dei problemi legati alla rettitudine e alla libertà con particolare riferimento, come da titolo, alla caduta del diavolo[19] – cioè al momento della narrazione biblica in cui l'angelo Lucifero, avendo ricevuto da Dio una certa misura di esistenza (e dunque di bontà) e una volontà libera (cioè quella facoltà che gli avrebbe consentito di raggiungere la sua piena realizzazione adeguando la sua volontà a quella di Dio) scelse di non perseverare nel conservare la sua volontà aderente a quella divina, lasciò che la sua libertà si corrompesse e abbandonò quindi la rettitudine per tentare di assomigliare a Dio più di quanto fosse suo diritto. Anselmo dunque prende tale esempio come questione paradigmatica per un'analisi dell'origine e della natura del male.[100][101] La sua ricerca prende le mosse ancora una volta da un'attenta analisi logico-linguistica, volta in questo caso a chiarire il significato del termine nihil ("nulla"): afferma Anselmo che tale termine non indica, per il semplice fatto di esistere, una realtà positiva, e che anzi esso significa per negazione (sottraendo una proprietà e non aggiungendola). Il nulla dunque è un ente puramente razionale, perché "nulla" indica non tanto una realtà quanto la negazione di una realtà; ciò avviene, secondo un esempio riportato da Anselmo stesso, analogamente al modo un cui si dice di qualcuno che è cieco anche se la cecità non è tanto una facoltà quanto la negazione della facoltà della vista.[101]  Anselmo fa così propria la concezione, già espressa da un Agostino che l'aveva a sua volta mutuata dal neoplatonismo di Ambrogio,[102] del male come privazione, ovvero nega la positività ontologica del male stesso: come bisogna parlare del nulla come negazione dell'esistente e della cecità come negazione della vista, bisogna parlare del male come mancanza di bene. Dunque Lucifero, cui Dio aveva dato la facoltà di scegliere se perseguire la giustizia (adeguandosi alla volontà divina) o se perseguire la felicità (ribellandosi e tentando di sostituirsi a Dio) abbandonò la rettitudine e compì un moto di allontanamento da Dio; compì cioè un'ingiustizia che, però, non era nient'altro che una negazione della giustizia. Prendendo le mosse dall'esempio del diavolo, Anselmo dunque sviluppa la sua riflessione relativamente all'uomo: l'essere umano è creato da Dio ed è dotato da Dio stesso di una volontà libera, la cui piena realizzazione si ha nella conservazione della rettitudine – cioè nell'adesione alla legge che Dio, con un atto di grazia, dona all'uomo. Tuttavia al momento del peccato originale anche l'uomo, come già il diavolo, corrompe la sua libertà; e non gli è possibile tornare ad agire rettamente se non grazie a un nuovo dono di grazia da parte di Dio.[105] Come Anselmo avrebbe approfondito nel De concordia la volontà, che essendo libera ha facoltà (in potenza) di perseguire la rettitudine, non può di fatto (in atto) perseguire tale rettitudine se non in virtù del fatto di essere retta, e dunque il ruolo della grazia concessa da Dio è fondante. Un capolettera decorato da un manoscritto del Cur Deus homo del XII secolo. La necessità di un Dio-uomo redentore: il Cur Deus homo Magnifying glass icon mgx2.svg Cur Deus homo. Nel dialogo in due libri Cur Deus homo Anselmo spiega come, malgrado l'impossibilità dell'uomo di riparare al peccato di Adamo ed Eva contro Dio, Dio stesso si è riconciliato con l'umanità facendosi uomo.[106] Il testo contiene anche, come è reso inevitabile dal suo soggetto, un'apologia del dogma cristiano dell'incarnazione di Dio (che, per l'appunto, si è fatto uomo in Gesù) contro le critiche di ebrei e musulmani; tuttavia non è questo il suo tema principale, e in effetti il Cur Deus homo è un testo di ampio respiro che di fatto conclude, insieme al successivo De concordia, l'esposizione della visione teologica di Anselmo.Il testo si apre con una chiarificazione metodologica, in cui Anselmo ribadisce la sua posizione sul rapporto tra ragione e fede: come già si era riscontrato nel Monologion, e in accordo con la consueta dinamica dell'intellectus fidei (comprensione della fede), egli tratta sempre la fede come il necessario punto di partenza di ogni riflessione teologica ma giudica «negligenza» astenersi poi dal portare a compimento razionalmente tale riflessione. Dopodiché, Anselmo procede a spiegare il carattere necessario della volontà divina: Dio, sostiene l'autore, è dotato di una volontà spontanea e autonoma (non è cioè soggetto né a costrizioni né a impedimenti) ma tale volontà è talmente rigida nella sua assoluta immutabilità da far sì che essa possa essere considerata necessaria; si può dire, ad esempio, che è necessario che Dio non menta perché la volontà di Dio, tesa per sua stessa natura verso la verità (e da cui anzi la verità stessa trae la sua natura) è invariabile e incorruttibile nella sua costanza, e non può in alcun modo rivolgersi verso la menzogna.[109] Si è già visto che questa non può secondo Anselmo essere considerata una limitazione della potenza divina.  È proprio per via della necessità e assoluta immodificabilità del piano che Dio aveva predisposto per l'uomo all'inizio del tempo che, in seguito alla perdita dell'immortalità dovuta alla caduta di Adamo ed Eva, si è reso necessario un intervento di Dio per redimere l'uomo dal peccato originale e ripristinare tale immortalità (sotto forma della possibilità di vivere in eterno nell'altra vita).[110]  Dopodiché, risulta necessario che la remissione da parte di Dio dei peccati dell'uomo passi attraverso un'effettiva espiazione: se infatti Dio si riconciliasse con l'uomo con un atto di pura misericordia, senza che il peccato ricevesse una giusta e proporzionata punizione, il disordine generato dal peccato non verrebbe ricondotto all'ordine e, in generale, la legalità dell'universo morale umano e divino risulterebbe compromessa.[111] Bisogna dunque che l'uomo restituisca a Dio l'onore che peccando gli ha negato – anche se resta inteso che le azioni dell'uomo non aggiungono né tolgono nulla a Dio, dato che è impossibile privare dell'onore un Dio che coincide con lo stesso onore e con tutte le altre qualità positive: restituire a Dio l'onore che gli è dovuto significa semplicemente ripristinare la sottomissione, venuta meno con il peccato originale, della volontà umana a quella divina. Tuttavia l'uomo, che anche prima della caduta in quanto creatura era incapace di compiere il bene se non in virtù della partecipazione al bene supremo di Dio, non può espiare la sua colpa da solo: gli è impossibile rendere a Dio la giusta soddisfazione, perché la bontà di ogni azione di riparazione sarebbe comunque dovuta a Dio. È così che Anselmo dimostra che il salvatore dell'uomo deve necessariamente essere di natura divina; quindi egli procede ad argomentare che, per la precisione, egli deve essere un Dio-uomo.[112]  Risulta infatti che a rendere soddisfazione a Dio non può essere qualcuno che sia inferiore a Dio, e d'altra parte è necessario che ad espiare il peccato dell'uomo sia un uomo: pertanto le caratteristiche che le scritture attribuiscono a Gesù, vero uomo e vero Dio, partecipe in ugual modo e nello stesso tempo di entrambe le nature, sono esattamente quelle necessarie a spiegare razionalmente la redenzione dell'umanità[15] dal momento che, come scrive il filosofo Giuseppe Colombo, «Dio (per sé preso) non deve nulla a nessuno e l'uomo (per sé preso) non può nulla». Dunque Gesù, non macchiato dal peccato in virtù della sua natura divina e perciò privo di doveri e di debiti nei confronti di Dio, offrì volontariamente e liberamente la sua vita innocente a Dio stesso e così facendo, essendo uomo, espiò il peccato originale dell'umanità. La compatibilità di prescienza divina e libertà umana: il De concordia Il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio, l'ultima opera di Anselmo, è volto a dimostrare la compatibilità della prescienza divina, oltre che della predestinazione e della grazia, con il libero arbitrio dell'uomo. Un manoscritto del nord della Francia del De concordia, risalente alla metà del XII secolo. Il problema dell'apparente inconciliabilità della prescienza e della predestinazione divina con la libertà umana, che risulta dal fatto che pare impossibile prevedere (e a maggior ragione predeterminare) un fatto senza far venir meno il suo carattere libero e non necessario, è risolta da Anselmo con un duplice argomento. In primo luogo, egli osserva, bisogna distinguere la necessità ontologica da quella logica, dal momento che quella ontologica ha una priorità su quella logica: se infatti qualcosa è necessario ontologicamente (come il sorgere del sole) allora lo è anche logicamente (nel momento in cui il sole sorge, sorge necessariamente); tuttavia se qualcosa è necessario logicamente (nel momento in cui avviene, avviene necessariamente) può anche non essere necessario ontologicamente (è il caso, ad esempio, di una rivolta popolare).[115] In secondo luogo Anselmo propone una tesi già affermata da Agostino e da Boezio: la nostra concezione di predestinazione e predeterminazione è limitata alla nostra coscienza temporale delle priorità cronologiche, ma Dio si colloca in un'eternità al di fuori e al di sopra del tempo, in cui non «nulla è passato o futuro, ma tutto è simultaneamente e senza divenire»; pertanto, Dio conosce e determina gli eventi che per noi sono passati, presenti e futuri da una prospettiva sovratemporale in cui tali eventi sono tutti simultanei; stando così le cose, non c'è contraddizione tra il fatto che egli conosca o determini un evento libero in quanto libero (allo stesso modo di come vede o determina eventi necessari in quanto necessari). Il problema di conciliare la grazia di Dio con il libero arbitrio invece sorge dalla contrapposizione di coloro che da un lato, «superbi», considerano la virtù e quindi la salvezza suscettibili di essere raggiunte dalla sola libera volontà dell'uomo; e di coloro che, dall'altro lato, attribuiscono così tanta importanza alla grazia divina nella redenzione dell'uomo da negare addirittura la sua libertà.[117] Anselmo assume nella controversia una posizione intermedia, in cui cioè grazia e libertà vengono armonizzate: egli sostiene infatti che, come si era già visto nel De casu diaboli, per agire rettamente è necessario volere rettamente, e per volere rettamente è necessaria una retta volontà; tuttavia l'uomo non può darsi da solo tale rettitudine della volontà, poiché (mentre si può autonomamente conservare la rettitudine della volontà quando la si ha) non si può volere la rettitudine con il solo libero arbitrio quando non si ha una volontà retta;[118] e dunque se è vero che è Dio, per grazia, a dare all'uomo questa facoltà, è vero anche che sta alla libertà dell'uomo conservarla – i due aspetti non sono quindi contraddittori, bensì complementari.[117]  Il testo prosegue con un'analisi dei significati della parola "volontà" e delle sue interazioni con il concetto di giustizia, e si conclude con una ricapitolazione dei punti già trattati: l'autore ribadisce che la volontà, creata come ente positivo e quindi di per sé orientata a Dio e alla conservazione della sua originaria bontà, è stata corrotta dalla deviazione del volere dell'uomo per un cattivo uso della libertà; pertanto la volontà umana ha perso la rettitudine necessaria a volere rettamente, e ha bisogno che tale rettitudine sia ripristinata dalla grazia divina prima di poter ricominciare ad agire con giustizia, preservando grazie alla libertà la rettitudine della sua volontà.[118]  Altri scritti  Miniatura inglese del XII secolo di un capolettera delle Orationes sive meditationes. Anselmo d'Aosta fu autore di diversi altri scritti di carattere teologico, ma pur sempre animati da uno spirito filosofico: l'Epistola de incarnatione Verbi e il successivo De processione Spiritus Sancti trattavano del problema della processione dello Spirito Santo e delle modalità della sua incarnazione; il De conceptu virginali et de peccato originali analizzava le questioni dottrinali dell'Immacolata Concezione e del peccato originale, e inoltre ripercorreva ragionamenti già portati avanti nelle opere precedenti; a ciò si aggiungono meditazioni, preghiere e opuscoli minori, oltre a una serie di frammenti provenienti da un'opera non conclusa e a un De moribus (Sui costumi [morali]) in parte spurio che tratta delle affezioni dell'anima.[15]  Le preghiere scritte da Anselmo sono raccolte in un'opera nota come Orationes sive meditationes (Preghiere ovvero meditazioni); esse, scritte lungo tutta la vita dell'autore dal periodo di Bec all'episcopato inglese, costituiscono un ulteriore esempio dell'ideale anselmiano di comprensione della fede: benché orientate più alla contemplazione e al raccoglimento spirituale che alla vera e propria filosofia o teologia, il loro scopo è infatti quello di suscitare nel lettore quel sentimento rivolto verso la verità e la rettitudine che è necessario presupposto tanto della teoresi quanto della stessa vita buona.[119]  Di Anselmo si è poi conservato un epistolario particolarmente significativo, che testimonia in modo efficace sia della sua personalità che della sua figura pubblica: risulta infatti chiaramente, da una parte, l'affetto, la carità, la sensibilità e la ferma pazienza che Anselmo infondeva nelle lettere ai monaci suoi amici e suoi discepoli; e dall'altra la sua determinazione nelle faticose e a volte frustranti questioni politiche legate alla sua posizione di arcivescovo. Esercita un'influenza estremamente significativa sulla storia della filosofia sia. La sua riflessione giunse a livelli di estrema profondità in tutti i campi in cui si espresse, anche se è forse vero che tali campi furono relativamente pochi. Infatti alla sua filosofia, estremamente raffinata dal punto di vista dialettico, fa difetto un'approfondita analisi del campo della filosofia della natura – la quale sarebbe stata necessaria per poter dire che le riflessioni di Anselmo formano un sistema forganico e completo. La discussione di Anselmo di certi problemi come quelli della libertà e del male, ebbe la sua risonanza nella filosofia, venendo ripresa ad esempio da Riccardo di San Vittore. L’'attenzione di Anselmo per la dimensione logico-dialettica della filosofia fa poi di lui, secondo alcuni critici, un precursore della filosofia scolastica. D'altra parte le pagine più famose della sua opera sono certamente quelle in cui, nel “Proslogion” egli espone il suo argomento a priori per la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Esse, considerate un punto di riferimento di importanza capitale per la storia della filosofia, genera una mole di saggi sia critici che apologetici. A  proposito della rilevanza dell'argomento di Anselmo, le sue implicazioni sono tanto ricche che il solo fatto di averle ammesse o rifiutate è sufficiente a determinare il gruppo a cui una filosofia appartiene. Ciò che è comune a tutti coloro che l'ammettono è l'identificazione dell'essere reale con l'essere intelligibile concepito col pensiero. Ciò che è comune a tutti coloro che ne condannano il principio è il rifiuto di porre un problema d'esistenza separato da un dato esistente empiricamente. Dopo Gaunilone, che fu praticamente l'unico a mostrare interesse per il cosiddetto argomento ontologico durante la vita di Anselmo, esso venne citato da Guglielmo d'Auxerre e ripreso criticamente da diversi altri pensatori nel XIII secolo, tra cui i più degni di nota sono Aquino e Fidanza. Aquino contesta la validità di tale dimostrazione, Fidanza la difese. Oltre a Fidanza, altri dottori della Chiesa, tra cui Enrico di Gand e Alberto Magno, accettarono la prova anselmiana. Nel Medioevo anche Alessandro di Hales e Duns Scoto si espressero sull'argomento, entrambi condividendolo, anche se Duns Scoto sostenne che la formulazione sarebbe stata più appropriata se anziché dal concetto di dio Anselmo fosse partito dal concetto d’ente. Cartesio riprese a sua volta l'argomento, considerandolo valido e apprezzando la sua indipendenza da considerazioni di carattere empirico, disinteressandosi però di quegli aspetti della prova anselmiana che implicavano la necessaria trascendenza di Dio come fondamento del suo argomentare.[129] Passando tramite Cartesio, una dimostrazione simile alla prova a priori di Anselmo entrò anche nel sistema metafisico dell'Ethica di Spinoza, il quale dimostrava l'esistenza della sostanza (poi identificata con Dio stesso) sulla base del fatto che, per la definizione stessa della sostanza, la sua essenza implica l'esistenza. Leibniz sostenne la validità in sé della dimostrazione, ma contesta un'apparente leggerezza da parte di Anselmo. Leibniz riconosce infatti che l'autore del Proslogion in effetti dimostra che, SE Dio (inteso come l'essere massimamente perfetto) è possibile, allora è necessario, ma sosteneva che non avesse dimostrato che è possibile se non con argomenti a posteriori. L’argomento fu oggetto di critiche da parte di Hume e soprattutto di Kant: quest'ultimo in particolare, nella Critica della ragion pura, evidenzia che l'esistenza non può essere considerata un predicato (non senza cadere nelle contraddizioni messe in evidenza dai filosofi della scuola di Velia) e che, dunque, non si può dire che l'esistenza è un predicato positivo che un Dio di cui non può essere pensato il maggiore non potrebbe non avere. Hegel torna a difendere la dimostrazione di Anselmo affermando che in Dio essenza ed esistenza coincidono, e che la distinzione tra le due è tipica esclusivamente del mondo materiale. Secondo Russell, l'argomento è ancora alla base del sistema di Hegel e dei suoi seguaci, e riappare nel principio di Bradley. Ciò che può essere e dev'essere, è. La dimostrazione anselmiana piacce inoltre a Gioberti e Rosmini, che se ne appropriarono modificandola. La critica si è rivolta soprattutto all'analisi del rapporto tra fede e ragione negli scritti di Anselmo e si è interrogata sulla misura in cui le singole opere dovrebbero essere considerate filosofiche. Si è inoltre discusso sul valore della logica costruita da Anselmo e sono state analizzate le implicazioni esistenziali, con particolare riferimento al problema del peccato e della salvezza e al concetto di rettitudine. Barth vede Anselmo tra i suoi principali punti di riferimento, ed è stato un attento studioso della sua filosofia. Sono altresì degne di nota le rivisitazioni della prova anselmiana, con l'intento di emendarla da aporie ed equivoci logici, operate da Hartshorne e Malcolm. Di diverso tenore l'analisi di Findlay, che ha mosso una critica serrata, sotto il profilo linguistico, alla nozione di dio come ente assoluto utilizzata da Anselmo. In occasione dell'ottavo centenario della morte di Anselmo, il 21 aprile 1909, papa Pio X promulgò l'enciclica Communium Rerum in cui ne celebra la figura e ne promuoveva il culto. Papa San Giovanni Paolo II nell'enciclica Fides et ratio guardava alla prova ontologica di Anselmo come a un modello di quella complementarità imprescindibile tra fede e ragione, grazie a cui l'armonia fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta. Altre opere: “Monologion”; “Proslogion”; “De grammatico”; De veritate”; “De libertate arbitrii”; “De casu diaboli”; “Epistola de incarnatione Verbi”; “Cur Deus homo”; “De conceptu virginali et de peccato originali”; “Meditatio de humana redemptione”; “De processione Spiritus Sancti”; “Epistola de sacrificio azymi et fermentati”; “Epistola de sacramentis Ecclesiae”; “De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio”; “De potestate et impotentia, possibilitate et impossibilitate, necessitate et libertate:; “Orationes sive meditationes Epistolae. Fabio Arduino, Sant'Anselmo d'Aosta, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati. Probabilmente ad opera dell'arcivescovo Tommaso Becket su delega di papa Alessandro III del 9 giugno 1163 (in Inos Biffi, Anselmo d'Aosta e dintorni: Lanfranco, Guitmondo, Urbano II, Editoriale Jaca Book, 2007,325  Stefano Simonetta, Anselmo d'Aosta, in Franco Trabattoni, Antonello La Vergata, Stefano Simonetta, Filosofia, cultura, cittadinanza – La filosofia antica e medievale, Firenze, La Nuova Italia, Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, Firenze, La nuova Italia, 1973,290.  Anselmo d'Aosta, La caduta del diavolo, a cura di Elia Giacobbe, Giancarlo Marchetti, Milano, Bompiani, 2006,39,88-452-5670-7. Butler's Lives of the Saints, a cura di Michael Walsh, New York, HarperCollins Publishers, 1991,117,0-06-069299-5. St. Anselm's Proslogion, a cura di M. J. Charlesworth, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 2003,9. Greg Sadler, Saint Anselm, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. URL consultato il 15 agosto 2012. Peter King, (St.) Anselm of Canterbury (PDF), su UTORweb. URL consultato il 15 agosto 2012. R. Southern, St. Anselm: Portrait in a Landscape, Cambridge University Press, 1992,8.  Tullio Gregory, Franziskus S. Schmitt, Anselmo d'Aosta, Santo, su Dizionario Biografico degli Italiani Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 24 agosto 2012. William Kent, St. Anselm – Catholic Encyclopedia, su Wikisource, 1913. URL Southern,32.  Charlesworth,10. Thomas Williams, St. Anselm of Canterbury, su Internet Encyclopedia of Philosophy. URL consultato il 15 agosto 2012. Sally Vaughn, St Anselm of Canterbury: the philosopher-saint as politician, in Journal of Medieval History, n. 1, 1975,282.  Charlesworth,16.  Vaughn 1975,281.  Giacobbe, Marchetti,7.  Charlesworth,15. Frank Barlow, William Rufus, University of California Press, 1983,298-299,0-520-04936-5. Sally Vaughn, St. Anselm: Reluctant Archbishop?, in Albion: A Quarterly Journal Concerned with British Studies, 6:3, autunno 1974,245.  Vaughn 1974,246.  Vaughn 1975,286.  Vaughn 1974,248.  Vaughn 1974,240.  Vaughn 1975,287. Sally Vaughn, Robert of Meulan and Raison d'État in the Anglo-Norman State, 1093–1118, in Albion: A Quarterly Journal Concerned with British Studies, 10:4, 1978,357.  Gilson,306-310.  Vaughn 1975,293. Sally Vaughn, Anselm: Saint and Statesman, in Albion: A Quarterly Journal Concerned with British Studies, 20:2, 1988,205.  Clemente III antipapa, su Enciclopedia Treccani on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 15 dicembre 2013.  Vaughn 1978,357.  Vaughn 1975,289.  La Catholic Encyclopedia riporta la data del 10 giugno; l'enciclopedia Treccani riporta la data del 6 giugno.  Vaughn 1975,292.  Vaughn 1978,360. Sally Vaughn, St. Anselm and the English Investiture Controversy Reconsidered, in Journal of Medieval History, n. 6, 1980,63. C. Warren Hollister, The Making of England: 55 B.C. to 1399, Lexington, D. C. Heath and Company, 1983,120.  Vaughn 1980,67.  Vaughn 1975,295.  Vaughn 1980,71.  Vaughn 1978,367.  Vaughn 1980,74.  Charlesworth,19-20.  Vaughn 1980,75.  Vaughn 1980,76.  Vaughn 1975,296-297.  Vaughn 1980,82.  Giuseppe de Novaes, Elementi della storia de' sommi pontefici, Rossi, Siena 1805, tomo XI,179.  Amedeo Vigorelli, Anselmo d'Aosta. In Fabio Cioffi, Giorgio Luppi, Stefano O'Brien, Amedeo Vigorelli, Emilio Zanette, Diálogos – La filosofia antica e medievale, Milano, Bruno Mondadori, 2000,232,88-424-5259-9.  Giacobbe, Marchetti,15-18.  Gilson,291.  Karen Armstrong, Storia di Dio. 4000 anni di religioni monoteiste, Milano, CDE, 1997,217,non esistente.  Gilson,292-293.  Giuseppe Colombo, Invito al pensiero di Sant'Anselmo, Milano, Mursia, 1990,106,88-425-0707-5.  Colombo,56.  Simonetta,476.  Gilson,293.  Gilson,294-296. Thomas Williams, Introduction to the Monologion and Proslogion (PDF), su University of South Florida. URL consultato il 9 settembre 2012.  Tale interpretazione nacque dalla sintesi neoplatonico-cristiana operata da Agostino. Si veda Simonetta,440.  Simonetta,442 e 476.  Colombo,44.  Gilson,296.  Simonetta,477.  G. C., Enciclopedia Italiana (1935), alla voce "argomento ontologico"  Proslogion, cap. II.  Che l'argomento di Anselmo consista principalmente in una reductio ad absurdum è stato evidenziato soprattutto da Alvin Plantinga, esponente della filosofia analitica, in A. Plantinga, The nature of necessity, cap. X,196-221, Oxford University Press, 1974.  Karl Barth fa notare in proposito che Anselmo non attribuisce a Dio alcun contenuto positivo, enunciando il suo argomento più che altro come regola del pensiero, come divieto di pensare in modo inappropriato (K. Bart, Filosofia e rivelazione [1931], trad. di V. Vinay,123 e segg., Silva, Milano 1965).  Coloman Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della formula dialettica del Proslogion, Jaka Book, 2000.  Simonetta,479.  Colombo,53.  A proposito della disputa sull'esistenza di Dio, avuta col benedettino Gaunilone.  Proslogion, cap. 15, Opera Omnia, I, 112.  Cfr. Coloman Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della formula dialettica del Proslogion , Jaka Book, 2000.  Colombo,52.  Simonetta,478.  Colombo,56-57.  Colombo,57-58.  Per Anselmo, infatti, anche il sole non è fissabile direttamente dallo sguardo, eppure attraverso la luce del giorno riusciamo benissimo a vedere la sua stessa luce (cfr. Monologio e Proslogio, a cura di Italo Sciuto,296, Bompiani, 2002).  «Nam etsi quisquam est tam insipiens, ut dicat non esse aliquid, quo maius non possit cogitari, non tamen ita erit impudens, ut dicat se non posse intelligere aut cogitare, quid dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo sermo eius est respuendus, sed et ipse conspuendus» (Liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro insipiente, 9, 258C).  Colombo,59-60.  Colombo,61.  Simonetta,478-479.  Colombo,61-62.  Colombo,62-63.  Colombo,63.  Colombo,64-67.  Colombo,67.  Giacobbe, Marchetti,7-8.  Colombo,73.  Tale definizione era stata proposta da Giovanni Scoto Eriugena. Si veda Simonetta, 479.  Colombo, 74.  Simonetta, 490.  Colombo,75.  Colombo, 75-76.  Colombo,73, 76.  Colombo,76-77.  Giacobbe, Marchetti,10.  Colombo,77.  Il quale l'aveva a sua volta ricavata da Plotino e Porfirio. Si veda Simonetta,440.  Colombo,78.  Su questi argomenti Anselmo si esprimeva anche nel De concordia. Si veda Colombo,79.  Colombo,79.  Colombo,80.  Colombo,81-82.  Colombo,82.  Colombo,82-23.  Colombo,82, 84.  Colombo,85.  Colombo,86.  Colombo,86-87.  Colombo,87.  Colombo,88.  Simonetta,480.  Colombo,89.  Colombo,91.  Colombo ,95.  Colombo,91-95.  Gilson,303.  Gilson,302-303.  Colombo,135.  Colombo,132.  Gilson,298.  Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, vol. 1, Torino, Paravia, Diego Fusaro, Anselmo d'Aosta, su Filosofico.net. URL consultato il 16 novembre 2012.  Colombo,132-133.  Francesco Tomatis, L'argomento ontologico: l'esistenza di Dio da Anselmo a Schelling,56-57, Città Nuova, 2010: mentre Anselmo intendeva mostrare la contraddizione logica di chi rinnega la fede in Dio, la preoccupazione di Cartesio è garantire l'autonomia interna del pensiero privandolo di sbocchi al trascendente. È stato rilevato come Cartesio sia caduto in fondo nello stesso errore di Gaunilone, concependo Dio soltanto in termini positivi come «il più grande di tutti» (maius omnibus), anziché in maniera negativa (nihil maius, «niente di più grande»): cfr. Virgilio Melchiorre, La via analogica,10-11, nota 18, Vita e Pensiero, 1996. Nello stesso equivoco sarebbe caduto Hegel (A. Molinaro, Anselmo, Hegel e l'argomento ontologico, in AA.VV., L'argomento ontologico, «Archivio di filosofia»,353-370, 1-3, 1990).  Emanuela Scribano, Guida alla lettura dell'"Etica" di Spinoza, Roma-Bari, Laterza, 2008,17-18,978-88-420-8732-8.  Colombo,133.  Piergiorgio Odifreddi, Il diavolo in cattedra – La logica da Aristotele a Gödel, Torino, Einaudi, 2003,272,88-06-18137-8.  Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, traduzione di Luca Pavolini, Milano, Longanesi, 1966,548.  Giovanni Rossignoli, Disegno storico-teorico della filosofia, Torino, Società Editrice Internazionale, 1933,72.  Colombo,134-136.  Vincent G. Potter, Karl Barth and the Ontological Argument, in The Journal of Religion, vol. 45, Alessandro Caretta e Luigi Samarati, Introduzione al pensiero di Anselmo d'Aosta, in Anselmo d'Aosta, Una scorciatoia all'assoluto: Proslogion, Novara, Europía, 1994,45-46,non esistente. Communium Rerum, su Papal Encyclicals Online. URL consultato il 25 novembre 2012.  Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 42. Bibliografia Fonti storiche (LA) Eadmero di Canterbury, Vita et conversatio Anselmi, Edimburgo, 1962.Vita di S. Anselmo, Milano, 1987. (LA) Eadmero di Canterbury, Historia novorum in Anglia, Londra, 1965. (LA, EN) Richard William Southern e Franziskus S. Schmitt (a cura di), Memorials of St. Anselm, London, Oxford University Press, 1969. Opere di Anselmo (LA) Opera omnia, a cura di Franziskus S. Schmitt, Edimburgo, Thomas Nelson and Sons, 1946-1961. (Sei volumi). (LA, DE) Franciscus Salesius Schmitt, Ein neues unvollendetes Werk des heilige Anselm von Canterbury, in Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters, Vol. XXXIII, No. 3, Munster, Aschendorf, 1936,22–43. Traduzioni italiane Opere filosofiche, a cura di Sofia Vanni Rovighi, Bari, Laterza, 2008. De potestate et impotentia, possibilitate et impossibilitate, necessitate et libertate, in Linguistica medievale, traduzione di Francesco Corvino, a cura di Francesco Corvino et al., Bari, Adriatica, 1983,189-229. Introduzioni generali Luigi Catalani e Renato de Filippis (a cura di), Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, Turnhout, Brepols Publishers, Alessandro Caretta e Luigi Samarati, Introduzione al pensiero di Anselmo d'Aosta, in Anselmo d'Aosta, Una scorciatoia all'assoluto: Proslogion, Novara, Europía, 1994,non esistente. Giuseppe Colombo, Invito al pensiero di Sant'Anselmo, Milano, Mursia, 1990,88-425-0707-5. Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, Firenze, La nuova Italia, 1973. Enrico Rosa, Anselmo d'Aosta, Enciclopedia Biografica Universale, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2006. Stefano Simonetta, Anselmo d'Aosta, in Franco Trabattoni, Antonello La Vergata, Stefano Simonetta, Filosofia, cultura, cittadinanza – La filosofia antica e medievale, Firenze, La Nuova Italia,978-88-221-6763-7. Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Anselmo d'Aosta, Roma-Bari, Laterza, Karl Barth, Anselmo d'Aosta. Fides quaerens intellectum, a cura di Marco Vergottini, Brescia, Morcelliana, Louis Girard, L'Argument ontologique chez Saint Anselme et chez Hegel, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1995,90-5183-620-1. Arrigo Levasti, S. Anselmo, vita e pensiero, Bari, Laterza, 1929. Enzo Maragliano, Anselmo d'Aosta, Milano, Ancora, Vincenzo Poletti, Anselmo d'Aosta filosofo mistico, Faenza, tipografia F.lli Lega, 1975. Italo Sciuto, La ragione della fede. Il Monologion e il programma filosofico di Anselmo di Aosta, Genova, 1991,978-88-211-9568-6. R. W. Southern, Anselmo d'Aosta: ritratto su sfondo, Milano, Jaca Book, 1998 [1963],978-8816404595. Gianmarco Bisogno, Anselmo in Italia: tra Mario Dal Pra e Sofia Vanni Rovighi, in «Dianoia. Rivista di filosofia del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell'Università di Bologna», 29 (2019),181– 201. Bibliografie Klaus Kienzler, International Bibliography: Anselm of Canterbury, Lewiston, New York, Edwin Mellen Press, 1999.Terry L. Miethe, The Ontological Argument: A Research Bibliography, in The Modern Schoolman, n. 54. Voci correlate Agostino d'Ippona Chiesa cattolica Cristianesimo Eadmero di Canterbury Filosofia medievale Gaunilone Libero arbitrio Lotta per le investiture Problema del male Prova ontologica Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Anselmo d'Aosta Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Anselmo d'Aosta Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Anselmo d'Aosta Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Anselmo d'Aosta Collegamenti esterni Anselmo d'Aosta, su sapere, De Agostini.Anselmo d'Aosta, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Anselmo d'Aosta, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Anselmo d'Aosta, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Anselmo d'Aosta, su Find a Grave.Opere di Anselmo d'Aosta, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Anselmo d'Aosta / Anselmo d'Aosta (altra versione), su Open Library, Internet Archive.Anselmo d'Aosta, su Goodreads.(FR) Bibliografia su Anselmo d'Aosta / Anselmo d'Aosta (altra versione), su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Anselmo d'Aosta, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.David M. Cheney, Anselmo d'Aosta, in Catholic Hierarchy.Anselmo d'Aosta, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.Paul Halsall, Medieval Sourcebook: Philosophers' Criticisms of Anselm's Ontological Argument for the Being of God, su Fordham University, 1998. URL consultato il 12 novembre 2017.Peter King, (St.) Anselm of Canterbury (PDF), su UTORweb. URL consultato il 12 novembre 2017.Thomas Williams, Saint Anselm, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. URL consultato il 12 novembre 2017.Greg sadler, St. Anselm of Canterbury, su Internet Encyclopedia of Philosophy. URL consultato il 12 novembre 2017.Saint Anselm Journal, su Saint Anselm College. URL consultato il 12 novembre 2017.William Kent, St. Anselm – Catholic Encyclopedia, su Wikisource, 1913. URL consultato il 12 novembre 2017. (LA) 1033-1109 – Anselmus Cantuariensis – Operum Omnium Conspectus seu 'Index of available writings', su Documenta Catholica Omnia. URL consultato il 12 novembre 2017. PredecessoreArcivescovo di CanterburySuccessoreArchbishcantarms.png Lanfranco di Pavia (1070-1089)1093-1109 Ralph d'Escures V · D · M Anselmo d'Aosta V · D · M Padri e dottori della Chiesa cattolica V · D · M Ordine di San Benedetto V · D · M Santi della Legenda Aurea di Iacopo da Varagine WorldCat Identitieslccn-n50024763 Biografie Portale Biografie Cristianesimo Portale Cristianesimo Filosofia Portale Filosofia Medioevo Portale Medioevo Wikimedaglia Questa è una voce di qualità. È stata riconosciuta come tale il giorno 24 luglio 2015 — vai alla segnalazione. Naturalmente sono ben accetti altri suggerimenti e modifiche che migliorino ulteriormente il lavoro svolto. Segnalazioni  Criteri di ammissione Voci di qualità in altre lingue  Categorie: Teologi franchiFilosofi franchiArcivescovi cattolici franchiMorti nel 1109Morti il 21 aprileNati ad AostaMorti a CanterburyArcivescovi di CanterburyDottori della Chiesa cattolicaMonaci cristiani franchiPersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Santi benedettiniSanti del XII secoloSanti franchiSanti per nomeAbati benedettiniScrittori medievali in lingua latina. anselmo  “I would call him ‘Canterbury,’ only he was an Italian!”H. P. Grice. Saint, called Anselm of Canterbury, philosopher theologian. A Benedictine monk and the second Norman archbishop of Canterbury, he is best known for his distinctive method  fides quaerens intellectum; his “ontological” argument for the existence of God in his treatise Proslogion; and his classic formulation of the satisfaction theory of the Atonement in the Cur Deus homo. Like Augustine before him, Anselm is a Christian Platonist in metaphysics. He argues that the most accessible proofs of the existence of God are through value theory: in his treatise Monologion, he deploys a cosmological argument, showing the existence of a source of all goods, which is the Good per se and hence supremely good; that same thing exists per se and is the Supreme Being. In the Proslogion, Anselm begins with his conception of a being a greater than which cannot be conceived, and mounts his ontological argument that a being a greater than which cannot be conceived exists in the intellect, because even the fool understands the phrase when he hears it; but if it existed in the intellect alone, a greater could be conceived that existed in reality. This supremely valuable object is essentially whatever it is  other things being equal  that is better to be than not to be, and hence living, wise, powerful, true, just, blessed, immaterial, immutable, and eternal per se; even the paradigm of sensory goods  Beauty, Harmony, Sweetness, and Pleasant Texture, in its own ineffable manner. Nevertheless, God is supremely simple, not compounded of a plurality of excellences, but “omne et unum, totum et solum bonum,” a being a more delectable than which cannot be conceived. Everything other than God has its being and its well-being through God as efficient cause. Moreover, God is the paradigm of all created natures, the latter ranking as better to the extent that they more perfectly resemble God. Thus, it is better to be human than to be horse, to be horse than to be wood, even though in comparison with God everything else is “almost nothing.” For every created nature, there is a that-for-which-it-ismade ad quod factum est. On the one hand, Anselm thinks of such teleology as part of the internal structure of the natures themselves: a creature of type F is a true F only insofar as it is/does/exemplifies that for which F’s were made; a defective F, to the extent that it does not. On the other hand, for Anselm, the telos of a created nature is that-for-which-God-made-it. Because God is personal and acts through reason and will, Anselm infers that prior in the order of explanation to creation, there was, in the reason of the maker, an exemplar, form, likeness, or rule of what he was going to make. In De veritate Anselm maintains that such teleology gives rise to obligation: since creatures owe their being and well-being to God as their cause, so they owe their being and well-being to God in the sense of having an obligation to praise him by being the best beings they can. Since every creature is of some nature or other, each can be its best by being that-for-which-God-made-it. Abstracting from impediments, non-rational natures fulfill this obligation and “act rightly” by natural necessity; rational creatures, when they exercise their powers of reason and will to fulfill God’s purpose in creating them. Thus, the goodness of a creature how good a being it is is a function of twin factors: its natural telos i.e., what sort of imitation of divine nature it aims for, and its rightness in exercising its natural powers to fulfill its telos. By contrast, God as absolutely independent owes no one anything and so has no obligations to creatures. In De casu diaboli, Anselm underlines the optimism of his ontology, reasoning that since the Supreme Good and the Supreme Being are identical, every being is good and every good a being. Two further conclusions follow. First, evil is a privation of being, the absence of good in something that properly ought to have it e.g., blindness in normally sighted animals, injustice in humans or angels. Second, since all genuine powers are given to enable a being to fulfill its natural telos and so to be the best being it can, all genuine metaphysically basic powers are optimific and essentially aim at goods, so that evils are merely incidental side effects of their operation, involving some lack of coordination among powers or between their exercise and the surrounding context. Thus, divine omnipotence does not, properly speaking, include corruptibility, passibility, or the ability to lie, because the latter are defects and/or powers in other things whose exercise obstructs the flourishing of the corruptible, passible, or potential liar. Anselm’s distinctive action theory begins teleologically with the observation that humans and angels were made for a happy immortality enjoying God, and to that end were given the powers of reason to make accurate value assessments and will to love accordingly. Anselm regards freedom and imputability of choice as essential and permanent features of all rational beings. But freedom cannot be defined as a power for opposites the power to sin and the power not to sin, both because neither God nor the good angels have any power to sin, and because sin is an evil at which no metaphysically basic power can aim. Rather, freedom is the power to preserve justice for its own sake. Choices and actions are imputable to an agent only if they are spontaneous, from the agent itself. Creatures cannot act spontaneously by the necessity of their natures, because they do not have their natures from themselves but receive them from God. To give them the opportunity to become just of themselves, God furnishes them with two motivaAnselm Anselm 31   31 tional drives toward the good: an affection for the advantageous affectio commodi or a tendency to will things for the sake of their benefit to the agent itself; and an affection for justice affectio justitiae or a tendency to will things because of their own intrinsic value. Creatures are able to align these drives by letting the latter temper the former or not. The good angels, who preserved justice by not willing some advantage possible for them but forbidden by God for that time, can no longer will more advantage than God wills for them, because he wills their maximum as a reward. By contrast, creatures, who sin by refusing to delay gratification in accordance with God’s will, lose both uprightness of will and their affection for justice, and hence the ability to temper their pursuit of advantage or to will the best goods. Justice will never be restored to angels who desert it. But if animality makes human nature weaker, it also opens the possibility of redemption. Anselm’s argument for the necessity of the Incarnation plays out the dialectic of justice and mercy so characteristic of his prayers. He begins with the demands of justice: humans owe it to God to make all of their choices and actions conform to his will; failure to render what was owed insults God’s honor and makes the offender liable to make satisfaction; because it is worse to dishonor God than for countless worlds to be destroyed, the satisfaction owed for any small sin is incommensurate with any created good; it would be maximally indecent for God to overlook such a great offense. Such calculations threaten certain ruin for the sinner, because God alone can do/be immeasurably deserving, and depriving the creature of its honor through the eternal frustration of its telos seems the only way to balance the scales. Yet, justice also forbids that God’s purposes be thwarted through created resistance, and it was divine mercy that made humans for a beatific immortality with him. Likewise, humans come in families by virtue of their biological nature which angels do not share, and justice allows an offense by one family member to be compensated by another. Assuming that all actual humans are descended from common first parents, Anselm claims that the human race can make satisfaction for sin, if God becomes human and renders to God what Adam’s family owes. When Anselm insists that humans were made for beatific intimacy with God and therefore are obliged to strive into God with all of their powers, he emphatically includes reason or intellect along with emotion and will. God, the controlling subject matter, is in part permanently inaccessible to us because of the ontological incommensuration between God and creatures and our progress is further hampered by the consequences of sin. Our powers will function best, and hence we have a duty to follow right order in their use: by submitting first to the holistic discipline of faith, which will focus our souls and point us in the right direction. Yet it is also a duty not to remain passive in our appreciation of authority, but rather for faith to seek to understand what it has believed. Anselm’s works display a dialectical structure, full of questions, objections, and contrasting opinions, designed to stir up the mind. His quartet of teaching dialogues  De grammatico, De veritate, De libertate arbitrii, and De casu diaboli as well as his last philosophical treatise, De concordia, anticipate the genre of the Scholastic question quaestio so dominant in the thirteenth and fourteenth centuries. His discussions are likewise remarkable for their attention to modalities and proper-versus-improper linguistic usage. Fin dagli esordi della filosofia medievale, la dottrina dei segni riguarda la questione dell’interpretazione, o addirittura dell'intero mondo reale, inteso come insieme di segni attraverso i quali l’assoluto di Bradley si fa manifesto, e attraverso i quali ci indirizza alla verità. Siamo agli albori di una logica del segno, con Alenino, lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Scoto Eriugena, Beda il Venerabile. Al principio dell'xi secolo iniziano la vera e propria logica e la semantica medievali. Sant'Anselmo d'Aosta elabora una dot- trina della verità finalizzata alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. È convinto, infatti, che la fede possa essere confermata dal- la ragione, anche se la sua origine -vieneprima della ragione stes- sa. Nelle sue opere {Monologion, Proslogion, De veritate) vengo- no articolate così le prove dell'esistenza dell’Assoluto, che costituiscono un momento di notevole interesse semiotico. Nel “Proslogion”, Anselmo d’Aosta sostiene la differenza fra linguaggio (o segno, segnante) e realtà (segnato). Se, secondo il linguaggio si può dire che l’Assoluto non esiste, non lo si può però pensare secondo il reale. Si tratta della cosiddetta "prova ontologica", importante perché distingue fra una verità referenziale e una verità *proposizionale*. La verita proposizionale è limitata a una pura asserzione di *esistenza*, che ha valore indipendentemente dall'*essenza* della cosa. Nel dialogo “De veritate”, la dicotomia fra segno (segno, segnante) e referente (relatum, segnatum) è maggiormente sviluppata, su base aristotelica, distinguendo fra verità di un segno (del segnato) -- la significazione -- e verità stretta della proposizione. Una cosa o avvenimento – l’alpha e beta -- determina la verità o falsita (il valore di verita) della proposizione ‘l’alpha e beta’ Fido is shaggy, ma non costituisce la sua verità. La verita IN-tensionale della proposizione e, infatti, data a priori, analiticamente, da una propria legge logica interna. Dunque, la verità di quello ‘segnato’, ‘comunicato’ o impiegato o impicato (la significazione) non è mai certa o provata. Questa dipende dalla realtà -- o livello ontologico -- con la quale non può essere coerente. Dunque, la verità della significazione, che può essere detta "semantica" o del segno, non si applica che al comunicato o impiegato della conversazione o discorso umano, che riflette piti o meno la cosa, evvento, o situazione (l’alpha e beta), mentre il verbum dell’assoluto  è con-sustanziale alla natura, ed è, alla Velia, Uno e Indivisibile. MAESTRO: Quando una proposizione, “Fido is shaggy”, è vera? DISCEPOLO: Quando esiste realmente ciò che essa enuncia affermandolo (il fatto che Fido e shaggy) o negandolo (il fatto che non e shaggy). Voglio dire che *esiste* -- una x che e Fido e che e shaggy -- ciò che essa *enuncia* *anche* se essa nega l'esistenza di ciò che non è. E questo perché, così, essa, “l’alpha e beta”, enuncia, in un certo modo, che una cosa è (“l’alpha e – Ex Kx e Bx). M: Ti sembra dunque che la cosa *enunciate* sia la verità della proposizione? DISCEPOLO. No!. MAESTRO: Perché? DISCEPOLO: Perché *nulla* -- cf. Heidegger -- è vero che per partecipazione alla verità, ed è così che la idea della verità sta nel vero. Ma la cosa enunciata (che Fido e shaggy) non sta nella proposizione vera. Perciò, non deve essere detta la sua verità, ma la *causa* (ragione) della verità della proposizione. MAESTRO. Vedi allora se il tuo *discorso* (il segnante) stesso o il segnato (la significazione del segnante) o qualche elemento della definizione della proposizione non siano ciò che tu cerchi. DISCEPOLO. Non lo penso! MAESTRO: Perché? DISCEPOLO. Perché se fosse così, *ogni* discorso –il discorso, la proposizione -- sarebbe vero o vera, poiché tutti gli elementi della definizione della proposizione – l’alpha e beta -- restano gli stessi, che ciò che essa enuncia esista o meno. Il discorso, la  è lo stesso; la signi-ficazione (lo segnato) anche e vero, e così tutto il resto. MAESTRO: Che cosa ti sembra essere dunque il vero? DISCEPOLO: Non ne so nulla, se non che, quando essa signi-fica esistere ciò che realmente è, ha in sé della verità, ed è vera. La prova dell'esistenza dell’Assoluto bradleyiano consiste nella discussione sul linguaggio che Aosta considera un vero e proprio rispecchiamento della natura, un po' come il logos platonico o il verbum agostiniano. La differenza fra il segno da natura (dell’assoluto) e il segno d’arte umana sta nel fatto che il segno dalla natura è cons-ustanziale alla natura, ne è l'esatta immagine, e per questo è perfetto (“If those spots mean measles, he has measles”). Invece, il segno dall’arte permette solo di "pensare alle cose", ed è pertanto necessariamente imperfetto: 1 Anselmo d'Aosta, Deventate, 11. 51   Questo basta per la verità della significazione di cui abbiamo cominciato a parlare. In effetti, la stessa ragione di verità che noi scopriamo in un segno dall’arte è applicabile a ogni segno che si fanno per affermare o negare qualcosa, come gli scritti, il linguaggio o i gesti. Ogni segno dall’arte e con l'aiuto del quale noi diciamo le cose, cioè di quel ci serviamo per pensar le cose, e una rassomiglianze o immagine (fantasma, manifestazione) della cose che il segno de-nota. Ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda della sua maggiore o minore fedeltà alle cose che essa rappresenta. La logica o dialettica è, di norma, considerata come la solida roccia cui ancorare la filosofia. Infatti nella dialettica riteniamo di trovare garanzia di chiarezza, verità, comprensibilità. Ma quanto è affidabile questa garanzia? Parrebbe non molto, stando a quel che argomenta in modo provocatorio Anselmo d’Aosta. Colla sua dialettica e sovversione – dialettica sovversiva – Aosta rivela l’altra faccia della dialettica, quella perturbatrice, una dialettica che non è stabile e chiara, bensì ingannevole e torbida. Aosta propone, come caso di studio di una dialettica sovversiva che svia l’umana ragione, la argomentazione addotta a sostegno della prova ontologica dell’esistenza di dio. L’intento anselmiano e quello di stilare una ricetta dagli ingredienti ben poco amalgamabili – ragione, dialettica, e fede – per sfornare la ciambella del “credo ut intelligam”, da servire al posto di quella del “credo quia absurdum” di Tertulliano. Infatti, è da presumere che Aosta non fosse assillato da alcun dubbio circa il suo credo. Quindi cercava solo di *intelligere* la sua fede [credenza] senza ricorrere ad alcuna sua demonstratio. In soldoni, Aosta, con il suo argomento ontologico  forne all’insipiente -- che nel Salmo 13 sentenzia, in ebraico, “Dio non c’è” (dio non e) -- una prova cogente dell’esistenza di dio oppure Aosta credente vuole convincersi e convincere gl’altri credente, ancor di più dell’oggetto del loro credo? Ma da un attento e diffidente esame dell’intero corpus del fondatore della scolastica, con un’irritante, ma utile, tattica vuol risvegliare nel destinatario il memento che, sicuramente l’uso della ragione può combattere l’eresia. Ma, al contempo, un *abuso* dell’argomentare può sottilmente minare la stessa ortodossia. Infatti, nel progetto d’Aosta la ragione dialettica svolge ruoli differenti a livelli differenti. La ragione dialettica, da un lato, per la sua natura normativa, impone limiti a ogni eccesso. All’altro lato, però, la ragione dialettica apre un vasto spazio di sperimentazione in cui non si raggiunge mai un limite. Il programma di natura tipicamente dialettica impostato d’Aosta perché possa farci pensare più correttamente al signore ineffabile di tutte le cose anziché schiarire l’orizzonte crea una selva di interrogative. Nell’arco di un dialogo, Aosta è costretto a ricorrere al punto di domanda per ben 19 volte). L’illusione del possibile conseguimento di una perfezione morale e logica che sa tanto di viaggio verso l’isola che non c’è, fa diventare il problema dell’illuminazione razionale oggetto di una ermeneutica del sospetto alla Ricoeur. Pertanto, è più che naturale chiedersi che senso ha seguire l’incoraggiamento d’Aosta a cercar di raggiungere quel che è fuori portata. Come possiamo tracciare un percorso se non ne conosciamo la meta? Non è che forse stiamo in realtà facendo qualcos’altro quando cerchiamo’ così? Pur ammettendo la necessità delle considerazioni dialettico-razionali d’Aosta, che trovano il loro punto di partenza nella “fides quaerens intellectum”, c’è da chiedersi se nello “Proslogion” Aosta non avesse intenzione di convertire gli infedeli per mezzo di un sillogismo. A tal proposito, vale la pena riportare quanto ebbe a filosofare Newman in “Un saggio per aiuta di una grammatical dell’assentimento. La logica fa una triste retorica colla multitude. Il primo tiro, il colpo alla cieca, accircola le quadre, ma tu non despera da convertirte da un sillogismo! Infatti, usando la metafora del far partire il colpo alla cieca, Newman implica che bisogna partire dalla fede e dalla rivelazione – teologia revelata no naturale. Solo quando si accetta l’esistenza di Dio per revelazione, fede revelata, assiomaticamente, per assunzione, senza alcun tipo di dimostrazione, prova, presupposizione, o premessa, solo allora si è pronti a una conversione mediante un argomento dialettico-razionale. Pertanto, esistono dunque buoni motivi per cui il “gioco” d’Aosta debbe essere ristretto al suo destinatario gia credente. La chiave di lettura dell’argomentazione d’Aosta è da individuare, tramite la citazione di quello Salmo ebraico, numero 13, in ebreo, “Dio non c’e” -- nella figura dello stultus et “insipiens”. Certa critica ha sostenuto che Aosta ha messo in scena lo stolto per meglio promuovere la sua tesi. In un certo senso potrebbe essere cosi. Ma la caratterizzazione del *miscredente* come uno stolto è sfruttata sottilmente per dimostrarci che è possibile individuare un argomento *razionale* che consenta di affermare che *deum esse*, che dio e. Giungere a possedere un tale argomento dialettico razionale che concluse ‘Dio c’e” non serve solo nel caso in cui se ci imbattessimo in uno stolto sapremmo come comportarci. E che il destinatario di Aosta e stolto (discepolo, non maestro) in certa misura. La ricerca di trasparenza suggerita d’Aosta contribute a renderci – a rendere il destinatio – *meno* stolti. Lo stolto non è tale perché non vede che l’esistere di Dio è analiticamente, a priore, di manire intensionale, a priori, per se notum, per se notificatum, per se segnatum, per se segnatum per il segnante, ma lo è perché egli *sbaglia* nell’usare o proffirere una profferenza della forma logica, “dio e” – non-ente, ‘dio’ come suggeto di una enunciazione della forma “il S e P”. E stolto perche persevera in questo modo di *esprimersi* -- a negazione ‘non c’e’ del salmo interpretata per implicatura come interna – cf. ‘il re di Francia non e calvo, dato che ‘il presente re di Francia’ e una descrizione vacua – ‘Pegaso vuola’ – Grice, “Nomi vacuii”. Se il profferente usa correttamente l’espressione ‘dio’, riconosce che deve dire che dio esiste -- il ‘Deum esse’ di d’Aquino. Ma con questa affermazione (dio e – l’esistenza non e un predicato ma la copola) non puo pretendere di avere afferrato l’essenza di Dio (il ‘Dei esse’ d’Aquino– quello che dio e, s’e. ). Infatti, per Aosta la prova dell’esistenza di ‘dio’ (o dell’assoluto della scuola di Velia e di Bradley) può funzionare solo se dio o l’assoluto (o Assoluto, come preferisce Croce) è inteso (=df, alla Peano) come “id, quo nihil majus cogitari possit”. Tanto è che anche chi, vestendo i panni dello stolto, dice in cuor suo “non esiste alcun Dio” può *pensare* concivere il concetto di “quello da che niente maggiore puo essere cogitato”. Perché altrimenti non potrebbe neanche *formularne* la negazione. L’espressione soggeto “quello da che niente maggiore puo essere cogitato” diventa per Aosta una vera e propria macchina-generante-attributi-divini – il dio dei filosofi della filosofia naturale --. L’assoluto (quello da che niente maggior puo essere cogitato) deve essere onnipotente. Se non lo fosse, tu possi concepire un essere maggiore di lui. Ma l’assoluto è, per definizione, quello da che ninente maggiore puo essere cogitato. Quindi, l’assoluto deve essere onnipotente. Allo stesso modo, l’assoluto deve essere giusto, misericordioso, eterno, immutabile e così via. Se mancasse solo di una di queste qualità, non sarebbe più quello che l’assoluto e per definizione, =df – quello da cui niente maggiore puo essere cogitato, il che è impossibile. La semplicità teoretica di questa impostazione è fuorviante. L’apparente successo nel generare molteplici attributi divini per mezzo dell’argomento ontologico comporta un problema che innesca una reazione a catena. Si deve dimostrare che gli attributi divini siano non contraddittori l’uno con l’altro – in altri termini, dimostrare la possibilità della loro compresenza in un solo identico ente. Ecco il punto: il filosofo con la sua ratio argomentativa può rintracciare tutte le possibili relazioni intercorrenti, per esempio, fra bontà, giustizia e misericordia, ed è in grado anche di dimostrare che Dio non solo *può* -- il diamante dellla logica modale -- ma anche *deve* -- il quadrato della logica modale -- possedere tutti e tre questi attributi, pur tuttavia non esiste animale razionale al mondo che possa dar conto del perché l’assoluto si mostri giusto e misericordioso proprio nel modo in cui lo fa. L’algoritmo nel programma d’Aosta o porta all’output. Dunque, Signore, tu non sei solo colui di cui non può pensarsi il maggiore. Tu sei anche qualcosa di maggiore di tutto ciò che può essere pensato. Questa proposizione molecolare richiamano tutte le argomentazioni circa gli esiti di impossibilità della logica contemporanea. Tu possi pensare che esista qualcosa di maggiore di qualsiasi cosa io possa pensare, quindi ciò di cui non posso pensare il maggiore deve essere tale che non posso pensarlo” (p. 109). Anselmo ben sapeva di iniziare una partita impossibile – la razionalizzazione della fede – nella quale un ruolo chiave era svolto dalla inaccessibilità di Dio, pur tuttavia impostando come limite ultimo il concetto di quello di cui non puo pensarsi il maggiore, tenta di procurarsi una giustificazione razionale per l’inevitabile fallimento della ragione! Una mossa azzardata che dava in questo *gioco* la possibilità all’antagonista (l’infedele, la stessa ragione che è negativa per vocazione) di contrattaccare arrecando danno con una manciata di domande ben azzeccate, che possono trovarci pronti a fornire comunque una risposta o in subordine occuparci la coscienza con la loro presenza importuna. Possiamo, dunque, senz’altro dire che Aosta ha svolto egregiamente una ricognizione dell’aporia della ragiona trovando anche addentellati significativi circa l’esercizio della libertà intellettuale con un efficace richiamo a Bruno e Turing. Alcune perplessità sorgono dai commenti approntati dall’autore sull’argomento ontologico. Per esempio, vengono riportate queste parole d’Aosta. Così quando si *dice* ‘ente di cui non si può pensare il maggiore’, senza dubbio queste parole possono essere capite e pensate, anche se la cosa stessa di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere pensata o compresa. Subito si attribuisce ad Aosta l’utilizzo di una via negativa per giungere alla comprensione dell’assoluto. Non si sa veramente un gran che di qualcosa se si sa solo ciò che quella cosa *non* è. Ma non bisogna farsi confondere da questa limitazione. Non si tratta qui di avere un’intuizione dell’assoluto, ma di fornire un fondamento razionale per la verità di una proposizione. E tale operazione, lo sappiamo, spesso può essere compiuta per via puramente negativa – prova ne siano le argomentazioni attraverso reductio ad absurdum. Sull’argomento della reductio, si cita un passo tratto dalla Responsio d’Aosta. Si può pensare a cio di cui non si puo pensare il maggiore. Quindi, c’è un mondo m (pensabile) dove cio di cui non si puo pensare il maggiore esiste. Ora supponiamo che cio di cui non si puo pensare il maggiore non esista nel mondo reale. Allora *è* possibile pensare, in m, qualcosa di maggiore di cio di cui non si puo pensare il maggiore. Ma questa è una falsità logica. L’argomentazione è una reductio ad absurdum e la terza premessa è la premessa da dimostrare *assurda*, il che la rende indisputabile. Riterra  che l’argomentazione funziona se almeno stabilisce che l’assoluto esiste, senza renderlo molto incomprensibile o inconcepibile di quanto fosse prima dell’argomentazione. Dalla combinazione di questi due passi si ricava che si ritenga che la reductio sia particolarmente adatta per rendere accetta l’esistenza di cose inconcepibili. Rivisitando l’abusato sillogismo su “Socrate è ….”, si supponga che Socrate non è mortale; che Socrate è un uomo, e tutti gli uomini sono mortali; sicché Socrate è sia mortale che non mortale. Ma la terza premessa è necessariamente falsa e la seconda premessa è vera. Perciò la prima premessa è falsa. La seconda premessa non assume riguardo a Socrate una forma puramente negative. Pertanto in questo caso la reductio ad absurdum non può essere addotta in difesa dell’uso della via negativa. Perciò, anche se vi sono reductiones ad absurdum che possono essere formulate con premesse del tipo via negativa, non si spiega cosa di speciale vi sia nell’argomentazione per reductio ad absurdum da renderla adatta per esprimersi per via puramente negativa, e quindi la legittimità della reduction ad absurdum non suffraga l’accettabilità della via negativa. P(φ) φ è positivo (o φ P) ASSIOMA 1. P(φ) . P(ψ) P(φ . ψ) ASSIOMA 2. P(φ) P(φ) (Disgiunzione esclusiva) DEFINIZIONE 1. G(x) ≡ (φ) [ P(φ) φ(x) ] (Dio) DEFINIZIONE 2. φ Ess.x ≡ (ψ) [ ψ(x) N(y) [ φ(y) ψ(y) ]] (Essenza di x) p Nq = N(p q) (Necessità) ASSIOMA 3. P(φ) NP(φ) P(φ) N P(φ) Poiché ciò segue dalla natura della proprietà. TEOREMA. G(x) G Ess.x DEFINIZIONE 3. E(x) = (φ) [φ Ess. x N (x) φ(x) ] (Esistenza necessaria)  ASSIOMA 4. P(E) TEOREMA. G(x) N(y) G(y) quindi (x) G(x) N(y) G(y) quindi M(x) G(x) MN(y) G(y) sibilità) (M = pos- M(x) G(x) significa che il sistema di tutte le proprietà positive è compatibile. Ciò è reso grazie a: ASSIOMA 5. P(φ) . φ Nψ : P(ψ) x = x è positivo x ≠ x è negative. Anselmo d’Aosta. Aosta. Keywords: L’implicatura sovversiva. : Grice, “Anselmo’s “De grammatico” and paronymy.” Speranza, “Grice and Anselm on paronymy: a ‘quaestio subtilissima.’” Implicatura sovversiva, cio di cui non si puo pensare il maggiore, semantica, concetto, pensare, Turing, Bruno, Il programma Le critiche al programma La revisione del programma Ciò di cui non si può pensare il maggiore Appendici La logica di un’illusione Dottrine esotericheil programma sovversivo di Anselmo, eresia.  Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Aosta” – The Swimming-Pool Library.

 

Aquino (Roccasecca). Filosofo. Grice: “Srawson used to joke and call me St. Thomas, as I rushed to tutor on ‘De interpretatione’ ‘That’s precisely what Aquino did at Bologna! Can’t the tutee not interpret it by himself?!’” Tommaso d'Aquino (Roccasecca, 1225 – Abbazia di Fossanova, 7 marzo 1274) è stato un religioso, teologo, filosofo e accademico italiano. Frate domenicano esponente della Scolastica, era definito Doctor Angelicus dai suoi contemporanei. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica che dal 1567 lo considera anche dottore della Chiesa.  Tommaso rappresenta uno dei principali pilastri teologici e filosofici della Chiesa cattolica: egli è anche il punto di raccordo fra la cristianità e la filosofia classica, che ha i suoi fondamenti e maestri in Socrate, Platone e Aristotele, e poi passati attraverso il periodo ellenistico, specialmente in autori come Plotino. Fu allievo di sant'Alberto Magno, che lo difese quando i compagni lo chiamavano "il bue muto" dicendo: «Ah! Voi lo chiamate il bue muto! Io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da un'estremità all'altra della terra!». San Tommaso d'Aquino San Tommaso d'Aquino e gli angeliSan Tommaso sorretto dagli angeli, del Guercino   Sacerdote e Dottore della Chiesa    Nascita1225 Morte7 marzo 1274 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana Canonizzazione18 luglio 1323 da Papa Giovanni XXII Santuario principaleChiesa dei Giacobini Tolosa Ricorrenza28 gennaio; 7 marzo (forma straordinaria) AttributiAbito domenicano, libro, penna e calamaio, modellino di chiesa, sole raggiato sul petto, colomba. Patrono diTeologi, accademici, librai, scolari, studenti, fabbricanti di matite; regione Campania; comune di Aquino, Grottaminarda, Monte San Giovanni Campano e Priverno; diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo; Belcastro; Falerna; San Mango d'Aquino. San Tommaso in una vetrata della Cattedrale di Saint-Rombouts, Mechelen (Belgio). Tommaso dei conti d'Aquino nacque, forse, nel 1225 nella contea di Aquino, territorio dell'odierna Roccasecca, nel Regno di Sicilia (Sgarbossa). Secondo altre tesi, San Tommaso sarebbe nato a Belcastro; a sostegno di esse si segnalano quelle di fra' Giovanni Fiore da Cropani, storico calabrese del XVII secolo, che lo scriveva nella sua opera Della Calabria illustrata, di Gabriele Barrio nella sua opera De antiquitate et situ Calabriae e di padre Girolamo Marafioti, teologo dell'ordine dei Minori Osservanti, nella sua opera Croniche ed antichità di Calabria.  Il castello paterno di Roccasecca rimane comunque ancora oggi il luogo più accreditato della sua nascita, da Landolfo d'Aquino e da Donna Teodora Galluccio, nobildonna teanese appartenente al ramo Rossi della famiglia napoletana dei Caracciolo. La sua data di nascita non è certa, ma è calcolata in maniera approssimativa a partire da quella della sua morte. Bernardo Gui, ad esempio, afferma che Tommaso è morto quando aveva compiuto i suoi quarantanove anni e iniziato il suo cinquantesimo anno. Oppure, in un testo un po' anteriore, Tolomeo da Lucca fa eco ad un'incertezza: «Egli è morto all'età di 50 anni, ma alcuni dicono 48». Tuttavia, oggi, sembra che ci sia accordo nel fissare la sua data di nascita tra il 1224 e il 1226.  Da Montecassino a Napoli Secondo le usanze del tempo Tommaso, essendo il figlio più piccolo, era destinato alla vita ecclesiastica e proprio per questo a soli cinque anni fu inviato dal padre Landolfo come oblato nella vicina Abbazia di Montecassino, di cui era abate Landolfo Sinibaldo, figlio di Rinaldo d'Aquino, per ricevere l'educazione religiosa e succedere a Sinibaldo in qualità di abate. In ossequio alla regola benedettina, Landolfo versò un'oblazione di venti once d'oro al monastero cassinese perchè accettasero il figlio di una nobile famiglia e in tenera età.In quegli anni l'abbazia si trovava in un periodo di decadenza e costituiva una preda contesa dal Papa e dall'imperatore. Ma il trattato di San Germano, concluso tra il Papa Gregorio IX e l'imperatore Federico II il 23 luglio 1230, inaugurava un periodo di relativa pace ed è proprio allora che si può collocare l'ingresso di Tommaso nel monastero. In quel luogo Tommaso ricevette i primi rudimenti delle lettere e fu iniziato alla vita religiosa benedettina.  Ma a partire dal 1236 la calma di cui godeva il monastero fu nuovamente turbata e Landolfo, consigliato dal nuovo abate, Stefano di Corbario, volle mettere al riparo il figlio dai disordini e inviò Tommaso, oramai adolescente, a Napoli, perché potesse seguire degli studi più approfonditi. Così nell'autunno del 1239, a quattordici o quindici anni, Tommaso si iscrisse al nuovo Studium generale, l'Università degli studi fondata nel 1224 da Federico II per formare la classe dirigente del suo Impero.  Fu proprio a Napoli, dove era stato fondato un convento, che Tommaso conobbe i Domenicani, ordine in cui entrò a far parte e in cui fece la sua vestizione nell'aprile del 1244.  Ma l'ingresso di Tommaso presso i Frati predicatori comprometteva definitivamente i piani dei suoi genitori riguardo al suo futuro incarico di abate di Montecassino. Così la madre inviò un corriere ai suoi figli, che in quel periodo stavano guerreggiando nella regione di Acquapendente, perché intercettassero il loro fratello e glielo conducessero. Essi, accompagnati da un piccolo drappello, catturarono facilmente il giovane religioso, lo fecero salire su di un cavallo e lo condussero al Castello di Monte San Giovanni Campano, un castello di famiglia ove fu tenuto prigioniero per due anni. Qui tutta la famiglia tentò di far cambiare idea a Tommaso, ma inutilmente. Tuttavia bisogna precisare che egli non fu né maltrattato né rinchiuso in qualche prigione, si trattava piuttosto di un soggiorno obbligato, in cui Tommaso poteva entrare e uscire a piacimento e anche ricevere visite. Ma prendendo atto che Tommaso era ben saldo nella sua risoluzione, la sua famiglia lo restituì al convento di Napoli nell'estate del 1245. Ciò avvenne in occasione del Concilio di Lione del 17 luglio 1245, allorché papa Innocenzo IV ufficializzò la deposizione dell'imperatore Federico II di Svevia. Gli studi a Parigi e a Colonia Beato Angelico: San Tommaso d'Aquino  Dipinto del Velazquez I Domenicani di Napoli ritennero che non fosse sicuro trattenere presso di loro il novizio e lo inviarono a Roma dove si trovava il maestro dell'Ordine, Giovanni Teutonico, il quale stava per partire alla volta di Parigi, dove si sarebbe celebrato il Capitolo generale del 1246. Egli accolse Tommaso inviandolo prima a Parigi e poi a Colonia, dove c'era un fiorente Studium generale sotto la direzione di fra Alberto (il futuro sant'Alberto Magno), maestro in teologia, il quale era ritenuto sapiente in tutti i campi del sapere.  Al seguito di Giovanni Teutonico, si sarebbe dunque messo in viaggio per Parigi e vi avrebbe trascorso tre anni scolastici. Qui potrebbe aver studiato le arti, sia in facoltà che in convento. Partì per Colonia con fra' Alberto, presso il quale continuò il suo studio della teologia e il suo lavoro di assistente. Il soggiorno di Tommaso a Colonia, al contrario di quello a Parigi, non è mai stato messo in dubbio, poiché è ben testimoniato dalle fonti. Il capitolo generale dei Domenicani riunito a Parigi decise la creazione di uno studium generale a Colonia, città nella quale esisteva già un convento domenicano fondato da fra' Enrico, compagno di Giordano di Sassonia.  L'incarico di insegnare venne affidato a fra Alberto, la cui reputazione in quel periodo era già notevole. Questo soggiorno a Colonia costituì una tappa decisiva nella vita di Tommaso. Per quattro anni, dai 23 ai 27 anni, Tommaso poté assimilare profondamente il pensiero di Alberto. Un esempio di questa influenza lo troviamo nell'opera nota con il nome di Tabula libri Ethicorum, la quale si presenta come un lessico le cui definizioni sono molto spesso delle citazioni quasi letterali di Alberto.  Il primo periodo di insegnamento a Parigi. Chiesa dei domenicani di Friesach: San Tommaso e papa Urbano V e il dogma della transustanziazione Quando il Maestro Generale dei Domenicani domandò ad Alberto di indicargli un giovane teologo che potesse essere nominato baccelliere per insegnare a Parigi, Alberto gli propose Tommaso che stimava sufficientemente preparato in scientia et vita. Sembra che Giovanni Teutonico abbia esitato per via della giovane età del prescelto, 27 anni, perché secondo gli statuti dell'Università egli avrebbe dovuto averne 29 per poter assumere canonicamente quest'impegno. Fu grazie alla mediazione del cardinale Ugo di Saint-Cher che la richiesta di Alberto fu esaudita e Tommaso ricevette quindi l'ordine di recarsi subito a Parigi e di prepararsi a insegnare. Egli iniziò il suo insegnamento come baccelliere nel settembre di quello stesso anno, cioè del 1252, sotto la responsabilità del maestro Elia Brunet de Bergerac che occupava il posto lasciato vacante a causa della partenza di Alberto.  A Parigi Tommaso trovò un clima intellettuale meno tranquillo di quello di Colonia. Ancora era vietato commentare i libri di Aristotele, ma durante la prima parte del soggiorno di Tommaso, la Facoltà delle Arti avrebbe finalmente ottenuto il permesso di insegnare pubblicamente tutti i libri del grande filosofo greco. Fu nuovamente in Italia, impegnato nell'insegnamento e negli scritti teologici: fu prima assegnato a Orvieto, come lettore, vale a dire responsabile per la formazione continua della comunità. Qui ebbe il tempo per completare la stesura della Summa contra Gentiles e della Expositio super Iob ad litteram. Inoltre qui Tommaso, che non conosceva direttamente il greco in maniera sufficiente a leggere i testi di Aristotele in originale, si poté avvalere dell'opera di traduzione di un confratello, Guglielmo di Moerbeke, eccellente grecista. Guglielmo rifece o rivide le traduzioni delle opere di Aristotele e pure dei principali commentatori greci (Temistio, Ammonio, Proclo). Alcune fonti riportano addirittura che Guglielmo avrebbe tradotto Aristotele dietro richiesta (ad istantiam) di Tommaso stesso. Il contributo di Guglielmo, anche lui in Italia come Tommaso dopo il 1260, fornì a Tommaso un prezioso apporto che gli permise di redigere le prime parti dei Commenti alle opere di Aristotele, spesso validi ancora oggi per la comprensione e discussione del testo aristotelico. Soggiornò a Roma come maestro reggente. Nel febbraio 1265 il neoeletto papa Clemente IV lo convocò a Roma come teologo pontificio. Nello stesso anno gli fu ordinato dal Capitolo domenicano di Agnani di insegnare allo studium conventuale del convento romano della Basilica di Santa Sabina, fondato alcuni anni prima. Lo studium di Santa Sabina diviene un esperimento per i domenicani, il primo studium provinciale dell'Ordine, una scuola intermedia tra lo studium conventuale e lo studium generale. Prima di allora la Provincia romana non offriva una formazione specializzata di alcun tipo, solo semplici scuole conventuali, con i loro corsi di base di teologia per i frati residenti. Il nuovo studium provinciale di Santa Sabina divenne la scuola più avanzata per la provincia. Durante il suo soggiorno romano, Tommaso cominciò a scrivere la Summa Theologiae e compilò numerosi altri scritti su varie questioni economiche, canoniche e morali. Durante questo periodo, ebbe l'opportunità di lavorare con la corte papale (che non era residente a Roma). Nel secondo periodo di insegnamento a Parigi, la sua occupazione principale fu l'insegnamento della Sacra Pagina e proprio a questo periodo risalgono alcune delle sue opere più celebri, come i commenti alla Scrittura e le Questioni Disputate. Anche se i commenti al Nuovo Testamento restano il cuore della sua attività, egli si segnala anche per la varietà della sua produzione, come ad esempio la scrittura di diversi brevi scritti (come ad esempio il De Mixtione elementorum, il De motu cordis, il De operationibus occultis naturae...) e per la partecipazione alle problematiche del suo tempo: che si tratti di secolari o dell'averroismo vediamo Tommaso impegnato su tutti i fronti.  A questa multiforme attività bisogna aggiungere un ultimo tratto: Tommaso è anche il commentatore di Aristotele. Tra queste opere ricordiamo: l' Expositio libri Peri ermenias, l' Expositio libri Posteriorum, la Sententia libri Ethicorum, la Tabula libri Ethicorum, il Commento alla Fisica e alla Metafisica. Vi sono poi anche delle opere incompiute, come la Sententia libri Politicorum, il De Caelo et Mundo, il De Generatione et corruptione, il Super Meteora.  Gli ultimi anni e la morte  Ritratto di Tommaso ad opera di Fra Bartolomeo Fu quindi richiamato in Italia a Firenze per il Capitolo generale dell'Ordine dei Domenicani[8], secondo dopo quello del 1251[9]. Lascia definitivamente Parigi e poco dopo la Pentecoste di quello stesso anno il capitolo della provincia domenicana di Roma gli affidò il compito di organizzare uno Studium generale di teologia, lasciandolo libero di scegliere il luogo, le persone e il numero degli studenti. Ma la scelta di Napoli era già stata designata da un precedente capitolo provinciale ed è anche verosimile che Carlo I d'Angiò abbia fatto pressione perché venisse scelta la sua capitale come sede e che a capo di questo nuovo centro di teologia venisse insediato un maestro di fama. Tommaso D'Aquino abitò per oltre un anno San Domenico Maggiore nell'ultimo periodo della sua vita, lasciandovi scritti e reliquie[10]. Gli fu offerto l'arcivescovado di Napoli, che non volle mai accettare, continuando a vivere in povertà, dedito allo studio e alla preghiera. Durante gli ultimi anni del periodo napoletano, continuò a procurarsi testi filosofici che leggeva e commentava con cura, disputandone i contenuti con i suoi confratelli e studenti. Si dedicò anche alle opere scientifiche di Aristotele relative ai fenomeni atmosferici e ai terremoti, cercando di procurarsi testi sulla costruzione degli acquedotti e la possibilità di applicazione della geometria alle costruzioni, commentando le traduzioni di testi greci e arabi in latino.  La famiglia D'aquino era in rapporti con Federico II di Svevia che aveva istituzionalizzato la Scuola Medica Salernitana, primo centro di fruizione culturale degli scritti medici e filosofici di Avicenna e Averroè, noti al Dottore Angelico. Stabilendosi presso la sorella Teodora al Castello dei Sanseverino[13], tenne una serie di lezioni straordinarie nella celebre Scuola Medica che aveva sollecitato l'onore ed il decoro della parola dell'Aquinate[8]. A memoria del suo soggiorno, nella Chiesa di San Domenico si conservano la reliquia del suo braccio e le spoglie delle sorelle. Partecipò al capitolo della sua provincia a Roma in qualità di definitore. Ma alcune settimane più tardi, mentre celebrava la Messa nella cappella di San Nicola, Tommaso ebbe una sorprendente visione tanto che dopo la messa non scrisse, non dettò più nulla e anzi si sbarazzò persino degli strumenti per scrivere. A Reginaldo da Piperno, che non comprendeva ciò che accadeva, Tommaso rispose dicendo: «Non posso più. Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in confronto con quanto ho visto».  «San Bonaventura, entrato nello studio di Tommaso mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al suo volto. Ultimato il trattato sull'Eucaristia, lo depose sull'altare davanti al crocifisso per ricevere dal Signore un segno. Subito fu sollevato da terra e udì le parole: Bene scripsisti, Thoma, de me quam ergo mercedem accipies? E rispose Non aliam nisi te, Domine. Anche Paolo fu rapito al terzo cielo, e poi Antonio e tutta una serie di santi fino a Caterina; il volo, il levarsi in aria indica la vicinanza con il cielo e con Dio, con archetipo nelle figure di Enoch e Elia.»  (Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri in L'Osservatore Romano, 28 gennaio 2010. Tommaso e il socius si misero in viaggio per partecipare al Concilio che Gregorio X aveva convocato per il 1º maggio 1274 a Lione. Dopo qualche giorno di viaggio arrivarono al castello di Maenza, dove abitava sua nipote Francesca. È qui che si ammalò e perse del tutto l'appetito. Dopo qualche giorno, sentendosi un po' meglio, tentò di riprendere il cammino verso Roma, ma dovette fermarsi all'abbazia di Fossanova per riprendere le forze. Tommaso rimase a Fossanova per qualche tempo e tra il 4 e il 5 marzo, dopo essersi confessato da Reginaldo, ricevette l'eucaristia e pronunciò, com'era consuetudine, la professione di fede eucaristica. Il giorno successivo ricevette l'unzione dei malati, rispondendo alle preghiere del rito. Morì di lì a tre giorni, mercoledì 7 marzo 1274, alle prime ore del mattino dopo aver ricevuto l'Eucaristia. Le spoglie di Tommaso d'Aquino sono conservate nella chiesa domenicana detta Les Jacobins a Tolosa. La reliquia della mano destra, invece, si trova a Salerno, nella chiesa di San Domenico; il suo cranio si trova invece nella concattedrale di Priverno, mentre la costola del cuore nella Basilica concattedrale di Aquino.  Il pensiero di Tommaso  San Tommaso d'Aquino, ritratto di Carlo Crivelli Per Tommaso l'anima è creata "a immagine e somiglianza di Dio" (come dice la Genesi), unica, immateriale (priva di volume, peso ed estensione), forma del corpo e non localizzata in un punto particolare di esso, trascendente come Dio e come lui in una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo in cui sono il corpo e gli altri enti. L'anima è tota in toto corpore, contenuta interamente in ogni parte del corpo, e in questo senso legata ad esso indissolubilmente: si veda, sul tema, la questione 76 della Prima Parte della Summa theologiae, questione dedicata appunto al rapporto tra anima e corpo. Secondo Tommaso:  «Ciò che si accetta per fede sulla base della rivelazione divina non può essere contrario alla conoscenza naturale... Dio non può indurre nell'uomo un'opinione o una fede contro la conoscenza naturale... tutti gli argomenti contro la fede non procedono rettamente dai primi principii per sé noti.»  (Tommaso d'Aquino, Summa contra Gentiles, I, 7.) Nella filosofia tomista Dio è descritto con le seguenti proprietà:[senza fonte]  massimo grado possibile di ogni qualità (che è, è stata o possa essere fra gli enti), fra queste: sommo amore e sommo bene immutabile, semplice e indivisibile: è da sempre e per sempre uguale a sé stesso, a lui nulla manca e in lui nulla cambia. eterno: non nasce e non muore, vive da sempre e per sempre infinito in atto (non infinito potenziale): non ha limite-confine di tempo o di spazio onnisciente unico: nessuno, nemmeno Dio può creare un altro Dio onnipotente: ma non può perpetrare il male e non può creare un altro Dio per sé: non riceve la vita o altre proprietà da alcuno, poteva esistere senza gli enti da lui creati, che perciò non nascono come parte di lui e non sono Dio. trascendente: Dio non è un ente qualunque tra gli altri enti, la differenza tra Dio e gli altri enti è una differenza quantitativa, vale a dire stesse qualità ma in un minore grado di completezza e perfezione. Gli enti creati, fra cui gli angeli e l'uomo, in infiniti gradi a lui somigliano, sono come Dio, ma non sono Dio: non hanno una parte fisica dell'essere per essenza, poiché l'essere è semplice, senza parti e indivisibile. Questo essere (inteso da S.Tommaso come "Ipsum esse subsistens") ha molte proprietà in comune con l'essere della filosofia greca, così come lo definì Parmenide: uno e unico, semplice e indivisibile, infinito ed eterno, onnisciente. La differenza sostanziale però consiste nel fatto che crea gli enti, è più grande della somma di essi, e può esistere senza. Anche nell'ultima forma del pensiero greco, quello di Plotino, troviamo che l'emanazione dall'essere agli enti è un fatto eterno, ma anche necessario e reversibile, non una libera scelta dell'assoluto, che avrebbe potuto non manifestarsi. Il concetto di creazione ("produzione dal nulla") è peraltro estraneo alla filosofia greca ed è proprio del pensiero giudaico-cristiano.  Se la trascendenza nega il panteismo, la personalità di Dio nega a sua volta il deismo (che sarà proprio degli Illuministi): trascendenza ed essere per sé non significano lontananza inarrivabile. Gli uomini non nascono, ma hanno la possibilità di diventare parte integrante di Dio e, già in questa esistenza terrena, di identificare la propria vita con la vita del creatore.  In modo identico, si può dire che l'essere per san Tommaso non è solo l'essere comune o la piattaforma di tutto ciò che esiste, ma è l’esse ut actus inteso come atto puro che perfeziona ogni altra perfezione (essenza, sostanza, forma). Dio è atto puro, puro da ogni potenza, limite e imperfezione. Quando l'essere è mischiato o ricevuto in una potenza, allora è atto misto ed è ente finito. Tommaso fonda la sua concezione metafisica sul concetto di Analogia, rielaborando in maniera molto originale il pensiero aristotelico.  Le cinque vie per dimostrare l'esistenza di Dio San Tommaso distinse tre forme di conoscenza umana in relazione all'ente e al suo Creatore: an sit ("se sia"), quomodo sit ("in che modo sia"), quid sit ("che cosa sia"). La conoscenza umana di Dio è possibile soltanto in merito alla Sua esistenza e ad un quomodo sit negativo, nel quale la mente umana procede ad analizzare il creato sensibile, e, per analogia e differenza, identifica tutte le qualità dell'ente che non possono essere proprie di Dio Creatore, pur essendone l'opera. Tale percorso fu chiamato via negationis (o anche ' via remotionis) ordinata al fine di descrivere il quomodo non sit("in che modo non sia") di Dio. Esso è effetto della grazia divina ed è possibile soltanto perché il Creatore decide liberamente di rivelarSi all'uomo, conducendolo per mano da una serie di negazioni delle qualità dell'ente colte con i cinque sensi fino a pervenire ad un'affermazione intelligibile e positiva di Lui.  L'autore delle Cinque Vie, infine, escluse che la dimostrazione razionale dell'esistenza e unicità di Dio potesse rivelare all'uomo anche la Sua vera essenza, quel qui sit che rimane un mistero accessibile soltanto alla virtù ed è ritenuto un limite esterno per il dominio possibile della ragione. La conoscenza teologica può essere soltanto indiretta, relativa agli effetti della causa prima e del fine ultimo sulla Sua creazione. Molti pensatori cristiani hanno elaborato diversi percorsi razionali per cercare di dimostrare l'esistenza di Dio: mentre Anselmo d'Aosta, sulla scia neoplatonica di Agostino d'Ippona procedeva sia a simultaneo, cioè dal concetto stesso di Dio, da lui ritenuto id quo maius cogitari nequit (nel Proslogion, cap.2.3), sia a posteriori (nel Monologion) per dimostrare l'esistenza di Dio, l'unico modo per arrivarci, secondo Tommaso, consiste nel procedere a posteriori: partendo cioè dagli effetti, dall'esperienza sensibile, che è la prima a cadere sotto i nostri sensi, per dedurne razionalmente la sua Causa prima. Si tratta di quella che chiama demonstratio quia, cioè, appunto dagli effetti, il cui risultato è ammettere necessariamente che esista il punto d'arrivo della dimostrazione, anche se non è pienamente intelligibile, come in questo caso, ed in altri, il perché (demonstratio quid, es. i sillogismi: le premesse esprimono proprietà che sono cause della conclusione: «Ogni uomo è mortale; ogni ateniese è uomo; ogni ateniese è mortale": essere uomo e mortale è necessaria causa della mortalità di ogni ateniese)»  Sulla base di questo sfondo di pensiero Tommaso espone le sue prove dell'esistenza di Dio, Tutte e cinque, con alcune variazioni, seguono questa struttura. Constatazione di un fatto in rerum natura, nell'esperienza sensibile ordinaria (movimento inteso come trasformazione; causalità efficiente subordinata; inizio e fine dell'esistenza degli esseri generabili e corruttibili, perciò materiali, contingenti nel suo vocabolario, che quindi possono essere e non essere; gradualità degli esseri nelle perfezioni trascendentali, come bontà, verità, nobiltà ed essere stesso; finalità nei processi degli esseri non intelligenti);  2) analisi metafisica di quel dato iniziale esperenziale alla luce del principio metafisico di causalità, enunciato in varie formulazioni ("Tutto ciò che si muove è mosso da un altro"; "È impossibile che una cosa sia causa efficiente di sé stessa"; "Ora, è impossibile che tutte di tal natura siano state sempre, perché ciò che può non essere un tempo non esisteva"; "Ma il grado maggiore o minore si attribuiscono alle diverse cose secondo che si accostano di più o di meno a qualcosa di sommo o di assoluto"; "Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente");  3) impossibilità di un regressus in infinitum inteso in senso metafisico, non quantitativo, perché ciò renderebbe inintelligibile, inspiegabile pienamente il dato di fatto di partenza esistente ("Ora, non si può in tal modo procedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore..."; "Ma procedere all'infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non avremmo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie..."; "Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà ci sia qualcosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in un altro essere oppure no. D'altra parte [in questo genere di esseri] non si può procedere all'infinito..."; questo passaggio manca, per la sua evidenza agli occhi dell'Aquinate manca nella quarta via e nella quinta via, si passa direttamente alla conclusione;  4) conclusione deduttiva strettamente razionale (senza nessuna cogenza di fede) che identifica il 'conosciuto' sotto quel determinato aspetto con quello "che tutti chiamano Dio", o espressioni simili ("Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio"; "Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio"; "Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé necessario e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio"; "Ora ciò che è massimo in un dato genere è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è causa di ogni calore, come dice lo stesso Aristotele. Dunque vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio"; "Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine: e quest'essere chiamiamo Dio".  I cinque percorsi indicati da San Tommaso sono: Ex motu et mutatione rerum (tutto ciò che si muove esige un movente primo perché, come insegna Aristotele nella Metafisica: "Non si può andare all'infinito nella ricerca di un primo motore"); Ex ordine causarum efficientium (cioè "dalla causa efficiente", intesa in senso subordinato, non in senso coordinato nel tempo. Tommaso non è, per sola ragione, in grado di escludere la durata indefinita nel tempo di un mondo creato da Dio, la cosiddetta creatio ab aeterno: ogni essere finito, partecipato, dipende nell'essere da un altro detto causa; necessità di una causa prima incausata); Ex rerum contingentia (cioè "dalla contingenza". Nella terminologia di Tommaso la generabilità e corruttibilità sono prese come segno evidente della possibilità di essere e non essere legata alla materialità, sinonimo, nel suo vocabolario di "contingenza", ben diverso dall'uso più comune, legato ad una terminologia avicenniana, dove "contingente" è qualsiasi realtà che non sia Dio. Tommaso, in questa argomentazione della Summa Theologiae distingue attentamente il necessario dipendente da altro (anima umana e angeli) e necessario assoluto (Dio). L'esistenza di esseri generabili e corruttibili è in sé insufficiente metafisicamente, rimanda ad esseri necessari, dapprima dipendenti da altro, quindi ad un essere assolutamente necessario); Ex variis gradibus perfectionis (le cose hanno diversi gradi di perfezioni, intese in senso trascendentale, come verità, bontà, nobiltà ed essere, sebbene sia usato un 'banale' esempio fisico legato al fuoco e al calore; ma solo un grado massimo di perfezione rende possibile, in quanto causa, i gradi intermedi); Ex rerum gubernatione (cioè "dal governo delle cose": le azioni di realtà non intelligenti nell'universo sono ordinate secondo uno scopo, quindi, non essendo in loro quest'intelligenza, ci deve essere un'intelligenza ultima che le ordina così). Kant, pur ammettendo l'esistenza di Dio come postulato della ragion pratica, ritiene che l'esistenza di Dio sia indimostrabile da un punto di vista teoretico-speculativo: nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura, Kant ha contestato tali dimostrazioni, pur non prendendo in realtà in considerazione direttamente le cinque "vie" di San Tommaso, ma le prove dell'esistenza di Dio nella filosofia leibniziano-wollfiana. La critica kantiana si rivolge infatti alla: 1) prova ontologica; 2) prova cosmologica e 3) prova fisico-teologica. Se per quanto riguarda almeno nelle conclusioni sia S.Tommaso, sia Kant sono concordi nel rifiutare la prova ontologica, per quanto riguarda la prova cosmologica e quella fisico- teologica, Kant critica queste due prove (a cui si possono ridurre le cinque "vie tomistiche), in quanto sarebbero legate ad un'estensione indebita dell'uso della ragione (nel suo uso teoretico-speculativo), i cui concetti razionali, cioè le idee, sono vuote. Solo l'intuizione empirica infatti potrebbe ovviare a ciò: per questo motivo l'idea di Dio è assolutamente non verificabile tramite la ragione, superando i limiti dell'esperienza possibile. Processo conoscitivo. Tommaso, affermava che la conoscenza dell'essere umano, in quanto dotato di un corpo creato da Dio, muove sempre dall'universo immanente, sensibile e corporeo nella direzione dell'universo trascendente, intellegibile (invisibile) e incorporeo. In tale aspetto, si differenziò da sant'Agostino, che pensava che questa avvenisse tramite l'illuminazione divina.[senza fonte]  Agostino sostenne che la sorgente del sapere e dell'essere è la stessa, Dio Creatore dell'universo, e che quindi i due piani dell'essere e del sapere non possono cadere in contraddizione l'uno con l'altro. Senza negare Agostino[senza fonte], San Tommaso aggiunse che il corpo umano deve poter essere capace di conoscere il creato mediante la sua mente e i suoi sensi, poiché l'uomo non soltanto è una creatura di Dio, ma più di ogni altro vivente è l'unico creato a immagine e somiglianza della mente e del Suo corpo umano-divino di Dio Padre e di Gesù, Suo Figlio. Tommaso aggiunse che i due piani dell'essere e del sapere sono tra loro comunicanti: infatti, le Cinque Vie dimostrarono che dall'essere della natura corporea è possibile giungere a conoscere e dimostrare la possibilità, la realtà e la necessità dell'esistenza e dell'unicità di Dio.  Prima ancora di questo, mediante ogni conoscenza (anche scientifica[senza fonte]) del creato, Tommaso riuscì a raggiungere il dono e il raro privilegio della visione del Corpo del Cristo risorto e del dialogo personale con Lui, il giorno della ricorrenza di San Nicola, poco tempo prima di completare la Summa theologica e di morire. Ciò non significa che Tommaso disconoscesse il pensiero di sant'Agostino, che è invece citato a più riprese nella Summa Theologica', e che fu dichiarato Dottore della Chiesa nel 1298, dopo la morte dell'Aquinate.  La conoscenza degli universali però appartiene solo alle intelligenze angeliche; noi, invece, conosciamo gli universali post-rem, ossia li ricaviamo dalla realtà sensibile. Soltanto Dio conosce ante rem.  La conoscenza è, quindi, un processo di adeguamento dell'anima o dell'intelletto e della cosa, secondo una formula che dà ragione del sofisticato aristotelismo di Tommaso. Veritas: Adaequatio intellectus ad rem. Adaequatio rei ad intellectum. Adaequatio intellectus et rei.» «Verità: Adeguamento dell'intelletto alla cosa. Adeguamento della cosa all'intelletto. Adeguamento dell'intelletto e della cosa.»  (Tommaso d'Aquino) La creazione secondo Tommaso Tommaso spiega che l'uomo può stabilire a partire dalla ragione il rapporto creaturale di dipendenza dell'universo da Dio ovvero la creatio ex nihilo intesa come totale dipendenza dell'essere creato, anche quello sostanziale, dall'Essere divino[26]. Ciò che la sola ragione non può stabilire è se il mondo è eterno o se è stato creato nel tempo ovvero se ha un cominciamento. La verità della seconda alternativa (la creazione con un inizio temporale) può essere conosciuta, secondo Tommaso, solamente per fede a partire dalla rivelazione divina. Dio, creando l'uomo, fornisce l'esistenza all'uomo secondo una dinamica simile a quella di atto e potenza, e lo rende quindi ente reale, fornito di esistenza (che è propriamente definita da Tommaso actus essendi oltre che di essenza. Soltanto in Dio, atto puro, essenza ed esistenza coincidono. Il rapporto tra Dio (necessario) e la creatura (contingente) è analogico in un solo senso: le creature sono simili a Dio. Il rapporto è di somiglianza non univoca né equivoca. Secondo Tommaso tutti gli enti sono buoni, poiché somigliano a Dio: "bonum" è uno dei tre trascendenti (o trascendentali), ovvero di caratteri applicabili a ogni ente e perciò trascendenti le categorie di Aristotele. Gli altri due sono "unum" e "verum".  Nelle opere di Tommaso l'universo (o cosmo) ha una struttura rigorosamente gerarchica[senza fonte]: posto al vertice da Dio che viene posto come al di là della fisicità, governa da solo il mondo al di sopra di tutte le cose e gli enti; al di sotto di Dio troviamo gli angeli (forme pure e immateriali), ai quali Tommaso attribuisce la definizione di intelligenze motrici dei cieli anch'esse ordinate gerarchicamente tra di loro; poi un gradino più in basso troviamo l'uomo, posto al confine tra il mondo delle sostanze spirituali e il regno della corporeità, in ogni uomo infatti si ha l'unione del corpo (elemento materiale) con l'anima intellettiva (ovvero la forma, che secondo Tommaso costituisce l'ultimo grado delle intelligenze angeliche): l'uomo è l'unico ente che fa parte sia del mondo fisico, sia del mondo spirituale. Tommaso crede che la conoscenza umana cominci con i sensi: l'uomo, non avendo il grado di intelligenza degli angeli, non è in grado di apprendere direttamente gli intelligibili, ma può apprendere solamente attribuendo alle cose una forma e quindi solamente grazie all'esperienza sensibile.  Un'altra facoltà necessaria che caratterizza l'uomo è la sua tendenza a realizzare pienamente la propria natura ovvero compiere ciò per cui è stato creato[senza fonte]. Ciascun uomo infatti corrisponde all'idea divina su cui è modellato, di cui l'uomo è consapevole e razionale, conscio delle proprie finalità, alle quali si dirige volontariamente avvalendosi dell'uso dell'intelletto: l'uomo prende le proprie decisioni sulla base di un ragionamento pratico, attraverso il quale tra due beni sceglie sempre quello più consono al raggiungimento del suo fine. Nel fare ciò segue la Legge naturale, che è scritta nel cuore dell'uomo. La legge naturale, che è un riflesso della Legge eterna, deve essere il fondamento della Legge positiva, cioè l'insieme delle norme che gli uomini stabiliscono storicamente in un dato tempo ed in un dato luogo.  Al di sotto dell'uomo troviamo le piante e le varie molteplicità degli elementi.  Concezione della donna  Sacra conversazione di Monticelli (Ghirlandaio, XV secolo) Tommaso riprende e cita, nella prima parte della Summa theologiae, alle questioni 92 e 99, l'affermazione di Aristotele (De generatione et corruptione 2,3) per cui la donna sarebbe un uomo mancato (mas occasionatus). L'aquinate afferma che "rispetto alla natura particolare la femmina è un essere difettoso e manchevole" (I, 92, 1).  «Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un essere perfetto simile a sé, di sesso maschile, e il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da un'indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata dal di fuori, per esempio dai venti australi, che sono umidi, come dice il filosofo.»  Ma aggiunge: «Rispetto invece alla natura nella sua universalità, la femmina non è un essere mancato, ma è espressamente voluto in ordine alla generazione. Ora, l'ordinamento della natura nella sua universalità dipende da Dio, il quale è l'autore universale della natura. Quindi, nel creare la natura, egli produsse non solo il maschio, ma anche la femmina 2. Ci sono due specie di sudditanza. La prima, servile, è quella per cui chi è a capo si serve dei sottoposti per il proprio interesse: e tale dipendenza sopravvenne dopo il peccato. Ma vi è una seconda sudditanza, economica o politica, in forza della quale chi è a capo si serve dei sottoposti per il loro interesse e per il loro bene. E tale sudditanza ci sarebbe stata anche prima del peccato, poiché senza il governo dei più saggi sarebbe mancato il bene dell'ordine nella società umana. E in questa sudditanza la donna è naturalmente soggetta all'uomo: poiché l'uomo ha per natura un più vigoroso discernimento razionale.»  (Somma teologica, I, 92, 1, ad 1) «la diversità dei sessi rientra nella perfezione della natura umana»  (Somma teologica, I, 99, 2, ad 1.) Importanza ed eredità Magnifying glass icon mgx2.svgTomismo.  Tommaso disputa con Averroè  Trionfo di san Tommaso, di Lippo Memmi  Trionfo di san Tommaso, di Benozzo Gozzoli San Tommaso fu uno dei pensatori più eminenti della filosofia Scolastica, che verso la metà del XIII secolo aveva raggiunto il suo apice. Egli indirizzò diversi aspetti della filosofia del tempo: la questione del rapporto tra fede e ragione, le tesi sull'anima (in contrapposizione ad Averroè), le questioni sull'autorità della religione e della teologia, che subordina ogni campo della conoscenza.  Tali punti fermi del suo pensiero furono difesi da diversi suoi seguaci successivi, tra i quali Reginaldo da Piperno, Tolomeo da Lucca, Giovanni di Napoli, il domenicano francese Giovanni Capreolus e Antonino di Firenze. Infine però, con la lenta dissoluzione della Scolastica, si ebbe parallelamente anche la dissoluzione del Tomismo, col conseguente prevalere di un indirizzo di pensiero nominalista nel successivo sviluppo della filosofia, e una progressiva sfiducia nelle possibilità metafisiche della ragione, che indurrà Lutero a giudicare quest'ultima «cieca, sorda, stolta, empia e sacrilega».[30]  Oggigiorno il pensiero di Tommaso d'Aquino trova ampio consenso anche in ambienti non cattolici (studiosi protestanti statunitensi, ad esempio) e perfino non cristiani, grazie al suo metodo di lavoro, fortemente razionale e aperto a fonti e contributi di ogni genere: la sua indagine intellettuale procede dalla Bibbia agli autori pagani, dagli ebrei ai musulmani, senza alcun pregiudizio, ma tenendo sempre il suo centro nella Rivelazione cristiana, alla quale ogni cultura, dottrina o autore antico faceva capo.[senza fonte] Il suo operato culmina nella Summa Theologiae (cioè "Il complesso di teologia"), in cui tratta in maniera sistematica il rapporto fede-ragione e altre grandi questioni teologiche.  Agostino vedeva il rapporto fede-ragione come un circolo ermeneutico (dal greco ermeneuo, cioè "interpreto") in cui credo ut intelligam et intelligo ut credam (ossia "credo per comprendere e comprendo per credere"). Tommaso porta la fede su un piano superiore alla ragione, affermando che dove la ragione e la filosofia non possono proseguire inizia il campo della fede e il lavoro della teologia.[senza fonte] Dunque, fede e ragione sono certamente in circolo ermeneutico e crescono insieme sia in filosofia che in teologia. Mentre però la filosofia parte da dati dell'esperienza sensibile o razionale, la teologia inizia il circolo con i dati della fede, su cui ragiona per credere con maggiore consapevolezza ai misteri rivelati. La ragione, ammettendo di non poterli dimostrare, riconosce che essi, pur essendo al di sopra di sé, non sono mai assurdi o contro la ragione stessa: fede e ragione, sono entrambe dono di Dio e non possono contraddirsi. Questa posizione esalta ovviamente la ricerca umana: ogni verità che io posso scoprire non minaccerà mai la Rivelazione anzi, rafforzerà la mia conoscenza complessiva dell'opera di Dio e della Parola di Cristo. Si vede qui un esempio tipico della fiducia che nel Medioevo si riponeva nella ragione umana. Nel XIV secolo queste certezze andranno in crisi, coinvolgendo l'intero impianto culturale del periodo precedente.  La teologia, in ambito puramente speculativo, rispetto alla tradizione classica, era considerata una forma inferiore di sapere, poiché usava in prestito gli strumenti della filosofia, ma Tommaso fa notare, citando Aristotele, che anche la filosofia non può dimostrare tutto, perché sarebbe un processo all'infinito. Egli distingue due tipi di scienze: quelle che esaminano i propri principi e quelle che ricevono i principi da altre scienze. L'ideale, per uno spirito concreto come Tommaso, sarebbe superare la fede e raggiungere la conoscenza ma, sui misteri fondamentali della Rivelazione, questo non è possibile nella vita terrena del corpo. Avverrà nella vita eterna dello spirito.  La filosofia è dunque ancilla theologiae e regina scientiarum, prima fra i saperi delle scienze. Il primato del sapere teologico non è nel metodo, ma nei contenuti divini che affronta, per i quali è sacrificabile anche la necessità filosofica.  Il punto di discrimine fra filosofia e teologia è la dimostrazione dell'esistenza di Dio; dei due misteri fondamentali della Fede (Trinitario e Cristologico), la ragione può dimostrare solamente il primo, l'esistenza di Dio, mentre non può dimostrare che questo Dio è necessariamente Trinitario. Ciò non è un paradosso razionale, perché da una premessa falsa non possono che derivare nel sillogismo conseguenze false, è più semplicemente qualcosa che la ragione non può spiegare: un Dio Uno e Trino. Il maggior servizio che la ragione può fare alla fede è che non è possibile nemmeno dimostrare il contrario, che Dio non è Trinitario, che la negazione non dimostrabile della Trinità a sua volta porta conseguenze paradossali e contraddittorie, laddove invece la Sua affermazione per fede è feconda di verità e conseguenze non contraddittorie. La ragione non può entrare nella parte storica dei misteri religiosi, può mostrare solo prove storiche che tal "profeta" è esistito, ma non che era Dio, e il senso della Sua missione, che è appunto un dato, un fatto a cui si può credere o meno.  Il primato della teologia verrà fortemente discusso nei secoli successivi, ma sarà anche lo studio praticato da tutti i filosofi cristiani nel Medioevo e oltre, tant'è che Pascal fece la sua famosa "scommessa" ancora nel XVII secolo. La teologia era questione sentita dal popolo nelle sacre rappresentazioni, era il mondo dei medioevali e degli zelanti studenti che attraversavano a piedi le paludi di Francia per ascoltare le lectiones dell'Aquinate nella prestigiosa Università della Sorbonne di Parigi, incontrandosi da tutta Europa .  Gli storici della filosofia richiamano l'attenzione anche sulla prevalenza dell'intelletto rispetto ad una prevalenza della volontà nella vita intellettuale/spirituale dell'uomo. La prima è seguita da San Tommaso e dalla sua scuola, mentre l'altra è propria di San Bonaventura e della scuola francescana. Per Tommaso il fine supremo è "vedere Dio", mentre per Bonaventura fine ultimo dell'uomo è "amare Dio". Quindi per Tommaso la categoria più alta è "il vero", mentre per Bonaventura è "il bene". Per ambedue però, "il vero" è anche "il bene", e "il bene" è anche "il vero".  Il pensiero di Tommaso ebbe influenza anche su autori non cristiani, a cominciare dal famoso pensatore ebreo Hillel da Verona.  A partire dal secondo Novecento poi il suo pensiero viene ripreso nel dibattito etico da autori cattolici e non, quali Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, Alasdair MacIntyre, Philippa Ruth Foot e Jacques Maritain.  Culto Fu canonizzato nel 1323 da papa Giovanni XXII. La sua memoria viene celebrata dalla Chiesa cattolica il 28 gennaio; la stessa, nella Forma straordinaria, lo ricorda il 7 marzo. La Chiesa luterana lo ricorda l'8 marzo.  San Tommaso d'Aquino è patrono dei teologi, degli accademici, dei librai e degli studenti. È patrono della città e della diocesi privernate e della Città e della diocesi aquinate.  L'11 aprile 1567 papa Pio V lo dichiarò dottore della Chiesa con la bolla Mirabilis Deus.  Il 29 giugno 1923, nel VI centenario della canonizzazione, papa Pio XI gli dedicò l'enciclica Studiorum Ducem.  L'enciclica Aeterni Patris di papa Leone XIII ricorda san Tommaso come il più illustre esponente della Scolastica. Gli statuti dei Benedettini, degli Carmelitani, degli Agostiniani, della Compagnia di Gesù dispongono l'obbligatorietà dello studio e della messa in pratica delle dottrine di Tommaso, del quale l'enciclica afferma:  «Per la verità, sopra tutti i Dottori Scolastici, emerge come duce e maestro San Tommaso d’Aquino, il quale, come avverte il cardinale Gaetano, “perché tenne in somma venerazione gli antichi sacri dottori, per questo ebbe in sorte, in certo qual modo, l’intelligenza di tutti” . Le loro dottrine, come membra dello stesso corpo sparse qua e là, raccolse Tommaso e ne compose un tutto; le dispose con ordine meraviglioso, e le accrebbe con grandi aggiunte, così da meritare di essere stimato singolare presidio ed onore della Chiesa Cattolica. Clemente VI, Nicolò V, Benedetto XIII ed altri attestano che tutta la Chiesa viene illustrata dalle sue meravigliose dottrine; San Pio V poi confessa che mercé la stessa dottrina le eresie, vinte e confuse, si disperdono come nebbia, e che tutto il mondo si salva ogni giorno per merito suo dalla peste degli errori. Altri, con Clemente XII, affermano che dagli scritti di lui sono pervenuti a tutta la Chiesa copiosissimi beni, e che a lui è dovuto quello stesso onore che si rende ai sommi Dottori della Chiesa Gregorio, Ambrogio, Agostino e Girolamo. Altri, infine, non dubitarono di proporlo alle Accademie e ai grandi Licei quale esempio e maestro da seguire a piè sicuro. A conferma di questo Ci sembrano degnissime di essere ricordate le seguenti parole del Beato Urbano V all’Accademia di Tolosa: “Vogliamo, e in forza delle presenti vi imponiamo, che seguiate la dottrina del Beato Tommaso come veridica e cattolica, e che vi studiate con tutte le forze di ampliarla” . Successivamente innocenzo XII, nella Università di Lovanio, e Benedetto XIV , nel Collegio Dionisiano presso Granata, rinnovarono l’esempio di Urbano.»  (Enciclica Aeterni Patris[31]) Opere di San Tommaso Sintesi teologiche Scriptum super libros Sententiarum Summa contra Gentiles Summa Theologiae  Questioni disputate Quaestiones disputatae de Veritate Quaestiones disputatae De potentia Quaestio disputata De anima Quaestio disputata De spiritualibus creaturis Quaestiones disputatae De malo Quaestiones disputatae De uirtutibus Quaestio disputata De unione uerbi incarnati Quaestiones de Quodlibet I-XII  Commenti biblici Expositio super Isaiam ad litteram Super Ieremiam et Threnos Principium “Rigans montes de superioribus” et “Hic est liber mandatorum Dei” Expositio super Iob ad litteram Glossa continua super Evangelia (Catena Aurea) Lectura super Mattheum Lectura super Ioannem Expositio et Lectura super Epistolas Pauli Apostoli Postilla super Psalmos  Commenti ad Aristotele Sententia Libri De anima Sententia Libri De sensu et sensato Sententia super Physicam Sententia super Meteora Expositio Libri Peryermenias Expositio Libri Posteriorum Sententia Libri Ethicorum Tabula Libri Ethicorum Sententia Libri Politicorum Sententia super Metaphysicam Sententia super Librum De caelo et mundo Sententia super Libros De generatione et corruptione  Super libros de generatione et corruptione Altri commenti Super Boetium De Trinitate Expositio Libri Boetii De ebdomadibus Super Librum Dionysii De divinis nomibus Super Librum De Causis  Scritti polemici Contra impugnantes Dei cultum et religionem De perfectione spiritualis vitae Contra doctrinam retrahentium a religione De unitate intellectus contra Avveroistas De aeternitate mundi  Trattati De ente et essentia De principiis naturae Compendium theologiae seu brevis compilatio theologiae ad fratrem Raynaldum De regno ad regem Cypri De substantiis separatis  Lettere e pareri De emptione et venditione ad tempus Contra errores Graecorum De rationibus fidei ad Cantorem Antiochenum Expositio super primam et secundam Decretalem ad Archidiaconum Tudertinum De articulis fidei et ecclesiae sacramentis ad archiepiscopum Panormitanum Responsio ad magistrum Ioannem de Vercellis de 108 articulis De forma absolutionis De secreto Liber De sortibus ad dominum Iacobum de Tonengo Responsiones ad lectorem Venetum de 30 et 36 articulis Responsio ad magistrum Ioannem de Vercellis de 43 articulis Responsio ad lectorem Bisuntinum de 6 articulis Epistola ad ducissam Brabantiae De mixtione elementorum ad magistrum Philippum de Castro Caeli De motu cordis ad magistrum Philippum de Castro Caeli De operationibus occultis naturae ad quendam militem ultramontanum De iudiciis astrorum Epistola ad Bernardum abbatem casinensem  Opere liturgiche, prediche, preghiere Officium de festo Corporis Christi ad mandatum Urbani Papae Inno Adoro te devote Collationes in decem precepta Collationes in orationem dominicam in Symbolum Apostolorum in salutationem angelicam. Traduzioni italiane Lo specchio dell'anima, La sentenza di Tommaso d'Aquino sul "De anima" di Aristotele, Traduzione e testo latino a fronte, Ed. San Paolo, Milano 2012. (È tradotto anche il testo dell'Aristotele latino). Catena aurea, Glossa continua super Evangelia vol. 1, Matteo, Bologna, Matteo, Bologna, Marco, Bologna 2007 Commento ai Libri di Boezio, Super Boetium De Trinitate, Expositio Libri Boetii De Ebdomadibus, Bologna, Commento ai Nomi Divini di Dionigi, Super Librum Dionysii de Divinis Nominibus vol. 1, Bologna 2004 vol. 2, (comprende anche De ente et essentia), Bologna, 2004 Commento al Corpus Paulinum, Expositio et lectura super Epistolas Pauli Apostoli vol. 1, Romani, Bologna 2004 vol. 2, 1 Corinzi, Bologna 2004 vol. 3, 2 Corinzi, Galati, Bologna, 2004 vol. 4, Efesini, Filippesi, Colossesi, Bologna, 2004 vol. 5, Tessalonicesi, Timoteo, Tito, Filemone, Bologna, Ebrei, Bologna, Commento al Libro di Giobbe, Bologna, 1995 Commento all'Etica Nicomachea di Aristotele, Sententia Libri Ethicorum, in 2 volumi, Bologna, 1998 Commento alla Fisica di Aristotele, Sententia super Physicorum vol. 1, Bologna, 2004 vol. 2, Bologna, 2004 vol. 3, Bologna, 2005 Commento alla Metafisica di Aristotele, Sententia super Metaphysicorum vol. 1, Bologna, Bologna, 2005 vol. 3, Bologna, 2005 Commento alla Politica di Aristotele, Sententia Libri Politicorum, Bologna, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, Scriptum super Libros Sententiarum in 10 volumi, Bologna, Ed. ESD, 2002 Compendio di teologia, Compendium theologiae, Bologna, I Sermoni e le due Lezioni inaugurali, Bologna, 2003 La conoscenza sensibile, Commenti ai libri di Aristotele: Il senso e il sensibile; La memoria e la reminiscenza, Bologna, La perfezione cristiana nella vita consacrata, Bologna, 1995 De venerabili sacramentu altaris, Bologna, 1996 La Somma contro i Gentili, Summa contra Gentiles vol. 1, (traduzione Tito Centi), Bologna (traduzione Tito Centi), Bologna, 2001 vol. 3, (traduzione Tito Centi), Bologna, 2001 La Somma Teologica, Summa Theologiae, in 35 volumi La Somma Teologica, Summa Theologiae, in 6 volumi, Bologna, Ed. ESD Le Questioni Disputate, Quaestiones Disputatae vol. 1, La Verità, Bologna, 1992 vol. 2, La Verità, Bologna, 1992 vol. 3, La Verità, Bologna, 1993 vol. 4, L'anima umana, Bologna, 2001 vol. 5, Le virtù, Bologna, 2002 vol. 6, Il male, Bologna, Il male, Bologna,  La potenza divina, Bologna, La potenza divina, Bologna, Questioni su argomenti vari, Bologna, Questioni su argomenti vari, Bologna, Logica dell'enunciazione, Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias, Expositio Libri Peryermenias, Bologna, Opuscoli politici: Il governo dei principi, Lettera alla duchessa del Brabante, La dilazione nella compravendita, Bologna, Opuscoli spirituali: Commenti al Credo, Padre Nostro, Ave Maria, Dieci Comandamenti, Ufficio e Messa per la Festa del Corpus Domini, Le preghiere di san Tommaso, Lettera a uno studente, Bologna, Pagine di Filosofia: I principi della natura, De principiis naturae ad fratrem Silvestrum, sola trad. it., e antologia ragionata e commentata di altri brani filosofici di antropologia, gnoseologia, teologia naturale, etica, politica e pedagogia. Inni eucaristici A Tommaso d'Aquino sono classicamente attribuiti gli inni eucaristici per la solennità del Corpus Domini, usati per secoli in occasione dell'adorazione eucaristica. Gli inni sono stati confermati nella liturgia solenne dal Concilio Vaticano II:  Adoro te devote Pange lingua, che contiene al termine il Tantum ergo sacramentum Sacris sollemniis Verbum supernum prodiens Note  Napoli A.N. Rossi, Delle dissertazioni di Alessio Niccolo Rossi intorno ad alcune materie alla citta di Napoli appartenenti, Pasquale Cayro, Storia sacra e profana d'Aquino e sua diocesi del signor D. Pasquale Cayro, patrizio anagnino, Vincenzo Orsino, 1808,348.  Ferante della Marra, Discorsi delle famiglie estinte, forastiere o non comprese ne' seggi di Napoli imparentate colla casa della Marra. Composti dal signor Ferrante della Marra duca della Guardia, dati in luce da Camillo Tutini, Ottavio Beltrano, Jean-Pierre Torrell, O. P., Amico della verità: vita e opere di Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Fino a pochi anni fa gli storici avevano dei dubbi sulla veridicità del soggiorno di Tommaso a Parigi nel periodo immediatamente successivo a quello in cui la sua famiglia lo restituì all'Ordine. Dallo studio delle fonti, Walz-Novarina concludono che il viaggio di Tommaso in compagnia di Giovanni Teutonico «... senza essere certo, può considerarsi probabile... », ma erano più riservati circa la questione degli studi a Parigi. Grandi eruditi come Denifle e De Groot si associano a questa opinione, ma altri come Mandonnet, Chenu e Glorieux, osservano che il viaggio a Parigi non avrebbe avuto alcun senso se Tommaso non avesse dovuto svolgervi i suoi studi, questo perché lo studium generale di Colonia non era funzionante prima del 1248, data della sua apertura dovuta a fra Alberto al momento del suo ritorno in questa città.  Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza, Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Marcello Zanatta, traduzione di Marcello Zanatta, vol. 1, 8. ed, Milano, Rizzoli, Astrid Filangieri, La vita e le Opere di San Tommaso d'Aquino. Storia dell'Ordine Domenicano a Firenze, su fiorentininelmondo.La cella di San Tommaso a San Domenico Maggiore (Napoli). G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di persone, Torino, Libreria Salesiana Editore, con l'approvazione del card. Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino  Filmato audio Luca Bianchi, Onorato Grassi e Costantino Esposito, Tommaso e la sua eredità - il pensiero che nasce dall'esperienza, Centro Culturale di Milano,   «Non è vero che alcuni traduttori lavorassero al suo servizio, come Guglielmo di Moerbeke». (v. 1h 14').  Premio letterario internazionale San Tommaso d’Aquino, sabato 4 a Mercato San Severino., su gazzettadisalerno, Mercato San Severino (SA), Convento di San Domenico a Salerno, oggi caserma, su salernodavedere. Sandra Isetta, Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri, in L'Osservatore Romano. Jean-Pierre Torrell, Amico della verità,392  Quaestio 76 della Parte I della Summa Theologiae di San Tommaso d'Aquino. A cura di Marcello Landi  Massimo Adinolfi, Francesco Paolo Adorno, Francesco Berto, Massimo Cacciari, Piero Coda, Carmela Covino, Adriano Fabris, Franco Ferrari, Ernesto Forcellino, Carlo Sini, Luigi Vero Tarca, Vincenzo Vitiello, La conoscenza di Dio tra remotio e revelatio nella "Summa theologiae" di San Tommaso D'Aquino, in Il Pensiero. Rivista di filosifia, XLVI, Inschibboleth Edizioni,  S. Th. I, q.2, a.2, c. e luoghi paralleli nei commenti aristotelici  Cf. Summa Theologiae, Iª q. 2 a. 3  Cf. Summa Theologiae, pars I, quaestio 2 articolo 3.  Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Leo Elders, The Philosophical Theology of St. Thomas Aquinas, E.J. Brill, When St. Thomas Aquinas had a foretaste of heaven on St. Nicholas’ feast day, su lifesitenews.com, Cf. Quaestio disputata de anima, a. 3 ad 1; Summa Theologiae, Iª q. 16 aa. 1-2.  Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza,  Summa contra gentiles, libro II, 31-37 e Summa theologiae, pars I quaestio 46  La Somma Teologica. Sola trad. italiana: Volume 1 - Prima Parte, Edizioni Studio Domenicano, «Né prima né dopo, si è pensato con tanta precisione, con tanta intima sicurezza logica, quanto nell'epoca dell'alta Scolastica. L'essenziale è che allora il puro pensiero si svolgeva con matematica sicurezza di idea in idea, di giudizio in giudizio, di conclusione in conclusione» (Rudolf Steiner, La filosofia di Tommaso d'Aquino, II, Opera Omnia, 74). Steiner aggiungeva che «il nominalismo è il padre di tutto lo scetticismo moderno» (conferenza del marzo 1908, cit. in Posizione dell'antroposofia nei confronti della filosofia, O.O., 108).  Martin Lutero, Servo arbitrio, WA 51, 126.  Encilica Aeterni Patris, su vatican.va. (o la traduzione similare qui riportata.  Heinrich Fries, Georg Kretschmar (a cura di), I classici della teologia, Jaca Book, 2005,978-88-16-30402-4. Annotazioni  Nella Sala del Tesoro di San Domenico Maggiore è conservato un arazzo raffigurante il Carro del Sole, parte delle Storie ed alle Virtù di san Tommaso d’Aquino, donato ai domenicani da Vincenza Maria d’Aquino Pico Bibliografia Tommaso d'Aquino, Super libros de generatione et corruptione, Jacques Myt, Jacques Giunta. Thomas Aquinas; Richard J. Regan, Compendium of theology Oxford University Press. Aimé Forest, Saint Thomas d'Aquin,Mellottée, Le Ragioni del Tomismo dopo il centenario dell'enciclica "Aeterni Patris" , Ares, Milano, Maria Cristina Bartolomei, Tomismo e Principio di non contraddizione, Cedam, Padova, 1973 Giuseppe Barzaghi, La Somma Teologica di San Tommaso d'Aquino, in Compendio. Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2009 Inos Biffi, La teologia e un teologo. San Tommaso d'Aquino, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL), [ Krzysztof Charamsa, Dispensa introduttiva “Trinità di San Tommaso”, Pontificio Ateneo Regina Apostolorum - Facoltà di Teologia, 2006. Marie-Dominique Chenu, Introduzione allo studio di S. Tommaso d'Aquino, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, Gilbert Keith Chesterton, Tommaso d'Aquino, Guida Editori, Napoli, Piero Coda, Contemplare e condividere la luce di Dio: la missione della Teo-logia in Tommaso d'Aquino, Città Nuova, Roma, 2014 Marco D'Avenia, La Conoscenza per Connaturalità, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1992 Cornelio Fabro, Introduzione a San Tommaso. La metafisica tomista e il pensiero moderno, Ares, Milano, Cornelio Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d'Aquino, S.E.I., Torino, 1939 Umberto Galeazzi, L'etica Filosofica in Tommaso D'Aquino: Dalla Summa Theologiae Alla Contra Gentiles per Una Riscoperta Dei Fondamenti Della Morale Città Nuova, Roma, 1989. Réginald Garrigou-Lagrange, La Sintesi Tomistica, Queriniana, Brescia, 1953 Alessandro Ghisalberti, Tommaso d'Aquino, in Enciclopedia Filosofica (diretta da V. Melchiorre), vol. XII, 11655-11691, Bompiani, Milano, 2006 (FR) Étienne Gilson, Saint Thomas Moraliste, J. Vrin, Parigi, 1974 (FR) Étienne Gilson, Realisme Thomiste et Critique de la Connaissance, J. Vrin, Parigi, 1947 (FR) Étienne Gilson, Il tomismo: introduzione alla filosofia di San Tommaso d'Aquino, Milano, Jaca Book 2011 Marcello Landi, Un contributo allo studio della scienza nel Medio Evo. Il trattato Il cielo e il mondo di Giovanni Buridano e un confronto con alcune posizioni di Tommaso d'Aquino, in Divus Thomas 110/2 (2007) 151-185 Dietrich Lorenz, I Fondamenti dell'Ontologia Tomista, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1992 Amato Masnovo, San Agostino e S. Tomaso, Vita e Pensiero, Milano, 1950 Ralph Mcinerny, L'analogia in Tommaso d'Aquino, Armando, Roma, 1999 Battista Mondin, Dizionario enciclopedico del pensiero di San Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2002 Battista Mondin, Il Sistema Filosofico di Tommaso d'Aquino, Massimo, Milano, 1985 Vittorio Possenti, Filosofia e rivelazione, Città Nuova Editrice, Roma, 1999 Michela Pereira, La filosofia nel Medioevo, Carocci, Roma, 2008. Emanuele Pili, Il taedium tra relazione e non-senso. Cristo crocifisso in Tommaso d'Aquino, Città Nuova, Roma, 2014 Pasquale Porro, Tommaso D'Aquino. Un profilo storico-filosofico, Carocci Roma, 2012. Giacomo Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d'Aquino, Vita e pensiero, Milano, 2002 Giacomo Samek Lodovici, L'esistenza di Dio, Quaderni del Timone, 200588-7879-009-5 (ES) Ramón Saiz-Pardo Hurtado, Intelecto-razón en Tomás de Aquino. Aproximación noética a la metafísica, EDUSC, Roma, 2005 Juan José Sanguineti, La Filosofia del Cosmo in Tommaso d'Aquino, Ares, Milano, 1986 Fausto Sbaffoni, San Tommaso d'Aquino e l'Influsso degli Angeli, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1993Robert Schimdt, The Domain of Logic According to Saint Thomas Aquinas, Martinus Nijhoff, L'Aia (Paesi Bassi), 1966 Rolf Schönberger, Tommaso d'Aquino, Il Mulino, Bologna, 2002 Mario Sgarbossa, I Santi e i Beati della Chiesa d'Occidente e d'Oriente, II edizione, Edizioni Paoline, Milano, 2000,88-315-1585-3 Raimondo Spiazzi, O.P. San Tommaso d'Aquino: biografia documentata, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1997 Alfonso Tisi, San Tommaso d'Aquino e Salerno, Grafica Jannone-Salerno, Salerno, 1974 Jean-Pierre Torrell, Tommaso d'Aquino. L'uomo e il teologo, Casale Monferrato, Piemme, 1994 Jean-Pierre Torrell, Tommaso d'Aquino. Maestro spirituale, Città Nuova, Roma, 1998 Jean-Pierre Torrell, Amico della verità. Vita e opere di Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2006. Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Laterza, Bari, 2002 Angelus Walz, Paul Novarina, Saint Thomas d'Aquin, Parigi, Béatrice-Nauwelaerts, 1962 James Weisheipl, Tommaso d'Aquino. Vita, pensiero, opere, Jaca Book, Milano, 2003 Louis de Wohl, La Liberazione del Gigante, Milano: BUR Rizzoli, 2002. Voci correlate Corpus Domini Dio, essere e ragione in Tommaso d'Aquino Ebraismo e Cristianità Opere Adoro Te Devote Quaestio disputata de malo Summa Theologiae Personalità Al-Ghazali Domingo Báñez Hillel ben Samuel da Verona San Bernardo di Chiaravalle San Bonaventura da Bagnoregio Teologia e filosofia Comunione dei santi Tomismo Filosofia medioevale Analogia entis Trascendenza Nunc stans Essenza Timeo hominem unius libri Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Tommaso d'Aquino Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Tommaso d'Aquino Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Tommaso d'Aquino Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tommaso d'Aquino Collegamenti esterni Tommaso d'Aquino, su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Tommaso d'Aquino, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Tommaso d'Aquino, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010.Tommaso d'Aquino, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Tommaso d'Aquino, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Tommaso d'Aquino / Tommaso d'Aquino (altra versione), su Find a Grave.Opere di Tommaso d'Aquino / Tommaso d'Aquino (altra versione) / Tommaso d'Aquino (altra versione) / Tommaso d'Aquino (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Tommaso d'Aquino / Tommaso d'Aquino (altra versione) / Tommaso d'Aquino (altra versione), su Open Library, Internet Archive.Opere di Tommaso d'Aquino, su Progetto Gutenberg.Audiolibri di Tommaso d'Aquino, su LibriVox.Bibliografia di Tommaso d'Aquino, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.Thomas Aquinas, su Goodreads.(FR) Bibliografia su Tommaso d'Aquino, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Tommaso d'Aquino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.Tommaso d'Aquino, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.Spartiti o libretti di Tommaso d'Aquino, su International Music Score Library Project, Project Petrucci LLC.BiografiaTommaso d'Aquino dall'Internet Encyclopedia of Philosophy, su iep.utm.edu. Naddeo, Pasquale, Modernità, attualità, italianità di S. Tommaso D'Aquino, Salerno : Stab. Tip. F.lli Di Giacomo di Giov., La figura di Tommaso I conte di Acerra, braccio destro di Federico II, su web.archive.org (archiviato il 26 dicembre 2018). Opere (LA) Opera omnia di san Tommaso d'Aquino, su corpusthomisticum.org. URL consultato il 23 ottobre 2006 (archiviato dall'url originale l'11 ottobre 2013).Aquinas in Inglese, su dhspriory.org. Opera omnia di san Tommaso d'Aquino, su documentacatholicaomnia.eu. Opere di Tommaso d'Aquino, su intratext.com. testo con concordanze e lista di frequenza Traduzione italiana del trattato De Ente et Essentia, su ariannascuola.eu. Traduzione italiana del De Ente et essentia in formato epub, su ledizioni. Traduzione parziale della Lettera alla Duchessa di Brabante, sui rapporti con gli Ebrei (PDF), su digilander.libero. Diego Fusaro, Il pensiero e le opere di Tommaso in breve, su filosofico.net. Il catechismo di san Tommaso d'Aquino, su lettereadioealluomo.com (archiviato il 17 aprile 2015). (summa di 5 opere, con l'imprimatur di Mons. Giovanni Canestri)The Catechetical Instructions of Saint Thomas Aquinas (PDF), su documentacatholicaomnia.eu. URL consultato il 18 novembre 2018 (archiviato il 18 novembre 2018). Summa Theologiae Testo integrale della Somma Teologica. La Somma Teologica (ZIP), su digilander.libero.La Summa theologiae di Tommaso, su newadvent.org. TomismoSaint Thomas Aquinas, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. (PT) Instituto Teológico São Tomás de Aquino - Brasile, su ittanoticias.arautos.org. URL consultato il 22 marzo 2011 (archiviato dall'url originale il 20 marzo 2011). Presentazione globale del pensiero filosofico di Tommaso, su mondodomani.org. Scheda su san Tommaso a cura di Marcello Landi, su lgxserver.uniba (archiviato dall'url originale il 25 novembre 2005). Le cinque vie di Tommaso, su ariannascuola.eu. V · D · M Padri e dottori della Chiesa cattolica V · D · M Famiglia domenicana. ·Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Filosofia Portale Filosofia Medioevo Portale Medioevo Categorie: Religiosi italianiTeologi italianiFilosofi italiani del XIII secoloNati nel 1225Morti nel 1274Morti il 7 marzoNati a RoccaseccaTommaso d'AquinoAccademici italianiProfessori dell'Università di ParigiDottori della Chiesa cattolicaFilosofi cattoliciFilosofi della politicaDomenicani italianiScolasticiSanti italiani del XIII secoloSanti canonizzati da Giovanni XXIISanti domenicaniSanti per nomePersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Studenti dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIScrittori medievali in lingua latinaTomismoSanti incorrotti[altre] “Perhaps the Italian most studied at Oxford!”Grice. Aquino and intentionalityClarkArmini -- aquinokeyword: “medieval pragmatics”! -- thomism, the theology and philosophy of Thomas Aquinas. The term is applied broadly to various thinkers from different periods who were heavily influenced by Aquinas’s thought in their own philosophizing and theologizing. Here three different eras and three different groups of thinkers will be distinguished: those who supported Aquinas’s thought in the fifty years or so following his death in 1274; certain highly skilled interpreters and commentators who flourished during the period of “Second Thomism” sixteenthseventeenth centuries; and various late nineteenth- and twentieth-century thinkers who have been deeply influenced in their own work by Aquinas. Thirteenth- and fourteenth-century Thomism. Although Aquinas’s genius was recognized by many during his own lifetime, a number of his views were immediately contested by other Scholastic thinkers. Controversies ranged, e.g., over his defense of only one substantial form in human beings; his claim that prime matter is purely potential and cannot, therefore, be kept in existence without some substantial form, even by divine power; his emphasis on the role of the human intellect in the act of choice; his espousal of a real distinction betweeen the soul and its powers; and his defense of some kind of objective or “real” rather than a merely mind-dependent composition of essence and act of existing esse in creatures. Some of Aquinas’s positions were included directly or indirectly in the 219 propositions condemned by Bishop Stephen Tempier of Paris in 1277, and his defense of one single substantial form in man was condemned by Archbishop Robert Kilwardby at Oxford in 1277, with renewed prohibitions by his successor as archbishop of Canterbury, John Peckham, in 1284 and 1286. Only after Aquinas’s canonization in 1323 were the Paris prohibitions revoked insofar as they touched on his teaching in 1325. Even within his own Dominican order, disagreement about some of his views developed within the first decades after his death, notwithstanding the order’s highly sympathetic espousal of his cause. Early English Dominican defenders of his general views included William Hothum d.1298, Richard Knapwell d.c.1288, Robert Orford b. after 1250, fl.129095, Thomas Sutton d. c. and William Macclesfield, Dominican Thomists included Bernard of Trilia d.1292, Giles of Lessines in present-day Belgium d.c.1304?, John Quidort of Paris d. 1306, Bernard of Auvergne d. after 1307, Hervé Nédélec d.1323, Armand of Bellevue fl. 131634, and William Peter Godin d.1336. The secular master at Paris, Peter of Auvergne d. 1304, while remaining very independent in his own views, knew Aquinas’s thought well and completed some of his commentaries on Aristotle. Sixteenth- and seventeenth-century Thomism. Sometimes known as the period of Second Thomism, this revival gained impetus from the early fifteenth-century writer John Capreolus 13801444 in his Defenses of Thomas’s Theology Defensiones theologiae Divi Thomae, a commentary on the Sentences. A number of fifteenth-century Dominican and secular teachers in G. universities also contributed: Kaspar Grunwald Freiburg; Cornelius Sneek and John Stoppe in Rostock; Leonard of Brixental Vienna; Gerard of Heerenberg, Lambert of Heerenberg, and John Versor all at Cologne; Gerhard of Elten; and in Belgium Denis the Carthusian. Outstanding among various sixteenth-century commentators on Thomas were Tommaso de Vio Cardinal Cajetan, Francis Sylvester of Ferrara, Francisco de Vitoria Salamanca, and Francisco’s disciples Domingo de Soto and Melchior Cano. Most important among early seventeenth-century Thomists was John of St. Thomas, who lectured at Piacenza, Madrid, and Alcalá, and is best known for his Cursus philosophicus and his Cursus theologicus. Theravada Buddhism Thomism 916   916 The nineteenth- and twentieth-century revival. By the early to mid-nineteenth century the study of Aquinas had been largely abandoned outside Dominican circles, and in most Roman Catholic s and seminaries a kind of Cartesian and Suarezian Scholasticism was taught. Long before he became Pope Leo XIII, Joachim Pecci and his brother Joseph had taken steps to introduce the teaching of Thomistic philosophy at the diocesan seminary at Perugia in 1846. Earlier efforts in this direction had been made by Vincenzo Buzzetti, by Buzzetti’s students Serafino and Domenico Sordi, and by Taparelli d’Aglezio, who became director of the Collegio Romano Gregorian  in 1824. Leo’s encyclical Aeterni Patris1879 marked an official effort on the part of the Roman Catholic church to foster the study of the philosophy and theology of Thomas Aquinas. The intent was to draw upon Aquinas’s original writings in order to prepare students of philosophy and theology to deal with problems raised by contemporary thought. The Leonine Commission was established to publish a critical edition of all of Aquinas’s writings; this effort continues today. Important centers of Thomistic studies developed, such as the Higher Institute of Philosophy at Louvain founded by Cardinal Mercier, the Dominican School of Saulchoir in France, and the Pontifical Institute of Mediaeval Studies in Toronto. Different groups of Roman, Belgian, and  Jesuits acknowledged a deep indebtedness to Aquinas for their personal philosophical reflections. There was also a concentration of effort in the United States at universities such as The Catholic  of America, St. Louis , Notre Dame, Fordham, Marquette, and Boston , to mention but a few, and by the Dominicans at River Forest. A great weakness of many of the nineteenthand twentieth-century Latin manuals produced during this effort was a lack of historical sensitivity and expertise, which resulted in an unreal and highly abstract presentation of an “Aristotelian-Thomistic” philosophy. This weakness was largely offset by the development of solid historical research both in the thought of Aquinas and in medieval philosophy and theology in general, championed by scholars such as H. Denifle, M. De Wulf, M. GrabmannMandonnet, F. Van Steenberghen, E. Gilson and many of his students at Toronto, and by a host of more recent and contemporary scholars. Much of this historical work continues today both within and without Catholic scholarly circles. At the same time, remarkable diversity in interpreting Aquinas’s thought has emerged on the part of many twentieth-century scholars. Witness, e.g., the heavy influence of Cajetan and John of St. Thomas on the Thomism of Maritain; the much more historically grounded approaches developed in quite different ways by Gilson and F. Van Steenberghen; the emphasis on the metaphysics of participation in Aquinas in the very different presentations by L. Geiger and C. Fabro; the emphasis on existence esse promoted by Gilson and many others but resisted by still other interpreters; the movement known as Transcendental Thomism, originally inspired byRousselot and by J. Marechal in dialogue with Kant; and the long controversy about the appropriateness of describing Thomas’s philosophy and that of other medievals as a Christian philosophy. An increasing number of non-Catholic thinkers are currently directing considerable attention to Aquinas, and the varying backgrounds they bring to his texts will undoubtedly result in still other interesting interpretations and applications of his thought to contemporary concerns.   : --a strange genitive for “Aquino,” the little village where the saint was born. while Grice, being C. of E., would avoid Aquinas like the rats, he was aware of Aquinas’s clever ‘intention-based semantics’ in his commentary of Aristotle’s De Interpretatione. Saint Thomas 122574,  philosopher-theologian, the most influential thinker of the medieval period. He produced a powerful philosophical synthesis that combined Aristotelian and Neoplatonic elements within a Christian context in an original and ingenious way. Life and works. Thomas was born at Aquino castle in Roccasecca, Italy, and took early schooling at the Benedictine Abbey of Monte Cassino. He then studied liberal arts and philosophy at the  of Naples 123944 and joined the Dominican order. While going to Paris for further studies as a Dominican, he was detained by his family for about a year. Upon being released, he studied with the Dominicans at Paris, perhaps privately, until 1248, when he journeyed to a priori argument Aquinas, Saint Thomas 36   36 Cologne to work under Albertus Magnus. Thomas’s own report reportatio of Albertus’s lectures on the Divine Names of Dionysius and his notes on Albertus’s lectures on Aristotle’s Ethics date from this period. In 1252 Thomas returned to Paris to lecture there as a bachelor in theology. His resulting commentary on the Sentences of Peter Lombard dates from this period, as do two philosophical treatises, On Being and Essence De ente et essentia and On the Principles of Nature De principiis naturae. In 1256 he began lecturing as master of theology at Paris. From this period 125659 date a series of scriptural commentaries, the disputations On Truth De veritate, Quodlibetal Questions VIIXI, and earlier parts of the Summa against the Gentiles Summa contra gentiles; hereafter SCG. At different locations in Italy from 1259 to 1269, Thomas continued to write prodigiously, including, among other works, the completion of the SCG; a commentary on the Divine Names; disputations On the Power of God De potentia Dei and On Evil De malo; and Summa of Theology Summa theologiae; hereafter ST, Part I. In January 1269, he resumed teaching in Paris as regent master and wrote extensively until returning to Italy in 1272. From this second Parisian regency date the disputations On the Soul De anima and On Virtues De virtutibus; continuation of ST; Quodlibets IVI and XII; On the Unity of the Intellect against the Averroists De unitate intellectus contra Averroistas; most if not all of his commentaries on Aristotle; a commentary on the Book of Causes Liber de causis; and On the Eternity of the World De aeternitate mundi. In 1272 Thomas returned to Italy where he lectured on theology at Naples and continued to write until December 6, 1273, when his scholarly work ceased. He died three months later en route to the Second Council of Lyons. Doctrine. Aquinas was both a philosopher and a theologian. The greater part of his writings are theological, but there are many strictly philosophical works within his corpus, such as On Being and Essence, On the Principles of Nature, On the Eternity of the World, and the commentaries on Aristotle and on the Book of Causes. Also important are large sections of strictly philosophical writing incorporated into theological works such as the SCG, ST, and various disputations. Aquinas clearly distinguishes between strictly philosophical investigation and theological investigation. If philosophy is based on the light of natural reason, theology sacra doctrina presupposes faith in divine revelation. While the natural light of reason is insufficient to discover things that can be made known to human beings only through revelation, e.g., belief in the Trinity, Thomas holds that it is impossible for those things revealed to us by God through faith to be opposed to those we can discover by using human reason. For then one or the other would have to be false; and since both come to us from God, God himself would be the author of falsity, something Thomas rejects as abhorrent. Hence it is appropriate for the theologian to use philosophical reasoning in theologizing. Aquinas also distinguishes between the orders to be followed by the theologian and by the philosopher. In theology one reasons from belief in God and his revelation to the implications of this for created reality. In philosophy one begins with an investigation of created reality insofar as this can be understood by human reason and then seeks to arrive at some knowledge of divine reality viewed as the cause of created reality and the end or goal of one’s philosophical inquiry SCG II, c. 4. This means that the order Aquinas follows in his theological Summae SCG and ST is not the same as that which he prescribes for the philosopher cf. Prooemium to Commentary on the Metaphysics. Also underlying much of Aquinas’s thought is his acceptance of the difference between theoretical or speculative philosophy including natural philosophy, mathematics, and metaphysics and practical philosophy. Being and analogy. For Aquinas the highest part of philosophy is metaphysics, the science of being as being. The subject of this science is not God, but being, viewed without restriction to any given kind of being, or simply as being Prooemium to Commentary on Metaphysics; In de trinitate, qu. 5, a. 4. The metaphysician does not enjoy a direct vision of God in this life, but can reason to knowledge of him by moving from created effects to awareness of him as their uncreated cause. God is therefore not the subject of metaphysics, nor is he included in its subject. God can be studied by the metaphysician only indirectly, as the cause of the finite beings that fall under being as being, the subject of the science. In order to account for the human intellect’s discovery of being as being, in contrast with being as mobile studied by natural philosophy or being as quantified studied by mathematics, Thomas appeals to a special kind of intellectual operation, a negative judgment, technically named by him “separation.” Through this operation one discovers that being, in order to be realized as such, need not be material and changAquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas 37   37 ing. Only as a result of this judgment is one justified in studying being as being. Following Aristotle and Averroes, Thomas is convinced that the term ‘being’ is used in various ways and with different meanings. Yet these different usages are not unrelated and do enjoy an underlying unity sufficient for being as being to be the subject of a single science. On the level of finite being Thomas adopts and adapts Aristotle’s theory of unity by reference to a first order of being. For Thomas as for Aristotle this unity is guaranteed by the primary referent in our predication of being  substance. Other things are named being only because they are in some way ordered to and dependent on substance, the primary instance of being. Hence being is analogous. Since Thomas’s application of analogy to the divine names presupposes the existence of God, we shall first examine his discussion of that issue. The existence of God and the “five ways.” Thomas holds that unaided human reason, i.e., philosophical reason, can demonstrate that God exists, that he is one, etc., by reasoning from effect to cause De trinitate, qu. 2, a. 3; SCG I, c. 4. Best-known among his many presentations of argumentation for God’s existence are the “five ways.” Perhaps even more interesting for today’s student of his metaphysics is a brief argument developed in one of his first writings, On Being and Essence c.4. There he wishes to determine how essence is realized in what he terms “separate substances,” i.e., the soul, intelligences angels of the Christian tradition, and the first cause God. After criticizing the view that created separate substances are composed of matter and form, Aquinas counters that they are not entirely free from composition. They are composed of a form or essence and an act of existing esse. He immediately develops a complex argument: 1 We can think of an essence or quiddity without knowing whether or not it actually exists. Therefore in such entities essence and act of existing differ unless 2 there is a thing whose quiddity and act of existing are identical. At best there can be only one such being, he continues, by eliminating multiplication of such an entity either through the addition of some difference or through the reception of its form in different instances of matter. Hence, any such being can only be separate and unreceived esse, whereas esse in all else is received in something else, i.e., essence. 3 Since esse in all other entities is therefore distinct from essence or quiddity, existence is communicated to such beings by something else, i.e., they are caused. Since that which exists through something else must be traced back to that which exists of itself, there must be some thing that causes the existence of everything else and that is identical with its act of existing. Otherwise one would regress to infinity in caused causes of existence, which Thomas here dismisses as unacceptable. In qu. 2, a. 1 of ST I Thomas rejects the claim that God’s existence is self-evident to us in this life, and in a. 2 maintains that God’s existence can be demonstrated by reasoning from knowledge of an existing effect to knowledge of God as the cause required for that effect to exist. The first way or argument art. 3 rests upon the fact that various things in our world of sense experience are moved. But whatever is moved is moved by something else. To justify this, Thomas reasons that to be moved is to be reduced from potentiality to actuality, and that nothing can reduce itself from potency to act; for it would then have to be in potency if it is to be moved and in act at the same time and in the same respect. This does not mean that a mover must formally possess the act it is to communicate to something else if it is to move the latter; it must at least possess it virtually, i.e., have the power to communicate it. Whatever is moved, therefore, must be moved by something else. One cannot regress to infinity with moved movers, for then there would be no first mover and, consequently, no other mover; for second movers do not move unless they are moved by a first mover. One must, therefore, conclude to the existence of a first mover which is moved by nothing else, and this “everyone understands to be God.” The second way takes as its point of departure an ordering of efficient causes as indicated to us by our investigation of sensible things. By this Thomas means that we perceive in the world of sensible things that certain efficient causes cannot exercise their causal activity unless they are also caused by something else. But nothing can be the efficient cause of itself, since it would then have to be prior to itself. One cannot regress to infinity in ordered efficient causes. In ordered efficient causes, the first is the cause of the intermediary, and the intermediary is the cause of the last whether the intermediary is one or many. Hence if there were no first efficient cause, there would be no intermediary and no last cause. Thomas concludes from this that one must acknowledge the existence of a first efficient cause, “which everyone names God.” The third way consists of two major parts. Some Aquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas 38   38 textual variants have complicated the proper interpretation of the first part. In brief, Aquinas appeals to the fact that certain things are subject to generation and corruption to show that they are “possible,” i.e., capable of existing and not existing. Not all things can be of this kind revised text, for that which has the possibility of not existing at some time does not exist. If, therefore, all things are capable of not existing, at some time there was nothing whatsoever. If that were so, even now there would be nothing, since what does not exist can only begin to exist through something else that exists. Therefore not all beings are capable of existing and not existing. There must be some necessary being. Since such a necessary, i.e., incorruptible, being might still be caused by something else, Thomas adds a second part to the argument. Every necessary being either depends on something else for its necessity or it does not. One cannot regress to infinity in necessary beings that depend on something else for their necessity. Therefore there must be some being that is necessary of itself and that does not depend on another cause for its necessity, i.e., God. The statement in the first part to the effect that what has the possibility of not existing at some point does not exist has been subject to considerable dispute among commentators. Moreover, even if one grants this and supposes that every individual being is a “possible” and therefore has not existed at some point in the past, it does not easily follow from this that the totality of existing things will also have been nonexistent at some point in the past. Given this, some interpreters prefer to substitute for the third way the more satisfactory versions found in SCG I ch. 15 and SCG II ch. 15. Thomas’s fourth way is based on the varying degrees of perfection we discover among the beings we experience. Some are more or less good, more or less true, more or less noble, etc., than others. But the more and less are said of different things insofar as they approach in varying degrees something that is such to a maximum degree. Therefore there is something that is truest and best and noblest and hence that is also being to the maximum degree. To support this Thomas comments that those things that are true to the maximum degree also enjoy being to the maximum degree; in other words he appeals to the convertibility between being and truth of being. In the second part of this argument Thomas argues that what is supremely such in a given genus is the cause of all other things in that genus. Therefore there is something that is the cause of being, goodness, etc., for all other beings, and this we call God. Much discussion has centered on Thomas’s claim that the more and less are said of different things insofar as they approach something that is such to the maximum degree. Some find this insufficient to justify the conclusion that a maximum must exist, and would here insert an appeal to efficient causality and his theory of participation. If certan entities share or participate in such a perfection only to a limited degree, they must receive that perfection from something else. While more satisfactory from a philosophical perspective, such an insertion seems to change the argument of the fourth way significantly. The fifth way is based on the way things in the universe are governed. Thomas observes that certain things that lack the ability to know, i.e., natural bodies, act for an end. This follows from the fact that they always or at least usually act in the same way to attain that which is best. For Thomas this indicates that they reach their ends by “intention” and not merely from chance. And this in turn implies that they are directed to their ends by some knowing and intelligent being. Hence some intelligent being exists that orders natural things to their ends. This argument rests on final causality and should not be confused with any based on order and design. Aquinas’s frequently repeated denial that in this life we can know what God is should here be recalled. If we can know that God exists and what he is not, we cannot know what he is see, e.g., SCG I, c. 30. Even when we apply the names of pure perfections to God, we first discover such perfections in limited fashion in creatures. What the names of such perfections are intended to signify may indeed be free from all imperfection, but every such name carries with it some deficiency in the way in which it signifies. When a name such as ‘goodness’, for instance, is signified abstractly e.g., ‘God is goodness’, this abstract way of signifying suggests that goodness does not subsist in itself. When such a name is signified concretely e.g., ‘God is good’, this concrete way of signifying implies some kind of composition between God and his goodness. Hence while such names are to be affirmed of God as regards that which they signify, the way in which they signify is to be denied of him. This final point sets the stage for Thomas to apply his theory of analogy to the divine names. Names of pure perfections such as ‘good’, ‘true’, ‘being’, etc., cannot be applied to God with Aquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas 39   39 exactly the same meaning they have when affirmed of creatures univocally, nor with entirely different meanings equivocally. Hence they are affirmed of God and of creatures by an analogy based on the relationship that obtains between a creature viewed as an effect and God its uncaused cause. Because some minimum degree of similarity must obtain between any effect and its cause, Thomas is convinced that in some way a caused perfection imitates and participates in God, its uncaused and unparticipated source. Because no caused effect can ever be equal to its uncreated cause, every perfection that we affirm of God is realized in him in a way different from the way we discover it in creatures. This dissimilarity is so great that we can never have quidditative knowledge of God in this life know what God is. But the similarity is sufficient for us to conclude that what we understand by a perfection such as goodness in creatures is present in God in unrestricted fashion. Even though Thomas’s identification of the kind of analogy to be used in predicating divine names underwent some development, in mature works such as On the Power of God qu. 7, a. 7, SCG I c.34, and ST I qu. 13, a. 5, he identifies this as the analogy of “one to another,” rather than as the analogy of “many to one.” In none of these works does he propose using the analogy of “proportionality” that he had previously defended in On Truth qu. 2, a. 11. Theological virtues. While Aquinas is convinced that human reason can arrive at knowledge that God exists and at meaningful predication of the divine names, he does not think the majority of human beings will actually succeed in such an effort SCG I, c. 4; ST IIIIae, qu. 2, a. 4. Hence he concludes that it was fitting for God to reveal such truths to mankind along with others that purely philosophical inquiry could never discover even in principle. Acceptance of the truth of divine revelation presupposes the gift of the theological virtue of faith in the believer. Faith is an infused virtue by reason of which we accept on God’s authority what he has revealed to us. To believe is an act of the intellect that assents to divine truth as a result of a command on the part of the human will, a will that itself is moved by God through grace ST II IIae, qu. 2, a. 9. For Thomas the theological virtues, having God the ultimate end as their object, are prior to all other virtues whether natural or infused. Because the ultimate end must be present in the intellect before it is present to the will, and because the ultimate end is present in the will by reason of hope and charity the other two theological virtues, in this respect faith is prior to hope and charity. Hope is the theological virtue through which we trust that with divine assistance we will attain the infinite good  eternal enjoyment of God ST IIIIae, qu. 17, aa. 12. In the order of generation, hope is prior to charity; but in the order of perfection charity is prior both to hope and faith. While neither faith nor hope will remain in those who reach the eternal vision of God in the life to come, charity will endure in the blessed. It is a virtue or habitual form that is infused into the soul by God and that inclines us to love him for his own sake. If charity is more excellent than faith or hope ST II IIae, qu. 23, a. 6, through charity the acts of all other virtues are ordered to God, their ultimate end qu. 23, a. 8.  Aquino -- Aquinismo“If followers of William are called Occamists, followers of a Saint should surely call themselves “Aquinistae”! -- neo-Thomismas opposed to palaeo-Thomism --, a philosophical-theological movement in the nineteenth and twentieth centuries manifesting a revival of interest in Aquinas. It was stimulated by Pope Leo XIII’s encyclical Aeterni Patris 1879 calling for a renewed emphasis on the teaching of Thomistic principles to meet the intellectual and social challenges of modernity. The movement reached its peak in the 0s, though its influence continues to be seen in organizations such as the  Catholic Philosophical Association. Among its major figures are Joseph Kleutgen, Désiré Mercier, Joseph Maréchal, Pierre Rousselot, Réginald Garrigou-LaGrange, Martin Grabmann, M.-D. Chenu, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Yves R. Simon, Josef Pieper, Karl Rahner, Cornelio Fabro, Emerich Coreth, Bernard Lonergan, and W. Norris Clarke. Few, if any, of these figures have described themselves as NeoThomists; some explicitly rejected the designation. Neo-Thomists have little in common except their commitment to Aquinas and his relevance to the contemporary world. Their interest produced a more historically accurate understanding of Aquinas and his contribution to medieval thought Grabmann, Gilson, Chenu, including a previously ignored use of the Platonic metaphysics of participation Fabro. This richer understanding of Aquinas, as forging a creative synthesis in the midst of competing traditions, has made arguing for his relevance easier. Those Neo-Thomists who were suspicious of modernity produced fresh readings of Aquinas’s texts applied to contemporary problems Pieper, Gilson. Their influence can be seen in the revival of virtue theory and the work of Alasdair MacIntyre. Others sought to develop Aquinas’s thought with the aid of later Thomists Maritain, Simon and incorporated the interpretations of Counter-Reformation Thomists, such as Cajetan and Jean Poinsot, to produce more sophisticated, and controversial, accounts of the intelligence, intentionality, semiotics, and practical knowledge. Those Neo-Thomists willing to engage modern thought on its own terms interpreted modern philosophy sympathetically using the principles of Aquinas Maréchal, Lonergan, Clarke, seeking dialogue rather than confrontation. However, some readings of Aquinas are so thoroughly integrated into modern philosophy that they can seem assimilated Rahner, Coreth; their highly individualized metaphysics inspired as much by other philosophical influences, especially Heidegger, as Aquinas. Some of the labels currently used among Neo-Thomists suggest a division in the movement over critical, postKantian methodology. ‘Existential Thomism’ is used for those who emphasize both the real distinction between essence and existence and the role of the sensible in the mind’s first grasp of being. ‘Transcendental Thomism’ applies to figures like Maréchal, Rousselot, Rahner, and Coreth who rely upon the inherent dynamism of the mind toward the real, rooted in Aquinas’s theory of the active intellect, from which to deduce their metaphysics of being.  Dedicatio. Dilecto sibi praeposito Lovaniensi frater Thomas de Aquino salutem et verae sapientiae incrementa. Diligentiae tuae, qua in iuvenili aetate non vanitati sed sapientiae intendis, studio provocatus, et desiderio satisfacere cupiens, libro Aristotelis, qui peri hermeneias dicitur, multis obscuritatibus involuto, inter multiplices occupationum mearum sollicitudines, expositionem adhibere curavi, hoc gerens in animo sic altiora pro posse perfectioribus exhibere, ut tamen iunioribus proficiendi auxilia tradere non recusem. Suscipiat ergo studiositas tua praesentis expositionis munus exiguum, ex quo si profeceris, provocare me poteris ad maiora. 1 Sicut dicit philosophus in III de anima, duplex est operatio intellectus: una quidem, quae dicitur indivisibilium intelligentia, per quam scilicet intellectus apprehendit essentiam uniuscuiusque rei in seipsa; alia est operatio intellectus scilicet componentis et dividentis. Additur autem et tertia operatio, scilicet ratiocinandi, secundum quod ratio procedit a notis ad inquisitionem ignotorum. Harum autem operationum prima ordinatur ad secundam: quia non potest esse compositio et divisio, nisi simplicium apprehensorum. Secunda vero ordinatur ad tertiam: quia videlicet oportet quod ex aliquo vero cognito, cui intellectus assentiat, procedatur ad certitudinem accipiendam de aliquibus ignotis. There is a twofold operation of the intellect, as the Philosopher says in III De anima [6: 430a 26]. One is the understanding of simple objects, that is, the operation by which the intellect apprebends just the essence of a thing alone; the other is the operation of composing and dividing. There is also a third operation, that of reasoning, by which reason proceeds from what is known to the investigation of things that are unknown. The first of these operations is ordered to the second, for there cannot be composition and division unless things have already been apprehended simply. The second, in turn, is ordered to the third, for clearly we must proceed from some known truth to which the intellect assents in order to have certitude about something not yet known. Aquinas pr. 2 Cum autem logica dicatur rationalis scientia, necesse est quod eius consideratio versetur circa ea quae pertinent ad tres praedictas operationes rationis. De his igitur quae pertinent ad primam operationem intellectus, idest de his quae simplici intellectu concipiuntur, determinat Aristoteles in libro praedicamentorum. De his vero, quae pertinent ad secundam operationem, scilicet de enunciatione affirmativa et negativa, determinat philosophus in libro perihermeneias. De his vero quae pertinent ad tertiam operationem determinat in libro priorum et in consequentibus, in quibus agitur de syllogismo simpliciter et de diversis syllogismorum et argumentationum speciebus, quibus ratio de uno procedit ad aliud. Et ideo secundum praedictum ordinem trium operationum, liber praedicamentorum ordinatur ad librum perihermeneias, qui ordinatur ad librum priorum et sequentes. 2. Since logic is called rational science it must direct its consideration to the things that belong to the three operations of reason we have mentioned. Accordingly, Aristotle treats those belonging to the first operation of the intellect, i.e., those conceived by simple understanding, in the book Praedicamentorum; those belonging to the second operation, i.e., affirmative and negative enunciation, in the book Perihermeneias; those belonging to the third operation in the book Priorum and the books following it in which he treats the syllogism absolutely, the different kinds of syllogism, and the species of argumentation by which reason proceeds from one thing to another. And since the three operations of reason are ordered to each other so are the books: the Praedicamenta to the Perihermeneias and the Perihermeneias to the Priora and the books following it. Aquinas pr. 3. Dicitur ergo liber iste, qui prae manibus habetur, perihermeneias, quasi de interpretatione. Dicitur autem interpretatio, secundum Boethium, vox significativa, quae per se aliquid significat, sive sit complexa sive incomplexa. Unde coniunctiones et praepositiones et alia huiusmodi non dicuntur interpretationes, quia non per se aliquid significant. Similiter etiam voces signi-ficantes naturaliter, non ex proposito aut cum imaginatione aliquid significandi, sicut sunt voces brutorum animalium, interpretationes dici non possunt. Qui enim interpretatur aliquid exponere intendit. Et ideo sola nomina et verba et orationes dicuntur interpretationes, de quibus in hoc libro determinatur. Sed tamen nomen et verbum magis interpretationis principia esse videntur, quam interpretationes. Ille enim interpretari videtur, qui exponit aliquid esse verum vel falsum. Et ideo sola oratio enunciativa, in qua verum vel falsum invenitur, interpretatio vocatur. Caeterae vero orationes, ut optativa et imperativa, magis ordinantur ad exprimendum affectum, quam ad interpretandum id quod in intellectu habetur. Intitulatur ergo liber iste de interpretatione, ac si dicetur de enunciativa oratione: in qua verum vel falsum invenitur. Non autem hic agitur de nomine et verbo, nisi in quantum sunt partes enunciationis. Est enim proprium uniuscuiusque scientiae partes subiecti tradere, sicut et passiones. Patet igitur ad quam partem philosophiae pertineat liber iste, et quae sit necessitas istius, et quem ordinem teneat inter logicae libros.3. The one we are now examining is named Perihermeneias, that is, On Interpretation. Interpretation, according to Boethius, is "significant vocal sound —whether complex or incomplex — which signifies something by itself.” Conjunctions, then, and prepositions and other words of this kind are not called interpretations since they do not signify anything by themselves. Nor can sounds signifying naturally but not from purpose or in connection with a mental image of signifying something—such as the sounds of brute animals—be called interpretations, for one who in terprets intends to explain something. Therefore only names and verbs and speech are called interpretations and these Aristotle treats in this book. The name and verb, however, seem to be principles of interpretation rather than interpretations, for one who interprets seems to explain something as either true or false. Therefore, only enunciative speech in which truth or falsity is found is called interpretation. Other kinds of speech, such as optatives and imperatives, are ordered rather to expressing volition than to interpreting what is in the intellect. This book, then, is entitled On Interpretation, that is to say, On Enunciative Speech in which truth or falsity is found. The name and verb are treated only insofar as they are parts of the enunciation; for it is proper to a science to treat the parts of its subject as well as its properties. It is clear, then, to which part of philosophy this book belongs, what its necessity is, and what its place is among the books on logic. I. 1. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur. The Philosopher begins this work with an introduction in which he points out one by one the things that are to be treated. For, since every science begins with a treatment of the principles, and the principles of composite things are their parts, one who intends to treat enunciation must begin with its parts, Therefore Aristotle begins by saying: First we must determine, i.e., define, what a name is and what a verb is. In the Greek text it is First we must posit, which signifies the same thing, for demonstrations presuppose definitions, from which they conclude, and hence definitions are rightly called "positions.” This is the reason he only points out here the definitions of the things to be treated; for from definitions other things are known. 2. Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur. Ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis. Et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum. It might be asked why it is necessary to treat simple things again, i.e., the name and the verb, for they were treated in the book Praedicamentorum. In answer to this we should say that simple words can be considered in three ways: first, as they signify simple intellection absolutely, which is the consideration proper to the book Praedicamentorum; secondly, according to their function as parts of the enunciation, which is the way they are considered in this book. Hence, they are treated here under the formality of the name and the verb, and under this formality they signify something with time or without time and other things of the kind that belong to the formality of words as they are components of an enunciation. Finally, simple words may be considered as they are components of a syllogistic ordering. They are treated then under the formality of terms and this Aristotle does in the book Priorum. 3 Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones. It might be asked why he treats only the name and verb and omits the other parts of speech. The reason could be that Aristotle intends to establish rules about the simple enunciation and for this it is sufficient to consider only the parts of the enunciation that are necessary for simple speech. A simple enunciation can be formed from just a name and a verb, but it cannot be formed from other parts of speech without these. Therefore, it is sufficient to treat these two.On the other hand, the reason could be that names and verbs are the principal parts of speech. Pronouns, which do not name a nature but determine a person-and therefore are put in place of names-are comprehended under names. The participle-althougb it has similarities with the name-signifies with time and is therefore comprehended under the verb. The others are things that unite the parts of speech. They signify relations of one part to another rather than as parts of speech; as nails and other parts of this kind are not parts of a ship, but connect the parts of a ship. 4 His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur. After he has proposed these parts [the name and the verb] as principles, Aristotle states what he principally intends to establish:... then what negation is and affirmation. These, too, are parts of the enunciation, not integral parts however, as are the name and the verb—otherwise every enunciation would have to be formed from an affirmation and negation—but subjective parts, i.e., species. This is supposed here but will be proved later. 5 Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enunciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Since enunciation is divided into categorical and hypothetical, it might be asked why he does not list these as well as affirmation and negation. In reply to this we could say that Aristotle has not added these because the hypothetical enunciation is composed of many categorical propositions and hence categorical and hypothetical only differ according to the difference of one and many.Or we could say—and this would be a better reason—that the hypothetical enunciation does not contain absolute truth, the knowledge of which is required in demonstration, to which this book is principally ordered; rather, it signifies something as true by supposition, which does not suffice for demonstrative sciences unless it is confirmed by the absolute truth of the simple enunciation. This is the reason Aristotle does not treat either hypothetical enunciations or syllogisms. He adds, and the enunciation, which is the genus of negation and affirmation; and speech, which is the genus of enunciation.  6 Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. If it should be asked why, besides these, he does not mention vocal sound, it is because vocal sound is something natural and therefore belongs to the consideration of natural philosophy, as is evident in II De Anima [8: 420b 5-421a 6] and at the end of De generatione animalium [ch. 8]. Also, since it is something natural, vocal sound is not properly the genus of speech but is presupposed for the forming of speech, as natural things are presupposed for the formation of artificial things. 7 Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus. Nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus. Et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. In this introduction, however, Aristotle seems to have inverted the order of the enunciation, for affirmation is naturally prior to negation and enunciation prior to these as a genus; and consequently, speech to enunciation. We could say in reply to this that he began to enumerate from the parts and consequently he proceeds from the parts to the whole. He puts negation, which contains division, before affirmation, which consists of composition, for the same reason: division is closer to the parts, composition closer to the whole. Or we could say, as some do, that he puts negation first because in those things that can be and not be, non-being, which negation signifies, is prior to being, which affirmation signifies. Aristotle, however, does not refer to the fact that one of them is placed before the other, for they are species equally dividing a genus and are therefore simultaneous according to nature.  II. 1. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces signi-ficativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de sign-ificatione vocum. Et deinde de vocibus signi-ficativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi:. Nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit. Pprimo, determinat qualis sit sign-ificatio vocum. Scundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum. Ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit. Primo quidem, praemittit ordinem signi-ficationis vocum. Secundo, ostendit qualis sit vocum signi-ficatio, utrum sit ex natura vel *ex impositione* [ex positione, ex arte non ex natura – signo ex natura – signo ex arte, segno da natura, segno d’arte --. Ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera. After his introduction the Philosopher begins to investigate the things he has proposed. Since the things he promised to speak of are either complex or incomplex significant vocal sounds, he prefaces this with a treatment of the signification of vocal sounds; then he takes up the significant vocal sounds he proposed in the introduction where he says, A name, then, is a vocal sound significant by convention, without time, etc. In regard to the signification of vocal sounds he first determines what kind of signification vocal sound has and then shows the difference between the signification of complex and incomplex vocal sounds where he says, As sometimes there is thought in the soul, etc. With respect to the first point, he presents the order of the signification of vocal sounds and then shows what kind of signification vocal sound has, i.e., whether it is from nature or by imposition. This he does where he says, And just as letters are not the same for all men, etc. 2 Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Aristoteles proponit enim scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex im-pressione alicuius agentis. Et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus [teoria causale della percezione]. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum *notitiam* [nota, notitia – notizia – notatura --]  in se haberet. Sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale [chi ama la comunicazione!], necesse fuit quod conceptiones unius hominis *innotescerent* [co-gnoscere] [informare, notificare, essibire, per influire] aliis, quod fit per vocem. Et ideo necesse fuit esse voces signi-ficativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox signi-ficativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant. Sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc. Consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus scripturae. Apropos of the order of signification of vocal sounds he proposes three things, from one of which a fourth is understood. He proposes writing, vocal sounds, and passions of the soul; things is understood from the latter, for passion is from the impression of something acting, and hence passions of the soul have their origin from things. Now if man were by nature a solitary animal the passions of the soul by which he was conformed to things so as to have knowledge of them would be sufficient for him; but since he is by nature a political and social animal it was necessary that his conceptions be made known to others. This he does through vocal sound. Therefore there had to be significant vocal sounds in order that men might live together. Whence those who speak different languages find it difficult to live together in social unity. Again, if man had only sensitive cognition, which is of the here and now, such significant vocal sounds as the other animals use to manifest their conceptions to each other would be sufficient for him to live with others. But man also has the advantage of intellectual cognition, which abstracts from the here and now, and as a consequence, is concerned with things distant in place and future in time as well as things present according to time and place. Hence the use of writing was necessary so that he might manifest his conceptions to those who are distant according to place and to those who will come in future time. 3. Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, signi-ficatio vocum, quae est *immediate* [senza medio, non-mediata] ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius. Signi-ficatio autem litterarum, tanquam magis remota [mediate], non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici e non filosofi. Et ideo exponens ordinem signi-ficationum non incipit a litteris, sed a vocibus. Quarum primo signi-ficationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens. Qquia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis. Haec autem sunt voces signi-ficativae. Ergo oportet vocum significationem exponere. However, since logic is ordered to obtaining knowledge about things, the signification of vocal sounds, which is immediate to the conceptions of the intellect, is its principal consideration. The signification of written signs, being more remote, belongs to the consideration of the grammarian rather than the logician. Aristotle therefore begins his explanation of the order of signification from vocal sounds, not written signs. First he explains the signification of vocal sounds: Therefore those that are in vocal sound are signs of passions in the soul. He says "therefore” as if concluding from premises, because he has already said that we must establish what a name is, and a verb and the other things he mentioned; but these are significant vocal sounds; therefore, signification of vocal sounds must be explained. 4. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus. Alio modo, in prolatione vocis. Tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc. Ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt signi-ficativae, et earum quaedam sunt signi-ficativae *naturaliter*, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium. Ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum signi-ficant *ex institutione humana*, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno. Ideo ad *de-signandum* [DE-SIGNARE, desegno] nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. When he says "Those that are in vocal sound,” and not "vocal sounds,” his mode of speaking implies a continuity with what he has just been saying, namely, we must define the name and the verb, etc. Now these have being in three ways: in the conception of the intellect, in the utterance of the voice, and in the writing of letters. He could therefore mean when he says "Those that are in vocal sound,” etc., names and verbs and the other things we are going to define, insofar as they are in vocal sound, are signs. On the other hand, he may be speaking in this way because not all vocal sounds are significant, and of those that are, some are significant naturally and hence are different in nature from the name and the verb and the other things to be defined. Therefore, to adapt what he has said to the things of which he intends to speak he says, "Those that are in vocal sound,” i.e., that are contained under vocal sound as parts under a whole. There could be still another reason for his mode of speaking. Vocal sound is something natural. The name and verb, on the other hand, signify by human institution, that is, the signification is added to the natural thing as a form to matter, as the form of a bed is added to wood. Therefore, to designate names and verbs and the other things he is going to define he says, "Those that are in vocal sound,” in the same way he would say of a bed, "that which is in wood.” 5. Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus *sensibilis* affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum [infirmi], et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis *ex institutione* humana. Et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet. Significat enim hoc nomen ‘homo’ naturam humanam [homo] in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem. Unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam *ideam* [hominis] separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu. Ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate [IN-MEDIATA, NON-MEDIATA – senza medio] et eis mediantibus [MEDIATA -- medio] res. U segna [mediatamente] che piove non che CREDE che piove.  When he speaks of passions in the soul we are apt to think of the affections of the sensitive appetite, such as anger, joy, and the other passions that are customarily and commonly called passions of the soul, as is the case in II Ethicorum [5: 1105b 21]. It is true that some of the vocal sounds man makes signify passions of this kind naturally, such as the groans of the sick and the sounds of other animals, as is said in I Politicae [2: 1253a 10-14]. But here Aristotle is speaking of vocal sounds that are significant by human institution. Therefore "passions in the soul” must be understood here as conceptions of the intellect, and names, verbs, and speech, signify these conceptions of the intellect immediately according to the teaching of Aristotle. They cannot immediately signify things, as is clear from the mode of signifying, for the name "man” signifies human nature in abstraction from singulars; hence it is impossible that it immediately signify a singular man. The Platonists for this reason held that it signified the separated idea of man. But because in Aristotle’s teaching man in the abstract does not really subsist, but is only in the mind, it was necessary for Aristotle to say that vocal sounds signify the conceptions of the intellect immediately and things by means of them. 6. Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones. Ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae *operations* [judicate/volere – accetare]. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine “phantasmate” [sing. fantasma – etym. – fendere, offendere, manifestare, diafano]. Quod non est sine corporali [del corpo] passione. Unde et *imaginativam* philosophus in III de anima vocat passivum [non activum] intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis [passibilis] quoddam *pati* est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta *ex amore* vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit. Tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam *impressionis* [im-primere – ex-primere] vel passionis. Since Aristotle did not customarily speak of conceptions of the intellect as passions, Andronicus took the position that this book was not Aristotle’s. In I De anima, however, it is obvious that he calls all of the operations of the soul "passions” of the soul. Whence even the conception of the intellect can be called a passion and this either because we do not understand without a phantasm, which requires corporeal passion (for which reason the Philosopher calls the imaginative power the passive intellect) [De Anima III, 5: 430a 25]; or because by extending the name "passion” to every reception, the understanding of the possible intellect is also a kind of undergoing, as is said in III De anima [4: 429b 29]. Aristotle uses the name "passion,” rather than "understanding,” however, for two reasons: first, because man wills to signify an interior conception to another through vocal sound as a result of some passion of the soul, such as love or hate; secondly, because the signification of vocal sound is referred to the conception of the intellect inasmuch as the conception arises from things by way of a kind of impression or passion. 7. Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de signi-ficatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus. Ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur. Quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod *nomina* [Fido -- denotatum] et verba [-- is shaggy -- attributum], quae sunt in voce, sunt *signa* eorum quae sunt *in* *anima*, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. When he says, and those that are written are signs of those in vocal sound, he treats of the signification of writing. According to Alexander he introduces this to make the preceding clause evident by means of a similitude; and the meaning is: those that are in vocal sound are signs of the passions of the soul in the way in which letters are of vocal sound; then he goes On to manifest this point where he says, And just as letters are not the same for all men so neither are vocal sounds the same—by introducing this as a sign of the preceding. For when he says in effect, just as there are diverse vocal sounds among diverse peoples so there are diverse letters, he is signifying that letters signify vocal. sounds. And according to this exposition Aristotle said those that are written are signs... and not, letters are signs of those that are in vocal sound, because they are called letters in both speech and writing, alt bough they are more properly called letters in writing; in speech they are called elements of vocal sound. Aristotle, however, does not say, just as those that are written, but continues with his account. Therefore it is better to say as Porphyry does, that Aristotle adds this to complete the order of signification. For after he says that names and verbs in vocal sound are signs of those [names and verbs – ‘Fido is shaggy’ denotative – attributive – the S is P -- in the soul, he adds—in continuity with this—that names and verbs that are written are signs of the names and verbs that are in vocal sound. 8. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum signi-ficantium et signi-ficatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras. Quarum non solum *ratio significandi est ex impositione* [positione], sed etiam ipsarum formatio fit *per artem* [per arte ma non ‘artificiale’ – signo di natura, signo di arte, signum naturae, signum artis, signum naturalis – signum artis – segno artato -- --. [non per naturam]. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter significant, sed *ex institutione* humana. Voces autem illae, quae naturaliter signi-FICANT, sicut gemitus infirmorum [infirmi] et alia huiusmodi, sunt *eadem* apud omnes. Then where he says, And just as letters are not the same for all men so neither are vocal sounds the same, he shows that the foresaid things differ as signified and signifying inasmuch as they are either according to nature or not. He makes three points here. He first posits a sign to show that neither vocal sounds nor letters signify naturally; things that signify naturally are the same among all men; but the signification of letters and vocal sounds, which is the point at issue here, is not the same among all men. There has never been any question about this in regard to letters, for their character of signifying is from imposition and their very formation is through art. Vocal sounds, however, are formed naturally and hence there is a question as to whether they signify naturally. Aristotle determines this by comparison with letters: these are not the same among all men, and so neither are vocal sounds the same. Consequently, like letters, vocal sounds do not signify naturally but by human institution. The vocal sounds that do signify naturally, such as groans of the sick and others of this kind, are the same among all men.  9. Secundo, ibi. Quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit. Quorum autem. Idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt *notae*, idest *signa*; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum. Voces enim non proferuntur, nisi ad ex-primendum [exprimere] in-teriores [interior/exterior] animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter. Passiones autem animae dicit esse similitudines rerum. Et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio *institutionis*, sicut et in multis aliis signis. Ut *tuba* est signum [sola ratio institutionis] belli [notifica la partenza dalla battaglia]. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Secondly, when he says, but the passions of the soul, of which vocal sounds are the first signs, are the same for all, he shows that passions of the soul exist naturally, just as things exist naturally, for they are the same among all men. For, he says, but the passions of the soul, i.e., just as the passions of the soul are the same for all men; of which first, i.e., of which passions, being first, these, namely, vocal sounds, are tokens [cf. teach] -- ,” i.e., signs” (for passions of the soul are compared to vocal sounds as first to second since vocal sounds are produced *only* to express interior passions of the soul), so also the things... are the same, i.e., are the same among all, of which, i.e., of which things, passions of the soul are likenesses. Notice he says here that letters are signs, i.e., signs of vocal sounds, and similarly vocal sounds are signs of passions of the soul, but that passions of the soul are likenesses of things. This is because a thing is not known by the soul unless there is some likeness of the thing existing either in the sense or in the intellect. Now letters are signs of vocal sounds and vocal sounds of passions in such a way that we do not attend to any idea of likeness in regard to them but *only one [idea] of institution, as is the case in regard to many other signs, for example, the trumpet as a sign of war. But in the passions of the soul we have to take into account the idea of a likeness to the things represented, since passions of the soul designate things naturally, not by institution. 10 Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem. Quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est [homo] [viz. animale razionale], quodcunque aliud aliquid, quam [hominem] apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo *signanter* dicit. Quorum primorum hae *notae* sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo signi-ficatas. There are some who object to Aristotle’s position that passions of the soul, which vocal sounds signify, are the same for all men. Their argument against it is as follows. Different men have different opinions about things. Therefore, passions of the soul do not seem to be the same among all men. Boethius in reply to this objection says that here Aristotle is using ‘passions of the soul’ to denote conceptions of the intellect, and since the intellect is never deceived, conceptions of the intellect must be the same among all men. For if someone is at variance with what is true, in this instance he does not understand. However, since what is false can also be in the intellect, not as it *knows* what a thing is, i.e., the essence of a thing, but as it composes and divides, as is said in III De anima [6: 430a 26]. Aristotle’s statement should be referred to the simple conceptions of the intellect — that are signified by the incomplex vocal sounds — which are the same among all men. For if someone truly understands what man [homo[ is [viz. animale razionale], whatever else than man he apprehends he does not understand *as* man. Simple conceptions of the intellect, which vocal sounds first signify, are of this kind. This is why Aristotle says in IV Metaphysicae [IV, 4: 1006b 4] that the notion which the name signifies is the definition.” And this is the reason Aristotle expressly says, ‘of which first [passions] these are signs [notae]’, I .e., so that this will be referred to the first conceptions [conceptiones] first signified by vocal sounds. 11. Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequi-vocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem signi-ficandam eam refert. Et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere *identitatem* conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conception. Quia voces sunt diversae apud diversos. Sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem. The equivocal name is given as another objection to this position, for in the case of an equivocal name the same vocal sound does *not* signify the same passion among all men. Porphyry answers this by pointing out that a man who utters a vocal sound *intends* it to signify one conception of the intellect. If the person to whom he is speaking understands something else by it, the one who is speaking, by explaining himself, will make the one to whom he is speaking refer his understanding to the same thing. However it is better to say that it is not Aristotle’s intention to maintain an identity of the conception of the soul in relation to a vocal sound such that there is one conception in relation to one vocal sound, for vocal sounds are different among different peoples. Rather, he intends to maintain an identity of the conceptions of the soul in relation to things, which things he also says are the same. 12 Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint *animae passiones*, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Thirdly when he says, This has been discussed, however, in our study of the soul, etc., he excuses himself from a further consideration of these things, for the nature of the passions of the soul and the way in which they are likenesses of things does not pertain to logic but to philosophy of nature and has already been treated in the book De anima [III, 4-8]. III. 1. Postquam philosophus tradidit ordinem signi-ficationis vocum, hic agit de diversa vocum signi-ficatione. Quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam. Secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus prae-ambulae sunt ordine naturae vocibus, quae *ad eas exprimendas* [exprimere] proferuntur [pro-ferere], ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa signi-ficationes vocum. Ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus. After the Philosopher has treated the order of the signification of vocal sounds, he goes on to discuss a diversity in the signification of vocal sounds, i.e., some of them signify the true or the false, others do not. He first states the difference and then manifests it where he says, for in composition and division there is truth and falsity. Now because in the order of nature conceptions of the intellect precede vocal sounds, which are uttered to express them, he assigns the difference in respect to the significations of vocal sounds from a likeness to the difference in intellection. Thus the manifestation is from a likeness and at the same time from the cause which the effects imitate. 2. Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima. In quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae [notae, signa, vestigial] formantur ad exprimendas – exprimere -- conceptiones – conceptus -- intellectus, ideo ad hoc quod *signum* [signans – segno -- segnante] conformetur [conformatur] signato [segnato], necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso. The operation of the intellect is twofold, as was said in the beginning, and as is explained in III De anima [6: 430a 26]. Now truth and falsity is found in one of these operations but not in the other. This is what Aristotle says at the beginning of this portion of the text, i.e., that in the soul sometimes there is thought without truth and falsity, but sometimes of necessity it has one or the other of these. And since significant vocal sounds are formed to express these conceptions of the intellect, it is necessary that some significant vocal sounds signify without truth and falsity, others with truth and falsity—in order that the sign be conformed to what is signified. 3 Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima. Then when he says, for in composition and division there is truth and falsity, he manifests what he has just said: first with respect to what he has said about thought; secondly, with respect to what he has said about the likeness of vocal sounds to thought, where he says Names and verbs, then are like understanding without composition or division, etc. To show that sometimes there is thought without truth or falsity and sometimes it is accompanied by one of these, he says first that truth and falsity concern composition and division. To understand this we must note again that one of the two operations of the intellect is the understanding of what is indivisible. This the intellect does when it understands the quiddity or essence of a thing absolutely, for instance, what man is or what white is or what something else of this kind is. The other operation is the one in which it composes and divides simple concepts of this kind. He says that in this second operation of the intellect, i.e., composing and dividing, truth and falsity is found; the conclusion being that it is not found in the first, as he also says in III De anima [6: 430a 26]. 4 Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem. There seems to be a difficulty about this point, for division is made by resolution to what is indivisible, or simple, and therefore it seems that just as truth and falsity is not in simple things, so neither is it in division. To answer this it should be pointed out that the conceptions of the intellect are likenesses of things and therefore the things that are in the intellect can be considered and named in two ways: according to themselves, and according to the nature of the things of which they are the likenesses. For just as a statue—say of Hercules—in itself is called and is bronze but as it is a likeness of Hercules is named man, so if we consider the things that are in the intellect in themselves, there is always composition where there is truth and falsity, for they are never found in the intellect except as it compares one simple concept with another. But if the composition is referred to reality, it is sometimes called composition, sometimes division: composition when the intellect compares one concept to another as though apprehending a conjunction or identity of the things of which they are conceptions; division, when it so compares one concept with another that it apprehends the things to be diverse. In vocal sound, therefore, affirmation is called composition inasmuch as it signifies a conjunction on the part of the thing and negation is called division inasmuch as it signifies the separation of things. 5 Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componit vel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem. There is still another objection in relation to this point. It seems that truth is not in composition and division alone, for a thing is also said to be true or false. For instance, gold is said to be true gold or false gold. Furthermore, being and true are said to be convertible. It seems, therefore, that the simple conception of the intellect, which is a likeness of the thing, also has truth and falsity. Again, the Philosopher says in his book De anima [II, 6: 418a 15], that the sensation of proper sensibles is always true. But the sense does not compose or divide. Therefore, truth is not in composition and division exclusively. Moreover, in the divine intellect there is no composition, as is proved in XII Metaphysicae [9: 1074b 15–1075a 11]. But the first and highest truth is in the divine intellect. Therefore, truth is not in composition and division exclusively. 6 Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet. To answer these difficulties the following considerations are necessary. Truth is found in something in two ways: as it is in that which is true, and as it is in the one speaking or knowing truth. Truth as it is in that which is true is found in both simple things and composite things, but truth in the one speaking or knowing truth is found only according to composition and division. This will become clear in what follows. 7 Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Truth, as the Philosopher says in VI Ethicorum [2: 1139a 28-30], is the good of the intellect. Hence, anything that is said to be true is such by reference to intellect. Now vocal sounds are related to thought as signs, but things are related to thought as that of which thoughts are likenesses. It must be noted, however, that a thing is related to thought in two ways: in one way as the measure to the measured, and this is the way natural things are related to the human speculative intellect. Whence thought is said to be true insofar as it is conformed to the thing, but false insofar as it is not in conformity with the thing. However, a natural thing is not said to be true in relation to our thought in the way it was taught by certain ancient natural philosophers who supposed the truth of things to be only in what they seemed to be. According to this view it would follow that contradictories could be at once true, since the opinions of different men can be contradictory. Nevertheless, some things are said to be true or false in relation to our thought—not essentially or formally, but effectively—insofar as they are so constituted naturally as to cause a true or false estimation of themselves. It is in this way that gold is said to be true or false. In another way, things are compared to thought as measured to the measure, as is evident in the practical intellect, which is a cause of things. In this way, the work of an artisan is said to be true insofar as it achieves the conception in the mind of the artist, and false insofar as it falls short of that conception. 8 Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum. Now all natural things are related to the divine intellect as artifacts to art and therefore a thing is said to be true insofar as it has its own form, according to which it represents divine art; false gold, for example, is true copper. It is in terms of this that being and true are converted, since any natural thing is conformed to divine art through its form. For this reason the Philosopher in I Physicae [9: 192a 17] says that form is something divine. 9. Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa. And just as a thing is said to be true by comparison to its measure, so also is sensation or thought, whose measure is the thing outside of the soul. Accordingly, sensation is said to be true when the sense through its form is in conformity with the thing existing outside of the a soul. It is in this way that the sensation of proper sensibles is true, and the intellect apprehending what a thing is apart from composition and division is always true, as is said in III De anima [3: 427b 12; 428a 11; 6: 43a 26]. It should be noted, however, that although the sensation of the proper object is true the sense does not perceive the sensation to be true, for it cannot know its relationship of conformity with the thing but only apprehends the thing. The intellect, on the other hand, can know its relationship of conformity and therefore only the intellect can know truth. This is the reason the Philosopher says in VI Metaphysicae [4: 1027b 26] that truth is only in the mind, that is to say, in one knowing truth. To know this relationship of conformity is to judge that a thing is such or is not, which is to compose and divide; therefore, the intellect does not know truth except by composing and dividing through its judgment. If the judgment is in accordance with things it will be true, i.e., when the intellect judges a thing to be what it is or not to be what it is not. The judgment will be false when it is not in accordance with the thing, i.e., when it judges that what is, is not, or that what is not, is. It is evident from this that truth and falsity as it is in the one knowing and speaking is had only in composition and division. This is what the Philosopher is speaking of here. And since vocal sounds are signs of thought, that vocal sound will be true which signifies true thought, false which signifies false thought, although vocal sound insofar as it is a real thing is said to be true in the same way other things are. Thus the vocal sound "Man is an ass” is truly vocal sound and truly a sign, but because it is a sign of something false it is said to be false. 10 Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter. It should be noted that the Philosopher is speaking of truth here as it relates to the human intellect, which judges of the conformity of things and thought by composing and dividing. However, the judgment of the divine intellect concerning this is without composition and division, for just as our intellect understands material things immaterially, so the divine intellect knows composition and division simply.” Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum. Secundo, probat per signum. Ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. When he says, Names and verbs, then, are like thought without composition or division, he manifests what he has said about the likeness of vocal sounds to thought. Next he proves it by a sign when he says, A sign of this is that "goatstag” signifies something but is neither true nor false, etc. Here he concludes from what has been said that since there is truth and falsity in the intellect only when there is composition or division, it follows that names and verbs, taken separately, are like thought which is without composition and division; as when we say "man” or "white,” and nothing else is added. For these are neither true nor false at this point, but when "to be” or "not to be” is added they be come true or false. Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est *implicita* -- im-plicata – implicatura – implicitura -- compositio, licet non explicita – ex-plicata – explicatura – explicitura --.  Although one might think so, the case of someone giving a,, single name as a true response to a question is not an instance that can be raised against this position; for example, suppose someone asks, "What swims in the sea?” and the answer is "Fish”; this is not opposed to the position Aristotle is taking here, for the verb that was posited in the question is understood. And just as the name said by itself does not signify truth or falsity, so neither does the verb said by itself. The verbs of the first and second person and the intransitive verb” are not instances opposed to this position either, for in these a particular and determined nominative is understood. Consequently there is implicit composition, though not explicit.  13. Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet “hirco-cervus”, quod componitur ex “hirco” et “cervus” et quod in graeco dicitur “tragelaphos” -- nam “tragos” est ‘hircus’, et “elaphos” ‘cervus’. [Benedetto Croce – Calogero – antifascism – liberaldemocrazia – Berlusconi – ‘che diavolo e un icocerco? Una chimera, ma anche un obggetivo possibile”] Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Then he says, A sign of this is that "goatstag” signifies something but is neither true nor false unless "to be or "not to be” is added either absolutely or according to time. Here he introduces as a sign the composite name "goatstag,” from "goat” and "stag.” In Greek the word is "tragelaphos,” from "tragos” meaning goat and "elaphos” meaning stag. Now names of this kind signify something, namely, certain simple concepts (although the things they signify are composite), and therefore are not true or false unless "to be” or "not to be” is added, by which a judgment of the intellect is expressed. The "to be” or "not to be” can be added either according to present time, which is to be or not to be in act and for this reason is to be simply; or according to past or future time, which is to be relatively, not simply; as when we say that something has been or will be. Notice that Aristotle expressly uses as an example here a name signifying something that does not exist in reality, in which fictiveness is immediately evident, and which cannot be true or false without composition and division.  IV.  1. Postquam [Aristoteles] philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus signi-ficativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri. In qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti. Ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione. Ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius. Secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus. Ibi: oratio autem est vox signi-ficativa et cetera. Circa primum duo facit. Primo, determinat de nomine, quod signi-ficat rei substantiam. Secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re. Ibi: verbum autem est quod con-significat tempus et cetera. Circa primum tria facit. Primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit. Ibi: in nomine enim quod est equiferus etc. Tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen. [“Having determined the order of the signification of vocal sounds, the Philosopher begins here to establish the definitions of the significant vocal sounds. His principal intention is to establish what an enunciation is—which is the subject of this book—but since in any science the principles of the subject must be known first, he begins with the principles of the enunciation and then establishes what an enunciation is where he says, All speech is not enunciative, etc.” With respect to the principles of the enunciation he first determines the nature of the quasi material principles, i.e., its integral parts, and secondly the formal principle, i.e., speech, which is the genus of the enunciation, where he says, Speech is significant vocal sound, etc.” Apropos of the quasi material principles of the enunciation he first establishes that a name signifies the substance of a thing and then that the verb signifies action or passion proceeding from a thing, where he says The verb is that which signifies with time, etc.” In relation to this first point, he first defines the name, and then explains the definition where he says, for in the name "Campbell” the part "bell,” as such, signifies nothing, etc., and finally excludes certain things—those that do not have the definition of the name perfectly—where he says, "Non-man,” however, is not a name, etc.”] 2. Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem. Ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat. Nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. [“It should be noted in relation to defining the name, that a definition is said to be a limit because it includes a thing totally, i.e., such that nothing of the thing is outside of the definition, that is, there is nothing of the thing to which the definition does not belong; nor is any other thing under the definition, that is, the definition belongs to no other thing.”] 3 Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet *signi-ficativa*, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut “biltris”, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de signi-ficatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox signi-ficativa. Aristotle posits five parts in the definition of the name. Vocal sound is given first, as the genus. This distinguishes the name from all sounds that are not vocal; for vocal sound is sound produced from the mouth of an animal and involves a certain kind of mental image, as is said in II De anima [8: 420b 30-34]. The second part is the first difference, i.e., significant, which differentiates the name from any non-significant vocal sound, whether lettered and articulated, such as "biltris,” or non-lettered and non-articulated, as a hissing for no reason. Now since he has already determined the signification of vocal sounds, he concludes from what has been established that a name is a significant vocal sound.  4 Sed cum vox sit quaedam res *naturalis*, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est *ex natura*, sed magis *signum*, quod est *ex institutione*. Ut diceretur: nomen est *signum* vocale. Sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  But vocal sound is a natural thing, whereas a name is not natural but instituted by men; it seems, therefore, that Aristotle should have taken sign, which is from institution, as the genus of the name, rather than vocal sound, which is from nature. Then the definition would be: a name is a vocal sign, etc., just as a salver would be more suitably defined as a wooden dish than as wood formed into a dish. 5. Sed dicendum quod *arti-ficialia* sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae. Nam formae *arti-ficialium* accidentia sunt. Nomen ergo signi-ficat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto signi-ficant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum *arti-ficialium* significant formas accidentales, ut concretas subiectis *naturalibus*, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res *naturalis* quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox signi-ficativa. Secus autem esset, si nomina *arti-ficialium* acciperentur, quasi signi-ficantia ipsas formas arti-ficiales in abstracto. [5. “It should be noted, however, that while it is true that artificial things are in the genus of substance on the part of matter, they are in the genus of accident on the part of form, since the forms of artificial things are accidents. A name, therefore, signifies an accidental form made concrete in a subject. Now the subject must be posited in the definition of every accident; hence, when names signify an accident in the abstract the accident has to be posited directly (i.e., in the nominative case) as a quasi-genus in their definition and the subject posited obliquely (i.e., in an oblique case such as the genitive, dative, or accusative) as a quasi-difference; as for example, when we define snubness as curvedness of the nose. But when names signify an accident ill the concrete, the matter or subject has to be posited in their definition as a quasi-genus and the accident as a quasi-difference, as when we say that a snub nose is a curved nose. Accordingly, if the names of artificial things signify accidental forms as made concrete in *natural* subjects, then it is more appropriate to posit the natural thing in their definition as a quasi-genus. We would say, therefore, that a salver is shaped wood, and likewise, that a name is a significant vocal sound. It would be another matter if names of *artificial* things were taken as signifying artificial forms in the abstract”]. 6. Tertio, Aristotele ponit secundam differentiam cum dicit: ‘secundum placitum’, idest *secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem*. Et per hoc differt nomen a vocibus signi-FICANTIBUS *naturaliter*, sicut sunt *gemitus infirmorum* [gemitus infirmi] et voces brutorum animalium. 7. Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. The fourth part is the third difference, i.e., without time, which differentiates the name from the verb. This, however, seems to be false, for the name "day” or "year” signifies time. But there are three things that can be considered with respect to time; first, time itself, as it is a certain kind of thing or reality, and then it can be signified by a name just like any other thing; secondly, that which is measured by time, insofar as it is measured by time. Motion, which consists of action and passion, is what is measured first and principally by time, and therefore the verb, which signifies action and passion, signifies with time. Substance considered in itself, which a name or a pronoun signify, is not as such measured by time, but only insofar as it is subjected to motion, and this the participle signifies. The verb and the participle, therefore, signify with time, but not the name and pronoun. The third thing that can be considered is the very relationship of time as it measures. This is signified by adverbs of time such as "tomorrow,” "yesterday,” and others of this kind. 8 Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. The fifth part is the fourth difference, no part of which is significant separately, that is, separated from the whole name; but it is related to the signification of the name according as it is in the whole. The reason for this is that signification is a quasi-form of the name. But no separated part has the form of the whole; just as the hand separated from the man does not have the human form. This difference distinguishes the name from speech, some parts of which signify separately, as for example in "just man.” 9 Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine tempore, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero nonquemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae. When he says, for in the name "Campbell” the part "bell” as such signifies nothing, etc., he explains the definition. First he explains the last part of the definition; secondly, the third part, by convention. The first two parts were explained in what preceded, and the fourth part, without time, will be explained later in the section on the verb. And first he explains the last part by means of a composite name; then he shows what the difference is between simple and composite names where he says, However the case is not exactly the same in simple names and composite names, etc. First, then, he shows that a part separated from a name signifies nothing. To do this he uses a composite name because the point is more striking there. For in the name "Campbell” the part "bell” per se signifies nothing, although it does signify something in the phrase "camp bell.” The reason for this is that one name is imposed to signify one simple conception; but that from which a name is imposed to signify is different from that which a name signifies. For example, the name "pedigree”, The Latin here is lapis, from laesione pedis. To bring out the point St. Thomas is making herean equivalent English word of Latin derivation, i.e., "pedigree,” has been used. Close is imposed from pedis and grus [crane’s foot] which it does not signify, to signify the concept of a certain thing. Hence, a part of the composite name—which composite name is imposed to signify a simple concept—does not signify a part of the composite conception from which the name is imposed to signify. Speech, on the other hand, does signify a composite conception. Hence, a part of speech signifies a part of the composite conception. 10. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. When he says, However, the case is not exactly the same in simple names and composite names, etc., he shows that there is a difference between simple and composite names in regard to their parts not signifying separately. Simple names are not the same as composite names in this respect because in simple names a part is in no way significant, either according to truth or according to appearance, but in composite names the part has meaning, i.e., has the appearance of signifying; yet a part of it signifies nothing, as is said of the name "breakfast.” The reason for this difference is that the simple name is imposed to signify a simple concept and is also imposed from a simple concept; but the composite name is imposed from a composite conception, and hence has the appearance that a part of it signifies. 11. Deinde cum dicit: “secundum placitum”, etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen “significat secundum placitum”, quia nullum nomen est “naturaliter”. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat *naturaliter*, sed *ex institutione*. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat *non fit* [cfr. signi-FICARE], sed naturaliter est signum. Et hoc *signi-ficat* cum dicit. Illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris *signi-FICARI* non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias *passiones* *naturaliter* *signi-FICANT*. Nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter. --- 12. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est. However, there were diverse opinions about this. Some men said that names in no way signify naturally and that it makes no difference which things are signified by which names. Others said that names signify naturally in every way, as if names were natural likenesses of things. Still others said names do not signify naturally, i.e., insofar as their signification is not from nature, as Aristotle maintains here, but that names do signify naturally in the sense that their signification corresponds to the natures of things, as Plato held. The fact that one thing is signified by many names is not in opposition to Aristotle’s position here, for there can be many likenesses of one thing; and similarly, from diverse properties many diverse names can be imposed on one thing. When Aristotle says, but none of them is a name, he does not mean that the sounds of animals are not named, for we do have names for them; "roaring,” for example, is said of the sound made by a lion, and "lowing” of that of a cow. What he means is that no such sound is a name. 13 Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est. When he says, "Non-man,” however, is not a name, etc., he points out that certain things do not have the nature of a name. First he excludes the infinite name; then the cases of the name where he says, "Of Philo” and "to Philo,” etc. He says that "non-man” is not a name because every name signifies some determinate nature, for example, "man,” or a determinate person in the case of the pronoun, or both determinately, as in "Socrates.” But when we say "non-man” it signifies neither a determinate nature nor a determinate person, because it is imposed from the negation of man, which negation is predicated equally of being and non-being. Consequently, "non-man” can be said indifferently both of that which does not exist in reality, as in "A chimera is non-man,” and of that which does exist in reality, as in "A horse is non-man.” Now if the infinite name were imposed from a privation it would require at least an existing subject, but since it is imposed from a negation, it can be predicated of being and nonbeing, as Boethius and Ammonius say. However, since it signifies in the mode of a name, and can therefore be subjected and predicated, a suppositum is required at least in apprehension. In the time of Aristotle there was no name for words of this kind. They are not speech since a part of such a word does not signify something separately, just as a part of a composite name does not signify separately; and they are not negations, i.e., negative speech, for speech of this kind adds negation to affirmation, which is not the case here. Therefore he imposes a new name for words of this kind, the "infinite name,” because of the indetermination of signification, as has been said. 14 Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur. When he says, "Of Philo” and "to Philo” and all such expressions are not names but modes of names, he excludes the cases of names from the nature of the name. The nominative is the one that is said to be a name principally, for the imposition of the name to signify something was made through it. Oblique expressions of the kind cited are called cases of the name because they fall away from the nominative as a kind of source of their declension. On the other hand, the nominative, because it does not fall away, is said to be erect. The Stoics held that even the nominatives were cases (with which the grammarians agree), because they fall, i.e., proceed from the interior conception of the mind; and they said they were also called erect because nothing prevents a thing from falling in such a way that it stands erect, as when a pen falls and is fixed in wood. Aquinas lib. 1 l. 4 n. 15Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Then he says, The definition of these is the same in all other respects as that of the name itself, etc. Here Aristotle shows how oblique cases are related to the name. The definition, as it signifies the name, is the same in the others, namely, in the cases of the name. But they differ in this respect: the name joined to the verb "is” or "will be” or "has been” always signifies the true or false; in oblique cases this is not so. It is significant that the substantive verb is the one he uses as an example, for there are other verbs, i.e., impersonal verbs, that do signify the true or false when joined with a name in an oblique case, as in "It grieves Socrates,” because the act of the verb is understood to be carried over to the oblique cases, as though what were said were, "Grief possesses Socrates.” Aquinas lib. 1 l. 4 n. 16Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. However, an objection could be made against Aristotle’s position in this portion of his text. If the infinite name and the cases of the name are not names, then the definition of the name (which belongs to these) is not consistently presented. There are two ways of answering this objection. We could say, as Ammonius does, that Aristotle defines the name broadly, and afterward limits the signification of the name by subtracting these from it. Or, we could say that the definition Aristotle has given does not belong to these absolutely, since the infinite name signifies nothing determinate, and the cases of the name do not signify according to the first intent of the one instituting the name, as has been said. V. 1. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera. After determining the nature of the name the Philosopher now determines the nature of the verb. First he defines the verb; secondly, he excludes certain forms of verbs from the definition, where he says, "Non-matures” and "non-declines” I do not call verbs, etc.; finally, he shows in what the verb and name agree where he says, Verbs in themselves, said alone, are names, etc. First, then, he defines the verb and immediately begins to explain the definition where he says, I mean by "signifies with time,” etc. 2 Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat. In order to be brief, Aristotle does not give what is common to the name and the verb in the definition of the verb, but leaves this for the reader to understand from the definition of the name. He posits three elements in the definition of the verb. The first of these distinguishes the verb from the name, for the verb signifies with time, the name without time, as was stated in its definition. The second element, no part of which signifies separately, distinguishes the verb from speech. 3 Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari. This second element was also given in the definition of the name and therefore it seems that this second element along with vocal sound significant by convention, should have been omitted. Ammonius says in reply to this that Aristotle posited this in the definition of the name to distinguish it from speech which is composed of names, as in "Man is an animal”; but speech may also be composed of verbs, as in "To walk is to move”; therefore, this also bad to be repeated in the definition of the verb to distinguish it from speech. We might also say that since the verb introduces the composition which brings about speech signifying truth or falsity, the verb seems to be more like speech (being a certain formal part of it) than the name which is a material and subjective part of it; therefore this had to be repeated. 4 Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati. The third element distinguishes the verb not only from the name, but also from the participle, which also signifies with time. He makes this distinction when he says, and it is a sign of something said of something else, i.e., names and participles can be posited on the part of the subject and the predicate, but the verb is always posited on the part of the predicate. 5 Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam. But it seems that verbs are used as subjects. The verb in the infinitive mode is an instance of this, as in the example, "To walk is to be moving.” Verbs of the infinitive mode, however, have the force of names when they are used as subjects. (Hence in both Greek and ordinary Latin usage articles are added to them as in the case of names.) The reason for this is that it is proper to the name to signify something as existing per se, but proper to the verb to signify action or passion. Now there are three ways of signifying action or passion. It can be signified per se, as a certain thing in the abstract and is thus signified by a name such as "action,” "passion,” "walking,” "running,” and so on. It can also be signified in the mode of an action, i.e., as proceeding from a substance and inhering in it as in a subject; in this way action or passion is signified by the verbs of the different modes attributed to predicates. Finally—and this is the third way in which action or passion can be signified—the very process or inherence of action can be apprehended by the intellect and signified as a thing. Verbs of the infinitive mode signify such inherence of action in a subject and hence can be taken as verbs by reason of concretion, and as names inasmuch as they signify as things. 6 Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. On this point the objection may also be raised that verbs of other modes sometimes seem to be posited as subjects; for example when we say, "‘Matures’is a verb.” In such a statement, however, the verb "matures” is not taken formally according as its signification is referred to a thing, but as it signifies the vocal sound itself materially, which vocal sound is taken as a thing. When posited in this way, i.e., materially, verbs and all parts of speech are taken with the force of names.  7 Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo. Then he says, I mean by "signifies with time” that "maturity,” for example, is a name, but "matures” is a verb, etc.”’ With this he begins to explain the definition of the verb: first in regard to signifies with time; secondly, in regard to the verb being a sign of something said of something else. He does not explain the second part, no part of which signifies separately, because an explanation of it has already been made in connection with the name. First, he shows by an example that the verb signifies with time. "Maturity,” for example, because it signifies action, not in the mode of action but. in the mode of a thing existing per se, does not signify with time, for it is a name. But "matures,” since it is a verb signifying action, signifies with time, because to be measured by time is proper to motion; moreover, actions are known by us in time. We have already mentioned that to signify with time is to signify something measured in time. Hence it is one thing to signify time principally, as a thing, which is appropriate to the name; however, it is another thing to signify with time, which is not proper to the name but to the verb. 8 Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto. Then he says, Moreover, a verb is always a sign of something that belongs to something, i.e., of something present in a subject. Here he explains the last part of the definition of the verb. It should be noted first that the subject of an enunciation signifies as that in which something inheres. Hence, when the verb signifies action through the mode of action (the nature of which is to inhere) it is always posited on the part of the predicate and never on the part of the subject—unless it is taken with the force of a name, as was said. The verb, therefore, is always said to be a sign of something said of another, and this not only because the verb always signifies that which is predicated but also because there must be a verb in every predication, for the verb introduces the composition by which the predicate is united with the subject. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 9Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter. The last phrase of this portion of the text presents a difficulty, namely, "of something belonging to [i.e., of] a subject or in a subject.” For it seems that something is said of a subject when it is predicated essentially, as in "Man is an animal”; but in a subject, when it is an accident that is predicated of a subject, as in "Man is white.” But if verbs signify action or passion (which are accidents), it follows that they always signify what is in a subject. It is useless, therefore, to say "belonging to [i.e., of] a subject or in a subject.” In answer to this Boethius says that both pertain to the same thing, for an accident is predicated of a subject and is also in a subject. Aristotle, however, uses a disjunction, which seems to indicate that he means something different by each. Therefore it could be said in reply to this that when Aristotle says the verb is always a sign of those things that are predicated of another” it is not to be understood as though the things signified by verbs are predicated. For predication seems to pertain more properly to composition; therefore, the verbs themselves are what are predicated, rather than signify predicates.” The verb, then, is always a sign that something is being predicated because all predication is made through the verb by reason of the composition introduced, whether what is being predicated is predicated essentially or accidentally. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 10Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: et hoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis. When he says, "Non-matures” and "non-declines” I do not call verbs, etc., he excludes certain forms of verbs from the definition of the verb. And first he excludes the infinite verb, then the verbs of past and future time. "Non-matures” and "non-declines” cannot strictly speaking be called verbs for it is proper to the verb to signify something in the mode of action or passion. But these words remove action or passion rather than signify a determinate action or passion. Now while they cannot properly be called verbs, all the parts of the definition of the verb apply to them. First of all the verb signifies time, because it signifies to act or to be acted upon; and since these are in time so are their privations; whence rest, too, is measured by time, as is said in VI Physicorum [3:234a 24–234b 9; & 8: 238a 23–239b 41]. Again, the infinite verb is always posited on the part of the predicate just as the verb is; the reason is that negation is reduced to the genus of affirmation. Hence, just as the verb, which signifies action or passion, signifies something as existing in another, so the foresaid words signify the remotion of action or passion. 11 Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum. Now someone might object that if the definition of the verb applies to the above words, then they are verbs. In answer to this it should be pointed out that the definition which has been given of the verb is the definition of it taken commonly. Insofar as these words fall short of the perfect notion of the verb, they are not called verbs. Before Aristotle’s time a name bad not been imposed for a word that differs from verbs as these do. He calls them infinite verbs because such words agree in some things with verbs and yet fall short of the determinate notion of the verb. The reason for the name, he says, is that an infinite verb can be said indifferently of what is or what is not; for the adjoined negation is taken, not with the force of privation, but with the force of simple negation since privation supposes a determinate subject. Infinite verbs do differ from negative verbs, however, for infinite verbs are taken with the force of one word, negative verbs with the force of two. 12 Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid. When he says, Likewise, "has matured” and "will mature” are not verbs, but modes of verbs, etc., he excludes verbs of past and future time from the definition. For just as infinite verbs are not verbs absolutely, so "will mature,” which is of future time, and "has matured,” of past time, are not verbs. They are cases of the verb and differ from the verb—which signifies with present time—by signifying time before and after the present. Aristotle expressly says "present time” and not just "present” because he does not mean here the indivisible present which is the instant; for in the instant there is neither movement, nor action, nor passion. Present time is to be taken as the time that measures action which has begun and has not yet been terminated in act. Accordingly, verbs that signify with past or future time are not verbs in the proper sense of the term, for the verb is that which signifies to act or to be acted upon and therefore strictly speaking signifies to act or to be acted upon in act, which is to act or to be acted upon simply, whereas to act or to be acted upon in past or future time is relative. 13 Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens. It is with reason that verbs of past or future time are called cases of the verb signifying with present time, for past or future are said with respect to the present, the past being that which was present, the future, that which will be present. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 14Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Although the inflection of the verb is varied by mode, time, number, and person, the variations that are made in number and person do not constitute cases of the verb, the reason being that such variation is on the part of the subject, not on the part of the action. But variation in mode and time refers to the action itself and hence both of these constitute cases of the verb. For verbs of the imperative or optative modes are called cases as well as verbs of past or future time. Verbs of the indicative mode in present time, however, are not called cases, whatever their person and number. 15 Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari. He points out the conformity between verbs and names where he says, Verbs in themselves, said alone, are names. He proposes this first and then manifests it. He says then, first, that verbs said by themselves are names. Some have taken this to mean the verbs that are taken with the force of names, either verbs of the infinitive mode, as in "To run is to be moving,” or verbs of another mode, as in "‘Matures’ is a verb.” But this does not seem to be what Aristotle means, for it does not correspond to what he says next. Therefore "name” must be taken in another way here, i.e., as it commonly signifies any word whatever that is imposed to signify a thing. Now, since to act or to be acted upon is also a certain thing, verbs themselves as they name, i.e., as they signify to act or to be acted upon, are comprehended under names taken commonly. The name as distinguished from the verb signifies the thing under a determinate mode, i.e., according as the thing can be understood as existing per se. This is the reason names can be subjected and predicated. 6 Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit. He proves the point he has just made when he says, and signify something, etc., first by showing that verbs, like names, signify something; then by showing that, like names, they do not signify truth or falsity when he says, for the verb is not a sign of the being or nonbeing of a thing. He says first that verbs have been said to be names only insofar as they signify a thing. Then he proves this: it has already been said that significant vocal sound signifies thought; hence it is proper to significant vocal sound to produce something understood in the mind of the one who hears it. To show, then, that a verb is significant vocal sound he assumes that the one who utters a verb brings about understanding in the mind of the one who bears it. The evidence he introduces for this is that the mind of the one who bears it is set at rest. 17 Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. But what Aristotle says here seems to be false, for it is only perfect speech that makes the intellect rest. The name or the verb, if said by themselves, do not do this. For example, if I say "man,” the mind of the hearer is left in suspense as to what I wish to say about mail; and if I say "runs,” the bearer’s mind is left in suspense as to whom I am speaking of. It should be said in answer to this objection that the operation of the intellect is twofold, as was said above, and therefore the one who utters a name or a verb by itself, determines the intellect with respect to the first operation, which is the simple conception of something. It is in relation to this that the one hearing, whose mind was undetermined before the name or the verb was being uttered and its utterance terminated, is set at rest. Neither the name nor the verb said by itself, however, determines the intellect in respect to the second operation, which is the operation of the intellect composing and dividing; nor do the verb or the name said alone set the hearer’s mind at rest in respect to this operation. 18 Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse. Aristotle therefore immediately adds, but they do not yet signify whether a thing is or is not, i.e., they do not yet signify something by way of composition and division, or by way of truth or falsity. This is the second thing he intends to prove, and he proves it by the verbs that especially seem to signify truth or falsity, namely the verb to be and the infinite verb to non-be, neither of which, said by itself, signifies real truth or falsity; much less so any other verbs. This could also be understood in a more general way, i.e., that here he is speaking of all verbs; for he says that the verb does not signify whether a thing is or is not; he manifests this further, therefore, by saying that no verb is significative of a thing’s being or non-being, i.e., that a thing is or is not. For although every finite verb implies being, for "to run” is "to be running,” and every infinite verb implies nonbeing, for "to non-run” is "to be non-running,” nevertheless no verb signifies the whole, i.e., a thing is or a thing is not. 19 Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. He proves this point from something in which it will be clearer when he adds, Nor would it be a sign of the being or nonbeing of a thing if you were to say "is” alone, for it is nothing. It should be noted that the Greek text has the word "being” in place of "is” here. In order to prove that verbs do not signify that a thing is or is not, he takes the source and origin of to be [esse], i.e., being [ens] itself, of which he says, it is nothing. Alexander explains this passage in the following way: Aristotle says being itself is nothing because "being” [ens] is said equivocally of the ten predicaments; now an equivocal name used by itself signifies nothing unless something is added to determine its signification; hence, "is” [est] said by itself does not signify what is or is not. But this explanation is not appropriate for this text. In the first place "being” is not, strictly speaking, said equivocally but according to the prior and posterior. Consequently, said absolutely, it is understood of that of which it is said primarily. Secondly, an equivocal word does not signify nothing, but many things, sometimes being taken for one, sometimes for another. Thirdly, such an explanation does not have much application here. Porphyry explains this passage in another way. He says that "being” [ens] itself does not signify the nature of a thing as the name "man” or "wise” do, but only designates a certain conjunction and this is why Aristotle adds, it signifies with a composition, which cannot be conceived apart from the things composing it. This explanation does not seem to be consistent with the text either, for if "being” itself does not signify a thing, but only a conjunction, it, like prepositions and conjunctions, is neither a name nor a verb. Therefore Ammonius thought this should be explained in another way. He says "being itself is nothing” means that it does not signify truth or falsity. And the reason for this is given when Aristotle says, it signifies with a composition. The "signifies with,” according to Ammonius, does not mean what it does when it is said that the verb signifies with time; "signifies with,” means here signifies with something, i.e., joined to another it signifies composition, which cannot be understood without the extremes of the composition. But this explanation does not seem to be in accordance with the intention of Aristotle, for it is common to all names and verbs not to signify truth or falsity, whereas Aristotle takes "being” here as though it were something special. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 20 Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis. Therefore in order to understand what Aristotle is saying we should note that he has just said that the verb does not signify that a thing exists or does not exist [rem esse vel non esse]; nor does "being” [ens] signify that a thing exists or does not exist. This is what he means when he says, it is nothing, i.e., it does not signify that a thing exists. This is indeed most clearly seen in saying "being” [ens], because being is nothing other than that which is. And thus we see that it signifies both a thing, when I say "that which,” and existence [esse] when I say "is” [est]. If the word "being” [ens] as signifying a thing having existence were to signify existence [esse] principally, without a doubt it would signify that a thing exists. But the word "being” [ens] does not principally signify the composition that is implied in saying "is” [est]; rather, it signifies with composition inasmuch as it signifies the thing having existence. Such signifying with composition is not sufficient for truth or falsity; for the composition in which truth and falsity consists cannot be understood unless it connects the extremes of a composition. 21 Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum. If in place of what Aristotle says we say nor would "to be” itself [nec ipsum esse], as it is in our texts, the meaning is clearer. For Aristotle proves through the verb "is” [est] that no verb signifies that a thing exists or does not exist, since "is” said by itself does not signify that a thing exists, although it signifies existence. And because to be itself seems to be a kind of composition, so also the verb "is” [est], which signifies to be, can seem to signify the composition in which there is truth or falsity. To exclude this Aristotle adds that the composition which the verb "is” signifies cannot be understood without the composing things. The reason for this is that an understanding of the composition which "is” signifies depends on the extremes, and unless they are added, understanding of the composition is not complete and hence cannot be true or false. 22 Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Therefore he says that the verb "is” signifies with composition; for it does not signify composition principally but consequently. it primarily signifies that which is perceived in the mode of actuality absolutely; for "is” said simply, signifies to be in act, and therefore signifies in the mode of a verb. However, the actuality which the verb "is” principally signifies is the actuality of every form commonly, whether substantial or accidental. Hence, when we wish to signify that any form or act is actually in some subject we signify it through the verb "is,” either absolutely or relatively; absolutely, according to present time, relatively, according to other times; and for this reason the verb "is” signifies composition, not principally, but consequently. VI. 1. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera. Having established and explained the definition of the name and the verb, which are the material principles of the enunciation inasmuch as they are its parts, the Philosopher now determines and explains what speech is, which is the formal principle of the enunciation inasmuch as it is its genus. First he proposes the definition of speech; then he explains it where he says, Let me explain. The word "animal” signifies something, etc.; finally, he excludes an error where he says, But all speech is significant—not just as an instrument, however, etc.  2 Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum. In defining speech the Philosopher first states what it has in common with the name and verb where he says, Speech is significant vocal sound. This was posited in the definition of the name but not repeated in the case of the verb, because it was supposed from the definition of the name. This was done for the sake of brevity and to avoid repetition; but subsequently he did prove that the verb signifies something. He repeats this, however, in the definition of speech because the signification of speech differs from that of the name and the verb; for the name and the verb signify simple thought, whereas speech signifies composite thought. 3 Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Secondly, he posits what differentiates speech from the name and verb when he says, of which some of the parts are significant separately; for a part of a name taken separately does not signify anything per se, except in the case of a name composed of two parts, as he said above. Note that he says, of which some of the parts are significant, and not, a part of which is significant separately; this is to exclude negations and the other words used to unite categorical words, which do not in themselves signify something absolutely, but only the relationship of one thing to another. Then because the signification of vocal sound is twofold, one being referred to composite thought, the other to simple thought (the first belonging to speech, the second, not to speech but to a part of speech), he adds, as words but not as an affirmation. What he means is that a part of speech signifies in the way a word signifies, a name or a verb, for instance; it does not signify in the way an affirmation signifies, which is composed of a name and a verb. He only mentions affirmation because negation adds something to affirmation as far as vocal sound is concerned for if a part of speech, since it is simple, does not signify as an affirmation, it will not signify as a negation. 4 Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Aspasius objects to this definition because it does not seem to belong to all parts of speech. There is a kind of speech he says, in which some of the parts signify as an affirmation; for instance, "If the sun shines over the earth, it is day,” and so in many other examples. Porphyry says in reply to this objection that in whatever genus there is something prior and posterior, it is the prior thing that has to be defined. For example, when we give the definition of a species—say, of man—the definition is understood of that which is in act, not of that which is in potency. Since, then, in the genus of speech, simple speech is prior, Aristotle defines it first. Or, we can answer the objection in the way Alexander and Ammonious do. They say that speech is defined here commonly. Hence what is common to simple and composite speech ought to be stated in the definition. Now to have parts signifying something as an affirmation belongs only to composite speech, but to have parts signifying something in the mode of a word and not in the mode of an affirmation is common to simple and composite speech. Therefore this had to be posited in the definition of speech. We should not conclude, however, that it is of the nature of speech that its part not be an affirmation, but rather that it is of the nature of speech that its parts be something that signify in the manner of words and not in the manner of an affirmation. Porphyry’s solution reduces to the same thing as far as meaning is concerned, although it is a little different verbally. Aristotle frequently uses "to say” for "to affirm,” and hence to prevent "word” from being taken as "affirmation” when he says that a part of speech signifies as a word, he immediately adds, not as an affirmation, meaning—according to Porphyry’s view—"word” is not taken here in the sense in which it is the same as "affirmation.” A philosopher called John the Grammarian thought that this definition could only apply to perfect speech because there only seem to be parts in the case of something perfect, or complete; for example, a house to which all of the parts are referred. Therefore only perfect speech has significant parts. He was in error on this point, however, for while it is true that all the parts are referred principally to the perfect, or complete whole, some parts are referred to it immediately, for example, the walls and roof to a house and organic members to an animal; others, however, are referred to it through the principal parts of which they are parts; stones, for example, to the house by the mediate wall, and nerves and bones to the animal by the mediate organic members like the hand and the foot, etc. In the case of speech, therefore, all of the parts are principally referred to perfect speech, a part of which is imperfect speech, which also has significant parts. Hence this definition belongs both to perfect and to imperfect speech. Aquinas lib. 1 l. 6 n. 5Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum. When he says, Let me explain. The word "animal” signifies something, etc., he elucidates the definition. First he shows that what he says is true; secondly, he excludes a false understanding of it where he says, But one syllable of "animal” does not signify anything, etc. He explains that when he says some parts of speech are significant, he means that some of the parts signify something in the way the name "animal,” which is a part of speech, signifies something and yet does not signify as an affirmation or negation, because it does not signify to be or not to be. By this I mean it does not signify affirmation or negation in act, but only in potency; for it is possible to add something that will make it an affirmation or negation, i.e., a verb. 6 Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est. He excludes a false understanding of what has been said by his next statement. But one syllable of "animal” does not signify anything. This could be referred to what has just been said and the meaning would be that the name will be an affirmation or negation if something is added to it, but not if what is added is one syllable of a name. However, what he says next is not compatible with this meaning and therefore these words should be referred to what was stated earlier in defining speech, namely, to some parts of which are significant separately. Now, since what is properly called a part of a whole is that which contributes immediately to the formation of the whole, and not that which is a part of a part, "some parts” should be understood as the parts from which speech is immediately formed, i.e., the name and verb, and not as parts of the name or verb, which are syllables or letters. Hence, what is being said here is that a part of speech is significant separately but not such a part as the syllable of a name. He manifests this by means of syllables that sometimes can be words signifying per se. "Owl,” for example, is sometimes one word signifying per se. When taken as a syllable of the name "fowl,” however, it does not signify something per se but is only a vocal sound. For a word is composed of many vocal sounds, but it has simplicity in signifying insofar as it signifies simple thought. Hence, a word inasmuch as it is a composite vocal sound can have a part which is a vocal sound, but inasmuch as it is simple in signifying it cannot have a signifying part. Whence syllables are indeed vocal sounds, but they are not vocal sounds signifying per se. In contrast to this it should be noted that in composite names, which are imposed to signify a simple thing from some composite understanding, the parts appear to signify something, although according to truth they do not. For this reason he adds that in compound words, i.e., composite names, the syllables may be words contributing to the composition of a name, and therefore signify something, namely, in the composite, and according as they are words; but as parts of this kind of name they do not signify something per se, but in the way that has already been explained. 7 Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter. Then he says, But all speech is significant—not just as an instrument, however, etc. Here he excludes the error of those who said that speech and its parts signify naturally rather than by convention. To prove their point they used the following argument. The instruments of a natural power must themselves be natural, for nature does not fail in regard to what is necessary; but the interpretive power is natural to man; therefore, its instruments are natural. Now the instrument of the interpretive power is speech since it is through speech that expression is given to the conception of the mind; for we mean by an instrument that by which an agent operates. Therefore, speech is something natural, signifying, not from human institution, but naturally. Aquinas lib. 1 l. 6 n. 8Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Aristotle refutes this argument, which is said to be that of Plato in the Cratylus, when he says that all speech is significant, but not as an instrument of a power, that is, of a natural power; for the natural instruments of the interpretive power are the throat and lungs, by which vocal sound is formed, and the tongue, teeth and lips by which letters and articulate sounds are formulated. Rather, speech and its parts are effects of the interpretative power through the aforesaid instruments. For just as the motive power uses natural instruments such as arms and hands to make an artificial work, so the interpretative power uses the throat and other natural instruments to make speech. Hence, speech and its parts are not natural things, but certain artificial effects. This is the reason Aristotle adds here that speech signifies by convention, i.e., according to the ordinance of human will and reason. It should be noted, however, that if we do not attribute the interpretative power to a motive power, but to reason, then it is not a natural power but is beyond every corporeal nature, since thought is not an act of the body, as is proved in III De anima [4: 429a 10]. Moreover, it is reason itself that moves the corporeal motive power to make artificial works, which reason then uses as instruments; and thus artificial works are not instruments of a corporeal power. Reason can also use speech and its parts in this way, i.e., as instruments, although they do not signify naturally. VII. 1. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidemrelinquantur. Having defined the principles of the enunciation, the Philosopher now begins to treat the enunciation itself. This is divided into two parts. In the first he examines the enunciation absolutely; in the second the diversity of enunciations resulting from an addition to the simple enunciation. The latter is treated in the second book, where he says, Since an affirmation signifies something about a subject, etc.”’ The first part, on the enunciation absolutely, is divided into three parts. In the first he defines enunciation; in the second he divides it where he says, First affirmation, then negation, is enunciative speech that is one, etc.;” in the third he treats of the opposition of its parts to each other, where he says, Since it is possible to enunciate that what belongs to a subject does not belong to it, etc. In the portion of the text treated in this lesson, which is concerned with the definition of enunciation, he first states the definition, then shows that this definition differentiates the enunciation from other species of speech, where he says, Truth and falsity is not present in all speech however, etc., and finally indicates that only the enunciation is to be treated in this book where he says, Let us therefore consider enunciative speech, etc. 2 Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est. The point has just been made that speech, although it is not an instrument of a power operating naturally, is nevertheless an instrument of reason. Now every instrument is defined by its end, which is the use of the instrument. The use of speech, as of every significant vocal sound, is to signify a conception of the intellect. But there are two operations of the intellect. In one truth and falsity is found, in the other not. Aristotle therefore defines enunciative speech by the signification of the true and false: Yet not all speech is enunciative; but only speech in which there is truth or falsity. Note with what remarkable brevity he signifies the division of speech by Yet not all speech is enunciative, and the definition by, but only speech in which there is truth or falsity. This, then, is to be understood as the definition of the enunciation: speech in which there is truth and falsity. 3 Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est. True or false is said to be in the enunciation as in a sign of true or false thought; but true or false is in the mind as in a subject (as is said in VI Metaphysicae [1027b 17–1028a 5]), and in the thing as in a cause (as is said in the book Predicamentorum [5: 4a 35–4b 9])—for it is from the facts of the case, i.e., from a thing’s being so or not being so, that speech is true or false. 4 Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum. Next he shows that this definition differentiates the enunciation from other speech, when he says, Truth or falsity is not present in all speech however, etc. In the case of imperfect or incomplete speech it is clear that it does not signify the true or false, since it does not make complete sense to the mind of the hearer and therefore does not completely express a judgment of reason in which the true or false consists. Having made this point, however, it must be noted that there are five species of perfect speech that are complete in meaning: enunciative, deprecative, imperative, interrogative, and vocative. (Apropos of the latter it should be noted that a name alone in the vocative case is not vocative speech, for some of the parts must signify something separately, as was said above. So, although the mind of the hearer is provoked or aroused to attention by a name in the vocative case, there is not vocative speech, unless many words are joined together, as in "O good Peter!”) Of these species of speech the enunciative is the only one in which there is truth or falsity, for it alone signifies the conception of the intellect absolutely and it is in this that there is truth or falsity. 5 Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam. But the intellect, or reason, does not just conceive the truth of a thing. It also belongs to its office to direct and order others in accordance with what it conceives. Therefore, besides enunciative speech, which signifies the concept of the mind, there had to be other kinds of speech to signify the order of reason by which others are directed. Now, one man is directed by the reason of another in regard to three things: first, to attend with his mind, and vocative speech relates to this; second, to respond with his voice, and interrogative speech relates to this; third, to execute a work, and in relation to this, imperative speech is used with regard to inferiors, deprecative with regard to superiors. Optative speech is reduced to the latter, for a man does not have the power to move a superior except by the expression of his desire. These four species of speech do not signify the conception of the intellect in which there is truth or falsity, but a certain order following upon this. Consequently truth or falsity is not found in any of them, but only in enunciative speech, which signifies what the mind conceives from things. It follows that all the modes of speech in which the true or false is found are contained under the enunciation, which some call indicative or suppositive. The dubitative, it should be noted, is reduced to the interrogative, as the optative is to the deprecative. 6 Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Then Aristotle says, Let us therefore consider enunciative speech, etc. Here he points out that only enunciative speech is to be treated; the other four species must be omitted as far as the present intention is concerned, because their investigation belongs rather to the sciences of rhetoric or poetics. Enunciative speech belongs to the present consideration and for the following reason: this book is ordered directly to demonstrative science, in which the mind of man is led by an act of reasoning to assent to truth from those things that are proper to the thing; to this end the demonstrator uses only enunciative speech, which signifies things according as truth about them is in the mind. The rhetorician and the poet, on the other hand, induce assent to what they intend not only through what is proper to the thing but also through the dispositions of the hearer. Hence, rhetoricians and poets for the most part strive to move their auditors by arousing certain passions in them, as the Philosopher says in his Rhetorica [I, 2: 1356a 2, 1356a 14; III, 1: 1403b 12]. This kind of speech, therefore, which is concerned with the ordination of the hearer toward something, belongs to the consideration of rhetoric or poetics by reason of its intent, but to the consideration of the grammarian as regards a suitable construction of the vocal sounds. VIII. 1. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera. Having defined the enunciation the Philosopher now divides it. First he gives the division, and then manifests it where he says, Every enunciative speech however, must contain a verb, etc. 2 Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam. It should be noted that Aristotle in his concise way gives two divisions of the enunciation. The first is the division into one simply and one by conjunction. This parallels things outside of the soul where there is also something one simply, for instance the indivisible or the continuum, and something one either by aggregation or composition or order. In fact, since being and one are convertible, every enunciation must in some way be one, just as every thing is. 3 Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione. The other is a subdivision of the enunciation: the division of it as it is one into affirmative and negative. The affirmative enunciation is prior to the negative for three reasons, which are related to three things already stated. It was said that vocal sound is a sign of thought and thought a sign of the thing. Accordingly, with respect to vocal sound, affirmative enunciation is prior to negative because it is simpler, for the negative enunciation adds a negative particle to the affirmative. With respect to thought, the affirmative enunciation, which signifies composition by the intellect, is prior to the negative, which signifies division, for division is posterior by nature to composition since division is only of composite things—just as corruption is only of generated things. With respect to the thing, the affirmative enunciation, which signifies to be is prior to the negative, which signifies not to be, as the having of something is naturally prior to the privation of it. 4 Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. What he says, then, is this: Affirmation, i.e., affirmative enunciation, is one and the first enunciative speech. And in opposition to first he adds, then negation, i.e., negative speech, for it is posterior to affirmative, as we have said. In Opposition to one, i.e., one simply, he adds, certain others are one, not simply, but one by conjunction. 5 Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium. From what Aristotle says here Alexander argues that the division of enunciation into affirmation and negation is Dot a division of a genus into species, but a division of a multiple name into its meanings; for a genus is not predicated according to the prior and posterior, but is predicated univocally of its species; this is the reason Aristotle would not grant that being is a common genus of all things, for it is predicated first of substance, and then of the nine genera of accidents. 6 Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est. However, in the division of that which is common, one of the dividing members can be prior to another in two ways: according to the proper notions” or natures of the dividing members, or according to the participation of that common notion that is divided in them. The first of these does not destroy the univocity of a genus, as is evident in numbers. Twoness, according to its proper notion, is naturally prior to threeness, yet they equally participate in the notion of their genus, i.e., number; for both a multitude consisting of three and a multitude consisting of two is measured by one. The second, however, does impede the univocity of a genus. This is why being cannot be the genus of substance and accident, for in the very notion of being, substance, which is being per se, has priority in respect to accident, which is being through another and in another. Applying this distinction to the matter at hand, we see that affirmation is prior to negation in the first way, i.e., according to its notion, yet they equally participate in the definition Aristotle has given of the enunciation, i.e., speech in which there is truth or falsity. 7 Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera. Where he says, Every enunciative speech, however, must contain a verb or a mode of the verb, etc., he explains the divisions. He gives two explanations, one of the division of enunciation into one simply and one by conjunction, the second of the division of the enunciation which is one simply into affirmative or negative. The latter explanation begins where he says, A simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs or does not belong to a subject, etc. Before he explains the first division, i.e., into one simply and one by conjunction, he states certain things that are necessary for the evidence of the explanation, and then explains the division where he says, Enunciative speech is one when it signifies one thing, etc. 8 Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa. He states the first thing that is necessary for his explanation when he says that every enunciative speech must contain a verb in present time, or a case of the verb, i.e., in past or future time. (The infinite verb is not mentioned because it has the same function in the enunciation as the negative verb.) To manifest this he shows that one name, without a verb, does not even constitute imperfect enunciative speech, let alone perfect speech. Definition, he points out, is a certain kind of speech, and yet if the verb "is” or modes of the verb such as "was” or "has been” or something of the kind, is not added to the notion of man, i.e., to the definition, it is not enunciative speech. 9 Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. But, one might ask, why mention the verb and not the name, for the enunciation consists of a name and a verb? This can be answered in three ways. First of all because enunciative speech is not attained without a verb or a mode of the verb, but it is without a name, for instance, when infinitive forms of the verb are used in place of names, as in "To run is to be moving.” A second and better reason for speaking only of the verb is that the verb is a sign of what is predicated of another. Now the predicate is the principal part of the enunciation because it is the formal part and completes it. This is the reason the Greeks called the enunciation a categorical, i.e., predicative, proposition. It should also be noted that denomination is made from the form which gives species to the thing. He speaks of the verb, then, but not the name, because it is the more principal and formal part of the enunciation. A sign of this is that the categorical enunciation is said to be affirmative or negative solely by reason of the verb being affirmed or denied, and the conditional enunciation is said to be affirmative or negative by reason of the conjunction by which it is denominated being affirmed or denied. A third and even better reason is that Aristotle did not intend to show that the name or verb is not sufficient for a complete enunciation, for he explained this earlier. Rather, he is excluding a misunderstanding that might arise from his saying that one kind of enunciation is one simply and another kind is one by conjunction. Some might think this means that the kind that is one simply, lacks all composition. But he excludes this by saying that there must be a verb in every enunciation; for the verb implies composition and composition cannot be understood apart from the things composed, as he said earlier.” The name, on the other hand, does not imply composition and therefore did not have to be mentioned. 10 Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. The other, point necessary for the evidence of the first division is made where he says, but then the question arises as to why the definition "terrestrial biped animal” is something one, etc. He indicates by this that "terrestrial biped animal,” which is a definition of man, is one and not many. The reason it is one is the same as in the case of all definitions but, he says, to assign the reason belongs to another subject of inquiry. It belongs, in fact, to metaphysics and he assigns the reason in VII and VIII Metaphysicae [VII, 12: 1037b 7; VIII, 6: 1045a 6] which is this: the difference does not accrue to the genus accidentally but per se and is determinative of it in the way in which form determines matter; for the genus is taken from matter, the difference from form. Whence, just as one thing—not many—comes to be from form and matter, so one thing comes to be from the genus and difference. 11 Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter. The reason for the unity of this definition might be supposed by some to be only that of juxtaposition of the parts, i.e., that "terrestrial biped animal” is said to be one only because the parts are side by side without conjunction or pause. But he excludes such a notion of its unity. Now it is true that non-interruption of locution is necessary for the unity of a definition, for if a conjunction were put between the parts the second part would not determine the first immediately and the many in locution would consequently signify many in act. The pause used by rhetoricians in place of a conjunction would do the same thing. Whence it is a requirement for the unity of a definition that its parts be uttered without conjunction and interpolation, the reason being that in the natural thing, whose definition it is, nothing mediates between matter and form. However, non-interruption of locution is not the only thing that is needed for unity of the definition, for there can be continuity of utterance in regard to things that are not one simply, but are accidentally, as in white musical man.” Aristotle has therefore manifested very subtly that absolute unity of the enunciation is not impeded either by the composition which the verb implies or by the multitude of names from which a definition is established. And the reason is the same in both cases, i.e., the predicate is related to the subject as form to matter, as is the difference to a genus; but from form and matter a thing that is one simply comes into existence. 12 Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis. He begins to explain the division when he says, Enunciative speech is one when it signifies one thing, etc. First he makes the common thing that is divided evident, i.e., the enunciation as it is one; secondly, he makes the parts of the division evident according to their own proper notions, where he says, Of enunciations that are one, simple enunciation is one kind, etc. After he has made the division of the common thing evident, i.e., enunciation, he then concludes that the name and the verb are excluded from each member of the division where he says, Let us call the name or the verb a word only, etc. Now plurality is opposed to unity. Therefore he is going to manifest the unity of the enunciation through the modes of plurality. 13 Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis. He begins his explanation by saying that enunciation is either one absolutely, i.e., it signifies one thing said of one thing, or one relatively, i.e., it is one by conjunction. In opposition to these are the enunciations that are many, either because they signify not one but many things, which is opposed to the first mode of unity or because they are uttered without a connecting particle, which is opposed to the second mode of unity. 14 Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit. Boethius interprets this passage in the following way. "Unity” and "plurality” of speech refers to what is signified, whereas "simple” and "composite” is related to the vocal sounds. Accordingly, an enunciation is sometimes one and simple, namely, when one thing is signified by the composition of name and verb, as in "Man is white.” Sometimes it is one and composite. In this case it signifies one thing, but is composed either from many terms, as in "A mortal rational animal is running,” or from many enunciations, as in conditionals that signify one thing and not many. On the other hand, sometimes there is plurality along with simplicity, namely, when a name signifying many things is used, as in "The dog barks,” in which case the enunciation is many because it signifies many things [i.e., it signifies equivocally], but it is simple as far as vocal sound is concerned. But sometimes there is plurality and composition, namely, when many things are posited on the part of the subject or predicate from which one thing does not result, whether a conjunction intervenes or not, as in "The musical white man is arguing.” This is also the case if there are many enunciations joined together, with or without connecting particles as in "Socrates runs, Plato discusses. According to this exposition the meaning of the passage in question is this: an enunciation is one when it signifies one thing said of one thing, and this is the case whether the enunciation is one simply or is one by conjunction; an enunciation is many when it signifies not one but many things, and this not only when a conjunction is inserted between either the names or verbs or between the enunciations themselves, but even if there are many things that are not conjoined. In the latter case they signify many things either because an equivocal name is used or because many names signifying many things from which one thing does not result are used without conjunctions, as in "The white grammatical logical man is running.” 15 Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. However, this exposition does not seem to be what Aristotle had in mind. First of all the disjunction he inserts seems to indicate that he is distinguishing between speech signifying one thing and speech which is one by conjunction. In the second place, he has just said that terrestrial biped animal is something one and not many. Moreover, what is one by conjunction is not one, and not many, but one from many. Hence it seems better to say that since he has already said that one kind of enunciation is one simply and another kind is one by conjunction be is showing here what one enunciation is. Having said, then, that many names joined together are something one as in the example "terrestrial biped animal,” he goes on to say that an enunciation is to be judged as one, not from the unity of the name but from the unity of what is signified, even if there are many names signifying the one thing; and if an enunciation which signifies many things is one, it will not be one simply, but one by conjunction. Hence, the enunciation "A terrestrial biped animal is risible,” is not one in the sense of one by conjunction as the first exposition would have it, but because it signifies one thing. 16 Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Then — because an opposite is manifested through an opposite — he goes on to show which enunciations are many, and he posits two modes of plurality. Enunciations are said to be many which signify many things. Many things may be signified in some one common thing however; when I say, for example, "An animal is a sentient being,” many things are contained under the one common thing, animal, but such an enunciation is still one, not many. Therefore Aristotle adds, and not one. It would be better to say, however, that the and not one is added because of definition, which signifies many things that are one. The mode of plurality he has spoken of thus far is opposed to the first mode of unity. The second mode of plurality covers enunciations that not only signify many things but many that are in no way joined together. This mode is opposed to the second mode of unity. Thus it is evident that the second mode of unity is not opposed to the first mode of plurality. Now those things that are not opposed can be together. Therefore, the enunciation that is one by conjunction is also many many insofar as it signifies many and not one. According to this understanding of the text there are three modes of the enunciation: the enunciation that is one simply inasmuch as it signifies one thing; the enunciation that is many simply inasmuch as it signifies many things, but is one relatively inasmuch as it is one by conjunction; finally, the enunciations that are many simply—those that do not signify one thing and are not united by any conjunction. Aristotle posits four kinds of enunciation rather than three, for an enunciation is sometimes many because it signifies many things, and yet is not one by conjunction; a case in point would be an enunciation in which a name signifying many things is used. 17 Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Where he says, Let us call the name or the verb a word only, etc., he excludes the name and the verb from the unity of speech. His reason for making this point is that his statement, "an enunciation is one inasmuch as it signifies one thing,” might be taken to mean that an enunciation signifies one thing in the same way the name or verb signify one thing. To prevent such a misunderstanding he says, Let us call the name or the verb a word only, i.e., a locution which is not an enunciation. From his mode of speaking it would seem that Aristotle himself imposed the name "phasis” [word] to signify such parts of the enunciation. Then he shows that a name or verb is only a word by pointing out that we do not say that a person is enunciating when be signifies something in vocal sound in the way in which a name or verb signifies. To manifest this he suggests two ways of using the enunciation. Sometimes we use it to reply to questions; for example if someone asks "Who is it who discusses,” we answer "The teacher.” At other times we use the enunciation, not in reply to a question, but of our own accord, as when we say "Peter is running.” What Aristotle is saying, then, is that the person who signifies something one by a name or a verb is not enunciating in the way in which either the person who replies to a question or who utters an enunciation of his own accord is enunciating. He introduces this point because the simple name or verb, when used in reply to a question seems to signify truth or falsity and truth or falsity is what is proper to the enunciation. Truth and falsity is not proper, however, to the name or verb unless it is understood as joined to another part proposed in a question; if someone should ask, for example, "Who reads in the schools,” we would answer, "The teacher,” understanding also, "reads there.” If, then, something expressed by a name or verb is not an enunciation, it is evident that the enunciation does not signify one thing in the same way as the name or verb signify one thing. Aristotle draws this by way of a conclusion from, Every enunciative speech must contain a verb or a mode of the verb, which was stated earlier. 18 Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum. Then when he says, Of enunciations that are one, simple enunciation is one kind, etc., he manifests the division of enunciation by the natures of the parts. He has said that the enunciation is one when it signifies one thing or is one by conjunction. The basis of this division is the nature of one, which is such that it can be divided into simple and composite. Hence, Aristotle says, Of these, i.e., enunciations into which one is divided, which are said to be one either because the enunciation signifies one thing simply or because it is one by conjunction, simple enunciation is one kind, i.e., the enunciation that signifies one thing. And to exclude the understanding of this as signifying one thing in the same way as the name or the verb signifies one thing he adds, something affirmed of something, i.e., by way of composition, or something denied of something, i.e., by way of division. The other kind—the enunciation that is said to be one by conjunction—is composite, i.e., speech composed of these simple enunciations. In other words, he is saying that the unity of the enunciation is divided into simple and composite, just as one is divided into simple and composite. 19 Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti. He manifests the second division of the enunciation where he says, A simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs or does not belong to a subject, i.e., the division of enunciation into affirmation and negation. This is a division that belongs primarily to the simple enunciation and consequently to the composite enunciation; therefore, in order to suggest the basis of the division he says that a simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs to a subject, which pertains to affirmation, or does not belong to a subject, which pertains to negation. And to make it clear that this is not to be understood only of present time he adds, according to the divisions of time, i.e., this holds for other times as well as the present. 20 Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Alexander thought that Aristotle was defining the enunciation here and because he seems to put affirmation and negation in the "definition” he took this to mean that enunciation is not the genus of affirmation and negation, for the species is never posited in the definition of the genus. Now what is not predicated univocally of many (namely, because it does not signify something one that is common to many) cannot be made known except through the many that are signified. "One” is not said equivocally of the simple and composite, but primarily and consequently, and hence Aristotle always used both "simple” and "composite” in the preceding reasoning to make the unity of the enunciation known. Now, here he seems to use affirmation and negation to make the enunciation known; therefore, Alexander took this to mean that enunciation is not said of affirmation and negation univocally as a genus of its species. 21 Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. But the contrary appears to be the case, for the Philosopher subsequently uses the name "enunciation” as a genus when in defining affirmation and negation he says, Affirmation is the enunciation of something about something, i.e., by way of composition; negation is the enunciation of something separated from something, i.e., by way of division. Moreover, it is not customary to use an equivocal name to make known the things it signifies. Boethius for this reason says that Aristotle with his customary brevity is using both the definition and its division at once. Therefore when he says that something belongs or does not belong to a subject he is not referring to the definition of enunciation but to its division. However, since the differences dividing a genus do not fall in its definition and since vocal sound signifying is not a sufficient definition of the enunciation, Porphyry thought it would be better to say that the whole expression, vocal sound signifying that something belongs or does not belong to a subject, is the definition of the enunciation. According to his exposition this is not affirmation and negation that is posited in the definition, but capacity for affirmation and negation, i.e., what the enunciation is a sign of, which is to be or not to be, which is prior in nature to the enunciation. Then immediately following this he defines affirmation and negation in terms of themselves when he says, Affirmation is the enunciation of something about something; negation the enunciation of something separated from something. But just as the species should not be stated in the definition of the genus, so neither should the properties of the species. Now to signify to be is the property of the affirmation, and to signify not to be the property of the negation. Therefore Ammonius thought it would be better to say that the enunciation was not defined here, but only divided. For the definition was posited above when it was said that the enunciation is speech in which there is truth or falsity—in which definition no mention is made of either affirmation or negation. It should be noticed, however, that Aristotle proceeds very skillfully here, for he divides the genus, not into species, but into specific differences. He does not say that the enunciation is an affirmation or negation, but vocal sound signifying that something belongs to a subject, which is the specific difference of affirmation, or does not belong to a subject, which is the specific difference of negation. Then when he adds, Affirmation is the enunciation of something about something which signifies to be, and negation is the enunciation of something separated from something, which signifies not to be, he establishes the definition of the species by joining the differences to the genus. IX. 1. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoccontradictio et cetera.Having mad e the division of the enunciation, Aristotle now deals with the opposition of the parts of the enunciation, i.e., the opposition of affirmation and negation. He has already said that the enunciation is speech in which there is truth or falsity; therefore, he first shows how enunciations are opposed to each other; secondly, he raises a doubt about some things previously determined and then resolves it where he says, In enunciations about that which is or has taken place, etc. He not only shows how one enunciation is opposed to another, but that only one is opposed to one, where he says, It is evident also that there is one negation of one affirmation. In showing how one enunciation is opposed to another, he first treats of the opposition of affirmation and negation absolutely, and then shows in what way opposition of this kind is diversified on the part of the subject where he says, Since some of the things we are concerned with are universal and others singular, etc. With respect to the opposition of affirmation and negation absolutely, he first shows that there is a negation opposed to every affirmation and vice versa, and then where he says, We will call this opposed affirmation and negation "contradiction,” he explains the opposition of affirmation and negation absolutely. 2 Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa. In relation to the first point, that there is a negation opposed to every affirmation and vice versa, the Philosopher assumes a twofold diversity of enunciation. The first arises from the very form or mode of enunciating. According to this diversity, enunciation is either affirmative—in which it is enunciated that something is — or negative — in which it is signified that something is not. The second is the diversity that arises by comparison to reality. Truth and falsity of thought and of the enunciation depend upon this comparison, for when it is enunciated that something is or is not, if there is agreement with reality, there is true speech; otherwise there is false speech. 3 Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. The enunciation can therefore be varied in four ways according to a combination of these two divisions: in the first way, what is in reality is enunciated to be as it is in reality. This is characteristic of true affirmation. For example, when Socrates runs, we say, "Socrates is running.” In the second way, it is enunciated that something is not what in reality it is not. This is characteristic of true negation, as when we say, "An Ethiopian is not white.” In the third way, it is enunciated that something is what in reality it is not. This is characteristic of a false affirmation, as in "The raven is white.” In the fourth way, it is enunciated that something is not what it is in reality. This is characteristic of a false negation, as in "Snow is not white.” In order to proceed from the weaker to the stronger the Philosopher puts the false before the true, and among these he states the negative before the affirmative. He begins, then, with the false negative; it is possible to enunciate, that what is, namely, in reality, is not. Secondly, he posits the false affirmative, and that what is not, namely, in reality, is. Thirdly, he posits the true affirmative—which is opposed to the false negative he gave first—and that what is, namely, in reality, is. Fourthly, he posits the true negative—which is opposed to the false affirmative—and that what is not, namely, in reality, is not. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 4Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. In saying what is and what is not, Aristotle is not referring only to the existence or nonexistence of a subject. What he is saying is that the reality signified by the predicate is in or is not in the reality signified by the subject. For what is signified in saying, "The raven is white,” is that what is not, is, although the raven itself is an existing thing. 5 Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. These four differences of enunciations are found in propositions in which there is a verb of present time and also in enunciations in which there are verbs of past or future time. He said earlier that every enunciative speech must contain a verb or a mode of the verb. Here he makes this point in relation to the four differences of enunciations: similarly it is possible to enunciate these, i.e., that the enunciation be varied in diverse ways in regard to those times outside of the present, i.e., with respect to the past or future, which are in a certain way extrinsic in respect to the present, since the present is between the past and the future. 6 Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Since there are these four differences of enunciation in past and future time as well as in present time, it is possible to deny everything that is affirmed and to affirm everything that is denied. This is evident from the premises, for it is only possible to affirm either that which is in reality according to past, present, or future time, or that which is not; and it is possible to deny all of this. It is clear, then, that everything that is affirmed can be denied or vice versa. Now, since affirmation and negation are per se opposed, i.e., in an opposition of contradiction, it follows that any affirmation would have a negation opposed to it, and conversely. The contrary of this could happen only if an affirmation could affirm something that the negation could not deny. 7 Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. When he says, We will call this opposed affirmation and negation "contradiction,” he explains what absolute opposition of affirmation and negation is. He does this first through the name; secondly, through the definition where he says, I mean by "opposed” the enunciation of the same thing of the same subject, etc. "Contradiction,” he says, is the name imposed for the kind of opposition in which a negation is opposed to an affirmation and conversely. By saying We will call this "contradiction,” we are given to understand—as Ammonius points out—that he has himself imposed the name "contradiction” for the opposition of affirmation and negation. 8 Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Then he defines contradiction when he says, I mean by "opposed” the enunciation of the same thing of the same subject, etc. Since contradiction is the opposition of affirmation and negation, as he has said, whatever is required for the opposition of affirmation and negation is required for contradiction. Now, opposites must be about the same thing and since the enunciation is made up of a subject and predicate the first requirement for contradiction is affirmation and negation of the same predicate, for if we say "Plato runs” and "Plato does not discuss,” there is no contradiction. The second is that the affirmation and negation be of the same subject, for if we say "Socrates runs” and "Plato does not run,” there is no contradiction. The third requirement is identity of subject and predicate not only according to name but according to the thing and the name at once; for clearly, if the same name is not used there is not one and the same enunciation; similarly there must be identity of the thing, for as was said above, the enunciation is one when it signifies one thing said of one thing.”’ This is why he adds, not equivocally however, for identity of name with diversity of the thing—which is equivocation—is not sufficient for contradiction. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 9Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. There are also certain other things that must be observed with respect to contradiction in order that all diversity be destroyed except the diversity of affirmation and negation, for if the negation does not deny in every way the same thing that the affirmation affirms there will not be opposition. Inquiry can be made about this diversity in respect to four things: first, are there diverse parts of the subject, for if we say "An Ethiopian is white as to teeth” and "An Ethiopian is not white as to foot,” there is no contradiction; secondly, is there a diverse mode on the part of the predicate, for there is no contradiction if we say "Socrates runs slowly” and "Socrates is not moving swiftly,” or "An egg is an animal in potency” and "An egg is not an animal in act”; thirdly, is there diversity on the part of measure, for instance, of place or time, for there is no contradiction if we say "It is raining in Gaul” and "It is not raining in Italy,” or "It rained yesterday” and "It did not rain today”; fourthly, is there diversity from a relationship to something extrinsic, as when we say "Ten men are many in respect to a house, but not in respect to a court house.” Aristotle designates all of these when he adds, nor in any of the other ways that we have distinguished, i.e., that it is usual to determine in disputations against the specious difficulties of the sophists, i.e., against the fallacious and quarrelsome objections of the sophists, which he mentions more fully in I Elenchorum [5: 166b 28–167a 36]. X. 1 Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. The Philosopher has just said that contradiction is the opposition of the affirmation and negation of the same thing of the same subject. Following upon this he distinguishes the diverse oppositions of affirmation and negation, the purpose being to know what true contradiction is. He first states a division of enunciation which is necessary in order to assign the difference of these oppositions; then he begins to manifest the different oppositions where he says, If, then, it is universally enunciated of a universal that something belongs or does not belong to it, etc. The division he gives is taken from the difference of the subject and therefore he divides the subject of enunciations first; then he concludes with the division of enunciation, where he says, we have to enunciate either of a universal or of a singular, etc. 2 Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Now the subject of an enunciation is a name or something taken in place of a name. A name is a vocal sound significant by convention of simple thought, which, in turn, is a likeness of the thing. Hence, Aristotle distinguishes the subject of enunciation by a division of things; and he says that of things, some are universals, others singulars. He then explains the members of this division in two ways. First he defines them. Then he manifests them by example when he says, "man” is universal, "Plato” singular. 3 Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. There is a difficulty about this division, for the Philosopher proves in VII Metaphysicae [14: 1039a 23] that the universal is not something existing outside of the thing; and in the Predicamenta [5: 2a 11] he says that second substances are only in first substances, i.e., singulars. Therefore, the division of things into universals and singulars does not seem to be consistent, since according to him there are no things that are universal; on the contrary, all things are singular. 4 Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. The things divided here, however, are things as signified by names—which names are subjects of enunciations. Now, Aristotle has already said that names signify things only through the mediation of the intellect; therefore, this division must be taken as a division of things as apprehended by the intellect. Now in fact, whatever is joined together in things can be distinguished by the intellect when one of them does not belong to the notion of the other. In any singular thing, we can consider what is proper to the thing insofar as it is this thing, for instance, what is proper to Socrates or to Plato insofar as he is this man. We can also consider that in which it agrees with certain other things, as, that Socrates is an animal, or man, or rational, or risible, or white. Accordingly, when a thing is denominated from what belongs only to this thing insofar as it is this thing, the name is said to signify a singular. When a thing is denominated from what is common to it and to many others, the name is said to signify a universal since it signifies a nature or some disposition which is common to many. Immediately after giving this division of things, then—not of things absolutely as they are outside of the soul, but as they are referred to the intellect—Aristotle defines the universal and the singular through the act of the intellective soul, as that which is such as to be predicated of many or of only one, and not according to anything that pertains to the thing, that is, as if he were affirming such a universal outside of the soul, an opinion relating to Plato’s teaching. 5 Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. There is a further point we should consider in relation to this portion of the text. The intellect apprehends the thing—understood according to the thing’s essence or definition. This is the reason Aristotle says in III De anima [4:429b 10] that the proper object of the intellect is what the thing essentially is. Now, sometimes the proper nature of some understood form is not repugnant to being in many but is impeded by something else, either by something occurring accidentally (for instance if all men but one were to die) or because of the condition of matter; the sun, for instance, is only one, not because it is repugnant to the notion of the sun to be in many according to the condition of its form, but because there is no other matter capable of receiving such a form. This is the reason Aristotle did not say that the universal is that which is predicated of many, but that which is of such a nature as to be predicated of many. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 6Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Now, since every form which is so constituted as to be received in matter is communicable to many matters, there are two ways in which what is signified by a name may not be of such a nature as to be predicated of many: in one way, because a name signifies a form as terminated in this matter, as in the case of the name "Socrates” or "Plato,” which signifies human nature as it is in this matter; in another way, because a name signifies a form which is not constituted to be received in matter and consequently must remain per se one and singular. Whiteness, for example, would be only one if it were a form not a existing in matter, and consequently singular. This is the reason the Philosopher says in VII Metaphysicae [6: 1045a 36–1045b 7] that if there were separated species of things, as Plato held, they would be individuals. 7 Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. It could be objected that the name "Socrates” or "Plato” is of such a kind as to be predicated of many, since there is nothing to prevent their being applied to many. The response to this objection is evident if we consider Aristotle’s words. Notice that he divides things into universal and particular, not names. It should be understood from this that what is said to be universal not only has a name that can be predicated of many but what is signified by the name is of such a nature as to be found in many. Now this is not the case in the above-mentioned names, for the name "Socrates” or "Plato” signifies human nature as it is in this matter. If one of these names is imposed on another man it will signify human nature in other matter and thus another signification of it. Consequently, it will be equivocal, not universal. 8 Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. When he says, we have to enunciate either of a universal or of a singular that something belongs or does not belong to it, he infers the division of the enunciation. Since something is always enunciated of some thing, and of things some are universals and some singulars, it follows that sometimes it will be enunciated that something belongs or does not belong to something universal, sometimes to something singular. The construction of the sentence was interrupted by the explanation of universal and singular but now we can see the meaning: Since some of the things we are concerned with are universal and others singular... we have to enunciate either of a universal or of a singular that something belongs or does not belong to it. 9 Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est.                                        9. In relation to the point being made here we have to consider the four ways in which something is enunciated of the universal. On the one band, the universal can be considered as though separated from singulars, whether subsisting per se as Plato held or according to the being it has in the intellect as Aristotle held; considered thus, something can be attributed to it in two ways. Sometimes we attribute something to it which pertains only to the operation of the intellect; for example when we say, "Man,” whether the universal or the species, "is predicable” of many. For the intellect forms intentions of this kind, attributing them to the nature understood according as it compares the nature to the things outside of the mind. But sometimes we attribute something to the universal thus considered (i.e., as it is apprehended by the intellect as one) which does not belong to the act of the intellect but to the being that the nature apprehended has in things outside of the soul; for example, when we say "Man is the noblest of creatures.” For this truly belongs to human nature as it is in singulars, since any single man is more noble than all irrational creatures; yet all singular men are not one man outside of the mind, but only in the apprehension of the intellect; and the predicate is attributed to it in this way, i.e., as to one thing. On the other hand, we attribute something to the universal as in singulars in another way, and this is twofold: sometimes it is in view of the universal nature itself; for instance, when we attribute something to it that belongs to its essence, or follows upon the essential principles, as in "Man is an animal,” or "Man is risible.” Sometimes it is in view of the singular in which the universal is found; for instance, when we attribute something to the universal that pertains to the action of the individual, as in "Man walks. Moreover, something is attributed to the singular in three ways: in one way, as it is subject to the intellect, as when we say "Socrates is a singular,” or "predicable of only one”; in another way, by reason of the common nature, as when we say "Socrates is an animal”; in the third way, by reason of itself, as when we say "Socrates is walking.” The negations are varied in the same number of ways, since everything that can be affirmed can also be denied, as was said above. 10 Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam. This is the third division the Philosopher has given of the enunciation. The first was the division of the enunciation into one simply and one by conjunction. This is an analogous division into those things of which one is predicated primarily and consequently, for one is divided according to the prior and posterior into simple and composite. The second was the division of enunciation into affirmation and negation. This is a division of genus into species, for it is taken from the difference of the predicate to which a negation is added. The predicate is the formal part of the enunciation and hence such a division is said to pertain to the quality of the enunciation. By "quality” I mean essential quality, for in this case the difference signifies the quality of the essence. The third division is based upon the difference of the subject as predicated of many or of only one, and is therefore a division that pertains to the quantity of the enunciation, for quantity follows upon matter. 11 Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca hasquidem impossibile est et cetera.Aristotle shows next how enunciations are opposed in diverse ways according to the diversity of the subject when he says, If, then, it is universally enunciated of a universal that something belongs or does not belong to it, etc. He first distinguishes the diverse modes of opposition in enunciations; secondly, he shows how these diverse oppositions are related in different ways to truth and falsity where he says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at once true, etc. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 12Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto. First, then, he distinguishes the diverse modes of opposition and since these depend upon a diversity in the subject we must first consider the latter diversity. Now the universal can be considered either in abstraction from singulars or as it is in singulars, and by reason of this something is attributed in diverse modes to the universal, as we have already said. To designate diverse modes of attribution certain words have been conceived which may be called determinations or signs and which designate that something is predicated in this or that mode. But first we should note that since it is not commonly apprehended by all men that universals subsist outside of singulars there is no word in common speech to designate the mode of predicating in which something is said of a universal thus in abstraction from singulars. Plato, who held that universals subsist outside of singulars, did, however, invent certain determinations to designate the way in which something is attributed to the universal as it is outside of singulars. With respect to the species man he called the separated universal subsisting outside of singulars "man per se”’or "man itself,” and he designated other such universals in like manner. The universal as it is in singulars, however, does fall within the common apprehension of men and accordingly certain words have been conceived to signify the mode of attributing something to the universal taken in this way. 13 Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem. As was said above, sometimes something is attributed to the universal in view of the universal nature itself; for this reason it is said to be predicated of the universal universally, i.e., that it belongs to the universal according to the whole multitude in which it is found. The word "every” has been devised to designate this in affirmative predications. It designates that the predicate is attributed to the universal subject with respect to the whole of what is contained under the subject. In negative predications the word "no” has been devised to signify that the predicate is removed from the universal subject according to the whole of what is contained under it. Hence, saying nullus in Latin is like saying non ullus [not any] and in Greek ??de?? [none] is like ??de e?? [not one], for not a single one is understood under the universal subject from which the predicate is not removed. Sometimes something is either attributed to or removed from the universal in view of the particular. To designate this in affirmative enunciations, the word "some,” or "a certain one,” has been devised. We designate by this that the predicate is attributed to the universal subject by reason of the particular. "Some,” or "a certain one,” however, does not signify the form of any singular determinately, rather, it designates the singular under a certain indetermination. The singular so designated is therefore called the vague individual. In negative enunciations there is no designated word, but "not all” can be used. just as "no,” then, removes universally, for it signifies the same thing as if we were to say "not any,” (i.e., "not some”) so also "not all” removes particularly inasmuch as it excludes universal affirmation. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 14Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae. There are, therefore, three kinds of affirmations in which something is predicated of a universal: in one, something is predicated of the universal universally, as in "Every man is an animal”; in another, something is predicated of the universal particularly, as in "Some man is white.” The third is the affirmation in which something is predicated of the universal without a determination of universality or particularity. Enunciations of this kind are customarily called indefinite. There are the same number of opposed negations. 15 De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. In the case of the singular, although something is predicated of it in a different respect, as was said above, nevertheless the whole is referred to its singularity because the universal nature is individuated in the singular; therefore it makes no difference as far as the nature of singularity is concerned whether something is predicated of the singular by reason of the universal nature, as in "Socrates is a man,” or belongs to it by reason of its singularity. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 16Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis. If we add the singular to the three already mentioned there will be four modes of enunciation pertaining to quantity: universal singular, indefinite, and particular. 17 Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera. Aristotle assigns the diverse oppositions of enunciations according to these differences. The first opposition is based on the difference of universals and indefinites; the second bn the difference of universals and particulars, the latter being treated where he says, Affirmation is opposed to negation in the way I call contradictory, etc. With respect to the first opposition, the one between universals and indefinites, the opposition of universal propositions to each other is treated first, and then the opposition of indefinite enunciations where he says, On the other hand, when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, etc. Finally he precludes a possible question where he says, In the predicate, however, the universal universally predicated is not true, etc. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 18Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. He says first, then, that if someone enunciates universally of a universal subject, i.e., according to the content of its universality, that it is, i.e., affirmatively, or is not, i.e., negatively, these enunciations will be contrary; as when we say, "Every man is white,” "No man is white.” And the reason is that the things that are most distant from each other are said to be contraries. For a thing is not said to be black only because it is not white but because over and beyond not being white—which signifies the remotion of white commonly—it is, in addition, black, the extreme in distance from white. What is affirmed by the enunciation "Every man is white” then, is removed by the negation "Not every man is white”; the negation, therefore, removes the mode in which the predicate is said of the subject which the word "every” designates. But over and beyond this remotion, the enunciation "No man is white” which is most distant from "Every man is white,” adds total remotion, and this belongs to the notion of contrariety. He therefore appropriately calls this opposition contrariety. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 19Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae. When he says, On the other hand, when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, etc., he shows what kind of opposition there is between affirmation and negation in indefinite enunciations. First he states the point; he then manifests it by an example when he says, I mean by "enunciated of a universal but not universally,” etc. Finally he gives the reason for this when he says, For while "man” is a universal, it is not used as universal, etc. He says first, then, that when something is affirmed or denied of a universal subject, but not universally, the enunciations are not contrary but the things that are signified may be contraries. He clarifies this with examples where he says, I mean by "enunciated of a universal but not universally,” etc. Note in relation to this that what he said just before this was "when... of universals but not universally enunciated” and not, "when... of universals particularly,” the reason being that he only intends to speak of indefinite enunciations, not of particulars. This he manifests by the examples he gives. When we say "Man is white” and "Man is not white,” the universal subjects do not make them universal enunciations. He gives as the reason for this, that although man, which stands as the subject, is universal, the predicate is not predicated of it universally because the word "every” is not added, which does not itself signify the universal, but the mode of universality, i.e., that the predicate is said universally of the subject. Therefore when "every” is added to the universal subject it always signifies that something is said of it universally. This whole exposition relates to his saying, On the other hand, when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, they are not contraries. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 20Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici. Immediately after this he adds, although it is possible for the things signified to be contraries, and in spite of the fact that this is obscure he does not explain it. It has therefore been interpreted in different ways. Some related it to the contrariety of truth and falsity proper to enunciations of this kind, For such enunciations may be simultaneously true, as in "Man is white” and "Man is not white,” and thus not be contraries, for contraries mutually destroy each other. On the other hand, one may be true and the other false, as in "Man is an animal” and "Man is not an animal,” and thus by reason of what is signified seem to have a certain kind of contrariety. But this does not seem to be related to what Aristotle has said: first, because the Philosopher has not yet taken up the point of truth and falsity of enunciations; secondly, because this very thing can also be said of particular enunciations. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Others, following Porphyry, relate this to the contrariety of the predicate. For sometimes the predicate may be denied of the subject because of the presence of the contrary in it, as when we say, "Man is not white” because he is black; thus it could be the contrary that is signified by "is not white.” This is not always the case, however, for we remove something from a subject even when it is not a contrary that is present in it but some mean between contraries, as in saying, "So-and-so is not white” because he is pale; or when there is a privation of act or habit or potency, as in saying, "So-and-so is non-seeing” because he lacks the power of sight or has an impediment so that he cannot see, or even because something is not of such a nature as to see, as in saying, "A stone does not see.” It is therefore possible for the things signified to be contraries, but the enunciations themselves not to be; for as is said near the end of this book, opinions that are about contraries are not contrary,”’ for example, an opinion that something is good and an opinion that something is evil. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 22Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. This does not seem to relate to what Aristotle has proposed either, for he is not treating here of contrariety of things or opinions, but of contrariety of enunciations. For this reason it seems better here to follow the exposition of Alexander. According to his exposition, in indefinite enunciations it is not determined whether the predicate is attributed to the subject universally (which would constitute contrariety of enunciations), or particularly (which would not constitute contrariety of enunciations). Accordingly, enunciations of this kind are not contrary in mode of expression. However, sometimes they have contrariety by reason of what is signified, i.e., when something is attributed to a universal in virtue of the universal nature although the universal sign is not added, as in "Man is an animal” and "Man is not an animal,” for in virtue of what is signified these enunciations have the same force as "Every man is an animal” and "No man is an animal.” Aquinas lib. 1 l. 10 n. 23Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali. When he says, But as regards the predicate the universal universally predicated is not true, etc., he precludes a certain difficulty. He has already stated that there is a diversity in the opposition of enunciations because of the universal being taken either universally or not universally on the part of the subject. Someone might think, as a consequence, that a similar diversity would arise on the part of the predicate, i.e., that the universal could be predicated both universally and not universally. To exclude this he says that in the case in which a universal is predicated it is not true that the universal is predicated universally. There are two reasons for this. The first is that such a mode of predicating seems to be repugnant to the predicate in relation to its status in the enunciation; for, as has been said, the predicate is a quasi-formal part of the enunciation, while the subject is a material part of it. Now when a universal is asserted universally the universal itself is taken according to the relationship it has to the singulars contained under it, and when it is asserted particularly the universal is taken according to the relationship it has to some one of what is contained under it. Thus both pertain to the material determination of the universal. This is why it is not appropriate to add either the universal or particular sign to the predicate, but rather to the subject; for it is more appropriate to say, "No man is an ass” than "Every man is no ass”; andlikewise, to say, "Some man is white” than, "Man is some white.” However, sometimes philosophers put the particular sign next to the predicate to indicate that the predicate is in more than the subject, and this especially when they have a genus in mind and are investigating the differences which complete the species. There is an instance of this in II De anima [1:412a 22] where Aristotle says that the soul is a certain act.”’ The other reason is related to the truth of enunciations. This has a special place in affirmations, which would be false if the predicate were predicated universally. Hence to manifest what he has stated, he adds, for there is no affirmation in which, i.e., truly, a universal predicate will be predicated universally, i.e., in which a universal predicate is used to predicate universally, for example, "Every man is every animal.” If this could be done, the predicate "animal” according to the singulars contained under it would have to be predicated of the singulars contained under "man”; but such predication could not be true, whether the predicate is in more than the subject or is convertible with the subject; for then any one man would have to be all animals or all risible beings, which is repugnant to the notion of the singular, which is taken tinder the universal. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 24Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae. The truth of the enunciation "Every man is susceptible of every discipline” is not an instance that can be used as an objection to this position, for it is not "discipline” that is predicated of man but "susceptible of discipline.” It would be repugnant to truth if it were said that "Every man is everything susceptible of discipline.” 25 Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. On the other hand, although the negative universal sign or the particular affirmative sign are more appropriately posited on the part of the subject, it is not repugnant to truth if they are posited on the part of the predicate, for such enunciations may be true in some matter. The enunciation "Every man is no stone,” for example, is true, and so is "Every man is some animal.” But the enunciation "Every man is every animal,” in whatever matter it occurs, is false. There are other enunciations of this kind that are always false, such as, "Some man is every animal” (which is false for the same reason as "Every man is every animal” is false). And if there are any others like these, they are always false; and the reason is the same in every case. And, therefore, in rejecting the enunciation "Every man is every animal,” the Philosopher meant it to be understood that all similar enunciations are to be rejected. XI. 1. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera. Now that he has determined the opposition of enunciations by comparing universal enunciations with indefinite enunciations, Aristotle determines the opposition of enunciations by comparing universals to particulars. It should be noted that there is a twofold opposition in these enunciations, one of universal to particular, and he touches upon this first; the other is the opposition of universal to universal, and this he takes up next, where he says, They are opposed contrarily when the universal affirmation is opposed to the universal negation, etc. 2 Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa. The particular affirmative and particular negative do not have opposition properly speaking, because opposition is concerned with the same subject. But the subject of a particular enunciation is the universal taken particularly, not for a determinate singular but indeterminately for any singular. For this reason, when something is affirmed or denied of the universal particularly taken, the mode of enunciating is not such that the affirmation and negation are of the same thing; hence what is required for the opposition of affirmation and negation is lacking. 3 Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae. First he says that the enunciation that signifies the universal, i.e., universally, is opposed contradictorily to the one that does not signify universally but particularly, if one of them is affirmative and the other negative (whether the universal is affirmative and the particular negative or conversely), as in "Every man is white,” "Not every man is white.” For, the "not every” is used in place of the particular negative sign; consequently, "Not every man is white” is equivalent to "Some man is not white.” In a parallel way "no,” which signifies the same thing as "not any” or "not some,” is the universal negative sign; consequently, the two enunciations, "Some man is white,” which is the particular affirmative, and "No man is white,” which is the universal negative, are contradictories. 4 Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa. The reason for this is that contradiction consists in the mere removal of the affirmation by a negation. Now the universal affirmative is removed by merely the negation of the particular and nothing else is required of necessity; but the particular affirmative can only be removed by the universal negative because, as has already been said, the particular negative is not properly opposed to the particular affirmative. Consequently, the particular negative is opposed contradictorily to the universal affirmative and the universal negative to the particular affirmative. 5 Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria. When he says, They are opposed contrarily when the universal affirmation is opposed to the universal negation, etc., he touches on the opposition of universal enunciations. The universal affirmative and universal negative, he says, are contraries, as in "Every man is just... No man is just”; for the universal negative not only removes the universal affirmative but also designates an extreme of distance between them inasmuch as it denies the whole that the affirmation posits; and this belongs to the notion of contrariety. The particular affirmative and particular negative, for this reason, are related as a mean between contraries. 6 Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igiturcontradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. He shows how the opposed affirmation and negation are related to truth and falsity when he says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at once true, etc. He shows this first in regard to contraries; secondly, in regard to contradictories, where he says, Whenever there are contradictions with respect to universal signifying universally, etc.; thirdly, in regard to those that seem contradictory but are not, where he says, But when the contradictions are of universals not signifying universally, etc. First, he says that because the universal affirmative and universal negative are contraries, it is impossible for them to be simultaneously true, for contraries mutually remove each other. However, the particular enunciations that are contradictorily opposed to the universal contraries, can be verified at the same time in the same thing, for example, "Not every man is white” (which is opposed contradictorily to "Every man is white”) and "Some man is white” (which is opposed contradictorily to "No man is white”) . A parallel to this is found in the contrariety of things, for white and black can never be in the same thing at the same time; but the remotion of white and black can be in the same thing at the same time, for a thing may be neither white nor black, as is evident in something yellow. In a similar way, contrary enunciations cannot be at once true, but their contradictories, by which they are removed, can be true simultaneously. 7 Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum. Then he says, Whenever there are contradictions with respect to universals signifying universally, one must be true and the other false, etc. Here he shows how truth and falsity are related in contradictories. As was said above, in contradictories the negation does no more than remove the affirmation, and this in two ways: in one way when one of them is universal, the other particular; in another way when each is singular. In the case of the singular, the negation is necessarily referred to the same thing—which is not the case in particulars and indefinites—and cannot extend to more than removing the affirmation. Accordingly, the singular affirmative is always contradictory to the singular negative, the identity of subject and predicate being supposed. Aristotle says, therefore, that whether we take the contradiction of universals universally (i.e., one of the universals being taken universally) or the contradiction of singular enunciations, one of them must always be true and the other false. It is not possible for them to be at once true or at once false because to be true is nothing other than to say of what is, that it is, or of what is not that it is not; to be false, to say of what is not, that it is, or of what is, that it is not, as is evident in IV Metaphysicorum [7: 1011b 25]. 8 Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus. When he says, But when the contradictions are of universals not signifying universally, etc., he shows how truth and falsity are related to enunciations that seem to be contradictory, but are not. First he proposes how they are related; then he proves it where he says, For if he is ugly, he is not beautiful, etc.; finally, he excludes a possible difficulty where he says, At first sight this might seem paradoxical, etc. With respect to the first point we should note that affirmation and negation in indefinite propositions seem to be opposed contradictorily because there is one subject in both of them and it is not determined by a particular sign. Hence, the affirmation and negation seem to be about the same thing. To exclude this, the Philosopher says that in the case of affirmative and negative enunciations of universals not taken universally, one need not always be true and the other false, but they can be at once true. For it is true to say both that "Man is white” and that "Man is not white,” and that "Man is honorable” and "Man is not honorable. 9 In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur. On this point, as Ammonius reports, some men, maintaining that the indefinite negative is always to be taken for the universal negative, have taken a position contradictory to Aristotle’s. They argued their position in the following way. The indefinite, since it is indeterminate, partakes of the nature of matter; but matter considered in itself is regarded as what is less worthy. Now the universal affirmative is more worthy than the particular affirmative and therefore they said that the indefinite affirmative was to be taken for the particular affirmative. But, they said, the universal negative, which destroys the whole, is less worthy than the particular negative, which destroys the part (just as universal corruption is worse than particular corruption); therefore, they said that the indefinite negative was to be taken for the universal negative. They went on to say in support of their position that philosophers, and even Aristotle himself, used indefinite negatives as universals. Thus, in the book Physicorum [III, 1: 200b 32] Aristotle says that there is not movement apart from the thing; and in the book De anima [III, 1: 424b 20], that there are not more than five senses. However, these reasons are not cogent. What they say about matter—that considered in itself it is taken for what is less worthy—is true according to the opinion of Plato, who did not distinguish privation from matter; however, it is not true according to Aristotle, who says in I Physicae [9: 192a 3 & 192a 22], that the evil and ugly and other things of this kind pertaining to defect, are said of matter only accidentally. Therefore the indefinite need not stand always for the more ignoble. Even supposing it is necessary that the indefinite be taken for the less worthy, it ought not to be taken for the universal negative; for just as the universal affirmative is more powerful than the particular in the genus of affirmation, as containing the particular affirmative, so also the universal negative is more powerful in the genus of negations. Now in each genus one must consider what is more powerful in that genus, not what is more powerful simply. Further, if we took the position that the particular negative is more powerful than all other modes, the reasoning still would not follow, for the indefinite affirmative is not taken for the particular affirmative because it is less worthy, but because something can be affirmed of the universal by reason of itself, or by reason of the part contained under it; whence it suffices for the truth of the particular affirmative that the predicate belongs to one part (which is designated by the particular sign); for this reason the truth of the particular affirmative suffices for the truth of the indefinite affirmative. For a similar reason the truth of the particular negative suffices for the truth of the indefinite negative, because in like manner, something can be denied of a universal either by reason of itself, or by reason of its part. Apropos of the examples cited for their argument, it should be noted that philosophers sometimes use indefinite negatives for universals in the case of things that are per se removed from universals; and they use indefinite affirmatives for universals in the case of things that are per se predicated of universals. 10 Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. When he says, For if he is ugly, he is not beautiful, etc., he proves what he has proposed by something conceded by everyone, namely, that the indefinite affirmative is verified if the particular affirmative is true. We may take two indefinite affirmatives, one of which includes the negation of the other, as for example when they have opposed predicates. Now this opposition can happen in two ways. It can be according to perfect contrariety, as shameful (i.e., dishonorable) is opposed to worthy (i.e., honorable) and ugly (i.e., deformed in body) is opposed to beautiful. But the reasoning by which the affirmative enunciation, "Man is worthy,” is true, i.e., by some worthy man existing, is the same as the reasoning by which "Man is shameful” is true, i.e., by a shameful man existing. Therefore these two enunciations are at once true, "Man is worthy” and "Man is shameful.” But the enunciation, "Man is not worthy,” follows upon "Man is shameful.” Therefore the two enunciations, " Man is worthy,” and "Man is not worthy,” are at once true; and by the same reasoning these two, "Man is beautiful” and "Man is not beautiful.” The other opposition is according to the complete and incomplete, as to be in movement is opposed to to have been moved, and becoming to to have become. Whence the non-being of that which is coming to be in permanent things, whose being is complete, follows upon the becoming but this is not so in successive things, whose being is incomplete. Thus, "Man is white” is true by the fact that a white man exists; by the same reasoning, because a man is becoming white, the enunciation "Man is becoming white” is true, upon which follows, "Man is not white.” Therefore, the two enunciations, "Man is white” and "Man is not white” are at once true. 11 Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Then when he says, At first sight this might seem paradoxical, etc., he excludes what might present a difficulty in relation to what has been said. At first sight, he says, what has been stated seems to be inconsistent; for "Man is not white” seems to signify the same thing as "No man is white.” But he rejects this when he says that they neither signify the same thing, nor are they at once true necessarily, as is evident from what has been said. XII. 1. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Having distinguished the diverse modes of opposition in enunciations, the Philosopher now proposes to show that there is one negation opposed to one affirmation. First he shows that there is one negation opposed to one affirmation; then he manifests what one affirmation and negation are, where he says, Affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing, etc. With respect to what he intends to do he first proposes the point; then he manifests it where he says, for the negation must deny the same thing that the affirmation affirms, etc. Finally, he gives a summary of what has been said, where he says, We have said that there is one negation opposed contradictorily to one affirmation, etc.  2 Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis. He says, then, that it is evident that there is only one negation of one affirmation. It is necessary to make this point here because he has posited many kinds of opposition and it might appear that two negations are opposed to one affirmation. Thus it might seem that the negative enunciations, "No man is white” and "Some man is not white” are both opposed to the affirmative enunciation, "Every man is white.” But if one carefully examines what has been said it will be evident that the only negative opposed to "Every man is white” is "Some man is not white,” which merely removes it, as is clear from its equivalent, "Not every man is white.” It is true that the negation of the universal affirmative is included in the understanding of the universal negative inasmuch as the universal negative includes the particular negative, but the universal negative adds something over and beyond this inasmuch as it not only brings about the removal of universality but removes every part of it. Thus it is evident that there is only one negation of a universal affirmation, and the same thing is evident in the others. 3 Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio. When he says, for the negation must deny the same thing that the affirmation affirms, etc., he manifests what he has said: first, from reason; secondly, by example. The reasoning is taken from what has already been said, namely, that negation is opposed to affirmation when the enunciations are of the same thing of the same subject. Here he says that the negation must deny the same predicate the affirmation affirms, and of the same subject, whether that subject he something singular or something universal, either taken universally or not taken universally. But this can only be done in one way, i.e., when the negation denies what the affirmation posits, and nothing else. Therefore there is only one negation opposed to one affirmation. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. In manifesting this by example, where he says, For example, the negation of "Socrates is white,” etc., he first takes examples of singulars. Thus, "Socrates is not white” is the proper negation opposed to "Socrates is white.” If there were another predicate or another subject, it would not be the opposed negation, but wholly different. For example, "Socrates is not musical” is not opposed to "Socrates is white,” nor is "Plato is white” opposed to "Socrates is not white.” Then he manifests the same thing in an affirmation with a universal universally taken as the subject. Thus, "Not every man is white,” which is equivalent to the particular negative, is the proper negation opposed to the affirmation, "Every man is white.” Thirdly, he gives an example in which the subject of the affirmation is a universal taken particularly. The proper negation opposed to the affirmation "Some man is white” is "No man is white,” for to say "no” is to say "not any,” i.e., "not some.” Finally, he gives as an example enunciations in which the subject of the affirmation is the universal taken indefinitely; "Man is not white” is the proper negation opposed to the affirmation "Man is white.” 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. The last example used to manifest his point seems to be contrary to what he has already said, namely, that the indefinite negative and the indefinite affirmative can be simultaneously verified; but a negation and its opposite affirmation cannot be simultaneously verified, since it is not possible to affirm and deny of the same subject. But what Aristotle is saying here must be understood of the negation when it is referred to the same thing the affirmation contained, and this is possible in two ways: in one way, when something is affirmed to belong to man by reason of what he is (which is per se to be predicated of the same thing), and this very thing the negation denies; secondly, when something is affirmed of the universal by reason of its singular, and the same thing is denied of it. 6 Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria. He concludes by summarizing what has been said: We have said that there is one negation opposed contradictorily to one affirmation, etc. He considers it evident from what has been said that one negation is opposed to one affirmation; and that of opposite affirmations and negations, one kind are contraries, the other contradictories; and that what each kind is has been stated. He does not speak of subcontraries because it is not accurate to say that they are opposites, as was said above. He also says here that it has been shown that not every contradiction is true or false, "contradiction” being taken here broadly for any kind of opposition of affirmation and negation; for in enunciations that are truly contradictory one is always true and the other false. The reason why this may not be verified in some kinds of opposites has already been stated, namely, because some are not contradictories but contraries, and these can be false at the same time. It is also possible for affirmation and negation not to be properly opposed and consequently to be true at the same time. It has been stated, however, when one is always true and the other false, namely, in those that are truly contradictories. 7 Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. The Philosopher explains what one affirmation or negation is where he says, Affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing, etc. He did in fact state this earlier when he said that an enunciation is one when it signifies one thing, but because the enunciation in which something is predicated of a universal, either universally or not universally, contains under it many things, he is going to show here that unity of enunciation is not impeded by this. First he shows that unity of enunciation is not impeded by the multitude contained under the universal, whose notion is one. Then he shows that unity of enunciation is impeded by the multitude contained under the unity of a name only, where he says, But if one name is imposed for two things, etc. He says, then, that an affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing, whether the one thing that is subjected be a universal taken universally, or not, i.e., it may be a universal taken particularly or indefinitely, or even a singular. He gives examples of the differ6nt kinds: such as, the universal affirmative "Every man is white” and the particular negative, which is its negation, "Not every man is white,” each of which is one. There are other examples which are evident. At the end he states a condition that is required for any of them to be one, i.e., provided the "white,” which is the predicate, signifies one thing; for a multiple predicate with a subject signifying one thing would also impede the unity of an enunciation. The universal proposition is therefore one, even though it comprehends a multitude of singulars under it, for the predicate is not attributed to many singulars according as each is divided from the other, but according as they are united in one common thing. 8 Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen. When he says, But if one name is imposed for two things, he shows that unity of name alone does not suffice for unity of an enunciation. He first makes the point; secondly, he gives an example, where he says, if someone were to impose the name "cloak” on horse and man, etc.; thirdly, he proves it where he says, For this is no different from saying "Horse and man is white,” etc.; finally, he infers a corollary from what has been said, where he says, Consequently, in such enunciations, it is not necessary, etc. If one name is imposed for two things, he says, from which one thing is not formed, there is not one affirmation. The from which one thing is not formed can be understood in two ways. It can be understood as excluding the many that are contained under one universal, as man and horse under animal, for the name "animal” signifies both,.not as they are many and different from each other but as they are united in the nature of the genus. It can also be understood—and this would be more accurate—as excluding the many parts from which something one is formed, whether the parts of the notion as known, as the genus and the difference, which are parts of the definition, or the integral parts of some composite, as the stones and wood from which a house is made. If, then, there is such a predicate which is attributed to a thing, the many that are signified must concur in one thing according to some of the modes mentioned in order that there be one enunciation; unity of vocal sound alone would not suffice. However, if there is such a predicate which is referred to vocal sound, unity of vocal sound would suffice, as in "‘Dog’is a name.” 9 Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba. He gives an example of what he means where he says, For example, if someone were to impose the name "cloak,” etc. That is, if someone were to impose the name "cloak” to signify man and horse and then said, "Cloak is white,” there would not be one affirmation, nor would there be one negation. He proves this where he says, For this is no different from saying, etc. His argument is as follows. If "cloak” signifies man and horse there is no difference between saying "Cloak is white” and saying, "Man is white, and, Horse is white.” But "Man is white, and, horse is white” signify many and are many enunciations. Therefore, the enunciation, "Cloak is white,” signifies many things. This is the case if "cloak” signifies man and horse as diverse things; but if it signifies man and horse as one thing, it signifies nothing, for there is not any thing composed of man and horse. When Aristotle says that there is no difference between saying "Cloak is white” and, "Man is white, and, horse is white,” it is not to be understood with respect to truth and falsity. For the copulative enunciation "Man is white and horse is white” cannot be true unless each part is true; but the enunciation "Cloak is white,” under the condition given, can be true even when one is false; otherwise it would not be necessary to distinguish multiple propositions to solve sophistic arguments. Rather, it is to be understood with respect to unity and multiplicity, for just as in "Man is white and horse is white” there is not some one thing to which the predicate is attributed, so also in "Cloak is white.” 10 Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. When he says, Consequently, it is not necessary in such enunciations, etc., he concludes from what has been said that in affirmations and negations that use an equivocal subject, one need not always be true and the other false since the negation may deny something other than the affirmation affirms. XIII. 1. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum est similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera. Now that he, has treated opposition of enunciations and has shown the way in which opposed enunciations divide truth and falsity, the Philosopher inquires about a question that might arise, namely, whether what has been said is found to be so in all enunciations or not. And first he proposes a dissimilarity in enunciations with regard to dividing truth and falsity, then proves it where he says, For if every affirmation or negation is true or false, etc. 2 Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. In relation to the dissimilarity which he intends to prove we should recall that the Philosopher has given three divisions of the enunciation. The first was in relation to the unity of enunciation, and according to this it is divided into one simply and one by conjunction; the second was in relation to quality, and according to this it is divided into affirmative and negative; the third was in relation to quantity, and according to this it is either universal, particular, indefinite, or singular. 3 Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. Here he treats of a fourth division of enunciation, a division according to time. Some enunciations are about the present, some about the past, some about the future. This division could be seen in what Aristotle has already said, namely, that every enunciation must have a verb or a mode of a verb, the verb being that which signifies the present time, the modes with past or future time. In addition, a fifth division of the enunciation can be made, a division in regard to matter. It is taken from the relationship of the predicate to the subject. If the predicate is per se in the subject, it will be said to be an enunciation in necessary or natural matter. Examples of this are "Man is an animal” and "Man is risible.” If the predicate is per se repugnant to the subject, as excluding the notion of it, it is said to be an enunciation in impossible or remote matter; for example, the enunciation "Man is an ass.” If the predicate is related to the subject in a way midway between these two, being neither per se repugnant to the subject nor per se in it, the enunciation is said to be in possible or contingent matter. 4 His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est. Given these differences of enunciations, the judgment of truth and falsity is not alike in all. Accordingly, the Philosopher says, as a conclusion from what has been established: In enunciations about that which is, i.e., in propositions about the present, or has taken place, i.e., in enunciations about the past, the affirmation or the negation must be determinately true or false. However, this differs according to the different quantity of the enunciations. In enunciations in which something is universally predicated of universal subjects, one must always be true, either the affirmative or negative, and the other false, i.e., the one opposed to it. For as was said above, the negation of a universal enunciation in which something is predicated universally, is not the universal negative, but the particular negative, and conversely, the universal negative is not directly the negation of the universal affirmative, but the particular negative. According to the foregoing, then, one of these must always be true and the other false in any matter whatever. And the same is the case in singular enunciations, which are also opposed contradictorily. However, in enunciations in which something is predicated of a universal but not universally, it is not necessary that one always be true and the other false, for both could be at once true. 5 Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis. The case as it was just stated has to do with propositions about the past or the present. Enunciations about the future that are of universals taken either universally or not universally are also related in the same way in regard to oppositions. In necessary matter all affirmative enunciations are determinately true; this holds for enunciations in future time as well as in past and present time; and negative enunciations are determinately false. In impossible matter the contrary is the case. In contingent matter, however, universal enunciations are false and particular enunciations true. This is the case in enunciations about the future as well as those of the past and present. In indefinite enunciations, both are at once true in future enunciations as well as in those of the present or the past. 6 Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa. In singular future enunciations, however, there is a difference. In past and present singular enunciations, one of the opposites must be determinately true and the other false in any matter whatsoever, but in singulars that are about the future, it is not necessary that one be determinately true and the other false. This holds with respect to contingent matter; with respect to necessary and impossible matter the rule is the same as in enunciations about the present and the past. Aristotle has not mentioned contingent matter until now because those things that take place contingently pertain exclusively to singulars, whereas those that per se belong or are repugnant are attributed to singulars according to the notions of their universals. Aristotle is therefore wholly concerned here with this question: whether in singular enunciations about the future in contingent matter it is necessary that one of the opposites be determinately true and the other determinately false. 7 Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero nequequoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. He proves that there is a difference between these opposites and the others where he says, For if every affirmation or negation is true or false, etc. First he proves it by showing that the opposite position leads to what is unlikely; secondly, he shows that what follows from this position is impossible, where he says, These absurd consequences and others like them, etc. In his proof he first shows that in enunciations about future singulars, truth cannot always be determinately attributed to one of the opposites, and then he shows that both cannot lack truth, where he says, But still it is not possible to say that neither is true, etc. He gives two arguments with respect to the first point. In the first of these he states a certain consequence, namely, that if every affirmation or negation is determinately true or false, in future singulars as in the others, it follows that all things must determinately be or not be. He proves this consequence where he says, wherefore, if one person says, etc.,or as it is in the Greek, for if one person says something will be, etc.”’ Let us suppose, he argues, that there are two men, one of whom says something will take place in the future, for instance, that Socrates will run, and the other says this same thing will not take place. If the foregoing position is supposed—that in singular future enunciations one of them will be true, either the affirmative or the negative it would follow that only one of them is saying what is true, because in singular future propositions both cannot be at once true, that is, both the affirmative and the negative. This occurs only in indefinite propositions. Moreover, from the fact that one of them must be speaking the truth, it follows that it must determinately be or not be. Then he proves this from the fact that these two follow upon each other convertibly, namely, truth is that which is said and which is so in reality. And this is what he manifests when he says that, if it is true to say that a thing is white, it necessarily follows that it is so in reality; and if it is true to deny it, it necessarily follows that it is not so. And conversely, for if it is so in reality, or is not, it necessarily follows that it is true to affirm or deny it. The same convertibility is also evident in what is false, for if someone lies, saying what is false, it necessarily follows that in reality it is not as he affirms or denies it to be; and conversely, if it is not in reality as he affirms or denies it to be, it follows that in affirming or denying it he lies. 8. Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur. The process of Aristotle’s reasoning is as follows. If it is necessary that every affirmation or negation about future singulars is true or false, it is necessary that everyone who affirms or denies, determinately says what is true or false. From this it follows that it is necessary that everything be or not be. Therefore, if every affirmation or negation is determinately true, it is necessary that everything determinately be or not be. From this he concludes further that all things are of necessity. This would exclude the three kinds of contingent things. 9 Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte. The three kinds of contingent things are these: some, the ones that happen by chance or fortune, happen infrequently; others are in determinate to either of two alternatives because they are not inclined more to one part than to another, and these proceed from choice; still others occur for the most part, for example, men becoming gray in old age, which is caused by nature. If, however, everything took place of necessity, there would be none of these kinds of contingent things. Therefore, Aristotle says, nothing is with respect to the very permanence of those things that are contingently permanent; or takes place with respect to those that are caused contingently; by chance with respect to those that take place for the least part, or infrequently; or is indeterminate to either of two alternatives with respect to those that are related equally to either of two, i.e., to being or to nonbeing, and are determined to neither of these, which he signifies when he adds, or will be, or will not be. For of that which is more determined to one part we can truly and determinately say that it will be or will not be, as for example, the physician truly says of the convalescent, "He will be restored to health,” although perchance by some accident his cure may be impeded. The Philosopher makes this same point when he says in II De generatione [11: 337b 7], "A man about to walk might not walk.” For it can be truly said of someone who has the determined intention to walk that he will walk, although by some accident his walking might be impeded. But in the case of that which is indeterminate to either of two, it cannot determinately be said of it either that it will be or that it will not be, for it is proper to it not to be determined more to one than to another. Then he manifests how it follows from the foregoing hypothesis that nothing is indeterminate to either of two when he adds that if every affirmation or negation is determinately true, then either the one who affirms or the one who denies must be speaking the truth. That which is indeterminate to either of two is therefore destroyed, for if there is something indeterminate to either of two, it would be related alike to taking place or not taking place, and no more to one than to the other. It should be, noted that the Philosopher is not expressly excluding the contingent that is for the most part. There are two reasons for this. In the first place, this kind of contingency still excludes the determinate truth of one of the opposite enunciations and the falsity of the other, as has been said. Secondly, when the contingent that is infrequent, i.e., that which takes place by chance, is removed, the contingent that is for the most part is removed as a consequence, for there is no difference between that which is for the most part and that which is infrequent except that the former fails for the least part. 10 Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum. When he says, Furthermore, on such a supposition, if something is now white, it was true to say formerly that it will be white, etc., he gives a second argument to show the dissimilarity of enunciations about future singulars. This argument is by reduction to the impossible. If truth and falsity. are related in like manner in present and in future enunciations, it follows that whatever is true of the present was also true of the future, in the way in which it is true of the present. But it is now determinately true to say of some singular that it is white; therefore formerly, i.e., before it became white, it was true to say that this will be white. Now the same reasoning seems to hold for the proximate and the remote. Therefore, if yesterday it was true to say that this will be white, it follows that it was always true to say of anything that has taken place that it will be. And if it is always true to say of the present that it is, or of the future that it will be, it is not possible that this not be, or, that it will not be. The reason for this consequence is evident, for these two cannot stand together, that something truly be said to be, and that it not be; for this is included in the signification of the true, that that which is said, is. If therefore that which is said concerning the present or the future is posited to be true, it is not possible that this not be in the present or future. But that which cannot not take place signifies the same thing as that which is impossible not to take place. And that which is impossible not to take place signifies the same thing as that which necessarily takes place, as will be explained more fully in the second book. It follows, therefore, that all things that are future must necessarily take place. From this it follows further, that there is nothing that is indeterminate to either of two or that takes place by chance, for what happens by chance does not take place of necessity but happens infrequently. But this is unlikely. Therefore the first proposition is false, i.e., that of everything of which it is true that it is, it was determinately true to say that it would be. 11 Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit. For clarification of this point, we must consider the following. Since "true” signifies that something is said to be what it is, something is true in the manner in which it has being. Now, when something is in the present it exists in itself, and hence it can be truly said of it that it is. But as long as something is future, it does not yet exist in itself, but it is in a certain way in its cause, and this in a threefold way. It may be in its cause in such a way that it comes from it necessarily. In this case it has being determinately in its cause, and therefore it can be determinately said of it that it will be. In another way, something is in its cause as it has an inclination to its effect but can be impeded. This, then, is determined in its cause, but changeably, and hence it can be truly a said of it that it will be but not with complete certainty. Thirdly, something is in its cause purely in potency. This is the case in which the cause is as yet not determined more to one thing than to another, and consequently it cannot in any way be said determinately of these that it is going to be, but that it is or is not going to be. 12 Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Then Aristotle says, But still it is not possible to say that neither is true, etc. Here he shows that truth is not altogether lacking to both of the opposites in singular future enunciations. First he says that just as it is not true to say that in such enunciations one of the opposites is determinately true, so it is not true to say that neither is true; as if we could say that a thing neither will take place nor will not take place. Then when he says, In the first place, though the affirmation be false, etc., he gives two arguments to prove his point. The first is as follows. Affirmation and negation divide the true and the false. This is evident from the definition of true and false, for to be true is to be what in fact is, or not to be what in fact is not; and to be false is to be what in fact is not, or not to be what in fact is. Consequently, if the affirmation is false, the negation must be true, and conversely. But if the position is taken that neither is true, the affirmation, "This will be” is false, yet the negation is not true; likewise the negation will be false and the affirmation not be true. Therefore, the aforesaid position is impossible, i.e., that truth is lacking to both of the opposites. The second argument begins where he says, Secondly, if it is true to say that a thing is white and large, etc. The argument is as follows. If it is true to say something, it follows that it is. For example, if it is true to say that something is large and white, it follows that it is both. And this is so of the future as of the present, for if it is true to say that it will be tomorrow, it follows that it will be tomorrow. Therefore, if the position that it neither will be or not be tomorrow is true, it will be necessary that it neither happen nor not happen, which is contrary to the nature of that which is indeterminate to either of two, for that which is indeterminate to either of two is related to either; for example, a naval battle will take place tomorrow, or will not. The same unlikely things follow, then, from this as from the first argument. XIV. 1. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera. The Philosopher has shown—by leading the opposite position to what is unlikely—that in singular future enunciations truth or falsity is not determinately in one of the opposites, as it is in other enunciations. Now he is going to show that the unlikely things to which it has led are impossibilities. First he shows that the things that followed are impossibilities; then he concludes what the truth is, where he says, Now that which is, when it is, necessarily is, etc. 2 Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haecpossibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. With respect to the impossibilities that follow he first states the unlikely things that follow from the opposite position, then shows that these follow from the aforesaid position, where he says, For nothing prevents one person from saying that this will be so in ten thousand years, etc. Finally he shows that these are impossibilities where he says, But these things appear to be impossible, etc. He says, then, concluding from the preceding reasoning, that these unlikely things follow—if the position is taken that of opposed enunciations one of the two must be determinately true and the other false in the same way in singular as in universal enunciations—namely, that in things that come about nothing is indeterminate to either of two, but all things are and take place of necessity. From this he infers two other unlikely things that follow. First, it will not be necessary to deliberate about anything; whereas he proved in III Ethicorum [3: 1112a 19] that counsel is not concerned with things that take place necessarily but only with contingent things, i.e., things which can be or not be. Secondly, all human actions that are for the sake of some end (for example, a business transaction to acquire riches) will be superfluous, because what we intend will take place whether we take pains to bring it about or not—if all things come about of necessity. This, however, is in opposition to the intention of men, for they seem to deliberate and to transact business with the intention that if they do this there will be such a result, but if they do something else, there will be another result. 3 Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Where he says, For nothing prevents one person from saying that this will be so in ten thousand years, etc., he proves that the said unlikely things follow from the said position. First he shows that the unlikely things follow from the positing of a certain possibility; then he shows that the same unlikely things follow even if that possibility is not posited, where he says, Moreover, it makes no difference whether people have actually made the contradictory statements or not, etc. He says, then, that it is not impossible that a thousand years before, when men neither knew nor ordained any of the things that are taking place now, a man said, "This will be,” for example, that such a state would be overthrown, and another man said, "This will not be.” But if every affirmation or negation is determinately true, one of them must have spoken the truth. Therefore one of them had to take place of necessity; and this same reasoning holds for all other things. Therefore everything takes place of necessity. Aquinas lib. 1 l. 14 n. 4Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.Then he shows that the same thing follows if this possibility is not posited where he says, Moreover, it makes no difference whether people have actually made the contradictory statements or not, etc. It makes no difference in relation to the existence or outcome of things whether a person denies that this is going to take place when it is affirmed, or not; for as was previously said, the event will either take place or not whether the affirmation and denial have been made or not. That something is or is not does not result from a change in the course of things to correspond to our affirmation or denial, for the truth of our enunciation is not the cause of the existence of things, but rather the converse. Nor does it make any difference to the outcome of what is now being done whether it was affirmed or denied a thousand years before, or at any other time before. Therefore, if in all past time, the truth of enunciations was such that one of the opposites had to have been truly said and if upon the necessity of something being truly said it follows that this must be or take place, it will follow that everything that takes place is such that it takes place of necessity. The reason he assigns for this consequence is the following. If it is posited that someone truly says this will be, it is not possible that it will not be, just as having supposed that man is, he cannot not be a rational mortal animal. For to be truly said means that it is such as is said. Moreover, the relationship of what is said. now to what will be is the same as the relationship of what was said previously to what is in the present or the past. Therefore, all things have necessarily happened, and they are necessarily happening, and they will necessarily happen, for of what is accomplished now, as existing in the present or in the past, it was always true to say that it would be. 5 Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant. When he says, But these things appear to be impossible, etc., he shows that what has been said is impossible. He shows this first by reason, secondly by sensible examples, where he says, We can point to many clear instances of this, etc. First he argues that the position taken is impossible in relation to human affairs, for clearly man seems to be the principle of the future things that he does insofar as he is the master of his own actions and has the power to act or not to act. Indeed, to reject this principle would be to do away with the whole order of human association and all the principles of moral philosophy. For men are attracted to good and withdrawn from evil by persuasion and threat, and by punishment and reward; but rejection of this principle would make these useless and thus nullify the whole of civil science. Here the Philosopher accepts it as an evident principle that man is the principle of future things. However, he is not the principle of future things unless he deliberates about a thing and then does it. In those things that men do without deliberation they do not have dominion over their acts, i.e., they do not judge freely about things to be done, but are moved to act by a kind of natural instinct such as is evident in the case of brute animals. Hence, the conclusion that it is not necessary for us to take pains about something or to deliberate is impossible; likewise what it followed from is impossible, i.e., that all things take place of necessity. Aquinas lib. 1 l. 14 n. 6Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse. Then he shows that this is also the case in other things where he says, and that universally in the things not always in act, there is a potentiality to be and not to be, etc. In natural things, too, it is evident that there are some things not always in act; it is therefore possible for them to be or not be, otherwise they would either always be or always not be. Now that which is not begins to be something by becoming it; as for example, that which is not white begins to be white by becoming white. But if it does not become white it continues not to be white. Therefore, in things that have the possibility of being and not being, there is also the possibility of becoming and not becoming. Such things neither are nor come to be of necessity but there is in them the kind of possibility which disposes them to becoming and not becoming, to being and not being. 7 Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus. Next he shows the impossibility of what was said by examples perceptible to the senses, where he says, We can point to many clear instances of this, etc. Take a new garment for example. It is evident that it is possible to cut it, for nothing stands in the way of cutting it either on the part of the agent or the patient. He proves it is at once possible that it be cut and that it not be cut in the same way he has already proved that two opposed indefinite enunciations are at once true, i.e., by the assumption of contraries. just as it is possible that the garment be cut, so it is possible that it wear out, i.e., be corrupted in the course of time. But if it wears out it is not cut. Therefore both are possible, i.e., that it be cut and that it not be cut. From this he concludes universally in regard to other future things which are not always in act, but are in potency, that not all are or take place of necessity; some are indeterminate to either of two, and therefore are not related any more to affirmation than to negation; there are others in which one possibility happens for the most part, although it is possible, but for the least part, that the other part be true, and not the part which happens for the most part. 8 Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum. With regard to this question about the possible and the necessary, there have been different opinions, as Boethius says in his Commentary, and these will have to be considered. Some who distinguished them according to result—for example, Diodorus—said that the impossible is that which never will be, the necessary, that which always will be, and the possible, that which sometimes will be, sometimes not. The Stoics distinguished them according to exterior restraints. They said the necessary was that which could not be prevented from being true, the impossible, that which is always prevented from being true, and the possible, that which can be prevented or not be prevented. However, the distinctions in both of those cases seem to be inadequate. The first distinctions are a posteriori, for something is not necessary because it always will be, but rather, it always will be because it is necessary; this holds for the possible as well as the impossible. The second designation is taken from what is external and accidental, for something is not necessary because it does not have an impediment, but it does not have an impediment because it is necessary. Others distinguished these better by basing their distinction on the nature of things. They said that the necessary is that which in its nature is determined only to being, the impossible, that which is determined only to nonbeing, and the possible, that which is not altogether determined to either, whether related more to one than to another or related equally to both. The latter is known as that which is indeterminate to either of two. Boethius attributes these distinctions to Philo. However, this is clearly the opinion of Aristotle here, for he gives as the reason for the possibility and contingency in the things we do the fact that we deliberate, and in other things the fact that matter is in potency to either it of two opposites. 9 Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo. But this reasoning does not seem to be adequate either. While it is true that in corruptible bodies matter is in potency to being and nonbeing, and in celestial bodies there is potency to diverse location; nevertheless nothing happens contingently in celestial bodies, but only of necessity. Consequently, we have to say that the potentiality of matter to either of two, if we are speaking generally, does not suffice as a reason for contingency unless we add on the part of the active potency that it is not wholly determined to one; for if it is so determined to one that it cannot be impeded, it follows that it necessarily reduces into act the passive potency in the same mode. 10 Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Considering this, some maintained that the very potency which is in natural things receives necessity from some cause determined to one. This cause they called fate. The Stoics, for example, held that fate was to be found in a series or interconnection of causes on the assumption that everything that happens has a cause; but when a cause has been posited the effect is posited of necessity, and if one per se cause does not suffice, many causes concurring for this take on the nature of one sufficient cause; so, they concluded, everything happens of necessity. 11 Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Aristotle refutes this reasoning in VI Metaphysicae [2: 1026a 33] by destroying each of the assumed propositions. He says there that not everything that takes place has a cause, but only what is per se has a cause. What is accidental does not have a cause, for it is not properly being but is more like nonbeing, as Plato also held. Whence, to be musical has a cause and likewise to be white, but to be musical white does not have a cause; and the same is the case with all others of this kind. It is also false that when a cause has been posited—even a sufficient one—the effect must be posited, for not every cause (even if it is sufficient) is such that its effect cannot be impeded. For example, fire is a sufficient cause of the combustion of wood, but if water is poured on it the combustion is impeded. 12 Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. However, if both of the aforesaid propositions were true, it would follow infallibly that everything happens necessarily. For if every effect has a cause, then it would be possible to reduce an effect (which is going to take place in five days or whatever time) to some prior cause, and so on until it reaches a cause which is now in the present or already has been in the past. Moreover, if when the cause is posited it is necessary that the effect be posited, the necessity would reach through an order of causes all the way to the ultimate effect. For instance, if someone eats salty food, he will be thirsty; if he is thirsty, he will go outside to drink; if he goes outside to drink, he will be killed by robbers. Therefore, once he has eaten salty food, it is necessary that he be killed. To exclude this position, Aristotle shows that both of these propositions are false. 13 Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur. However, some persons object to this on the grounds that everything accidental is reduced to something per se and therefore an effect that is accidental must be reduced to a per se cause. Those who argue in this way fail to take into account that the accidental is reduced to the per se inasmuch as it is accidental to that which is per se; for example, musical is accidental to Socrates, and every accident to some subject existing per se. Similarly, everything accidental in some effect is considered in relation to some per se effect, which effect, in relation to that which is per se, has a per se cause, but in relation to what is in it accidentally does not have a per se cause but an accidental one. The reason for this is that the effect must be proportionately referred to its cause, as is said in II Physicorum [3: 195b 25-28] and in V Metaphysicae [2: 1013b 28]. 14 Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem. Some, however, not considering the difference between accidental and per se effects, tried to reduce all the effects that come about in this world to some per se cause. They posited as this cause the power of the heavenly bodies and assumed fate to be dependent on this power—fate being, according to them, nothing else but the power of the position of the constellations. But such a cause cannot bring about necessity in all the things accomplished in this world, since many things come about from intellect and will, which are not subject per se and directly to the power of the heavenly bodies. For the intellect, or reason, and the will which is in reason, are not acts of a corporeal organ (as is proved in the treatise De anima [III, 4: 429a 18]) and consequently cannot be directly subject to the power of the heavenly bodies, since a corporeal force, of itself, can only act on a corporeal thing. The sensitive powers, on the other hand, inasmuch as they are acts of corporeal organs, are accidentally subject to the action of the heavenly bodies. Hence, the Philosopher in his book De anima [III, 3: 427a 21] ascribes the opinion that the will of man is subject to the movement of the heavens to those who hold the position that the intellect does not differ from sense. The power of the heavenly bodies, however, does indirectly redound to the intellect and will inasmuch as the aq intellect and will use the sensitive powers. But clearly the passions of the sensitive powers do not induce necessity of reason and will, for the continent man has wrong desires but is not seduced by them, as is shown in VII Ethicorum [3: 1146a 5]. Therefore, we may conclude that the power of the heavenly bodies does not bring about necessity in the things done through reason and will. This is also the case in other corporeal effects of corruptible things, in which many things happen accidentally. What is accidental cannot be reduced to a per se cause in a natural power because the power of nature is directed to some one thing; but what is accidental is not one; whence it was said above that the enunciation "Socrates is a white musical being” is not one because it does not signify one thing. This is the reason the Philosopher says in the book De somno et vigilia [object] Close that many things of which the signs pre-exist in the heavenly bodies—for example in storm clouds and tempests—do not take place because they are accidentally impeded. And although this impediment considered as such is reduced to some celestial cause, the concurrence of these, since it is accidental, cannot be reduced to a cause acting naturally. 15 Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant. However, what is accidental can be taken as one by the intellect. For example, "the white is musical,” which as such is not one, the intellect takes as one, i.e., insofar as it forms one enunciation by composing. And in accordance with this it is possible to reduce what in itself happens accidentally and fortuitously to a preordaining intellect For example, the meeting of two servants at a certain place may be accidental and fortuitous with respect to them, since neither knew the other would be there, but be per se intended by their master who sent each of them to encounter the other in a certain place. 16 Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens. Accordingly, some have maintained that everything whatever that is effected in this world—even the things that seem fortuitous and casual—is reduced to the order of divine providence on which they said fate depends. Other foolish men have denied this, judging of the Divine Intellect in the mode of our intellect which does not know singulars. But the position of the latter is false, for His divine thinking and willing is His very being. Hence, just as His being by its power comprehends all that is in any way (i.e., inasmuch as it is through participation of Him) so also His thinking and what He thinks comprehend all knowing and everything knowable, and His willing and what He wills comprehend all desiring and every desirable good; in other words, whatever is knowable falls under His knowledge and whatever is good falls under His will, just as whatever is falls under His active power, which He comprehends perfectly, since He acts by His intellect. 17 Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant. It may be objected, however, that if Divine Providence is the per se cause of everything that happens in this world, at least of good things, it would look as though everything takes place of necessity: first on the part of His knowledge, for His knowledge cannot be fallible, and so it would seem that what He knows happens necessarily; secondly, on the part of the will, for the will of God cannot be inefficacious; it would seem, therefore, that everything He wills happens of necessity. 18 Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant. These objections arise from judging of the cognition of the divine intellect and the operation of the divine will in the way in which these are in us, when in fact they are very dissimilar. 19 Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae. On the part of cognition or knowledge it should be noted that in knowing things that take place according to the order of time, the cognitive power that is contained in any way under the order of time is related to them in another way than the cognitive power that is totally outside of the order of time. The order of place provides a suitable example of this. According to the Philosopher in IV Physicorum [11:219a 14], before and after in movement, and consequently in time, corresponds to before and after in magnitude. Therefore, if there arc many men passing along some road, any one of those in the ranks has knowledge of those preceding and following as preceding and following, which pertains to the order of place. Hence any one of them sees those who are next to him and some of those who precede him; but he cannot see those who follow behind him. If, however, there were someone outside of the whole order of those passing along the road, for instance, stationed in some high tower where he could see the whole road, he would at once see all those who were on the road—not under the formality of preceding and subsequent (i.e., in relation to his view) but all at the same time and how one precedes another. Now, our cognition falls under the order of time, either per se or accidentally; whence the soul in composing and dividing necessarily includes time, as is said in III De anima [6: 430a 32]. Consequently, things are subject to our cognition under the aspect of present, past, and future. Hence the soul knows present things as existing in act and perceptible by sense in some way; past things it knows as remembered; future things are not known in themselves because they do not yet exist, but can be known in their causes—with certitude if they are totally determined in their causes so that they will take place of necessity; by conjecture if they are not so determined that they cannot be impeded, as in the case of those things that are for the most part; in no way if in their causes they are wholly in potency, i.e., not more determined to one than to another, as in the case of those that are indeterminate to either of two. The reason for this is that a thing is not knowable according as it is in potency, but only according as it is in act, as the Philosopher shows in IX Metaphysicae [9: 1051a 22]. 20 Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. God, however, is wholly outside the order of time, stationed as it were at the summit of eternity, which is wholly simultaneous, and to Him the whole course of time is subjected in one simple intuition. For this reason, He sees in one glance everything that is effected in the evolution of time, and each thing as it is in itself, and it is not future to Him in relation to His view as it is in the order of its causes alone (although He also sees the very order of the causes), but each of the things that are in whatever time is seen wholly eternally as the human eye sees Socrates sitting, not in its causes but in itself. 21 Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter. Now from the fact that man sees Socrates sitting, the contingency of his sitting which concerns the order of cause to effect, is not destroyed; yet the eye of man most certainly and infallibly sees Socrates sitting while he is sitting, since each thing as it is in itself is already determined. Hence it follows that God knows all things that take place in time most certainly and infallibly, and yet the things that happen in time neither are nor take place of necessity, but contingently. 22 Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. There is likewise a difference to be noted on the part of the divine Will, for the divine will must be understood as existing outside of the order of beings, as a cause producing the whole of being and all its differences. Now the possible and the necessary are differences of being, an(] therefore necessity and contingency in things and the distinction of each according to the nature of their proximate causes originate from the divine will itself, for He disposes necessary causes for the effects that He wills to be necessary, and He ordains causes acting contingently (i.e., able to fail) for the effects that He wills to be contingent. And according to the condition of these causes, effects are called either necessary or contingent, although all depend on the divine will as on a first cause, which transcends the order of necessity and contingency. This, however, cannot be said of the human will, nor of any other cause, for every other cause already falls under the order of necessity or contingency; hence, either the cause itself must be able to fail or, if not, its effect is not contingent, but necessary. The divine will, on the other hand, is unfailing; yet not all its effects are necessary, but some are contingent. 23 Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Some men, in their desire to show that the will in choosing is necessarily moved by the desirable, argued in such a way as to destroy the other root of contingency the Philosopher posits here, based on our deliberation. Since the good is the object of the will, they argue, it cannot (as is evident) be diverted so as not to seek that which seems good to it; as also it is not possible to divert reason so that it does not assent to that which seems true to it. So it seems that choice, which follows upon deliberation, always takes place of necessity; thus all things of which we are the principle through deliberation and choice, will take place of necessity. 24 Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. In regard to this point there is a similar diversity with respect to the good and with respect to the true that must be noted. There are some truths that are known per se, such as the first indemonstrable principles; these the intellect assents to of necessity. There are others, however, which are not known per se, but through other truths. The condition of these is twofold. Some follow necessarily from the principles, i.e., so that they cannot be false when the principles are true. This is the case with all the conclusions of demonstrations, and the intellect assents necessarily to truths of this kind after it has perceived their order to the principles, but not before. There are others that do not follow necessarily from the principles, and these can be false even though the principles be true. This is the case with things about which there can be opinion. To these the intellect does not assent necessarily, although it may be inclined by some motive more to one side than another. Similarly, there is a good that is desirable for its own sake, such as happiness, which has the nature of an ultimate end. The will necessarily adheres to a good of this kind, for all men seek to be happy by a certain kind of natural necessity. There are other good things that are desirable for the sake of the end. These are related to the end as conclusions are to principles. The Philosopher makes this point clear in II Physicorum [7: 198a 35]. If, then, there were some good things without the existence of which one could not be happy, these would be desirable of necessity, and especially by the person who perceives such an order. Perhaps to be, to live, and to think, and other similar things, if there are any, are of this kind. However, particular good things with which human acts are concerned are not of this kind nor are they apprehended as bein,r such that without tbeni happiness is impossible, for instance, to eat this food or that, or abstain from it. Such things, nevertheless, do have in them that whereby they move the appetite according to some good considered in them. The will, therefore, is not induced to choose these of necessity. And on this account the Philosopher expressly designates the root of the contingency of things effected by us on the part of deliberation—which is concerned with those things that are for the end and yet are not determined. In those things in which the means are determined there is no need for deliberation, as is said in III Ethicorum [3: 1112a 30–1113a 14]. These things have been stated to save the roots of contingency that Aristotle posits here, although they may seem to exceed the mode of logical matter. XV. 1 Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera. Now that the Philosopher has shown the impossibilities that follow from the foresaid arguments, he concludes what the truth is on this point. In arguing to the impossibility of the position, he proceeded from enunciations to things, and has already rejected the unlikely consequences in respect to things. Now, in the converse order, he first shows the way in which there is truth about things; secondly, the way in which there is truth in enunciations, where he says, And so, since speech is true as it corresponds to things, etc. With respect to truth about things be first shows the way in which there is truth and necessity about things absolutely considered; secondly, the way in which there is truth and necessity about things through a comparing of their opposites, where he says, And this is also the case with respect to contradiction, etc. 2 Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum. 2. He begins, then, as though concluding from premises: if the foresaid things are unlikely (namely, that all things take place of necessity), then the case with respect to things must be this: everything that is must be when it is, and everything that is not, necessarily not be when it is not. This necessity is founded on the principle that it is impossible at once to be and not be; for if something is, it is impossible that it at the same time not be; therefore it is necessary that it be at that time. For "impossible not to be” signifies the same thing as "necessary to be,” as Aristotle says in the second book. Similarly, if something is not, it is impossible that it at the same time be. Therefore it is necessary that it not be, for they also signify the same thing. Clearly it is true, then, that everything that is must be when it is, and everything that is not must not be when it is not. This is not absolute necessity, but necessity by supposition. Consequently, it cannot be said absolutely and simply that everything that is must be, and that everything that is not must not be. For "every being, when it is, necessarily is” does not signify the same thing as "every being necessarily is, simply. The first signifies necessity by supposition, the second, absolute necessity. What has been said about to be must be understood to apply also to not to be, for "necessarily not to be simply” and "necessarily not to be when it is not” are also different. By this Aristotle seems to exclude what was said above, namely, that if in those things that are, one of the two is determinately true, then even before it takes place one of the two would determinately be going to be. 3 Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione. 3. He shows how truth and necessity is had about things through the comparing of their opposites where he says, This is also the case with respect to contradiction, etc. The reasoning is the same, he says, in respect to contradiction and in respect to supposition. For just as that which is not absolutely necessary becomes necessary by supposition of the same (for it must be when it is), so also what in itself is not necessary absolutely, becomes necessary through the disjunction of the opposite, for of each thing it is necessary that it is or is not, and that it will or will not be in the future, and this under disjunction. This necessity is founded upon the principle that it is impossible for contradictories to be at once true and false. Accordingly, it is impossible that a thing neither be nor not be; therefore it is necessary that it either be or not be. However if one of these is taken separately [i.e., divisively], it is not necessary that that one be absolutely. This he manifests by example: it is necessary that there will be or will not be a naval battle tomorrow; but it is not necessary that a naval battle will take place tomorrow, nor is it necessary that it will not take place, for this pertains to absolute necessity. It is necessary, however, that it will take place or will not take place tomorrow. This pertains to the necessity which is under disjunction. 4 Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa. Then when he says, And so, since speech is true as it corresponds to things, etc., he shows how truth in speech corresponds to the way things are. First he shows in what way truth of speech conforms to the being and nonbeing of things; secondly, and finally, he arrives at the truth of the whole question, where he says, Therefore it is clear that it is not necessary that of every affirmation and negation of opposites, one is true and one false, etc. He says, then, that enunciative speech is related to truth in the way the thing is to being or nonbeing (for from the fact that a thing is or is not, speech is true or false). It follows, therefore, that when things are such as to be indeterminate to either of two, and when they are such that their contradictories could happen in whichever way, whether equally or one for the most part, the contradiction of enunciations must also be such. He explains next what the things are in which contradictories can happen. They are those that neither always are (i.e., the necessary), nor always are not (i.e., the impossible), but sometimes are and some times are not. He shows further how this is maintained in contradictory enunciations. In those enunciations that are about contingent things, one part of the contradiction must be true or false tinder disjunction; but it is related to either, not to this or that determinately. If it should turn out that one part of the contradiction is more true, as happens in contingents that are for the most part, it is nevertheless not necessary on this account that one of them is determinately true or false. 5 Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. 5. Then he says, Therefore, it is clear that it is not necessary that of every affirmation and negation of opposites, one is true and one, false, etc. This is the conclusion he principally intended. It is evident from what has been said that it is not necessary in every genus of affirmation and negation of opposites that one is determinately true and the other false, for truth and falsity is not had in the same way in regard to things that are already in the present and those that are not but which could be or not be. The position in regard to each has been explained. In those that are, it is necessary that one of them be determinately true and the other false; in things that are future, which could be or not be, the case is not the same. The first book ends with this. lib. 2 l. 1 n. 1Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. 1. In the first book, the Philosopher has dealt with the enunciation considered simply. Now he is going to treat of the enunciation as it is diversified by the addition of something to it. There are three things that can be considered in the enunciation: first, the words that are predicated or subjected, which he has already distinguished into names and verbs; secondly, the composition, according to which there is truth or falsity in the affirmative or negative enunciation; finally, the opposition of one enunciation to another. This book is divided into three parts which are related to these three things in the enunciation. In the first, he shows what happens to the enunciation when something is added to the words posited as the subject or predicate; in the second, what happens when something is added to determine the truth or falsity of the composition. He begins this where he says, Having determined these things, we must consider in what way negations and affirmations of the possible and not possible, etc. In the third part he solves a question that arises about the oppositions of enunciations in which something is added to the simple enunciation. This he takes up where he says, There is a question as to whether the contrary of an affirmation is a negation, or whether the contrary of an affirmation is another affirmation, etc. With respect to additions made to the words used in the enunciation, it should be noted that an addition made to the predicate or the subject sometimes destroys the unity of the enunciation, and sometimes not, the latter being the case in which the addition is a negative making a word infinite. Consequently, he first shows what happens to the enunciation when the added negation makes a word infinite. Secondly, he shows what happens when an addition destroys the unity of the enunciation where he says, Neither the affirmation nor the negation which affirms or denies one predicate of many subjects or many predicates of one subject is one, unless something one is constituted from the many, etc. In relation to the first point he first investigates the simplest of enunciations, in which a finite or infinite name is posited only on the part of the subject. Then he considers the enunciation in which a finite or infinite name is posited not only on the part of the subject, but also on the part of the predicate, where he says, But when "is” is predicated as a third element in the enunciation, etc. Apropos of these simple enunciations, he proposes certain grounds for distinguishing such enunciations and then gives their distinction and order where he says, Therefore the primary affirmation and negation is "Man is,” "Man is not,” etc. And first he gives the grounds for distinguishing enunciations on the part of the name; secondly, he shows that there are not the same grounds for a distinction on the part of the verb, where he says, There can be no affirmation or negation without a verb, etc. First, then, he proposes the grounds for distinguishing these enunciations; secondly, he explains this where he says, we have already stated what a name is, etc.; finally, he arrives at the conclusion he intended where he says, every affirmation will be made up of a name and a verb, or an infinite name and a verb. 2 Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. First of all, he goes back to what was said above in defining affirmation, namely, that affirmation is an enunciation signifying something about something; and, since it is peculiar to the verb to be a sign of what is predicated of another, it follows that that about which something is said pertains to the name; but the name is either finite or infinite; therefore, as if drawing a conclusion, he says that since affirmation signifies something about something it follows that that about which something is signified, i.e., the subject of an affirmation, is either a finite name (which is properly called a name), or unnamed, i.e., an infinite name. It is called "unnamed” because it does not name something with a determinate form but removes the determination of form. And lest anyone think that what is subjected in an affirmation is at once a name and unnamed, he adds, and one thing must be signified about one thing in an affirmation, i.e., in the enunciation, of which we are speaking now; and hence the subject of such an affirmation must be either the name or the infinite name. 3 Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. When he says, we have already stated what a name is, etc., he relates what he has previously said. We have already stated, he says, what a name is and what that which is unnamed is, i.e., the infinite name. "Non-man” is not a name but an infinite name, and "non-runs” is not a verb but an infinite verb. Then he interposes a point that is useful for the preclusion of a difficulty, i.e., that an infinite name in a certain way does signify one thing. It does not signify one thing simply as the finite name does, which signifies one form of a genus or species, or even of an individual; rather it signifies one thing insofar as it signifies the negation of a form, in which negation many things are united, as in something one according to reason. For something is said to be one in the same way it is said to be a being. Hence, just as nonbeing is said to be being, not simply, but according to something, i.e., according to reason, as is evident in IV Metaphysicae [21: 1003b 6], so also a negation is one according to something, i.e., according to reason. Aristotle introduces this point so that no one will say that an affirmation in which an infinite name is the subject does not signify one thing about one subject on the grounds that an infinite name does not signify something one. 4 Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est. When he says, every affirmation will be made up of a name and a verb or an infinite name and a verb, he concludes that the mode of affirmation is twofold. One consists of a name and a verb, the other of an infinite name and a verb. This follows from what has been said, namely, that that about which an affirmation signifies something is either a name or unnamed. The same difference can be taken on the part of negation, for of whatever something can be affirmed it can be denied, as was said in the first book. 5 Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens. When he says, There can be no affirmation or negation without a verb, etc., he intends to show that enunciations cannot be differentiated on the part of the verb. He made the point earlier that there is no affirmation or negation without a verb. However there can be an affirmation or negation without a name, i.e., when an infinite name is posited in place of a name.” An infinite verb, on the other hand, cannot be posited in an enunciation in place of a verb, and this for two reasons. First of all, the infinite verb is constituted by the addition of an infinite particle which, when added to a verb said by itself (i.e., posited outside of the enunciation), removes it absolutely, just as it removes the form of the name absolutely when added to it. Therefore, outside of the enunciation, the infinite verb, as well as the infinite name, can be taken in the mode of one word. But when a negation is added to the verb in an enunciation it removes the verb from something and thus makes the enunciation negative, which is not the case with respect to the name. For an enunciation is made negative by denying the composition which the verb introduces; hence, an infinite verb posited in the enunciation becomes a negative verb. Secondly, whichever way we use the negative particle, whether as making the verb infinite or as making a negative enunciation, the truth of the enunciation is not changed. The negative particle, therefore, is always taken in the more absolute sense, as being clearer. This, then, is why Aristotle does not diversify the affirmation as made up of a verb or infinite verb, but as made up of a name or an infinite name. It should also be noted that besides the difference of finite and infinite there is the difference of nominative and oblique cases. The cases of names even with a verb added do not constitute an enunciation signifying truth or falsity, as was said in the first book, for the nominative is not included in an oblique name. The verb of present time, however, is included in the cases of the verb, for the past and future, which the cases of the verb signify, are said with respect to the present. Whence, ‘if we say, "This will be,” it is the same as if we were to say, "This is future”; and "This has been” the same as "This is past.” A name, then, and a case of the verb do constitute an enunciation. Therefore Aristotle adds that "is,” or "will be,” or "was,” or any other verb of this kind that we use are of the number of the foresaid verbs without which an enunciation cannot be made, since they all signify with time and past and future time are said with respect to the present. 6 Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. When he says, Therefore the primary affirmation and negation is, etc., he infers from the premises the distinction of enunciations in which the finite and infinite name is posited only on the part of the subject. Among these there is a threefold difference to be noted: the first, according to affirmation and negation; the second, according to finite and infinite subject; the third, according as the subject is posited universally or not universally. Now the finite name is prior in notion to the infinite name just as affirmation is prior to negation. Accordingly, he posits "Man is” as the first affirmation and "Man is not” as the first negation. Then he posits the second affirmation, "Non-man is,” and the second negation, "Non-man is not.” Finally he posits the enunciations in which the subject is universally posited. These are four, as are those in which the subject is not universally posited. The reason he does not give examples of the enunciation with a singular subject, such as "Socrates is” and "Socrates is not,” is that no sign is added to singular names, and hence not every difference can be found in them. Nor does he give examples of the enunciation in which the subject is taken particularly, for such a subject in a certain way has the same force as a universal subject not universally taken. He does not posit any difference on the part of the verb according to its cases because, as he himself says, affirmations and negations in regard to extrinsic times, i.e., past and future time which surround the prcsent, are similar to these, as has already been said. II. 1 Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contrariaest et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera.                                     1. After distinguishing enunciations in which either a finite or an infinite name is posited only on the part of the subject, the Philosopher begins here to distinguish enunciations in which either a finite or an infinite name is posited as the subject and as the predicate. First he distinguishes these enunciations, and then he manifests certain things that might be doubtful in relation to them where he says, Since the negation contrary to "Every animal is just,” is the one signifying "No animal is just,” etc. With respect to their distinction he first deals with enunciations in which the name is predicated with the verb "is”; secondly, with those in which other verbs are used, where he says, In enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject, for example, when the verb "matures” or "walks” is used, etc.” He distinguishes these enunciations as he did the primary enunciations, according to a threefold difference on the part of the subject, first treating those in which the subject is a finite name not taken universally, secondly, those in which the subject is a finite name taken universally where he says, The same is the case when the affirmation is of a name taken universally, etc.” Thirdly, he treats those in which an infinite name is the subject, where he says, and there are two other pairs, if something is added to non-man” as a subject, etc. With respect to the first enunciations [in which the subject is a finite name not taken universally] he proposes a diversity of oppositions and then concludes as to their number and states their relationship, where he says, In this case, therefore, there will be four enunciations, etc. Finally, he exemplifies this with a table. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 2Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres. In relation to the first point two things have to be understood. First, what is meant by "is” is predicated as a third element in the enunciation. To clarify this we must note that the verb "is” itself is sometimes predicated in an enunciation, as in "Socrates is.” By this we intend to signify that Socrates really is. Sometimes, however, "is” is not predicated as the principal predicate, but is joined to the principal predicate to connect it to the subject, as in "Socrates is white.” Here the intention is not to assert that Socrates really is, but to attribute whiteness to him by means of the verb "is.” Hence, in such enunciations "is” is predicated as added to the principal predicate. It is said to be third, not because it is a third predicate, but because it is a third word posited in the enunciation, which together with the name predicated makes one predicate. The enunciation is thus divided into two parts and not three. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 3Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis. Secondly, we must consider what he means by when "is” is predicated as a third element in the enunciation, in the mode in which we have explained, there are two oppositions. In the enunciations already treated, in which the name is posited only on the part of the subject, there was one opposition in relation to any subject. For example, if the subject was a finite name not taken universally there was only one opposition, "Man is,” "Man is not.” But when "is” is predicated in addition there are two oppositions with regard to the same subject corresponding to the difference of the predicate name, which can be finite or infinite. There is the opposition of "Man is just,” "Man is not just,” and the opposition, "Man is non-just,” "Man is not non-just.” For the negation is effected by applying the negative particle to the verb "is,” which is a sign of a predication. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.When he says, I mean by this that in an enunciation such as"Man is just,” etc., he explains what he means by when "is” is predicated as a third element in the enunciation. When we say "Man is just,” the verb "is” is added to the predicate as a third name or verb in the affirmation. Now "is,” like any other word, may be called a name, and thus it is a third name, i.e., word. But because, according to common usage, a word signifying time is called a verb rather than a name Aristotle adds here, or verb, as if to say that with respect to the fact that it is a third thing, it does not matter whether it is called a name or a verb. 5 Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. He goes on to say, In this case, therefore, there will be four enunciations, etc. Here he concludes to the number of the enunciations, first giving the number, and then their relationship where he says, two of which will correspond in their sequence, in respect of affirmation and negation, with the privations but two will not. Finally, he explains the reason for the number where he says, I mean that the "is” will be added either to "just” or to "non-just,” etc. He says first, then, that since there are two oppositions when "is” is predicated as a third element in the enunciation, and since every opposition is between two enunciations, it follows that there are four enunciations in which "is” is predicated as a third element when the subject is finite and is not taken universally. When he says, two of which will correspond in their sequence, etc., he shows their relationship. Two of these enunciations are related to affirmation and negation according to consequence (or according to correlation or proportion, as it is in the Greek) like privations; the other two are not. Because this is said so briefly and obscurely, it has been explained in diverse ways. 6 Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Before we take up the various explanations of this passage there is a general point in relation to it that needs to be clarified. In this kind of enunciation a name can be predicated in three ways. We can predicate a finite name and by this we obtain two enunciations, one affirmative and one negative, "Man is just” and "Man is not just.” These are called simple enunciations. Or, we can predicate an infinite name and by this we obtain two other enunciations, "Man is non-just” and "Man is not non-just,” These are called infinite enunciations. Finally, we can predicate a privative name and again we will have two, "Man is unjust” and "Man is not unjust.” These are called privative. 7 Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura. (Figura). Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur. Now the passage in question has been explained by some in the following way. Two of the enunciations he has given, those with an infinite predicate, are related to the affirmation and negation of the finite predicate according to consequence or analogy, as are privations, i.e., as those with a privative predicate. For the two with an infinite predicate are related according to consequence to those with a finite predicate but in a transposed way, namely, affirmation to negation and negation to affirmation. That is, "Man is non-just,” the affirmation of the infinite predicate, corresponds according to consequence to the negative of the finite predicate, i.e., to "Man is not just”; the negative of the infinite predicate, "Man is not non-just,” corresponds to the affirmative of the finite predicate, i.e., to "Man is just.” Theophrastus for this reason called those with the infinite predicate, "transposed.” The affirmative with a privative predicate also corresponds according to consequence to the negative with a finite predicate, i.e., "Man is unjust” to "Man is not just”; and the negative of the privative predicate to the affirmative of the finite predicate, "Man is not unjust” to "Man is just.” These enunciations can therefore be placed in a table in the following way: Man is just Man is not non-just Man is not unjust Man is not just Man is non-just Man is unjust This makes it clear that two, those with the infinite predicate, are related to the affirmation and negation of the finite predicate in the way privations are, i.e., as those that have a privative predicate. It is also evident that there are two others that do not have a similar consequence, i.e., those with an infinite subject, "Non-man is just” and "Non-man is not just.” This is the way Herminus explained the words but two will not, i.e., by referring it to enunciations with an infinite subject. This, however, is clearly contrary to the words of Aristotle, for after giving the four enunciations, two with a finite predicate and two with an infinite predicate, he adds two of which... but two will not, as though he were subdividing them, which can only mean that both pairs are comprised in what he is saying. He does not include among these the ones with an infinite subject but will mention them later. It is clear, then, that he is not speaking of these here. 8 Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit. Since this exposition is not consonant with Aristotle’s words, others, Ammonius says, have explained this in another way. According to them, two of the four propositions, those of the infinite predicate, are related to affirmation and negation, i.e., to the species itself of affirmation and negation, as privations, that is, as privative affirmations and negations. For the affirmation, "Man is non-just,” is not an affirmation simply, but relatively, as though according to privation; as a dead man is not a man simply, but according to privation. The same thing applies to the negative enunciation with an infinite predicate. However, the two enunciations having finite predicates are not related to the species of affirmation and negation according to privation, but simply, for the enunciation "Man is just” is simply affirmative and "Man is not just” is simply negative. But this meaning does not correspond to the words of Aristotle either, for he says further on: This, then, is the way these are arranged, as we have said in the Analytics, but there is nothing in that text pertaining to this meaning. Ammonius, therefore, interprets this differently and in accordance with what is said at the end of I Priorum [46: 51b 5] about propositions having a finite or infinite or privative predicate. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 9 Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae. To make Ammonius’ explanation clear, it must be noted that, as Aristotle himself says, the enunciation, by some power, is related to that of which the whole of what is signified in the enunciation can be truly predicated. The enunciation, "Man is just,” for example, is related to all those of which in any way "is a just man” can be truly said. So, too, the enunciation "Man is not just” is related to all those of which in any way "is not a just man” can be truly said. According to this mode of speaking it is evident, then, that the simple negative is wider than the infinite affirmative which corresponds to it. Thus, "is a non-just man” can truly be said of any man who does not have the habit of justice; but "is not a just man” can be said not only of a man not having the habit of justice, but also of what is not a man at all. For example, it is true to say "Wood is not a just man,” but false to say, "Wood is a non-just man.” The simple negative, then, is wider than the infinite affirmative-just as animal is wider than man, since it is verified of more. For a similar reason the simple negative is wider than the privative affirmative, for "is an unjust man” cannot be said of what is not man. But the infinite affirmative is wider than the private affirmative, for "is a non-just man” can be truly said of a boy or of any man not yet having a habit of virtue or vice, but "is an unjust man” cannot. And the simple affirmative is narrower than the infinite negative, for "is not a non-just man” can be said not only of a just man, but also of what is not man at all. Similarly, the privative negative is wider than the infinite negative. For "is not an unjust man” can be said not only of a man having the habit of justice and of what is not man at all—of which "is not a non-just man” can be said—but over and beyond this can be said about all men who neither have the habit of justice nor the habit of injustice. 10 His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. With these points in mind it is easy to explain the present sentence in Aristotle. Two of which, i.e., the infinites, will be related to the simple affirmation and negation according to consequence, i.e., in their mode of following upon the two simple enunciations, the infinitives will be related as are privations, i.e., as the two privative enunciations. For just as the infinite negative follows upon the simple affirmative, and.is not convertible with it (because the infinite negative is wider), so also the privative negative which is wider follows upon the simple affirmative and is not convertible. But just as the simple negative follows upon the infinite affirmative, which is narrower and is not convertible with it, so also the simple negative follows upon the privative affirmative, which is narrower and is not convertible. From this it is clear that there is the same relationship, with respect to consequence, of infinites to simple enunciations as there is of privatives. 11 Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas. He goes on to say, but two, i.e., the simple entinciations that are left after the two infinite enunciations have been taken care of, will not, i.e., are not related to infinites according to consequence as privatives are related to them, because, on the one hand, the simple affirmative is narrower than the infinite negative, and the privative negative wider than the infinite negative; and on the other hand, the simple negative is wider than the infinite affirmative, and the privative affirmative narrower than the infinite affirmative. Thus it is clear that simple entinciations are riot related to infinites in respect to consequence as privatives are related to infinites. 12 Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae. But although this explains the words of the Philosopher in a subtle manner the explanation appears a bit forced. For the words of the Philosopher seem to say that diverse relationships will not apply in respect to diverse things; however, in the exposition we have just seen, first there is an explanation of a similitude of relationship to simple enunciations and then an explanation of a dissimilitude of relationship in respect to infinites. The simpler exposition of this passage of Aristotle by Porphyry, which Boethius gives, is therefore more apposite. According to Porphyry’s explanation there is similitude and dissimilitude according to consequence of affirmatives and negatives. Thus Aristotle is saying: Of which, i.e., the four enunciations we are discussing, two, i.e., affirmatives, one simple and the other infinite, will be related according to consequence in regard to affirmation and negation, i.e., so that upon one affirmative follows the other negative, for the infinite negative follows upon the simple affirmative and the simple negative upon the infinite affirmative. But two, i.e., the negatives, will not, i.e., are not so related to affirmatives, i.e., so that affirmatives follow from negatives. And with respect to both, privatives are related in the same way as the infinites. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 13Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Then Aristotle says, I mean that the "is” will be added either to "just” or to "non-just,” etc. Here he shows how, under these circumstances, we get four enunciations. We are speaking now of enunciations in which the verb "is” is predicated as added to some finite or infinite name, for instance as it adjoins "just” in "Man is just,” or "non-just” in "Man is non-just.” Now since the negation is not applied to the verb in either of these, each is affirmative. However, there is a negation opposed to every affirmation as was shown in the first book. Therefore, two negatives correspond to the two foresaid affirmative enunciations, making four simple enunciations. 14 Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. (Figura). In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes. Then he says, The following diagram will make this clear. Here he manifests what he has said by a diagrammatic description; for, as he says, what has been stated can be understood from the following diagram. Take a four-sided figure and in one corner write the enunciation "Man is just.” Opposite it write its negation "Man is not just,” and under these the two infinite enunciations, "Man is non-just,” "Man is not non-just.” Man is just Man is not non-just Man is not just Man is non-just It is evident from this table that the verb "is” whether affirmative or negative is adjoined to "just” and "non-just.” It is according to this that the four enunciations are diversified. 15 Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Finally, he concludes that these enunciations are disposed aaccording to an order of consequence that he has stated in the Analytics, i.e., in I Priorum [46: 51b 5]. There is a variant reading of a previous portion of this text, namely, I mean that "is” will be added either to "man” or to non-man,” and in the diagram "is” is added to "man” and "non-man. This cannot be understood to mean that "man” and "non-man” are taken on the part of the subject; for Aristotle is not treating here of enunciations with an infinite subject and hence "man” and "non-man” must be taken on the part of the predicate. This variant text seemed to Alexander to be corrupt, for the Philosopher has been explicating enunciations in which "just” and "non-just” are posited on the part of the predicate. Others think it can be sustained and that Aristotle has intentionally varied the names to show that it makes no difference what names are used in the examples. III. 1 Postquam philosophus distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen infinitum non universaliter sumptum, hic intendit distinguere enunciationes, in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum. Et circa hoc tria facit: primo, ponit similitudinem istarum enunciationum ad infinitas supra positas; secundo, ostendit dissimilitudinem earumdem; ibi: sed non similiter etc.; tertio, concludit numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: hae duae igitur et cetera. Dicit ergo primo quod similes sunt enunciationes, in quibus est nominis universaliter sumpti affirmatio. Having distinguished enunciations in which the subject is an infinite name not taken universally, Aristotle now distinguishes enunciations in which the subject is a finite name taken universally. He first proposes a similarity between these enunciations and the infinite enunciations already discussed, and then shows their difference where he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that those on the diagonal both be true, etc. Finally, he concludes with the number of oppositions there are between these enunciations where he says, These two pairs, then, are opposed, etc. He says first, then, that enunciations in which the affirmation is of a name taken universally are similar to those already discussed. 2 Quoad primum notandum est quod in enunciationibus indefinitis supra positis erant duae oppositiones et quatuor enunciationes, et affirmativae inferebant negativas, et non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione Ammonii, quam Porphyrii. Ita in enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum inveniuntur duae oppositiones et quatuor enunciationes: et affirmativae inferunt negativas et non e contra. Unde similiter se habent enunciationes supradictae, si nominis in subiecto sumpti fiat affirmatio universaliter. Fient enim tunc quatuor enunciationes: duae de praedicato finito, scilicet omnis homo est iustus, et eius negatio quae est non omnis homo est iustus; et duae de praedicato infinito, scilicet omnis homo est non iustus, et eius negatio quae est, non omnis homo est non iustus. Et quia quaelibet affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem, duae efficiuntur oppositiones, sicut et de indefinitis dictum est. Nec obstat quod de enunciationibus universalibus loquens particulares inseruit; quoniam sicut supra de indefinitis et suis negationibus sermonem fecit, ita nunc de affirmationibus universalibus sermonem faciens de earum negationibus est coactus loqui. Negatio siquidem universalis affirmativae non est universalis negativa, sed particularis negativa, ut in I libro habitum est. It is to be noted in relation to Aristotle’s first point that in indefinite enunciations there were two oppositions and four enunciations, the affirmatives inferring the negatives and not being inferred by them, as is clear in the exposition of Ammonius as well as of Porphyry. In enunciations in which the finite name universally taken is the subject there are also two oppositions and four eminciations, the affirmatives inferring the negatives and not the contrary. Hence, enunciations are related in a similar way if the affirmation is made universally of the name taken as the subject. For again, four enunciations will be made, two with a finite predicate-"Every man is just,” and its negation, "Not every man is just”-and two with an infinite predicate-"Every man is non-just” and its negation, "Not every man is non-just.” And since any affirmation together with its negation makes one whole opposition, two oppositions are made, as was also said of indefinite enunciations. There might seem to be an objection to his use of particulars when speaking of universal enunciations, but this cannot be objected to, for just as in dealing with indefinite enunciations he spoke of their negations, so now in dealing with universal affirmatives be is forced to speak of their negations. The negation of the universal affirmative, however, is not the do universal but the particular negative as was stated in the first book. Cajetanus lib. 2 l. 3 n. 3Quod autem similis sit consequentia in istis et supradictis indefinitis patet exemplariter. Et ne multa loquendo res clara prolixitate obtenebretur, formetur primo figura de indefinitis, quae supra posita est in expositione Porphyrii, scilicet ex una parte ponatur affirmativa finita, et sub ea negativa infinita, et sub ista negativa privativa. Ex altera parte primo negativa finita, et sub ea affirmativa infinita, et sub ea affirmativa privativa. Deinde sub illa figura formetur alia figura similis illi universaliter: ponatur scilicet ex una parte universalis affirmativa de praedicato finito, et sub ea particularis negativa de praedicato infinito, et ad complementum similitudinis sub ista particularis negativa de praedicato privativo; ex altera vero parte ponatur primo particularis negativa de praedicato infinito, et sub ea universalis affirmativa de praedicato finito, et sub ista universalis affirmativa de praedicato privativo, hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, exerceatur consequentia semper in ista proxima figura, sicut supra in indefinitis exercita est: sive sequendo expositionem Ammonii, ut infinitae se habeant ad finitas, sicut privativae se habent ad ipsas finitas; finitae autem non se habeant ad infinitas medias, sicut privativae se habent ad ipsas infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativae inferant negativas, et non e contra. Utrique enim expositioni suprascriptae deserviunt figurae, ut patet diligenter indaganti. Similiter ergo se habent enunciationes istae universales ad indefinitas in tribus, scilicet in numero propositionum, et numero oppositionum, et modo consequentiae. A table will make it evident that the consequence is similar in these and in indefinite eminciations. And lest what is clear be made obscure by prolixity let us first make a diagram of the indefinites posited in the last lesson, based upon the exposition of Porphyry. Place the finite affirmative on one side and under it the infinite negative, and under this the privative negative. On the other side put the finite negative first, under it the infinite affirmative, and under this the privative affirmative. Then under this diagram make another similar to it but of universals. On one side put the universal affirmative of the finite predicate, under it the particular negative of the infinite predicate, and to complete the parallel put the particular negative of the privative predicate under this. On the other side, first put the particular negative of the infinite predicate, under it the universal affirmative of the finite predicate,” and under this the universal affirmative of the privative predicate. Thus: DIAGRAM OF THE INDEFINITES Man is just Man is not just Man is not non-just Man is non-just Man is not unjust Man is unjust DIAGRAM OF THE UNIVERSALS Every man is just Not every man is just. Not every man is non-just Every man is non-just Not every man is unjust Every man is unjust In this disposition of enunciations, the consequence always follows in the second diagram just as it followed in regard to indefinites in the first diagram. This is true if we follow the exposition of Ammonius in which infinites are related to finites as privatives are related to the same finites, and the finites not related to the infinite middle enunciatious as privatives are related to those infinites. It is equally true if we follow the exposition of Porphyry, in which affirmatives infer negatives and not vice versa. That the tables serve both expositions will be clear to one studying them. These universal enunciations, therefore, are related in like manner to indefinite entinciations in three things: the number of propositions, the number of oppositions, and the mode of consequence. 4 Deinde cum dicit: sed non similiter angulares etc., ponit dissimilitudinem inter istas universales et supradictas indefinitas, in hoc quod angulares non similiter contingit veras esse. Quae verba primo exponenda sunt secundum eam, quam credimus esse ad mentem Aristotelis, expositionem; deinde secundum alios. Angulares enunciationes in utraque figura suprascripta vocat eas quae sunt diametraliter oppositae, scilicet affirmativam finitam ex uno angulo, et affirmativam infinitam sive privativam ex alio angulo: et similiter negativam finitam ex uno angulo, et negativam infinitam vel privativam ex alio angulo. When he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that those on the diagonal both be true, etc., he proposes a difference between the universals and the indefinites, i.e., that it is not possible for the diagonals to be true in the case of universals. First we will explain these words according to the exposition we believe Aristotle had in mind, then according to the opinion of others. Aristotle means by diagonal eminciations those that are diametrically opposed in the diagram above, i.e., the finite affirmative in one corner and the infinite affirmative or the privative in the other; and the finite negative in one corner and the, infinite negative or privative in the other. 5 Enunciationes ergo in qualitate similes angulares vocatae, eo quod angulares, idest diametraliter distant, dissimilis veritatis sunt apud indefinitas et universales. Angulares enim indefinitae tam in diametro affirmationum, quam in diametro negationum possunt esse simul verae, ut patet in suprascripta figura indefinitarum. Et hoc intellige in materia contingenti. Angulares vero in figura universalium non sic se habent, quoniam angulares secundum diametrum affirmationum impossibile est esse simul veras in quacumque materia. Angulares autem secundum diametrum negationum quandoque possunt esse simul verae, quando scilicet fiunt in materia contingenti: in materia enim necessaria et remota impossibile est esse ambas veras. Haec est Boethii, quam veram credimus, expositio. Enunciations that are similar in quality, and called diagonal because diametrically distant, are dissimilar in truth, tben, in the case of indefinites and universals. The indefinites on the corners, both oil the diagonal of affirmations and the diagonal of negations can be simultaneously true, as is evident in the table of the indefinite entinciations. This is to be understood in regard to contingent matter. But diagonals of universals are not so related, for angtilars on the diagonal of affirmations cannot be simultaneously true in any matter. Those on the diagonal of negations, however, can sometimes be true simultaneously, i.e., when they are in contingerlt matter. In necessary and rernote matter it is impossible for both of these to be true. This is the exposition of Boethitis, which we believe to be the true one. 6 Herminus autem, Boethio referente, aliter exponit. Licet enim ponat similitudinem inter universales et indefinitas quoad numerum enunciationum et oppositionum, oppositiones tamen aliter accipit in universalibus et aliter in indefinitis. Oppositiones siquidem indefinitarum numerat sicut et nos numeravimus, alteram scilicet inter finitas affirmativam et negativam, et alteram inter infinitas affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus. Universalium vero non sic numerat oppositiones, sed alteram sumit inter universalem affirmativam finitam et particularem negativam finitam, scilicet omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, et alteram inter eamdem universalem affirmativam finitam et universalem affirmativam infinitam, scilicet omnis homo est iustus, omnis homo est non iustus. Inter has enim est contrarietas, inter illas vero contradictio. Dissimilitudinem etiam universalium ad indefinitas aliter ponit. Non enim nobiscum fundat dissimilitudinem inter angulares universalium et indefinitarum supra differentiam quae est inter angulares universalium affirmativas et negativas, sed supra differentiam quae est inter ipsas universalium angulares inter se ex utraque parte. Format namque talem figuram, in qua ex una parte sub universali affirmativa finita, universalis affirmativa infinita est; et ex alia parte sub particulari negativa finita, particularis negativa infinita ponitur; sicque angulares sunt disparis qualitatis, et similiter indefinitarum figuram format hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem, quod angulares indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam, ita quod unius angularis veritas suae angularis veritatem infert undecumque incipias. Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad veritatem, sed ex altera parte necessitas deficit illationis. Si enim incipias ab aliquo universalium et ad suam angularem procedas, veritas universalis non ita potest esse simul cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si universalis est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt esse simul verae. Et si ista universalis contraria est falsa, sua contradictoria particularis, quae est angularis primae universalis assumptae, erit necessario vera: impossibile est enim contradictorias esse simul falsas. Si autem incipias e converso ab aliqua particularium et ad suam angularem procedas, veritas particularis ita potest stare cum veritate suae angularis, quod tamen non necessario infert eius veritatem: quia licet sequatur: particularis est vera; ergo sua universalis contradictoria est falsa; non tamen sequitur ultra: ista universalis contradictoria est falsa; ergo sua universalis contraria, quae est angularis particularis assumpti, est vera. Possunt enim contrariae esse simul falsae. Herminus, however, according to Boethius, explains this in another way. He takes the oppositions in one way in universals and in another in indefinites, although he holds that there is a likeness between universals and indefinites with respect to the n timber of enunciations and of oppositions. He arrives at the oppositions of indefinites we have, i.e., one between the affirmative and negative finites, and the other between the affirmative and negative infinites. But he disposes the oppositions of universals in another way, taking one between the finite universal affirmative and finite particular negative, "Every man is just” and "Not every man is just,” and the other between the same finite universal affirmative and the infinite universal affirmative, "Every man is just” and "Every man is non-just.” Between the latter there is contrariety, between the former contradiction. He also proposes the dissimilarity between universals and indefinites in another way. He does not base the dissimilarity between diagonals of universals and indefinites on the difference between affirinative and negative diagonals of universals, as we do, but on the difference between the diagonals of universals on both sides among themselves. Hence he forms his diagram in this way: under the finite universal affirmative be places the infinite universal affirmative, and on the other side, under the finite particular negative the infinite particular negative. Thus the diagonals are of different quality. He also diagrams the indefinites in this way. Every man is just ? contradictories ? Not every man is just contraries subcontraries Every man is non-just ? contradictories? Not every man is non-just Man is just Man is non-just Man is not just Man is not non-just With enunciations disposed in this way he says their difference is this: that in indefinite enunciations, one on the diagonal is true as a necessary consequence of the truth of the other, so that the truth of one enunciation infers the truth of its diagonal from wherever you begin * But there is no such mutual necessary consequence in universals—from the truth of one on a diagonal to the other—since the necessity of inference fails in part. If you begin from any of the universals and proceed to its diagonal, the truth of the universal cannot be simultaneous with the truth of its diagonal so as to compel it to truth. For if the universal is true its universal contrary will be false, since they cannot be at once true; and if this universal contrary is false, its particular contradictory, which is the diagonal of the first universal assumed, will necessarily be true, since it is impossible for contradictories to be at once false; but if, conversely, you begin with a particular enunciation and proceed to its diagonal, the truth of the particular can so stand with the truth of its diagonal that it does not infer its truth necessarily. For this follows: the particular is true, therefore its universal contradictory is false. But this does not follow: this universal contradictory is false, therefore its universal contrary, which is the diagonal of the particular assumed, is true. For contraries can be at once false. 7 Sed videtur expositio ista deficere ab Aristotelis mente quoad modum sumendi oppositiones. Non enim intendit hic loqui de oppositione quae est inter finitas et infinitas, sed de ea quae est inter finitas inter se, et infinitas inter se. Si enim de utroque modo oppositionis exponere volumus, iam non duas, sed tres oppositiones inveniemus: primam inter finitas, secundam inter infinitas, tertiam quam ipse herminus dixit inter finitam et infinitam. Figura etiam quam formavit, conformis non est ei, quam Aristoteles in fine I priorum formavit, ad quam nos remisit, cum dixit: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita. In Aristotelis namque figura, angulares sunt affirmativae affirmativis, et negativae negativis. But the way in which oppositions are taken in this exposition does not seem to be what Aristotle had in mind. He did not intend to speak here of the opposition between finites and infinites, but of the opposition between finites themselves and infinites themselves. For if we meant to explain each mode of opposition, there would not be two but three oppositions: first, between finites; second, between infinites; and third, the one Herminus states between finite and infinite. Even the diagram Herminus makes is not like the one Aristotle makes at the end of I Priorum, to which Aristotle himself referred us in the last lesson when he said, This, then, is the way these are arranged, as we have said in the Analytics; for in Aristotle’s diagram affirmatives are diagonal to affirmatives and negatives to negatives. 8 Deinde cum dicit: hae igitur duae etc., concludit numerum propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly hae demonstret universales, et sic est sensus, quod hae universales finitae et infinitae habent duas oppositiones, quas supra declaravimus; secundo, potest exponi ut ly hae demonstret enunciationes finitas et infinitas quoad praedicatum sive universales sive indefinitas, et tunc est sensus, quod hae enunciationes supradictae habent duas oppositiones, alteram inter affirmationem finitam et eius negationem, alteram inter affirmationem infinitam et eius negationem. Placet autem mihi magis secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles studebat, replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et infinitas quoad praedicatum secundum diversas quantitates enumeraverat, ad duas oppositiones omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit. Then Aristotle says, These two pairs, then, are opposed, etc. Here he concludes to the number of propositions. What he says here can be interpreted in two ways. In the first way, "these” designates universals, and thus the meaning is that the finite and infinite universals have two oppositions, which we have explained above. In the second, "these” designates enunciations which are finite and infinite with respect to the predicate, whether universal or indefinite, and then the meaning is that these enunciations have two oppositions, one between the finite affirmation and its negation and the other between the infinite affirmation and its negation. The second exposition seems more satisfactory to me, for the brevity for which, Aristotle strove allows for no repetition; hence, in terminating his treatment of the enunciations he had enumerated—those with a finite and infinite predicate according to diverse quantities—he meant to reduce all the oppositions to two.  9 Deinde cum dicit: aliae autem ad id quod est etc., intendit declarare diversitatem enunciationum de tertio adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum. Et circa hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas; secundo, ostendit quod non dantur plures supradictis; ibi: magis autem etc.; tertio, ostendit habitudinem istarum ad alias; ibi: hae autem extra et cetera. Ad evidentiam primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est. Quaedam sunt, quae subiecto sive finito sive infinito nihil habent additum ultra verbum, ut, homo est, non homo est. Quaedam vero sunt quae subiecto finito habent, praeter verbum, aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, homo est iustus, homo est non iustus. Quaedam autem sunt quae subiecto infinito, praeter verbum, habent aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, non homo est iustus, non homo est non iustus. Et quia de primis iam determinatum est, ideo de ultimis tractare volens, ait: aliae autem sunt, quae habent aliquid, scilicet praedicatum, additum supra verbum est, ad id quod est, non homo, quasi ad subiectum, idest ad subiectum infinitum. Dixit autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit a ratione nominis, ita deficit a ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti non proprie substernitur compositioni cum praedicato quam importat, est, tertium adiacens. Enumerat quoque quatuor enunciationes et duas oppositiones in hoc ordine, sicut in superioribus fecit. Distinguit etiam istas ex finitate vel infinitate praedicata. Unde primo, ponit oppositiones inter affirmativam et negativam habentes subiectum infinitum et praedicatum finitum, dicens: ut, non homo est iustus, non homo non est iustus. Secundo, ponit oppositionem alteram inter affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum et praedicatum infinitum, dicens: ut, non homo est non iustus, non homo non est non iustus. When he says, and there, are two other pairs if something is added to "non-man” as a subject, etc., he shows the diversity of enunciations when "is” is added as a third element and the subject is an infinite name. First, he proposes and distinguishes them; secondly, he shows that there are no more opposites than these where he says, There will be no more opposites than these; thirdly, he shows the relationship of these to the others where he says, The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc. With respect to the first point, it should be noted that there are three species of absolute [de inesse] enunciations in which the verb "is” is posited explicitly. Some have nothing added to the subject—which can be either finite or infinite—beyond the verb, as in "Man is,” "Non-man is.” Some have, besides the verb, something either finite or infinite added to a finite subject, as in "Man is just,” "Man is non-just.” Finally, some have, besides the verb, something either finite or infinite added to an infinite subject, as in "Non-man is just,” "Non-man is non-just.” He has already treated the first two and now intends to take tip the last ones. And there are two other pairs, he says, that have something, namely a predicate. added beside the verb "is” to "non-man” as if to a subject, i.e., to an infinite subject. He says "as if” because the infinite name falls short of the notion of a subject insofar as it falls short of the notion of a name. Indeed, the signification of an infinite name is not properly submitted to composition with the predicate, which "is,” the third element added, introduces. Aristotle enumerates four enunciations and two oppositions in this order as he did in the former. In addition he distinguishes these from the former finiteness and infinity. First, he posits the opposition between affirmative and negative enunciations with an infinite subject and a finite predicate, "Non-man is just,” "Non-man is not just.” Then he posits another opposition between those with an infinite subject and an infinite predicate, "Non-man is non-just,” "Non-man is not non-just. 10 Deinde cum dicit: magis autem plures etc., ostendit quod non dantur plures oppositiones enunciationum supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est, sive secundum, sive tertium adiacens, de quibus loquimur, non possunt esse plures quam duodecim supra positae; et consequenter oppositiones earum secundum affirmationem et negationem non sunt nisi sex. Cum enim in tres ordines divisae sint enunciationes, scilicet in illas de secundo adiacente, in illas de tertio subiecti finiti, et in illas de tertio subiecti infiniti, et in quolibet ordine sint quatuor enunciationes; fiunt omnes enunciationes duodecim, et oppositiones sex. Et quoniam subiectum earum in quolibet ordine potest quadrupliciter quantificari, scilicet universalitate, particularitate, et singularitate et indefinitione; ideo istae duodecim multiplicantur in quadraginta octo. Quater enim duodecim quadraginta octo faciunt. Nec possibile est plures his imaginari. Et licet Aristoteles nonnisi viginti harum expresserit, octo in primo ordine, octo in secundo, et quatuor in tertio, attamen per eas reliquas voluit intelligi. Sunt autem sic enumerandae et ordinandae secundum singulos ordines, ut affirmationi negatio prima ex opposito situetur, ut oppositionis intentum clarius videatur. Et sic contra universalem affirmativam non est ordinanda universalis negativa, sed particularis negativa, quae est illius negatio; et e converso, contra particularem affirmativam non est ordinanda particularis negativa, sed universalis negativa quae est eius negatio. Ad clarius autem intuendum numerum, coordinandae sunt omnes, quae sunt similis quantitatis, simul in recta linea, distinctis tamen ordinibus tribus supradictis. Quod ut clarius elucescat, in hac subscripta videatur figura: (Figura). Quod autem plures his non sint, ex eo patet quod non contingit pluribus modis variari subiectum et praedicatum penes finitum et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et infinitum subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari penes praedicatum finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum quod sufficienter factum apparet. Enunciationes autem de tertio adiacente quadrupliciter variari possunt, quia aut sunt subiecti et praedicati finiti, aut utriusque infiniti, aut subiecti finiti et praedicati infiniti, aut subiecti infiniti et praedicati finiti. Quarum nullam praetermissam esse superior docet figura. Then he says, There will be no more opposites than these. Here he points out that there are no more oppositions of enunciations than the ones be has already given. We should note, then, that simple [or absolute] enunciations—of which we have been speaking—in which the verb "is” is explicitly posited whether it is the second or third element added, cannot be more than the twelve posited. Consequently, their oppositions according to affirmation and negation are only six. For enunciations are divided into three orders: those with the second element added, those with the third element added to a finite subject, and those with the third element added to an infinite subject; and in any order there are four enunciations. And since their subject in any order can be quantified in four ways, i.e., by universality, particularity, singularity, and indefiniteness, these twelve will be increased to fortyeight (four twelves being forty-eight). Nor is it possible to imagine more than these. Aristotle has only expressed twenty of these, eight in the first order, eight in the second, and four in the third, but through them be intended the rest to be understood. They are to be enumerated and disposed according to each order so that the primary negation is placed opposite an affirmation in order to make the relation of opposition more evident. Thus, the universal negative should not be ordered as opposite to the universal affirmative, but the particular negative, which is its negation. Conversely, the particular negative should not be ordered as opposite to the particular affirmative, but the universal negative, which is its negation. For a clearer look at their number all those of similar quantity should be co-ordered in a straight line and in the three distinct orders given above. The following diagram will make this clear. FIRST ORDER Socrates is Socrates is not Non-Socrates is Non-Socrates is not Some man is Some man is not Some non-man is Some non-man is not Man is Man is not Non-man is Non-man is not Every man is No man is Every non-man is No non-man is SECOND ORDER Socrates is just Socrates is not just Socrates is non-just Socrates is not non-just Some man is just Some man is not just Some man is non-just Some man is not non-just Man is just Man is not just Man is non-just Man is not non-just Every man is just No man is just Every man is non-just No man is non-just THIRD ORDER Non-Socrates is just Non-Socrates is not just Non-Socrates is non-just Non-Socrates is not non-just Some non-man is just Some non-man is not just Some non-man is non-just Some non-man is not non-just Non-man is just Non-man is not just Non-man is non-just Non-man is not non-just Every non-man is just No non-man is just Every non-man is non-just No non-man is non-just It is evident that there are no more than these, for the subject and the predicate cannot be varied in any other way with respect to finite and infinite. Nor can the finite and infinite subject be varied in any other way, for the enunciation with a second adjoining element cannot be varied with a finite and infinite predicate but only in respect to the subject. This is clear enough. But enunciations with a third adjoining element can be varied in four ways: they may have either a finite subject and predicate, or an infinite subject and predicate, or a finite subject and infinite predicate, or an infinite subject and finite predicate. These variations are all evident in the above table. 11 Deinde cum dicit: hae autem extra illas etc., ostendit habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus ad illas, quae in secundo sitae sunt ordine, et dicit quod istae sunt extra illas, quia non sequuntur ad illas, nec e converso. Et rationem assignans subdit: ut nomine utentes eo quod est non homo, idest ideo istae sunt extra illas, quia istae utuntur nomine infinito loco nominis, dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut nomine, infinito nomine, quia cum subiici in enunciatione proprium sit nominis, praedicari autem commune nomini et verbo, omne subiectum enunciationis ut nomen subiicitur. Then when he says, The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc., he shows the relationship of those we have put in the third order to those in the second order. The former, he says, are distinct from the latter because they do not follow upon the latter, nor conversely. He assigns the reason when he adds: because of the use of "non-man” as a name, i.e., the former are separate from the latter because the former use an infinite name in place of a name, since they all have an infinite subject. It should be noted that he says enunciations of an infinite subject use an infinite name as a name; for to be subjected in an enunciation is proper to a name, to be predicated common to a name and a verb, and therefore every subject of an enunciation is subjected as a name. 12 Deinde cum dicit: in his vero in quibus est etc., determinat de enunciationibus in quibus ponuntur verba adiectiva. Et circa hoc tria facit: primo, distinguit eas; secundo, respondet cuidam tacitae quaestioni; ibi: non enim dicendum est etc.; tertio, concludit earum conditiones; ibi: ergo et caetera eadem et cetera. Ad evidentiam primi resumendum est, quod inter enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens, et eas in quibus ponitur est tertium adiacens talis est differentia quod in illis, quae sunt de secundo adiacente, simpliciter fiunt oppositiones, scilicet ex parte subiecti tantum variati per finitum et infinitum; in his vero, quae habent est tertium adiacens dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex parte praedicati et ex parte subiecti, quia utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum ordinem tantum enunciationum de secundo adiacente fecimus, habentem quatuor enunciationes diversimode quantificatas et duas oppositiones. Enunciationes autem de tertio adiacente oportuit partiri in duos ordines, quia sunt in eis quatuor oppositiones et octo enunciationes, ut supra dictum est. Considerandum quoque est quod enunciationes, in quibus ponuntur verba adiectiva, quoad significatum aequivalent enunciationibus de tertio adiacente, resoluto verbo adiectivo in proprium participium et est, quod semper fieri licet, quia in omni verbo adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem significant ista, omnis homo currit, quod ista, omnis homo est currens. Propter quod Boethius vocat enunciationes cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de tertio autem secundum potestatem, quia potest resolvi in tertium adiacens, cui aequivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes verbi adiectivi formaliter sumptae non aequivalent illis de tertio adiacente, sed aequivalent enunciationibus, in quibus ponitur est secundum adiacens. Non possunt enim fieri oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis, scilicet ex parte subiecti et praedicati, sicut fiebant in substantivis de tertio adiacente, quia verbum, quod praedicatur in adiectivis, infinitari non potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter, scilicet ex parte subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode quantificati, sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de secundo adiacente, eadem ducti ratione, quia praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio, sicut praeter nomen esse potest. Quia autem in praesenti tractatu non de significationibus, sed de numero enunciationum et oppositionum sermo intenditur, ideo Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes adiectivas secundum modum, quo distinctae sunt enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens. Et ait quod in his enunciationibus, in quibus non contingit poni hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel, ambulat, idest in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum oppositionum et enunciationum sic posita, scilicet nomen et verbum, ac si est secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istae adiectivae, sicut illae, in quibus ponitur est, duas oppositiones tantum, alteram inter finitas, ut, omnis homo currit, omnis homo non currit, alteram inter infinitas quoad subiectum, ut, omnis non homo currit, omnis non homo non currit. Next he takes up enunciations in which adjective verbs are posited, when he says, In enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject, etc. First, he distinguishes these adjective verbs; secondly, he answers an implied question where he says, We must not say "non-every man,” etc.; thirdly, he concludes with their conditions where he says, All else in the enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject will be the same, etc. It is necessary to note here that there is a difference between enunciations in which "is” is posited as a second adjoining element and those in which it is posited as a third element. In those with "is” as a second element oppositions are simple, i.e., varied only on the part of the subject by finite and infinite. In those having "is” as a third element oppositions are made in two ways—on the part of the predicate and on the part of the subject—for both can be varied by finite and infinite. Hence we made only one order of enunciations with "is” as the second element. It had four enunciations quantified in diverse ways, and two oppositions. But enunciations with "is” as a third element must be divided into two orders, because in them there are four oppositions and eight enunciations, as we said above. Enunciations with adjective verbs are made equivalent in signification to enunciations with "is” as the third element by resolving the adjective verb into its proper participle and "is,” which may always be done because a substantive verb is contained in every adjective verb. For example, "Every man runs” signifies the same thing as "Every man is running.” Because of this Boethius calls enunciations having an adjective verb "eminciations of the second adjoining element according to vocal sound, but of the third adjoining element according to power.” He designates them in this manner because they can be resolved into enunciations with a third adjoining element to which they are equivalent. With respect to the number and oppositions of enunciations, those with an adjective verb, formally taken, are not equivalent to those with a third adjoining element but to those in which "is” is posited as the second element. For oppositions cannot be made in two ways in adjectival enunciations as they are in the case of substantival enunciations with a third adjoining element, namely, on the part of the subject and predicate, because the verb which is predicated in adjectival enunciations cannot be made infinite. Hence oppositions of adjectival enunciations are made simply, i.e., only by the subject quantified in diverse ways being varied by finite and infinite, as was done above in substantival enunciations with a second adjoining element, and for the same reason, i.e., there can be no affirmation or negation without a verb but there can be without a name. Since the present treatment is not of significations but of the number of enunciations and oppositions, Aristotle determines that adjectival enunciations are to be diversified according to the mode in which enunciations with "is” as the second adjoining element are distinguished. And he says that in enunciations in which the verb "is” is not posited formally, but some other verb, such as "matures” or "walks,” i.e., in adjectival enunciations, the name and verb form the same scheme with respect to the number of oppositions and enunciations as when is as a second adjoining element is added to the name as a subject. For these adjectival enunciations, like the ones in which "is” is posited, have only two oppositions, one between the finites, as in "Every man runs,” "Not every man runs,” the other between the infinites with respect to subject, as in "Every non-man runs,” "Not every non-man runs.” 13 Deinde cum dicit: non enim dicendum est etc., respondet tacitae quaestioni. Et circa hoc facit duo: primo, ponit solutionem quaestionis; deinde, probat eam; ibi: manifestum est autem et cetera. Est ergo quaestio talis: cur negatio infinitans numquam addita est supra signo universali aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam, omnis homo currit, cur non sic infinitata est, non omnis homo currit, sed sic, omnis non homo currit? Huic namque quaestioni respondet, dicens quod quia nomen infinitabile debet significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem et similia signa non significant aliquid universale aut singulare, sed quoniam universaliter aut particulariter; ideo non est dicendum, non omnis homo, si infinitare volumus (licet debeat dici, si negare quantitatem enunciationis quaerimus), sed negatio infinitans ad ly homo, quod significat aliquid universale, addenda est, et dicendum, omnis non homo. Then he answers an implied question when he says, We, must not say "non-every man” but must add the negation to man, etc. First he states the solution of the question, then he proves it where he says, This is evident from the following, etc. The question is this: Why is the negation that makes a word infinite never added to the universal or particular sign? For example, when we wish to make "Every man runs” infinite, why do we do it in this way "Every non-man runs,” and not in this, "Non-every man runs.” He answers the question by saying that to be capable of being made infinite a name has to signify something universal or singular. "Every” and similar signs, however, do not signify something universal or singular, but that something is taken universally or particularly. Therefore, we should not say "non-every man” if we wish to infinitize (although it may be used if we wish to deny the quantity of an enunciation), but must add the infinitizing negation to "man,” which signifies something universal, and say "every non-man.” 14 Deinde cum dicit: manifestum est autem ex eo quod est etc., probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis et similia non significant aliquod universale, sed quoniam universaliter tali ratione. Illud, in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere et non habere ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam universaliter; sed illud in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere et non habere ly omnis, est significatum per ly omnis; ergo significatum per ly omnis est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis, tacita in textu, ex se clara est. Id enim in quo, caeteris paribus, habentia a non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est illius termini. Maior vero in littera exemplariter declaratur sic. Illae enunciationes homo currit, et omnis homo currit, praecise differunt ex hoc, quod in una est ly omnis, et in altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod una sit universalis, alia non universalis. Utraque enim habet subiectum universale, scilicet ly homo, sed differunt, quia in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur de subiecto universaliter, in altera autem non universaliter. Cum enim dico, homo currit, cursum attribuo homini universali, sive communi, sed non pro tota humana universitate; cum autem dico, omnis homo currit, cursum inesse homini pro omnibus inferioribus significo. Simili modo declarari potest de tribus aliis, quae in textu adducuntur, scilicet, homo non currit, respectu suae universalis universaliter, omnis homo non currit: et sic de aliis. Relinquitur ergo, quod, omnis et nullus et similia signa nullum universale significant, sed tantummodo significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel negant. Where he says, This is evident from the following, etc., he proves that "every” and similar words do not signify a universal but that a universal is taken universally. His argument is the following: That by which enunciations having or not having the "every” differ is not the universal; rather, they differ in that the universal is taken universally. But that by which enunciations having and not having the "every” differ is signified by the "every.” Therefore, that which is signified by the "every” is not a universal but that the universal is taken universally. The minor of the argument is evident, though not explicitly given in the text: that in which the having of some term differs from the not having of it, other things being equal, is the signification of that term. The major is made evident by examples. The enunciations "Man matures” and "Every man matures” differ precisely by the fact that in one there is an "every,” in the other not. However, they do not differ in such a way by this that one is universal, the other not universal, for both have the universal subject, "man”; they differ because in the one in which "every” is posited, the enunciation is of the subject universally, but in the other not universally. For when I say, "Man matures,” I attribute maturing to "man” as universal or common but not to man as to the whole human race; when I say, "Every man matures,” however, I signify maturing to be present to man according to all the inferiors. This is evident, too, in the three other examples of enunciations in Aristotle’s text. For example, "Non-man matures” when its universal is taken universally becomes "Every non-man matures,” and so of the others. It follows, therefore, that "every” and "no” and similar signs do not signify a universal but only signify that they affirm or deny of man universally. 15 Notato hic duo: primum est quod non dixit omnis et nullus significat universaliter, sed quoniam universaliter; secundum est, quod addit, de homine affirmant vel negant. Primi ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum universalitatis aut particularitatis absolute, sed applicatum termino distributo. Cum enim dico, omnis homo, ly omnis denotat universitatem applicari illi termino homo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam universaliter, per ly quoniam insinuavit applicationem universalitatis importatam in ly omnis in actu exercito, sicut et in I posteriorum, in definitione scire applicationem causae notavit per illud verbum quoniam, dicens: scire est rem per causam cognoscere, et quoniam illius est causa. Ratio autem secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et syncategorematicos. Illi siquidem ponunt significata supra terminos absolute; isti autem ponunt significata sua supra terminos in ordine ad praedicata. Cum enim dicitur, homo albus, ly albus denominat hominem in seipso absque respectu ad aliquod sibi addendum. Cum vero dicitur, omnis homo, ly omnis etsi hominem distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in ordine ad aliquod praedicatum intelligatur. Cuius signum est, quia, cum dicimus, omnis homo currit, non intendimus distribuere hominem pro tota sua universitate absolute, sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus homo currit, determinamus hominem in seipso esse album et non in ordine ad cursum. Quia ergo omnis et nullus, sicut et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione faciunt, nisi quia determinant subiectum in ordine ad praedicatum, et hoc sine affirmatione et negatione fieri nequit; ideo dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam universaliter de nomine, idest de subiecto, affirmant vel negant, idest affirmationem vel negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea separavit. Potest etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa signa, scilicet omnis et nullus, quorum alterum positive distribuit, alterum removendo. Two things should be noted here: first, that Aristotle does not say "every” and "no” signify universally, but that the universal is taken universally; secondly, that he adds, they affirm or deny of man. The reason for the first is that the distributive sign does not signify the mode of universality or of particularity absolutely, but the mode applied to a distributed term. When I say, "every man” the "every” denotes that universality is applied to the term "man.” Hence, when Aristotle says "every” signifies that a universal is taken universally, by the "that” he conveys the application in actual exercise of the universality denoted by the "every,” just as in I Posteriorum [2: 71b 10] in the definition of "to know,” namely, To know scientifically is to know a thing through its cause and that this is its cause, he signifies by the word "that” the application of the cause. The reason for the second is to imply the difference between categorematic and syneategorematic terms. The former apply what is signified to the terms absolutely; the latter apply what they signify to the terms in relation to the predicates. For example, in "white man” the "white” denominates man in himself apart from any regard to something to be added; but in "every man,” although the "every” distributes man,” the distribution does not confirm the intellect unless it is under stood in relation to some predicate. A sign of this is that when we say "Every man runs” we do not intend to distribute "man” in its whole universality absolutely, but only in relation to "running.” When we say "White man runs,” on the other hand, we designate man in himself as "white” and not in relation to "running.” Therefore, since "every” and "no” and the other syncategorematic terms do nothing except determine the subject in relation to the predicate in the enunciation, and this cannot be done without affirmation and negation, Aristotle says that they only signify that the affirmation or negation is of a name, i.e., of a subject, universally, i.e., they prescribe the affirmation or negation that is being formed, and by this he separates them from categorematic terms. They affirm, or deny can also be referred to the signs themselves i.e., "every” and "no,” one of which distributes positively, the other distributes by removing. 16 Deinde cum dicit: ergo et caetera eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones. Dixerat enim quod adiectivae enunciationes idem faciunt quoad oppositionum numerum, quod substantivae de secundo adiacente; et hoc declaraverat, oppositionum numero exemplariter subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam sequitur convenientia quoad finitationem praedicatorum, et quoad diversam subiectorum quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in seipsum, et si qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: ergo et caetera, quae in illis servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt. When he says All else in enunciations in which "is”does not join the predicate to the subject, etc., he concludes the treatment of the conditions of adjectival enunciations. He has already stated that adjectival enunciations are the same with respect to the number of oppositions as substantival enunciations with "is” as the second element, and has clarified this by a table showing the number of oppositions. Now, since upon this conformity follows conformity both with respect to finiteness of predicates and with respect to the diverse quantity of subjects, and also-if any enunciations of this kind are enumerated—their multiplication in sets of four, he concludes, Therefore also the other things, which are to be observed in them, are to be considered the same, i.e., similar to these. IV. 1. Postquam determinatum est de diversitate enunciationum, hic intendit removere quaedam dubia circa praedicta. Et circa hoc facit sex secundum numerum dubiorum, quae suis patebunt locis. Quia ergo supra dixerat quod in universalibus non similiter contingit angulares esse simul veras, quia affirmativae angulares non possunt esse simul verae, negativae autem sic; poterat quispiam dubitare, quae est causa huius diversitatis. Ideo nunc illius dicti causam intendit assignare talem, quia, scilicet, angulares affirmativae sunt contrariae inter se; contrarias autem in nulla materia contingit esse simul veras. Angulares autem negativae sunt subcontrariae illis oppositae; subcontrarias autem contingit esse simul veras. Et circa haec duo facit: primo, declarat conditiones contrariarum et subcontrariarum; secundo, quod angulares affirmativae sint contrariae et quod angulares negativae sint subcontrariae; ibi: sequuntur vero et cetera. Dicit ergo resumendo: quoniam in primo dictum est quod enunciatio negativa contraria illi affirmativae universali, scilicet, omne animal est iustum, est ista, nullum animal est iustum; manifestum est quod istae non possunt simul, idest in eodem tempore, neque in eodem ipso, idest de eodem subiecto esse verae. His vero oppositae, idest subcontrariae inter se, possunt esse simul verae aliquando, scilicet in materia contingenti, ut, quoddam animal est iustum, non omne animal est iustum. Having treated the diversity of enunciations Aristotle now answers certain questions about them. He takes up six points related to the number of difficulties. These will become evident as we come to them. Since he has said that in universal enunciations the diagonals in one case cannot be at once true but can be in another, for the diagonal affirmatives cannot be at once true but the negatives can,” someone might raise a question as to the cause of this diversity. Therefore, it is his intention now to assign the cause of this: namely, that the diagonal affirmatives are contrary to each other, and contraries cannot be at once true in any matter; but the diagonal negatives are subcontraries opposed to these and can be at once true. In relation to this he first states the conditions for contraries and subcontraries. Then he shows that diagonal affirmatives are contraries and that diagonal negatives are subcontraries where he says, Now the enunciation "No man is just” follows upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc. By way of resumé, therefore, he says that in the first book it was said that the negative enunciation contrary to the universal affirmative "Every animal is just” is "No animal is just.” It is evident that these cannot be at once true, i.e., at the same time, nor of the same thing, i.e., of the same subject. But the opposites of these, i.e., the subcontraries, can sometimes be at once true, i.e., in contingent matter, as in "Some animal is just” and "Not every animal is just.” 2 Deinde cum dicit: sequuntur vero etc., declarat quod angulares affirmativae supra positae sint contrariae, negativae vero subcontrariae. Et primum quidem ex eo quod universalis affirmativa infinita et universalis negativa simplex aequipollent; et consequenter utraque earum est contraria universali affirmativae simplici, quae est altera angularis. Unde dicit quod hanc universalem negativam finitam, nullus homo est iustus, sequitur aequipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis homo est non iustus. Secundum vero declarat ex eo quod particularis affirmativa finita et particularis negativa infinita aequipollent. Et consequenter utraque earum est subcontraria particulari negativae simplici, quae est altera angularis, ut in figura supra posita inspicere potes. Unde subdit quod illam particularem affirmativam finitam, aliquis homo est iustus, opposita sequitur aequipollenter (opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis affirmativae infinitae), non omnis homo est non iustus. Haec enim est contradictoria eius. Ut autem clare videatur quomodo supra dictae enunciationes sint aequipollentes, formetur figura quadrata, in cuius uno angulo ponatur universalis negativa finita, et sub ea contradictoria particularis affirmativa finita; ex alia vero parte locetur universalis affirmativa infinita, et sub ea contradictoria particularis negativa infinita, noteturque contradictio inter angulares et collaterales inter se, hoc modo: (Figura). His siquidem sic dispositis, patet primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et falsitate, quia si altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa; et si ista est falsa, sua collateralis contradictoria, quae est altera universalis, erit vera, et similiter procedit quoad falsitatem particularium. Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa, ista autem existente falsa, sua contradictoria collateralis, quae est altera particularis erit vera; simili quoque modo procedendum est quoad falsitatem. When he says, Now the enunciation, "No man is just” follows upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc., he shows that the diagonal affirmatives previously posited are contraries, the negatives subcontraries. First he manifests this from the fact that the infinite universal affirmative and the simple universal negative are equal in meaning, and consequently each of them is contrary to the simple universal affirmative, which is the other diagonal. Hence, he says that the infinite universal affirmative "Every man is non-just” follows upon the finite universal negative "No man is just,” equivalently. Secondly he shows this from the fact that the finite particular affirmative and the infinite particular negative are equal in meaning, and consequently each of these is subcontrary to the simple particular negative, which is the other diagonal. This you can see in the previous diagram. He says, then, that the opposite "Not every man is non-just” follows upon the finite particular "Some man is just” equivalently (understand "the opposite” not of this particular but of the infinite universal affirmative, for this is its contradictory). In order to see clearly how these enunciations are equivalent, make a four-sided figure, putting the finite universal negative in one corner and under it the contradictory, the finite particular affirmative. On the other side, put the infinite universal affirmative and under it the contradictory, the infinite particular negative. Now indicate the contradiction between diagonals and the contradiction between collaterals. No man is just equivalents Every man is non-just contradictories contradictories Some man is just equivalents Not every man is non-just This arrangement makes the mutual consequence of the universals in truth and falsity evident, for if one of them is true, its diagonal contradictory is false; and if this is false, its collateral contradictory, which is the other universal, will be true. With respect to the falsity of the particulars the procedure is the same. Their mutual consequence is made evident in the same way, for if one of them is true, its diagonal contradictory is false, and if this is false, its contradictory collateral, which is the other particular, will be true; the procedure is the same with respect to falsity. 3 Sed est hic unum dubium. In I enim priorum, in fine, Aristoteles ex proposito determinat non esse idem iudicium de universali negativa et universali affirmativa infinita; et superius in hoc secundo, super illo verbo: quarum duae se habent secundum consequentiam, duae vero minime, Ammonius, Porphyrius, Boethius et sanctus Thomas dixerunt quod negativa simplex sequitur affirmativam infinitam, sed non e converso. Ad hoc dicendum est, secundum Albertum, quod negativam finitam sequitur affirmativa infinita subiecto constante; negativa vero simplex sequitur affirmativam absolute. Unde utrumque dictum verificatur, et quod inter eas est mutua consequentia cum subiecti constantia, et quod inter eas non est mutua consequentia absolute. Potest dici secundo, quod supra locuti sumus de infinita enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam praedicati reductum; et secundum hoc, quia negativa finita est superior affirmativa infinita, ideo non erat mutua consequentia: hic autem loquimur de ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo Ammonii expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi: negativa simplex, in plus est quam affirmativa infinita. Textus vero I priorum ultra praedicta loquitur de finita et infinita in ordine ad syllogismum. Manifestum est autem quod universalis affirmativa sive finita sive infinita non concluditur nisi in primo primae. Universalis autem negativa quaecumque concluditur et in secundo primae, et primo et secundo secundae. However, a question arises with respect to this. At the end of I Priorum [46: 51b 5], Aristotle determines from what he has proposed that the judgment of the universal negative and the infinite universal affirmative is not the same. Furthermore, in the second book of the present work, in relation to the phrase Of which two are related according to consequence, two are not. Ammonius, Porphyry, Boethius, and St. Thomas say that the simple negative follows upon the infinite affirmative and not conversely.” Albert answers this latter difficulty by pointing out that the infinite affirmative follows upon the finite negative when the subject is constant, but the simple negative follows upon the affirmative absolutely. Hence both positions are verified, for with a constant subject there is a mutual consequence between them, but there is not a mutual consequence between them absolutely. We could also answer this difficulty in this way. In Book II, Lesson 2 we were speaking of the infinite enunciation with the whole of what it signified reduced to the form of the predicate, and according to this there was not a mutual consequence, since the finite negative is superior to the infinite affirmative. But here we are speaking of the infinite itself formally taken. Hence St. Thomas, when he introduced the exposition of Ammonius in his commentary on the above passage, said that according to this mode of speaking the simple negative is wider than the infinite affirmative. In the above mentioned text in I Priorum [46: 52a 36], Aristotle is speaking of finite and infinite enunciations in relation to the syllogism. It is evident, however, that the universal affirmative, whether finite or infinite is only inferred in the first mode of the first figure, while any universal negative whatever is inferred in the second mode of the first figure and in the first and second modes of the second figure. 4 Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., movet secundum dubium de vario situ negationis, an scilicet quoad veritatem et falsitatem differat praeponere et postponere negationem. Oritur autem haec dubitatio, quia dictum est nunc quod non refert quoad veritatem si dicatur, omnis homo est non iustus, aut si dicatur, omnis homo non est iustus; et tamen in altera postponitur negatio, in altera praeponitur, licet multum referat quoad affirmationem et negationem. Hanc, inquam, dubitationem solvere intendens cum distinctione, respondet quod in singularibus enunciationibus eiusdem veritatis sunt singularis negatio et infinita affirmatio eiusdem, in universalibus autem non est sic. Si enim est vera negatio ipsius universalis non oportet quod sit vera infinita affirmatio universalis. Negatio enim universalis est particularis contradictoria, qua existente vera, non est necesse suam subalternam, quae est contraria suae contradictoriae esse veram. Possunt enim duae contrariae esse simul falsae. Unde dicit quod in singularibus enunciationibus manifestum est quod, si est verum negare interrogatum, idest, si est vera negatio enunciationis singularis, de qua facta est interrogatio, verum etiam est affirmare, idest, vera erit affirmatio infinita eiusdem singularis. Verbi gratia: putasne Socrates est sapiens? Si vera est ista responsio, non; Socrates igitur non sapiens est, idest, vera erit ista affirmatio infinita, Socrates est non sapiens. In universalibus vero non est vera, quae similiter dicitur, idest, ex veritate negationis universalis affirmativae interrogatae non sequitur vera universalis affirmativa infinita, quae similis est quoad quantitatem et qualitatem enunciationi quaesitae; vera autem est eius negatio, idest, sed ex veritate responsionis negativae sequitur veram esse eius, scilicet universalis quaesitae negationem, idest, particularem negativam. Verbi gratia: putasne omnis homo est sapiens? Si vera est ista responsio, non; affirmativa similis interrogatae quam quis ex hac responsione inferre intentaret est illa: igitur omnis homo est non sapiens. Haec autem non sequitur ex illa negatione. Falsum est enim hoc, scilicet quod sequitur ex illa responsione; sed inferendum est, igitur non omnis homo sapiens est. Et ratio utriusque est, quia haec particularis ultimo illata est opposita, idest contradictoria illi universali interrogatae quam respondens falsificavit; et ideo oportet quod sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua est vera. Illa vero, scilicet universalis affirmativa infinita primo illata, est contraria illi eidem universali interrogatae. Non est autem opus quod si universalium altera sit falsa, quod reliqua sit vera. In promptu est autem causa huius diversitatis inter singulares et universales. In singularibus enim varius negationis situs non variat quantitatem enunciationis; in universalibus autem variat, ut patet. Ideo fit ut non sit eadem veritas negantium universalem in quarum altera praeponitur, in altera autem postponitur negatio, ut de se patet. When he says, And it is also clear with respect to the singular that if a question is asked and a negative answer is the true one, there is also a true affirmation, etc., he presents a difficulty relating to the varying position of the negation, i.e., whether there is a difference as to truth and falsity when the negation is a part of the predicate or a part of the verb. This difficulty arises from what he has just said, namely, that it is of no consequence as to truth or falsity whether you say, "Every man is non-just” or "Every man is not just”; yet in one case the negation is a part of the predicate, in the other part of the copula, and this makes a great deal of difference with respect to affirmation and negation. To solve this problem Aristotle makes a distinction: in singular enunciations, the singular negation and infinite affirmation of the same subject are of the same truth, but in universals this is not so. For if the negation of the universal is true it is not necessary that the infinite affirmation of the universal is true. The negation of the universal is the contradictory particular, but if it is true [i.e., the contradictory particular] it is not necessary that the subaltern, which is the contrary of the contradictory, be true, for two contraries can be at once false. Hence he says that in singular enunciations it is evident that if it is true to deny the thing asked, i.e., if the negation of a singular enunciation, which has been made into an interrogation, is true, there will also be a true affirmation, i.e., the infinite affirmation of the same singular will be true. For example, if the question "Do you think Socrates is wise?” has "No” as a true response, then "Socrates is non-wise,” i.e., the infinite affirmation "Socrates is non-wise” will be true. But in the case of universals the affirmative inference is not true, i.e., from the truth of a negation to a universal affirmative question, the truth of the infinite universal affirmative (which is similar in quantity and quality to the enunciation asked) does not follow. But the negation is true, i.e., from the truth of the negative response it follows that its negation is true, i.e., the negation of the universal asked, which is the particular negative. Consider, for example, the question "Do you think every man is wise?” If the response "No” is true, one would be tempted to infer the affirmative similar to the question asked, i.e., then "Every man is non-wise.” This, however, does not follow from the negation, for this is false as it follows from that response. Rather, what must be inferred is "Then not every man is wise.” And the reason for both is that the particular enunciation inferred last is the opposite, i.e., the contradictory of the universal question, which, being falsified by the negative response, makes the contradictory of the universal affirmative true, for of contradictories, if one is false the other is true. The infinite universal affirmative first inferred, however, is contrary to the same universal question. Should it not also be true? No, because it is not necessary in the case of universals that if one is false the other is true. The cause of the diversity between singulars and universals is now clear. In singulars the varying position of the negation does not vary the quantity of the enunciation ‘ but in universals it does. Therefore there is not the same truth in enunciations denying a universal when in one the negation is a part of the predicate and in the other a part of the verb. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 5Deinde cum dicit: illae vero secundum infinitaetc., solvit tertiam dubitationem, an infinita nomina vel verba sint negationes. Insurgit autem hoc dubium, quia dictum est quod aequipollent negativa et infinita. Et rursus dictum est nunc quod non refert in singularibus praeponere et postponere negationem: si enim infinitum nomen est negatio, tunc enunciatio, habens subiectum infinitum vel praedicatum, erit negativa et non affirmativa. Hanc dubitationem solvit per interpretationem, probando quod nec nomina nec verba infinita sint negationes, licet videantur. Unde duo circa hoc facit: primo, proponit solutionem dicens: illae vero, scilicet dictiones, contraiacentes: verbi gratia: non homo, et, homo non iustus et iustus. Vel sic: illae vero, scilicet dictiones, secundum infinita, idest secundum infinitorum naturam, iacentes contra nomina et verba (utpote quae removentes quidem nomina et verba significant, ut non homo et non iustus et non currit, quae opponuntur contra ly homo ly iustus et ly currit), illae, inquam, dictiones infinitae videbuntur prima facie esse quasi negationes sine nomine et verbo ex eo quod comparatae nominibus et verbis contra quae iacent, ea removent, sed non sunt secundum veritatem. Dixit sine nomine et verbo quia nomen infinitum, nominis natura caret, et verbum infinitum verbi natura non possidet. Dixit quasi, quia nec nomen infinitum a nominis ratione, nec verbum infinitum a verbi proprietate omnino semota sunt. Unde, si negationes apparent, videbuntur sine nomine et verbo non omnino sed quasi. Deinde probat distinctiones infinitas non esse negationes tali ratione. Semper est necesse negationem esse veram vel falsam, quia negatio est enunciatio alicuius ab aliquo; nomen autem infinitum non dicit verum vel falsum; igitur dictio infinita non est negatio. Minorem declarat, quia qui dixit, non homo, nihil magis de homine dixit quam qui dixit, homo. Et quoad significatum quidem clarissimum est: non homo, namque, nihil addit supra hominem, imo removet hominem. Quoad veritatis vero vel falsitatis conceptum, nihil magis profuit qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo, si aliquid aliud non addatur, imo minus verus vel falsus fuit, idest magis remotus a veritate et falsitate, qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo: quia tam veritas quam falsitas in compositione consistit; compositioni autem vicinior est dictio finita, quae aliquid ponit, quam dictio infinita, quae nec ponit, nec componit, idest nec positionem nec compositionem importat. Then he says, The antitheses in infinite names and verbs, as in " non-man” and "nonjust,” might seem to be negations without a name or a verb, etc. Here he raises the third difficulty, i.e., whether infinite names or verbs are negations. This question arises from his having said that the negative and infinite are equivalent and from having just said that in singular enunciations it makes no difference whether the negative is a part of the predicate or a part of the verb. For if the infinite name is a negation, then the enunciation having an infinite subject or predicate will be negative and not affirmative. He resolves this question by an interpretation which proves that neither infinite names nor verbs are negations although they seem to be. First he proposes the solution saying, The antitheses in infinite names and verbs, i.e., words contraposed, e.g., "non-man,” and "non-just man” and "just man”; or this may be read as, Those (namely, words) corresponding to infinites, i.e., corresponding to the nature of infinites, placed in opposition to names or verbs (namely, removing what the names and verbs signify, as in "non-man,” "non-just,” and "non-runs,” which are opposed to "man,” "just” and "runs”), would seem at first sight to be quasi-negations without Dame and verb, because, as related to the names and verbs before which they are placed, they remove them; they are not truly negations however. He says without a name or a verb because the infinite name lacks the nature of a name and the infinite verb does not have the nature of a verb. He says quasi because the infinite name does not fall short of the notion of the name in every way, nor the infinite verb of the nature of the verb. Hence, if it is thought that they are negations, they will be regarded as without a name or a verb, not in every way but as though they were without a name or a verb. He proves that infinitizing signs of separation are not negations by pointing out that it is always necessary for the negation to be true or false since a negation is an enunciation of something separated from something. The infinite name, however, does not assert what is true or false. Therefore the infinite word is not a negation. He manifests the minor when he says that the one who says "non-man” says nothing more of man than the one who says "man.” Clearly this is so with respect to what is signified, for "non-man” adds nothing beyond "man”; rather, it removes "man.” Moreover, with respect to a conception of truth or falsity, it is of no more use to say "non-man” than to say "man” if something else is not added; rather, it is less true or false, i.e., one who says non-man is more removed from truth and falsity than one who says man,” for both truth and falsity depend on composition, and the finite word which posits something is closer to composition than the infinite word, which neither posits nor composes, i.e., it implies neither positing nor composition. 6 Deinde cum dicit: significat autem etc., respondet quartae dubitationi, quomodo scilicet intelligatur illud verbum supradictum de enunciationibus habentibus subiectum infinitum: hae autem extra illas, ipsae secundum se erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati consequentiam, et non solum quantum ad ipsas enunciationes formaliter. Unde duas habentes subiectum infinitum, universalem scilicet affirmativam et universalem negativam adducens, ait quod neutra earum significat idem alicui illarum, scilicet habentium subiectum finitum. Haec enim universalis affirmativa, omnis non homo est iustus, nulli habenti subiectum finitum significat idem: non enim significat idem quod ista, omnis homo est iustus; neque quod ista, omnis homo est non iustus. Similiter opposita negatio et universalis negativa habens subiectum infinitum, quae est contrarie opposita supradictae, scilicet omnis non homo non est iustus, nulli illarum de subiecto finito significat idem. Et hoc clarum est ex diversitate subiecti in istis et in illis. When he says, Moreover, "Every non-man is just does not signify the same thing as any of the other enunciations, etc., he answers a fourth difficulty, i.e., how the earlier statement concerning enunciations having an infinite subject is to be understood. The statement was that these stand by themselves and are distinct from the former [in consequence of using the name "non-man”]. This is to be understood not just with respect to the enunciations themselves formally, but with respect to the consequence of what is signified. Hence, giving two examples of enunciations with an infinite subject, the universal affirmative and universal negative,” he says that neither of these signifies the same thing as any of those, namely of those having a finite subject. The universal affirmative "Every non-man is just” does not signify the same thing as any of the enunciations with a finite subject; for it does not signify "Every man is just” nor "Every man is non-just.” Nor do the opposite negation, or the universal negative having an infinite subject which is contrarily opposed to the universal affirmative, signify the same thing as enunciations with a finite subject; i.e., "Not every non-man is just” and "No non-man is just,” do not signify the same thing as any of those with a finite subject. This is evident from the diversity of subject in the latter and the former. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 7Deinde cum dicit: illa vero quae est etc., respondet quintae quaestioni, an scilicet inter enunciationes de subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem dubitatio haec ex eo, quod superius est inter eas ad invicem assignata consequentia. Ait ergo quod etiam inter istas est consequentia. Nam universalis affirmativa de subiecto, et praedicato infinitis et universalis negativa de subiecto infinito, praedicato vero finito, aequipollent. Ista namque, omnis non homo est non iustus, idem significat illi, nullus non homo est iustus. Idem autem est iudicium de particularibus indefinitis et singularibus similibus supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis sint, semper affirmativa de utroque extremo infinita et negativa subiecti quidem infiniti, praedicati autem finiti, aequipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles universales exprimens, caeteras ex illis intelligi voluit. When he says, But "Every non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just,” he answers a fifth difficulty, i.e., is there a consequence among enunciations with an infinite subject? This question arises from the fact that consequences were assigned among them earlier.” He says, therefore, that there is a consequence even among these, for the universal affirmative with an infinite subject and predicate and the universal negative with an infinite subject but a finite predicate are equivalent, i.e., "Every non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just.” This is also the case in particular infinites and singulars which are similar to the foresaid, for no matter what their quantity, the affirmative with both extremes infinite and the negative with an infinite subject and a finite predicate are always equivalent, as may be easily seen by examples. Hence, Aristotle in giving the universals intends the others to be understood from these. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 8Deinde cum dicit: transposita vero nomina etc., solvit sextam dubitationem, an propter nominum vel verborum transpositionem varietur enunciationis significatio. Oritur autem haec quaestio ex eo, quod docuit transpositionem negationis variare enunciationis significationem. Aliud enim dixit significare, omnis homo non est iustus, et aliud, non omnis homo est iustus. Ex hoc, inquam, dubitatur, an similiter contingat circa nominum transpositionem, quod ipsa transposita enunciationem varient, sicut negatio transposita. Et circa hoc duo facit: primo, ponit solutionem dicens, quod transposita nomina et verba idem significant: verbi gratia, idem significat, est albus homo, et, est homo albus, ubi est transpositio nominum. Similiter transposita verba idem significant, ut, est albus homo, et, homo albus est. When he says, When the names and verbs are transposed, the enunciations signify the same thing, etc., he resolves a sixth difficulty: whether the signification of the enunciation is varied because of the transposition of names or verbs. This question arises from his having shown that the transposition of the negation varies the signification of the enunciation. "Every man is non-just,” he said, does not signify the same thing as "Not every man is just.” This raises the question as to whether a similar thing happens when we transpose names. Would this vary the enunciation as the transposed negation does? First he states the solution, saying that transposed names and verbs signify the same thing, e.g., "Man is white” signifies the same thing as "White is man.” Transposed verbs also signify the same thing, as in "Man is white” and "Man white is.” Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 9Deinde cum dicit: nam si hoc non est etc., probat praedictam solutionem ex numero negationum contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali ratione. Si hoc non est, idest si nomina transposita diversificant enunciationem, eiusdem affirmationis erunt duae negationes; sed ostensum est in I libro, quod una tantum est negatio unius affirmationis; ergo a destructione consequentis ad destructionem antecedentis transposita nomina non variant enunciationem. Ad probationis autem consequentiae claritatem formetur figura, ubi ex uno latere locentur ambae suprapositae affirmationes, transpositis nominibus; et ex altero contraponantur duae negativae, similes illis quoad terminos et eorum positiones. Deinde, aliquantulo interiecto spatio, sub affirmativis ponatur affirmatio infiniti subiecti, et sub negativis illius negatio. Et notetur contradictio inter primam affirmationem et duas negationes primas, et inter secundam affirmationem et omnes tres negationes, ita tamen quod inter ipsam et infimam negationem notetur contradictio non vera, sed imaginaria. Notetur quoque contradictio inter tertiam affirmationem et tertiam negationem inter se. Hoc modo: (Figura). His ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic. Illius affirmationis, est albus homo, negatio est, non est albus homo; illius autem secundae affirmationis, quae est, est homo albus, si ista affirmatio non est eadem illi supradictae affirmationi, scilicet, est albus homo, propter nominum transpositionem, negatio erit altera istarum, scilicet aut, non est non homo albus, aut, non est homo albus. Sed utraque habet affirmationem oppositam alia ab illa assignatam, scilicet, est homo albus. Nam altera quidem dictarum negationum, scilicet, non est non homo albus, negatio est illius quae dicit, est non homo albus; alia vero, scilicet, non est homo albus, negatio est eius affirmationis, quae dicit, est albus homo, quae fuit prima affirmatio. Ergo quaecunque dictarum negationum afferatur contradictoria illi mediae, sequitur quod sint duae unius, idest quod unius negationis sint duae affirmationes, et quod unius affirmationis sint duae negationes: quod est impossibile. Et hoc, ut dictum est, sequitur stante hypothesi erronea, quod illae affirmationes sint propter nominum transpositionem diversae. Then he proves the solution from the number of contradictory negations when he says, For if this is not the case there will be more than one negation of the same enunciation, etc. He does this by a reduction to the impossible and his reasoning is as follows. If this is not so, i.e., if transposed names diversify enunciations, there will be two negations of the same affirmation. But in the first book it was shown that there is only one negation of one affirmation. Going, then, from the destruction of the consequent to the destruction of the antecedent, transposed names do not vary the enunciation. To clarify the proof of the consequent, make a figure in which both of the affirmations posited above, with the names transposed are located on one side. Put the two negatives similar to them in respect to terms and position on the opposite side. Then leaving a little space, under the affirmatives put the affirmation with an infinite subject and under the negatives the negation of it. Mark the contradiction between the first affirmation and the first two negations and between the second affirmation and all three negations, but in the latter case mark the contradiction between it and the lowest negation as not true but imaginary. Mark, also, the contradiction between the third affirmation and negation. (1) Man is white - contradictories - Man is not white (2) White is man – contradictories - White is not man (3) Non-man is white - contradictories - Non-man is not white Now we can see how Aristotle proves the consequent. The negation of the affirmation "Man is white” is "Man is not white.” But if the second affirmation, "White is man,” is not the same as "Man is white,” because of the transposition of the names, its negation, [i.e., of "White is man”] will be either of these two: "Non-man is not white,” or "White is not man.” But each of these has another opposed affirmation than that assigned, namely, than "White is man.” For one of the negations, namely, "Non-man is not white,” is the negation of "Non-man is white”; the other, "White is not man” is the negation of the affirmation "Man is white,” which was the first affirmation. Therefore whatever negation is given as contradictory to the middle enunciation, it follows that there are two of one, i.e., two affirmations of one negation, and two negations of one affirmation, which is impossible. And this, as has been said, follows upon an erroneously set up hypothesis, i.e., that these affirmations are diverse because of the transposition of names. 10 Adverte hic primo quod Aristoteles per illas duas negationes, non est non homo albus, et, non est homo albus, sub disiunctione sumptas ad inveniendam negationem illius affirmationis, est homo albus, caeteras intellexit, quasi diceret: aut negatio talis affirmationis acceptabitur illa quae est vere eius negatio, aut quaecunque extranea negatio ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante hypothesi, sequitur unius affirmationis esse plures negationes, unam veram quae est contradictoria suae comparis habentis nomina transposita, et alteram quam tu ut distinctam acceptas, vel falso imaginaris; et e contra multarum affirmationum esse unicam negationem, ut patet in opposita figura. Ex quacunque enim illarum quatuor incipias, duas sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit indeterminate: quare erunt duae unius. Notice first that Aristotle through these two negations, "Non-man is not white” and "White is not man,” taken under disjunction to find the negation of the affirmation "Man is white,” has comprehended other things. It is as though he said: The negation which will be taken will either be the true negation of such an affirmation or some extraneous negation; and whichever is taken, it always follows, given the hypothesis, that there are many negations of one affirmation—one which is the contradictory of it, having equal truth with the one having its name transposed, and the other which you accept as distinct, or you imagine falsely. And conversely, there is a single negation of many affirmations, as is clear in the diagram. Hence, from whichever of these four you begin, you see two opposed to it. It is significant, therefore, that Aristotle concludes indeterminately: Therefore, there will be two [negations] of one [affirmation]. 11 Nota secundo quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria primae affirmationis sit contradictoria secundae, et similiter quod contradictoria secundae affirmationis sit contradictoria primae. Hoc enim accepit tamquam per se notum, ex eo quod non possunt simul esse verae neque simul falsae, ut manifeste patet praeposito sibi termino singulari. Non stant enim simul aliquo modo istae duae, Socrates est albus homo, Socrates non est homo albus. Nec turberis quod eas non singulares proposuit. Noverat enim supra dictum esse in primo quae affirmatio et negatio sint contradictoriae et quae non, et ideo non fuit sollicitus de exemplorum claritate. Liquet ergo ex eo quod negationes affirmationum de nominibus transpositis non sunt diversae quod nec ipsae affirmationes sunt diversae et sic nomina et verba transposita idem significant. Note secondly that Aristotle does not consider it important to prove that the contradictory of the first affirmation is the contradictory of the second, and similarly that the contradictory of the second affirmation is the contradictory of the first. This he accepts as self-evident since they can neither be true at the same time nor false at the same time. This is manifestly clear when a singular term is placed first, for "Socrates is a white man” and "Socrates is not a white man” cannot be maintained at the same time in any mode. You should not be disturbed by the fact that he does not propose these singulars here, for he was undoubtedly aware that he had already stated in the first book which affirmation and negation are contradictories and which not and for this reason felt that a careful elaboration of the examples was not necessary here. It is therefore evident that since negations of affirmations with transposed names are not diverse the affirmations themselves are not diverse, and hence transposed names and verbs signify the same thing. 12 Occurrit autem dubium circa hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit affirmatio. Non enim valet: omnis homo est animal; ergo omne animal est homo. Similiter, transposito verbo, non valet: homo est animal rationale; ergo homo animal rationale est, de secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur, tamen non sequitur primam. Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus est duplex transmutatio, scilicet localis, scilicet de loco ad locum, et formalis de forma ad formam; ita in enunciationibus est duplex transmutatio, situalis scilicet, quando terminus praepositus postponitur, et e converso, et formalis, quando terminus, qui erat praedicatum efficitur subiectum, et e converso vel quomodolibet, simpliciter et cetera. Et sicut quandoque fit in naturalibus transmutatio pure localis, puta quando res transfertur de loco ad locum, nulla alia variatione facta; quandoque autem fit transmutatio secundum locum, non pura sed cum variatione formali, sicut quando transit de loco frigido ad locum calidum: ita in enunciationibus quandoque fit transmutatio pure situalis, quando scilicet nomen vel verbum solo situ vocali variatur; quandoque autem fit transmutatio situalis et formalis simul, sicut contingit cum praedicatum fit subiectum, vel cum verbum tertium adiacens fit secundum. Et quoniam hic intendit Aristoteles de transmutatione nominum et verborum pure situali, ut transpositionis vocabulum praesefert, ideo dixit quod transposita nomina et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud praeter transpositionem nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem manet oratio. Unde patet responsio ad instantias. Manifestum est namque quod in utraque non sola transpositio fit, sed transmutatio de subiecto in praedicatum, vel de tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet responsio ad similia. A doubt does arise, however, about the point Aristotle is making here, for it does not seem true that with transposed names the affirmation is the same. This, for example, is not valid: "Every man is an animal”; therefore, "Every animal is a man.” Nor is the following example with a transposed verb valid: "Man is a rational animal and (taking "is” as the second element), therefore "Man animal rational is”; for although it is nugatory as a whole combination, nevertheless it does not follow upon the first. The answer to this is as follows. just as there is a twofold transmutation in natural things, i.e., local, from place to place, and formal, from form to form, so in enunciations there is a twofold transmutation: a positional transmutation when a term placed before is placed after, and conversely, and a formal transmutation when a term that was a predicate is made a subject, and conversely, or in whatever mode, simply, etc. And just as in natural things sometimes a purely local transmutation is made (for instance, when a thing is transferred from place to place, with no other variation made) and sometimes a transmutation is made according to place—not simply but with a formal variation (as when a thing passes from a cold place to a hot place), so in enunciations a transmutation is sometimes made which is purely positional, i.e., when the name and verb are varied only in vocal position, and sometimes a transmutation is made which is at once formal and positional, as when the predicate becomes the subject, or the verb which is the third element added becomes the second. Aristotle’s purpose here was to treat of the purely positional transmutation of names and verbs, as the vocabulary of the transposition indicates; when he says, then, that transposed names and verbs signify the same thing, he intends to imply that if nothing other than the transposition of name and verb takes place in the enunciation, what is said remains the same. Hence, the response to the present objection is clear, for in both examples there is not only a transposition but a transmutation of subject to predicate in one case, and from an enunciation with a third element to one with a second element in the other. The response to similar questions is evident from this. V. 1. Postquam Aristoteles determinavit diversitatem enunciationis unius provenientem ex additione negationis infinitatis, hic intendit determinare quid accidat enunciationi ex hoc quod additur aliquid subiecto vel praedicato tollens eius unitatem. Et circa hoc duo facit: quia primo, determinat diversitatem earum; secundo, consequentias earum; ibi: quoniam vero haec quidem et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem; secundo, probat omnes enunciationes esse plures; ibi: si ergo dialectica et cetera. Dicit ergo quoad primum, resumendo quod in primo dictum fuerat, quod affirmare vel negare unum de pluribus, vel plura de uno, si ex illis pluribus non fit unum, non est enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur unum debere esse subiectum aut praedicatum, subdit quod unum dico non si nomen unum impositum sit, idest ex unitate nominis, sed ex unitate significati. Cum enim plura conveniunt in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius nominis significatum, tunc solum vocis unitas est. Cum autem unum nomen pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem significatione concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et enunciationis unitas non impeditur. After the Philosopher has treated the diversity in an enunciation arising from the addition of the infinite negation, he explains what happens to an enunciation when something is added to the subject or predicate which takes away its unity. He first determines their diversity, and then proves that all the enunciations are many where he says, In fact, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc. Secondly, he determines their consequences, where he says, Some things predicated separately are such that they unite to form one predicate, etc. He begins by taking up something he said in the first book: there is not one affirmative enunciation nor one negative enunciation when one thing is affirmed or denied of many or many of one, if one thing is not constituted from the many. Then he explains what he means by the subject or predicate having to be one where he says, I do not use "one” of those things which, although one name may be imposed, do not constitute something one, i.e., a subject or predicate is one, not from the unity of the name, but from the unity of what is signified. For when many things are brought together under one name in such a way that what is signified by that name is not one, then the unity is only one of vocal sound. But when one name has been imposed for many, whether for subjective or for integral parts, so that it encloses them in the same signification, then there is unity both of vocal sound and what is signified. In the latter case, unity of the enunciation is not impeded. 2 Secundum quod subiungit: ut homo est fortasse animal et mansuetum et bipes obscuritate non caret. Potest enim intelligi ut sit exemplum ab opposito, quasi diceret: unum dico non ex unitate nominis impositi pluribus ex quibus non fit tale unum, quemadmodum homo est unum quoddam ex animali et mansueto et bipede, partibus suae definitionis. Et ne quis crederet quod hae essent verae definitionis nominis partes, interposuit, fortasse. Porphyrius autem, Boethio referente et approbante, separat has textus particulas, dicens quod Aristoteles hucusque declaravit enunciationem illam esse plures, in qua plura subiicerentur uni, vel de uno praedicarentur plura, ex quibus non fit unum. In istis autem verbis: ut homo est fortasse etc., intendit declarare enunciationem aliquam esse plures, in qua plura ex quibus fit unum subiiciuntur vel praedicantur; sicut cum dicitur, homo est animal et mansuetum et bipes, copula interiecta, vel morula, ut oratores faciunt. Ideo autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret hoc contingere posse, necessarium autem non esse. Then he adds, For example, man probably is an animal and biped and civilized. This, however, is obscure, for it can be understood as all example of the opposite, as if he were saying, "I do not mean by ‘one’ such a ‘one’ as the unity of the name imposed upon many from which one thing is not constituted, for instance, ‘man’ as ‘one’ from the parts of the definition, animal and civilized and biped.” And to prevent anyone from thinking these are true parts of the definition of the name he interposes perhaps. Porphyry, however, referred to with approval by Boethius, separates these parts of the text. He says Aristotle first states that that enunciation is many in which many are subjected to one, or many are predicated of one, when one thing is not constituted from these. And when he says, For example, man perhaps is, etc., he intends to show that an enunciation is many when many from which one thing is constituted are subjected or predicated, as in the example "Man is an animal and civilized and biped,” with copulas interjected or a pause such as orators make. He added perhaps, they say, to imply that this could happen, but it need not. 3 Possumus in eamdem Porphyrii, Boethii et Alberti sententiam incidentes subtilius textum introducere, ut quatuor hic faciat. Et primo quidem, resumit quae sit enunciatio in communi dicens: enunciatio plures est, in qua unum de pluribus, vel plura de uno enunciantur. Si tamen ex illis pluribus non fit unum, ut in primo dictum et expositum fuit. Deinde dilucidat illum terminum de uno, sive unum, dicens: dico autem unum, idest, unum nomen voco, non propter unitatem vocis, sed significationis, ut supra dictum est. Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit, quot modis contingit unum nomen imponi pluribus ex quibus non fit unum, ut ex hoc diversitatem enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit duos modos, quorum prior est, quando unum nomen imponitur pluribus ex quibus fit unum, non tamen in quantum ex eis fit unum. Tunc enim, licet materialiter et per accidens loquendo nomen imponatur pluribus ex quibus fit unum, formaliter tamen et per se loquendo nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia imponitur eis non in quantum ex eis est unum, ut fortasse est hoc nomen, homo, impositum ad significandum animal et mansuetum et bipes, idest, partes suae definitionis, non in quantum adunantur in unam hominis naturam per modum actus et potentiae, sed ut distinctae sint inter se actualitates. Et insinuavit quod accipit partes definitionis ut distinctas per illam coniunctionem, et per illud quoque adversative additum: sed si ex his unum fit, quasi diceret, cum hoc tamen stat quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse, quia hoc nomen, homo, non est impositum ad significandum partes sui definitivas, ut distinctae sunt. Sed si impositum esset aut imponeretur, esset unum nomen pluribus impositum ex quibus non fit unum. Et quia idem iudicium est de tali nomine, et illis pluribus; ideo similiter illae plures partes definitivae possunt dupliciter accipi. Uno modo, per modum actualis et possibilis, et sic unum faciunt; et sic formaliter loquendo vocantur plura, ex quibus fit unum, et pronunciandae sunt continuata oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo, animal rationale mortale currit. Est enim ista una sicut et ista, homo currit. Alio modo, accipiuntur praedictae definitionis partes ut distinctae sunt inter se actualitates, et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus ut sic, non fit unum, ut dicitur VII metaphysicae; et sic faciunt enunciationes plures et pronunciandae sunt vel cum pausa, vel coniunctione interposita, dicendo, homo est animal et mansuetum et bipes; sive, homo est animal, mansuetum, bipes, rhetorico more. Quaelibet enim istarum est enunciatio multiplex. Et similiter ista, Socrates est homo, si homo est impositum ad illa, ut distinctae actualitates sunt, significandum. Secundus autem modus, quo unum nomen impositum est pluribus ex quibus non fit unum, subiungitur, cum dicit: ex albo autem et homine et ambulante etc., idest, alio modo hoc fit, quando unum nomen imponitur pluribus, ex quibus non potest fieri unum, qualia sunt: homo, album, et ambulans. Cum enim ex his nullo modo possit fieri aliqua una natura, sicut poterat fieri ex partibus definitivis, clare liquet quod nomen aliquod si eis imponeretur, esset nomen non unum significans, ut in primo dictum fuit de hoc nomine, tunica, imposito homini et equo. While agreeing with the opinion of Porphyry, Boethius, and Albert, we think a more subtle construction can be made of the text. According to it Aristotle makes four points here. First, he reviews what an enunciation is in general when he says, The enunciation is many in which one is enunciated of many or many of one, unless from the many something one is constituted... as he stated and explained in the first book. Secondly, he clarifies the term "one,” when he says, I do not use "one” of those things, etc., i.e., I call a name one, not by reason of the unity of vocal sound, but of signification, as was said above. Thirdly, he manifests (by dividing) and divides (by manifesting) the number of ways in which one name may be imposed on many things from which one thing is not constituted. From this he implies the diversity of the multiple enunciation. And he posits two ways in which one name may be imposed on many things from which one thing is not constituted: first, when one name is imposed upon many things from which one thing is constituted but not as one thing is constituted from them. In this case, materially and accidentally speaking, the name is imposed on many from which one thing is constituted, but it is formally and per se imposed on many from which one thing is not constituted; for it is not imposed upon them in the respect in which they constitute one thing; as perhaps the name "man” is imposed to signify animal and civilized and biped (i.e., parts of its definition) not as they are united in the one nature of man in the mode of act and potency, but as they are themselves distinct actualities. Aristotle implies that he is taking these parts of the definition as distinct by the conjunctions and by also adding adversatively, but if there is something one formed from these, Neither the Greek nor the Latin text of Aristotle has the "if” that Cajetan puts into this phrase.The correct reading is "...but there is something one formed from these.” Close as if to say, "when however it holds that one thing is constituted from these.” He adds perhaps because the name "man” is not imposed to signify its definitive parts as they are distinct. But if it had been so imposed or were imposed, it would be one name imposed on many things from which no one thing is constituted. And since the judgment with respect to such a name and those many things is the same, the many definitive parts can also be taken in two ways: first, in the mode of the actual and possible, and thus they constitute one thing, and formally speaking are called many from which one thing is constituted, and they are to be pronounced in continuous speech and they make one enunciation, for example, "A mortal rational animal is running.” For this is one enunciation, just as is "Man is running.” In the second way, the foresaid parts of the definition are taken as they are distinct actualities, and thus they do not constitute one thing, for one thing is not constituted from two acts as such, as Aristotle says in VII Metaphysicae [13: 1039a 5]. In this case they constitute many enunciations and are pronounced either with conjunctions interposed or with a pause in the rhetorical manner, for example, "Man is an animal and civilized and biped” or "Man is an animal–civilized–biped.” Each of these is a multiple enunciation. And so is the enunciation, "Socrates is a man” if "man” is imposed to signify animal, civilized, and biped as they are distinct actualities. Aristotle takes up the second way in which one name is imposed on many from which one thing is not constituted where he says, whereas from "white” and "man” and "walking” there is not [something one formed]. Since in no way can any one nature be constituted from "man,” white,” and "walking” (as there can be from the definitive parts), it is evident that if a name were imposed on these it would be a name that does not signify one thing, as was said in the first book of the name "cloak” imposed for man and horse. 4 Habemus ergo enunciationis pluris seu multiplicis duos modos, quorum, quia uterque fit dupliciter, efficiuntur quatuor modi. Primus est, quando subiicitur vel praedicatur unum nomen impositum pluribus, ex quibus fit unum, non in quantum sunt unum; secundus est, quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt distinctae actualitates, subiiciuntur vel praedicantur; tertius est, quando ibi est unum nomen impositum pluribus ex quibus non fit unum; quartus est, quando ista plura ex quibus non fit unum, subiiciuntur vel praedicantur. Et notato quod cum enunciatio secundum membra divisionis illius, qua divisa est, in unam et plures, quadrupliciter variari possit, scilicet cum unum de uno praedicatur, vel unum de pluribus, vel plura de uno, vel plura de pluribus; postremum sub silentio praeterivit, quia vel eius pluralitas de se clara est, vel quia, ut inquit Albertus, non intendebat nisi de enunciatione, quae aliquo modo una est, tractare. Demum concludit totam sententiam, dicens: quare nec si aliquis affirmet unum de his pluribus, erit affirmatio una secundum rem: sed vocaliter quidem erit una, significative autem non una, sed multae fient affirmationes. Nec si e converso de uno ista plura affirmabuntur, fiet affirmatio una. Ista namque, homo est albus, ambulans et musicus, importat tres affirmationes, scilicet, homo est albus et est ambulans et est musicus, ut patet ex illius contradictione. Triplex enim negatio illi opponitur correspondens triplici affirmationi positae. We have, therefore, two modes of the many (i.e., the multiple enunciation) and since both are constituted in two ways, there will be four modes: first, when one name imposed on many from which one thing is constituted is subjected or predicated as though the name stands for many; the second, when the many from one which one thing is constituted are subjected or predicated as distinct actualities; the third, when one name is imposed for a many from which nothing one is constituted; the fourth, when many which do not constitute one thing are subjected or predicated. Note that the enunciation, according to the members of the division by which it has been divided into one and many, can be varied in four ways, i.e., one is predicated of one, one of many, many of one, and many of many. Aristotle has not spoken of the last one, either because its plurality is clear enough or because, as Albert says, he only intends to treat of the enunciation which is one in some way. Finally [fourthly], he concludes with this summary: Consequently, if someone affirms something one of these latter there will not be one affirmation according to the thing: vocally it will be one; significatively, it will not be one, but many. And conversely, if the many are affirmed of one subject, there will not be one affirmation. For example, "Man is white, walking, and musical” implies three affirmations, i.e., "Man is white” and "is walking” and "is musical,” as is clear from its contradiction, for a threefold negation is opposed to it, corresponding to the threefold affirmation. 5 Deinde cum dicit: si ergo dialectica etc., probat a posteriori supradictas enunciationes esse plures. Circa quod duo facit: primo, ponit rationem ipsam ad hoc probandum per modum consequentiae; deinde probat antecedens dictae consequentiae; ibi: dictum est autem de his et cetera. Quoad primum talem rationem inducit. Si interrogatio dialectica est petitio responsionis, quae sit propositio vel altera pars contradictionis, nulli enunciationum supradictarum interrogative formatae erit responsio una; ergo nec ipsa interrogatio est una, sed plures. Cuius rationis primo ponit antecedens: si ergo et cetera. Ad huius intelligendos terminos nota quod idem sonant enunciatio, interrogatio et responsio. Cum enim dicitur, caelum est animatum, in quantum enunciat praedicatum de subiecto, enunciatio vocatur; in quantum autem quaerendo proponitur, interrogatio; ut vero quaesito redditur, responsio appellatur. Idem ergo erit probare non esse responsionem unam, et interrogationem non esse unam, et enunciationem non esse unam. Adverte secundo interrogationem esse duplicem. Quaedam enim est utram partem contradictionis eligendam proponens; et haec vocatur dialectica, quia dialecticus habet viam ex probabilibus ad utramque contradictionis partem probandam. Altera vero determinatam ad unum responsionem exoptat; et haec est interrogatio demonstrativa, eo quod demonstrator in unum determinate tendit. Considera ulterius quod interrogationi dialecticae dupliciter responderi potest. Uno modo, consentiendo interrogationi, sive affirmative sive negative; ut si quis petat, caelum est animatum? Et respondeatur, est; vel, Deus non movetur? Et respondeatur, non: talis responsio vocatur propositio. Alio modo, potest responderi interimendo; ut si quis petat, caelum est animatum? Et respondeatur, non; vel Deus non movetur? Et respondeatur, movetur: talis responsio vocatur contradictionis altera pars, eo quod affirmationi negatio redditur et negationi affirmatio. Interrogatio ergo dialectica est petitio annuentis responsionis, quae est propositio, vel contradicentis, quae est altera pars contradictionis secundum supradictam Boethii expositionem. Then when he says, In fact, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc., he proves a posteriori that the foresaid enunciations are many. First he states an argument to prove this by way of the consequent; then he proves the antecedent of the given consequent where he says, But we have spoken about these things in the Topics, etc. Now if dialectical questioning is a request for an answer, either a proposition or one part of a contradiction, none of the foresaid enunciations, put in the form of a question, will have one answer. Therefore, the question is not one, but many. Aristotle first states the antecedent of the argument, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc. To understand this it should be noted that an enunciation, a question, and an answer sound the same. For when we say, "The region of heaven is animated,” we call it an enunciation inasmuch as it enunciates a predicate of a subject, but when it is proposed to obtain an answer we call it an interrogation, and as applied to what was asked we call it a response. Therefore, to prove that there is not one response or one question or one enunciation will be the same thing. It should also be noted that interrogation is twofold. One proposes either of the two parts of a contradiction to choose from. This is called dialectical interrogation because the dialectician knows the way to prove either part of a contradiction from probable positions. The other kind of interrogation seeks one determinate response. This is the demonstrative interrogation, for the demonstrator proceeds determinately toward a single alternative. Note, finally, that it is possible to reply to a dialectical question in two ways. We may consent to the question, either affirmatively or negatively; for example, when someone asks, "Is the region of heaven animated,” we may respond, "It is,” or to the question "Is not God moved,” we may say, "No.” Such a response is called a proposition. The second way of replying is by destroying; for example, when someone asks "Is the region of heaven animated?” and we respond, "No,” or to the question, "Is not God moved?” we respond, "He is moved.” Such a response is called the other part of a contradiction, because a negation is given to an affirmation and an affirmation to a negation. Dialectical interrogation, then, according to the exposition just given, which is that of Boethius, is a request for the admission of a response which is a proposition, or which is one part of a contradiction. 6 Deinde subdit probationem consequentiae, cum ait: propositio vero unius contradictionis est et cetera. Ubi notandum est quod si responsio dialectica posset esse plures, non sequeretur quod responsio enunciationis multiplicis non posset esse dialectica; sed si responsio dialectica non potest esse nisi una enunciatio, tunc recte sequitur quod responsio enunciationis pluris, non est responsio dialectica, quae una est. Notandum etiam quod si enunciatio aliqua plurium contradictionum pars est, una non esse comprobatur: una enim uni tantum contradicit. Si autem unius solum contradictionis pars est, una est eadem ratione, quia scilicet unius affirmationis unica est negatio, et e converso. Probat ergo Aristoteles consequentiam ex eo quod propositio, idest responsio dialectica unius contradictionis est, idest una enunciatio est affirmativa vel negativa. Ex hoc enim, ut iam dictum est, sequitur quod nullius enunciationis multiplicis sit responsio dialectica, et consequenter nec una responsio sit. Nec praetereas quod cum propositionem, vel alteram partem contradictionis, responsionemque praeposuerit dialecticae interrogationis, de sola propositione subiunxit, quod est una; quod ideo fecit, quia illius alterius vocabulum ipsum unitatem praeferebat. Cum enim alteram contradictionis partem audis, unam affirmationem vel negationem statim intelligis. Adiunxit autem antecedenti ly ergo, vel insinuans hoc esse aliunde sumptum, ut postmodum in speciali explicabit, vel, permutato situ, notam consequentiae huius inter antecedens et consequens locandam, antecedenti praeposuit; sicut si diceretur, si ergo Socrates currit, movetur; pro eo quod dici deberet, si Socrates currit, ergo movetur. Sequitur deinde consequens: non erit una responsio ad hoc; et infert principalem conclusionem subdens, quod neque una erit interrogatio et cetera. Si enim responsio non potest esse una, nec interrogatio ipsa una erit. He adds the proof of the consequent when he says, and a proposition is a part of one contradiction. In relation to this it should be noted that if a dialectical response could be many, it would not follow that a response to a multiple enunciation would not be dialectical. However, if the dialectical response can only be one enunciation then it follows that a response to a plural enunciation is not a dialectical response, for it is one [i.e., it inclines to one part of a contradiction at a time]. It should also be noted that if an enunciation is a part of many contradictions, it is thereby proven not to be one, for one contradicts only one. But if an enunciation is a part of only one contradiction, it is one by the same reasoning, i.e., because there is only one negation of one affirmation, and conversely. Hence Aristotle proves the consequent from the fact that the proposition, i.e., the dialectical response, is a part of one contradiction, i.e., it is one affirmative or one negative enunciation. It follows from this, as has been said, that there is no dialectical response of a multiple enunciation, and consequently not one response. It should not be overlooked that when he designates a proposition or one part of a contradiction as the response to a dialectical interrogation, it is only of the proposition that he adds that it is one, because the very wording shows the unity of the other. For when you hear one part of a contradiction, you immediately understand one affirmation or negation. He puts the "therefore” with the antecedent, either implying that this is taken from another place and he will explain in particular afterward, or having changed the structure, he places the sign of the consequent, which should be between the antecedent and consequent before the antecedent, as when one says, "Therefore if Socrates runs, he is moved,” for "If Socrates runs, therefore he is moved.” Then the consequent follows: there will not be one answer to this, etc.; and the inference of the principal conclusion, for there would not be a single question. For if the response cannot be one, the question will not be one. 7 Quod autem addidit: nec si sit vera, eiusmodi est. Posset aliquis credere, quod licet interrogationi pluri non possit dari responsio una, quando id de quo quaestio fit non potest de omnibus illis pluribus affirmari vel negari (ut cum quaeritur, canis est animal? Quia non potest vere de omnibus responderi, est, propter caeleste sidus, nec vere de omnibus responderi, non est, propter canem latrabilem, nulla possit dari responsio una); attamen quando id quod sub interrogatione cadit potest vere de omnibus affirmari aut negari, tunc potest dari responsio una; ut si quaeratur, canis est substantia? Quia potest vere de omnibus responderi, est, quia esse substantiam omnibus canibus convenit, unica responsio dari possit. Hanc erroneam existimationem removet dicens: nec si sit vera, idest, et dato quod responsio data enunciationi multiplici de omnibus verificetur, nihilominus non est una, quia unum non significat, nec unius contradictionis est pars, sed plures responsio illa habet contradictorias, ut de se patet. He adds, even if there is a true answer, because someone might think that although one response cannot be given to a plural interrogation when the question concerns something that cannot be affirmed or denied of all of the many (for example, when someone asks, "Is a dog an animal?” no one response can be given, for we cannot truly say of every dog that it is an animal because of the star by that name; nor can we truly say of every dog that it is not an animal, because of the barking dog), nevertheless one response could be given when that which falls tinder the interrogation can be truly said of all. For example, when someone asks, "Is a dog a substance?” a single response can be given because it can truly he said of every dog that it is a substance, for to be a substance belongs to all dogs. Aristotle adds the phrase, even if there is a true answer, to remove such an erroneous judgment. For even if the response to the multiple enunciation is verified of all, it is nonetheless not one, since it does not signify one thing, nor is it a part of one contradiction. Rather, as is evident, this response has many contradictories. 8 Deinde cum dicit: dictum est autem de his in Topicis etc., probat antecedens dupliciter: primo, auctoritate eorum quae dicta sunt in Topicis; secundo, a signo. Et circa hoc duo facit. Primo, ponit ipsum signum, dicens: quod similiter etc., cum auctoritate topicorum, manifestum est, scilicet, antecedens assumptum, scilicet quod dialectica interrogatio est petitio responsionis affirmativae vel negativae. Quoniam nec ipsum quid est, idest ex eo quod nec ipsa quaestio quid est, est interrogatio dialectica: verbi gratia; si quis quaerat, quid est animal? Talis non quaerit dialectice. Deinde subiungit probationem assumpti, scilicet quod ipsum quid est, non est quaestio dialectica; et intendit quod quia interrogatio dialectica optionem respondenti offerre debet, utram velit contradictionis partem, et ipsa quaestio quid est talem libertatem non proponit (quia cum dicimus, quid est animal? Respondentem ad definitionis assignationem coarctamus, quae non solum ad unum determinata est, sed etiam omni parte contradictionis caret, cum nec esse, nec non esse dicat); ideo ipsa quaestio quid est, non est dialectica interrogatio. Unde dicit: oportet enim ex data, idest ex proposita interrogatione dialectica, hunc respondentem eligere posse utram velit contradictionis partem, quam contradictionis utramque partem interrogantem oportet determinare, idest determinate proponere, hoc modo: utrum hoc animal sit homo an non: ubi evidenter apparet optionem respondenti offerri. Habes ergo pro signo cum quaestio dialectica petat responsionem propositionis, vel alterius contradictionis partem, elongationem quaestionis quid est a quaestionibus dialecticis. Where he says, But we have spoken about these things in the Topics, etc., he proves the antecedent in two ways. First, he proves it on the basis of what was said in the Topics; secondly, by a sign. The sign is given first where he says, Similarly it is clear that the question "What is it?” is not a dialectical one, etc. That is, given the doctrine in the Topics, it is clear (i.e., assuming the antecedent that the dialectical interrogation is a request for an affirmative or negative response) that the question "What is it?” is not a dialectical interrogation, e.g., when someone asks, "What is an animal?” he does not interrogate dialectically. Secondly, he gives the proof of what was assumed, namely, that the question "What is it?” is not a dialectical question. He states that a dialectical interrogation must offer to the one responding the option of whichever part of the contradiction he wishes. The question "What is it?” does not offer such liberty, for in saying "What is an animal?” the one responding is forced to assign a definition, and a definition is not only determined to one but is also entirely devoid of contradiction, since it affirms neither being nor non-being. Therefore, the question "What is it?” is not a dialectical interrogation. Whence he says, For the dialectical interrogation must provide, i.e., from the proposed dialectical interrogation the one responding must be able to choose whichever part of the contradiction he wishes, which parts of the contradiction the interrogator must specify, i.e., he must propose the question in this way: "Is this animal man or not?” wherein the wording of the question clearly offers an option to the one answering. Therefore, you have as a sign that a dialectical question is seeking a response of a proposition or of one part of a contradiction, the setting apart of the question "What is it?” from dialectical questions. VI. 1 Postquam declaravit diversitatem multiplicis enunciationis, intendit determinare de earum consequentiis. Et circa hoc duo facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda incipit; ibi: verum autem est dicere et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quaestionem; secundo, ostendit rationabilitatem quaestionis; ibi: si enim quoniam etc.; tertio, solvit eam; ibi: eorum igitur et cetera. Est ergo dubitatio prima: quare ex aliquibus divisim praedicatis de uno sequitur enunciatio, in qua illamet unita praedicantur de eodem, et ex aliquibus non. Unde haec diversitas oritur? Verbi gratia; ex istis, Socrates est animal et est bipes; sequitur, ergo Socrates est animal bipes; et similiter ex istis, Socrates est homo et est albus; sequitur, ergo Socrates est homo albus. Ex illis vero, Socrates est bonus, et est citharoedus; non sequitur, ergo est bonus citharoedus. Unde proponens quaestionem inquit: quoniam vero haec, scilicet praedicta, ita praedicantur composita, idest coniuncta, ut unum sit praedicamentum quae extra praedicantur, idest, ut ex eis extra praedicatis unite fiat praedicatio, alia vero praedicata non sunt talia, quae est inter differentia; unde talis innascitur diversitas? Et subdit exempla iam adducta, et ad propositum applicata: quorum primum continet praedicata ex quibus fit unum per se, scilicet, animal et bipes, genus et differentia; secundum autem praedicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, homo albus; tertium vero praedicata ex quibus neque unum per se neque unum per accidens inter se fieri sequitur; ut, citharoedus et bonus, ut declarabitur. Having explained the diversity of the multiple enunciation Aristotle now proposes to determine the consequences of this. He treats this in relation to two questions which he solves. The second begins where he says, On the other hand, it is also true to say predicates of something singly, etc. With respect to the other question, first he proposes it, then he shows that the question is a reasonable one where he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both together must also be true, many absurdities will follow, etc. Finally, he solves it where he says, Those things that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in predication, etc. The first question is this: Why is it that from some things predicated divisively of a subject an enunciation follows in which they are predicated of the same subject unitedly, and from others not? What is the reason for this diversity? For example, from "Socrates is an animal and he is biped” follows, "Therefore, Socrates is a biped animal”; and similarly, from "Socrates is a man and he is white” follows, "Therefore, Socrates is a white man.” But from "Socrates is good and he is a lute player,” the enunciation, "Therefore, he is a good lute player” does not follow. Hence in proposing the question Aristotle says, Some things, i.e., predicates, are so predicated when combined, that there is one predicate from what is predicated separately, i.e., from some things that are predicated separately, a united predication is made but from others this is riot so. What is the difference between these; whence does such a diversity arise? He adds the examples which we have already cited and applied to the question. Of these examples, the first contains predicates from which something one per se is formed, i.e., "animal” and "biped,” a genus and difference; the second contains predicates from which something accidentally one is formed, namely, "white man”; the third contains predicates from which neither one per se nor one accidentally is formed, "lute player” and "good,” as will be explained. Cajetanus lib. 2 l. 6 n. 2Deinde cum dicit: si enim quoniam etc., declarat veritatem diversitatis positae, ex qua rationabilis redditur quaestio: si namque inter praedicata non esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit autem hoc ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et quia nugatio duobus modis committitur, scilicet explicite et implicite; ideo primo deducit ad nugationem explicitam, secundo ad implicitam; ibi: amplius, si Socrateset cetera. Ait ergo quod si nulla est inter quaecumque praedicata differentia, sed de quolibet indifferenter censetur quod quia alterutrum separatum dicitur, quod utrumque coniunctim dicatur, multa inconvenientia sequentur. De aliquo enim homine, puta Socrate, verum est separatim dicere quod, homo est, et albus est; quare et omne, idest et coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et de eodem Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et quod, est albus; quare et omne, idest, igitur coniunctim dicetur, Socrates est homo albus albus: ubi manifesta est nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas separatim quod, est homo albus albus, verum dices et congrue quod est albus, et secundum hoc, si iterum hoc repetes separatim, a veritate simili non discedes, et sic in infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus, albus in infinitum. Simile quod ostenditur in alio exemplo. Si quis de Socrate dicat quod, est musicus, albus, ambulans, cum possit et separatim dicere quod, est musicus, et quod, est albus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates est musicus, albus, ambulans, musicus, albus, ambulans. Et quia pluries separatim, in eodem tamen tempore, enunciari potest, procedit nugatio sine fine. Deinde deducit ad implicitam nugationem, dicens, cum de Socrate vere dici possit separatim quod, est homo, et quod, est bipes, si coniunctim inferre licet, sequetur quod, Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes enim circumloquens differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis ratione. Unde ponendo loco hominis suam rationem (quod fieri licet, ut docet Aristoteles II topicorum), apparebit manifeste nugatio. Dicetur enim: Socrates est homo, idest, animal bipes, bipes. Quoniam ergo plurima inconvenientia sequuntur si quis ponat complexiones, idest, adunationes praedicatorum fieri simpliciter, idest, absque diversitate aliqua, manifestum est ex dictis; quomodo autem faciendum est, nunc, idest, in sequentibus dicemus. Et nota quod iste textus non habetur uniformiter apud omnes quoad verba, sed quia sententia non discrepat, legat quicunque ut vult. When he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both together must also be true, etc., he shows that there truly is such a diversity among predicates and in so doing renders the question reasonable, for if there were not such a diversity among predicates the question would be pointless. He shows this by reasoning lead-ing to an absurdity, i.e., to something nugatory. Now, something nugatory is effected in two ways, explicitly and implicitly. Therefore, he first makes a deduction to the explicitly nugatory, secondly to the implicitly, where he says, Furthermore, if Socrates is Socrates and a man, Socrates is a Socrates man, etc. If, he says, there is no difference between predicates, and it is supposed of any of them indifferently that because both are said separately both may he said conjointly, many absurdities will follow. For of some man, say Socrates, it is true to say separately that he is a man and he is white; therefore both -together, i.e., we may also say conjointly, "Socrates is a white man.” Again, of the same Socrates we can say separately that he is a white man and that he is white, and both together, i.e., therefore conjointly, "Socrates is a white white man.” Here the nugatory expression is evident. Further, if of the same Socrates that you again say separately is a white white man it will be true and consistent to say that he is white, and according to this, if again repeating this separately, you will not deviate from a similar truth, and this will follow to infinity, then Socrates is a white white white man to infinity. The same thing can be shown by another example, If someone says of Socrates that he is musical, white, and walking, since it is also possible to say separately that he is musical, and that he is white, and that he is walking, it will follow that Socrates is musical, white, walking, musical, white, walking. And since these can be enunciated many times separately, yet at the same time, the nugatory statement proceeds without end. Then he makes a deduction to the implicitly nugatory. Since it can be truly said of Socrates separately that he is man and that he is biped, it will follow that Socrates is a biped man, if it is licit to infer conjointly. This is implicitly nugatory because the "biped,” which indirectly expresses the difference of man in act and in understanding, is included in the notion of man. Hence, if we posit the definition of man in place of "man” (which it is licit to do, as Aristotle teaches in II Topicorum [2: 110a 5]) the nugatory character of the enunciation will be evident, for when we say "Socrates is a biped man,” we are saying "Socrates is a biped biped animal.” From what has been said it is evident that many absurdities follow if anyone proposes that combinations, i.e., unions of predicates, be made simply, i.e., without any distinction. Now, i.e., in what follows, we will state how this must be settled. This particular text is not uniformly worded in the manuscripts, but since no discrepancy of thought is involved one may read it as he wishes. 3 Deinde cum dicit: eorum igitur etc., solvit propositam quaestionem. Et circa hoc duo facit: primo, respondet instantiis in ipsa propositione quaestionis adductis; secundo, satisfacit instantiis in probatione positis; ibi: amplius nec quaecumqueet cetera. Circa primum duo facit: primo namque, declarat veritatem; secundo, applicat ad propositas instantias; ibi: quocirca et cetera. Determinat ergo dubitationem tali distinctione. Praedicatorum sive subiectorum plurium duo sunt genera: quaedam sunt per accidens, quaedam per se. Si per accidens, hoc dupliciter contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno tertio, vel quia alterum de altero mutuo per accidens praedicatur. Quando illa plura divisim praedicata sunt per accidens quovis modo, ex eis non sequitur coniunctim praedicatum; quando autem sunt per se, tum ex eis sequitur coniuncte praedicatum. Unde continuando se ad praecedentia ait: eorum igitur quae praedicantur, et de quibus praedicantur, idest subiectorum, quaecumque dicuntur secundum accidens (et per hoc innuit oppositum membrum, scilicet per se), vel de eodem, idest accidentaliter concurrunt ad unius tertii denominationem, vel alterutrum de altero, idest accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc ponit membra duplicis divisionis), haec, scilicet plura per accidens, non erunt unum, idest non inferent praedicationem coniunctam. When he says, Those things that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in predication, etc., he solves the proposed question. First he makes an answer with respect to the instances cited in proposing the question; secondly, he solves the problem as related to the instances posited in his proof where he says, Furthermore, predicates that are present in one another cannot be combined simply. In relation to the first answer, he states the true position first and then applies it to the instances where he says, This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply, etc. He settles the question with this distinction: there are two kinds of multiple predicates and subjects. Some are accidental, some per se. If they are accidental this occurs in two ways, either because both are said accidentally of a third thing or because they are predicated of each other accidentally. Now when the many predicated divisively are in any way accidental, a conjoined predicate does not follow from them; but when they are per se, a conjoined predicate does follow from them. In answering the question, therefore, Aristotle connects what he is saying with what has gone before: Of those things that are predicated and those of which they are predicated, i.e., subjects, whichever are said accidentally (by which he intimates the opposite member, i.e., per se), either of the same subject, i.e., they unite accidentally for the denomination of one third thing, or of one another, i.e., they denominate each other accidentally (and by this he posits the members of a two-fold division), these (i.e., these many accidentally) will not be one, i.e., do not produce a conjoined predication. 4 Et explanat utrumque horum exemplariter. Et primo, primum, quando scilicet illa plura per accidens dicuntur de tertio, dicens: ut si homo albus est et musicus divisim. Sed non est idem, idest non sequitur adunatim, ergo homo est musicus albus. Utraque enim sunt accidentia eidem tertio. Deinde explanat secundum, quando solum illa plura per accidens de se mutuo praedicantur, subdens: nec si album musicum verum est dicere, idest, et etiamsi de se invicem ista praedicantur per accidens ratione subiecti in quo uniuntur, ut dicatur, homo est albus, et est musicus, et album est musicum, non tamen sequitur quod album musicum unite praedicetur, dicendo, ergo homo est albus musicus. Et causam assignat, quia album dicitur de musico per accidens, et e converso. He explains both of these by examples. First, the many said accidentally of a third; for example, man is white and musical divisively. But they are not the same, i.e., it does not follow unitedly that "Man is musical white” for both are accidental to the same third thing. Then he explains the second member by an example. In it the many are predicated only of one another. Even if it were true to say white is musical, i.e., even if these are predicated accidentally of each other by reason of the subject in which they are united, so that we may say "Man is white and he is musical, and white is musical,” it still does not follow that "musical white” is predicated as a unity when we say, "Therefore, man is musical white.” He gives as the cause of this that "white” is said of "musical” accidentally and conversely. 5 Notandum est hic quod cum duo membra per accidens enumerasset, unico tamen exemplo utrumque membrum explanavit, ut insinuaret quod distinctio illa non erat in diversa praedicata per accidens, sed in eadem diversimode comparata; album enim et musicum, comparata ad hominem, sub primo cadunt membro; comparata autem inter se, sub secundo. Diversitatem ergo comparationis pluralitate membrorum, identitatem autem praedicatorum unitate exempli astruxit. It must be noted here that although he has enumerated two accidental members, he explains both members by this single example so as to imply that the distinction is not one of different accidental predicates, but of the same predicates compared in different ways. "White” and "musical” compared to "man” fall under the first member, but compared with each other, under the second. Hence he has provided diversity of comparison by the plurality of the members, but identity of predicates by the unity of the example. 6 Advertendum est ulterius, ad evidentiam divisionis factae in littera, quod, secundum accidens, potest dupliciter accipi. Uno modo, ut distinguitur contra perseitatem posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam cum dicitur plura praedicata secundum accidens, aut ly secundum accidens determinaret coniunctionem inter se, et sic manifeste esset falsa regula; quoniam inter prima praedicata, animal bipes, seu, animal rationale, est praedicatio secundum accidens hoc modo (differentia enim in nullo modo perseitatis praedicatur de genere, et tamen Aristoteles in textu dicit ea non esse praedicata per accidens, et asserit quod est optima illatio, est animal et bipes, ergo est animal bipes); aut determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic etiam inveniretur falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est coloratus, et est visibilis, et tamen coloratum visibile non per se inest parieti. Alio modo, accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione sui, seu, non propter aliud, et sic idem sonat, quod, per aliud: et hoc modo accipitur hic. Quaecunque enim sunt talis naturae quod non ratione sui iunguntur, sed propter aliud, ab illatione coniuncta deficere necesse est, ex eo quod coniuncta illatio unum alteri substernit, et ratione sui ea adunata denotat ut potentiam et actum. Est ergo sensus divisionis, quod praedicatorum plurium, quaedam sunt per accidens, quaedam per se, idest, quaedam adunantur inter se ratione sui, quaedam propter aliud. Ea quae per se uniuntur inferunt coniunctum, ea autem quae propter aliud, nequaquam. To make this division evident it must also be noted that accidentally can be taken in two ways. It may be taken as it is distinguished from "posterioristic perseity.” This is not the way it is taken here, for "many predicates accidentally” would then mean that the "accidentally” determines a conjunction between predicates, and thus the rule would clearly be false, for the first predicates he gave as examples are predicated accidentally in this way, namely, "biped animal,” or "rational animal” (for a difference is not predicated of a genus in any mode of perseity, and yet Aristotle says in the text that these are not predicated accidentally, and has asserted that "He is an animal and biped, therefore he is a biped animal” is a good inference). Or it would mean that the "accidentally” determines a conjunction of the predicates with the subject, and thus also the rule would be false, for it is valid to say, "The wall is colored and it is visible,” yet visible colored is not per se in the wall. Accidentally” taken in the second way is distinguished from what I call "on its own account,” i.e., not because of something else; "accidentally” then means "through another.” This is the way it is taken here, for whatever are of such a nature that they are joined because of something else, and not on their own account, do not admit of conjoined inference, because a conjoined inference subjects one to the other, and denotes the things united on their own account as potency and act. Therefore, the sense of the division is this: of many predicates, some are accidental, some per se, i.e., some are united among themselves on their own account, some on account of another. Those that are per se united infer conjointly; those that are united on account of another do not infer conjointly in any way. 7 Deinde cum dicit: quocirca nec citharoedusetc., applicat declaratam veritatem ad partes quaestionis. Et primo, ad secundam partem, quia scilicet non sequitur: est bonus et est citharoedus; ergo est bonus citharoedus, dicens: quocirca nec citharoedus bonus etc.; secundo, ad aliam partem quaestionis, quare sequebatur: est animal et est bipes; ergo est animal bipes: et ait: sed animal bipes et cetera. Et subiungit huius ultimi dicti causam, quia, animal bipes, non sunt praedicata secundum accidens coniuncta inter se aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit alterum membrum primae divisionis, quod adhuc positum non fuerat explicite. Adverte quod Aristoteles, eamdem tenens sententiam de citharoedo et bono et musico et albo, conclusit quod album et musicum non inferunt coniunctum praedicatum; ideo nec citharoedus et bonus inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte. Est autem ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et arti citharisticae in hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum tertium, puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod falsitas manifeste cernitur, quando dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus citharoedus), musica vero et albedo subiectum tertium natae sunt denominare tantum, et non se invicem (propter quod latentior est casus cum proceditur: est albus et est musicus; ergo est musicus albus), licet, inquam, in hoc sint dissimiles, et propter istam dissimilitudinem processus Aristotelis minus sufficiens videatur; attamen similes sunt in hoc quod, si servetur identitas omnimoda praedicatorum quam servari oportet, si illamet divisa debent inferri coniunctim, sicut musica non denominat albedinem, neque contra, ita nec bonitas, de qua fit sermo, cum dicitur, homo est bonus, denominat artem citharisticam, neque e converso. Cum enim bonum sit aequivocum, licet a consilio, alia ratione dicitur de perfectione citharoedi, et alia de perfectione hominis. Quando namque dicimus, Socrates est bonus, intelligimus bonitatem moralem, quae est hominis bonitas simpliciter (analogum siquidem simpliciter positum sumitur pro potiori); cum autem infertur, citharoedus bonus, non bonitatem moris sed artis praedicas: unde terminorum identitas non salvatur; sufficienter igitur et subtiliter Aristoteles eamdem de utrisque protulit sententiam, quia eadem est haec, et ibi ratio et cetera. When he says, This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply, etc., he applies the truth he has stated to the parts of the question. He applies it first to the second part, i.e., why this does not follow: "He is good and he is a shoemaker, therefore he is a good shoemaker.” Then he applies it to the other part of the question, i.e., why this follows: "He is an animal and he is biped, therefore he is a biped animal.” He adds the reason in the case of the latter: "biped” and "animal” are not predicates accidentally conjoined among themselves, nor in a third thing, but per se. This also explains the other member of the first division which has not yet been explicitly posited. Notice that he maintains the same judgment is to be made about lute player and good, and musical and white. He has concluded that "white” and "musical” do not infer a conjoined predicate; hence neither do "lute player” and "good” infer "good lute player” simply, i.e., conjointly. There is a reason for saying this. For although there is a difference between musical and white, and goodness and the art of luteplaying, they are also similar. Let us consider their difference first. Goodness is of such a nature that it denominates both a third subject, namely, man, and the art of lute-playing. This is the reason the falsity is clearly discernible when we say "He is good and a lute player, therefore he is a good lute player.” Musical and whiteness, on the other band, are of such a nature that they denominate only a third subject, and not each other, and hence, the error is less obvious in "He is white and be is musical, therefore he is musical white.” Now it is this difference that makes Aristotle’s process of reasoning appear somewhat inconclusive. However, they are similar. For if identity of predicates is kept in every way that is required for the same things divided to be inferred conjointly, then, just as "musical” does not denominate "whiteness,” nor the contrary, so neither does "goodness,” of which we are speaking when we say "Man is good,” denominate the art of lute-playing,,nor conversely. For "good” is equivocal—by choice though—and therefore is said of the perfection of the lute player by means of one notion and of the perfection of man by means of another. For example, when we say, "Socrates is good” we understand moral goodness, which is the goodness of man absolutely (for the analogous term posited simply, stands for what is mainly so); but when good lute player is inferred, it is not the goodness of morality that is predicated but the goodness of art; whence identity of the terms is not saved. Therefore, Aristotle has adequately and subtly expressed the same judgment about both, i.e., "white” and "musical,” and "good” and "lute player,” for the reason here is the same as there. Nec praetereundum est quod, cum tres consequentias adduxit quaestionem proponendo, scilicet; est animal et bipes; ergo est animal bipes: et, est homo et albus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est bonus citharoedus; et duas primas posuerat esse bonas, tertiam vero non; huius diversitatis causam inquirere volens, cur solvendo quaestionem nullo modo meminerit secundae consequentiae, sed tantum primae et tertiae. Indiscussum namque reliquit an illa consequentia sit bona an mala. Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his paucis verbis etiam illius consequentiae naturam insinuavit. Profundioris enim sensus textus capax apparet cum dixit quod, non sunt unum album et musicum etc., ut scilicet non tantum indicet quod expositum est, sed etiam eius causam, ex qua natura secundae consequentiae elucescit. Causa namque quare album et musicum non inferunt coniunctam praedicationem est, quia in praedicatione coniuncta oportet alteram partem alteri supponi, ut potentiam actui, ad hoc ut ex eis fiat aliquo modo unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis coniunctae praedicationis requirit, ut supra diximus de partibus definitionis); album autem et musicum secundum se non faciunt unum per se, ut patet, neque unum per accidens. Licet enim ipsa ut adunantur in subiecto uno sint unum subiecto per accidens, tamen ipsamet quae adunantur in uno, tertio subiecto, non faciunt inter se unum per accidens: tum quia neutrum informat alterum (quod requiritur ad unitatem per accidens aliquorum inter se, licet non in tertio); tum quia non considerata subiecti unitate, quae est extra eorum rationes, nulla remanet inter ea unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum non sunt unum, scilicet inter se, aliquo modo, causam expressit quare coniunctim non infertur ex eis praedicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina, insinuavit per illamet verba bonitatem illius consequentiae. Ex eo enim quod homo et albus se habent sicut potentia et actus (et ita albedo informet, denominet atque unum faciat cum homine ratione sui), sequitur quod ex divisis potest inferri coniuncta praedicatio; ut dicatur: est homo et albus; ergo est homo albus. Sicut per oppositum dicebatur quod ideo musicum et album non inferunt coniunctum praedicatum quia neutrum alterum informabat. There is another point that must be mentioned. Aristotle in proposing the question draws three consequences: "He is an animal and biped, therefore he is a biped animal” and "He is a man and white, therefore he is a white man” and "He is a lute player and good, therefore he is a good lute player.” Then he states that the first two consequences are good, the third not. His intention was to inquire into the cause of this diversity, but in solving the question he mentions only the first and third consequences, leaving the goodness or badness of the second consequence undiscussed. Why is this? I would say in answer to this that in these few words he has also implied the nature of the second consequence, for there is a more profound meaning to the statement in the text that whiteness and being musical is not one. It is a meaning that not only indicates what has already been explained but also its cause, and from this the nature of the second consequence is apparent. For the reason "white” and "musical” do not infer a conjoined predication is that in conjoined predication one part must be subjected to the other as potency to act such that in some way one thing is formed from them and one is denominated from the other (for the force of the conjoined predication requires this, as we have said above concerning the parts of the definition). "White” and "musical,” however, do not in themselves form one thing per se, as is evident, nor do they form one thing accidentally. For while it is true that as united in a subject they are one in subject accidentally, nevertheless things that are united in one third subject do not form one thing accidentally among themselves: first, because neither informs the other (which is required for accidental unity of things among themselves, although not in a third thing); secondly, because, considered apart from the unity of a subject, which is outside of their notions, there is no cause of unity between them. Therefore, when Aristotle says that whiteness and being musical are not one, i.e., among themselves, in some measure he expresses the reason why a predicate is not conjointly inferred from them. And since the same discipline extends to opposites, the goodness of the second consequence is implied by these words. That is, man and white are related as potency and act (and so, on its own account whiteness informs, denominates, and forms one thing with ‘man’); therefore from these taken divisively a conjoined predication can be inferred, i.e., "He is man and white, therefore be is a white man”; just as, in the opposite case, it was said that "musical” and "white” do not infer a conjoined predicate because neither informs the other. 9 Nec obstat quod album faciat unum per accidens cum homine: non enim dictum est quod unitas per accidens aliquorum impedit ex diversis inferre coniunctum, sed quod unitas per accidens aliquorum ratione tertii tantum est illa quae impedit. Talia enim quae non sunt unum per accidens nisi ratione tertii, inter se nullam habent unitatem; et propterea non potest inferri coniunctum, ut dictum est, quod unitatem importat. Illa vero quae sunt unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut, homo albus, cum coniuncta accipiuntur, unitate necessaria non carent, quia inter se unitatem habent. Notanter autem apposui ly tantum: quoniam si aliqua duo sunt unum per accidens, ratione tertii subiecti scilicet, sed non tantum ex hoc habent unitatem, sed etiam ratione sui, ex hoc quod alterum reliquum informat, ex istis divisis non prohibetur inferri coniunctum. Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est coloratum; ergo est quantum coloratum: quia color informat quantitatem. There is no opposition between the position just stated and the fact that white forms an accidental unity with man. For we did not say that accidental unity of certain things impedes inferring a conjunction from divided things,” but that accidental unity of certain things only by reason of a third thing is the one that impedes. Things that are one accidentally only by reason of a third thing have no unity among them selves; and for this reason a conjunction, which implies unity, cannot be inferred, as we have said. But things that are one accidentally on their own account, i.e., among themselves, as for example, "white man,” when taken conjointly, have the necessary unity because they have unity among themselves. Notice that I have added "only.” The reason is that if any two C are one accidentally, namely, by reason of a third subject, and they not only have unity from this but also on their own account (because one informs the other), then from these taken divisively a conjoined inference can be made. For example, we can infer, "It is a quantity and it is colored, therefore it is a colored quantity,” because color informs quantity. Cajetanus lib. 2 l. 6 n. 10Potes autem credere quod secunda illa consequentia, quam non explicite confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona et ex eo quod ipse proponendo quaestionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla instantia reperitur. Insinuavit autem et Aristoteles quod sola talis unitas impedit illationem coniunctam, quando dixit quaecumque secundum accidens dicuntur vel de eodem vel alterutrum de altero. Cum enim dixit, secundum accidens de eodem, unitatem eorum ex sola adunatione in tertio posuit (sola enim haec per accidens praedicantur de eodem, ut dictum est); cum autem addidit, vel alterutrum de altero, mutuam accidentalitatem ponens, ex nulla parte inter se unitatem reliquit. Utraque ergo per accidens adducta praedicata, in tertio scilicet vel alterutrum, quae impediant illationem coniunctam, nonnisi in tertio unitatem habent. You can hold as true that this second consequence is good even though Aristotle has not explicitly confirmed it by returning to it, both from the fact that in proposing the question he has claimed it as good and also because there is no instance opposed to it. Moreover, Aristotle has implied that it is only such unity that impedes the conjoined inference where he says: which are said accidentally, either of the same subject or of one another. By accidentally of the same subject, he posits their unity to be only from union in a third thing (for only these are predicated accidentally of the same subject, as was said). When he adds, or of one another—positing mutual accidentality—no unity at all is left between them. Therefore, both kinds of accidental predicates, namely, in a third thing or in one another, that impede a conjoined inference have unity only in a third thing. 11 Deinde cum dicit: amplius nec etc., satisfacit instantiis in probatione adductis, et in illis in quibus explicita committebatur nugatio, et in illis in quibus implicita; et ait quod non solum inferre ex divisis coniunctum non licet quando praedicata illa sunt per accidens, sed nec etiam quaecunque insunt in alio: idest, sed nec hoc licet quando praedicata includunt se, ita quod unum includatur in significato formali alterius intrinsece, sive explicite, ut album in albo, sive implicite, ut animal et bipes in homine. Quare neque album frequenter dictum divisim infert coniunctum, neque homo divisim ab animali vel bipede enunciatum, animal bipes, coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo Socrates est homo bipes, vel animal homo. Insunt enim in hominis ratione, animal et bipes actu et intellectu, licet implicite. Stat ergo solutio quaestionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in tertio tantum et nugatio, impediunt ex divisis inferri coniunctum; et consequenter, ubi neutrum horum invenitur, ex divisis licebit inferre coniunctum. Et hoc intellige quando divisae sunt simul verae de eodem et cetera. Then when he says, Furthermore, predicates that are present in one another cannot be combined simply, etc., he gives the solution for the instances (both the explicitly nugatory and the implicitly nugatory) cited in the proof. It is not only not licit, he says, to infer a union from divided predicates when these are accidental, but it is not licit when the predicates are present in one another. That is, it is not licit to infer a conjoined predicate from divided predicates when the predicates include one another in such a way that one is included in the formal signification of another intrinsically, or explicitly, as "white” in white,” or implicitly, as "animal” and "biped” in "man.” Therefore, white” said repeatedly and divisively does not infer a conjoined predication, nor does "man” divisively enunciated from "animal” or "biped” infer "biped” or "animal” conjoined with man, such that we could say, "Therefore, Socrates is a biped-man” or "animal-man.” For animal and biped are included in the notion of man in act and in understanding, although implicitly. The solution of the question, then, is this: the inferring of a conjunction from divided predicates is impeded when there is unity of the many accidentally only in a third thing and when there is a nugatory result. Consequently, where neither of these is found it will be licit to infer a conjunction from divided predicates. It is to be understood that this applies when the divided predicates are at once true of the same subject. VII. 1. Postquam expedita est prima dubitatio, tractat secundam dubitationem. Et circa hoc tria facit: primo, movet ipsam quaestionem; secundo, solvit eam; ibi: sed quando in adiecto etc., tertio, ex hoc excludit quemdam errorem; ibi: quod autem non est et cetera. Est ergo quaestio: an ex enunciatione habente praedicatum coniunctum, liceat inferre enunciationes dividentes illud coniunctum; et est quaestio contraria superiori. Ibi enim quaesitum est an ex divisis inferatur coniunctum; hic autem quaeritur an ex coniuncto sequantur divisa. Unde movendo quaestionem dicit: verum autemaliquando est dicere de aliquo et simpliciter, idest divisim, quod scilicet prius dicebatur coniunctim, ut quemdam hominem album esse hominem, aut quoddam album hominem album esse, idest ut ex ista, Socrates est homo albus, sequitur divisim, ergo Socrates est homo, ergo Socrates est albus. Non autem semper, idest aliquando autem ex coniuncto non inferri potest divisim; non enim sequitur, Socrates est bonus citharoedus, ergo est bonus. Unde haec est differentia, quod quandoque licet et quandoque non. Et adverte quod notanter adduxit exemplum de homine albo, inferendo utramque partem divisim, ut insinuaret quod intentio quaestionis est investigare quando ex coniuncto potest utraque pars divisim inferri, et non quando altera tantum. Aristotle now takes up the second question in relation to multiple enunciations. He first presents it, and then solves it where he says, When something opposed is present in the adjunct, from which a contradiction follows, it will not be true to predicate them singly, but false, etc. Finally, he excludes an error where he says, In the case of non-being, however, it is not true to say that because it is a matter of opinion, it is something, etc. The second question is this: Is it licit to infer from an enunciation having a conjoined predication, enunciations dividing that conjunction? This question is the contrary of the first question. The first asked whether a conjoined predicate could be inferred from divided predicates; the present one asks whether divided predicates follow from conjoined predicates. When he presents the question he says, on the other hand, it is also true to say predicates of something singly, i.e., what was previously said conjointly may be said divisively; for example, that some white man is a man, or that some white man is white. That is, from "Socrates is a white man,” follows divisively, "Therefore Socrates is a man,” "There fore Socrates is white.” However, this is not always the case, i.e., some times it is not possible to infer divisively from conjoined predicates, for this does not follow: "Socrates is a good lute player, therefore he is good.” Hence, sometimes it is licit, sometimes not. Note that in inferring each part divisively he takes as an ex ample "white man.” This is significant, for by it he means to imply that his intention is to investigate when each part can be inferred divisively from a conjoined predicate, and not when only one of the two can be inferred. 2 Deinde cum dicit: sed quando in adiecto etc., solvit quaestionem. Et duo facit: primo, respondet parti negativae quaestionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi: quare in quantiscumque etc., respondet parti affirmativae, quando scilicet licet. Circa primum considerandum quod quia dupliciter contingit fieri praedicatum coniunctum, uno modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo duo facit: primo, ostendit quod numquam ex praedicato coniuncto ex oppositis possunt inferri eius partes divisim; secundo, quod nec hoc licet universaliter in praedicato coniuncto ex non oppositis, ibi: vel etiam quando et cetera. Ait ergo quod quando in termino adiecto inest aliquid de numero oppositorum, ad quae sequitur contradictio inter ipsos terminos, non verum est, scilicet inferre divisim, sed falsum. Verbi gratia cum dicitur, Caesar est homo mortuus, non sequitur, ergo est homo: quia ly mortuus, adiacens homini, oppositionem habet ad hominem, quam sequitur contradictio inter hominem et mortuum: si enim est homo, non est mortuus, quia non est corpus inanimatum; et si est mortuus, non est homo, quia mortuum est corpus inanimatum. Quando autem non inest, scilicet talis oppositio, verum est, scilicet inferre divisim. Ratio autem quare, quando est oppositio in adiecto, non sequitur illatio divisa est, quia alter terminus ex adiecti oppositione corrumpitur in ipsa enunciatione coniuncta. Corruptum autem seipsum absque corruptione non infert, quod illatio divisa sonaret. When he says, When something opposed is present in the adjunct, etc., he solves the question, first by responding to the negative part of the question, i.e., when it is not licit; secondly, to the affirmative part, i.e., when it is licit, where he says, Therefore, in whatever predications no contrariety is present when definitions are put in place of the names, and wherein predicates are predicated per se and not accidentally, etc. It should be noted, in relation to the negative part of the question, that a conjoined predicate may be formed in two ways: from opposites and from non-opposites. Therefore, he shows first that the parts in a conjoined predicate of opposites can never be inferred divisively. Secondly, he shows that this is not licit universally in a conjoined predicate of non-opposites, where he says, Or, rather, when something opposed is present in it, it is never true; but when something opposed is not present, it is not always true. Aristotle says, then, that when something that is an opposite is contained in the adjacent term, which results in a contradiction between the terms themselves, it is not true, namely, to infer divisively, but false. For example, when we say, "Caesar is a dead man,” it does not follow, "Therefore he is a man,” because the contradiction between 11 man” and "dead” which results from adding the "dead” to "man” is opposed to man, for if he is a man he is not dead, because he is not an inanimate body; and if he is dead he is not a man, because as dead he is an inanimate body. When something opposed is not present, i.e., there is no such opposition, it is true, i.e., it is true to infer divisively. The reason a divided inference does not follow when there is opposition in the added term is that in a conjoined enunciation the other term is destroyed by the opposition of the added term. But that which has been destroyed is not inferred apart from the destruction, which is what the divided inference would signify. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 3Dubitatur hic primo circa id quod supponitur, quomodo possit vere dici, Caesar est homo mortuus, cum enunciatio non possit esse vera, in qua duo contradictoria simul de aliquo praedicantur. Hoc enim est primum principium. Homo autem et mortuus, ut in littera dicitur, contradictoriam oppositionem includunt, quia in homine includitur vita, in mortuo non vita. Dubitatur secundo circa ipsam consequentiam, quam reprobat Aristoteles: videtur enim optima. Cum enim ex enunciatione praedicante duo contradictoria possit utrumque inferri (quia aequivalet copulativae), aut neutrum (quia destruit seipsam), et enunciatio supradicta terminos oppositos contradictorie praedicet, videtur sequi utraque pars, quia falsum est neutram sequi. Two questions arise at this point. The first concerns something assumed here: how can it ever be true to make such a statement as "Caesar is a dead man,” since an enunciation cannot be true in which two contradictories are predicated at the same time of something (for this is a first principle). But "man” and "dead,” as is said in the text, include contradictory opposition, for in man is included life, and in dead, non-life. The second question concerns the consequent that Aristotle rejects, which appears to be good. The enunciation given as an example predicates terms that are opposed contradictorily. But from an enunciation predicating two contradictory terms, either both can be inferred (because it is equivalent to a copulative enunciation), or neither (because it destroys itself); therefore both parts seem to follow, since it is false that neither follows. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 4Ad hoc simul dicitur quod aliud est loqui de duobus terminis secundum se, et aliud de eis ut unum stat sub determinatione alterius. Primo namque modo, homo et mortuus, contradictionem inter se habent, et impossibile est quod simul in eodem inveniantur. Secundo autem modo, homo et mortuus, non opponuntur, quia homo transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly mortuus, non stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam termini additi, a quo suum significatum distractum est. Ad utrunque autem insinuandum Aristoteles duo dixit, et quod habent oppositionem quam sequitur contradictio, attendens significata eorum secundum se, et quod etiam ex eis formatur una vera enunciatio cum dicitur, Socrates est homo mortuus, attendens coniunctionem eorum alterius corruptivam. Unde patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad utramque siquidem dicitur, quod non enunciantur duo contradictoria simul de eodem, sed terminus ut stat sub distractione, seu transmutatione alterius, cui secundum se esset contradictorius. These two questions can be answered simultaneously. It is one thing to speak of two terms in themselves, and another to speak of them as one stands under the determination of another. Taken in the first way, "man” and "dead” have a contradiction between them and it is impossible that they be found in the same thing at the same time. In the second way, however, "man” and "dead” are not opposed, since "man,” changed by the destructive element introduced by "dead,” no longer stands for what it signifies as such, but as determined by the term added, by which what is signified is removed. Aristotle, in order to imply both, says two things: that they have the opposition upon which contradiction follows if you regard what they signify in themselves; and, that one true enunciation is formed from them as in "Socrates is a dead man,” if you regard their conjunction as destructive of one of them. Accordingly, the answer to the two questions is evident. In a case such as this two contradictories are not enunciated of the same thing at the same time, but one term as it stands under dissolution or transmutation from the other, to which by itself it would be contradictory. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 5Dubitatur quoque circa id quod ait: inest aliquid oppositorum quae consequitur contradictio; superflue enim videtur addi illa particula, quae consequitur contradictio. Omnia enim opposita consequitur contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non filius, et album non nigrum, et videns non caecum et cetera. Et ad hoc dicendum est quod opposita possunt dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua significata; alio modo denominative, seu subiective. Verbi gratia, pater et filius possunt accipi pro paternitate et filiatione, et possunt accipi pro eo qui denominatur pater vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat oppositione aliqua, ut dicitur in X metaphysicae, supponatur omnino distincta esse opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad omnia opposita seu distincta contradictio sequatur inter se formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita sequitur contradictio inter ipsa denominative sumpta. Quamvis enim pater et filius mutuam sui negationem inferant inter se formaliter, quia paternitas est non filiatio, et filiatio est non paternitas; in relatione tamen ad denominatum, contradictionem non necessario inferunt. Non enim sequitur, Socrates est pater; ergo non est filius; nec e converso. Ut persuaderet igitur Aristoteles quod non quaecunque opposita colligata impediunt divisam illationem (quia non illa quae habent contradictionem annexam formaliter tantum, sed illa quae habent contradictionem et formaliter et secundum rem denominatam), addidit: quae consequitur contradictio, in tertio scilicet denominato. Et usus est satis congrue vocabulo, scilicet, consequitur: contradictio enim ista in tertio est quodammodo extra ipsa opposita. There is also a question about something else that Aristotle says, namely, something opposed is present... from which a contradiction follows. The phrase from which a contradiction follows seems to be superfluous, for contradiction follows upon all opposites, as is evident in discoursing about singulars; for a father is not a son, and white is not black, and one seeing is not blind, etc. Opposites, however, can be taken in two ways: formally, i.e., according to what they signify, and denominatively, or subjectively. For example, father and son can be taken for paternity and filiation, or they can be taken for the one who is denominated a father or a son. But, again, since every distinction is made by some opposition, as is said in X Metaphysicae [3: 1054a 20], it could be supposed that opposites are wholly distinct. It must be pointed out, therefore, that although contradiction follows between all opposites or distinct things formally taken, nevertheless, contradiction does not follow upon all opposites denominatively taken. Father and son formally taken infer a mutual negation of one another, for paternity is not filiation and filiation is not paternity, but in respect to what is denominated they do not necessarily infer a contradiction. It does not follow, for example, that "Socrates is a father; therefore he is not a son,” nor conversely. Aristotle, therefore, in order to establish that not all combined opposites prevent a divided inference (since those having a contradiction applying only formally do not prevent a divided inference, but those having a contradiction both formally and according to the thing denominated do prevent a divided inference) adds, from which a contradiction follows, namely, in the third thing denominated. And appropriately enough he uses the word follows, for the contradiction in " the third thing denominated is in a certain way outside of the opposites themselves. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 6Deinde cum dicit: vel etiam quando est etc., declarat quod ex non oppositis in tertio coniunctis secundum unum praedicatum, non universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo, hoc proponit quasi emendans quod immediate dixerat, subiungens: vel etiam quando est, scilicet oppositio inter terminos coniunctos, falsum est semper, scilicet inferre divisim; quasi diceret: dixi quod quando inest oppositio, non verum sed falsum est inferre divisim; quando autem non inest talis oppositio, verum est inferre divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod quando est oppositio, falsum est semper, quando autem non inest talis oppositio, non semper verum est. Et sic modificavit supradicta addendo ly semper, et, non semper. Et subdens exemplum quod non semper ex non oppositis sequatur divisio, ait: ut, Homerus est aliquid ut poeta; ergo etiam est? Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero enunciato, altera pars, ergo Homerus est, non sequitur; et tamen clarum est quod istae duae partes colligatae, est et poeta, non habent oppositionem, ad quam sequitur contradictio. Igitur non semper ex non oppositis coniunctis illatio divisa tenet et cetera. When he says, Or, rather, when something opposed is present in it, it is never true, etc., he explains that the parts cannot universally be inferred divisively in the case of a conjoined predicate in which there is a non-opposite as the third thing denominated. He proposes this—Or, rather, when something opposed is contained in it, i.e., opposition between the terms conjoined—as if amending what he has just said, namely, it is always false, i.e., to infer divisively. What he is saying, then, is this: I have said that when there is inherent opposition it is not true but false to infer divisively; but when there is not such opposition it is true to infer divisively; or, even better, when there is opposition it is always false but when there is not such opposition it is not always true. That is, he modifies what he first said by the addition of "always” and "not always.” Then he adds an example to show that division does not always follow from non-opposites: For example, Homer is something, say, a poet. Is it therefore true to say also that Homer "is,” or not? From the conjoined predicate, is a poet, enunciated of Homer, one part, Therefore Homer is, does not follow; yet it is evident that these two conjoined parts, "is” and "poet,” do not have the opposition upon which contradiction follows. Therefore, in the case of conjoined non-opposites a divided inference does not always hold. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 7Deinde cum dicit: secundum accidens etc., probat hoc, quod modo dictum est, ex eo quod altera pars istius compositi, scilicet, est, in antecedente coniuncto praedicatur de Homero secundum accidens, idest ratione alterius, quoniam, scilicet poeta, praedicatur de Homero, et non praedicatur secundum se ly est de Homero; quod tamen infertur, cum concluditur: ergo Homerus est. Considerandum est hic quod ad solvendam illam conclusionem negativam, scilicet,- non semper ex non oppositis coniunctis infertur divisim,- sufficit unam instantiam suae oppositae universali affirmativae afferre. Et hoc fecit Aristoteles adducendo illud genus enunciationum, in quo altera pars coniuncti est aliquid pertinens ad actum animae. Loquimur enim modo de Homero vivente in poematibus suis in mentibus hominum. In his siquidem enunciationibus partes coniunctae non sunt oppositae in tertio, et tamen non licet inferre utramque partem divisim. Committitur enim fallacia secundum quid ad simpliciter. Non enim valet, Caesar est laudatus, ergo est: et simile est de esse in effectu dependente in conservari. Quomodo autem intelligenda sit ratio ad hoc adducta ab Aristotele in sequenti particula dicetur. When he says, The "is” here is predicated accidentally of Homer, he proves what he has said. One part of this composite, namely, "is,” is predicated of Homer in the antecedent conjunction accidentally, i.e., by reason of another, namely, with regard to the "poet” which is predicated of Homer; it is not predicated as such of Homer. Nevertheless, this is what is inferred when one concludes "Therefore Homer is.” To validate his negative conclusion, namely, that it is not always true to infer divisively from conjoined non-opposites, it was sufficient to give one instance of the opposite of the universal affirmative. To do this Aristotle introduces that genus of enunciation in which one part of the conjunction is something pertaining to an act of the mind (for we are speaking only of Homer living in his poems in the minds of men). In such enunciations the parts conjoined are not opposed in the third thing denominated; nevertheless it is not licit to infer each part divisively, for the fallacy of going from the relative to the absolute will be committed. For example, it is not valid to say, "Caesar is praiseworthy, therefore he is,” which is a parallel case, i.e., of an effect whose existence requires maintenance. Aristotle will explain in the following sections of the text how the reasoning in the above text is to be understood. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 8Deinde cum dicit: quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativae quaestionis, quando scilicet ex coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas conditiones oppositas supradictis debere convenire in unum, ad hoc ut possit fieri talis consequentia; scilicet, quod nulla inter partes coniuncti oppositio sit, et quod secundum se praedicentur. Unde dicit inferendo ex dictis: quare in quantiscunque praedicamentis, idest praedicatis ordine quodam adunatis, neque contrarietas aliqua, in cuius ratione ponitur contradictio in tertio (contraria enim sunt quae mutuo se ab eodem expellunt), aut universaliter nulla oppositio inest, ex qua scilicet sequatur contradictio in tertio, si definitiones pro nominibus sumantur. Dixit hoc, quia licet in quibusdam non appareat oppositio, solis nominibus positis, sicut, homo mortuus, et in quibusdam appareat, ut, vivum mortuum; hoc tamen non obstante, si, positis nominum definitionibus loco nominum, oppositio appareat, inter opposita collocamus. Sicut, verbi gratia, homo mortuus, licet oppositionem non praeseferat, tamen si loco hominis et mortui eorum definitionibus utamur, videbitur contradictio. Dicemus enim corpus animatum rationale, corpus inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam, coniunctis nulla est oppositio, et secundum se, et non secundum accidens praedicantur, in his verum erit dicere et simpliciter, idest divisim quod fuerat coniunctim enunciatum. When he says, Therefore, in whatever predications no contrariety is present when definitions are put in place of the names, etc., he replies to the affirmative part of the question, i.e., when it is licit to infer divisively from conjoined predicates. He maintains that two conditions—opposed to what has been said earlier in this portion of the text—must combine in one enunciation in order that such a consequence be effected: there must be no opposition between the parts conjoined, and they must be predicated per se. He says, then, inferring from what has been said: Therefore, in whatever predicaments, i.e., predicates joined in a certain order, no contrariety, in virtue of which contradiction is posited in the third thing denominated (for contraries mutually remove each other from the same thing), is present, or universally, no opposition is present, i.e., upon which a contradiction follows in the third thing denominated, when definitions are taken in place of the names.... He says this because it may be the case that the opposition is not apparent from the names alone, as in "dead man,” and again it may be, as in "living dead,” but whether apparent or not it will be evident that we are putting together opposites if we posit the definitions of the names in place of the names. For example, in the case of "dead man,” if we replace "man” and "dead,” with their definitions, the contradiction will be evident, for what we are saying is "rational animate body, irrational inanimate body.” In whatever conjoined predicates, then, there is no opposition, and wherein predicates are predicated per se and not accidentally, in these it will also be true to predicate them singly, i.e., say divisively what had been enunciated conjointly. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 9Ad evidentiam secundae conditionis hic positae, nota quod ly secundum se potest dupliciter accipi: uno modo positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi, universaliter, quarti modi; alio modo negative, et sic idem sonat quod non per aliud. Rursus considerandum est quod cum Aristoteles dixit de praedicato coniuncto quod, secundum se praedicetur, ly secundum se potest ad tria referri, scilicet, ad partes coniuncti inter se, ad totum coniunctum respectu subiecti, et ad partes coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secundum se positive, licet non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur sensus ad quodcunque illorum trium referatur. Licet enim valeat, est homo risibilis, ergo est homo et est risibilis, et, est animal rationale, ergo est animal et est rationale; tamen his oppositae inferunt similes consequentias. Dicimus enim, est albus musicus, ergo est musicus et est albus: ubi nulla est perseitas, sed est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam inter totum et subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet igitur quod non accipit Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana fuisset talis additio, quae ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad quid enim addidit, secundum se, et non, secundum accidens, si tam illae quae sunt secundum se, modo exposito, quam illae quae sunt secundum accidens ex coniuncto, inferunt divisum? Si vero accipiatur secundum se, negative, idest, non per aliud, et referatur ad partes coniuncti inter se, falsa invenitur regula. Nam non licet dicere, est bonus citharoedus; ergo est bonus et citharoedus; et tamen ars citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur. Et similiter contingit, si referatur ad totum coniunctum respectu subiecti, ut in eodem exemplo apparet. Totum enim hoc, citharoedus bonus, non propter aliud convenit homini; et tamen non infert, ut dictum est, divisionem. Superest ergo ut ad partem coniuncti respectu subiecti referatur, et sit sensus: quando aliqua coniunctim praedicata, secundum se, idest, non per aliud, praedicantur, idest, quod utraque pars praedicatur de subiecto non propter alteram, sed propter seipsam et subiectum, tunc ex coniuncto infertur divisa praedicatio. In order to make this second condition clear, it should be noted that "per se” can be taken in two ways: positively, and thus it refers to "perseity” of the first, of the second, and of the fourth mode universally; or negatively, and thus it means the same as not through something else. It should also be noted that when Aristotle says of a conjoined predicate that it is predicated "per se,” the "per se” can be referred to three things: to the parts of the conjunction among themselves, to the whole conjunction with respect to the subject, and to the parts of the conjoined predicate with respect to the subject. Now if "per se” is taken positively, although it will not be false, nevertheless in reference to any of these three the meaning will be found to be foreign to the mind of Aristotle. For, although these are valid: "He is a risible man, therefore he is man and he is risible” and "He is a rational animal, therefore he is animal and he is rational,” nevertheless the opposite kind of predication infers consequences in a similar way. For example, there is no 11 perseity” in "He is a white musician, therefore he is white and he is a musician”; rather, there is an accidental conjunction, not only between the parts among themselves and between the whole and the subject, but even between the parts and the subject. It is evident, therefore, that Aristotle is not taking "per se” positively, for an addition that does not differentiate this kind of predication from the opposed kind of predication would be useless. Why add "per se and not accidentally,” if both those that are per se in the way explained and those that are conjoined accidentally infer divisively? If "per se” is taken negatively, i.e., as not through another, and is referred to the parts of the conjoined predicate among themselves, the rule is found to be false. It is not licit, for example, to say, "He is a good lute player, therefore he is good and a lute player”; yet the art of lute-playing and its goodness are conjoined without anything as a medium. And the case is the same if it is referred to the whole conjoined predicate with respect to the subject, as is clear in the same example, for the whole, "good lute player,” does not belong to man on account of another, and yet it does not infer the division, as has already been said. Therefore, "per se” is referred to the parts of the conjoined predicate with respect to the subject and the meaning is: when the predicates are conjointly predicated per se, i.e., not through another, i.e., each part is predicated of the subject, not on account of another but on account of itself and the subject, then a divided predication is inferred from the conjoined predication. 10 Et hoc modo exponunt Averroes et Boethius; et vera invenitur regula, ut inductive facile manifestari potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius coniuncti praedicati ita inhaerent subiecto quod neutra propter alteram insit, earum separatio nihil habet quod veritatem impediat divisarum. Est et verbis Aristotelis consonus sensus iste. Quoniam et per hoc distinguit inter enunciationes ex quibus coniunctum infert divisam praedicationem, et eas quibus haec non inest consequentia. Istae siquidem ultra habentes oppositiones in adiecto, sunt habentes praedicatum coniunctum, cuius una partium alterius est ita determinatio, quod nonnisi per illam subiectum respicit, sicut apparet in exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta. Est siquidem ibi non respicit Homerum ratione ipsius Homeri, sed praecise ratione poesis relictae; et ideo non licet inferre, ergo Homerus est. Et simile est in negativis. Si quis enim dicat, Socrates non est paries, non licet inferre, ergo Socrates non est, eadem ratione, quia esse non est negatum de Socrate, sed de pariete in Socrate. This is the way in which Averroes and Boethius explain this and, explained in this way, a true rule is found, as can easily be manifested inductively; moreover, the reasoning is compelling. For, if the parts of some conjoined predicate so inhere in the subject that neither is in it on account of another, their separation produces nothing that could impede the truth of the divided predicates. And this meaning is consonant with the words of Aristotle, for by this he also distinguishes between enunciations in which the conjoined predicate infers a divided predicate, and those in which this consequence is not inherent. For besides the predicates having opposition in the additional determining element, there are those with a conjoined predicate wherein one part is a determination of the other in such a way that only through it does it regard the subject, as is evident in Aristotle’s example, "Homer is a poet.” The "is” does not regard Homer by reason of Homer himself, but precisely by reason of the poetry he left. Hence it is not licit to infer, "Therefore Homer is.” The same is true with respect to negative enunciations of this type, for it is not licit to infer from "Socrates is not a wall,” "Therefore Socrates is not.” And the reason is the same: "to be” is not denied of Socrates, but of "wallness” in Socrates. 11 Et per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in textu superiore adducta. Accipitur enim ibi, secundum se negative, modo hic exposito, et secundum accidens, idest propter aliud. In eadem ergo significatione est usus ly secundum accidens, solvendo hanc et praecedentem quaestionem: utrobique enim intellexit secundum accidens, idest, propter aliud, coniuncta, sed ad diversa retulit. Ibi namque ly secundum accidens determinabat coniunctionem duorum praedicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti praedicati in ordine ad subiectum. Unde ibi, album et musicum, inter ea quae secundum accidens sunt, numerabantur; hic autem non. Accordingly, it is evident how the reasoning in the text above is to be understood. "Per se” is taken negatively in the way explained here, and "accidentally” as "on account of another.” The "accidentally” is used with the same signification in solving this and the preceding question. In both he understands "accidentally” to mean conjoined on account of another, but it is referred to diverse things. In the preceding question "accidentally” determines the way in which two predicates are conjoined among themselves; in the latter question it determines the way in which the part of the conjoined predicate is ordered to the subject. Hence, in the former, "white” and "musician” are numbered among the things that are accidental, but in the latter they are not. 12 Sed occurrit circa hanc expositionem dubitatio non parva. Si enim ideo non licet ex coniuncto inferre divisim, quia altera pars coniuncti non respicit subiectum propter se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de ista enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod numquam a tertio adiacente ad secundum erit bona consequentia: quia in omni enunciatione de tertio adiacente, est respicit subiectum propter praedicatum et non propter se et cetera. This exposition seems a bit dubious, however. For if it is not licit to infer divisively from a conjoined predicate because one part of the conjoined predicate does not regard the subject on account of itself but on account of another part (as Aristotle says of the enunciation, "Homer is a poet”), it will follow that there will never be a good consequence from the third determinant to the second, since in every enunciation with a third determinant, "is” regards the subject on account of the predicate and not on account of itself. 13 Ad huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc distinctionem. Aliud est tractare regulam, quando ex tertio adiacente infertur secundum et quando non, et aliud quando ex coniuncto fit illatio divisa et quando non. Illa siquidem est extra propositum, istam autem venamur. Illa compatitur varietatem terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est altera pars coniuncti, secundum significationem seu suppositionem varietur in separatione, non infertur ex coniuncto praedicato illudmet divisim, sed aliud. Nota secundo hanc propositionem: cum ex tertio adiacente infertur secundum, non servatur identitas terminorum. Liquet ista quoad illum terminum, est. Dictum siquidem fuit supra a sancto Thoma, quod aliud importat est secundum adiacens, et aliud est tertium adiacens. Illud namque importat actum essendi simpliciter, hoc autem habitudinem inhaerentiae vel identitatis praedicati ad subiectum. Fit ergo varietas unius termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. Unde praelucet responsio ad obiectionem, quod, licet ex tertio adiacente quandoque possit inferri secundum, numquam tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum tamquam ex coniuncto divisum, quia inferri non potest divisim, cuius altera pars ipsa divisione perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod, optime concludit quod talis illatio est illicita infra limites illationum, quae ex coniuncto divisionem inducunt, de quibus hic Aristoteles loquitur. To make this difficulty clear, we must first note a distinction. It is one thing to treat of the rule when inferring a second determinant from a third determinant, and when not; it is quite another thing when a divided inference is made from a conjoined predicate, and when not. The former is an additional point; the latter is the question we have been inquiring about. The former is compatible with variety of the terms, the latter not. For if one of the terms which is one part of a conjoined predicate will be varied according to signification, or supposition when taken separately, it is not inferred divisively from the conjoined predicate, but the other is. Secondly, note this proposition: when a second determinant is inferred from a third, identity of the terms is not kept. This is evident with respect to the term "is.” Indeed, St. Thomas said above that "is” as the second determinant implies one thing and "is” as the third determinant another. The former implies the act of being simply, the latter implies the relationship of inherence, or identity of the predicate with the subject. Therefore, when the second determinant is inferred from the third, one term is varied and consequently an inference is not made of the divided from the conjoined. Accordingly, the response to the objection is clear, for although the second determinant can sometimes be inferred from the third, it is never licit for the second to be inferred from the third as divided from conjoined, because you cannot infer divisively when one part is destroyed by that very division. Therefore, let the consequence of the objection be denied and for proof let it be said that the conclusion that such an inference is illicit under the limits of inferences which induce division from a conjoined predicate-is good, for this is what Aristotle is speaking of here. 14 Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam ex coniuncto divisa fit illatio, Socrates est albus, ergo est, per locum a parte in modo ad suum totum, ubi non fit varietas terminorum. Et ad hoc dicitur quod licet homo albus sit pars in modo hominis (quia nihil minuit de hominis ratione albedo, sed ponit hominem simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo quod pars in modo est universale cum conditione non minuente, ponente illud simpliciter. Clarum est autem quod album minuit rationem ipsius est, et non ponit ipsum simpliciter: contrahit enim ad esse secundum quid. Unde apud philosophos, cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum quid. But the objection is raised against this that in the case of "Socrates is white, therefore be is,” a divided inference can be made as from a conjoined predicate, in virtue of the argument that we can go from what is in the mode of part to its whole as long as the terms remain the same. The answer to this is as follows. It is true that white man is a part in the mode of man (because white diminishes nothing of the notion of man but posits man simply); is white, however, is not a part in the mode of is, because a part in the mode of its whole is a universal, the condition not diminishing the positing of it simply. But it is evident that white diminishes the notion of is, and does not posit it simply, for it contracts it to relative being. Whence when something becomes white, philosophers do not say that it is generated, but generated relatively. 15 Sed instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo, est animal, ergo est, fit illatio divisa per eumdem locum. Animal enim non minuit rationem ipsius est. Ad hoc est dicendum quod ly est, si dicat veritatem propositionis, manifeste peccatur a secundum quid ad simpliciter. Si autem dicat actum essendi, illatio est bona, sed non est de tertio, sed de secundo adiacente. In accordance with this, the objection is raised that in saying "It is an animal, therefore it is,” a divided inference is made in virtue of the same argument; for animal does not diminish the notion of is itself. The answer to this is that if the is asserts the truth of a proposition, the fallacy is committed of going from the relative to the absolute; if the is asserts the act of being, the inference is good, but it is of the second determinant, not of the third. 16 Potest ulterius dubitari circa principale: quia sequitur, est quantum coloratum, ergo est quantum, et, est coloratum; et tamen coloratum respicit subiectum mediante quantitate: ergo non videtur recta expositio supra adducta. Ad hoc et similia dicendum est quod coloratum non ita inest subiecto per quantitatem quod sit eius determinatio et ratione talis determinationis subiectum denominet, sicut bonitas artem citharisticam determinat; cum dicitur, est citharoedus bonus; sed potius subiectum ipsum primo coloratum denominatur, quantum vero secundario coloratum dicitur, licet color media quantitate suscipiatur. Unde notanter supra diximus, quod tunc altera pars coniuncti praedicatur per accidens, quando praecise denominat subiectum, quia denominat alteram partem. Quod nec in similibus instantiis invenitur. There is another doubt, this time about the principle in the exposition; for this follows, "It is a colored quantity, therefore it is a quantity and it is colored”; but "colored” regards the subject through the medium of quantity; therefore the exposition given above does not seem to be correct. The answer to this and to similar objections is that "colored” is not so present in a subject by means of quantity that it is its determination, and by reason of such a determination denominates the subject; as goodness,” for instance, determines the art of lute-playing when we say "He is a good lute player.” Rather, the subject itself is first denominated "colored” and quantity is called "colored” secondarily, although color is received through the medium of quantity. Hence, we made a point of saying earlier that one part of a conjoined predicate is predicated accidentally when it denominates the subject precisely because it denominates the other part.93 This is not the case here nor in similar instances. 17 Deinde cum dicit: quod autem non est etc., excludit quorumdam errorem qui, quod non est, esse tali syllogismo concludere satagebant: quod est, opinabile est. Quod non est, est opinabile. Ergo quod non est, est. Hunc siquidem processum elidit Aristoteles destruendo primam propositionem, quae partem coniuncti in subiecto divisim praedicat, ac si diceret: est opinabile, ergo est. Unde assumendo subiectum conclusionis illorum ait: quod autem non est; et addit medium eorum, quoniam opinabile est; et subdit maiorem extremitatem, non est verum dicere, esse aliquid. Et causam assignat, quia talis opinatio non propterea est, quia illud sit, sed potius quia non est. When he says, In the case of non-being, however, it is not true to say that it is something, etc., he excludes the error of those who were satisfied to conclude that what is not, is. This is the syllogism they use: "That which is, is ‘opinionable’; that which is not, is ‘opinionable’; therefore what is not, is.” Aristotle destroys this process of reasoning by destroying the first proposition, which predicates divisively a part of what is conjoined in the subject, as if it said "It is ‘opinionable,’ therefore it is.” Hence, assuming the subject of their conclusion, he says, In the case of that which is not, however; and he adds their middle term, because it is a matter of opinion; then he adds the major extreme, it is not true to say that it is something. He then assigns the cause: it is not because it is but rather because it is not, that there is such opinion. VIII. 1 Postquam determinatum est de enunciationibus, quarum partibus aliud additur tam remanente quam variata unitate, hic intendit declarare quid accidat enunciationi, ex eo quod aliquid additur, non suis partibus, sed compositioni eius. Et circa hoc duo facit: primo, determinat de oppositione earum; secundo, de consequentiis; ibi: consequentiae vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exequitur; ibi: nam si eorum et cetera. Proponit ergo quod iam perspiciendum est, quomodo se habeant affirmationes et negationes enunciationum de possibili et non possibili et cetera. Et causam subdit: habent enim multas dubitationes speciales. Sed antequam ulterius procedatur, quoniam de enunciationibus, quae modales vocantur, sermo inchoatur, praelibandum est esse quasdam modales enunciationes, et qui et quot sunt modi reddentes propositiones modales; et quid earum sit subiectum et quid praedicatum; et quid sit ipsa enunciatio modalis; quisque sit ordo earum ad praecedentes; et quae necessitas sit specialem faciendi tractatum de his. Now that he has treated enunciations in which something added to the parts leaves the unity intact on the one hand, and varies it on the other, Aristotle begins to explain what happens to the enunciation when something is added, not to its parts, but to its composition. First, he explains their opposition; secondly, he treats of the consequences of their opposition where he says, Logical sequences result from modals ordered thus, etc. With respect to the first point, he proposes the question he intends to consider and then begins his consideration where he says, Let us grant that of mutually related enunciations, contradictories are those opposed to each other, etc. He proposes that we must now investigate the way in which affirmations and negations of the possible and not possible are related. He gives the reason when he adds, for the question has many special difficulties. However, before we proceed with the consideration of enunciations that are called modal, we must first see that there are such things as modal enunciations, and which and how many modes render propositions modal; we must also know what their subject is and their predicate, what the modal enunciation itself is, what the order is between modal enunciations and the enunciations already treated, and finally, why a special treatment of them is necessary. 2 Quia ergo possumus dupliciter de rebus loqui; uno modo, componendo rem unam cum alia, alio modo, compositionem factam declarando qualis sit, insurgunt duo enunciationum genera; quaedam scilicet enunciantes aliquid inesse vel non inesse alteri, et hae vocantur de inesse, de quibus superius habitus est sermo; quaedam vero enunciantes modum compositionis praedicati cum subiecto, et hae vocantur modales, a principaliori parte sua, modo scilicet. Cum enim dicitur, Socratem currere est possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis sit compositio cursus cum Socrate, scilicet possibilis. Signanter autem dixi modum compositionis, quoniam modus in enunciatione positus duplex est. Quidam enim determinat verbum, vel ratione significati ipsius verbi ut Socrates currit velociter, vel ratione temporis consignificati, ut Socrates currit hodie; quidam autem determinat compositionem ipsam praedicati cum subiecto; sicut cum dicitur, Socratem currere est possibile. In illis namque determinatur qualis cursus insit Socrati, vel quando; in hac autem, qualis sit coniunctio cursus cum Socrate. Modi ergo non illi qui rem verbi, sed qui compositionem determinant, modales enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma totius totam enunciationem continet. We can speak about things in two ways: in one, composing one thing with another; in the other, declaring the kind of composition that exists between the two things. To signify these two ways of speaking about things we form two kinds of enunciations. One kind enunciates that something belongs or does not belong to something. These are called absolute [de inesse] enunciations; these we have already discussed. The other enunciates the mode of composition of the predicate with the subject. These are called modal, from their principal part, the mode. For when we say, "That Socrates run is possible,” it is not the running of Socrates that is enunciated but the kind of composition there is between running and Socrates-in this case, possible. I have said "mode of composition” expressly, for there are two kinds of mode posited in the enunciation. One modifies the verb, either with respect to what it signifies, as in "Socrates runs swiftly,” or with respect to the time signified along with the verb, as in "Socrates runs today.” The other kind modifies the very composition of the predicate with the subject, as in the example, "That Socrates run is possible.” The former determines how or when running is in Socrates; the latter determines the kind of conjunction there is between running and Socrates. The former, which affects the actuality of the verb, does not make a modal enunciation. Only the modes that affect the composition make a modal enunciation, the reason being that the composition, as the form of the whole, contains the whole enunciation. 3 Sunt autem huiusmodi modi quatuor proprie loquendo, scilicet possibile et impossibile, necessarium et contingens. Verum namque et falsum, licet supra compositionem cadant cum dicitur, Socratem currere est verum, vel hominem esse quadrupedem est falsum, attamen modificare proprie non videntur compositionem ipsam. Quia modificari proprie dicitur aliquid, quando redditur aliquale, non quando fit secundum suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non aliqualis proponitur, sed quod est: nihil enim aliud est dicere, Socratem currere est verum, quam quod compositio cursus cum Socrate est. Et similiter quando est falsa, nihil aliud dicitur, quam quod non est: nam nihil aliud est dicere, Socratem currere est falsum, quam quod compositio cursus cum Socrate non est. Quando vero compositio dicitur possibilis aut contingens, iam non ipsam esse, sed ipsam aliqualem esse dicimus: cum siquidem dicitur, Socratem currere est possibile, non substantificamus compositionem cursus cum Socrate, sed qualificamus, asserentes illam esse possibilem. Unde Aristoteles hic modos proponens, veri et falsi nullo modo meminit, licet infra verum et non verum inferat, propter causam ibi assignandam. This kind of mode, properly speaking, is fourfold: possible, impossible, necessary, and contingent. True and false are not included because, strictly speaking, they do not seem to modify the composition even though they fall upon the composition itself, as is evident in "That Socrates runs is true,” and "That man is four-footed is false.” For something is said to be modified in the proper sense of the term when it is caused to be in a certain way, not when it comes to be according to its substance. Now, when a composition is said to be true it is not proposed that it is in a certain way, but that it is. To say, "That Socrates runs is true,” for example, is to say that the composition of running with Socrates is. The case is similar when it is false, for what is said is that it is not; for example, to say, "That Socrates runs is false” is to say that the composition of running with Socrates is not. On the other hand, when the composition is said to be possible or contingent, we are not saying that it is but that it is in a certain way. For example, when we say, "That Socrates run is possible,” we do not make the composition of running with Socrates substantial, but we qualify it, asserting that it is possible. Consequently, Aristotle in proposing the modes, does not mention the true and false at all, although later on he infers the true and the not true, and assigns the reason for it where he does this. 4 Et quia enunciatio modalis duas in se continet compositiones, alteram inter partes dicti, alteram inter dictum et modum, intelligendum est eam compositionem modificari, idest, quae est inter partes dicti, non eam quae est inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest. Huius enunciationis modalis, Socratem esse album est possibile, duae sunt partes; altera est, Socratem esse album, altera est, possibile. Prima dictum vocatur, eo quod est id quod dicitur per eius indicativam, scilicet, Socrates est albus: qui enim profert hanc, Socrates est albus, nihil aliud dicit nisi Socratem esse album: secunda vocatur modus, eo quod modi adiectio est. Prima compositionem quandam in se continet ex Socrate et albo; secunda pars primae opposita compositionem aliquam sonat ex dicti compositione et modo. Prima rursus pars, licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et praedicatum, copulam et compositionem, tota tamen subiectum est modalis enunciationis; secunda autem est praedicatum. Dicti ergo compositio subiicitur et modificatur in enunciatione modali. Qui enim dicit, Socratem esse album est possibile, non significat qualis est coniunctio possibilitatis cum hoc dicto, Socratem esse album, sed insinuat qualis sit compositio partium dicti inter se, scilicet albi cum Socrate, scilicet quod est compositio possibilis. Non dicit igitur enunciatio modalis aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti potius modum enunciat. Nec proprie componit secundum significatum, quia compositionis non est compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde nihil aliud est enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa. Since the modal enunciation contains two compositions, one between the parts of what is said, the other between what is said and the mode, it must be understood that it is the former composition that is modified, i.e., the composition between the parts of what is said, not the composition between what is said and the mode. This can be seen in an example. In the modal enunciation, "That Socrates be white is possible,” there are two parts: one, "That Socrates be white,” the other, "is possible.” The first is called the dictum because it is that which is asserted by the indicative, namely, "Socrates is white”; for in saying "Socrates is white” we are simply saying, "That Socrates be white.” The second part is called the mode because it is the addition of a restriction. The first part of the modal enunciation consists of a certain composition of Socrates and white; the second part, opposed to the first, 4 indicates a composition from the composition of dictum and mode. Again, the first part, although it has all the properties of an enunciation—subject, predicate, copula, and composition—is, in its entirety, the subject of the modal enunciation; the second part, the mode, is the predicate. In a modal enunciation, therefore, the composition of the dictum is subjected and modified; for when we say, "That Socrates be white is possible,” it does not signify the kind of conjunction of possibility there is with the dictum "That Socrates be white,” but it implies the kind of composition there is of the parts of the dictum among themselves, i.e., of white with Socrates, namely, that it is a possible composition. The modal enunciation, therefore, does not say that something is present in or not present in a subject, but rather, it enunciates a mode of the dictum. Nor properly speaking does it compose according to what is signified, since it is not a composition of the composition; rather, it adds a mode to the composition of the things. Hence the modal enunciation is simply an enunciation in which the dictum is modified. 5 Nec propterea censenda est enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat: quoniam unum modum de unica compositione enunciat, licet illius compositionis plures sint partes. Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti plura ex quibus fit unum subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod enunciationis unitatem non impediunt. Sicut nec cum dicitur, domus est alba, est enunciatio multiplex, licet domus ex multis consurgat partibus. Because the modal enunciation has everything duplicated, it must not on that account be thought to be many. It enunciates one mode of only one composition, although there are many parts of that composition. The many concurring for the composition of the dictum are like the many that concur to make one subject, of which it was said above that it does not impede the unity of the enunciation.” The enunciation, "The house is white,” is also a case in point, for it is not multiple, although a house is built of many parts. 6 Merito autem est, post enunciationes de inesse, de modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt toto priores, et cognitio totius ex partium cognitione dependet; et specialis sermo de his est habendus, quia proprias habet difficultates. Notavit quoque Aristoteles in textu multa. Horum ordinem scilicet, cum dixit: his vero determinatis etc.; modos qui et quot sunt, cum eos expressit et inseruit; variationem eiusdem modi, per affirmationem et negationem, cum dixit: possibile et non possibile, contingens et non contingens; necessitatem cum addidit: habent enim multas dubitationes proprias et cetera. Modal enunciations are rightly treated after the absolute enunciation, for parts are naturally prior to the whole, and knowledge of the whole depends on knowledge of the parts. Moreover, a special discussion of them was necessary because the modal enunciation has its own peculiar difficulties. Aristotle indicates in his text many of the things we have taken up here: the order of modal enunciations, when he says, Having determined these things, etc.; what and how many modes there are when he expresses and lists them, the variation of the same mode by affirmation and negation when he says, the possible and not possible, contingent and not contingent; the necessity of treating them, when he adds, for they have many difficulties of their own. 7 Deinde cum dicit: nam si eorum etc., exequitur tractatum de oppositione modalium. Et circa hoc duo facit: primo, movendo quaestionem arguit ad partes; secundo, determinat veritatem; ibi: contingit autem et cetera. Est autem dubitatio: an in enunciationibus modalibus fiat contradictio negatione apposita ad verbum dicti, quod dicit rem; an non, sed potius negatione apposita ad modum qui qualificat. Et primo, arguit ad partem affirmativam, quod scilicet addenda sit negatio ad verbum; secundo, ad partem negativam, quod non apponenda sit negatio ipsi verbo; ibi: videtur autem et cetera. Then he investigates the opposition of modal enunciations, where he says, Let us grant that of those things that are combined, contradictories are those opposed to each other by being related in a certain way according to "to be” and "not to be,” etc. First, he presents the question and in so doing gives arguments for the parts; secondly, he determines the truth, where he says, For it follows from what we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. The question with respect to the opposition of modals is this: Is a contradiction made in modal enunciations by a negation added to the verb of the dictum, which expresses what is; or is it not, but rather by a negation added to the mode which qualifies? Aristotle first argues for the affirmative part, that the negation must be added to the verb; then he argues for the negative part, that the negation must not be added to the verb, where he says, However it seems that the same thing is possible to be and possible not to be, etc. 8 Intendit ergo primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes esse et non esse (ut patet inductive in enunciationibus substantivis de secundo adiacente et de tertio, et in adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo sumendae sunt, contradictoria huius, possibile esse, erit, possibile non esse, et non illa, non possibile esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo, ad sumendam oppositionem in modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur, possibile esse, et, possibile non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit: nam si eorum, quae complectuntur, idest complexorum, illae sibi invicem sunt oppositae contradictiones, quae secundum esse vel non esse disponuntur, idest in quarum una affirmatur esse, et in altera negatur. His first argument is this. If of combined things, contradictions are those related according to "to be” and "not to be” (as is clear inductively in substantive enunciations with a second determinant, in those with a third determinant, and in adjectival enunciations) and all contradictions must be obtained in this way, the contradictory of "possible to be” will be "possible not to be,” and not, "not possible to be.” Consequently, the negation must be added to the verb to get opposition in modal enunciations. The consequence is clear, for when we say "possible to be” and possible not to be” the negation falls on "to be.” Accordingly, he says, Let us grant that of those things that are combined, i.e., of complex things, contradictions are those opposed to each other which are disposed according to "to be” and "not to be,” i.e., in one of which "to be” is affirmed and in the other denied. 9 Et subdit inductionem, inchoans a secundo adiacente: ut, eius enunciationis quae est, esse hominem, idest, homo est, negatio est, non esse hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est; et non est eius negatio ea quae est, esse non hominem, idest, non homo est: haec enim non est negativa, sed affirmativa de subiecto infinito, quae simul est vera cum illa prima, scilicet, homo est. He goes on to give an induction, beginning with an enunciation having a second determinant. The negation of "Man is,” is, "Man is not,” in which the verb is negated. The negation of "Man is,” is not, "Non-man is,” for this is not the negative but the affirmative of the infinite subject, which is true at the same time as the first enunciation, "Man is.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 10Deinde prosequitur inductionem in substantivis de tertio adiacente: ut, eius quae est, esse album hominem idest, ut illius enunciationis, homo est albus, negatio est, non esse album hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est albus; et non est negatio illius ea, quae est, esse non album hominem, idest, homo est non albus. Haec enim non est negativa, sed affirmativa de praedicato infinito. Et quia istae duae affirmativae de praedicato finito et infinito non possunt de eodem verificari, propterea quia sunt de praedicatis oppositis, posset aliquis credere quod sint contradictoriae; et ideo ad hunc errorem tollendum interponit rationem probantem quod hae duae non sunt contradictoriae. Est autem ratio talis. Contradictoriorum talis est natura quod de omnibus aut dictio, idest affirmatio aut negatio verificatur. Inter contradictoria siquidem nullum potest inveniri medium; sed hae duae enunciationes, scilicet, est homo albus, et, est homo non albus, sunt contradictoriae per se; ergo sunt talis naturae quod de omnibus altera verificatur. Et sic, cum de ligno sit falsum dicere, est homo albus, erit verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album hominem, idest, lignum est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum enim neque est homo albus, neque est homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est simul falsa de eodem, quod non sit inter eas contradictio. Sed contradictio fit quando negatio apponitur verbo. He continues the induction with substantive enunciations having a third determinant. The negation of the enunciation "Man is white” is "Man is not white,” in which the verb is negated. The negation is not "Man is nonwhite,” for this is not the negative, but the affirmative of the infinite predicate. Now it might be thought that the affirmatives of the finite and infinite predicates are contradictories since they cannot be verified of the same thing because of their opposed predicates. To obviate this error, Aristotle interposes an argument proving that these two are not contradictories. The nature of contradictories, he reasons, is such that either the assertion, i.e., the affirmation, or the negation, is verified of anything, for between contradictories no middle is possible. Now the two enunciations, that something "is white man” and "is nonwhite man” are per se contradictories. Therefore, they are of such a nature that one of them is verified of anything. For example, it is false to say "is white man” of wood; hence "is nonwhite man” will be true to say of it, namely of wood, i.e., "Wood is nonwhite man.” This is manifestly false, for wood is neither white man nor nonwhite man. Consequently, there is not a contradiction in the case in which each is at once false of the same subject. Therefore, contradiction is effected when the negation is added to the verb. 11 Deinde prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi, dicens: quod si hoc modo, scilicet supradicto, accipitur contradictio, et in quantiscunque enunciationibus esse non ponitur explicite, idem faciet quoad oppositionem sumendam, id quod pro esse dicitur (idest verbum adiectivum, quod locum ipsius esse tenet, pro quanto, propter eius veritatem in se inclusam, copulae officium facit), ut eius enunciationis quae est, homo ambulat, negatio est, non ea quae dicit, non homo ambulat (haec enim est affirmativa de subiecto infinito), sed negatio illius est, homo non ambulat; sicut et in illis de verbo substantivo, negatio verbo addenda erat. Nihil enim differt dicere verbo adiectivo, homo ambulat, vel substantivo, homo est ambulans. He continues his induction with enunciations having an adjective verb: Now if the case is as we have stated it, i.e., contradiction is taken as said above, then in enunciations in which "to be” is not the determining word added (explicitly), that which is said in place of "to be” will effect the same thing with respect to the opposition obtained (i.e., the adjective verb that occupies the place of "to be,” inasmuch as the truth of "to be” is included in it, effects the function of the copula). For example, the negation of the enunciation "Man walks” is not, "Non-man walks” (for this is the affirmative of the infinite subject) but "Man is not walking.” In this case, as in that of the substantive verb, the negation must be added to the verb, for there is no difference between using the adjective verb, as in "Man walks,” and using the substantive verb, as in "Man is walking.” 12 Deinde ponit secundam partem inductionis dicens: et si hoc modo in omnibus sumenda est contradictio, scilicet, apponendo negationem ad esse, concluditur quod et eius enunciationis, quae dicit, possibile esse, negatio est, possibile non esse, et non illa quae dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in illa, possibile non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non. Dixit autem in principio huius rationis: eorum quae complectuntur, idest complexorum, contradictiones fiunt secundum esse et non esse, ad differentiam incomplexorum quorum oppositio non fit negatione dicente non esse, sed ipsi incomplexo apposita, ut, homo, et, non homo, legit, et non legit. Then he posits the second part of the induction: And if this is always the case, i.e., that contradiction must be gotten by adding the negation to "to be,” we must conclude that the negation of the enunciation that asserts "Possible to be” is "possible not to be,” and not, "not possible to be.” The consequent of the conclusion is evident, for in "possible not to be” the negation is added to the verb, in "not possible to be,” it is not. At the beginning of this argument, Aristotle said, Of those things that are combined, i.e., complex things, the contradictions are effected according to "to be” and "not to be.” He said this in reference to the difference between complex and incomplex things, for opposition in the latter is not made by the negation expressing "not to be,” but by adding the negative to the incomplex thing itself, as in "man” and "non-man,” "reads” and "non-reads.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 13Deinde cum dicit: videtur autem idem etc., arguit ad quaestionis partem negativam (scilicet quod ad sumendam contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali ratione. Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed supradictae, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul verificantur de eodem; ergo istae non sunt contradictoriae: igitur contradictio modalium non attenditur penes verbi negationem. Huius rationis primo ponitur in littera minor cum sua probatione; secundo maior; tertio conclusio. Minor quidem cum dicit: videtur autem idem possibile esse, et, non possibile esse. Sicut verbi gratia, omne quod est possibile dividi est etiam possibile non dividi, et quod est possibile ambulare est etiam possibile non ambulare. Ratio autem huius minoris est, quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est possibile ambulare et dividi), non semper actu est: non enim semper actualiter ambulat, qui ambulare potest; nec semper actu dividitur, quod dividi potest. Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo non solum possibilis est affirmatio, sed etiam negatio eiusdem. Adverte quod quia possibile est multiplex, ut infra dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic, assumens, quod sic possibile est, non semper actu est. Non enim de omni possibili verum est dicere quod non semper actu est, sed de aliquo, eo scilicet quod est sic possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius quod quia tale possibile habet duas conditiones, scilicet quod potest actu esse et quod non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum dicere, possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu esse, sequitur quod sit possibile esse; ex eo vero quod non semper actu est, sequitur quod sit possibile non esse. Quod enim non semper est, potest non esse. Bene ergo intulit Aristoteles ex his duobus: quare inerit etiam negatio possibilis et non solum affirmatio; potest igitur et non ambulare, quod est ambulabile, et non videri, quod est visibile. Maior vero subiungitur, cum ait: at vero impossibile est de eodem veras esse contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: non est igitur ista (scilicet, possibile non esse) negatio illius, quae dicit, possibile esse: quia sunt simul verae de eodem. Caveto autem ne ex isto textu putes possibile, ut est modus, debere semper accipi pro possibili ad utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed considera quod satis fuit intendenti declarare quod in modalibus non sumitur contradictio ex verbi negatione, afferre instantiam in una modali, quae continetur sub modalibus de possibili. When he says, However, it seems that the same thing is possible to be and possible not to be, etc., he argues for the negative part of the question, namely, to get a contradiction in modals the negation should not be added to the verb. His reasoning is the following: It is impossible for two contradictories to be true at once of the same subject; but "possible to be” and "possible not to be” are verified at once of the same thing; therefore, these are not contradictories. Consequently, contradiction of the modals is not obtained by negation of the verb. In this reasoning, the minor is posited first, with its proof; secondly, the major; finally, the conclusion. The minor is: However, it seems that the same thing is possible to be and possible not to be. For instance, everything that has the possibility of being divided also has the possibility of not being divided, and that which has the possibility of walking also has the possibility of not walking. The proof of this minor is that everything that is possible in this way (as are possible to walk and to be divided) is not always in act; for he who is able to walk is not always actually walking, nor is that which can be divided always divided. And so the negation of the possible will also be inherent in it, i.e., therefore not only is the affirmation possible but also the negation. Notice that since the possible is manifold, as will be said further on, Aristotle explicitly adds "in this way” when he assumes here that that which is possible is not always in act. For it is not true to say of every possible that it is not always in act, but only of some, namely, those that are possible in the way in which to walk and to be divided are possible. Note also that "possible in this way” has two conditions: that it is able to be in act, and that it is not always in act. It follows necessarily, then, that it is true to say of it simultaneously that it is both possible to be and possible not to be. From the fact that it can be in act it follows that it is possible to be; from the fact that it is not always in act it follows that it is possible not to be, for that which not always is, is able not to be. Aristotle, then, rightly infers from these two: and so the negation of the possible will also be inherent in it; and not just the affirmation, for that which could walk could also not walk and that which could be seen not be seen. The major is: But it is impossible that contradictions in respect to the same thing be true. The final conclusion inferred is: Therefore, the negation of "possible to be” is not, "possible not to be” because they are true at once of the same thing. In relation to this part of the text, be careful not to suppose that possible as it is a mode, is always to be taken for possible to either of two alternatives, for this will be shown to be false later on. If you consider the matter carefully you will see that it was enough for his intention to give as an instance one modal contained under the modals of the possible in order to show that contradiction in modals is not obtained by negation of the verb. 14 Deinde cum dicit: contingit autem unum ex his etc., determinat veritatem huius dubitationis. Et quia duo petebat, scilicet, an contradictio modalium ex negatione verbi fiat an non, et, an potius ex negatione modi; ideo primo, determinat veritatem primae petitionis, quod scilicet contradictio harum non fit negatione verbi; secundo determinat veritatem secundae petitionis, quod scilicet fiat modalium contradictio ex negatione modi; ibi: est ergo negatioet cetera. Dicit ergo quod propter supradictas rationes evenit unum ex his duobus, quae conclusimus determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest affirmare et negare simul de eodem: idest, aut quod duo contradictoria simul verificantur de eodem, ut prima ratio conclusit; aut affirmationes vel negationes modalium, quae opponuntur contradictorie, fieri non secundum esse vel non esse, idest, aut contradictio modalium non fiat ex negatione verbi, ut secunda ratio conclusit. Si ergo illud est impossibile, scilicet quod duo contradictoria possunt simul esse vera de eodem, hoc, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum verbi negationem, erit magis eligendum. Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex ipso autem modo loquendi innuit quod utrique earum aliquid obstat. Sed quia primo obstat impossibilitas quae acceptari non potest, secundo autem nihil aliud obstat nisi quod negatio supra enunciationis copulam cadere debet, si negativa fieri debet enunciatio, et hoc aliter fieri potest quam negando dicti verbum, ut infra declarabitur; ideo hoc secundum, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum negationem verbi, eligendum est: primum vero est omnino abiiciendum. Aristotle establishes the truth with respect to this difficulty where he says, For it follows from what we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. Since he is investigating two things, i.e., whether contradiction of modals is made by the negation of the verb or not; and, whether it is not rather by negation of the mode, he first determines the truth in relation to the first question, namely, that contradiction of modals is not made by negation of the verb; then he determines the truth in relation to the second, namely, that contradiction of modals is made by negation of the mode, where he says, Therefore, the negation of "possible to be” is "not possible to be,” etc. Hence he says that because of the foresaid reasoning one of these two follows: first, that either the same thing, i.e., one and the same thing is said, i.e., is asserted and denied at once of the same subject, i.e., either two contradictories are verified at once of the same thing, as the first argument concluded; or secondly, that assertions and denials of modals, which are opposed contradictorily are not made by the addition of "to be” or "not to be,” i.e., contradiction of modals is not made by the negation of the verb, as the second argument concluded. If the former alternative is impossible, namely, that two contradictories can be true of the same thing at once, the latter, that contradiction of modals is not made according to negation of the verb, must obtain, for impossible things must always be avoided. His mode of speaking here indicates that there is some obstacle to each alternative. But since in the first the obstacle is an impossibility that cannot be accepted, while in the second the only obstacle is that the negation must fall upon the copula of the enunciation if a negative enunciation is to be formed, and this can be done otherwise than by denying the verb of the dictum, as will be shown later on, then the second alternative must be chosen, i.e., that the contradiction of modals is not made according to negation of the verb, and the first alternative is to be rejected. IX. 1. Determinat ubi ponenda sit negatio ad assumendam modalium contradictionem. Et circa hoc quatuor facit: primo, determinat veritatem summarie; secundo, assignat determinatae veritatis rationem, quae dicitur rationi ad oppositum inductae; ibi: fiunt enim etc.; tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus modalibus; ibi: eius veroetc.; quarto, universalem regulam concludit; ibi: universaliter vero et cetera. Quia igitur negatio aut verbo aut modo apponenda est, et quod verbo non addenda est, declaratum est per locum a divisione; concludendo determinat: est ergo negatio eius quae est possibile esse, ea quae est non possibile esse, in qua negatur modus. Et eadem est ratio in enunciationibus de contingenti. Huius enim, quae est, contingens esse, negatio est, non contingens esse. Et in aliis, scilicet de necesse et impossibile idem est iudicium. Aristotle now determines where the negation must be placed in order to obtain contradiction in modals. He first determines the truth summarily; secondly, he presents the argument for the truth of the position, which is also the answer to the reasoning induced for the opposite position, where he says, For just as "to be” and "not to be” are the determining additions in the former, and the things subjected are "white” and "man,” etc.; thirdly, he makes this truth evident in all the modals, where he says, The negation, then, of "possible not to be” is "not possible not to be,” etc.; fourthly, he arrives at a universal rule where he says, And universally, as has been said, "to be” and "not to be must be posited as the subject, etc. Since the negation must be added either to the verb or to the mode and it was shown above in virtue of an argument from division that it is not to be added to the verb, he concludes: Therefore, the negation of "possible to be” is "not possible to be”, that is, the mode is negated. The reasoning is the same with respect to enunciations of the contingent, for the negation of "contingent to be” is "not contingent to be.” And the judgment is the same in the others, i.e., the necessary and the impossible. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 2Deinde cum dicit: fiunt enim in illis appositiones etc., subdit huius veritatis rationem talem. Ad sumendam contradictionem inter aliquas enunciationes oportet ponere negationem super appositione, idest coniunctione praedicati cum subiecto; sed in modalibus appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo, ut fiat contradictio. Huius rationis, maiore subintellecta, minor ponitur in littera per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod quemadmodum in illis enunciationibus de inesse appositiones, idest praedicationes, sunt esse et non esse, idest verba significativa esse vel non esse (verbum enim semper est nota eorum quae de altero praedicantur), subiective vero appositionibus res sunt, quibus esse vel non esse apponitur, ut album, cum dicitur, album est, vel homo, cum dicitur, homo est; eodem modo hoc in loco in modalibus accidit: esse quidem subiectum fit, idest dictum significans esse vel non esse subiecti locum tenet; contingere vero et posse oppositiones, idest modi, praedicationes sunt. Et quemadmodum in illis de inesse penes esse et non esse veritatem vel falsitatem determinavimus, ita in istis modalibus penes modos. Hoc est enim quod subdit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi veritatem, quemadmodum in illis esse et non esse, eam determinat. When he says, For just as "to be” and "not to be” are the determining additions in the former, and the things subjected are "white” and "man,” etc., he gives the argument for the truth of his position. To obtain contradiction among any enunciations the negation must be applied to the determining addition, i.e., to the word that joins the predicate with the subject; but in modals the determining additions are the modes; therefore, to get a contradiction in modals, the negation must be added to the mode. The major of the argument is subsumed; the minor is stated in Aristotle’s wording by a further similitude to absolute enunciations. In absolute enunciations the determining additions, i.e., the predications, are "to be” and "not to be,” i.e., the verb signifying "to be” or "not to be” (for the verb is always a sign of those things that are predicated of another). The things subjected to the determining additions, i.e., to which to be” and "not to be” are applied, are "white,” in "White is, "or man,” in "Man is.” This happens in modals in the same way but in a manner appropriate to them. "To be” is as the subject, i.e., the dictum signifying "to be” or "not to be” holds the place of the subject; "is possible” and "is contingent,” i.e., the modes, are the predicates. And just as in absolute enunciations we determine truth or falsity with "to be” and "not to be,” so in modals with the modes. He makes this point when he says, determining additions, i.e., these modes effect truth just as "to be” and "not to be” determine truth and falsity in the others. 3. Et sic patet responsio ad argumentum in oppositum primo adductum, concludens quod negatio verbo apponenda sit, sicut illis de inesse. Dicitur enim quod cum modalis enunciet modum de dicto sicut enunciatio de inesse, esse vel esse tale, puta esse album de subiecto, eumdem locum tenet modus hic, quem ibi verbum; et consequenter super idem proportionaliter cadit negatio hic et ibi. Eadem enim, ut dictum est, proportio est modi ad dictum, quae est verbi ad subiectum. Rursus cum veritas et falsitas affirmationem et negationem sequantur, penes idem attendenda est affirmatio vel negatio enunciationis, et veritas vel falsitas eiusdem; sicut autem in enunciationibus de inesse veritas vel falsitas esse vel non esse consequitur, ita in modalibus modum. Illa namque modalis est vera quae sic modificat dictum sicut dicti compositio patitur, sicut illa de inesse est vera, quae sic significat esse sicut est. Est ergo negatio modo hic apponenda, sicut ibi verbo, cum sit eadem utriusque vis quoad veritatem et falsitatem enunciationis. Adverte quod modos, appositiones, idest, praedicationes vocavit, sicut esse in illis de inesse, intelligens per modum totum praedicatum enunciationis modalis, puta, est possibile. In cuius signum modos ipsos verbaliter protulit dicens: contingere vero et posse appositiones sunt. Contingit enim et potest, totum praedicatum modalis continent. Thus the response to the argument for the opposite position, which he gave first, is evident. That argument concluded that the negation should be added to the verb as it is in absolute enunciations. But since the modal enunciates a mode of a dictum—as the absolute enunciation enunciates "to be” or "not to be” such, for instance, "to be white” of a subject—the mode holds the same place here that the verb does there. Consequently, the negation falls upon the same thing proportionally here and there, for the proportion of mode to dictum is the same as the proportion of verb to subject. Again, since truth and falsity follow upon affirmation and negation, the affirmation and negation of an enunciation and its truth and falsity must be controlled by the same thing. In absolute enunciations truth and falsity follow upon "to be” or "not to be,” hence in the modals they follow upon the mode; for that modal is true which modifies the dictum as the composition of the dictum permits, just as that absolute enunciation is true which signifies that something is as it is. Therefore, negation is added here to the mode just as it is added there to the verb, since the power of each is the same with respect to the truth and falsity of an enunciation. Notice that he calls the modes "determining additions,” i.e., predications—as "to be” is in absolute enunciations—understanding by the mode the whole predicate of the modal enunciation, for example, "is possible.” As a sign of this he expresses the modes themselves verbally when he says, "is possible” and "is contingent” are determining additions. For "is contingent” and "is possible” comprise the whole predicate of the modal enunciation. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 4Deinde cum dicit: eius vero quod est possibile est non esse etc., explanat determinatam veritatem in omnibus modalibus, scilicet de possibili, et necessario, et impossibili. Contingens convertitur cum possibili. Et quia quilibet modus facit duas modales affirmativas, alteram habentem dictum affirmatum, et alteram habentem dictum negatum; ideo explanat in singulis modis quae cuiusque affirmationis negatio sit. Et primo in illis de possibili. Et quia primae affirmativae de possibili (quae scilicet habet dictum affirmatum) scilicet possibile esse, negatio assignata fuit, non possibile esse; ideo ad reliquam affirmativam de possibili transiens ait: eius vero, quae est possibile non esse (ubi dictum negatur) negatio est non possibile non esse. Et hoc consequenter probat per hoc quod contradictoria huius, possibile non esse, aut est, possibile esse, aut illa, quam diximus, scilicet, non possibile non esse. Sed illa, scilicet, possibile esse, non est eius contradictoria. Non enim sunt sibi invicem contradicentes, possibile esse, et, possibile non esse, quia possunt simul esse verae. Unde et sequi sese invicem putabuntur: quoniam, ut supra dictum fuit, idem est, possibile esse, et, non esse, et consequenter sicut ad, posse esse, sequitur, posse non esse, ita e contra ad, posse non esse, sequitur, posse esse; sed contradictoria illius, possibile esse, quae non potest simul esse vera est, non possibile esse: hae enim, ut dictum est, opponuntur. Remanet ergo quod huius negatio, possibile non esse, sit illa, non possibile non esse: hae namque simul nunquam sunt verae vel falsae. Dixit quod possibile esse et non esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se invicem consequuntur: quia secundum veritatem universaliter non sequuntur se, sed particulariter tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur quod simpliciter se invicem sequantur. Deinde declarat hoc idem in illis de necessario. Et primo, in affirmativa habente dictum affirmatum, dicens: similiter eius quae est, necessarium esse, negatio non est ea, quae dicit necessarium non esse, ubi modus non negatur, sed ea quae est, non necessarium esse. Deinde subdit de affirmativa de necessario habente dictum negatum, et ait: eius vero, quae est, necessarium non esse, negatio est ea, quae dicit, non necessarium non esse. Deinde transit ad illas de impossibili, eumdem ordinem servans, et inquit: et eius, quae dicit, impossibile esse, negatio non est ea quae dicit, impossibile non esse, sed, non impossibile esse: ubi iam modus negatur. Alterius vero affirmativae, quae est, impossibile non esse, negatio est ea quae dicit non impossibile non esse. Et sic semper modo negatio addenda est. When he says, The negation, then, of "possible not to be” is [not, "not possible to be” but] "not possible not to be,” etc., he makes this truth evident in all the modals, i.e., the possible, the necessary, and the impossible (the contingent being convertible with the possible). And since any mode makes two modal affirmatives, one having an affirmed dictum and the other having a negated dictum, he shows what the negation of each affirmation is in each mode. First he takes those of the possible. The negation of the first affirmative of the possible (the one with an affirmed dictum), i.e., "possible to be,” was assigned as "not possible to be.” Hence, going on to the remaining affirmative of the possible he says, The negation, then, of "possible not to be” [wherein the dictum is negated] is, "not possible not to be.” Then he a proves this. The contradictory of "possible not to be” is either "Possible to be” or "not possible not to be.” But the former, i.e., "possible to be,” is not the contradictory of "possible not to be,” for they can be at once true. Hence they are also thought to follow upon each other, for, as was said above, the same thing is possible to be and not to be. Consequently, just as "possible not to be” follows upon "possible to be,” so conversely "possible to be” follows upon "possible not to be.” But the contradictory of "possible to be,” which cannot be true at the same time, is "not possible to be,” for these, as has been said, are opposed. Therefore, the negation of "possible not to be” is, "not possible not to be,” for these are never at once true or false. Note that he says, Wherefore "possible to be” and "possible not to be” would appear to be consequent to each other, and not that they do follow upon each other, for it is not true that they follow upon each other universally, but only particularly (as will be said later); this is the reason they appear to follow upon each other simply. Then he manifests the same thing in the modals of the necessary, and first in the affirmative with an affirmed dictum: The case is the same with respect to the necessary. The negation of "necessary to be” is not, "necessary not to be” (in which the mode is not negated) but, "not necessary to be.” Next he adds the affirmative of the necessary with a negated dictum: and the negation of "necessary not to be is "not necessary not to be.” Next, he takes up the impossible, keeping the same order. The negation of "impossible to be” is not, "impossible not to be” but, "not impossible to be,” in which the mode is negated. The negation of the other affirmative, "impossible not to be” is "not impossible not to be.” The negation, therefore, is always added to the mode. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 5Deinde cum dicit: universaliter vero etc., concludit regulam universalem dicens quod, quemadmodum dictum est, dicta importantia esse et non esse oportet ponere in modalibus ut subiecta, negationem vero et affirmationem hoc, idest contradictionis oppositionem, facientem, oportet apponere tantummodo ad suum eumdem modum, non ad diversos modos. Debet namque illemet modus negari, qui prius affirmabatur, si contradictio esse debet. Et exemplariter explanans quomodo hoc fiat, subdit: et oportet putare has esse oppositas dictiones, idest affirmationes et negationes in modalibus, possibile et non possibile, contingens et non contingens. Item cum dixit negationem alio tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit modi copulam, sed dictum. Hoc enim est singulare in modalibus quod eamdem oppositionem facit, negatio modo addita, et eius verbo. Contradictorie enim opponitur huic, possibile est esse, non solum illa, non possibile est esse, sed ista, possibile non est esse; meminit autem modi potius, et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet insinuaret quod negatio verbo modi postposita, modo autem praeposita, idem facit ac si modali verbo praeponeretur, et quia, cum modo numquam caret modalis enunciatio, semper negatio supra modum poni potest. Non autem sic de eius verbo: verbo enim modi carere contingit modalem, ut cum dicitur, Socrates currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari potest. Quod autem in fine addidit, verum et non verum, insinuat, praeter quatuor praedictos modos, alios inveniri, qui etiam compositionem enunciationis determinant, puta, verum et non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter modos supra non posuit, quia, ut declaratum fuit, non proprie modificant. Then he says, And universally, as has been said, "to be”and "not to be” must be posited as the subject, and those that produce affirmation and negation must be joined to "to be” and "not to be,” etc. Here he concludes with the universal rule. As has been said, the dictums denoting "to be” and "not to be” must be posited in the modals as subjects, and the one making this an affirmation and negation, i.e., the opposition of contradiction, must be added only to the selfsame mode, not to diverse modes, for the selfsame mode which was previously affirmed must be denied if there is to be a contradiction. He gives examples of how this is to be done when he adds, And these are the words that are to be considered opposed, i.e., affirmations and negations in modals, possible–not possible, contingent–not contingent. Moreover, when he said elsewhere but in another way that the negation must be applied only to the mode, he did not exclude the copula of the mode, but the copula of the dictum. For it is unique to modals that the same opposition is made by adding a negation to the mode and to its verb. The contradictory of "is possible to be,” for instance, is not only "is not possible to be,” but also "not is possible to be.” There are two reasons, however, for his mentioning the mode rather than the verb: first, for the reason we have just given, namely, so as to imply that the negation placed after the verb of the mode, the mode having been put first, accomplishes the same thing as if it were placed before the modal verb; and secondly, because the modal enunciation is never without a mode; hence the negation can always be put on the mode. However, it cannot always be put on the verb of a mode, for the modal enunciation may lack the verb of a mode as for example in "Socrates runs necessarily,” in which case the negation can always be adapted to the verb. In adding "true” and "not true” at the end he implies that besides the four modes mentioned previously there are others that also determine the composition of the enunciation, for example, "true” and "not true,” "false” and "not false”; nevertheless he did not posit these among the modes first given because, as was shown, they do not properly modify. X. 1. Postquam determinavit de oppositione modalium, hic determinare intendit de consequentiis earum. Et circa hoc duo facit: primo, tradit veritatem; secundo, movet quandam dubitationem circa determinata; ibi: dubitabit autem et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit consequentias earum secundum opinionem aliorum; secundo, examinando et corrigendo dictam opinionem, determinat veritatem; ibi: ergo impossibile et cetera. Having established the opposition of modals, Aristotle now intends to determine their consequents. He first presents the true doctrine; then, he raises a difficulty where he says, But it may be questioned whether "Possible to be follows upon "necessary to be,” etc. In presenting the true doctrine, he first posits the consequents of the opposition of modals according to the opinion of others; secondly, he determines the truth by examining and correcting their opinion, where he says, Now the impossible and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc. 2 Quoad primum considerandum est quod cum quilibet modus faciat duas affirmationes, ut dictum fuit, et duabus affirmationibus opponantur duae negationes, ut etiam dictum fuit in primo; secundum quemlibet modum fient quatuor enunciationes, duae scilicet affirmativae et duae negativae. Cum autem modi sint quatuor, efficientur sexdecim modales: quaternarius enim in seipsum ductus sexdecim constituit. Et quoniam apud omnes, quaelibet cuiusque modi, undecumque incipias, habet unam tantum cuiusque modi se consequentem, ideo ad assignandas consequentias modalium, singulas ex singulis modis accipere oportet et ad consequentiae ordinem inter se adunare. Before we consider these consequents according to the opinion of others, we must first note that since any mode makes two affirmations and there are two negations opposed to these, there will be four enunciations according to any one mode, two affirmatives and two negatives. And since there are four modes, there will be sixteen modals. Among these sixteen, anyone of each mode, from wherever you begin, has only one of each mode following upon it. Hence, to assign the consequents of the modals, we have to take one from each mode and arrange them among themselves to form an order of consequents. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 3Et hoc modo fecerunt antiqui, de quibus inquit Aristoteles: consequentiae vero fiunt secundum infrascriptum ordinem, antiquis ita ponentibus. Formaverunt enim quatuor ordines modalium, in quorum quolibet omnes quae se consequuntur collocaverunt. Ut autem confusio vitetur, vocetur, cum Averroe, de caetero, in quolibet modo, affirmativa de dicto, et modo, affirmativa simplex; affirmativa autem de modo et negativa de dicto, affirmativa declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa simplex; negativa autem de utroque, negativa declinata: ita quod modi affirmationem vel negationem simplicitas, dicti vero declinatio denominet. Dixerunt ergo antiqui quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet, possibile est esse, sequitur affirmativa simplex de contingenti, scilicet, contingens est esse (contingens enim convertitur cum possibili); et negativa simplex de impossibili, scilicet, non impossibile esse; et similiter negativa simplex de necessario, scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo modalium consequentium se. In secundo autem dixerunt quod affirmativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, possibile non esse, et, contingens non esse, sequuntur negativae declinatae de necessario et impossibili, scilicet, non necessarium non esse, et, non impossibile non esse. In tertio vero ordine dixerunt quod negativas simplices de possibili et contingenti, scilicet, non possibile esse, non contingens esse, sequuntur affirmativa declinata de necessario, scilicet, necesse non esse, et affirmativa simplex de impossibili, scilicet, impossibile esse. In quarto demum ordine dixerunt quod negativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, non possibile non esse, et, non contingens non esse, sequuntur affirmativa simplex de necessario, scilicet, necesse esse, et affirmativa declinata de impossibili, scilicet, impossibile est non esse. The modals were ordered in this way by the ancients. They disposed them in four orders placing together in each order those that were a consequent to each other. Aristotle speaks of this order when he says, Logical consequents follow according to the order in the table below, which is the way in which the ancients posited them. Henceforth, however, to avoid confusion let us call the affirmative of dictum and mode in any one mode, the simple affirmative, as it is by Averroes, among others; affirmative of mode and negative of dictum, the declined affirmative; negative of mode and not of dictum, the simple negative; negative of both mode and dictum, the declined negative. Hence, simplicity of mode designates affirmation or negation, and so, too, does declination of dictum. The ancients said, then, that simple affirmation of the contingent, i.e., "contingent to be” follows upon simple affirmation of the possible, i.e., "Possible to be” (for the contingent is converted with the possible); the simple negative of the impossible also follows upon this, i.e., "not impossible to be”; and the simple negative of the necessary, i.e., "not necessary to be.” This is the first order of modal consequents. In the second order they said that the declined negatives of the necessary and impossible, i.e., "not necessary not to be” and "not impossible not to be,” follow upon the declined affirmative of the possible and the contingent, i.e., "possible not to be” and "contingent not to be.” In the third order, according to them, the declined affirmative of the necessary, i.e., "necessary not to be,” and the simple affirmative of of the impossible, i.e., "impossible to be,” follow upon the simple negatives of the possible and the contingent, i.e., "not possible to be” and not contingent to be.” Finally, in the fourth order, the simple affirmative of the necessary, i.e., "necessary to be,” and the declined affirmative of the impossible, i.e., "impossible not to be,” follow upon the declined negatives of the possible and the contingent, i.e., "not possible not to be” and "not contingent not to be.” 4 Consideretur autem ex subscriptione appositae figurae, quemadmodum dicimus, ut clarius elucescat depictum. Consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab antiquis positae et ordinatae. (Figura). To make this ordering more evident, let us consider it with the help of the following table. CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS IN THE FOUR ORDERS POSITED AND ORDERED BY THE ANCIENTS FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 5Deinde cum dicit: ergo impossibile et non impossibile etc., examinando dictam opinionem, determinat veritatem. Et circa hoc duo facit: quia primo examinat consequentias earum de impossibili; secundo, illarum de necessario; ibi: necessarium autem et cetera. Unde ex praemissa opinione concludens et approbans, dicit: ergo istae, scilicet, impossibile, et, non impossibile, sequuntur illas, scilicet, contingens et possibile, non contingens, et, non possibile, sequuntur, inquam, contradictorie, idest ita ut contradictoriae de impossibili contradictorias de possibili et contingenti consequantur, sed conversim, idest, sed non ita quod affirmatio affirmationem et negatio negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem negatio et negationem affirmatio. Et explanans hoc ait: illud enim quod est possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio sequitur impossibilis, idest, non impossibile esse; negationem vero possibilis affirmatio sequitur impossibilis. Illud enim quod est, non possibile esse, sequitur ista, impossibile est esse; haec autem, scilicet, impossibile esse, affirmatio est; illa vero, scilicet, non possibile esse, negatio est: hic siquidem modus negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt antiqui in quolibet ordine quoad consequentias illarum de impossibili, quia, ut in suprascripta figura apparet, semper ex affirmatione possibilis negationem impossibilis, et ex negatione possibilis affirmationem impossibilis inferunt.When he says, Now the impossible and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc., he determines the truth by examining the foresaid opinion. First, he examines the consequents of enunciations predicating impossibility; secondly, those predicating necessity, where he says, Now we must consider how enunciations predicating necessity are related to these, etc. From the opinion advanced, then, he concludes with approval that the impossible and the not impossible follow upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, contradictorily, i.e., the contradictories of the impossible follow upon the contradictories of the possible and the contingent, but inversely, i.e., not so that affirmation follows upon affirmation and negation upon negation, but inversely, i.e., negation follows upon affirmation and affirmation upon negation. He explains this when he says, The negation of "impossible to be” follows upon "possible to be,” i.e., the negation of the impossible, i.e., "not impossible to be,” follows upon the affirmation of the possible, and the affirmation of the impossible follows upon the negation of the possible. For the affirmation, "impossible to be” follows upon the negation, "not possible to be.” In the latter the mode is negated, in the former it is not. Therefore, the ancients were right in saying that in any order, the consequences of enunciations predicating impossibility are as follows: from affirmation of the possible, negation of the impossible is inferred; and from negation of the possible, affirmation of the impossible is inferred. This is apparent in the diagram. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 6Deinde cum dicit: necessarium autem etc., intendit examinando determinare consequentias de necessario. Et circa hoc duo facit: primo examinat dicta antiquorum; secundo, determinat veritatem intentam; ibi: at vero neque necessarium et cetera. Circa primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et quid male dictum sit ab antiquis in hac re. Ubi attendendum est quod cum quatuor sint enunciationes de necessario, ut dictum est, differentes inter se secundum quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis iuxta morem illarum de inesse; duae earum sunt contrariae inter se, duae autem illis contrariis contradictoriae, ut patet in hac figura. (Figura). Quia ergo antiqui universales contrarias bene intulerunt ex aliis, contradictorias autem earum, scilicet particulares, male intulerunt; ideo dicit quod considerandum restat de his, quae sunt de necessario, qualiter se habeant in consequendo illas de possibili et non possibili. Manifestum est autem ex dicendis quod non eodem modo istae de necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem sequuntur illae de impossibili. Nam omnes enunciationes de impossibili recte illatae sunt ab antiquis. Enunciationes autem de necessario non omnes recte inferuntur: sed duae earum, quae sunt contrariae, scilicet, necesse est esse, et, necesse est non esse, sequuntur, idest recta consequentia deducuntur ab antiquis, in tertio scilicet et quarto ordine; reliquae autem duae de necessario, scilicet, non necesse non esse, et, non necesse esse, quae sunt contradictoriae supradictis, sunt extra consequentias illarum, in secundo scilicet et primo ordine. Unde antiqui in tertio et quarto ordine omnia recte fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed quoad enunciationes de necessario tantum. When he says, Now we must consider how enunciations predicating necessity are related to these, etc., he proposes an examination of the consequents of enunciations predicating necessity in order to determine the truth about them. First he examines what was said by the ancients; secondly, he determines the truth, where he says, But in fact neither " necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be,” etc. In his examination of the ancients, Aristotle makes four points. First, he shows what was well said by the ancients and what was badly said. It must be noted in regard to this that, as we have said, there are four enunciations predicating necessity, which differ among themselves in quantity and quality, and hence they make up a diagram of opposition in the manner of the absolute enunciations. Two of them are contrary to each other, and two are contradictory to these contraries, as is clear in the diagram below. necessary to be contraries necessary not to be not necessary not to be subcontraries not necessary to be Now the ancients correctly inferred the universal contraries from the possibles, contingents, and impossibles, but incorrectly inferred their contradictories, namely, particulars. This is the reason Aristotle says that it remains to be considered how enunciations predicating necessity are related consequentially to the possible and not possible. From what Aristotle says, it is clear that those predicating necessity do not follow upon the possibles in the same way as those predicating impossibility follow upon the possibles, for all of the enunciations predicating impossibility were correctly inferred by the ancients, but those predicating necessity were not. Two of them, the contraries, "necessary to be” and "necessary not to be,” follow, i.e., correct consequents were deduced by the ancients in the third and fourth orders; the remaining two, "not necessary not to be” and "not necessary to be,” which are contradictories of the contraries, are outside of the consequents of these, i.e., in the second and first orders. Hence, the ancients represented everything correctly in the third and fourth orders, but in the first and second they erred, not with respect to all things, but only with respect to enunciations predicating necessity. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 7Secundo cum dicit: non enim est negatio eius etc., respondet cuidam tacitae obiectioni, qua defendi posset consequentia enunciationis de necessario in primo ordine ab antiquis facta. Est autem obiectio tacita talis. Non possibile esse, et, necesse non esse, convertibiliter se sequuntur in tertio ordine iam approbato; ergo, possibile esse, et, non necesse esse, invicem se sequi debent in primo ordine. Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter se sequentium contradictoria mutuo se sequuntur; sed illae duae tertii ordinis convertibiliter se sequuntur, et istae duae primi ordinis sunt earum contradictoriae; ergo istae primi ordinis, scilicet, possibile esse, et, non necesse esse, mutuo se sequuntur. Huic, inquam, obiectioni respondet Aristoteles hic interimendo minorem quoad hoc quod assumit, quod scilicet necessaria primi ordinis et necessaria tertii ordinis sunt contradictoriae. Unde dicit: non enim est negatio eius quod est, necesse non esse (quae erat in tertio ordine), illa quae dicit, non necesse est esse, quae sita erat in primo ordine. Et causam subdit, quia contingit utrasque simul esse veras in eodem; quod contradictoriis repugnat. Illud enim idem, quod est necessarium non esse, non est necessarium esse. Necessarium siquidem est hominem non esse lignum et non necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut infra patebit, istae duae de necessario, quas posuerunt antiqui in primo et tertio ordine, sunt subalternae (et ideo sunt simul verae), et deberent esse contradictoriae; et ideo erraverunt antiqui. Secondly, he says, For the negation of "necessary not to be” is not "not necessary to be,” since both may be true of the same subject, etc. Here he replies to a tacit objection. This reply could be used to defend the consequent of the enunciation of the necessary made by the ancients in the first order. The tacit objection is this: "not possible to be” and "necessary not to be” follow convertibly in the third order which has already been shown to be correct; therefore, "possible to be” and "not necessary to be” ought to follow upon each other in the first order. The consequent holds; for the contradictories of two that convertibly follow upon each other, mutually follow upon each other; but those two follow upon each other convertibly in the third order and these two in the first order are their contradictories; therefore, those of the first order, i.e., "possible to be” and "not necessary to be,” mutually follow upon each other. Aristotle replies here to this objection by destroying what was assumed in the minor, i.e., that the necessary of the first order and the necessary of the third order are contradictories. He says, For the negation of "necessary not to be” (which is in the third order) is not "not necessary to be” (which has been placed in the first order). He also gives the reason: it is possible for both to be true at once of the same subject, which is repugnant to contradictories. For the same thing which is necessary not to be, is not necessary to be; for example, it is necessary that man not be wood and it is not necessary that man be wood. Notice, as will be clear later, that these two which the ancients posited in the first and third orders, are subalterns and therefore are at once true, whereas they should be contradictories; hence the ancients were in error. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 8Boethius autem et Averroes non reprehensive legunt tam hanc, quam praecedentem textus particulam, sed narrative utramque simul iungentes. Narrare enim aiunt Aristotelem qualitatem suprascriptae figurae quoad consequentiam illarum de necessario, postquam narravit quo modo se habuerint illae de impossibili, et dicere quod secundum praescriptam figuram non eodem modo sequuntur illas de possibili illae de necessario, quo sequuntur illae de impossibili. Nam contradictorias de possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet conversim; contradictoriae autem de necessario non dicuntur sequi illas contradictorias de possibili, sed potius eas sequi dicuntur contrariae de necessario: non inter se contrariae, sed hoc modo, quod affirmationem possibilis negatio de necessario sequi dicitur, negationem vero possibilis non affirmatio de necessario sequi ponitur, quae sit contradictoria illi negativae quae ponebatur sequi ad possibilem, sed talis affirmationis de necessario contrario. Et quod hoc ita fiat in illa figura ut dicimus, patet ex primo et tertio ordine, quorum capita sunt negatio et affirmatio possibilis, et extrema sunt, non necesse esse, et, necesse non esse. Hae siquidem non sunt contradictoriae. Non enim est negatio eius, quae est, necesse non esse, non necesse esse (quoniam contingit eas simul verificari de eodem), sed illa scilicet, necesse non esse, est contraria contradictoriae huius, scilicet, non necesse esse, quae est, necesse est esse. Sed quia sequenti litterae magis consona est introductio nostra, quae etiam Alberto consentit, et extorte videtur ab aliis exponi ly contrariae, ideo prima, iudicio meo, acceptanda est expositio et ad antiquorum reprehensionem referendus est textus. Boethius and Averroes read both this and the preceding part of the text, not reprovingly, but as explanatorily joined together. They say Aristotle explains the quality of the above table with respect to the consequents of enunciations predicating necessity after he has explained in what way those predicating impossibility are related. What Aristotle is saying, then, is that those of the necessary do not follow those of the possible in the same way as those of the impossible follow upon the possible. For contradictories of the impossible follow upon contradictories of the possible, although inversely; but contradictories of the necessary are not said to follow the contradictories of the possible, but rather the contraries of the necessary follow upon them. It is not the contraries among themselves that follow, but contraries in this way: the negation of the necessary is said to follow upon the affirmation of the possible; but what follows on the negation of this possible is not the affirmation of the necessary contradictory to that negative of the necessary following upon the possible, but the contrary of such an affirmation of the necessary. That this is the case is evident in the first and third orders. The sources are negation and affirmation of the possible, and the extremes are "not necessary to be” and "necessary not to be.” But these are not contradictories, for the negation of "necessary not to be” is not "not necessary to be,” for it is possible for them to be at once true of the same thing. "Necessary not to be” is the contrary of the contradictory of "not necessary to be,” which contradictory is "necessary to be.” In my judgment, however, the first exposition should be accepted and this portion of the text taken as a reproof of the ancients, because the contraries seem to be explained in a forced way by others, whereas our introduction is more in accord with what follows in the next part of the text; in addition, it agrees with Albert’s interpretation. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 9Tertio cum dicit: causa autem cur etc., manifestat id quod praemiserat, scilicet, quod non simili modo ad illas de possibili sequuntur illae de impossibili et illae de necessario. Antiquorum enim hoc peccatum fuit tam in primo quam in secundo ordine, et quod simili modo intulerunt illas de impossibili et necessario. In primo siquidem ordine, sicut posuerunt negativam simplicem de impossibili, ita posuerunt negativam simplicem de necessario, et similiter in secundo ordine utranque negativam declinatam locaverunt. Hoc ergo quare peccatum sit, et causa autem quare necessarium non sequitur possibile, similiter, idest, eodem modo cum caeteris, scilicet, de impossibili, est, quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest, aequivalet necessario, contrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo. Nam si, hoc esse est impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est necesse, sed, hoc non esse est necesse. Quia ergo impossibile et necesse mutuo se sequuntur, quando dicta eorum contrario modo sumuntur, et non quando dicta eorum simili modo sumuntur, sequitur quod non eodem modo ad possibile se habeant impossibile et necessarium, sed contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur dictum affirmatum de impossibili, sequitur dictum negatum de necessario; et e contrario. Quare autem hoc accidit infra dicetur. Erraverunt igitur antiqui quod similes enunciationes de impossibili et necessario in primo et in secundo ordine locaverunt. Thirdly, he says, Now the reason why enunciations predicating necessity do not follow in the same way as the others, etc. Here Aristotle shows why enunciations predicating impossibility and necessity do not follow in a similar way upon those predicating possibility. This was the error made by the ancients in both the first and second orders, for in the first order they posited the simple negative of the impossible, and in a similar way the simple negative of the necessary, and in the second order their declined negatives, the reason being that they inferred those predicating impossibility and necessity in a similar way. The cause of this error, then, and the reason why enunciations predicating necessity do not follow the possible in the same way, i.e., in a similar mode, as the others, i.e., as the impossibles, is that the impossible expresses the same meaning as the necessary, i.e., is equivalent to the necessary, contrarily, i.e., taken in a contrary mode, and not in the same mode. For if something is impossible to be, we do not infer, therefore it is necessary to be, but it is necessary not to be. Since, therefore, the impossible and necessary mutually follow each other when their dictums are taken in a contrary mode—and not when their dictums are taken in a similar mode — it follows that the impossible and necessary are not related in the same way to the possible, but in a contrary way. For the negated dictum of the necessary follows upon that possible which follows the affirmed dictum of the impossible, and contrarily. Why this is so will be explained later. Therefore, the ancients erred when they located similar enunciations of the impossible and necessary in the first and in the second orders. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 10 Hinc apparet quod supra posita nostra expositio conformior est Aristoteli. Cum enim hunc textum induxerit ad manifestandum illa verba: manifestum est autem quoniam non eodem modo, etc., eo accipiendo sunt sensu illa verba, quo hic per causam manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis verae inter necessarias et impossibiles in consequendo possibiles, et non dissimilitudinis falso opinatae ab antiquis: quoniam ex vera causa nonnisi verum concluditur. Ergo reprehendendo antiquos, veram dissimilitudinem inter necessarias, et impossibiles in consequendo possibiles, quam non servaverunt illi, proposuisse tunc intelligendum est, et nunc eam manifestasse. Quod autem dissimilitudo illa, quam antiqui posuerunt inter necessarias et impossibiles, sit falso posita, ex infra dicendis patebit. Ostendetur enim quod contradictorias de possibili contradictoriae de necessario sequuntur conversim; et quod in hoc non differunt ab his quae sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod modo diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum est similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium dictum est contrarium, ut infra clara luce videbitur. Hence it appears that our exposition is more in conformity with Aristotle. For he introduced this text to manifest these words: It is evident that the case here is not the same, etc. By taking this meaning, then, these words are made clear through the cause. Moreover, it is evident that here the cause is given of a true dissimilitude between necessaries and impossibles in following the possibles, and not of a dissimilitude falsely held by the ancients, for from a true cause only the truth is concluded. Therefore in reproving the ancients it must be understood that a true dissimilitude between the necessary and impossible in following the possible, which they did not beed, has been proposed, and now has been made manifest. It will be clear from what will be said later that the dissimilitude posited by the ancients between the necessary and impossible is falsely posited, for it will be shown that contradictories of the necessary follow contradictories of the possible inversely, and that in this they do not differ from enunciations predicating impossibility. They do differ, however, in the way we have indicated, i.e., the dictum of the possibles and of the impossibles following on them is similar, but the dictum of the possibles and of the necessaries following on them is contrary, as will be seen clearly later. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 11 Quarto cum dicit: aut certe impossibile est etc., manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod contradictoriae de necessario male situatae sint secundum consequentiam ab antiquis, qui contradictiones necessarii ita ordinaverunt. In primo ordine posuerunt contradictoriam negationem, necesse esse, idest, non necesse esse; et in secundo contradictoriam negationem, necesse non esse, idest, non necesse non esse. Et probat hunc consequentiae modum esse malum in primo ordine. Cognita enim malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum. Probat autem hoc tali ratione ducente ad impossibile. Ad necessarium esse sequitur possibile esse: aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste implicat; ad possibile esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad non impossibile esse, secundum antiquos, sequitur in primo ordine non necessarium esse; ergo de primo ad ultimum, ad necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod est inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo quod male dictum sit, quod non necessarium esse consequatur in primo ordine. Ait ergo et certe impossibile est poni sic secundum consequentiam, ut antiqui posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas duas enunciationes de necessario, quae sunt negationes contradictoriae aliarum duarum de necessario. Nam ad id quod est, necessarium esse, sequitur, possibile est esse: nam si non, idest quoniam si hanc negaveris consequentiam, negatio possibilis sequitur illam, scilicet, necesse esse. Necesse est enim de necessario aut dicere, idest affirmare possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel negatio vera. Quare si dicas quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile esse, sed, non possibile est esse; cum haec aequivaleat illi quae dicit, impossibile est esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile esse, et idem erit, necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens. Bona ergo erat prima illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est esse. Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse, sequitur, non impossibile esse, ut patet in primo ordine. Ad hoc vero, scilicet, non impossibile esse, secundum antiquos eodem primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare contingit de primo ad ultimum); ad id quod est, necessarium esse, sequitur, non necessarium esse: quod est inconveniens, immo impossibile. Fourthly, when he says, Or is it impossible to arrange the contradictions of enunciations predicating necessity in this way? he manifests another point he had proposed, namely, that contradictories of enunciations predicating necessity were badly placed according to consequence by the ancients when they ordered them thus: the contradictory negation to "necessary to be,” i.e., "not necessary to be,” in the first order, and the contradictory negation to "necessary not to be,” i.e., "not necessary not to be,” in the second. Aristotle only proves that this mode of consequence is incorrect in the first order, for when this is known the mistake in the second order is readily seen. He does this by an argument leading to an impossibility. "Possible to be” follows upon "necessary to be”; otherwise "not possible to be” would follow, which it manifestly implies. "Not impossible to be” follows upon "possible to be” as is evident, and, according to the ancients, in the first order, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be.” Therefore, from first to last, "not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is inadmissible because there is an obvious implication of contradiction. Therefore, it is erroneous to say that "not necessary to be” follows in the first order. He says, then, that in fact it is impossible to posit contradictions of the necessary according to consequence as the ancients posited them, i.e., in the first order the contradictory negation of "necessary to be,” i.e., "not necessary to be” and in the second the contradictory negation of "necessary not to be,” i.e., "not necessary not to be.” For "possible to be” follows upon "necessary to be”; if not, i.e., if you deny this consequence, the negation of the possible follows upon "necessary to be,” since the possible must either be asserted of the necessary or denied, the reason being that of anything there is a true affirmation or a true negation. Therefore, if you say that "possible to be” does not follow upon "necessary to be,” but "not possible to be” does follow, then, since the latter is equivalent to the former, i.e., "not possible to be” to "impossible to be,” "impossible to be” follows upon "necessary to be” and the same thing will be "necessary to be” and "impossible to be,” which cannot be admitted. Consequently, the first inference was good, i.e., "It is necessary to be, therefore it is possible to be.” But again, "possible to be” follows upon "not impossible to be,” as is evident in the first order, and according to the ancients, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be” in the same first order. Therefore, from first to last we arrive at this: "not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is unlikely, not to say impossible. 12 Dubitatur hic: quia in I priorum dicitur quod ad possibile sequitur non necessarium, hic autem dicitur oppositum. Ad hoc est dicendum quod possibile sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est quoddam superius ad necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad hominem et bovem; et sic ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad animal non sequitur non homo. Alio modo sumitur possibile pro una parte possibilis in communi, idest pro possibili seu contingenti, scilicet ad utrunque, scilicet quod potest esse et non esse; et sic ad possibile sequitur non necessarium. Quod enim potest esse et non esse, non necessarium est esse, et similiter non necessarium est non esse. Loquimur ergo hic de possibili in communi, ibi vero in speciali. There is a doubt about this, for in I Priorum [13: 32a 28 and 32b 15], it is said that the not necessary follows upon the possible, while here the opposite is said. The possible, however, is taken in two ways: commonly, and thus it is superior to the necessary and the contingent to either of two alternatives, as is the case with animal in relation to man and cow; taken in this way, the not necessary does not follow upon the possible, just as not-man does not follow upon animal. In another way the possible is taken for one part of the possible commonly, i.e., for the possible or contingent to either of two alternatives, namely, for what can be and not be. The not necessary follows upon the possible taken in this way, for what can be and not be is not necessary to be, and likewise is not necessary not to be. In the Prior Analytics, then, Aristotle is speaking of the possible in particular; here of the possible commonly. 13 Deinde cum dicit: at vero neque necessarium etc., determinat veritatem intentam. Et circa hoc tria facit: primo, determinat quae enunciatio de necessario sequatur ad possibile; secundo, ordinat consequentias omnium modalium; ibi: sequuntur enim et cetera. Quoad primum, sicut duabus viis reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis intentum probat. Et intendit quod, ad possibile esse, sequitur, non necesse non esse. Primum motivum est per locum a divisione. Ad, possibile esse, non sequitur (ut probatum est), non necesse esse, at vero neque, necesse esse, neque, necesse non esse. Reliquum est ergo ut sequatur ad eam, non necesse non esse: non enim dantur plures enunciationes de necessario. Huius communis divisionis primo proponit reliqua duo membra excludenda, dicens: at vero neque necessarium esse, neque necessarium non esse, sequitur ad possibile non esse; secundo probat hoc sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc enim oppositum consequentis staret cum antecedente; sed utrumque horum, scilicet, necesse esse, et, necesse non esse, minuit possibile esse; ergo, et cetera. Unde, tacita maiore, ponit minoris probationem dicens: illi enim, scilicet, possibile esse, utraque, scilicet, esse et non esse, contingit accidere; horum autem, scilicet, necesse esse et necesse non esse, utrumlibet verum fuerit, non erunt illa duo, scilicet, esse et non esse, vera simul in potentia. Et primum horum explanans ait: cum dico, possibile esse, simul est possibile esse et non esse. Quoad secundum vero subdit. Si vero dicas, necesse esse vel necesse non esse, non remanet utrumque, scilicet, esse et non esse, possibile: si enim necesse est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si necesse est non esse, possibilitas ad esse removetur. Utrumque ergo istorum minuit illud antecedens, possibile esse, quoniam ad esse et non esse se extendit, et cetera. Tertio subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non necessarium non esse, comes est ei quae dicit, possibile esse; et consequenter haec ponenda erit in primo ordine. When he says, But in fact neither "necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be,” etc., he determines the truth. First he determines which enunciation of the necessary follows upon the possible; secondly, he orders the consequents of all of the modals, where he says, Thus, these contradictions also follow in the way indicated, etc. Aristotle has reproved the ancients in two ways; on the basis of these two he now proves which enunciation of the necessary follows upon the possible. What he intends to show is that "not necessary not to be” follows upon "possible to be.” The first argument is taken from a locus of division. "Not necessary to be” does not follow upon possible to be” (as has been proved), but neither does "necessary to be” nor "necessary not to be.” Therefore, "not necessary not to be” follows upon "possible to be,” since there are no more enunciations of the necessary. He first proposes the remaining two members that are to be excluded from this common division: But in fact neither "necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be.” Then he proves this: no formal consequent diminishes its antecedent, for if it did, the opposite of the consequent would stand with the antecedent; but both of these, namely, "necessary to be” and "necessary not to be,” diminish possible to be”; therefore, etc. The major is therefore implied and he gives the proof of the minor when he says that "possible to be” admits of two possibilities, namely, "to be” and "not to be”; but of these, namely, "necessary to be” and "necessary not to be” (whichever should be true), these two, "to be” and "not to be,” will not be true at the same time in potency. He explains the first point thus: when I say "possible to be” it is at once possible to be and not to be. With respect to the second, he adds: if you should say, "necessary to be” or "necessary not to be,” both do not remain, i.e., possible to be and not to be do not remain, for if a thing is necessary to be, possibility not to be is excluded, and if it is necessary not to be, possibility to be is removed. Both of these, then, diminish the antecedent, possible to be, for it is extended to "to be” and "not to be,” etc. Thirdly, he concludes: it remains, therefore, that "not necessary not to be” accompanies "possible to be,” and consequently will have to be placed in the first order. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 14 Occurrit in hac parte dubium circa hoc quod dicit quod, ad possibile non sequitur necessarium, cum superius dixerit quod ad ipsum non sequitur non necessarium. Cum enim necessarium et non necessarium sint contradictoria opposita, et de quolibet sit affirmatio vel negatio vera, non videtur posse evadi quin ad possibile sequatur necessarium, vel, non necessarium. Et cum non sequatur necessarium, sequetur non necessarium, ut dicebant antiqui. Augetur et dubitatio ex eo quod Aristoteles nunc usus est tali argumentationis modo, volens probare quod ad necessarium sequatur possibile. Dixit enim: nam si non negatio possibilis consequatur. Necesse est enim aut dicere aut negare. A difficulty arises at this point with respect to his saying that the necessary does not follow upon the possible, since he has also said that the not necessary does not follow upon it. For the necessary and the not necessary are opposed contradictorily, and since of anything there is a true affirmation or negation, it seems impossible to avoid the conclusion that either the necessary or the not necessary follows upon the possible; and since the necessary does not follow, the not necessary must follow, as the ancients said. Furthermore, the difficulty is augmented by the fact that Aristotle just used such a mode of argumentation when, to prove that the possible follows upon the necessary, he said, for if not, the negation will follow; for it is necessary either to affirm or deny. 15. Pro solutione huius, oportet reminisci habitudinis quae est inter possibile et necessarium, quod scilicet possibile est superius ad necessarium, et attendere quod superius potestate continet suum inferius et eius oppositum, ita quod neutrum eorum actualiter sibi vindicat, sed utrunque potest sibi contingere; sicut animali potest accidere homo et non homo: et consequenter inspicere debes quod, eadem est proportio superioris ad habendum affirmationem et negationem unius inferioris, quae est alicuius subiecti ad affirmativam et negativam futuri contingentis. Utrobique enim neutrum habetur, et salvatur potentia ad utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus nec affirmatio nec negatio est determinate vera, sed sub disiunctione altera est necessario vera, ut in fine primi conclusum est; ita nec affirmatio nec negatio inferioris sequitur determinate affirmationem vel negationem superioris, sed sub disiunctione altera sequitur necessario. Unde non valet, est animal, ergo est homo, neque, ergo non est homo, sed, ergo est homo vel non est homo. Quia ergo possibile superius est ad necessarium, ideo optime determinavit Aristoteles neutram contradictionis partem de necessario determinate sequi ad possibile. Non tamen dixit quod sub disiunctione neutra sequatur; hoc enim est contra illud primum principium: de quolibet est affirmatio vera vel falsa. Ad id autem quod additur, ex eadem trahitur radice responsio. Quia enim necessarium inferius est ad possibile, et inferius non in potentia sed in actu includit suum superius, necesse est ad inferius determinate sequi suum superius: aliter determinate sequetur eius contradictorium. Unde per dissimilem habitudinem, quae est inter necessarium et possibile et non possibile, ex una parte, et inter possibile et necessarium et non necessarium, ex altera parte, ibi optimus fuit processus ad alteram contradictionis partem determinate, et hic optimus ad neutram determinate. In order to resolve this, we must recall the relationship between the possible and the necessary, namely, that the possible is superior to the necessary. Now the superior potentially contains its own inferior and the opposite of it in such a way that neither of them is actually appropriated by the superior, but each is possible to it; as in the case of man and not-man in relation to animal. We must also consider that the proportion of the superior as related to the affirmation and negation of one inferior is the same (which is the proportion of some subject to the affirmative and negative of a future contingent), for it is had by neither of the two, and the potency to either is kept. Accordingly, as in future contingents neither the affirmation nor the negation is determinately true, but under disjunction one is necessarily true (as was concluded at the end of the first book), so neither the affirmation nor negation of the inferior follows upon the affirmation or negation of the superior determinately, but under disjunction one follows necessarily. This, for instance, is not valid: "It is animal, therefore it is man,” nor is "therefore it is not man” valid, but, "therefore it is man or it is not man.” Since, then, the possible is superior to the necessary, Aristotle has correctly determined that neither part of the contradiction of the necessary determinately follows upon the possible. However, he has not said that under disjunction neither follows; for this would be opposed to the first principle, that of anything there is a true or false affirmation. The response to what was added, beginning with "Furthermore, the difficulty is augmented,” etc., is based upon the same point. Since the necessary is inferior to the possible, and the inferior does not include its superior in potency but in act, the superior must follow determinately upon the inferior; otherwise the contradiction of it would follow determinately. Hence, because of the dissimilar relationship between the necessary and the possible and not possible on the one hand, and between the possible and the necessary and not necessary on the other, the movement of the earlier argument to one part of the contradiction determinately was quite right, and the movement here to neither determinately was quite right. 16. Oritur quoque alia dubitatiuncula. Videtur enim quod Aristoteles difformiter accipiat ly possibile in praecedenti textu et in isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur ad necessarium; hic videtur accipere ipsum specialiter pro possibili ad utrumlibet, quia dicit quod possibile est simul potens esse et non esse. Et ad hoc dicendum est quod uniformiter usus est possibili. Nec eius verba obstant: quoniam et de possibili in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque accidere, scilicet, esse et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo inferiori, verificatur etiam de suo superiori, licet non eodem modo; tum quia possibile in communi neutram contradictionis partem sibi determinat, et consequenter utranque sibi advenire compatitur, licet non asserat potentiam ad utranque partem, quemadmodum possibile ad utrunque. There is another slight difficulty, for it seems that Aristotle takes the possible in a different way in the preceding text and in this. There he takes it commonly as it follows upon the necessary; here he seems to take it specifically for the possible that is indifferent to alternatives, since he says that the possible is at once possible to be and not to be. But in fact Aristotle has used the possible uniformly. Nor are his words at variance, for it is also true to say of the possible as common that it admits of both possibilities, i.e., of "to be” and "not to be”; first, because whatever is verified of its inferior is verified also of its superior, although not in the same mode; secondly, because the possible as common determines neither part of the contradiction to itself and consequently admits of either happening, although it does not affirm a potency to each part, as does the possible to either of two alternatives. 17. Secundum motivum ad idem, correspondens tacitae obiectioni antiquorum quam supra exclusit, addit cum subdit: hoc enim verum est et cetera. Ubi notandum quod Aristoteles sub illa maiore adducta pro antiquis (scilicet, convertibiliter se consequentium contradictoria se mutuo consequuntur), subsumit minorem: sed horum convertibiliter se sequentium in tertio ordine (scilicet, non possibile esse et necesse non esse), contradictoria sunt, possibile esse et non necesse non esse (quoniam modi negatione eis opponuntur); ergo istae duae (scilicet, possibile esse et non necesse non esse) se consequuntur et in primo locandae sunt ordine. Unde motivum tangens ait: hoc enim, quod dictum est, verum est, idest verum esse ostenditur, et de necesse non esse, idest, et ex illius, scilicet, non necesse non esse, opposita, quae est, necesse non esse. Vel, hoc enim, scilicet, non necesse non esse, verum est, scilicet, contradictorium illius de necesse non esse. Et minorem subdens ait: haec enim, scilicet, non necesse non esse, fit contradictio eius, quae convertibiliter sequitur, non possibile esse. Et explanans hoc in terminis subdit. Illud enim, non possibile esse, quod est caput tertii ordinis, sequitur hoc de impossibili, scilicet, impossibile esse, et haec de necessario, scilicet, necesse non esse, cuius negatio seu contradictoria est, non necesse non esse. Et quia, caeteris paribus, modus negatur, et illa, possibile esse, est (subauditur) contradictoria illius, scilicet, non possibile; igitur ista duo mutuo se consequuntur, scilicet, possibile esse, et, non necesse non esse, tamquam contradictoria duorum se mutuo consequentium. The second grounds for proving the same thing corresponds to the tacit objection of the ancients he excluded above: For this, he says, is true also with respect to "necessary to be,” etc. It should be noted here that Aristotle subsumes under the major cited as a proof for the position of the ancients (namely, contradictories of consequences convertibly following each other mutually follow upon each other) this minor: but the contradictories of those following upon each other convertibly in the third order (i.e., of "not possible to be” and "necessary not to be”) are "possible to be” and "not necessary not to be” (for they are opposed to them by negation of mode); therefore, these two (i.e., "possible to be” and "not necessary not to be”) follow upon each other and are to be placed in the first order. Hence, with respect to the basis of the above argument, he says, For this, i.e., what has been said, is true, i.e., is shown to be true, also with respect to "necessary not to be,” i.e., of the opposite of "not necessary not to be,” i.e., "necessary not to be.” Or, For this, namely, not necessary not to be,” is true, namely, is the true contradictory of necessary not to be.” He gives the minor when he says, For "not necessary not to be” is the contradictory of what follows upon "not possible to be.” Then he states this explicitly: for "not possible to be,” which is the source of the third order is followed by this impossible, namely, "impossible to be,” and by this one of the necessary, namely, "necessary not to be,” of which the negation or contradictory is "not necessary not to be.” And since, other things being equal, the mode is negated, and, "possible to be” is (it is understood) the contradictory of "not possible to be,” therefore, these two mutually follow upon each other, namely, "possible to be” and "not necessary not to be,” as contradictories of the two mutually following upon each other. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 18 Deinde cum dicit: sequuntur enim etc., ordinat omnes consequentias modalium secundum opinionem propriam; et ait quod, hae contradictiones, scilicet, de necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum praedictum et approbatum illarum de impossibili. Sicut enim contradictorias de possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet conversim; ita contradictorias de possibili contradictoriae de necessario sequuntur conversim: licet in hoc, ut dictum est, dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de possibili et impossibili similiter est dictum, contradictoriarum autem de possibili et necessario contrarium est dictum, ut in sequenti videtur figura: consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab Aristotele positae et ordinatae. (Figura). Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et antiquos differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad illas de necessario. Praepostero namque situ usi sunt antiqui, eam de necessario, quae locanda erat in primo ordine, in secundo ponentes, et eam quae in secundo ponenda erat, in primo locantes. Et aspice quoque quod convertibiliter se consequentium semper contradictoria se consequi ordinavit. Singulis enim tertii ordinis singulae primi ordinis contradictoriae sunt; et similiter singulae quarti ordinis singulis, quae in secundo sunt, contradictoriae sunt. Quod antiqui non observarunt. When he says, Thus, these contradictions also follow in the way indicated, etc., he orders all of the consequents of modals according to his own opinion. He says, then, that these contradictions, namely, of the necessary, follow those of the possible, according to the foresaid and approved mode of those of the impossible. For just as contradictories of the impossible follow upon contradictories of the possible, although inversely, so contradictories of the necessary follow contradictories of the possible inversely. In the latter, however, as has been said, there is a dissimilarity in that the dictum of the contradictories of the possible and impossible is similar, but the dictum of the contradictories of the possible and necessary is contrary. This can be seen in the following table. CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS POSITED AND ORDERED BY ARISTOTLE ACCORDING TO FOUR ORDERS FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Here you see that there is no difference between Aristotle and the ancients except in the first two orders with respect to those of the necessary. The ancients inverted the position of these, placing the necessary that should have been placed in the first order in the second order, and the one that should have been in the second in the first. Notice, too, that he has ordered them in such a way that the contradictories of those following upon each other convertibly, always follow each other, for each one in the first order is the contradictory of each one in the third order, and similarly, each of the fourth order the contradictory of each in the second. This the ancients did not observe. XI. 1. Postquam Aristoteles declaravit modalium consequentias, hic movet quandam dubitationem circa unum eorum quae determinata sunt, scilicet quod possibile sequitur ad necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem absolvit; secundo, ex determinata quaestione alium ordinem earumdem consequentiarum modalibus statuit; ibi: et est fortasse et cetera. Circa primum duo facit: primo, movet quaestionem; secundo, determinat eam; ibi: manifestum est et cetera. Movet ergo quaestionem: primo dicens: dubitabit autem aliquis si ad id quod est necesse esse sequatur possibile esse; et secundo, arguit ad partem affirmativam subdens: nam si non sequatur, contradictoria eius sequetur, scilicet non possibile esse, ut supra deductum est: quia de quolibet est affirmatio vel negatio vera. Et si quis dicat hanc, scilicet, non possibile esse, non esse contradictoriam illius, scilicet, possibile esse, et propterea subterfugiendum velit argumentum, et dicere quod neutra harum sequitur ad necesse esse; talis licet falsum dicat, tamen concedatur sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut non possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam, possibile esse; et tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utraeque, scilicet, non possibile esse et possibile non esse, falsae sunt de eo quod est, necesse esse. Et consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim enunciatio sequitur ad illam, cuius veritatem destruit. Relinquitur ergo quod, ad necesse esse sequitur possibile esse. Now that he has explained the consequents of modals, Aristotle raises a question about one of the points that has already been determined, namely, that the possible follows upon the necessary. He first raises the question and then settles it where he says, It is evident by now that not every possibility of being or walking is one that admits of opposites, etc. Secondly, he establishes another order of the same consequents from the determination of the present question, where he says Indeed the necessary and not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc. First, then, he raises the question: But it may be questioned whether "Possible to be follows upon "necessary to be.” Secondly, he argues to the affirmative part: Yet if not, the contradictory, "not possible to be,” would have to follow, as was deduced earlier, for either the affirmation or the negation is true of anything. And if someone should say "not possible to be” is not the contradictory of "possible to be,” because he wants to avoid the conclusion by saying that neither of these follows upon "necessary to be,” this may be conceded, although what he says is false. But then he will have to say that the contradictory of "possible to be” is "possible not to be,” for the contradictory of "possible to be” has to be either "not possible to be” or "possible not to be.” But if he says this, he will fall into another error, for it is false to say it is not possible to be of that which is necessary to be, and it is false to say it is possible not to be. Consequently, neither follows upon it, for no enunciation follows upon an enunciation whose truth it destroys. Therefore, "possible to be” follows upon "necessary to be.” 2. Tertio, arguit ad partem negativam cum subdit: at vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad necesse esse sequitur possibile esse, cum ad possibile sequatur possibile non esse (per conversionem in oppositam qualitatem, ut dicitur in I priorum, quia idem est possibile esse et non esse), sequetur de primo ad ultimum quod necesse est possibile non esse: quod est falsum manifeste. Unde oppositionis hypothesim subdit: at vero rursus videtur idem possibile esse et non esse, ut domus, et possibile incidi et non incidi, ut vestis. Quare de primo ad ultimum necesse esse, erit contingens non esse. Hoc autem est falsum. Ergo hypothesis illa, scilicet, quod possibile sequatur ad necesse, est falsa. Thirdly, he argues to the negative part where he says, On the other hand, it seems possible for the same thing to be cut and not to be cut, etc. His argument is as follows: If "possible to be” follows upon "necessary to be,” then, since "possible not to be” follows upon the possible (through conversion to the opposite quality, as is said in I Priorum [13: 32a 31], for the same thing is possible to be and not to be), from first to last it will follow that the necessary is possible not to be, which is clearly false. In this argument, Aristotle supplies a hypothesis opposed to the position that possible to be follows upon necessary to be: On the other hand, it seems possible for the same thing to be cut and not to be cut, for instance a garment, and to be and not to be, for instance a house. Therefore, from first to last, necessary to be will be possible not to be. But this is false. Therefore, the hypothesis that the possible follows upon the necessary is false. 3. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc., respondet dubitationi. Et primo, declarat veritatem simpliciter; secundo, applicat ad propositum; ibi: hoc igitur possibile et cetera. Proponit ergo primo ipsam veritatem declarandam, dicens: manifestum est autem, ex dicendis, quod non omne possibile esse vel ambulare, idest operari: idest, non omne possibile secundum actum primum vel secundum ad opposita valet, idest ad opposita viam habet, sed est invenire aliqua possibilia, in quibus non sit verum dicere quod possunt in opposita. Deinde, quia possibile a potentia nascitur, manifestat qualiter se habeat potentia ipsa ad opposita: ex hoc enim clarum erit quomodo possibile se habeat ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo manifestat hoc in potentiis eiusdem rationis; secundo, in his quae aequivoce dicuntur potentiae; ibi: quaedam vero potentiae et cetera. Circa primum tria facit: quia primo manifestat qualiter potentia irrationalis se habeat ad opposita; et ait quod potentia irrationalis non potest in opposita. When he says, It is evident by now that not every possibility of being or walking, etc., he answers the question he proposed. First, he manifests the truth simply, then applies it to the question where he says, So it is not true to say the latter possible of what is necessary simply, etc. First, then, he proposes the truth he is going to explain: It is evident by now that not every possibility of being or walking, i.e., of operating; that is, not everything possible according to first or second act admits of opposites, i.e., has access to opposites; there are some possibles of which it is not true to say that they are capable of opposites. Then, since the possible arises from potency, he manifests how potency is related to opposites; for it will be clear from this bow the possible is related to opposites. First he manifests this in potencies having the same notion; secondly, in those that are called potencies equivocally where he says, But some are called potentialities equivocally, etc. With respect to the way in which potencies of the same specific notion are related to opposites, he does three things. First of all he manifests how an irrational potency is related to opposites; an irrational potency, he says, is not a potency that is capable of opposites. Cajetanus lib. 2 l. 11 n. 4Ubi notandum est quod, sicut dicitur IX Metaphys., potentia activa, cum nihil aliud sit quam principium quo in aliud agimus, dividitur in potentiam rationalem et irrationalem. Potentia rationalis est, quae cum ratione et electione operatur; sicut ars medicinae, qua medicus cognoscens quid sanando expediat infirmo, et volens applicat remedia. Potentia autem irrationalis vocatur illa, quae non ex ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua dispositione; sicut calor ignis potentia irrationalis est, quia calefacit, non ut cognoscit et vult, sed ut natura sua exigit. Assignatur autem ibidem duplex differentia proposito deserviens inter istas potentias. Prima est quod activa potentia irrationalis non potest duo opposita, sed est determinata ad unum oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi gratia: calor non potest calefacere et non calefacere, quae sunt contradictorie opposita, neque potest calefacere et frigefacere, quae sunt contraria, sed ad calefactionem determinatus est. Et hoc intellige per se, quia per accidens calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum scilicet, vel per antiperistasin contrarii. Et similiter potest non calefacere per accidens, scilicet si calefactibile deest. Potentia autem rationalis potest in opposita et contradictorie et contrarie. Arte siquidem medicinae potest medicus adhibere remedia et non adhibere, quae sunt contradictoria; et adhibere remedia sana et nociva, quae sunt contraria. Secunda differentia est quod potentia activa irrationalis, praesente passo, necessario operatur, deductis impedimentis: calor enim calefactibile sibi praesens calefacit necessario, si nihil impediat; potentia autem rationalis, passo praesente, non necessario operatur: praesente siquidem infirmo, non cogitur medicus remedia adhibere. It must be noted in this connection that active potency, since it is the principle by which we act on something else, is divided into rational and irrational potency, as is said in IX Metaphysicae [2: 1046a 36]. Rational potency operates in connection with reason and choice; for example, the art of medicine by which the physician, knowing and willing what is expedient in healing an illness, applies a remedy. Irrational potency operates according to its own natural disposition, not according to reason and liberty; for example, the heat of fire is an irrational potency, because it heats, not as it knows and wills, but as its nature requires. In the Metaphysics, a twofold difference between these potencies is assigned which is relevant here. The first is that an irrational active potency is not capable of two opposites, but is determined to one opposite, whether "opposite” is taken contradictorily or contrarily; e.g., heat cannot heat and not heat, which are opposed contradictorily; nor can it heat and cool, which are contraries, but is deter mined to heating. Understand this per se, for heat can cool accidentally, either by destroying the matter of heat, namely, the humid, or through alternation of the contrary. It also has the potentiality not to heat accidentally, if that which can be heated is lacking. A rational potency, on the other hand, is capable of opposites, both contradictorily and contrarily; for by the art of medicine the physician can employ a remedy and not employ it, which are contradictories, and employ healing and harmful remedies, which are contraries. The second difference is that an irrational active potency necessarily operates when a subject is present and impediments are with drawn; for heat necessarily heats when a subject that can be heated is present, and nothing impedes it. A rational potency, however, does not necessarily operate when a subject is present; e.g., when a sick man is present the physician is not forced to employ a remedy. 5. Dimittantur autem metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi narrans quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait: et primum quidem, scilicet, non est verum dicere quod sit potentia ad opposita in his quae possunt non secundum rationem, idest, in his quorum posse est per potentias irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere, et habet vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis siquidem non potest frigefacere; neque in eius potestate est calefacere et non calefacere. Quod autem dixit primum ordinem, nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum, in quo etiam non invenitur potentia ad opposita. The reasons for these differences are given in the Metaphysics, but let us return to the text. Explaining bow an irrational potency is related to opposites, he says, First of all, this is not true, i.e., it is not true to say that there is a potency to opposites in those which are not according to reason, i.e., whose power is through irrational potencies; as fire which is calefactive, i.e., capable of heating, has this power, i.e., this irrational potentiality, since it is not able to cool, nor is it in its power 4 to heat and not to heat. Note that he speaks here of a first kind. This is in relation to a second genus of the possible which he will speak of later, in which there is not a potency to opposites either. 6. Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis se habeat ad opposita, intendens quod potentia rationalis potest in opposita. Unde subdit: ergo potestates secundum rationem, idest rationales, ipsae eaedem sunt contrariorum, non solum duorum, sed etiam plurimorum, ut arte medicinae medicus plurima iuga contrariorum adhibere potest, et a multarum operationum contradictionibus abstinere potest. Praeposuit autem ly ergo, ut hoc consequi ex dictis insinuaret: cum enim oppositorum oppositae sint proprietates, et potentia irrationalis ex eo quod irrationalis ad opposita non se extendat; oportet potentiam rationalem ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit. Secondly, he shows how a rational potency is related to opposites, i.e., it is capable of opposites: Therefore potentialities that are in conjunction with reason, i.e., rational potencies, are capable of contraries, not only of two, but even of many; for example, a physician by the art of medicine can employ many pairs of contraries and he can abstain from doing or not doing many things. He begins with "therefore” so as to imply that this follows from what has been said.”’ The argument would be: properties of opposites are opposites; an irrational potency, because it is irrational, does not extend itself to opposites; therefore a rational potency, because it is rational, has access to opposites. Cajetanus lib. 2 l. 11 n. 7Tertio, explanat id quod dixit de potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et intendit quod illud quod dixit de potentia irrationali, scilicet quod non potest in opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. Ubi nota quod potentia irrationalis dividitur in potentiam activam, quae est principium faciendi, et potentiam passivam, quae est principium patiendi: verbi gratia, potentia ad calorem dividitur in posse calefacere, et in posse calefieri. In potentiis activis irrationalibus verum est quod non possunt in opposita, ut declaratum est; in potentiis autem passivis non est verum. Illud enim quod potest calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem est materia, seu potentia passiva contrariorum, ut dicitur in II de caelo et mundo, et potest non calefieri, quia idem est subiectum privationis et formae, ut dicitur in I Physic. Et propter hoc ergo explanando, ait: irrationales vero potentiae non omnes a posse in opposita excludi intelligendae sunt, sed illae quae sunt quemadmodum potentia ignis calefactiva (ignem enim non posse non calefacere manifestum est), et universaliter, quaecunque alia sunt talis potentiae, quod semper agunt, idest quod quantum est ex se non possunt non agere, sed ad semper agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut declaravimus, omnes potentiae activae irrationales. Alia vero sunt talis conditionis quod etiam secundum irrationales potentias, scilicet passivas, simul possunt in quaedam opposita, ut aer potest calefieri et frigefieri. Quod vero ait, simul, cadit supra ly possunt, et non supra ly opposita; et est sensus, quod simul aliquid habet potentiam passivam ad utrunque oppositorum, et non quod habeat potentiam passivam ad utrunque oppositorum simul habendum. Opposita namque impossibile est haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est simultas potentiae, non potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non secundum totum suum ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem eius, secundum potentias scilicet activas. Thirdly, he explains what he has said about irrational potencies. He will assign the reason for doing this later. He makes the point that what he has said about irrational potentiality, i.e., that it is not capable of opposites, is not true universally, but particularly. It should be noted here that irrational potency is divided into active potency, which is the principle of acting, and passive potency, which is the principle of being acted upon; e.g., potency to heat is divided into potentiality to heat and potentiality to be heated. Now it is true that active irrational potencies are not capable of opposites, as was explained. This is not true, however, of passive potencies, for what can be heated can also be cooled, because the mat ter is the same, i.e., the passive potency of contraries, as is said in II De caelo et mundo [7: 286a 23]. It can also not be heated, since the subject of privation and of form is the same, as is said in I Physic [7: 189b 32]. Therefore, in explaining about irrational potencies, he says, But not all irrational potentialities should be understood to be excluded from the capacity of opposites. Those like the potentiality of fire to heat are to be excluded (for it is evident that fire cannot not heat) I and universally, whatever others are potencies of such a kind that they always act, i.e., the ones that of themselves cannot not act, but are necessitated by their form always to act. All active irrational potencies are of this kind, as we have explained. There are others, however, of such a condition that even though they are irrational potencies (i.e., passive) are simultaneously capable of certain opposites; for example, air can be heated and cooled. "Simultaneously” modifies "are capable” and not "opposites.” What he means is that the thing simultaneously has a passive potency to each opposite, and not that it has a passive potency to have both opposites simultaneously, for it is impossible to have opposites at one and the same time. Hence it is customary and correct to say that in these there is simultaneity of potency, not potency of simultaneity. Therefore, irrational potency is excluded from the capacity of opposites, not completely, but according to its part, namely, according to active potencies. 8. Quia autem videbatur superflue addidisse differentias inter activas et passivas irrationales, quia sat erat proposito ostendisse quod non omnis potentia oppositorum est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est, ut notum fiat quoniam nedum non omnis potestas oppositorum est, loquendo de potentia communissime, sed neque quaecunque potentiae dicuntur secundum eamdem speciem ad opposita possunt. Potentiae siquidem irrationales omnes sub una specie irrationalis potentiae concluduntur, et tamen non omnes in opposita possunt, sed passive tantum. Non supervacanea ergo fuit differentia inter passivas et activas irrationales, sed necessaria ad declarandum quod non omnes potentiae eiusdem speciei possunt in opposita. Potest et ly hoc demonstrare utranque differentiam, scilicet, inter rationales et irrationales, et inter irrationales activas et passivas inter se; et tunc est sensus, quod hoc ideo fecimus, ut ostenderemus quod non omnis potestas, quae scilicet secundum eamdem rationem potentiae physicae dicitur, quia scilicet potest in aliquid ut rationalis et irrationalis, neque etiam omnis potestas, quae sub eadem specie continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie irrationalis, ad opposita potest. Because it might seem superfluous to have added the differences between active and passive irrational potencies, since enough had already been said to show that not every potency is of opposites, Aristotle gives the reason for this. It was not only to make it known that not every potency is of opposites, speaking of potency most commonly, but also that not all that are called potencies according to the same species are capable of opposites. For all irrational potencies are included under one species of irrational potency, and yet not all are capable of opposites, but only the passive potencies. It was not superfluous, therefore, to point out the difference between passive and active irrational potencies, since this was necessary in order to show that not all potencies of the same species are capable of opposites. " This” in the phrase "this has been said” could designate each difference, the one between rational and irrational potencies, and the one between active and passive irrational potencies. The meaning is, then, that we have said this to show that not every potentiality which is said according to the same notion of physical power—namely, because it can be in something as rational and irrational—not even every potentiality which is contained under the same species, as active and passive under the species irrational, is capable of opposites. XII. 1. Intendit declarare quomodo illae quae aequivocae dicuntur potentiae, se habeant ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo, declarat naturam talis potentiae; secundo, ponit differentiam et convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: et haec quidem et cetera. Ad evidentiam primi advertendum est quod V et IX Metaphys., Aristoteles dividit potentiam in potentias, quae eadem ratione potentiae dicuntur, et in potentias, quae non ea ratione qua praedictae potentiae nomen habent, sed alia. Et has appellat aequivoce potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes potentiae activae, et passivae, et rationales, et irrationales. Quaecunque enim posse dicuntur per potentiam activam vel passivam quam habeant, eadem ratione potentiae sunt, quia scilicet est in eis vis principiata alicuius activae vel passivae. Sub secundo autem membro comprehenduntur potentiae mathematicales et logicales. Mathematica potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum, et eo quod in semetipsam ducta quadratum constituit. Logica potentia est, qua duo termini coniungi absque contradictione in enunciatione possunt. Sub logica quoque potentia continetur quae ea ratione potentia dicitur, quia est. Hae vero merito aequivoce a primis potentiae dicuntur, eo quod istae nullam virtutem activam vel passivam praedicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea ratione possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad hoc agendum vel patiendum, sicut in primis. Unde cum potentiae habentes se ad opposita sint activae vel passivae, istae quae aequivocae potestates dicuntur ad opposita non se habent. De his ergo loquens ait: quaedam vero potestates aequivocae sunt, et ideo ad opposita non se habent. Aristotle now proposes to show in what way potencies that are called equivocal are related to opposites. He first explains the nature of this kind of potency, and then gives the difference and agreement all between these and the foresaid, where he says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc. In V and IX Metaphysicae [V, 12: 1019a 15; 12, 1: 1046a 4], Aristotle divides potency into those that are called potencies for the same reason, and those that have the name potency for another reason than the aforesaid potencies. The latter are named "potencies” equivocally. Under the first member are included all active and passive, rational and irrational potencies, for whatever are said to be possible through the active or passive potency they have, are potencies for the same reason, i.e., because there is in them the originative force of something active or passive. Mathematical and logical potencies are included under the second member of this division. That by which a line can lead to a square we call a mathematical potency, for a line constitutes a square when protracted back to itself. That by which two terms can be joined in an enunciation without contradiction is a logical potency. Logical potency also comprises that which is called "potency” because it is. The latter [mathematical and logical potencies] are named from the former equivocally because they predicate no active or passive capacity; and what is said to be possible in these ways is not termed possible in virtue of having the capacity to do or undergo as in the first case. Hence, since the potencies related to opposites are active or passive, the ones that are called potentialities equivocally are not related to opposites. These, then, are the potencies he speaks of when he says But some are called potentialities equivocally, and therefore they are not related to opposites. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 2Deinde declarans qualis sit ista potestas aequivoce dicta, subdit divisionem usitatam possibilis per quam hoc scitur, dicens: possibile enim non uno modo dicitur, sed duobus. Et uno quidem modo dicitur possibile eo quod verum est ut in actu, idest ut actualiter est; ut, possibile est ambulare, quando ambulat iam: et omnino, idest universaliter possibile est esse, quoniam est actu iam quod possibile dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur aliquid non ea ratione quia est actualiter, sed quia forsitan aget, idest quia potest agere; ut possibile est ambulare, quoniam ambulabit. Ubi advertendum est quod ex divisione bimembri possibilis divisionem supra positam potentiae declaravit a posteriori. Possibile enim a potentia dicitur: sub primo siquidem membro possibilis innuit potentias aequivoce; sub secundo autem potentias univoce, activas scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia possibile dupliciter dicitur, quod etiam potestas duplex est. Declaravit autem potestates aequivocas ex uno earum membro tantum, scilicet ex his quae dicuntur possibilia quia sunt, quia hoc sat erat suo proposito. To clarify the kind of potency that is called equivocal, he gives the usual division of the possible through which this is known. "Possible,” he says, is not said in one way, but in two. Something is said to be possible because it is true as in act, i.e., inasmuch as it actually is; for example, it is possible to walk when one is already walking, and in gene eral, i.e., universally, that is said to be possible which is possible to be because it is already in act. Something is said to be possible in the second way, not because it actually is, but because it is about to act, i.e., because it can act; for instance, it is possible for someone to walk because be is about to walk. Notice here that by this two-membered division of the possible he makes the division of potency posited above evident a posteriori, for the possible is named from potency. Under the first member of the possible he signifies potencies equivocally; under the second, potencies univocally, i.e., active and passive potencies. He means to show, then, that since possible is said in two ways, potentiality is also twofold. He explains equivocal potentialities in terms of only one member, namely, those that are called possible because they are, since this was sufficient for his purpose. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 3Deinde cum dicit: et haec quidem etc., assignat differentiam inter utranque potentiam, et ait quod potentia haec ultimo dicta physica, est in solis illis rebus, quae sunt mobiles; illa autem est et in rebus mobilibus et immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo quod possit agere, non tamen agit, inveniri non potest absque mutabilitate eius, quod sic posse dicitur. Si enim nunc potest agere et non agit, si agere debet, oportet quod mutetur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur eo quod est, nullam mutabilitatem exigit in eo quod sic possibile dicitur. Esse namque in actu, quod talem possibilitatem fundat, invenitur et in rebus necessariis, et in immutabilibus, et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc, quod logicum vocatur, communius est illo quod physicum appellari solet. When he says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc., he specifies the difference between each potency. This last potency, he says, [possible because it can be] which is called physical potency, is only in things that are movable; but the former is in movable and immovable things. The possible that is named from the potency which can act, but is not yet acting, cannot be found without the mutability of that which is said to be possible in this way. For if that which can act now and is not acting, should act, it is necessary that it be changed from rest to operation. On the other hand, that which is called possible because it is, requires no mutability in that which is said to be possible in this way, for to be in act, which is the basis of such a possibility, is found in necessary things, in immutable things, and in mobile things. Therefore, the possible which is called logical, is more common than the one we customarily call physical. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 4Deinde subdit convenientiam inter utrunque possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus verum est non impossibile esse, scilicet, ipsum ambulare, quod iam actu ambulat seu agit, et quod iam ambulabile est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur possibile ex eo quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de utroque verificatur non impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile, quoniam ad non impossibile sequitur possibile. Hoc est secundum genus possibilis, respectu cuius Aristoteles supra dixit: et primum quidem etc., in quo non invenitur via ad utrunque oppositorum, hoc, inquam, est possibile quod iam actu est. Quod enim tali ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex eo quod actu esse suppositum est. Non ergo possibile omne ad utrunque possibile est, sive loquamur de possibili physice, sive logice.Then he shows that there is a correspondence between these possibles when he adds that not impossible to be is true of both of these potentialities and possibles, e.g., to walk is not impossible for that which is already walking in act, i.e., acting, and it is not impossible for that which could now walk; that is, they agree in that not impossible is verified of both—of either what is said to be possible from the fact that it is in act or of what is said to be possible from the fact that it could be. Consequently, the necessary is verified as possible, for possible follows upon not impossible. The possible that is already in act is the second genus of the possible in which access is not found to both opposites, of which Aristotle spoke when he said, First of all this is not true of the potentialities which are not according to reason, etc. For that which is said to be possible because it is already in act is already determined, since it is supposed as being in act. Therefore, not every possible is the possible of alternatives, whether we speak of the physical possible or the logical. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 5Deinde cum dicit: sic igitur possibile etc., applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis, declarat habitudinem utriusque possibilis ad necessarium, dicens quod hoc ergo possibile, scilicet physicum quod est in solis mobilibus, non est verum dicere et praedicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium est, non potest aliter esse. Possibile autem physicum potest sic et aliter esse, ut dictum est. Addit autem ly simpliciter, quoniam necessarium est multiplex. Quoddam enim est ad bene esse, quoddam ex suppositione: de quibus non est nostrum tractare, sed solummodo id insinuare. Quod ut praeservaret se ab illis modis necessarii qui non perfecte et omnino habent necessarii rationem, apposuit ly simpliciter. De tali enim necessario possibile physicum non verificatur. Alterum autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus invenitur, verum est de illo enunciare, quoniam nihil necessitatis adimit. Et per hoc solvitur ratio inducta ad partem negativam quaestionis. Peccabat siquidem in hoc, quod ex necessario inferebat possibile ad utrunque quod convertitur in oppositam qualitatem. When he says, So it is not true to say the latter possible of what is necessary simply, etc., he applies the truth he has determined to what has been proposed. First, by way of a conclusion from what has been said, he shows the relationship of each possible to the necessary. So, he says, it is not true to say and predicate this possible, namely physical, which is only in mobile things, of the necessary simply, because what is necessary simply cannot be otherwise. The physical possible, however, can be thus and otherwise, as has been said. He adds "simply” because the necessary is manifold. There is the necessary for well-being and there is also the necessary from supposition, but it is not our business to treat these, only to indicate them. In order, then, to avoid the modes of the necessary that do not have the notion of the necessary perfectly and in every way, he adds "simply.” Now the physical possible is not verified of this kind of necessary [i.e., of the necessary simply], but it is true to enunciate the logical possible, the one found in immovable things, of the necessary, since it takes away nothing of the necessity. The argument introduced for the negative part of this question”’ is destroyed by this. The error in that argument was the inference—by way of conversion into the opposite quality—of the possible to both alternatives from the necessary. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 6Deinde respondet quaestioni formaliter intendens quod affirmativa pars quaestionis tenenda sit, quod scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam. Quia ad partem subiectivam sequitur constructive suum totum universale; sed necessarium est pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in logicum et physicum, et sub logico comprehenditur necessarium; ergo ad necessarium sequitur possibile. Unde dicit: quare, quoniam partem, scilicet subiectivam, suum totum universale sequitur, illud quod ex necessitate est, idest necessarium, tamquam partem subiectivam, consequitur posse esse, idest possibile, tamquam totum universale. Sed non omnino, idest sed non ita quod omnis species possibilis sequatur; sicut ad hominem sequitur animal, sed non omnino, idest non secundum omnes suas partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet: est homo, ergo est animal irrationale. Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem affirmativam, expressius solvit rationem adductam ad partem negativam, quae peccabat secundum fallaciam consequentis, inferens ex necessario possibile, descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet. Then he replies to the question formally. He states that the affirmative part of the question must be held, namely, that the possible follows upon the necessary. Next, he assigns the cause. The whole universal follows constructively upon its subjective part; but the necessary is a subjective part of the possible, because the possible is divided into logical and physical and under the logical is comprehended the necessary; therefore, the possible follows upon the necessary. Hence he says, Therefore, since the universal follows upon the part, i.e., since the whole universal follows upon its subjective part, to be possible to be, i.e., possible, as the whole universal, follows upon that which necessarily is, i.e., necessary, as a subjective part. He adds: though not every kind of possible does, i.e., not every species of the possible follows; just as animal follows upon man, but not in every way, i.e., it does not follow upon man according to all its subjective parts, for it is not valid to say, "He is a man, therefore he is an irrational animal.” By this proof of the validity of the affirmative part, Aristotle has explicitly destroyed the reasoning adduced for the negative part, which, as is evident, erred according to the fallacy of the consequent in inferring the possible from the necessary by descending to one species of the possible. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 7Deinde cum dicit: et est fortasse quidem etc., ordinat easdem modalium consequentias alio situ, praeponendo necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, assignat causam dicti ordinis; ibi: manifestum est autem et cetera. Dicit ergo: et est fortasse principium omnium enunciationum modalium vel esse vel non esse, idest, affirmativarum vel negativarum, necessarium et non necessarium. Et oportet considerare alia, scilicet, possibile contingere et impossibile esse, sicut horum, scilicet, necessarii et non necessarii, consequentia, hoc modo: consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines alio convenienti situ ab Aristotele positae et ordinatae: (Figura). Vides autem hic nihil immutatum, nisi quod necessariae quae ultimum locum tenebant, primum sortitae sunt. Quod vero dixit fortasse, non dubitantis, sed absque determinata ratione rem proponentis est. When he says, Indeed the necessary and not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc., he disposes the same consequences of modals in another arrangement, placing the necessary before all the other modes. First he proposes the order of modals and then assigns the cause of the order where he says, It is evident, then, from what has been said that that which necessarily is, actually is, etc. Indeed, he says, the necessary and not necessary may well be the principle of the "to be” or "not to be” of all modal enunciations, i.e., the necessary and not necessary is the principle of affirmatives or negatives. And the others, i.e., the possible, contingent, and impossible to be must be considered as consequent to these, i.e., to the necessary and not necessary. THE CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS ACCORDING TO THE FOUR ORDERS, POSITED AND DISPOSED BY ARISTOTLE IN ANOTHER APPROPRIATE ARRANGEMENT FIRST ORDER It is necessary to be It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be SECOND ORDER It is necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be FOURTH ORDER It is not necessary not to be It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be Nothing is changed here except the enunciations predicating necessity. They have been allotted the first place, whereas in the former table they were placed last. When he says "may well be,” it is not because he is in any doubt, but because he is proposing this here without a determinate proof. 8. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc., intendit assignare causam dicti ordinis. Et primo, assignat causam, quare praeposuerit necessarium possibili tali ratione. Sempiternum est prius temporali; sed necessarium dicit sempiternitatem (quia dicit esse in actu, excludendo omnem mutabilitatem, et consequenter temporalitatem, quae sine motu non est imaginabilis), possibile autem dicit temporalitatem (quia non excludit quin possit esse et non esse); ergo necesse merito prius ponitur quam possibile. Unde dicit, proponendo minorem: manifestum est autem ex his quae dicta sunt etc., tractando de necessario: quoniam id quod ex necessitate est, secundum actum est totaliter, scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et potentiam ad oppositum: si enim mutari posset in oppositum aliquo modo, iam non esset necessarium. Deinde subdit maiorem per modum antecedentis conditionalis: quare si priora sunt sempiterna temporalibus et cetera. Ultimo ponit conclusionem: et quae actu sunt omnino, scilicet necessaria, priora sunt potestate, idest possibilibus, quae omnino actu esse non possunt, licet compatiantur. When he says, It is evident, then, from what has been said that that which necessarily is, actually is, etc., he gives the cause of this order. First he gives the reason for placing the necessary before the possible: the sempiternal is prior to the temporal; but "necessary” signifies sempiternal (because it signifies "to be in act,” excluding all mutability and consequently temporality, which is not imaginable without movement) and the possible signifies temporality (since it does not exclude the possibility of being and not being); therefore, the necessary is rightly placed before the possible. He proposes the minor of this argument when he says, It is evident, then, from what has been said in treating the necessary, that that which necessarily is, is totally in act, since it excludes all mutability and potency to the opposite—for if it could be changed into the opposite in any way, then it would not be necessary. Next he gives the major, which is in the mode of an antecedent conditional: and if eternal things are prior to temporal, etc. Finally, he posits the conclusion: those that are wholly in act in every way, namely necessary, are prior to the potential, i.e., to possibles, which do not have being in act wholly although they are compatible with it. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 9Deinde cum dicit: et hae quidem etc., assignat causam totius ordinis a se inter modales statuti, tali ratione. Universi triplex est gradus. Quaedam sunt actu sine potestate, idest sine admixta potentia, ut primae substantiae, non illae quas in praesenti diximus primas, eo quod principaliter et maxime substent, sed illae quae sunt primae, quia omnium rerum sunt causae, intelligentiae scilicet. Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia, quae secundum id quod habent de actu sunt priora natura seipsis secundum id quod habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt enim secundum id quod habent de potentia priora tempore seipsis secundum id quod habent de actu. Verbi gratia, Socrates prius secundum tempus poterat esse philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo praecedit actum secundum ordinem temporis in Socrate, ordine autem naturae, perfectionis et dignitatis e converso contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest dignior et perfectior habebatur Socrates cum philosophus actualiter erat, quam cum philosophus esse poterat. Praeposterus est igitur ordo potentiae et actus in unomet, utroque ordine, scilicet, naturae et temporis attento. Alia vero nunquam sunt actu sed potestate tantum, ut motus, tempus, infinita divisio magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Haec enim, ut IX Metaphys. dicitur, nunquam exeunt in actum, quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim aliquid horum ita est quin aliquid eius expectetur, et consequenter nunquam esse potest nisi in potentia. Sed de his alio tractandum est loco. Then he says, Some things are actualities without potentiality, namely, the primary substances, etc. Here he assigns the cause of the whole order established among modals. The grades of the universe are threefold. Some things are in act without potentiality, i.e., not combined with potency. These are the primary substances—not those we have called "first” in the present work because they principally and especially sustain—but those that are first because they are the causes of all things, namely, the Intelligences. In others, act is accompanied with possibility, as is the case with all mobile things, which, according to what they have of act, are prior in nature to themselves according to what they have of potency, although the contrary is the case in regard to the order of time. According to what they have of potency they are prior in time to themselves according to what they have of act. For example, according to time, Socrates first was able to be a philosopher, then he actually was a philosopher. In Socrates therefore, potency precedes act according to the order of time. The converse is the case, however, in the order of nature, perfection, and dignity, for when he actually was a philosopher, Socrates was regarded as prior according to dignity, i.e., more worthy and more perfect than when he was potentially a philosopher. Hence, when we consider each order, i.e., nature and time, in one and the same thing, the order of potency and act is reversed. Others never are in act but are only in potency, e.g., motion, time, the infinite division of magnitude, and the infinite augmentation of number. These, as is said in IX Metaphysicae [6: 1048b 9-17], never terminate in act, for it is repugnant to their nature. None of them is ever such that something of it is not expected, and consequently they can only be in potency. These, however, must be treated in another place. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 10 Nunc haec ideo dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in nostro ordine. Posuimus siquidem primo necessarium, quod sonat actu esse sine potestate seu mutabilitate, imitando primum gradum universi. Locavimus secundo loco possibile et contingens, quorum utrunque sonat actum cum possibilitate, et sic servatur conformitas ad secundum gradum universi. Praeposuimus autem possibile et non contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem secundum vim nominis respicit defectum causae, qui ad potentiam pertinet: defectus enim potentiam sequitur; et ex hoc conforme est secundae parti universi, in qua actus est prior potentia secundum naturam, licet non secundum tempus. Ultimum autem locum impossibili reservavimus, eo quod sonat nunquam fore, sicut et ultima universi pars dicta est illa, quae nunquam actu est. Pulcherrimus igitur ordo statutus est, quando divinus est observatus. This has been said so that once the order of the universe has been seen it should appear that we were imitating it in our present ordering. The necessary, which signifies "to be in act” without potentiality or mutability, has been placed first, in imitation of the first grade of the universe. We have put the possible and contingent, both of which signify act with possibility, in second place in conformity with the second grade of the universe. The possible has been Placed before the contingent because the possible relates to act whereas the contingent, as the force of the name suggests, relates to the defect of a cause-which pertains to potency, for defect follows upon potency. The order of these is similar to the order in the second part of the universe, where act is prior to potency according to nature, though not according to time. We have reserved the last place for the impossible because it signifies what never will be, just as the last part of the universe is said to be that which is never in act. Thus, a beautifully proportioned order is established when the divine is observed. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 11 Quia autem suppositae modalium consequentiae nil aliud sunt quam aequipollentiae earum, quae ob varium negationis situm, qualitatem, vel quantitatem, vel utranque mutantis, fiunt; ideo ad completam notitiam consequentium se modalium, de earum qualitate et quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam igitur natura totius ex partium naturis consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis et dicit esse vel non esse, et est dictum unicum, et continet in se subiectum dicti; praedicatum autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale praedicatum est (quia explicite vel implicite verbum continet, quod est semper nota eorum quae de altero praedicantur: propter quod Aristoteles dixit quod modus est ipsa appositio), et continet in se vim distributivam secundum partes temporis. Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel simpliciter vel tale; possibile autem et contingens pro aliquo tempore in communi. Since the consequents of modals, i.e., those placed under each other, are their equivalents in meaning, and these are produced by the varying position of the negation changing the quality or quantity or both, a few things must be said about their quality and quantity to complete our knowledge of them. The nature of the whole arises from the parts, and therefore we should note the following things about the parts of the modal enunciation. The subject of the modal enunciation asserts to be or not to be, and is a singular dictum, and contains in itself the subject of the dictum. The predicate of a modal enunciation, namely, the mode, is the total predicate (since it explicitly or implicitly contains the verb, which is always a sign of something predicated of another, for which reason Aristotle says that the mode is a determining addition) and contains in itself distributive force according to the parts of time. The necessary and impossible distribute in all time either simply or in a limited way; the possible and contingent distribute according to some time commonly. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 12 Nascitur autem ex his quinque conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. Ex eo enim quod tam subiectum quam praedicatum modalis verbum in se habet, duplex qualitas fit, quarum altera vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde et supra dictum est aliquam esse affirmativam de modo et non de dicto, et e converso. Ex eo vero quod subiectum modalis continet in se subiectum dicti, una quantitas consurgit, quae vocatur quantitas subiecti dicti: et haec distinguitur in universalem, particularem et singularem, sicut et quantitas illarum de inesse. Possumus enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem hominem, vel nullum hominem, possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum unius modalis dictum unum est, consurgit alia quantitas, vocata quantitas dicti; et haec unica est singularitas: secundum omne enim dictum cuiusque modalis singulare est istius universalis, scilicet dictum. Quod ex eo liquet quod cum dicimus, hominem esse album est possibile, exponitur sic, hoc dictum, hominem esse album, est possibile. Hoc dictum autem singulare est, sicut et, hic homo. Propterea et dicitur quod omnis modalis est singularis quoad dictum, licet quoad subiectum dicti sit universalis vel particularis. Ex eo autem quod praedicatum modalis, modus scilicet, vim distributivam habet, alia quantitas consurgit vocata quantitas modi seu modalis; et haec distinguitur in universalem et particularem. As a consequence of these five conditions there is a twofold quality and a threefold quantity in any modal. The twofold quality results from the fact that both the subject and the predicate of a modal have a verb in them. One of these is called the quality of the dictum, the other the quality of the mode. This is why it was said above that there is an enunciation which is affirmative of mode and not of dictum, and conversely. Of the threefold quantity of a modal enunciation, one arises from the fact that the subject of the modal contains in it the subject of the dictum. This is called the quantity of the subject of the dictum, and is distinguished into universal, particular, and singular, as in the case of the quantity of an absolute enunciation. For we can say: "That ‘Socrates,’ ‘some man,’ ‘every man,”’ or "‘no man,’ run is possible’ " The second quantity is that of the dictum, which arises from the fact that the subject of one modal is one dictum. This is a unique singularity, for every dictum of a modal is the singular of that universal, i.e.,dictum. "That man be white is possible” means "This dictum, ‘that man be white,’ is possible.” "This dictum” is singular in quantity, just as "this man” is. Hence, every modal is singular with respect to dictum, although with respect to the subject of the dictum it is universal or particular. The third quantity is that of the mode, or modal quantity, which arises from the fact that the predicate of the modal, i.e., the mode, has distributive force. This is distinguished into universal and particular. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 13 Ubi diligenter duo attendenda sunt. Primum est quod hoc est singulare in modalibus, quod praedicatum simpliciter quantificat propositionem modalem, sicut et simpliciter qualificat. Sicut enim illa est simpliciter affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua modus negatur; ita illa est simpliciter universalis cuius modus est universalis, et illa particularis cuius modus est particularis. Et hoc quia modalis modi naturam sequitur. Secundum attendendum (quod est causa istius primi) est, quod praedicatum modalis, scilicet modus, non habet solam habitudinem praedicati respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed habitudinem syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum quantitatem partium temporis eiusdem. Et merito. Sicut enim quia subiecti enunciationis de inesse propria quantitas est penes divisionem vel indivisionem ipsius subiecti (quia est nomen quod significat per modum substantiae, cuius quantitas est per divisionem continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum partes subiectivas), ita quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est tempus (quia est verbum quod significat per modum motus, cuius propria quantitas est tempus), ideo modus quantificans distribuit ipsum suum subiectum, scilicet, esse vel non esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter inspicienti apparebit quod quantitas ista modalis proprii subiecti modalis enunciationis quantitas est, scilicet, ipsius esse vel non esse. Ita quod illa modalis est simpliciter universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro omni tempore: vel simpliciter, ut, hominem esse animal est necessarium vel impossibile; vel accepto, ut, hominem currere hodie, vel, dum currit, est necessarium vel impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni, sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum; ut, hominem esse animal, est possibile vel contingens. Est ergo et ista modalis quantitas subiecti sui passio (sicut et universaliter quantitas se tenet ex parte materiae), sed derivatur a modo, non in quantum praedicatum est (quod, ut sic, tenetur formaliter), sed in quantum syncategorematis officio fungitur, quod habet ex eo quod proprie modus est. Now, there are two things about modal enunciations that must be carefully noted. The first—which is peculiar to modals—is that the predicate quantifies the modal proposition simply, as it also qualifies it simply. For just as the modal enunciation in which the mode is affirmed is affirmative simply, and negative when the mode is negated, so the modal enunciation in which the mode is universal is universal simply and particular in which the mode is particular. The reason for this is that the modal follows the nature of the mode. The second thing to be noted (which is the cause of the first) is that the predicate of a modal, i.e., the mode, not only has the relationship of a predicate to its subject (i.e., to "to be” and "not to be”), but also has the relationship to the subject, of a distributive syncategorematic term, which has the effect of distributing the subject, not according to the quantity of its subjective parts, but according to the quantity of the parts of its time. And rightly so, for just as the proper quantity of the subject of an absolute enunciation varies according to the division or lack of division of its subject (since the subject is a name which signifies in the mode of substance, whose quantity is from the division of the continuous, and therefore the quantifying sign distributes according to the subjective parts), so, because the proper quantity of the subject of a modal enunciation is time (since the subject is a verb, which signifies in the mode of movement, whose proper quantity is time), the quantifying mode distributes the subject, i.e., "to be” or "not to be” according to the parts of time. Hence, we arrive at the subtle point that the quantity of the modal is the quantity of the proper subject of the modal enunciation, namely, of "to be” or "not to be.” Therefore, a modal enunciation is universal simply when the proper subject is distributed throughout all time, either simply, as in "That man is an animal is necessary or impossible,” or taken in a limited way, as in "That man is running today,” or "while he is running, is necessary or impossible.” A modal enunciation is particular in which "to be” or "not to be” is distributed, not throughout all time, but commonly throughout some time, as in "That man is an animal is possible or contingent.” This modal quantity is therefore also a property of its subject (in that, universally, quantity comes from the matter) but is derived from the mode, not insofar as it is a predicate (because, as such, it is understood formally), but insofar as it performs a syncategorematic function, which it has in virtue of the fact that it is properly a mode. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 14 Sunt igitur modalium (de propria earum quantitate loquendo) aliae universales affirmativae, ut illae de necessario, quia distribuunt ad semper esse; aliae universales negativae, ut illae de impossibili, quia distribuunt ad nunquam esse; aliae particulares affirmativae, ut illae de possibili et contingenti, quia distribuunt utrunque ad aliquando esse; aliae particulares negativae, ut illae de non necesse et non impossibili, quia distribuunt ad aliquando non esse: sicut in illis de inesse, omnis, nullus, quidam, non omnis, non nullus, similem faciunt diversitatem. Et quia, ut dictum est, haec quantitas modalium est inquantum modales sunt, et de his, inquantum huiusmodi, praesens tractatus fit ab Aristotele; idcirco aequipollentiae, seu consequentiae earum, ordinatae sunt negationis vario situ, quemadmodum aequipollentiae illarum de inesse: ut scilicet, negatio praeposita modo faciat aequipollere suae contradictoriae; negatio autem modo postposita, posita autem dicti verbo, suae aequipollere contrariae facit; praeposita vero et postposita suae subalternae, ut videre potes in consequentiarum figura ultimo ab Aristotele formata. In qua, tali praeformata oppositionum figura, clare videbis omnes se mutuo consequentes, secundum alteram trium regularum aequipollere, et consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium, tertio contradictorium, quarto vero subalternum. (Figura). Therefore, with respect to their proper quantity, some modals are universal affirmatives, i.e., those of the necessary because they distribute "to be” to all time. Others are universal negatives, i.e., those of the impossible because they distribute "to be” to no time. Still others are particular affirmatives, i.e., those signifying the possible and contingent, for both of these distribute "to be” to some time. Finally, there are particular negatives, i.e., those of the not necessary and not impossible, for they distribute "not to be” to some time. This is similar to the diversity in absolute enunciations from the use of "every,” "no” "some,” not all,” and "not none.” Now, since this quantity belongs to modals insofar as they are modals, as has been said, and since Aristotle is now considering them in this particular respect, the modal enunciations that are equivalent, i.e., their consequents, are ordered by the different location of the negation, as is the case with absolute enunciations that are equivalent. A negative placed before the mode makes an enunciation equivalent to its contradictory; placed after the mode, i.e., with the verb of the dictum, makes it equivalent to its contrary; placed before and after the mode makes it equivalent to its subaltern, as you can see in the last table of consequents given by Aristotle. In that table of oppositions, you see all the mutual consequents, according to one of the three rules for making enunciations equivalent. Consequently, the whole first order of equivalent enunciations is contrary to the second, contradictory to the third, and the fourth is subalternated to it. Necessary to be - contraries - Impossible to be subalterns subalterns Possible to be - subcontraries - Contingent not to be TABLE OF OPPOSITION OF EQUIPOLLENT MODALS This table is not Cajetan’s but is a full arrangement of the orders of modal enunciations asdeveloped in this lesson. Close I Universal Affirmatives It is necessary to be It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be contraries II Universal Negatives It is necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be subalterns subalterns IV Particular Affirmatives It is not necessary not to be It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be subcontraries III Particular Negatives It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be. XIII. 1 Postquam determinatum est de enunciatione secundum quod diversificatur tam ex additione facta ad terminos, quam ad compositionem eius, hic secundum divisionem a s. Thoma in principio huius secundi factam, intendit Aristoteles tractare quandam quaestionem circa oppositiones enunciationum provenientes ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo, movet quaestionem secundo, declarat quod haec quaestio dependet ab una alia quaestione praetractanda; ibi: nam si ea, quae sunt in voce etc.; tertio, determinat illam aliam quaestionem; ibi: nam arbitrari etc.; quarto, redit ad respondendum quaestioni primo motae; ibi: quare si in opinione et cetera. Quaestio quam movere intendit est: utrum affirmativae enunciationi contraria sit negatio eiusdem praedicati, an affirmatio de praedicato contrario seu privativo? Unde dicit: utrum contraria est affirmatio negationi contradictoriae, scilicet, et universaliter oratio affirmativa orationi negativae; ut, affirmativa oratio quae dicit, omnis homo est iustus, illi contraria sit orationi negativae, nullus homo est iustus, aut illi, omnis homo est iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Et similiter ista affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi contradictoriae negationi, Callias non est iustus, aut illi, Callias est iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Now that he has treated the enunciation as it is diversified by an addition made to the terms and by an addition made to its composition (which is the division of the text made by St. Thomas at the beginning of the second book), Aristotle takes up another question about oppositions of enunciations. This question concerns the oppositions that result from something added to the simple enunciation. First he asks the question; secondly, he shows that this question depends upon another, which must be treated first, where he says, For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; third, he settles the latter question where he says, It is false, course, to suppose that opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc.; finally, he replies to the first question where he says, If, therefore, this is the case with respect to opinion, and affirmations and negations in vocal sound are signs of those in the soul, etc. The first question he raises is this: is the contrary of an affirmative enunciation the negation of the same predicate or the affirmation of a contrary or privative predicate? Hence he says, There is a question as to whether the contrary of an affirmation is the contradictory negation, and universally, whether affirmative speech is contrary to negative speech. For instance, is affirmative speech which says "Every man is just,” contrary to negative speech which says "No man is just,” or to the affirmative of the privative predicate, "Every man is unjust”? And similarly, is the affirmation "Callias is just” contrary to the contradictory negation, "Callias is not just” or is it contrary to "Callias is unjust,” the affirmative of the privative predicate? Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 2Ad evidentiam tituli huius quaestionis, quia hactenus indiscusse ab aliis est relictus, considerare oportet quod cum in enunciatione sint duo, scilicet ipsa enunciatio seu significatio et modus enunciandi seu significandi, duplex inter enunciationes fieri potest oppositio, una ratione ipsius enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si modos enunciandi attendimus, duas species oppositionis in latitudine enunciationum inveniemus, contrarietatem scilicet et contradictionem. Divisae enim superius sunt enunciationes oppositae in contrarias et contradictorias. Contradictio inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem praedicatur de eodem subiecto contradictorio modo enunciandi; ut sicut unum contradictorium nil ponit, sed alterum tantum destruit, ita una enunciatio nil asserit, sed id tantum quod altera enunciabat destruit. Huiusmodi autem sunt omnes quae contradictoriae vocantur, scilicet, omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, Socrates est iustus, Socrates non est iustus, ut de se patet. Et ex hoc provenit quod non possunt simul verae aut falsae esse, sicut nec duo contradictoria. Contrarietas vero inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem praedicatur de eodem subiecto contrario modo enunciandi; ut sicut unum contrariorum ponit materiam sibi et reliquo communem in extrema distantia sub illo genere, ut patet de albo et nigro, ita una enunciatio ponit subiectum commune sibi et suae oppositae in extrema distantia sub illo praedicato. Huiusmodi quoque sunt omnes illae quae contrariae in figura appellantur, scilicet, omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus. Hae enim faciunt subiectum, scilicet hominem, maxime distare sub iustitia, dum illa enunciat iustitiam inesse homini, non quocunque modo, sed universaliter; ista autem enunciat iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter. Maior enim distantia esse non potest quam ea, quae est inter totam universitatem habere aliquid et nullum de universitate habere illud. Et ex hoc provenit quod non possunt esse simul verae, sicut nec contraria possunt eidem simul inesse; et quod possunt esse simul falsae, sicut et contraria simul non inesse eidem possunt. Si vero ipsam enunciationem sive eius significationem attendamus secundum unam tantum oppositionis speciem, in tota latitudine enunciationum reperiemus contrarietatem, scilicet secundum veritatem et falsitatem: quia duarum enunciationum significationes entia positiva sunt, ac per hoc neque contradictorie neque privative opponi possunt, quia utriusque oppositionis alterum extremum est formaliter non ens. Et cum nec relative opponantur, ut clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt. Since this question has not been discussed by others, we must begin by noting that there are two things in an enunciation, namely, the enunciation itself, i.e., the signification, and the mode of enunciating or signifying. Hence, a twofold opposition can be made between enunciations, one by reason of the enunciation itself, the other by reason of the mode of enunciating. If we consider the modes of enunciating, we find two species of opposition among enunciations, namely, contrariety and contradiction. This point was made earlier when opposed enunciations were divided into contraries and contradictories. There is contradiction by reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in a contradictory mode; so that just as one of a pair of contradictories posits nothing but only destroys the other, so one enunciation 4 asserts nothing, but only destroys what the other was enunciating. All enunciations that are called contradictories are of this kind; e.g., "Every man is just,” "Not every man is just”; "Socrates is just,” "Socrates is not just.” It follows from this that they cannot be at once true or false, just as two contradictories cannot be at once. There is contrariety between enunciations by reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in a contrary mode of enunciating; so that just as one of a pair of contraries posits matter common to itself and to the other which is at the extreme distance under that genus—as is evident for instance in white and black—so one enunciation posits a subject common to itself and its opposite at the extreme distance under that predicate. All the enunciations in the diagram that are called contrary are of this kind, for example, "Every man is just,” "No man is just.” These make the subject "man” distant to the greatest degree possible under justice, one enunciating justice to be in man, not in any way, but universally, the other enunciating justice to be absent from man, not in any way, but universally. For no distance can be greater than the distance between the total number of things having something and none of the total number of things having that thing. It follows that contrary enunciations cannot be at once true, just as contraries cannot be in the same thing at once. They can, however, be false at the same time, just as it is possible that contraries not be in the same thing at the same time. If we consider the enunciation itself (viz., its signification) according to only one species of opposition, we will find in the whole range of enunciations an opposition of contrariety, i.e., an opposition according to truth and falsity. The reason for this is that the significations of two enunciations are positive, and accordingly cannot be opposed either contradictorily or privatively because the other extreme of both of these oppositions is formally non-being. And since significations are not opposed relatively, as is evident, the only way they can be opposed is contrarily. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 3Consistit autem ista contrarietas in hoc quod duarum enunciationum altera alteram non compatitur vel in veritate vel in falsitate, praesuppositis semper conditionibus contrariorum, scilicet quod fiant circa idem et in eodem tempore. Patere quoque potest talem oppositionem esse contrarietatem ex natura conceptionum animae componentis et dividentis, quarum singulae sunt enunciationes. Conceptiones siquidem animae adaequatae nullo alio modo opponuntur conceptionibus inadaequatis nisi contrarie, et ipsae conceptiones inadaequatae, si se mutuo expellunt, contrariae quoque dicuntur. Unde verum et falsum, contrarie opponi probatur a s. Thoma in I parte, qu. 17. Sicut ergo hic, ita et in enunciationibus ipsae significationes adaequatae contrarie opponuntur inadaequatis, idest verae falsis; et ipsae inadaequatae, idest falsae, contrarie quoque opponuntur inter se, si contingat quod se non compatiantur, salvis semper contrariorum conditionibus. Est igitur in enunciationibus duplex contrarietas, una ratione modi, altera ratione significationis, et unica contradictio, scilicet ratione modi. Et, ut confusio vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis, secunda contrarietas formalis. Contradictio autem non ad confusionis vitationem quia unica est, sed ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari potest. Invenitur autem contrarietas formalis enunciationum inter omnes contradictorias, quia contradictoriarum altera alteram semper excludit; et inter omnes contrarias modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse simul verae, licet non inveniatur inter omnes quoad falsitatem, quia possunt esse simul falsae. The contrariety spoken of here consists in this: of two enunciations one is not compatible with the other either in truth or falsity—presupposing always the conditions for contraries, that they are about the same thing and at once. It can be shown that such opposition is contrariety from the nature of the conceptions of the soul when composing and dividing, each of which is an enunciation. Adequate conceptions of the soul are opposed to inadequate conceptions only contrarily, and inadequate conceptions, if each cancels the other, are also called contraries. It is from this that St. Thomas proves, in [Summa theologiae] part I, question 17, that the true and false are contrarily opposed. Therefore, as in the conceptions of the soul, so in enunciations, adequate significations are contrarily opposed to inadequate, i.e., true to false; and the inadequate, i.e., the false, are also contrarily opposed among themselves if it happens that they are not compatible, supposing always the conditions for contraries. There is, therefore, in enunciations a twofold contrariety, one by reason of mode, the other by reason of signification, and only one contradiction, that by reason of mode. To avoid confusion, let us call the first contrariety modal and the second formal. We may call contradiction modal—not to avoid confusion since it is unique—but for propriety of expression. Formal contrariety is found between all contradictory enunciations, since one contradictory always excludes the other. It is also found between all modally contrary enunciations in regard to truth, since they cannot be at once true. However it is not found between the latter in regard to falsity, since they can be at once false. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 4Quia igitur Aristoteles in hac quaestione loquitur de contrarietate enunciationum quae se extendit ad contrarias modaliter, et contradictorias, ut patet in principio et in fine quaestionis (in principio quidem, quia proponit utrasque contradictorias dicens: affirmatio negationi etc.; et contrarias modaliter dicens: et oratio orationi etc., unde et exempla utrarunque statim subdit, ut patet in littera. In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit esse contrariam affirmativae universali verae dividit, in contrariam modaliter universalem negativam, scilicet, et contradictoriam: quae divisio falsitate non careret, nisi conclusisset contrariam formaliter, ut de se patet), quia, inquam, sic accipit contrarietatem, ideo de contrarietate formali enunciationum quaestio intelligenda est. Et est quaestio valde subtilis, necessaria et adhuc nullo modo superius tacta. Est igitur titulus quaestionis; utrum affirmativae verae contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem praedicati, aut affirmativa falsa de praedicato, vel contrario? Et sic patet quis sit sensus tituli, et quare non movet quaestionem de quacunque alia oppositione enunciationum (quia scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod accipit contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas inveniatur inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter. Dictum vero fuit a s. Thoma provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi, quia si tantum simplices, idest, de secundo adiacente enunciationes attendantur, non habet haec quaestio radicem. Quia autem simplici enunciationi, idest subiecto et verbo substantivo, additur aliquid, scilicet praedicatum, nascitur dubitatio circa oppositionem, an illud additum in contrariis debeat esse illudmet praedicatum, negatione apposita verbo, an debeat esse praedicatum contrarium seu privativum, absque negatione praeposita verbo. Aristotle in this question is speaking of the contrariety of enunciations that extends to contraries modally and to contradictories. This is evident from what he says in the beginning and at the end of the question. In the beginning, he proposes both contradictories when he says, an affirmation... to a negation, etc.; and contraries modally, when he says, and in the case of speech whether the one saying... is opposed to the one saying... etc. It is evident, too, from the examples immediately added. At the end, he explicitly divides what he has concluded to be contrary to a true universal affirmative, into the modally contrary universal negative and the contradictory. It is clear at once that this division would be false unless it comprised the contrary formally. Since he takes contrariety in this way the question must be understood with respect to formal contrariety of enunciations. This is a very subtle question and one that has to be treated and has not been thus far. The question, therefore, is this: whether the formal contrary of the true affirmative is the false negative of the same predicate or the false affirmative of the privative predicate, i.e., of the contrary. The meaning of the question is now clear, and it is evident why he does not ask about any other oppositions of enunciations-no other opposition is found in them formally. It is also evident that he is taking contrariety properly and strictly, notwithstanding the fact that such contrariety is found among contradictories modally and contraries modally. St. Thomas has already pointed out that this question arises from the fact that something is added to the simple enunciation, for as it far as simple enunciations are concerned, i.e., those with only a second determinant, there is no occasion for the question. When, however, something is added, namely a predicate, to the simple enunciation, i.e., to the subject and the substantive verb, the question arises as to whether what ought to be added in contrary enunciations is the selfsame predicate with a negation added to the verb or a contrary, i.e., privative, predicate without a negation added to the verb. 5. Deinde cum dicit: nam siea etc., declarat unde sumenda sit decisio huius quaestionis. Et duo facit: quia primo declarat quod haec quaestio dependet ex una alia quaestione, ex illa scilicet: utrum opinio, idest conceptio animae, in secunda operatione intellectus, vera, contraria sit opinioni falsae negativae eiusdem praedicati, an falsae affirmativae contrarii sive privativi. Et assignat causam, quare illa quaestio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes vocales sequuntur mentales, ut effectus adaequati causas proprias, et ut significata signa adaequata, et consequenter similis est in hoc utraque natura. Unde inchoans ab hac causa ait: nam si ea quae sunt in voce sequuntur ea, quae sunt in anima, ut dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima, opinio contrarii praedicati circa idem subiectum est contraria illi alteri, quae affirmat reliquum contrarium de eodem (cuiusmodi sunt istae mentales enunciationes, omnis homo est iustus, omnis homo est iniustus); si ita inquam est, etiam et in his affirmationibus quae sunt in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est similiter se habere, ut scilicet sint contrariae duae affirmativae de eodem subiecto et praedicatis contrariis. Quod si neque illic, idest in anima, opinatio contrarii praedicati, contrarietatem inter mentales enunciationes constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali contraria erit de contrario praedicato, sed magis affirmationi contraria erit negatio eiusdem praedicati. When Aristotle says, For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; he shows where we have to begin in order to settle this question. First he shows that the question depends on another question, namely, whether a true opinion (i.e., a conception of the soul in the second operation of the intellect) is contrary to a false negative opinion of the same predicate, or to a false affirmative of the contrary, i.e., privative, predicate. Then he gives the reason why the former question depends on this. Vocal enunciations follow upon mental as adequate effects upon proper causes and as the signified upon adequate signs. So, in this the nature of each is similar. He begins, then, with the reason for this dependence: For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect (as was said in the beginning of the first book) and if in the soul, those opinions are contrary which affirm contrary predicates about the same subject, (for example, the mental enunciations, "Every man is just, "Every man is unjust”), then in affirmations that are in vocal sound, the case must be the same. The contraries will be two affirmatives about the same subject with contrary predicates. But if in the soul this is not the case, i.e., that opinions with contrary predicates constitute contrariety in mental enunciations, then the contrary of a vocal affirmation will not be a vocal affirmation with a contrary predicate. Rather, the contrary of an affirmation will be the negation of the same predicate. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 6Dependet ergo mota quaestio ex ista alia sicut effectus ex causa. Propterea et concludendo addit secundum, quod scilicet de hac quaestione prius tractandum est, ut ex causa cognita effectus innotescat dicens: quare considerandum est, opinio vera cui opinioni falsae contraria est: utrum negationi falsae an certe ei affirmationi falsae, quae contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter proponatur, dico hoc modo: sunt tres opiniones de bono, puta vita: quaedam enim est ipsius boni opinio vera, quoniam bonum est, puta, quod vita sit bona; alia vero falsa negativa, scilicet, quoniam bonum non est, puta, quod vita non sit bona; alia item falsa affirmativa contrarii, scilicet, quoniam malum est, puta, quod vita sit mala. Quaeritur ergo quae harum falsarum contraria est verae? The first question, then, depends on this question as an effect upon its cause. For this reason, and by way of a conclusion to what he has just been saying, he adds the second question, which must be treated first so that once the cause is known the effect will be known: We must therefore consider to which false opinion the true opinion is contrary, whether it is to the false negation or to the false affirmation that it is to be judged contrary. Then in order to propose the question by examples he says: what I mean is this; there are three opinions of a good, for instance, of life. One is a true opinion, that it is good, for instance, that life is good. The other is a false negative, that it is not good, for instance, that life is not good. Still another, likewise false, is the affirmative of the contrary, that it is evil, for instance, that life is evil. The question is, then, which of these false opinions is contrary to the true one. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 7Quod autem subdidit: et si est una, secundum quam contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative, ut sit pars quaestionis; et tunc est sensus: quaeritur quae harum falsarum contraria est verae: et simul quaeritur, si est tantum una harum falsarum secundum quam fiat contraria ipsi verae: quia cum unum uni sit contrarium, ut dicitur in X metaphysicae, quaerendo quae harum sit contraria, quaeremus etiam an una earum sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus: quaeritur quae harum sit contraria; quamquam sciamus quod non utraque sed una earum est secundum quam fit contrarietas. Tertio modo, potest legi dividendo hanc particulam, et si est una, ab illa sequenti, secundum quam contraria est; et tunc prima pars expressive, secunda vero dubitative legitur; et est sensus: quaeritur quae harum falsarum contraria est verae, non solum si istae duae falsae inter se differunt in consequendo, sed etiam si utraque est una, idest alteri indivisibiliter unita, quaeritur secundum quam fit contrarietas. Et hoc modo exponit Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit haec verba propter contraria immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter contraria enim mediata et immediata haec est differentia, quod in immediatis a privativo contrarium non infertur. Non enim valet, corpus colorabile est non album, ergo est nigrum: potest enim esse rubrum. In immediatis autem valet; verbi gratia: animal est non sanum, ergo infirmum; numerus est non par, ergo impar. Voluit ergo Aristoteles exprimere quod nunc, cum quaerimus quae harum falsarum, scilicet negativae et affirmativae contrarii, sit contraria affirmativae verae, quaerimus universaliter sive illae duae falsae indivisibiliter se sequantur, sive non.                      7. Then he adds, the question, and if there is one, is either one the contrary. This passage can be read in three ways. It can be read inquiringly so that it is a part of the question, and then the meaning is: which of these false opinions is contrary to the true opinion, and, is there one of these by which the contrary to the true one is effected? For since one is contrary to one other, as is said in X Metaphysicae [1: 1055a 19], in asking which of these is the contrary we are also asking whether one of them is the contrary. This can also be read adversatively, and then the meaning is: which of these is the contrary, given that we know it is not both but one by which the contrariety is effected? This can be read in a third way by dividing the first clause, "and if it is one” from the second clause, "is either one the contrary.” The first part is then read assertively, the second inquiringly, and the meaning is: which of these two false opinions is contrary to the true opinion if the two false opinions differ as to consequence, and also if both are one, i.e., united to each other indivisibly? Boethius explains this passage in the last way. He says that Aristotle adds these words because of immediate contraries in which the contrary does not differ from the privative. For the difference between mediate and immediate contraries is that in the former the contrary is not inferred from the privative. For example, this is not valid: "A colored body is not white, therefore it is black”—for it could be red. In immediate contraries, on the other hand, it is valid to infer the contrary from the privative; e.g., "An animal is not healthy, therefore it is number is not even, therefore it is odd.” Therefore, Aristotle intends to show here that when we ask which of these false opinions, i.e., negative and affirmative contraries, is contrary to the true affirmative, we are asking universally whether these two false opinions follow each other indivisibly or not. 8. Deinde cum dicit: nam arbitrari, prosequitur hanc secundam quaestionem. Et circa hoc quatuor facit. Primo, declarat quod contrarietas opinionum non attenditur penes contrarietatem materiae, circa quam versantur, sed potius penes oppositionem veri vel falsi; secundo, declarat quod non penes quaecunque opposita secundum veritatem et falsitatem est contrarietas opinionum; ibi: si ergo boni etc.; tertio, determinat quod contrarietas opinionum attenditur penes per se primo opposita secundum veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi: sed in quibus primo fallacia etc.; quarto declarat hanc determinationem inveniri in omnibus veram; ibi: manifestum est igitur et cetera. Dicit ergo proponens intentam conclusionem, quod falsum est arbitrari opiniones definiri seu determinari debere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt. Et adducit ad hoc duplicem rationem. Prima est: opiniones contrariae non sunt eadem opinio; sed contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non sunt contrariae ex hoc quod contrariorum sunt. Secunda est: opiniones contrariae non sunt simul verae; sed opiniones contrariorum, sive plures, sive una, sunt simul verae quandoque; ergo opiniones non sunt contrariae ex hoc quod contrariorum sunt. Harum rationum, suppositis maioribus, ponit utriusque minoris declarationem simul, dicens: boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam malum est, eadem fortasse opinio est, quoad primam. Et subdit esse vera, sive plures sive una sit, quoad secundam. Utitur autem dubitativo adverbio et disiunctione, quia non est determinandi locus an contrariorum eadem sit opinio, et quia aliquo modo est eadem et aliquo modo non. Si enim loquamur de habituali opinione, sic eadem est; si autem de actuali, sic non eadem est. Alia siquidem mentalis compositio actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum, et alia concipiendo malum esse malum, licet eodem habitu utrunque cognoscamus, illud per se primo, et hoc secundario, ut dicitur IX metaphysicae. Deinde subdit quod ista quae ad declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et malum, contraria sunt etiam contrarietate sumpta stricte in moralibus, ac per hoc congrua usi sumus declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod contrariorum opiniones sunt, contrariae sunt, sed magis in eo quod contrariae, idest, sed potius censendae sunt opiniones contrariae ex eo quod contrariae adverbialiter, scilicet contrario modo, idest vere et false enunciant. Et sic patet primum. When he says, It is false, of course, to suppose that opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc., he proceeds with the second question. First he shows that contrariety of opinions is not determined by the contrariety of the matter involved, but rather by the opposition of true and false; secondly, he shows that there is not contrariety of opinions in just any opposites according to truth and falsity, where he says, Now if there is the opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not good, etc.; third, he determines that contrariety of opinions is concerned with the per se first opposites; according to truth and falsity, for three reasons, where he says, Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited as contrary to true opinions, etc.; finally, he shows that this determination is true of all, where he says, It is evident that it will make no difference if we posit the affirmation universally, for the universal negation will be the contrary, etc. Aristotle says, then, proposing the conclusion he intends to prove, that it is false to suppose that opinions are to be defined or determined as contrary because they are about contrary objects. He gives two arguments for this. Contrary opinions are not the same opinion; but opinions about contraries are probably the same opinion; therefore, opinions are not contrary from the fact that they are about contraries. And, contrary opinions are not simultaneously true; but opinions about contraries, whether many or one, are sometimes true simultaneously; therefore, opinions are not contraries because they are about contraries. Having supposed the majors of these arguments, he posits a manifestation of each minor at the same time. In relation to the first argument, he says, for the opinion of that which is good, that it is good, and of that which is evil, that it is evil are probably the same. In relation to the second argument he adds: and, whether many or one, are true. He uses "probably,” an adverb expressing doubt and disjunction, because this is not the place to determine whether the opinion of contraries is the same opinion, and, because in some way the opinion is the same and in some way not. In the case of habitual opinion, the opinion of contraries is the same, but in the case of an actual opinion it is not. One mental composition is actually made in conceiving that a good is good and another in conceiving that an evil is evil, although we know both by the same habit, the former per se and first, the latter secondarily, as is said in IX Metaphysicae [4: 1051a 4]. Then he adds that good and evil—which are used for the manifestation of the minor—are contraries even when the contrariety is taken strictly in moral matters; and so in using this our exposition is apposite. Finally, he draws the conclusion: however, opinions are not contraries because they are about contraries, but rather because they are contraries, i.e., opinions are to be considered as contrary from the fact that they enunciate contrarily, adverbially, i.e., in a contrary mode, i.e., they enunciate truly and falsely. Thus the first argument is clear. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 9Si ergo boni et cetera. Quia dixerat quod contrarietas opinionum accipitur secundum oppositionem veritatis et falsitatis earum, declarat modo quod non quaecunque secundum veritatem et falsitatem oppositae opiniones sunt contrariae, tali ratione. De bono, puta, de iustitia, quatuor possunt opiniones haberi, scilicet quod iustitia est bona, et quod non est bona, et quod est fugibilis, et quod est non appetibilis. Quarum prima est vera, reliquae sunt falsae. Inter quas haec est diversitas quod, prima negat idem praedicatum quod vera affirmabat; secunda affirmat aliquid aliud quod bono non inest; tertia negat id quod bono inest, non tamen illud quod vera affirmabat. Tunc sic. Si omnes opiniones secundum veritatem et falsitatem sunt contrariae, tunc uni, scilicet verae opinioni non solum multa sunt contraria, sed etiam infinita: quod est impossibile, quia unum uni est contrarium. Tenet consequentia, quia possunt infinitae imaginari opiniones falsae de una re similes ultimis falsis opinionibus adductis, affirmantes, scilicet ea quae non insunt illi, et negantes ea quae illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque namque indeterminata esse et absque numero constat. Possumus enim opinari quod iustitia est quantitas, quod est relatio, quod est hoc et illud; et similiter opinari quod iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus. Unde ex supradictis in propositione quaestionis, inferens pluralitatem falsarum contra unam veram, ait: si ergo est opinatio vera boni, puta iustitiae, quoniam est bonum; et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam non est quid bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid aliud inesse illi, quod non inest nec inesse potest, puta, quod iustitia sit fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur quarta falsa quoque, quae scilicet negat aliquid aliud ab eo quod vera opinio affirmat inesse iustitiae, quod tamen inest, ut puta quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita inquam est, nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni verae. Et exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: neque quaecunque opinio opinatur esse quod non est, ut tertii ordinis opiniones faciunt: neque quaecunque opinio opinatur non esse quod est, ut quarti ordinis opiniones significant. Et causam subdit: infinitae enim utraeque sunt, et quae esse opinantur quod non est, et quae non esse quod est, ut supra declaratum fuit. Non ergo quaecunque opiniones oppositae secundum veritatem et falsitatem contrariae sunt. Et sic patet secundum.When he says, Now, if there is the opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not good, etc., he takes up the second point. Since he has just said that contrariety of opinions is taken according to their opposition of truth and falsity, he goes on to show that not just any opposites according to truth and falsity are contraries. This is his argument. Four opinions can be held about a good, for instance justice: that justice is good, that it is not good, that it is avoidable, that it is not desirable. Of these, the first is true, the rest false. The three false ones are diverse. The first denies the same predicate the true one affirmed; the second affirms something which does not belong to the good; the third denies what belongs to the good, but something other than the true one affirmed. Now if all opinions opposed as to truth and falsity are contraries, then not only are there many contraries to one true opinion, but an infinite number. But this is impossible, for one is contrary to one other. The consequence holds because infinite false opinions about one thing, similar to those cited, can be imagined; such opinions would affirm of it what does not belong to it and deny what is joined to it in some way. Both kinds are indeterminate and without number. We can think, for instance, that justice is a quantity, that it is a relation, that it is this and that; and likewise we can think that it is not a quality, is not desirable, is not a habit. Hence, from what was said above in proposing the question, Aristotle infers a plurality of false opinions opposed to one true opinion: Now if there is the opinion of that which is good, for instance justice, that it is good, and there is a false opinion denying the same thing, namely, that it is not good, and besides these a third opinion, false also, affirming that some other thing belongs to justice that does not belong and cannot belong to it (for instance, that justice is avoidable, that it is illicit) and a fourth opinion, also false, that denies something other than the true opinion affirms, something, however, which does belong to justice (for instance, that it is not a quality, that it is not a virtue), none of these other false enunciations are to be posited as the contrary of the true opinion. To explain what he is designating by "of these others,” he adds, neither those purporting that what is not, is, as opinions of the third order do, nor those purporting that what is, is not, as opinions of the fourth order signify. Then he adds the reason these cannot be posited as the contrary of the true opinion: for both the opinions that that is which is not, and that which is not, is, are infinite, as was shown above. Therefore, not just any opinions opposed according to truth and falsity are contraries. Thus the second argument is clear. XIV. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 1Quia subtili indagatione ostendit quod nec materiae contrarietas, nec veri falsique qualiscunque oppositio contrarietatem opinionum constituit, sed quod aliqua veri falsique oppositio id facit, ideo nunc determinare intendit qualis sit illa veri falsique oppositio, quae opinionum contrarietatem constituit. Ex hoc enim directe quaestioni satisfit. Et intendit quod sola oppositio opinionum secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem etc. constituit contrarietatem earum. Unde intendit probare istam conclusionem per quam ad quaesitum respondet: opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariae; et consequenter illae, quae sunt oppositae secundum affirmationem contrariorum praedicatorum de eodem, non sunt contrariae, quia sic affirmativa vera haberet duas contrarias, quod est impossibile. Unum enim uni est contrarium.Aristotle has just completed a subtle investigation in which he has shown that contrariety of matter does not constitute contrariety of opinion, nor does just any kind of opposition of true and false, but some opposition of true and false does. Now he intends to determine what kind of opposition of true and false it is that constitutes contrariety of opinions, for this will answer the question directly. He maintains that only opposition of opinions according to affirmation and negation of the same thing of the same thing, etc., constitutes their contrariety. Accordingly, as the response to the question, he intends to prove the following conclusion: opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing of the same thing are contraries; and consequently, opinions opposed according to affirmation of contrary predicates of the same subject are not contraries, for if these were contraries, the true affirmative would have two contraries, which is impossible, since one is contrary to one other. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 2Probat autem istam conclusionem tribus rationibus. Prima est: opiniones in quibus primo est fallacia sunt contrariae; opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt in quibus primo est fallacia; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariae. Sensus maioris est: opiniones quae primo ordine naturae sunt termini fallaciae, idest deceptionis seu erroris, sunt contrariae: sunt enim, cum quis fallitur seu errat, duo termini, scilicet a quo declinat, et ad quem labitur. Huius rationis in littera primo ponitur maior, cum dicitur: sed in quibus primo fallacia est; adversative enim continuans sermonem supradictis, insinuavit non tot enumeratas opiniones esse contrarias, sed eas in quibus primo fallacia est modo exposito. Deinde subdit probationem minoris talem: eadem proportionaliter sunt, ex quibus sunt generationes et ex quibus sunt fallaciae; sed generationes sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem; ergo et fallaciae sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem. Quod erat assumptum in minore. Unde ponens maiorem huius prosyllogismi, ait: haec autem, scilicet fallacia, est ex his, scilicet terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et generationes. Et subsumit minorem: ex oppositis vero, scilicet secundum affirmationem et negationem, et generationes fiunt. Et demum concludit: quare etiam fallacia, scilicet, est ex oppositis secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem. Aristotle uses three arguments to prove this conclusion. The first one is as follows: Those opinions in which there is fallacy first are contraries. Opinions opposed according to affirmation and negation of the same predicate of the same subject are those in which there is fallacy first. Therefore, these are contraries. The sense of the major is this: Opinions which first in the order of nature are the limits of fallacy, i.e., of deception or error, are contraries; for when someone is deceived or errs, there are two limits, the one from which he turns away and the one toward which he turns. In the text the major of the argument is posited first: Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited as contrary to true opinions. By uniting this part of the text adversatively with what was said previously, Aristotle implies that not just any of the number of opinions enumerated are contraries, but those in which there is fallacy first in the manner we have explained. Then he gives this proof of the minor: those things from which generations are and from which fallacies are, are the same proportionally; generations are from opposites according to affirmation and negation; therefore fallacies, too, are from opposites according to affirmation and negation (which was assumed in the minor). Hence he posits the major of this prosyllogism: Now the things from which fallacies arise, namely, limits, are the things from which generations arise—proportionally however. Under it he posits the minor: but generations are from opposites, i.e., according to affirmation and negation. Finally, he concludes, therefore also fallacies, i.e., they are from opposites according to affirmation and negation of the same thing of the same thing. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 3Ad evidentiam huius probationis scito quod idem faciunt in processu intellectus cognitio et fallacia seu error, quod in processu naturae generatio et corruptio. Sicut namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur, corruptionibus desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales acquiruntur, erroribus autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam generatio quam corruptio est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos, ut dicit V Physic.; ita tam cognoscere aliquid, quam falli circa illud, est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod id ad quod primo attingit cognoscens aliquid in secunda operatione intellectus est veritatis affirmatio, et quod per se primo abiicitur est illius negatio. Et similiter quod per se primo perdit qui fallitur est veritatis affirmatio, et quod primo incurrit est veritatis negatio. Recte ergo dixit quod iidem sunt termini inter quos primo est generatio, et illi inter quos est primo fallacia, quia utrobique termini sunt affirmatio et negatio. This proof will be more evident from the following: Knowledge and fallacy, or error, bring about the same thing in the intellect’s progression as generation and corruption do in nature’s progression. For just as natural perfections are acquired by generations and perish by corruptions, so intellectual perfections are acquired by knowledge and lost by errors or deceptions. Accordingly, just as generation and corruption are between affirmation and negation as proper terms, as is said in V Physicae [1:224b 35] so both to know something and to be deceived about it is between affirmation and negation as proper terms. Consequently, what one who knows attains first in the second operation of the intellect is affirmation of the truth, and what he rejects per se and first is the negation of it. In like manner, what he who is deceived loses per se and first is affirmation of the truth, and acquires first is negation of the truth. Therefore Aristotle is correct in maintaining that the terms between which there is generation first and between which there is fallacy first are the same, because with respect to both, the terms are affirmation and negation. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 4Deinde cum dicit: si ergo quod bonum est etc., intendit probare maiorem principalis rationis. Et quia iam declaravit quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt affirmatio et negatio, ideo utitur, loco maioris probandae, scilicet, opiniones in quibus primo est fallacia, sunt contrariae, sua conclusione, scilicet, opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariae. Aequivalere enim iam declaratum est. Fecit autem hoc consuetae brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et respondet directe quaestioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo loco maioris conclusionem principaliter intentam quaestionis, hanc, scilicet: opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariae; et non illae, quae sunt oppositae secundum contrariorum affirmationem de eodem. Et intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt contrariae opiniones; oppositae secundum affirmationem et negationem sunt vera et eius magis falsa; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem sunt contrariae. Maior probatur ex eo quod, quae plurimum distant circa idem sunt contraria; vera autem et eius magis falsa plurimum distant circa idem, ut patet. Minor vero probatur ex eo quod opposita secundum negationem eiusdem de eodem est per se falsa respectu suae affirmationis verae. Opinio autem per se falsa magis falsa est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale, magis tale est quolibet quod est per aliud tale. When he says, Now, if that which is good is both good and not evil, the former per se, the latter accidentally, etc., he intends to prove the major of the principal argument. He has already shown that the opinions in which there is fallacy first are affirmation and negation, and therefore in place of the major to be proved (i.e., opinions in which it there is fallacy first are contraries) he uses his conclusion—which has already been shown to be equivalent—that opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing are contraries. Thus with his customary brevity he at once proves the major, responds directly to the question, and applies it to what he has proposed. In place of the major, then, he proves the conclusion principally intended, i.e., that opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing are contraries, and not those opposed according to affirmation of contraries about the same thing. His argument is as follows: A true opinion and the opinion that is more false in respect to it are contrary opinions, but opinions opposed according to affirmation and negation are the true opinion and the opinion that is more false in respect to it; therefore, opinions opposed according to affirmation and negation are contraries. The major is proved thus: those things that are most distant in respect to the same thing are contraries; but the true and the more false are most distant in respect to the same thing, as is clear. The proof of the minor is that the opposite according to negation of the same thing of the same thing is per se false in relation to the true affirmation of it. But a per se false opinion is more false than any other, since each thing that is per se such is more such than anything that is such by reason of something else. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 5Unde ad suprapositas opiniones in propositione quaestionis rediens, ut ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a probatione minoris inchoat tali modo. Sint quatuor opiniones, duae verae, scilicet, bonum est bonum, bonum non est malum, et duae falsae, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum. Clarum est autem quod prima vera est ratione sui, secunda autem est vera secundum accidens, idest, ratione alterius, quia scilicet non esse malum est coniunctum ipsi bono: ideo enim ista est vera, bonum non est malum, quia bonum est bonum, et non e contra; ergo prima quae est secundum se vera, est magis vera quam secunda: quia in unoquoque genere quae secundum se est vera est magis vera. Illae autem duae falsae eodem modo censendae sunt, quod scilicet magis falsa est, quae secundum se est falsa. Unde quia prima earum, scilicet, bonum non est bonum, quae est negativa, est per se et non ratione alterius falsa, relata ad illam affirmativam, bonum est bonum; et secunda, scilicet, bonum est malum, quae est affirmativa contrarii, ad eamdem relata est falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim, scilicet, bonum est malum, non immediate falsificatur ab illa vera, scilicet bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa, scilicet, bonum non est bonum); idcirco magis falsa respectu affirmationis verae est negatio eiusdem quam affirmatio contrarii. Quod erat assumptum in minore. Accordingly, returning to the opinions already given in proposing the question so as to show his intention more clearly by example, he begins with the proof of the minor. There are four opinions, of which two are true, "A good is good,” "A good is not evil”; two are false, "A good is not good” and "A good is evil.” It is evident that the first is true by reason of itself, the second accidentally, i.e., by reason of another, for not to be evil is added to that which is good. Hence, "A good is not evil” is true because a good is good, and not contrarily. Therefore, the first of these opinions, which is per se true, is more true than the second, for in each genus that which per se is true is more true. The two false opinions are to be judged in the same way. The more false is the one that is per se false. The first of them, the negative, "A good is not good,” in relation to the affirmative, "A good is good,” is per se false, not false by reason of another. The second, the affirmative of the contrary, "A good is evil,” in relation to the same opinion, is false accidentally, i.e., by reason of another (for "A good is evil” is not immediately falsified by the true opinion, "A good is good,” but mediately through the other false opinion "A good is not good”). Therefore, the negation of the same thing is more false in respect to a trite affirmation than the affirmation of a contrary. This was assumed in the minor. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 6Unde rediens ad supra positas (ut dictum est) opiniones, infert primas duas veras opiniones dicens: si ergo quod bonum est et bonum est et non est malum, et hoc quidem, scilicet quod dicit prima opinio, est verum secundum se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit secunda opinio, est verum secundum accidens, quia accidit, idest, coniunctum est ei, scilicet bono, malum non esse. In unoquoque autem ordine magis vera est illa quae secundum se est vera. Etiam igitur falsa magis est quae secundum se falsa est: siquidem et vera huius est naturae, ut declaratum est, quod scilicet magis vera est, quae secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum falsarum in quaestione propositarum, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum, ea quae est dicens, quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa; scilicet, bonum non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione sui continet in seipsa falsitatem; illa vero reliqua falsa opinio, quae est dicens, quoniam malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet, bonum est malum, eius, quae est, idest, illius affirmationis dicentis, bonum est bonum, secundum accidens, idest, ratione alterius falsa est. Deinde subdit ipsam minorem: quare erit magis falsa de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem dicens quod, semper magis falsus circa singula est ille qui habet contrariam opinionem, ac si dixisset, verae opinioni magis falsa est contraria. Quod assumptum erat in maiore. Et eius probationem subdit, quia contrarium est de numero eorum quae circa idem plurimum differunt. Nihil enim plus differt a vera opinione quam magis falsa circa illam. As was pointed out above, Aristotle returns to the opinions already posited, and infers the first two true opinions: Now if that which is good is both good and not evil, and if what the first opinion says is true per se, i.e., by reason of itself, and what the second opinion says is trite accidentally (since it is accidental to it, i.e., added to it, that is, to the good, not to be evil) and if in each order that which is per se true is more true, then that which is per se false is more false, since, as has been shown, the true also is of this nature, namely, that the more true is that which per se is true. Therefore, of the two false opinions proposed in the question, namely, "A good is not good,” and "A good is evil,” the one saying that what is good is not good, namely, the negative, is an opinion positing what is per se false, i.e., by reason of itself it contains falsity in it. The other false opinion, the one saying it is evil, namely, the affirmative contrary in respect to it, i.e., in respect to the affirmation saying that a good is good, is false accidentally, i.e., by reason of another. Then he gives the minor: Therefore, the opinion of the negation of the good will be more false than the opinion affirming a contrary. Next, he posits the major, the one who holds the contrary judgment about each thing is most mistaken, i.e., in relation to the true judgment the contrary is more false. This was assumed in the major. He gives as the proof of this, for contraries are those that differ most with respect to the same thing, for nothing differs more from a true opinion than the more false opinion in respect to it. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 7Ultimo directe applicat ad quaestionem dicens: quod si (pro, quia) harum falsarum, scilicet, negationis eiusdem et affirmationis contrarii, altera est contraria verae affirmationi, opinio vero contradictionis, idest, negationis eiusdem de eodem, magis est contraria secundum falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam haec, scilicet opinio falsa negationis, erit contraria affirmationi verae, et e contra. Illa vero opinio quae est dicens, quoniam malum est quod bonum est, idest, affirmatio contrarii, non contraria sed implicita est, idest, sed implicans in se verae contrariam, scilicet, bonum non est bonum. Etenim necesse est ipsum opinantem affirmationem contrarii opinari, quoniam idem de quo affirmat contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis opinatur quod vita est mala, quod opinetur quod vita non sit bona. Hoc enim necessario sequitur ad illud, et non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur. Negatio autem eiusdem de eodem implicita non est. Et sic finitur prima ratio. Finally, he directly approaches the question. If (for "since”), then, of two opinions (namely, false opinions—the negation of the same thing and the affirmation of a contrary), one is the contrary of the true affirmation, and, the contradictory opinion, i.e., the negation of the same thing of the same thing, is more contrary according to falsity, i.e., is more false, it is evident that the false opinion of negation will be contrary to the true affirmation, and conversely. The opinion saying that what is good is evil, i.e., the affirmation of a contrary, is not the contrary but implies it, i.e., it implies in itself the opinion contrary to the true opinion, i.e., "A good is not good.” The reason for this is that the one conceiving the affirmation of a contrary must conceive that the same thing of which he affirms the contrary, is not good. If, for example, someone conceives that life is evil, he must conceive that life is not good, for the former necessarily follows upon the latter and not conversely. Hence, affirmation of a contrary is said to be implicative, but negation of the same thing of the same thing is not implicative. This concludes the first argument. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 8Notandum est hic primo quod ista regula generalis tradita hic ab Aristotele de contrarietate opinionum, quod scilicet contrariae opiniones sunt quae opponuntur secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem, et in se et in assumptis ad eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde multa hic insurgunt dubia. Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem et negationem non constituat contrarietatem sed contradictionem apud omnes philosophos, quomodo Aristoteles opiniones oppositas secundum affirmationem et negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia dixit quod ea in quibus primo est fallacia sunt contraria, et tamen subdit quod sunt oppositae sicut termini generationis, quos constat contradictorie opponi. Nec dubitatione caret quomodo sit verum id quod supra diximus ex intentione s. Thomae, quod nullae duae opiniones opponantur contradictorie, cum hic expresse dicitur aliquas opponi secundum affirmationem et negationem. Dubium secundo insurgit circa id quod assumpsit, quod contraria cuiusque verae est per se falsa. Hoc enim non videtur verum. Nam contraria istius verae, Socrates est albus, est ista, Socrates non est albus, secundum determinata; et tamen non est per se falsa. Sicut namque sua opposita affirmatio est per accidens vera, ita ista est per accidens falsa. Accidit enim isti enunciationi falsitas. Potest enim mutari in veram, quia est in materia contingenti. Dubium est tertio circa id quod dixit: magis vero contradictionis est contraria. Ex hoc enim videtur velle quod utraque, scilicet, opinio negationis et contrarii, sit contraria verae affirmationi; et consequenter vel uni duo ponit contraria, vel non loquitur de contrarietate proprie sumpta: cuius oppositum supra ostendimus. The general rule about the contrariety of opinions that Aristotle has given here (namely, that contrary opinions are those opposed according to affirmation and negation of the same thing of the same thing) is accurate both in itself and in the propositions assumed for its proof. Many questions may arise, however, as a consequence of this doctrine and its proof. First of all, all philosophers hold that opposition according to affirmation and negation constitutes contradiction, not contrariety. How, then, can Aristotle maintain that opinions opposed in this way are contraries? The difficulty is augmented by the fact that he has said that those opinions in which there is fallacy first are contraries, yet he adds that they are opposed as the terms of generation are, which he establishes to be opposed contradictorily. In addition, there is a difficulty as to the way in which the assertion of St. Thomas, which we used above, is true, namely, that no two opinions are opposed contradictorily, since here it is explicitly said that some are opposed according to affirmation and negation. The second uestion involves his assumption that the contrary of each true opinion is per se false. This does not seem to be true, for according to what was determined previously, the contrary of the true opinion "Socrates is white” is "Socrates is not white.” But this is not per se false, for the opposed affirmation is true accidentally, and hence its negation is false accidentally. Falsity is accidental to such an enunciation because, being in contingent matter, it can be changed into a true one. A third difficulty arises from the fact that Aristotle says the contradictory opinion is nwre contrary. He seems to be proposing, according to this, that both the opinion of the negation and of a contrary are contrary to a true affirmation. Consequently, he is either positing two opinions contrary to one or he is not taking contrariety strictly, although we showed above that he was taking contrariety properly and strictly. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 9Ad evidentiam omnium, quae primo loco adducuntur, sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales, in secunda operatione de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum id quod sunt absolute; alio modo, secundum ea quae repraesentant absolute; tertio, secundum ea quae repraesentant, ut sunt in ipsis opinionibus. Primo membro omisso, quia non est praesentis speculationis, scito quod si accipiantur secundo modo secundum repraesentata, sic invenitur inter eas et contradictionis, et privationis, et contrarietatis oppositio. Ista siquidem mentalis enunciatio, Socrates est videns, secundum id quod repraesentat opponitur illi, Socrates non est videns, contradictorie; privative autem illi, Socrates est caecus; contrarie autem illi, Socrates est luscus; si accipiantur secundum repraesentata. Ut enim dicitur in postpraedicamentis, non solum caecitas est privatio visus, sed etiam caecum esse est privatio huius quod est esse videntem, et sic de aliis. Si vero accipiantur opiniones tertio modo, scilicet, prout repraesentata per eas sunt in ipsis, sic nulla oppositio inter eas invenitur nisi contrarietas: quoniam sive opposita contradictorie sive privative sive contrarie repraesententur, ut sunt in opinionibus, illius tantum oppositionis capaces sunt, quae inter duo entia realia inveniri potest. Opiniones namque realia entia sunt. Regulare enim est quod quidquid convenit alicui secundum esse quod habet in alio, secundum modum et naturam illius in quo est sibi convenit, et non secundum quod exigeret natura propria. Inter entia autem realia contrarietas sola formaliter reperitur. Taceo nunc de oppositione relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptae, si oppositae sunt, contrarietatem sapiunt, sed non omnes proprie contrariae sunt, sed illae quae plurimum differunt circa idem veritate et falsitate. Has autem probavit Aristoteles esse opiniones affirmationis et negationis eiusdem de eodem. Istae igitur verae contrariae sunt. Reliquae vero per reductionem ad has contrariae dicuntur. In order to answer all of the difficulties in regard to the first argument it must be noted that opinions, or intellectual conceptions in the second operation, can be taken in three ways: (1) according to what they are absolutely; (2) according to the things they represent absolutely, (3) according to the things they represent, as they are in opinions. We will omit the first since it does not belong to the present consideration. If they are taken in the second way, i.e., according to the things represented, there can be opposition of contradiction, of privation, and of contrariety among them. The mental enunciation "Socrates sees,” according to what it represents, is opposed contradictorily to. Socrates does not see”; privatively to "Socrates is blind”; contrarily to "Socrates is purblind.” Aristotle points out the reason for this in the Postpredicamenta [Categ. 10: 12a 35]: not only is blindness privation of sight but to be blind is also a privation of to be seeing, and so of others. Opinions taken in the third way, i.e., as the things represented through opinions are in the opinions, have no opposition except contrariety; for opposites as they are in opinions, whether represented contradictorily or privatively or contrarily, only admit of the opposition that can be found between two real beings, for opinions are real beings. The rule is that whatever belongs to something according to the being which it has in another, belongs to it according to the mode and nature of that in which it is, and not according to what its own nature would require. Now, between real beings only contrariety is found formally. (I am omitting here the consideration of relative opposition.) Therefore, opinions taken in this mode, if they are opposed, represent contrariety, although not all are contraries properly. Only those differing most in respect to truth and falsity about the same thing are contraries properly. Now Aristotle proved that these are - judgments affirming and denying the same thing of the same thing. Therefore, these are the true contraries. The rest are called contraries by reduction to these. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 10 Ex his patet quid ad obiecta dicendum sit. Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem constituunt; in opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant propter extremam distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem scilicet veram et opinionem falsam circa idem. Stantque ista duo simul quod ea, in quibus primo est fallacia, sint opposita ut termini generationis, et tamen sint contraria utendo supradicta distinctione: sunt enim opposita contradictorie ut termini generationis secundum repraesentata; sunt autem contraria, secundum quod habent in seipsis illa contradictoria. Unde plurimum differunt. Liquet quoque ex hoc quod nulla est dissentio inter dicta Aristotelis et s. Thomae, quia opiniones aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse confitemur, si ad repraesentata nos convertimus, ut hic dicitur. From this the answer to the objections is clear. We grant that affirmation and negation in themselves constitute contradiction. In actual judgments,”’ affirmation and negation cause contrariety between opinions because of the extreme distance they posit between real beings, namely, true opinion and false opinion in respect to the same thing. And these two stand at the same time: those in which there is fallacy first are opposed as the terms of generation are and yet they are contraries by the use of the foresaid distinction—for they are opposed contradictorily as terms of generation according to the things represented, but they are contraries insofar as they have in themselves those contradictories and hence differ most. It is also evident that there is no disagreement between Aristotle and St. Thomas, for we have shown that it is true that some opinions are opposed according to affirmation and negation if we consider the things represented, as is said here. 11. Tu autem qui perspicacioris ac provectioris ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones oppositas quidam tantum motus est, eo quod de affirmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas vero secundum repraesentata, similitudo quaedam generationis et corruptionis invenitur, dum inter affirmationem et negationem mutatio clauditur. Unde et fallacia sive error quandoque et motus et mutationis rationem habet diversa respiciendo, quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, quis mutat opinionem; quandoque autem solam mutationem imitatur, quando scilicet absque praeopinata veritate ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque vero motus undique rationem possidet, quando scilicet ex vera affirmatione in falsam circa idem contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis fallatur radix est oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus primo est fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit. It will be noted, however, by those of you who are more penetrating and advanced in your thinking, that between opposite opinions there is something of true motion when a change is made from the affirmed to the affirmed; but according to the order of representation there is a certain similitude to generation and corruption so long as the change is bounded by affirmation and negation. Consequently, fallacy or error may be regarded in different ways. Sometimes it has the aspect of both movement and change. This is the case when someone changes his opinion from a true one to one that is per se false, or conversely. Sometimes change alone is imitated. This happens when someone arrives at a false opinion apart from a former true opinion. Sometimes, however, there is movement in every respect. This is the case when reason passes from the true affirmation to the false affirmation of a contrary about the same thing. However, since the first root of being in error is the opposition of affirmation and negation, Aristotle is correct in saying that those in which there is fallacy first are opposed as are the terms of generation. 12. Ad dubium secundo loco adductum dico quod peccatur ibi secundum aequivocationem illius termini per se falsa, seu per se vera. Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera seu falsa. Uno modo, in seipsa, sicut sunt omnes verae secundum illos modos perseitatis qui enumerantur I posteriorum, et similiter falsae secundum illosmet modos, ut, homo non est animal. Et hoc modo non accipitur in hac regula de contrarietate opinionum et enunciationum opinio per se vera aut falsa, ut efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad contrarietatem opinionum hoc exigeretur non possent esse opiniones contrariae in materia contingenti: quod est falsissimum. Alio modo potest dici opinio sive enunciatio per se vera aut falsa respectu suae oppositae. Per se vera quidem respectu suae falsae, et per se falsa respectu suae verae. Et tunc nihil aliud est dicere, est per se vera respectu illius, nisi quod ratione sui et non alterius verificatur ex falsitate illius. Et similiter cum dicitur, est per se falsa respectu illius, intenditur quod ratione sui et non alterius falsificatur ex illius veritate. Verbi gratia; istius verae, Socrates currit, non est per se falsa, Socrates sedet, quia falsitas eius non immediate sequitur ex illa, sed mediante ista alia falsa, Socrates non currit, quae est per se illius falsa, quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius veritate falsificatur, ut patet. Et similiter istius falsae, Socrates est quadrupes, non est per se vera ista, Socrates est bipes, quia non per seipsam veritas istius illam falsificat, sed mediante ista, Socrates non est quadrupes, quae est per se vera respectu illius: propter seipsam enim falsitate istius verificatur, ut de se patet. Et hoc secundo modo utimur istis terminis tradentes regulam de contrarietate opinionum et enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni materia regula dicens quod, vera et eius per se falsa, et falsa et eius per se vera, sunt contrariae. Unde patet responsio ad obiectionem, quia procedit accipiendo ly per se vera, et per se falsa primo modo. With respect to the second question, I say that there is an equivocation of the term "per se false” and "per se true” in the objection. Opinion, as well as enunciation, can be called per se true or false in two ways. It can be called per se true in itself. This is the case in respect to all opinions and enunciations that are in accordance with the modes of perseity enumerated in I Posteriorum [4: 73a; 34–73b 15]. Similarly, they can be said to be per se false according to the same modes. An example of this would be "Man is not an animal.” Per se true or false is not taken in this mode in the rule about contrariety of opinions and enunciations, as the objection concludes. For if this were needed for contrariety of opinions there could not be contrary opinions in contingent matter, which is false. Secondly, an opinion or enunciation can be said to be per se true or false in respect to its opposite: per se true with respect to its opposite false opinion, and per se false with respect to its opposite true opinion. Accordingly, to say that an opinion is per se true in respect to its opposite is to say that on its own account and not on account of another it is verified by the falsity of its opposite. Similarly, to say that an opinion is per se false in respect to its opposite means that on its own account and not on account of another it is falsified by the truth of the opposite. For example, the opinion that is per se false in respect to the true opinion "Socrates is running "is not, "Socrates is sitting,” since the falsity of the latter does not immediately follow from the former, but mediately from the false opinion, "Socrates is not running.” It is the latter opinion that is per se false in relation to "Socrates is running,” since it is falsified on its own account by the truth of the opinion "Socrates is running,” and not through an intermediary. Similarly, the per se true opinion in respect to the false opinion "Socrates is four-footed” is not, "Socrates is two-footed,” for the truth of the latter does not by itself make the former false; rather, it is through "Socrates is not four-footed” as a medium, which is per se true in respect to "Socrates is four-footed”; for "Socrates is not four-footed” is verified on its own account by the falsity of "Socrates is four-footed,” as is evident. We are using "per se true” and "per se false” in this second mode in propounding the rule concerning contrariety of opinions and enunciations. Thus the rule that the true opinion and the per se false opinion in relation to it and the false opinion and the per se true in relation to it are contraries, is universally true in all matter. Consequently, the response to the objection is clear, for it results from taking "per se true” and "per se false” in the first mode. 13. Ad ultimum dubium dicitur quod, quia inter opiniones ad se invicem pertinentes nulla alia est oppositio nisi contrarietas, coactus fuit Aristoteles (volens terminis specialibus uti) dicere quod una est magis contraria quam altera, insinuans quidem quod utraque contrarietatis oppositionem habet respectu illius verae. Determinat tamen immediate quod tantum una earum, scilicet negationis opinio, contraria est affirmationi verae. Subdit enim: manifestum est quoniam haec contraria erit. Duo ergo dixit, et quod utraque, tam scilicet negatio eiusdem quam affirmatio contrarii, contrariatur affirmationi verae, et quod una tantum earum, negatio scilicet, est contraria. Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum est, ambae contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed difformiter, quia opinio negationis primo et per se contrariatur, affirmationis vero contrarii opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione scilicet negativae opinionis, ut declaratum est: sicut etiam in naturalibus albo contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo, hoc reductive, ut reducitur scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur V Physic. Secundum autem dictum simpliciter verum est, quoniam simpliciter contraria non sunt nisi extrema unius latitudinis, quae maxime distant; extrema autem unius distantiae non sunt nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se invicem opiniones unum extremum teneat affirmatio vera, reliquum uni tantum falsae dandum est, illi scilicet quae maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem esse probatum est. Haec igitur una tantum contraria est illi, simpliciter loquendo. Caeterae enim oppositae ratione istius contrariantur, ut de mediis dictum est. Non ergo uni plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est, ut obiiciendo dicebatur. The answer to the third difficulty is the following. Since there is no other opposition but contrariety between opinions pertaining to each other, Aristotle (since he chose to use limited terms) has been forced to say that one is more contrary than another, which implies that both have opposition of contrariety in respect to a true opinion. However, he determines immediately that only one of them, the negative opinion, is contrary to a true affirmation, when he adds, it is evident that it must be the contrary. What he says, then, is that each, i.e., both negation of the same thing and affirmation of a contrary, is contrary to a true affirmation, and that only one of them, i.e., the negation, is contrary. Both of these statements are true, for both contrarieties are caused by an opposition contrary to the affirmation, as was said, but not uniformly. The opinion of negation is contrary first and per se, the opinion of affirmation of a contrary, secondarily and accidentally, i.e., through another, namely, by reason of the negative opinion, as has already been shown. There is a parallel to this in natural things: both black and red are contrary to white, the former first, the latter reductively, i.e., inasmuch as red is reduced to black in a motion from white to red, as is said in V Physicorum [5: 229b 15]. However, the second statement, i.e., that only one of them, the negation, is contrary, is true simply, for the most distant extremes of one extent are contraries absolutely. Nov,, there are only two extremes of one distance and since between opinions pertaining to each other true affirmation is at one extreme, the remaining extreme must be granted to only one false opinion, i.e., to the one that is most distant from the true opinion. This has been proved to be the negative opinion. Only this one, then, is contrary to that absolutely speaking. Other opposites are contrary by reason of this one, as was said of those in between. Therefore, Aristotle has not posited many opinions contrary to one, nor used contrariety in a broad sense, both of which were maintained by the objector. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 14 Deinde cum dicit: amplius si etiam etc., probat idem, scilicet quod affirmationi contraria est negatio eiusdem, et non affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: si in aliis materiis oportet opiniones se habere similiter, idest, eodem modo, ita quod contrariae in aliis materiis sunt affirmatio et negatio eiusdem; et hoc, scilicet quod diximus de boni et mali opinionibus, videtur esse bene dictum, quod scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed negatio boni. Et probat hanc consequentiam subdens: aut enim ubique, idest, in omni materia, ea quae est contradictionis altera pars censenda est contraria suae affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla materia. Si enim est una ars generalis accipiendi contrariam opinionem, oportet quod ubique et in omni materia uno et eodem modo accipiatur contraria opinio. Et consequenter, si in aliqua materia negatio eiusdem de eodem affirmationi est contraria, in omni materia negatio eiusdem de eodem contraria erit affirmationi. Deinde intendens concludere a positione antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens quod illae materiae quibus non inest contrarium, ut substantia et quantitas, quibus, ut in praedicamentis dicitur, nihil est contrarium. De his quidem est per se falsa ea, quae est opinioni verae opposita contradictorie, ut qui putat hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est respectu putantis, Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum antecedens formaliter, directe concludit intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis dicens: si ergo hae, scilicet, affirmatio et negatio in materia carente contrario, sunt contrariae, et omnes aliae contradictiones contrariae censendae sunt. When Aristotle says, Further, if this necessarily holds in a similar way in till other cases it would seen that what we have said is correct, etc., he gives the second argument to prove that the negation of the same thing is contrary to the affirmation, and not the affirmation of a contrary. If opinions are necessarily related in a similar way, i.e., in the same way, in other matter, that is, in such a way that affirmation and negation of the same thing are contraries in other matter, it would seem that what we have said about the opinions of that which is good and that which is evil is correct, i.e., that the contrary of the affirmation of that which is good is not the affirmation of evil but the negation of good. He proves this consequence when he adds: for the opposition of contradiction either holds everywhere or nowhere, i.e., in every matter one part of a contradiction must be judged contrary to its affirmation—or never, i.e., in no matter. For if there is a general art which deals with contrary opinions, contrary Opinions must be taken everywhere and in every matter in one and the same mode. Consequently, if in any matter, negation of the same thing of the same thin- is the contrary of the affirmation, then in all matter negation of the same thing of the same thing will be the contrary of the affirmation. Since he intends in his proof to conclude from the position of the antecedent, Aristotle affirms the antecedent through its cause: in matter in which there is not a contrary, such as substance and quantity, which have no contraries, as is said in the Predicamcnta [Categ. 5: 3b 24; 6: 5b 10], the one contradictorily opposed to the true opinion is per se false. For example, he who thinks that man, for instance Socrates, is not man, is per se mistaken with regard to one who thinks that Socrates is man. Then he affirms the antecedent formally and concludes directly from the position of the antecedent to the position of the consequent. If then these, namely, affirmation and negation in matter which lacks a contrary, are contraries, all other contradictions must be judged to be contraries. 15. Deinde cum dicit: amplius similiter etc., probat idem tertia ratione, quae talis est: sic se habent istae duae opiniones de bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non est bonum, sicut se habent istae duae de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est bonum. Utrobique enim salvatur oppositio contradictionis. Et primae utriusque combinationis sunt verae, secundae autem falsae. Unde proponens hanc maiorem quoad primas veras utriusque combinationis ait: similiter se habet opinio boni, quoniam bonum est, et non boni quoniam non est bonum. Et subdit quoad secundas utriusque falsas: et super has opinio boni quoniam non est bonum, et non boni quoniam est bonum. Haec est maior. Sed illi verae opinioni de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, contraria non est, non bonum est malum, nec bonum non est malum, quae sunt de praedicato contrario, sed illa, non bonum est bonum, quae est eius contradictoria; ergo et illi verae opinioni de bono, scilicet, bonum est bonum, contraria erit sua contradictoria, scilicet, bonum non est bonum, et non affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde subdit minorem supradictam dicens: illi ergo verae opinioni non boni, quae est dicens quoniam scilicet non bonum non est bonum, quae est contraria. Non enim est sibi contraria ea opinio, quae dicit affirmativae praedicatum contrarium, scilicet, quod non bonum est malum: quia istae duae aliquando erunt simul verae. Nunquam autem vera opinio verae contraria est. Quod autem istae duae aliquando simul sint verae, patet ex hoc quod quoddam non bonum malum est: iniustitia enim quoddam non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias esse simul veras: quod est impossibile. At vero nec supradictae verae opinioni contraria est illa opinio, quae est dicens praedicatum contrarium negativae, scilicet, non bonum non est malum, eadem ratione, quia simul et hae erunt verae. Chimaera enim est quoddam non bonum, de qua verum est simul dicere quod non est bona, et quod non est mala. Relinquitur ergo tertia pars minoris quod ei opinioni verae quae, est dicens quoniam non bonum non est bonum, contraria est ea opinio non boni, quae est dicens quod est bonum, quae est contradictoria illius. Deinde subdit conclusionem intentam: quare et ei opinioni boni, quae dicit bonum est bonum, contraria est ea boni opinio, quae dicit quod bonum non est bonum, idest, sua contradictoria. Contradictiones ergo contrariae in omni materia censendae sunt. Then he says, Again, the opinions of that which is good, that it is good and of that which is not good, that it is not good, are parallel. This begins the third argument to prove the same thing. The two opinions of that which is good, that it is good, and that it is not good, are related in the same way as the two opinions of that which is not good, that it is not good and that it is good; i.e., the opposition of contradiction is kept in both. The first opinion of each combination is true, the second false. Hence with respect to the first true opinions of each combination he proposes this major: Again, the opinions of that which is good, that it is good, and of that which is not good, that it is not good, are parallel. With respect to the second false judgment of each combination he adds: so also are the opinions of that which is good, that it is not good, and of that which is not good, that it is good. This is the major. But the contrary of the true opinion of that which is not good, namely, the true opinion "That which is not good is not good,” is not, "That which is not good is evil,” nor "That which is not good is not evil,” which have a contrary predicate, but the opinion that that which is not good is good, which is its contradictory. Therefore, the contrary of the true opinion of that which is good, namely, the true opinion "That which is good is good,” will also be its contradictory, "That which is good is not good,” and not the affirmation of the contrary "That which is good is evil.” Hence he adds the minor which we have already stated: What, then, would be the contrary of the true opinion asserting that that which is not good is not good? The contrary of it is not the opinion which asserts the contrary predicate affirmatively, "That which is not good is evil,” because these two are sometimes at once true. But a true opinion is never contrary to a true opinion. That these two are sometimes at once true is evident from the fact that some things that are not good are evil. Take injustice; it is something not good, and it is evil. Therefore, contraries would be true at one and the same time, which is impossible. But neither is the contrary of the above true opinion the one asserting the contrary predicate negatively, "That which is not good is not evil,” and for the same reason. These will also be true at the same time. For example, a chimera is something not good, and it is true to say of it simultaneously that it is not good and that it is not evil. There remains the third part of the minor: the contrary of the true opinion that that which is not good is not good is the opinion that it is good, which is the contradictory of it. Then he concludes as he intended: the opinion that a good is not good is contrary to the opinion that a good is good, i.e., its contradictory. Therefore, it must be judged that contradictions are contraries in every matter. 16. Deinde cum dicit: manifestum est igitur etc., declarat determinatam veritatem extendi ad cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de indefinitis, et particularibus, et singularibus iam dictum est, eo quod idem evidenter apparet de eis in hac re iudicium (indefinitae enim et particulares nisi pro eisdem supponant sicut singulares, per modum affirmationis et negationis non opponuntur, quia simul verae sunt); ideo ad eas, quae universalis quantitatis sunt se transfert, dicens, manifestum esse quod nihil interest quoad propositam quaestionem, si universaliter ponamus affirmationes. Huic enim, scilicet, universali affirmationi, contraria est universalis negatio, et non universalis affirmatio de contrario; ut opinioni quae opinatur, quoniam omne bonum est bonum, contraria est, nihil horum, quae bona sunt, idest, nullum bonum est bonum. Et declarat hoc ex quid nominis universalis affirmativae, dicens: nam eius quae est boni, quoniam bonum est, si universaliter sit bonum: idest, istius opinionis universalis, omne bonum est bonum, eadem est, idest, aequivalens, illa quae opinatur, quidquid est bonum est bonum; et consequenter sua negatio contraria est illa quam dixi, nihil horum quae bona sunt bonum est, idest, nullum bonum est bonum. Similiter autem se habet in non bono: quia affirmationi universali de non bono reddenda est negatio universalis eiusdem, sicut de bono dictum est. He then says, It is evident that it will make no difference if we posit the affirmation universally, etc. Here he shows that the truth he has determined is extended to opinions of every quantity. The case has already been stated in respect to indefinites, particulars, and singulars. On this point their status is alike, for indefinites and particulars, unless they stand for the same thing, as is the case in singulars, are not opposed by way of affirmation and negation, since they are at once true. Therefore he turns his attention to those of universal quantity. It is evident, he says, that it will make no difference with respect to the proposed question if we posit the affirmations universally, for the contrary of the universal affirmative is the universal negative, and not the universal affirmation of a contrary. For example, the contrary of the opinion that everything that is good is good is the opinion that nothing that is good (i.e., no good) is good. He manifests this by the nominal definition of universal affirmative: for the opinion that that which is good is good, if the good is universal, i.e., the universal opinion "Every good is good,” is the same, i.e., is equivalent to the opinion that whatever is good is good. Consequently, its negation is the contrary I have stated, "Nothing which is good is good,” i.e., "No good is good.” The case is similar with respect to the not good. The universal negation of the not good is opposed to the universal affirmation of the not good, as we have stated with respect to the good. 17. Deinde cum dicit: quare si in opinione sic se habet etc., revertitur ad respondendum quaestioni primo motae, terminata iam secunda, ex qua illa dependet. Et circa hoc duo facit: quia primo respondet quaestioni; secundo, declarat quoddam dictum in praecedenti solutione; ibi: manifestum est autem quoniam et cetera. Circa primum duo facit. Primo, directe respondet quaestioni, dicens: quare si in opinione sic se habet contrarietas, ut dictum est; et affirmationes et negationes quae sunt in voce, notae sunt eorum, idest, affirmationum et negationum quae sunt in anima; manifestum est quoniam affirmationi, idest, enunciationi affirmativae, contraria erit negatio circa idem, idest, enunciatio negativa eiusdem de eodem, et non enunciatio affirmativa contrarii. Et sic patet responsio ad primam quaestionem, qua quaerebatur, an enunciationi affirmativae contraria sit sua negativa, an affirmativa contraria. Responsum est enim quod negativa est contraria. Secundo, dividit negationem contrariam affirmationi, idest, negationem universalem et contradictoriam, dicens: universalis, scilicet, negatio, affirmationi contraria est et cetera. Ut exemplariter dicatur, ei enunciationi universali affirmativae quae est, omne bonum est bonum, vel, omnis homo est bonus, contraria est universalis negativa, ea scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est bonus: singula singulis referendo. Contradictoria autem negatio, contraria illi universali affirmationi est, aut, non omnis homo est bonus, aut, non omne bonum est bonum, singulis singula similiter referendo. Et sic posuit utrunque divisionis membrum, et declaravit. Then he says, If, therefore, this is the case with respect to opinion, and. affirmations and negations in vocal sound are signs of those in the soul, etc. With this he returns to the question first advanced, to reply to it, for he has now completed the second on which the first depends. He first replies to the question, then manifests a point in the solution of a preceding difficulty where he says, It is evident, too, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc. First, then, he replies directly to the question: If, therefore, contrariety is such in the case of opinions, and affirmations and negations in vocal sound are signs of affirmations and negations in the soul, it is evident that the contrary of the affirmation, i.e., of the affirmative, enunciation, is the negation of the same subject. In other words, the negative enunciation of the same predicate of the same subject will be the contrary, and not the affirmative enunciation of a contrary. Thus the response to the first question—whether the contrary of the affirmative enunciation is its negative or the contrary affirmative—is clear. The answer is that the negative is the contrary. Next, he divides negation as it is contrary to affirmation, i.e., into the universal negation, and the contradictory: The universal, i.e., negation, is contrary to the affirmation, etc. In order to state this division by way of example he relates one enunciation to one enunciation: the contrary of the universal affirmative enunciation "Every good is’ good” or "Every man is good,” is the universal negative "No good is good” or "No man is good.” Again, relating one to one, he says that the contradictory negation contrary to the universal affirmation is "Not every man is good” or "Not everything good is good.” Thus he posits both members of the division and makes the division evident. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 18 Sed est hic dubitatio non dissimulanda. Si enim affirmationi universali contraria est duplex negatio, universalis scilicet et contradictoria, vel uni duo sunt contraria, vel contrarietate large utitur Aristoteles: cuius oppositum supra declaravimus. Augetur et dubitatio: quia in praecedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali affirmationi, sicut singularem singulari. Et ita declinari non potest quin affirmationi universali duae sint negationes contrariae, eo modo quo hic loquitur de contrarietate Aristoteles. A difficulty arises at this point which we cannot disregard. If the contrary of the universal affirmative is a twofold negation, namely, the universal and the contradictory, either there are two contraries to one affirmation or Aristotle is using contrariety in a broad sense, although we showed that this was not the case apropos of an earlier passage of the text. The difficulty is augmented by the fact that Aristotle said in the passage immediately preceding that it makes no difference if we take the universal negation as contrary to the universal affirmation, i.e., as one of its negations. Hence, the conclusion cannot be avoided that in the mode in which Aristotle speaks of contrariety here, there are two contrary negations to the universal affirmative. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 19 Ad huius evidentiam notandum est quod, aliud est loqui de contrarietate quae est inter negationem alicuius universalis affirmativae in ordine ad affirmationem contrarii de eodem, et aliud est loqui de illamet universali negativa in ordine ad negationem eiusdem affirmativae contradictoriam. Verbi gratia: sint quatuor enunciationes, quarum nunc meminimus, scilicet, universalis affirmativa, contradictoria, universalis negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic dispositae in eadem linea recta: omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus, omnis homo est iniustus: et intuere quod licet primae omnes reliquae aliquo modo contrarientur, magna tamen differentia est inter primae et cuiusque earum contrarietatem. Ultima enim, scilicet affirmatio contrarii, primae contrariatur ratione universalis negationis, quae ante ipsam sita est: quia non per se sed ratione illius falsa est, ut probavit Aristoteles, quia implicita est. Tertia autem, idest universalis negatio, non per se sed ratione secundae, scilicet negationis contradictoriae, contrariatur primae eadem ratione, quia, scilicet, non est per se falsa illius affirmationis veritate, sed implicita: continet enim negationem contradictoriam, scilicet, non omnis homo est iustus, mediante qua falsificatur ab affirmationis veritate, quia simpliciter et prior est falsitas negationis contradictoriae falsitate negationis universalis: totum namque compositius et posterius est partibus. Est ergo inter has tres falsas ordo, ita quod affirmationi verae contradictoria negatio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter respectu illius per se falsa; affirmativa autem contrarii est per accidens contraria, quia est per accidens falsa; universalis vero negatio, tamquam medium sapiens utriusque extremi naturam, relata ad contrarii affirmationem est per se contraria et per se falsa, relata autem ad negationem contradictoriam est per accidens falsa et contraria. Sicut rubrum ad nigrum est album, et ad album est nigrum, ut dicitur in V physicorum. Aliud igitur est loqui de negatione universali in ordine ad affirmationem contrarii, et aliud in ordine ad negationem contradictoriam. Si enim primo modo loquamur, sic negatio universalis per se contraria et per se falsa est; si autem secundo modo, non est per se falsa, nec contraria affirmationi. To clear up this difficulty we must note that it is one thing to speak of the contrariety there is between the negation of some universal affirmative in relation to the affirmation of a contrary, and another to speak of that same universal negative in relation to the negation contradictory to the same affirmative. For example, the four enunciations of which we are now speaking are the universal affirmative, the contradictory, the universal negative, and the universal affirmation of a contrary: "Every man is just,” "Not every man is just,” "No man is just,” "Every man is unjust.” Notice that although all the rest are contrary to the first in some way, there is a great difference between the contrariety of each to the first. The last one, the affirmation of a contrary, is contrary to the first by reason of the preceding universal negation, for it is false, not per se but by reason of that negation, i.e., it is implicative, as Aristotle has already proved. The third, the universal negation, is not per se contrary to the first either. It is contrary by reason of the second, the contradictory negation, and for the same reason, i.e., it is not per se false in respect to the truth of the affirmation but is implicative, for it contains the contradictory negation "Not every man is just,” by means of which it is made false in respect to the truth of the affirmation. The reason for this is that the falsity of the contradictory negation is prior absolutely to the falsity of the universal negation, for the whole is more composite and posterior as compared to its parts. There is, therefore, an order among these three false enunciations. Only the contradictory negation is simply contrary to the true affirmation, for it is per se false simply in respect to the affirmation; the affirmative of the contrary is per accidens contrary, since it is per accidens false; the universal negation, which is a medium partaking of the nature of each extreme, is per se contrary and per se false as related to the affirmation of a contrary, but is per accidens false and per accidens contrary as related to the contradictory negation; just as red in a motion from red to black takes the place of white, and in a motion from red to white takes the place of black, as is said in V Physicorum [5: 229b 15]. Therefore, it is one thing to speak of the universal negation in relation to affirmation of a contrary and another to speak of it in relation to the contradictory negation. If we are speaking of it in the first way, the universal negation is per se contrary and per se false; if in the second, it is not per se false or contrary to the affirmation. 20. Quia ergo agitur ab Aristotele nunc quaestio, inter affirmationem contrarii et negationem quae earum contraria sit affirmationi verae, et non agitur quaestio ipsarum negationum inter se, quae, scilicet, earum contraria sit illi affirmationi, ut patet in toto processu quaestionis; ideo Aristoteles indistincte dixit quod utraque negatio est contraria affirmationi verae, et non affirmatio contrarii. Intendens per hoc declarare diversitatem quae est inter affirmationem contrarii et negationem in hoc quod verae affirmationi contrariantur, et non intendens dicere quod utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc enim in dubitatione non est quaesitum, sed illud tantum. Et similiter dixit quod nihil interest si quis ponat negationem universalem: nihil enim interest quoad hoc, quod affirmatio contrarii ostendatur non contraria affirmationi verae, quod inquirimus. Plurimum autem interesset, si negationes ipsas inter se discutere vellemus quae earum esset affirmationi contraria. Sic ergo patet quod subtilissime Aristoteles locutus de vera contrarietate enunciationum, unam uni contrariam posuit in omni materia et quantitate, dum simpliciter contrarias contradictiones asseruit. Since Aristotle is now treating the question as to which is the contrary of a true affirmation, affirmation of a contrary or the negation, and not the question as to which of the negations is contrary to a true affirmation—as is clear in the whole progression of the question—bis answer is that both negations are contrary to the true affirmation without distinction, and that affirmation of a contrary is not. His intention is to manifest the diversity between the negation, and the affirmation of a contrary, inasmuch as they are contrary to a true affirmation. He does not intend to say that both negations are contrary simply, for this is not the difficulty in question here, but the former is. With respect to his saying that it makes no difference if we posit the universal negation, the same point applies, for in regard to showing that affirmation of a contrary is not contrary to a true affirmation, which is the question at issue here, it makes no difference which negation is posited. It would make a great deal of difference, however, if we wished to discuss which negation was contrary to a true affirmation. It is evident, then, that Aristotle’s discussion of the true contrariety of enunciations is very subtle, for he has posited one to one contraries in every matter and quantity, and affirmed that contradictions are contraries simply. 21. Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., resumit quoddam dictum ut probet illud, dicens manifestum est autem ex dicendis quod non contingit veram verae contrariam esse, nec in opinione mentali, nec in contradictione, idest, vocali enunciatione. Et causam subdit: quia contraria sunt quae circa idem opposita sunt; et consequenter enunciationes et opiniones verae circa diversa contrariae esse non possunt. Circa idem autem contingit simul omnes veras enunciationes et opiniones verificari, sicut et significata vel repraesentata earum simul illi insunt: aliter verae tunc non sunt. Et consequenter omnes verae enunciationes et opiniones circa idem contrariae non sunt, quia contraria non contingit eidem simul inesse. Nullum ergo verum sive sit circa idem, sive sit circa aliud, est alteri vero contrarium. Et sic finitur expositio huius libri perihermenias. When he says, It is evident, too, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc., he returns to a statement he has already made in order to prove it. It is evident, too, from what has been said, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, i.e., in vocal enunciation. He gives as the cause of this that contraries are opposites about the same thing; consequently, true enunciations and opinions about diverse things cannot be contraries. However, it is possible for all true enunciations and opinions about the same thing to be verified at the same time, inasmuch as the things signified or represented by them belong to the same thing at the same time; otherwise they are not true. Consequently, not all true enunciations and opinions about the same thing are contraries, for it is not possible for contraries to be in the same thing at the same time. Therefore, no true opinion or enunciation, whether it is about the same thing or is about another is contrary to another. –

 

 

[ XI. 6. The third part is the second difference, i.e., by convention, namely, according to human institution deriving from the will of man. This differentiates names from vocal sounds signifying naturally, such as the groans of the sick and the vocal sounds of brute animals] [?][11 Then Aristotle says, ‘by convention’ is added because nothing is *by nature* a name, etc. Here Aristotle explains the third part of the definition. The reason it is said that the name signifies by convention [ad placitum ex institutione], he says, is that no name exists naturally. For it is a name because it signifies; it does not signify naturally however, but by institution [ex institutione]. This Aristotle adds when he says, but it is a name when it is *made* a sign, i.e., when it is imposed to signify. For that which signifies naturally is not made a sign, but is a sign naturally. he explains this when he says: for unlettered sounds, such as those of the brutes designate, etc., i.e., since they cannot be signified by letters. He says sounds rather than vocal sounds because some animals—those without lungs—do not have vocal sounds. Such animals signify proper passions by some kind of non-vocal sound which signifies naturally. But none of these sounds of the brutes is a name. We are given to understand from this that a name does not signify naturally.]

Aquino. Keywords: Peri hermeneias, de interpretation, Austin/Grice, “De interpretation” nota, notare, notante, notato, denotato – denotare -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Aquino: grammatici speculative, per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Refs.: Grice, “Intentionality in Aquino,” Speranza, “Grice and Aquino on the taxonomy of intentions.”

 

Arangio: Grice: “We have Flores, we have Ruiz, we have Enriques – reminds me of Alan Montefiore! I like Vladimiro Arangio – my favourite is by far his philosoophising on Socrates’s ‘Sofista’ – he distinguishes between what he calls ‘Socratic dialogue’ (mine) and ‘dialogo sofistico’!” -- Vladimiro Arangio-Ruiz (Napoli) filosofo, grecista e accademico italiano. Fu il primo preside del Liceo scientifico Alessandro Tassoni di Modena, istituito nel 1923, a seguito della riforma Gentile.  Nacque a Napoli nel 1887 da Gaetano, professore di diritto costituzionale, e da Clementina Cavicchia. Frequentò a Firenze il corso di lettere nell'Istituto di studi superiori dal 1905 al 1910 e si laureò con una tesi su Il coro nella tragedia greca in letteratura greca con Girolamo Vitelli, filologo, grecista, papirologo e senatore del Regno d'Italia.  Vladimiro appartenne a una illustre famiglia di giuristi: il fratello Vincenzo Arangio-Ruiz fu uno dei maggiori studiosi di diritto romano, ordinario all'Napoli e alla Sapienza di Roma. Contravvenendo alla tradizione di famiglia, Vladimiro preferì dedicarsi agli studi filosofici e fu professore alla Scuola normale superiore di Pisa e alla facoltà di Magistero di Firenze.  Insegnò nei ginnasi di Stato e fu ufficiale d'artiglieria nella Prima guerra mondiale dove venne ferito. Nel 1921 si laureò per la seconda volta, in filosofia con Piero Martinetti, discutendo la tesi Conoscenza e moralità pubblicata nel 1922.  In gioventù aveva sentito fortemente l'influenza del giovane poeta e filosofo Carlo Michelstaedter, esponente importante della filosofia europea del primo Novecento, del quale pubblicherà gli scritti.  Si propose una funzione critica ricostruttiva  dell'idealismo storicistico e dell'attualismo di Giovanni Gentile da cui trasse ispirazione per sviluppare il suo "moralismo assoluto". Contrariamente alla dottrina gentiliana che dichiarava l'attualismo coincidente con la "vita dello Stato", Arangio Ruiz credeva che invece fosse identificabile con il comportamento morale individuale poiché la politica non è che un aspetto particolare della legge morale per sua natura universale .  Fra le sue opere si ricordano. “Prose morali”; “Umanità dell'arte.”  Il Liceo "Tassoni" tra storia e innovazione.  Fonte: Dizionario di filosofia, riferimenti in .  Fabrizio Meroi, «Carlo Michelstaedter» in Il contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia, Roma Istituto dell'Enciclopedia Italiana, .  Ricostruzione filosofica, in Arch. di filosofia, X[1940]20  Carlo Michelstaedter Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Vladimiro Arangio-Ruiz  Vladimiro Arangio-Ruiz, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Vladimiro Arangio-Ruiz, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Vladimiro Arangio-Ruiz, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo del XX secoloGrecisti italianiAccademici italiani Professore. Vladimiro Arangio-Ruiz. Arangio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arrangio” – The Swimming-Pool Library.

 

Arcais (Cervignano del Freiuli). Filosofo. Grice: “As Mikos says about the English, ‘de’ adds prestige as in ‘de Grys’ – same with Italians and ‘d’Arcais,’ after four pescherie owned by one ancestor. – d’Arcais has been described as a ‘quaresmalitsa,’ who had the unfortune of being tutored by an atheist! Asa  good stoicp philosopher, he endured it!’ Direttore della rivista MicroMega. È stato collaboratore de la Repubblica, il Fatto Quotidiano, El País, Frankfurter Allgemeine Zeitung e Gazeta Wyborcza.  Ha sempre unito l’attività di studioso, il lavoro editoriale e l’impegno civile. Educazione intensamente cattolica. Abbandona la fede nella primavera del 1961. Maturità scientifica. Maturità classica. Si iscrive al partito comunista (e federazione giovanile) entrando all’università. Nel 1964 è segretario del Circolo universitario comunista e nell’estate frequenta la scuola centrale di partito “Marabini” a Bologna. Si laurea con una tesi su “Marx interprete di Adamo Smith” e ne sarà a lungo uno degli assistenti. Espulso dal Pci, è uno degli animatori del movimento studentesco del Sessantotto. Pubblica la rivista “Soviet”. Nel 1976/7 la rivista “Il Leviatano”. -- è l’organizzatore del convegno internazionale di tre giorni che apre la “Biennale del dissenso” della presidenza Ripa di Meana.  Viene chiamato a fondare e dirigere il “Centro culturale Mondoperaio” dal segretario del Psi Bettino Craxi (alleato delle sinistre di Giolitti e Lombardi). Prima iniziativa, il convegno internazionale “Marxismo, leninismo, socialismo”, relatori Cornelius Castoriadis, Gilles Martinet e Rudi Dutschke. Rompe con Craxi nel gennaio del 1980 quando questi cambia politica, spezza l’alleanza con Giolitti e Lombardi, torna al governo con la Dc.  Nel 1986 fonda insieme a Giorgio Ruffolo la rivista “MicroMega” (Ruffolo ne uscirà nel 1992, per contrasti su “Mani pulite”). Fonda la “sinistra dei club” per partecipare alla fondazione del Pds, che dovrebbe aprirsi alla società civile sulle ceneri dell’ex Pci. Lo abbandona un anno dopo, viste le promesse non mantenute. Nell’inverno 2000 è protagonista di una controversia pubblica col cardinal Ratzinger al Teatro Quirino di Roma. Nel 2002 organizza insieme a Nanni Moretti, Olivia Sleiter e Pancho Pardi la grande manifestazione dei “girotondi” del 14 settembre a piazza san Giovanni a Roma. Paolo Flores d'Arcais è "radicalmente ateo".  Inizia presto ad occuparsi di politica nell'organizzazione giovanile del Partito Comunista Italiano, ma presto viene espulso dalla FGCI per la sua prolungata e grave attività frazionistica, cioè per la sua doppia militanza nella FGCI e nella Quarta Internazionale trotskista. Allievo e amico di Lucio Colletti, dopo esser stato uno dei protagonisti del "Sessantotto" romano, approda a posizioni di riformismo radicale e verso la fine degli anni settanta ha una breve ma vivida intesa con Bettino Craxi e Claudio Martelli, dai quali, tuttavia, si distacca ben presto.  Nel 1991 aderisce al Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto entrando nella Direzione del movimento, da cui però fuoriesce due anni dopo poiché favorevole alla guerra del Golfo a differenza della linea maggioritaria del partito. Tra i promotori della breve stagione dei girotondi, tenta di proporre una lista di suoi candidati alle primarie dell'Ulivo per le elezioni politiche del 2006 ma come lui stesso deve ammettere "realizza un fallimento pieno e perfetto" raccogliendo appena 130 adesioni alla sua idea. Il 25 marzo 2008 annuncia su MicroMega che nelle elezioni politiche del 2008 avrebbe votato per il Partito Democratico in funzione anti-berlusconiana. Il 29 gennaio 2009 decide di ritentare in politica prospettando il "Partito dei Senza Partito" insieme ad Antonio Di Pietro ed Andrea Camilleri per partecipare alle elezioni europee del 2009 ma, il 12 marzo dello stesso anno, viene annunciato il mancato accordo fra i tre. Per le elezioni politiche del  ha dichiarato di votare la lista Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia. Successivamente non nasconde le sue simpatie per il Movimento 5 Stelle per il quale dichiara di votare. Tuttavia in seguito all'alleanza tra il Movimento 5 Stelle e la Lega si dice deluso dal Movimento, accusando in particolare Luigi Di Maio di avere tradito le promesse agli elettori.  Altre opere: “Il maggio rosso di Parigi. Cronologia e documenti delle lotte studentesche e operaie in Francia, a cura di, Padova, Marsilio); “Il piccolo sinistrese illustrato, con Giampiero Mughini, Milano, SugarCo); “Il dubbio e la certezza. Nei dintorni del marxismo e oltre (Milano, SugarCo); “L'esistenzialismo libertario di Hannah Arendt, in Hannah Arendt, Politica e menzogna, Milano, SugarCo); “Oltre il PCI. Per un partito libertario e riformista, Genova, Marietti); “Esistenza e libertà. A partire da Hannah Arendt, Genova, Marietti); “L'albero e la foresta. Il partito democratico della sinistra nel sistema politico italiano, con Umberto Curi, Milano, FrancoAngeli); “La rimozione permanente. Il futuro della sinistra e la critica del comunismo. Scritti; Genova, Marietti, 1991.  88-211-6898-0. Etica senza fede, Torino, Einaudi); “Il disincanto tradito, Torino, Bollati Boringhieri); “Hannah Arendt. Esistenza e libertà, Roma, Donzelli); “Gobetti, liberale del futuro, in Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino, Einaudi); “Il populismo italiano da Craxi a Berlusconi. Dieci anni di regime nelle analisi di MicroMega, Roma, Donzelli); “L'individuo libertario. Percorsi di filosofia morale e politica nell'orizzonte del finite” (Torino, Einaudi); “ Il sovrano e il dissidente, ovvero La democrazia presa sul serio. Saggio di filosofia politica per cittadini esigenti, Milano, Garzanti); “Dio esiste? Un confronto su verità, fede, ateismo, moderato da Gad Lerner, con Joseph Ratzinger, Roma, Somedia Gruppo editoriale L'Espresso); “Il ventennio populista. Da Craxi a Berlusconi (passando per D'Alema?), Roma, Fazi); “Hannah Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Roma, Fazi); “Atei o credenti? Filosofia, politica, etica, scienza”; “Roma, Fazi,  Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede, con Angelo Scola, Venezia, Marsilio); “Itinerario di un eretico” (Lugano, ADV); “A chi appartiene la tua vita? Una riflessione filosofica su etica, testamento biologico, eutanasia e diritti civili nell'epoca oscurantista di Ratzinger e Berlusconi, Milano); “Ponte alle Grazie, 2009.  978-88-6220-068-4. Albert Camus filosofo del futuro, Torino, Codice); “La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger, Milano, Ponte alle Grazie); “Gesù. L'invenzione del Dio cristiano, Torino, Add); “Macerie. Ascesa e declino di un regime, Roma, Aliberti); “Perché oggi, in Ernesto Rossi, Contro l'industria dei partiti, Milano, Chiarelettere); Democrazia! Libertà privata e libertà in rivolta, Torino, Add); “Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia” (Milano, Garzanti); “La Guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale, Milano, Raffaello Cortina Editore); “Questione di vita e di morte, Einaudi, Vele. Note  cfr., uno per tutti, il suo volume (a quattro mani con il cardinale Angelo Scola) "Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede"Marsilio editore, 2008  Dal sito di MicroMega  Articolo de El País, tradotto in italiano Archiviato il 30 giugno  in .  Elezioni Per chi votano Travaglio, Guzzanti, Scanzi, ecc. Tra Rivoluzione Civile e il Movimento 5 Stelle  La Repubblica del 19 novembre   Flores d'Arcais: “Il Movimento 5 Stelle non esiste più”, su micromega-online. 24 aprile .  MicroMega (periodico). reccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Paolo Flores d'Arcais, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Registrazioni di Paolo Flores d'Arcais, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Sito ufficiale di MicroMega. Undici riflessioni sui movimenti articolo pubblicato sul numero 2 del 2002 di MicroMega. Intervista a D'Arcais sul ventennale della rivista. Il blog di Paolo Flores d'Arcais, su ilfattoquotidiano. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloGiornalisti italiani del XX secoloGiornalisti italiani Professore1944Nati l'11 luglio Cervignano del FriuliDirettori di periodici italianiFilosofi atei. Arcais. Paolo Flores d’Arcais. Keywords: giudeo, portughese, Flores – arcais, d’arcais, piamontese.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arcais” – The Swimming-Pool Library.

 

Archibugi (Roma). Filosofo. Grice: “I would hardly call Archibugi a philosopher, but he did compile a thing ‘filosofi per la pace’ none of them Italian! So much for ‘pax romana’!” – Grice: “Strawson does call Archibugi a ‘filosofo,’ though!” --  DanieleArchibugi (Roma), filosofo. Nell'ambito della teoria politica, ha sviluppato, insieme a David Held, l'idea di una democrazia cosmopolita. Ha anche lavorato su diversi aspetti della globalizzazione, ed in particolare sulla globalizzazione dell'innovazione e del cambiamento tecnologico.  Dopo una non assidua frequentazione del Liceo Sperimentale della Bufalotta, si è laureato con lode alla Facoltà di Economia e Commercio dell'Roma La Sapienza con Federico Caffè. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso lo Science Policy Research Unit dell'Università del Sussex, dove ha lavorato con Christopher Freeman e Keith Pavitt. Ha insegnato alle Università del Sussex, Madrid, Napoli, Roma La Sapienza e Roma Luiss, Cambridge, London School of Economics and Political Science e Harvard. Ha anche tenuto corsi presso università asiatiche quali la Ritsumeikan University di Kyoto e la SWEFE University di Chengdu.  Nel 2006 è stato nominato Professore Onorario presso l'Università del Sussex e nel  Membro d'Onore del Réseaux de Recherche sur l'Innovation.  Dirigente presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche a Roma, è Professore di Innovation, Governance and Public Policy presso l'Londra, Birkbeck College.  Dal 1997 al 2002 è stato Commissario dell'Autorità sui servizi pubblici locali di Roma, eletto a larga maggioranza dal Consiglio Comunale.  La democrazia cosmopolita Il progetto della democrazia cosmopolita o cosmopolitica si interroga sulla possibilità di applicare alcune norme e valori della democrazia anche nelle relazioni internazionali. La necessità deriva dal fatto che la globalizzazione economica e sociale ha reso gli stati sempre più vulnerabili e che decisioni importanti per loro sono prese al di fuori dal processo democratico. La soluzione proposta dalla democrazia cosmopolita è sviluppare istituzioni sovra-statali che siano capaci di affrontare democraticamente problemi comuni quali l'ambiente, la sicurezza, le migrazioni, il commercio estero e i flussi finanziari. La democrazia cosmopolita guarda con fiducia alle organizzazioni internazionali, e desidera rafforzare al loro interno il controllo dei cittadini, cui va dato un peso politico parallelo e autonomo rispetto a quello che già hanno i loro governi. A livello politico, Archibugi ha sostenuto la limitazione del potere di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la formazione di un'Assemblea Parlamentare Mondiale. Ha invece ritenuto insoddisfacenti e anti-democratici i vertici inter-governativi quali il G7, G8 and G20. Ha anche preso posizione contro l'idea di una Lega delle democrazie sostenendo che una riforma democratica delle Nazioni Unite riuscirebbe assai meglio a soddisfare le medesime istanze.  Giustizia globale Fautore della responsabilità individuale dei governanti nel caso di crimini internazionali, Archibugi ha anche attivamente sostenuto, sin dalla caduta del muro di Berlino, la creazione di una Corte penale internazionale, collaborando sia con i giuristi della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite sia con il governo italiano. Nel corso degli anni, la sua posizione è diventata sempre più scettica per l'incapacità dei tribunali internazionali di incriminare i più forti. Ha, quindi, preso posizione a favore di altri strumenti quasi-giudiziari come le Commissioni per la verità e la riconciliazione e i Tribunali d'opinione.   Globalizzazione della tecnologia Archibugi ha proposto una tassonomia della globalizzazione della tecnologia che distingue fra tre meccanismi di trasmissione della conoscenza: sfruttamento internazionale delle innovazioni, generazione globale delle innovazioni e collaborazioni globali nella scienza e nella tecnologia..  Come Presidente di un Gruppo di Esperti dello Spazio di Ricerca Europeo della Commissione europea dedicato alla collaborazione internazionale nella scienza e nella tecnologia, Archibugi ha indicato che il declino demografico dell'Europa, combinato con la scarsa vocazione delle nuove generazioni per le scienze, genererà una drastica carenza di lavoratori qualificati in meno di una generazione. Questo metterà in pericolo il livello di benessere della popolazione europea in aree cruciali come la ricerca medica, le tecnologie dell'informazione e le industrie ad alta tecnologia. Ha così sostenuto di rivedere radicalmente la politica dell'immigrazione europea in maniera di accogliere e formare in un decennio almeno due milioni di studenti dai paesi emergenti e in via di sviluppo, qualificandoli in discipline quali le scienze e l'ingegneria.  Economia della ricostruzione dopo le crisi economiche Da studioso dei cicli economici, Archibugi ha combinato la prospettiva keynesiana derivata dai suoi mentori Federico Caffè, Hyman Minsky e Nicholas Kaldor con quella schumpeteriana derivata da Christopher Freeman e dallo Science Policy Research Unit dell'Università del Sussex. Combinando le due prospettive, Archibugi ha sostenuto che per uscire da una crisi, un paese deve investire nei settori emergenti e che, in assenza di spirito imprenditoriale del settore privato, il settore pubblico deve avere la capacità manageriale di sfruttare le opportunità scientifiche e tecnologiche, anche a salvaguardia dei beni pubblici.  Relazioni familiari Figlio dell'urbanista Franco Archibugi e della poetessa Muzi Epifani, ha numerosi fratelli e sorelle, tra cui la regista Francesca Archibugi e il politologo Mathias Koenig-Archibugi, con il quale frequentemente collabora nei suoi studi. I fratelli maggiori del nonno di suo nonno furono Francesco e Alessandro Archibugi, volontari del Battaglione universitario della Sapienza e la difesa della Repubblica Romana (1849).   Note  D. Archibugi è stato uno degli ultimi e più vicini allievi di Federico Caffè. Partecipò attivamente alle sue ricerche dopo la misteriosa scomparsa. Cfr. D. Archibugi, I ragazzi che cercarono il Prof. Caffè, La Repubblica, 8 aprile . Si veda anche Fabrizio Peronaci, La scomparsa di Federico Caffè. «Un genio anche nell’addio. Come lui solo Majorana», intervista a Daniele Archibugi, Corriere, 10 novembre .  Membres d'honneur du Réseaux de Recherche sur l'Innovation  Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Ricerca sulla Popolazione e le Politiche Sociali  Birkbeck College, Department of Management  Tom Cassauwers, Interview with Daniele Archibugi, E-INTERNATIONAL RELATIONS, 14 settembre .  Campaign for the Establishment of a United Nations Parliamentary Assembly Copia archiviata, su en.unpacampaign.org. 10 ottobre 2009 22 agosto 2009).  D. Archibugi, The G20 is a luxury we can't afford, The Guardian, Saturday 28 March 2008.  D. Archibugi, A League of Democracies or a Democratic United Nations Archiviato il 24 luglio  in ., Harvard International Review, Ottobre 2008.  Intervista su Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Letture.org. .  Daniele Archibugi e Alice Pease, Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Castelvecchi, Roma, .  Daniele Archibugi, La giustizia penale internazionale tra passato e futuro, Questione Giustizia, 27 gennaio .  Daniele Archibugi and Jonathan Michie, The Globalization of Technology: A New Taxonomy, "Cambridge Journal of Economics",  19, no. 1, 1995,  121-140,  Daniele Archibugi (Chair) Opening to the World. Opening to the World: International Cooperation in Science and Technology Archiviato il 25 luglio  in ., European Research Area, 2008,  D. Archibugi e A. Filippetti, Innovation and Economic Crisis. Innovation and Economic Crisis. Lessons and Prospects from the Economic Downturn, Routledge, London, .  D. Archibugi, A. Filippetti & M. Frenz, Investment in innovation for European recovery: a public policy priority, Science & Public Policy, November .  Daniele Archibugi, «Generare imprese europee per la ricostruzione: la lezione Airbus», Il Sole 24 Ore, 5 Maggio .  Floriana Bulfon, «Nuovi imprenditori e lavoratori soddisfatti: solo così dopo il virus l'Italia sarà migliore. Intervista a Daniele Archibugi», L'Espresso, 14 Aprile .  Daniele Archibugi, Mathias Koenig-Archibugi, Raffaele Marchetti, Global Democracy. Normative and Empirical Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge, . Nell'ambito degli studi sull'organizzazione internazionale, ha pubblicato: “Filosofi per la pace” (Editori Riuniti); “Cosmopolis. È possibile una democrazia sovra-nazionale?” (Manifestolibri); “Il futuro delle Nazioni Unite” (Edizioni Lavoro); “Diritti umani e democrazia cosmopolitica” (Feltrinelli); “Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica” (Il Saggiatore); “Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, (Castelvecchi); “Cambiamento tecnologico e sviluppo industriale, (Franco Angeli); “Economia globale e innovazione” (Donzelli). “Il triangolo dei servizi pubblici, (Marsilio). “Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia. Analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia, seconda edizione (CNR Edizioni, ).  978-88-8080-356-0  (IT, EN) Sito ufficiale, su danielearchibugi.org.  Opere di Daniele Archibugi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Registrazioni di Daniele Archibugi, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Sito CNR-IRPPS, Commessa Globalizzazione. Determinanti e impatto economico, tecnologico e politico. University of London, Birkbeck College, Home Page Daniele Archibugi. University of London, Birkbeck College, Intervista su "The Global Commonwealth of Citizens" Intervista della LA7 a Daniele Archibugi Sull'innovazione tecnologica, (video). Intervista alla trasmissione Mapperò, SAT2000, sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, (video), Parte prima; Parte seconda; Parte terza. Dibattito presso la London School of Economics "È possibile una democrazia globale?" (video in inglese)://globaldemo.org/film/1255[collegamento interrotto] Intervista a LA7 su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica",. Intervista a TG3 Linea Notte su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica" 25 febbraio 2009. Intervista a TG2 Punto IT su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica", 15 giugno 2009. Discorso su Secrets, Lies and Power, Berlino, European Alternatives, 18 giugno . Intervista sul volume The Handbook of Global Science, Technology and Innovation, Londra, Birkbeck College, 3 agosto . Lo Stato dell`ArteQuale futuro per l’Europa?, Trasmissione Rai5, conduce Maurizio Ferraris, con Daniele Archibugi e Alessandro Politi, 14 luglio . Quante storie Rai3I grandi crimini contro l'umanità, intervista di Corrado Augias a Daniele Archibugi, 9 novembre . Crime and Global Justice , Book Launch alla London School of Economics and Political Science, 28 Febbraio , podcast con Gerry Simpson, Christine Chinkin, Richard Falk e Mary Kaldor. Daniele Archibugi, Do we Need a Global Criminal Justice?, Conferenza alla City University of New York, 9 Aprile . Daniele Archibugi, "Cosmopolitan democracy as a method of addressing controversies", IAJLJ CONFERENCE "CONTROVERSIAL MULTICULTURALISM", Roma, Novembre, . Daniele Archibugi, "What is the difference between invention and innovation?", Birkbeck College University of London, 28 Ottobre . Presentazione della Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 15 ottobre  Filosofi della politica, Filosofi italiani del XXI secolo. Daniele Archibugi. Keywords, due citadini del mondo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Archibugi” – The Swimming-Pool Library.

 

Arcidiacono (Acireale). Filosofo. Grice: “I like Arcidiacono, and Floridi should pay more attention to him; after all he what Austin called an ‘Oxonian myopist’! I love him!”  “It took me a while to digest Aricidiacono’s non-intentional use of ‘inform,’ but I suppose he rather follows Shannon than Plato!” “Arcidiacono pays due attention to Aristotle’s ‘finalismo,’ and as an Italian, he gives proper due to Plionio – ‘il vecchio,’ as Arcidiacono comically calls him – Strawson: “As if Pliny the Younger were not now part of ‘storia vecchia’!” – Grice: “In any case, give me Salvatore anyday – his brother, Giuseppe, cannot qualify as a philosopher!” – Grice: “And another good thing, too, Arcidiacono, the ‘filosofo’ brough Fantappie as a hashtag in ‘filosofia’!” Grice: “As Arcidiacono notes, Fantappie, not being a filosofo, committed the usual mispellinggs – ‘syntropia,’ rightly corrected to ‘sintropia’ by the philosophy-educated philosopher Salvatore Arcidiacono!” Nato e, per una sorprendente coincidenza, morto lo stesso anno del fratello gemello Giuseppe, divise con quest'ultimo anche gli impegni di ricerca. Laureatosi a Catania. Insegna a Catania. Perfeziona la Teoria unitaria del mondo fisico e biologico, collegandola ai più moderni sviluppi della biologia teorica e molecolare. Da supporto teorico speculativo nel campo della chimica e della fisica teorica. Elabora una formulazione mediate della teoria sintropica nonché della Teoria degli universi. Saggio “Visione unitaria dell'Universo”. “Spazio, tempo, universe”.  Altre opere: Visione unitaria dell'Universo” (UCIIM, Roma); “Spazio, tempo, universe” (Edizioni del fuoco, Roma); “Materia e Vita” (Massimo, Milano); “Ordine e Sintropia la vita e il suo mistero” (ed. Studium Christi, Roma); “L'evoluzione sintropica” (Accademia degli zelanti e dei dafnici, Acireale); “Creazione, evoluzione, principio antropico” (ed. Il fuoco-Studium Christi); “Entropia, sintropia, informazione. Una nuova teoria unitaria della fisica, chimica e biologia” (ed. Di Renzo, Roma); “L'evoluzione dopo Darwin. La teoria sintropica dell'evoluzione, ed. Di Renzo, Roma); “Problemi e dibattiti di biologia teorica, ed. Di Renzo, Roma 1993.  88-86044-16-X. Note  Ignazio Licata, Teoria degli Universi e Sintropia Archiviato il 17 settembre  in .  vedi pag 103 di L'accoglienza delle idee di Pierre Teilhard de Chardin nella cultura italiana degli anni 1955-1965  Scapini, 2005.  Demetrio Sodi Pallares, Terapia metabolica delle cardiopatie. Nuovo approccio terapeutico PICCIN, Padova 1989XVI.  88-299-0616-6  Vannini, 2005.  L'accoglienza delle idee di Pierre Teilhard de Chardin nella cultura italiana degli anni 1955-1965, pag 103  Salvatore Arcidiacono, Nuevas ideas para la evolución biològica, articolo su Folia humanistica, Barcellona, novembre 1982, n. 238.  Revue internationale Pierre Teilhard de Chardin, Edizioni 85-98, Ministère de l'éducation nationale et de la culture Belgique, Editore Société Pierre Teilhard de Chardin, 1981.  Antonella Vannini, From mechanical to life causation,, Syntropy 2005, n. 1, pag. 80-105.  1825-7968 (WC ACNP) Felicita Scapini, La logica dell'evoluzione dei viventiSpunti di riflessione, in Atti del XII Convegno del Gruppo italiano di biologia evoluzionistica Firenze, 18-21 febbraio 2004, Firenze, University press, 2006,  88-8453-369-4.  Luigi Fantappié Giuseppe Arcidiacono Sintropia  Biografia sul sito del suo editore, su direnzo 9 luglio ). V D M Filosofia della scienza 266416940  Filosofi. Salvatore Arcidiacono. Keywords: sintropia, antropia, entropia. arcidiacono — l’implicatura del principio antropico — biologia filosofica — filosofia della vita — fissisismo — naturalismo — finalismo — vivere — vivente — ominazione — animazione — definizione del vivente como movente autonomo — il fine —Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arcidiacono” – The Swimming-Pool Library.

 

Arco (Teano). Filosofo. Grice: “I should like Arco; but he is a priest and I’m C. of E.; on top, I love to say that philosophy ought to be FUN, provided it’s MY FUN – not Arco’s – so I find Arco’s ‘dictionary of philosophical ‘umorismo,’ or filosofia ‘umoristica’ frivolous, and unworthy of Roman gravitas!” Nato nella frazione Fontanelle entra fra i Salesiani di Don Bosco e fu ordinato sacerdote a Roma. Consegue a Napoli la laurea in filosofia. Per la sua preparazione filosofica, nonché per la profondità della sua filosofiai, è considerato tra i maggiori filosofi italiani. Per lungo tempo è stato professore di filosofia presso gli Istituti Salesiani di Don Bosco.  Ricoverato all'ospedale “San Leonardo” di Castellammare di Stabia, per un blocco renale, e ritornato a Pacognano di Vico Equense dopo aver superato la crisi, è morto novantaquattrenne. Uomo di anima sensibile e di infinita fede ha trascorso molto della sua vita scrivendo, interessandosi di agiografia. È stato protagonista televisivo sulla prima rete nazionale con il programma: Tempo dello Spirito.  Intensa e vasta la sua opera letteraria.  Altre opere: “Bartolo Longo e la sua intimità con Dio”; “Don Bosco si diverte”; Sorgenti di gioia; Gesù sotterra un chicco di grano; Giorgio La Pira e il risorto; “Fiori di sapienza. Dizionarietto di saggezza”; “La Donna del Sanctus; Papa Giovanni beato. La parola agli atti processuali; Quando la teologia prende fuoco. Giuseppe Quadrio sacerdote salesiano; Don Bosco nella luce del Risorto; Don Bosco sorridente entra in casa vostra”; “Così Don Bosco amò i giovani”; “Il Padre Nostro”; “Ma c'è poi questo Dio; Nota bene; Sorgenti di Gioia; L'Ave Maria inno dell'amore filiale; Il Beato Filippo Rinaldi copia vivente di Don Bosco; “La sorgente eterna dell'amore”; “Noi esistiamo perché Dio Padre ci ama; Stile di Serenità; La Gioia a Portata di Mano; Ridi e sorridi da saggio; Il Beato Bartolo Longo; Dolcezza e speranza nostra; Dio ci ama con cuore d'uomo; Il Padre nostro; La Leva del Mondo: la preghiera; Sant'Eustachio; Il Cristo in cui Spero; Giorgio La Pira Profeta e testimone del Risorto; Serva di Dio Elisabetta Jacobucci Francesca Alcantarina; Beata Maria della Passione; Il Servo di Dio B. Longo; Papa Giovanni Beato; Così ridono i saggi; Fiori di sapienza; Il segreto di papa Giovanni; S.Alfonso amico del popolo; La Donna del Sanctus; Il Sacro nome ti chiama per nome; La Leva del Mondo: la preghiera; Il monumento alla Pace Universale del beato Bartolo Longo; Il Salesiano è fatto così; Messaggio di Teilhard De Chardin. Intuizioni e idee madri (Elledici Torino); Un esploratore della felicità: biografia del Servo di Dio Giacomo Gaglione, Apostolato della Sofferenza. Citazionio su Adolfo L'Arco  La comunità di Pacognano ricorda don Adolfo L'Arco di Raffaele Meazza, Il Giornale di Napoli, sito "Positano news", Identities-85063233 Biografie  Biografie:  di   Biografie Categorie: Religiosi italianiTeologi italianiFilosofi italiani Professore Teano Vico Equense. Adolfo L’Arco. Arco. Keywords: hagiography; if he has religious faith, he is not a philosopher. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arco” – The Swimming-Pool Library

 

Archita (Taranto). Filosofo. Grice: “I was insulted, if not offended by the Cambridge Dictionary of Philosophy having ‘Anchita’ as Greek! The manw as born in Taranto, Italy, and died in Taranto, Italy! – He was a Tarantoian!” – “My favourite of his philosophical tracts is “Della colomba,” – Strawson pointed out to me that since this is a mechanical (mechanical-mechanical) pigeon, I should have used ‘scare-quote’ gesture!” -- Ricerca Archita filosofo, matematico e politico greco antico Lingua Segui Modifica (LA)  «Magnum in primis et praeclarum virum»  «Uomo fra i primi grande e illustre»  (Cicerone, De senectute, XII, 41). Appartenente alla "seconda generazione" della scuola pitagorica, ne incarnò i massimi principi secondo l'insegnamento dei suoi maestri Filolao(470 a.C.-390 a.C./380 a.C.) ed Eurito (V secolo a.C.). Archita BiografiaModifica Figlio di Mesarco (o di Estieo o di Mnesagora, a seconda delle fonti), nacque a Taranto, città della quale fu "stratego massimo" nella prima metà del IV secolo a.C. proprio nel periodo in cui la città raggiungeva l'apice del suo sviluppo economico, politico e culturale.  Archita condusse una vita austera, improntata a uno stretto autocontrollo nel rispetto delle rigide regole della setta pitagorica, ma non priva di umana socievolezza: racconta Eliano che spesso quello s'intratteneva a scherzare con i figli dei suoi schiavi e con questi stessi non disdegnava di sedere assieme a banchetto. Abile uomo politico, si tramanda che fosse stato nominato per sette volte stratego (στρατηγός, strategòs) della città-stato di Taranto riuscendo ad essere un condottiero sempre vittorioso nelle sue battaglie. Probabilmente fu anche stratego "autocrate" (αὐτοκράτωρ, autocrator) della Lega italiota, ricostituitasi dopo la morte di Dionisio I di Siracusa, e che ebbe come sede Eraclea sotto l'effettivo controllo di Taranto. Non si sa se, nonostante il divieto della costituzione cittadina, fosse stato nominato consecutivamente; i suoi mandati vengono datati tra il II e il III viaggio di Platone, quindi potrebbero essere stati ricoperti anche uno di seguito all'altro. Attua una politica di sviluppo che porta Taranto a diventare la metropoli più ricca e importante della Magna Grecia. Con l'edificazione di monumenti, templi e edifici diede nuovo lustro alla città. Potenziò il commercio stringendo relazioni con altri centri, come l'Istria, la Grecia, l'Africa. Durante il suo governo, si dedica allo sviluppo dell'economia favorendo l'agricoltura e insegnando egli stesso ai contadini i precetti per migliorare i raccolti. Spesso ricordava loro che Apollo non concesse altro a Falanto che fertili campi e amava ripetere. Se vi si domanda come Taranto sia diventata grande, come si conservi tale, come si aumenti la sua ricchezza, voi potete con serena fronte e con gioia nel cuore rispondere: con la buona agricoltura, con la migliore agricoltura, con l'ottima agricoltura. Nel campo legislativo promulgò diverse leggi per favorire una più equa distribuzione delle ricchezze, basandola sui principi dell'armonia matematica. Uomo di multiforme ingegno, si interessa di scienza, musica ed astronomia e studiò matematica con Eudosso di Cnido. La vastità di queste competenze in Archita si spiega con il fatto che la scuola pitagorica concepiva la matematica, o meglio l'aritmogeometria, fondamento della realtà naturale e l'universo come un cosmo, ordinato cioè secondo principi mistico-matematici dai quali si generava un'armonia musicale poiché la musica stessa si basava su precisi rapporti matematici.  «Credettero che i principi delle matematiche fossero i principi di tutti gli esseri. Ora, i principi delle matematiche sono i numeri. Pensarono quindi che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose, e che tutto quanto il cielo fosse armonia e numero.»  (Aristotele, Metafisica, libro alfa, 985b23-986a3) Non a caso Archita è stato il primo a proporre il raggruppamento delle discipline canoniche (l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musicanel quadrivium, l'ordinamento che Boezio riprese in epoca medievale). Infine, la partecipazione alla scuola pitagorica, configurata come una setta mistica, era riservata a spiriti eletti e implicava che gli iniziati che la frequentassero avessero disponibilità di tempo e denaro per trascurare ogni attività remunerativa e che potessero dedicarsi interamente a complessi studi: da qui il carattere aristocratico del potere politico che i pitagorici esercitarono nella Magna Grecia fino a quando non furono sostituiti dai regimi democratici. Archita conobbe Platone quando il filosofo ateniese soggiornò a Taranto nel suo primo viaggio verso Siracusa, dove ebbe un confronto piuttosto acceso con il tiranno Dionigi Isulla realizzazione di una possibile riforma filosofica del suo governo. L'amicizia con Archita fu preziosa per Platone quando compiendo questi il suo terzo e ultimo viaggio in Sicilia nel tentativo di realizzare la sua riforma, il nuovo tiranno Dionigi il Giovane lo cacciò dall'Acropoli facendolo vivere nella casa di Archedemo, vicino ai mercenari che mal lo sopportavano. Fu grazie ad Archita, il quale inviò il tarantino pitagorico Lamisco a Siracusa per convincere l'amico Dionigi il giovane a liberare Platone, che il filosofo poté tornare ad Atene.  Lo stesso Platone raccontò così quegli avvenimenti:  "Sembra che Archita si sia recato presso Dionisio; perché io, prima di ripartire avevo unito Archita e i Tarantini in rapporti di ospitalità e di amicizia con Dionisio."  (Platone, Lettera VII, 338c.) "E così con un terzo invito Dionisio mi mandò una trireme per agevolarmi il viaggio, e insieme mandò un amico di Archita, Archedemo, che egli riteneva fosse il più apprezzato da me tra quei di Sicilia, e altri Siciliani a me noti." (Platone, Lettera VII, 339a.) «Altre lettere poi mi giungevano da parte di Archita e dei Tarantini, che facevano grandi elogi dello zelo filosofico di Dionisio, e anche avvertivano che, se non fossi andato subito, avrei causato la completa rottura di quell'amicizia che io avevo creato tra loro e Dionisio, e che era di grande importanza politica." (Platone, Lettera VII, 339d.) "vennero in molti da me, fra cui alcuni servi di origine ateniese, e quindi miei concittadini; essi mi riferivano che calunnie circolavano su di me fra i peltasti, e che alcuni minacciavano, se riuscivano a cogliermi, di sopprimermi. Escogito allora qualche mezzo di salvezza: mando ad avvertire Archita e gli altri amici di Taranto in che condizione mi trovo. E quelli, colto un pretesto per un'ambasceria, mandano uno dei loro, Lamisco, con una nave e trenta rematori. Costui, appena giunto, intercede per me presso Dionisio, dicendogli che io volevo partire e nient'altro che partire; Dionisio accondiscese e mi lasciò andare, dandomi i mezzi per il viaggio" (Platone, Lettera VII, 350) Archita morì a seguito di un naufragio probabilmente nel corso di operazioni di guerra nelle acque di fronte alla città di Matinum (attuale Mattinata sul Gargano) e lì fu sepolto, come riferisce il poeta Orazio: Te maris et terrae numeroque carentis harenae mensorem cohibent, Archyta, pulveris exigui prope litus parva Matinum munera. Te misuratore del mare e della terra e delle immensurabili arene, coprono, o Archita, pochi pugni di polvere presso il lido Matino. (Orazio, Odi, I 28). Nonostante Archita sia vissuto dopo Socrate, viene considerato un continuatore dei filosofi presocratici, perché appartenne alla Scuola pitagorica e si mantenne aderente al pensiero di Pitagora, tant'è che basò le proprie idee filosofiche, politiche e morali sulla matematica. Al riguardo, infatti, così recitano due suoi frammenti. Quando un ragionamento matematico è stato trovato, controlla le fazioni politiche e aumenta concordia, quando c'è manca l'ingiustizia, e regna l'uguaglianza. Con ragionamento matematico noi lasciamo da parte le differenze l'un con l'altro nei nostri comportamenti. Attraverso essa i poveri prendono dai potenti, ed i ricchi danno ai bisognosi, entrambi hanno fiducia nella matematica per ottenere un'azione uguale." (Giamblico, de comm. Math. sc. 11,44, 10. Traduzione di Antonio Maddalena). Per essere bene informato sulle cose che non si conoscono, o si devono imparare da altri o bisogna scoprirle da sé. Ora imparando si deduce da qualcun altro e ciò è straniero, mentre scoprendo da sé è proprio. Scoprire senza cercare è difficile e raro, ma con la ricerca è maneggevole e facile, sebbene chi non sa cercare non può trovare.»  (In Corrado Dollo, Istituto e museo di storia della scienza Archimede, L.S. Olschki). Ad Archita sono tradizionalmente attribuiti molti testi spuri, mentre sono sopravvissuti soltanto alcuni frammenti originali, conservati nelle opere di Ateneoe Cicerone e provenienti dai suoi discorsi morali, che delineano un filosofo più originale nel suo pensiero etico rispetto alla dottrina pitagorica e piuttosto influenzato da quella platonica. Archita viene considerato l'inventore della Meccanica razionale e il fondatore della Meccanica. Si dice che abbia inventato due straordinarie apparecchiature meccaniche.  Un'apparecchiatura era un uccello meccanico, la famosa «colomba di Archita», l'altra sua invenzione era un sonaglio per bambini. Il primo è descritto dallo scrittore e critico latino Aulo Gellio, e ne tentò la ricostruzione uno studioso tedesco, Wilhelm Schmidt. Pare si trattasse d'una colomba di legno, vuota all'interno, riempita d'aria compressa e fornita d'una valvola che permetteva apertura e chiusura, regolabile per mezzo di contrappesi. Messa su un albero, la colomba volava di ramo in ramo perché, apertasi la valvola, la fuoruscita dell'aria ne provocava l'ascensione; ma giunta ad un altro ramo, la valvola o si chiudeva da sé, o veniva chiusa da chi faceva agire i contrappesi; e così di seguito, sino alla fuoruscita totale dell'aria compressa.  Il secondo giocattolo, la raganella, ebbe fortuna: è ancora in uso e spesso si vede nelle fiere popolari di giocattoli. Nella forma originaria era costituita da una piccola ruota dentata fissata ad un bastoncino. Sulla ruota, da dente a dente, saltava una molla cui era congiunto un pezzo di legno. Aristotele consigliava questo giocattolo ai genitori perché, divertendo e captando l'attenzione dei bambini, li distoglieva dal prendere e rompere oggetti domestici.  Si dice anche che Archita abbia inventato la carrucola e la vite, anticipando Archimede, ma non si hanno conferme storiche a tale riguardo. Il più importante risultato ottenuto da Archita è una soluzione tridimensionale del problema della duplicazione del cubo. Precedentemente, Ippocrate di Chio aveva ricondotto questo problema ad un problema di proporzionalità: se a è il lato del cubo che si vuole duplicare, allora il problema consiste nel trovare due valori x e y medi proporzionali tra a e 2a, ovvero tali che  {\displaystyle a:x=x:y=y:2a} Trovati questi due valori, x rappresenta il lato del cubo con volume doppio. La costruzione geometrica utilizzata da Archita per risolvere questo problema è uno dei primi esempi dell'introduzione del movimento in geometria: in esso si considera una curva, conosciuta come curva di Archita, generata dall'intersezione della superficie di un cilindro e di un semicerchio in rotazione rispetto a uno dei suoi estremi.  Archita si dedicò anche alla teoria delle medie, e diede il nome odierno alla media armonica (prima conosciuta come media sub-contraria). Inoltre, dimostrò che tra due numeri interi che sono nel rapporto {\displaystyle {\frac {n}{n+1}}} non è possibile trovare nessun altro intero che sia una media geometrica. Il risultato ha applicazione alla teoria delle scale musicali (vedi sotto).  FisicaModifica Apuleio riporta un argomento di fisica trattato da Archita: la natura della riflessione della luce sopra uno specchio. Platone pensa che dai nostri occhi partano dei raggi luminosi che vanno a mescolarsi con quelli che colpiscono lo specchio. Archita concorda col fatto che i raggi partano dai nostri occhi, ma senza combinarsi con alcuna cosa.  Più felici furono le sue deduzioni sul rumore. Egli capì che provenivano dalle vibrazioni prodotte dall'urto dei corpi nell'aria. Da tale scoperta, formulò l'ipotesi che anche i corpi celesti, dotati di continuo movimento, dovessero produrre rumore. Questo rumore però, non sarebbe udibile dai sensi umani, essendo non intervallato, ovvero continuo nel tempo.  Molto interessanti sono gli studi di carattere sperimentale che condussero a conoscere le cause che diversificano i suoni acuti dai gravi, diversità che sono in funzione della rapidità della vibrazione. Tanto più rapida è la vibrazione, tanto più acuto è il suono che ne proviene, e viceversa. Esperimenti furono eseguiti con flauti, zufoli, tamburelli, e si constatò come anche la voce umana seguisse questo principio. Nell'ambito della teoria musicale sviluppata dalla scuola pitagorica (ed esposta per la prima volta da Filolao), tre contributi sono sicuramente dovuti ad Archita.  Il primo è la teoria secondo cui l'altezza dei suoni è determinata dalla loro velocità di propagazione. Secondo Archita, una bacchetta che oscilla più velocemente (oggi diremmo con frequenza più alta) produrrebbe un suono che si propaga con maggiore velocità nell'aria, e che di conseguenza è percepito come "più alto", rispetto a una bacchetta che oscillasse più lentamente. Questa teoria, per quanto non corretta dal punto di vista fisico e percettivo, rappresenta il primo tentativo di attribuire parametri quantitativi alla propagazione del suono, e fu ripresa da molti autori successivi (inclusi Platone e Aristotele). Il secondo contributo è di natura specificamente matematica. Archita conosceva la relazione fra intervalli musicali e frazioni che conduce alla costruzione della scala pitagorica. Uno dei problemi teorici connessi a quella costruzione era il perché gli intervalli dovessero essere progressivamente suddivisi secondo quelle particolari proporzioni, anziché suddividere semplicemente ogni intervallo in due sottointervalli uguali. Per comprendere la natura del problema si deve ricordare che per definizione gli intervalli musicali si compongono moltiplicandofra loro i rapporti corrispondenti (ad esempio, l'ottava 2:1 si può ottenere componendo una quinta 3:2 con una quarta 4:3, infatti 3:2 x 4:3 = 2:1). Quindi per suddividere un intervallo a:b in due parti uguali si deve trovare il medio proporzionale fra a e b, ossia il numero x tale che a:x = x:b (ciò equivale a cercare la radice quadrata del rapporto a:b). Archità osservò che l'intervallo di doppia ottava (4:1) si può suddividere in due sottointervalli uguali (rappresentati dal rapporto 2:1), ma dimostrò matematicamente che nessun rapporto del tipo superparticulare {\displaystyle {\frac {n+1}{n}}} - genere a cui appartengono tutti gli intervalli fondamentali della scala pitagorica (2:1, 3:2, 4:3, 9:8) - ammette un medio proporzionale fra i numeri interi: quindi nessuno di quegli intervalli può essere suddiviso in due parti uguali (se si mantiene l'ipotesi che ogni intervallo musicale corrisponda a un rapporto fra numeri interi)[36].  Infine, Archita descrisse la costruzione delle scale musicali nei tre generi diatonico, cromatico ed enarmonico. Diversamente dalla scala pitagorica, il tetracordo diatonico proposto da Archita è formato dai rapporti 9:8, 8:7 e 28:27 (quello pitagorico contiene invece due intervalli di tono uguali, 9:8, e un semitono di 256:243). Nel tetracordo cromatico di Archita figurano gli intervalli 5:4, 36:35 e 28:27, e in quello enarmonico gli intervalli 32:27, 243:224 e 28:27. Questi valori sono riportati da Claudio Tolomeo, che (a distanza di oltre 500 anni) afferma che Archita si basò sulla necessità teorica di descrivere tutti gli intervalli consonanti con rapporti superparticulari (e tuttavia nel tetracordo enarmonico figurano rapporti che non appartengono a quel genere). Gli studiosi moderni hanno invece ipotizzato che Archita avesse voluto descrivere matematicamente le scale musicali effettivamente in uso nella pratica a lui contemporanea, sulla base dell'osservazione diretta delle tecniche di accordatura usate dai musicisti. Archita si propose di superare il problema dei commi musicali. Affermò che l'ottava poteva essere divisa in 12 semitoni uguali ed indicò un divisore che ne consentisse la partizione, cioè un numero prossimo ad un terzo di л. In effetti il divisore dell'ottava della scala temperata, la radice dodicesima di 2 =1,0594630943592…. è prossima a л/3=1,0471975 postulato sia da Archita che da Aristosseno. La divisione dell'ottava a cui Archita pervenne è la seguente: л/3, Л 4/11, Л 3/8, Л 2/5, Л 3/7, Л 5/11, Л 9/19, л/2 , Л 7/13, Л 4/7,Л 3/5 Л 7/11, nell'ordine: seconda minore, seconda maggiore, terza minore, terza maggiore, quarta giusta, quarta eccedente, quinta giusta, sesta minore, sesta maggiore, settima minore, settima maggiore, ottava. Il divisore proposto da Archita porta a differenze con la scala temperata dell'ordine delle decine di centesimi di semitono.  AstronomiaModifica È trattata da Archita in un passo di Eudemo da Rodinel suo commento alla Fisica di Aristotele, nel quale si discute il problema della dimensione dell'universo. Per Archita l'universo è infinito, poiché, egli dice :  «Se mi t rovassi all'ultimo cielo, cioè a quello delle stelle fisse, potrei stendere la mano o la bacchetta al di là di quello, o no? Ch'io non possa, è assurdo; ma se la stendo, allora esisterà un di fuori, sia corpo sia spazio (non fa differenza, come vedremo). Sempre dunque si procederà allo stesso modo verso il termine di volta in volta raggiunto, ripetendo la stessa domanda; e se sempre vi sarà altro a cui possa tendersi la bacchetta, è chiaro che anche sarà interminato.In Enciclopedia Garzanti di Filosofia Archita sarebbe vissuto tra il 430 ca. e il 360 ca. a.C. Altre fonti collocano la nascita tra il 430 e il 400 e la morte non prima del 360. (Museo Nazionale e archeologico di Taranto  Christoph Riedweg, Pitagora: vita, dottrina e influenza, Vita e Pensiero, 2007 p.29  Francesco Paolo De Ceglia, Università di Bari. Seminario di storia della scienza, Scienziati di Puglia: secoli V a.C.-XXI, Parte 3, Adda, 2007 p.17  Cicerone, De senectute, 39  Eliano, Varia istoria XII, 15 (T.C. A 21 (47) 8)  Ateneo, XII 519 B (T.C. A 21 (47) 8)  Dizionario di filosofia, Treccani alla voce corrispondente  Luigi Pareti, Storia della regione Lucano-Bruzzia nell'Antichità, Volume 1, Ed. di Storia e Letteratura, Ettore M. De Juliis, Magna Grecia: l'Italia meridionale dalle origini leggendarie alla conquista romana, Edipuglia srl, 1996 p.251  L'associazione di Architetti Italiani in Spagna, Arquites è stata denominata in questo modo in onore di Archita  Ettore M. De Juliis, Magna Grecia: l'Italia meridionale dalle origini leggendarie alla conquista romana, Edipuglia srl,  Ai tarantini, citato in La Voce del Popolo, n. 11,   Dizionario della civiltà greca, Gremese Editore, Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di Filosofia, Giunti Editore, La parola κόσμος (kòsmos) nella lingua greca nasce in ambito militare per designare l'esercito schierato ordinatamente per la battaglia (in Sesto Empirico, Adv. Math. IX 26)  Christiane L. Joost-Gaugier, Pitagora e il suo influsso sul pensiero e sull'arte, Edizioni Arkeios, 2008 p.140  André Pichot, La nascita della scienza: Mesopotamia, Egitto, Grecia antica, Edizioni Dedalo,Cfr. anche Ruggiero Bonghi, Delle relazioni della filosophia colla società: prolusione, F. Vallardi, Secondo una tradizione apocrifa Archita trasse dalla filosofia platonica la convinzione della immortalità dell'anima. Al contrario Cicerone ritiene che Platone si recò in Sicilia per conoscere le dottrine pitagoriche che apprese da Archita e che condivise divenendo lui stesso pitagorico.(Cfr. Cicerone, De Repubblica I 16, De finibus bonorum et malorum, V 87, Tuscolanae disputationes, I 39)  D. Laerzio, Vite, III, 19, 20.  Platone, Lettera VII  Vita di Platone.  G. Urso, «La morte di Archita e l'alleanza fra Taranto e Archidamo di Sparta», Aevum, 71 Mario Taddei, I robot di Leonardo da Vinci: la meccanica e i nuovi automi nei codici svelati, ed. Leonardo3, 2007 p.434  A. Gellio, Notti Attiche, lib. X, c. 12  Wilhelm Schmidt: Aus der antiken Mechanik. In: Neue Jahrbücher für das Klassische Altertum 13, M.Taddei, Op. cit. p.16  Aristotele, Pol. VIII 6)  Rinaldo Pitoni, Storia della fisica, Società tipografico-editrice nazionale, 1913 p.24  K von Fritz, Biografia nel Dictionary of Scientific Biography (New York).  J. J. O'Connor, E. F. Robertson, Archytas of Tarentum, The MacTutor History of Mathematics archive.  Boyer, Carl B., Storia della Matematica,83-84  Apuleio, Apologia, 15  Platone, Timeo, 64 A  Giambico, in Nicom., 9, 1.  a b C. Huffman, "Archytas", The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2011 Edition), Edward N. Zalta[1].  C. Huffman, "Archytas", The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2011 Edition), Edward N. Zalta[2]; A. Barbera, Archytas of Tarentum, New Grove Encyclopedia of Music and Musicians.  Francesco Paolo De Ceglia, Università di Bari. Seminario di storia della scienza,Scienziati di Puglia: secoli V a.C.-XXI, Parte 3, Adda, 2007 p.18 BibliografiaModifica Carl A. Huffman, Archytas of Tarentum. Pythagorean, Philosopher and Mathematician King, Cambridge University Press, (l'edizione più completa dei frammenti) M. Timpanaro Cardini, I Pitagorici, testimonianze e frammenti, voll. I, II, 111, La Nuova Italia, Firenze Platone, Lettere, a cura di Margherita Isnardi Parente, trad. di Maria Grazia Ciani, Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori, Milano J. Stobaei, Anthologium, rec. Curtius Wachsmuth et Otto Hense. Anthologii libri duo posteriores, vol. 11, Weidmann, Berlin, 1958² J. Navarro, Tentamen de Archytae Tarentini vita atque operibus, Hafniae 1820 Doehle, Geschichte Tarents bis auf seine Unterwerfung unter Rom, Strasburg  R. Lorentz, De civitate Tarentinorum, Lipsiae C. Del Grande, Archita e i suoi tempi, Taranto, Cressati  A. Delatte, Essai sur la politique pythagoricienne, Liège - Paris A. Olivieri, Su Archita tarantino, memoria letta all'Accademia Pontaniana il 14 giugno 1914 A. Frajese, Attraverso la storia della Matematica, Veschi, RomaStante, I problemi di terzo grado e Archita da Taranto, Tesi di Laurea in Matematica, a.a. Università di Lecce A.Tagliente, La colomba di Archita, Scorpione Editrice, Taranto A.Tagliente, Il mistero del trattato perduto, Scorpione Editrice, Taranto J.Dumont, Les Présocratiques H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker A. D. Abbaiatore, Scritture Musicali greche, Vol. II: Teoria armonica ed Acustica, Cambridge F. Blass, De Archytae Tarentini fragmentis mathematicis, Parigi 1884 Taranto nella civiltà della Magna Grecia, in Atti dei convegni di studio sulla Magna Grecia, X, Napoli Taranto e il Mediterraneo, in Atti dei convegni di studio sulla Magna Grecia, XLI, ISAMG Taranto, 2002 Filosofia e scienze, in Atti dei convegni di studio sulla Magna Grecia, V, Napoli 1966 Eredità della Magna Grecia, Atti dei convegni di studio sulla Magna Grecia, XXXV, ISAMG Taranto, 1996 Alessandro il Molosso e i "condottieri" in Magna Grecia, Atti dei convegni di studio sulla Magna Grecia, XLIII, ISAMG Taranto, Cesare Teofilato, "Interpretazione di Archita" dalla rassegna "Vecchio e Nuovo" di Lecce - fascicolo di gennaio 1931 - Vol. II A. Mele, Archita, i suoi tempi e il suo pensiero, in Taranto tra Classicità e Umanesimo (introduzione di Cosimo D. Fonseca), Scorpione Editrice Taranto Voci correlateModifica Personalità legate a Taranto Raganella (strumento musicale) Eudosso di Cnido. Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Archita, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Archita, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Archita, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland. Carl Huffman, Archytas, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Università di Stanford. Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Magna Grecia Portale Magna Grecia Matematica Portale Matematica Politica Portale Politica Scienza e tecnica Portale Scienza e tecnica Ultima modifica 7 giorni fa di Ontoraul PAGINE CORRELATE Musica nell'antica Grecia Tetracordo Lamisco filosofo greco antico archytas: Italian ‘Archita’ -- Grecian, pre-Griceian, Pythagorean philosopher from Tarentum in southern Italy. He was elected general seven times and sent a ship to rescue Plato from Dionysius II of Syracuse. He is famous for solutions to specific mathematical problems, such as the doubling of the cube, but little is known about his general philosophical principles. His proof that the numbers in a superparticular ratio have no mean proportional has relevance to music theory, as does his work with the arithmetic, geometric, and harmonic means. He gave mathematical accounts of the diatonic, enharmonic, and chromatic scales and developed a theory of acoustics. Fragments 1 and 2 and perhaps 3 are authentic, but most material preserved in his name is spurious.  a buon diritto chiamare l'inventore de'moderni palloni arrostatici. Però un secolo prima al padre Lana G , C. Scaligero,a proposito della colomba volante d'Archita, della quale parla Orazione l l e sue odi, indica il modo di costruirla. Nulla di più facile, egli dice: basta comporre la sostanza con midolla di giunco, e diligentemente coprirla colla pelle adoperata dai battiloro. Mediante un facile meccanismo sipuò dar movimento alle ali.19 Scaligero scordò di avvertire che bisognava riscaldare l'aria interna con un lumicino quando rolevasi farla volare. Cosi 500 anni prima dell'era nostra, Archita aveva trovato il modo di far salire nell'ariaun pallone in forma di colomba, dacchè tutto fa credere che imezzi impiegati da questo filosofo fossero gl'identici che quelli impie gatioggigiorno per levarei palloni. Quanto al ritorno della colomba, obbediente alla voce d'Archita, questa evidentemente è una favola. Sempre, aun fatto sorprendente, l'immaginazione aggiunge circostanze impossibili;ma ciò che io credo innegabile è che l'areostalo era conosciuto a tempi detti favolosi, e che, amio parere, sono reminiscenzedi una civiltà perduta, che i poetichiamarono regno degli dei. Quegli ignivomi draghi. SULLA COLOMBA Entre a pišivago, e più superbo volo Pel Regno aereo l'ali fu e spandea , E di spirto novello acquisto fea La Colomba d'Archita inversoilPolo , Volgendo a caso i suoi begli occhi al suolo Del terzo Ciel la vezzofetta Dea, La vide , e per rapirla già scendea Da quel de' Dei Seggio beato, e solo. Allor gridd, e quafi fu per dire: Oh così foffepur lamia. Colomba! Fattafi Citerea con gran desire , Di legno fols'avvide: efferl'augello. ARCHITA. Juan. Juven. 3. Cap. 2. Ital. Sacr. in Tarentin. Mitrop.t om. 9. Lamb. in Schol. Horat. Lib. i. Od. 28.  144) regnasse più di u n ' Ann o . I nuove grazie adorna il fuo bel volto D LLi:etasengiva in maestà reale Astrea, mirando venerato, e colto Fa più volte Prefetto della sua Patria, ancorchè le Leggi comandassero, che nessuno in tempo di sua vita Quel delle Leggi fue pregio immortale. Quando Prudenza, il dolce fuon disciolto, figlia d' eccelsa mente, e trionfale, Non titurbar, le diffe, fe sia tolto Il primier di regnare ordine uguale . Tempo verrà,che in arme,e intoga imperi più d'un'anno al suo ftuoi, mai sempre intento Archita a nuove glorie, e a bei pensieri. E a Leila Diva: in cento modi, e certo Muta pur Leggi, e Faftimiei primieri, Purchè Archita mio regni, io mi contento. Diogen. Laert. in Vit. Archyt. In Joan. Buno. not. ad Philip. Cluver. Lib. 3. Cap. 29.  ARCHITA FILOSOFO PITTAGORICO, E MATEMATICO E PERITISSIMO. Odar chi mai tanto ti può, che basti, Alma immortal degnillima d' Impero? Chi dir di tue virtudi il volo altero, Per cui fovra ogni Saggio alto poggiasti? Del Ciel le stelle, e i moti lor sì vasti, Tu delle cose le cagioni, e'l vero, E quanto il Mare, e l'Universo intero Circonda, e abbraccia, chiaro a noi mostrasti, Tu , ch'eccedi de'Savj i bei consigli Già di ogni uman pensier reso inaggiore, 'Quanto il Sol delle stelle avanza irai, Tu, che Te stesso, e null? altro somigli, coll'auree del tuo fuon note canore tu sol di tue virtù cantar potrai. Diogen. Laert. in vit. Archyt. Foreft. Tom.1. Lib. 8. Cap. 3. 64. Joan. Juven. Tarentin. Lib. 3. Cap. 2. Lambin in Scbol. Horat. Lib. 1. Od. 28. Nicol. Parth. Giannet. in Geograph. Lib. 4. Cap. 7. SEN. TARENTINO, Scrivendo contro il Piacere. O So, chemente all'Von dona, e Tume aquella; SENTIMENTI D'ARCHITA chi dietro alsuo piacer brutale corre, e del sensorio fà l'alma ancella, bruto diventa agli altri bruti eguale, tutto perdendo il bel, che aveva in ella. Senza lume si vago, e rilucente Joan. Juven. Tarentin. Lib.3. Cap. 2. Mente, ch'èper fuo pregio trionfale della divinità parte più bella. Che quando avvien, che sopra l'alma impero abbia il piacere, allor cieca è lamente 'E cieca la ragion , cieco è 'l pensiero. Oprano i Bruti, e senza il suo primiero Lume fia, chel'uom bruto anchedivente. E pur ESER,   Diogen. Lacrt. in vit. Archyt. Foreft. Tom.1. Lib. 8. Cap. 4. Joan. Juven. Tarentin. Lib. 3. Cap.2.  Mille a mille empj nemici, incampo scendete pure, e con terribil grido, no uche con quel dell'armi orrido lampo Fate tremar dell'onde Jonie illido. ESERCITO TARENTINO NON MAI VINTO, ESSENDO CAPITANO Là nel Galelo col suo nobil Campo Itene or lieti delle forze usate, Faran del vostro fuol le schiere armate, Finchè Archita fia duce, alta vendetta. ARCHITA v'aspetta il bravo duce. E già lo strido de' corni i' fento, en el cercarlo scampo già cader vi vegg'io pel colpo infido. Ed alla patria, che il trionfo aspetta, le tolte spoglie in vostro onormostrate. Se per ostil cadeste atra disdetta, LA,   ARCHITA D'ESSER CAPITANO, PER SOTTRARSI ALL'INVIDIA, L'ESERCITO DETARENTINI E' FATTO PRIGIONE DA NEMICI. Arme il fulgore insiem spaventa, e sfida co’luoi deftrieri i cavalier; già scende sangue da larga vena in terra infida. Mira Tarento mio, quei, che fen muore, hàgli spinti l'invidia a tante pene. LASCIANDO DO Di guerra sonar le trombe orrende? di come il rio Marte all'alte strida Di quel Drappello, e questo i cuori accende, Perchè col ferro fuo l'un l' altro ancidas arme, arme fre me ognun: già di tremende e quei, che'l braccio (tende alle catene son dolci figli,  oimè, del tuo dolore! Freme contro d'Archita ilrio livore, E lull'alme innocenti il mal senviene. Diogen: Laert, in vit. Archyt. Joon. Juven. Tarentin. Lib. 3. Cap. 20. 0! 1 AR.: ad altri venduto , ed alla fine è riscattato Offri; buon Savio, foffri. Ecco Fortuna S Di mortal sfavillando atro disdegno sue forze impiega, e l'arme sue raduna, Per far del tuo valor {terminio indegno. Già l'empia, oime! con faccia torva, e bruna Scocca saette últrici, e ben al sogno Colpito hà omai; ve come in preda d'una Ti dà vile ciurmaglia in fragil legno. TARENTINO ARCHIT. A peregrinando per imparare, è preso dà'Corsari, serve $$$$$) $8888 Ma chefie; se delcuorle forti tempre Alexand.ab Alexand, lib. 6. Cap. 5. Joan. Juven. Tarentin. Lib. 3. Cap. 2. Di. Pur non è fazia no ,schiavo al servaggio Ti mena ancor, perchè nel duoldistempre Ilmagnanimo tuo nobil coraggio. Rassoda più ne'colpi suoil'Vom faggio, E di sua libertà gode mai sempre! PLATONE DOPO AVER CAMMINATO L'EGITIO, VIENE IN ITALIA PER IMPARAR SOTTO LA DISCIPLINA Edesti pur , come il gran Nilo altero, D a perenne sboccando occulta fonte Ogni arginedisprezzi, edogniponte, E i campi ad ipopdar si apra il sentiero. E d ivi asperto di sudor la fronte Delle scienze falisti all' arduo monte , E ti fur quelle il folo premio intero . Ed or, per fullescienze alzare un volo Sotto 1:aurea d'Archita arte gentile, Cerchi il Galeso , e l Tarentino luolo ? DunqueinEgittoEroenonv hàfimile, Cic.de finib.bonor. molor.Lib.s. Foreft:Tom . I..Lib. 8. Joan.Juven. Tarentin.Lib.3.Cap.2. DOPS V D'ARCHITA TARENTINO . Si , vedesti 1 Egizio , e 'l Greco Impero , ARCHI. Nèingegno inGrecia,alsoloArchita,alsolo Suo noro ingegno,anche oltreBattro,eTile .    A ARCHI.  ( 51 ) Pri,Fortuna,perun solmomento Gli occhi, cui buja notte orrida cuopre , E mira,leiltuo folleafproardimento Contro Savio maggior sua forza adopre. Questi è il gran Plato , e quegli fon q u e cento Folle ! Rę Plato al tuo servil flagello ARCHITA TARENTINO RISCATTA PLATONE PRESO D A CORSARI. Empj ladron , per le cui mani, ed opre Schiavo il facefti; or com 'ei fparge al vento Gl’infranti lacci, e in libertà li fcuopre ? C o m e il trionfo , che del suo fervaggio Ornar credefti, e de' suoi guai far bello , Qual peve dilegudfli al caldo raggio ? Menalti , a un cenno fol d' Archita il saggio Cara tornò la libertàdi quello. Joan.Juven.T'arentin.Lib.3. Cap.2. e   Se avvien , che della gloria i m i diftempre L a bella gloria è tua, fe Plato apprese Che del tuo Figlio al nome accrebbe ilvanto , Cic.de finib.bon.domal.Lib.5.* Lib 1.Fiscula Joan.Juven. Tarcntin. Lib. 3. Cap. 2. ARCHI.  ( 52 ARCHITA MAESTRO DI PLATONE. C Figlio di puro core, e viva Immago , Che ' veroiocanto,efoldiluimi appago, Diceva un giorno Atene in dolci tempre, Dal tuo gran Figlio Archita il pregio fanto , E B alme di virtude auree contefe . Ella è mia pure , e téco i fafti io canto : Poich ?Ei tal lume in tutto il m o n d o accese , Nel gaudio , el corc infuperbito , e pago Pel mio Plato or fen vada,un don si vago A te ,Tarento mio,debbo maifempre. "   ARCHITA CAMPA PLATONE DALLA MORTE INTENTATAGLI DA DIONISIO TIRANNO. AR,  53 D u e Polato ilscan Plato,ahimè,quelfaggio, t Veloce ( ahi laffo !) a tramontar quel raggio Det rio fallir le pene : omai trionfi Si bella dote, e vinca ancor Sapienza. Si diffe Archita ; e i fieri petti , e tronfi. Placando al gran poter d'aurea Eloquenza, Morrà , perchè un Tiranno indegno d'ostro Sogna fofpetti, e teme indarno oltraggio ? Correrà , che dà lume al secol nostro ? Ed io,perchèpiù viva,ancor non mostro, No n m ostro, a n c o r dell'anima il coraggio? No , che non porterà l'alma Innocenza < Plato all'ombra viveade'suoi trionfi. Cic. Lib. 5. Tuscul. Diogen. Laeft. 38 Vit.Archyt., o Platon. Juan. Juven. Tarentin. Lib. 3. Cap.2 . Ital. Sacr. in Torentin. Metrop. tom. 9. Plutar. in Platon . Sabell. Ennead.4.Lib.3. D2   ARCHITA TARENTINO A PLATONE . Se amica pioggia a temprar mai l'ardore Scende dal Ciel ,non giace no più china La fronte lor, ma col nacio colore S'innalza si, che al Ciel più si avvicina ; Lasso ! calo io restai, allor che infermo Starteneudjfrapene,o mio buon Plato Senza ajuto languendo , e senza schermo . Ma orchedicuavitaalprimostato Fatto hai ritorno, io mi rinfranco , e fermo Pertemi rendo, cfon, qualpria,beato. Q Diogen. Laert.in vit.Archyt. Joan.Juven. Tarentin. Lib.3. Cap. 2. Val Yenza umor giglio languisce,o fiore, E scolorito à terra ilcapo inchina, Questo ilvermiglio onor,quello ilcandore Perdendo a poco a poco in sua ruina : PLA . Q A te del loro autor duce sì pio In mezzo del cammino elle si stanno , pss .) M a giugnere alla meta orgogliosette Ben le vedrai , fe nuovo spirto avranno , PLATONE MANDA ISUOI COMMENTARY AD ARCHITA TARENT INV. Veste assai più , che dell'ingegno mio , Opre de'tuoi fudori,onde a be'studj Delle più gloriofe alte virtudi La mia mente infiammaiti,el buon deslo, Opre dunque son elle ora imperfette. Raroè peròl'onor,seateverranno; Più raro , le giammai fien da te lette. Diogen Lacrt. in vit. Archyt. Joan. Jurien. Tarentin . Lib .3. Cap. 2. Platon.in Epift.12. 0 Vengono,Archita.O :tu leleggi,e inudi Sensi del tuo faver poi mi dischiudi Con quellalibertà,concuileinvio, PLA, Gloria dai tuoisi provvidifudori, Soffri in regnar , grida la Patria ,e uffici Mostra di quel,che sei,Signor de cuori, E tumalgradoimperi?etilamente Non fei;la Patria hà in te parte del tutto. Non oscuro è il linguaggio; odi mia mente: O rendi alla tua Patriailben,ch'èsuo, O delsuobenfà,ch'ellan'abbiailfrutto. Cic definib.bonor.comalor.Lib.2. Lib. lade Offic. Joan. Juven. Tarentin. Lib.i. in Prefate do Lib.z. Cap.2. Platon. in Epif. gi  PL ATO NE TÀRENTINO . V Nmalele folo ( 36 i ADARCHITA O n , a se folo no , nasce agli Amici , Nafce alla Patria l'Uom , nasce aMaggiori, E dal bel nascer suo giorni felici Speran questi, e sperar voglion tesori. O r foffri, o Figlio , o tu , che tanta elici D e' gran pubblici affari? ah che fol tua AD 1 0 ) 1  SULLA  3 AD ARCHITA TARENTINO, Del buon governo,eloro fren spogliace; O naufragar,dall'empie arti indiscrete Di piggior Duce a morte ria guidate: El soffrirandelcuorletempre?ahfiamma D'amor mostrate,evoilaPatriabella Reggete:omai con quell'ardor ,che infiammar Così lungi da leistrage rubella Sen fuggirà,qualCervioa icolpi,o Damma, O , che viver a voinon maipotrete; Se non vivrete ad altri se se pensate Goder mai signoria , nè servirete Alle pubbliche cose ,alle private , O vacillar ben presto le vedrete E poi fia vostra gloria il ben di quella . In argument. 9. ad Epift. 9. Platon, D'ARCHITA A d d e Archita , e vidjo senza conforto E scorse fino all' ultimo confine La Terra,eilCielcoll'artifuedivine, Archita il grande , il nostro Padre è morto ! Del mar le Dive usciro al pio lamento. SULLA MORTE. Pianger lo stuol da rio dolore assorto . Oimè ,dicean,chi dall'Occafo all'Orto, CAdele Dell'alte sue virtudi,e pellegrine, Pallido il viso , e lacerato il crine, E in lor leggendo i gran pubblici danni Pianfero', e poi partiro , e di Tarento GiunteallaReggia:orvestiinegri panni Da e r ,bella Città : per tuo tormento Aichita è morto ahi sulbel fior degli anni ! Horat. Lib. 1. od. 28. Joan. Juven. Tarentin Lib 3. Cap.2. INVE   E Diede il Popot Matin l'ultime prove  Se'l crudo suo destino unqua vi spiacque Le bell*ossadiLui,chetantopiacque A b b i a n lieve la terra ; e poi partite . Horat. Lib. 1. od. 28. Joan.Juven.Tarentin.Lib.3.Cap.za SUL  (59 ) INVITO A RIMIRARE IL TUMULO D'ARCHITA PRESSO AL LIDO MATINO, Ccop Urna funefta.Alme ben nate, Cui di pietà l'amabil forza muove , D e h fermatevi alquanto , e rimirate , Pria di ftendere il passo agile altrove . Qui le fante d Archita ossa onorate Giaccion fepolte , e qui fpargendo nuove: Piogge d'amaro pianto , di pietate Del passato dolore in segno ah dite : . th Allor , che in mar precipitò , smarrite Sue forze,einfrantoilleguoinmezzo all'acques   Di Natura le fonti più segrete ; Chi dall'onda fatal raplo diLete L e naufraghe virtudi , e l ebbe accanto ; Chi le vie seppe drittamonte torte , i PercuilaLuna appar',elSols’asconde,  ( 60 ) Aili ah yoi le face offa , e'l cener fanto Di quell Almagentilahicitogliete, C h e fù si chiara al M o n d o , e vi godete Della vera fapienza il facro immanto . Chi a noi mostrò con tanto studio , e tanto Horat.Lib. i.od.28. . Joan. Juven.Tarentin. lib. 3: Cap. 2. SUL SEPOLCRO EUDOS D.ARCHITA TARENTINO . Chi 'n Terra,e 'n Ciel la ferma, emobilsorte; chi com e il foco, el Aere, el suolo , e l'onde s'abbraccin, seppe, orquìsengiace. Oń Morte, O h duri fastí, ohcieche ombre profonde? S quanto mai dibelloinCielfiadditag; Ne panni no,ma nella mente fiede. Diogen.Laert.in vit.Eudox. Foreft. Tom .1. Lib. 8.Cap .4 Joan.Juven,Tarentin.Lib.3. Cap 2. ! Q. EUDOSSO DA GNIDO FAMOSISSIMO MATEMATICO DISCEPOLO ARCHITA NON FU'RICEVUTO DA PLATONE ALLA D Mira come in udir fuo ftile adorno La tuafuperbia,e'lfolleardireondanni. No , non doveviil gran Figliuol d'Archita SUA SCUOLA ,PER ESSER POVERO, Vefti, o Platon , che tu schernisti un giorno Perchè di povertà fentia gli affanni Questi è colui (fe pur nol fai)che intorno Del fuo grave faver difpiega i vanni , Gnido vi fpenda il più bel fiordegli anni; E come giusta ad immortal tuo fcorno Si vilmente scacciar dalla tua fede Qualor baffamenava umile vita. Poichè virtude , onde 1 U o m farli erede. Archita.  Keywords: la colomba d’Archita, Platone, magna Grecia, piccione viaggiatore, il vuolo della colomba --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Archita” – The Swimming-Pool Library.

 

Ardigò (Casteldidone). Filosofo. Grice: “I love Ardigo – but I have a few qualms – his “Opere filosofiche’ is improperly indexed! The man wrote zillions! My attention was first caught by  minor editorial note: “’La morale dei positivisti’ was reprinted a few years later after its first edition as divided into two parts, “la morale’ proper and ‘Sociologia’ – Since I have used philosophical biology and philosophical psychology, Ardigo is indeed into ‘philosophical sociology’ – As he notes, ‘sociology’ is today’s philosophese for Aristotelian politics – politica – re publica romana – And being a positivist, Ardigo provides some good background – which will later be ‘refuted’ by the neo-idealists that opposed this sort of philosophy – to the idea of two organisms (two pirots) interacting --. While I speak of conversational egoism as balanced by conversational tu-ism; Ardigo, less of an altruist, and who laughs at the ‘ridiculous’ sensist conception of ‘simpatia’ – speaks of two principles: the principle of egoism, or prepotence, found amoung brutal animals – and the principle of what he calls ANTI-EGOSIM, found in the civil Italian gentleman – the word ‘civile’ is crucial, as in Castiglione, ‘discorso,’ or ‘conversazione’ civile.  If Wilson found it offensive when Chomsky spoke of two ideal communicadtors, this is no problem for the positivist – As Ardigo notes, an Italian will not behave conversationally in the same way when conversing with some he regards as below his station  -- that’s why he (and later I adopted the same guideline) uses ‘Romolo’ and ‘Remo’ (rather than Jack and Jill, since there is a gender issue here) as  communicators. As he puts it, ‘the fact that Romolo eventually kills his ‘fratello’ is hardly relevant from a positivist point of view – surely we don’t require ANTI-EGOSIM to hold indefeafeasibly, I would disagree with Ardigo’s dismissal of Remo’s murder – ‘l’assassinio di Remo’ – I discussed this with Hardie – in English, and, after a ten-minute pause, all I got from him was, ‘what do you mean by ‘of’?’” -- Essential Italian philosopher. Grice: “It’s amazing Ardigo found psychology a science, and a positive one, too!” – Altre opere: “La psicologia come scienza positive”; “Scritti vari”; “Venti canti di H. Heine tradotti 100 percent.svg  di Heinrich Heine (1922), traduzione dal tedesco (1908) Testi su Roberto Ardigò. Per le onoranze a Roberto Ardigò 100 percent.svg  di Mario Rapisardi (1915) Note  Gemeinsame Normdatei  data.bnf.fr  Comité des travaux historiques et scientifiques  Brockhaus Enzyklopädie  Dizionario Biografico degli Italiani Categorie:  Casteldidone Mantova 1828 1920 28 gennaio 15 settembreAutoriAutori del XIX secoloAutori del XX secoloAutori italiani del XIX secoloAutori italiani del XX secoloReligiosiFilosofiPedagogistiReligiosi del XIX secoloReligiosi del XX secoloFilosofi del XIX secoloFilosofi del XX secoloPedagogisti del XIX secoloPedagogisti del XX secoloAutori italianiReligiosi italianiFilosofi italianiPedagogisti italianiAutori citati in opere pubblicateAutori presenti sul Dizionario Biografico degli Italiani Refs.: Grice, “Ardigò and a positivisitic morality,”  Luigi Speranza, "Grice ed Ardigò," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. ARE. Ricerca Roberto Ardigò psicologo, filosofo e pedagogista italiano (1828-1920) Lingua Segui Modifica «L'inconoscibile di oggi è il conosciuto di domani.»  (Roberto Ardigò[1]) Roberto Felice Ardigò (Casteldidone, 28 gennaio1828 – Mantova, 15 settembre 1920) è stato uno psicologo, filosofo e pedagogista italiano.   Roberto Felice Ardigò Biografia Modifica Roberto Felice[2] Ardigò nacque a Casteldidone, in provincia di Cremona, il 28 gennaio 1828, da Ferdinando Ardigò e Angela Tabaglio. A causa delle difficoltà economiche della famiglia, un tempo agiata, si dovette spostare a Mantova, dove il padre trovò lavoro presso i cognati. La madre era profondamente religiosa, mentre il padre sostanzialmente indifferente in materia. Egli ne avrà sempre profondo rispetto e un forte legame, come anche con la sorella.[3]  Studi teologici Modifica Studiò a Mantova, per poi iscriversi nel 1845 al liceo del Seminario vescovile. Nel 1848 ottiene un posto gratuito nel seminario di Milano, ma in seguito ai moti risorgimentali é costretto a rientrare a Mantova. Il suo successivo tentativo di arruolarsi nell'esercito di Guglielmo Pepe è frustrato da una febbre malarica che lo colpisce alla vigilia della battaglia di Goito. Proseguì poi gli studi teologici. Dopo la morte dei genitori, fu accolto a casa sua da Mons. Luigi Martini, rettore del Seminario mantovano. In quegli anni il Seminario era investito dalla congiura patriottica che porterà al supplizio dei Martiri di Belfiore, dei quali ben tre erano sacerdoti, tra cui il leader della congiura Don Enrico Tazzoli, insegnante presso lo stesso Seminario.   Ardigò fu infine ordinato sacerdote il 22 giugno 1851.[3]  L'insegnamento positivista, la sospensione e la scomunica Modifica Nel 1870 pubblicò La psicologia come scienza positiva e nel 1876 tentò di istituire presso il Liceo di Mantova, dove insegnava[4], un Gabinetto per le ricerche psicologiche.[3] Nel metodo di insegnamento, poi, privilegiava il personale e diretto coinvolgimento degli allievi, sollecitandoli al libero dialogo, con una attenta analisi di brani critici e dei filosofi, cosa non troppo gradita alle gerarchie ecclesiastiche e al Ministero dell'Istruzione.  Già preda di una crisi religiosa molto forte, che lo portò infine a divenire ateo[5], tutta questa polemica lo condusse appunto a smettere l'abito ecclesiastico nel 1871, a 41 anni, dopo aver aderito ormai completamente alle posizioni positiviste ed evoluzioniste, che andavano nettamente in contrasto ai dettami della Chiesa cattolica del tempo, e aver attaccato apertamente il dogma dell'infallibilità papale.[3]  Alla fine, Ardigò venne anche scomunicato, ultimo atto della polemica contro la Chiesa di cui aveva fatto parte.[6][7]  Professore universitario Modifica  Casteldidone, lapide sulla casa natale In totale insegnò storia della filosofia all'Università di Padova per 28 anni dal 1881. Considerato tra i padri della psicologia scientifica italiana[8] per aver promosso una concezione scientifica della psicologia, concepì una complessa teoria della percezione e del pensiero che non ebbe completa dimostrazione sperimentale. Nel 1882 Ardigò svolse uno dei suoi maggiori esperimenti in campo psicologico sperimentale, sulle condizioni dell'adattamento visivo su prismi ottici.[3] Diverse furono le materie che insegnò nei lunghi anni d'insegnamento universitario fino alla data del 1º giugno 1909 quando fu collocato a riposo. Fu, altresì, preside della facoltà di filosofia e lettere dal 1899 al 1902.[3]  Il 31 maggio 1908 divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino.[9]  Il 16 ottobre 1913 fu nominato senatore del Regnoma fu impossibilitato a raggiungere Roma per il giuramento.[3]  Durante la sua vita elogiò Giuseppe Mazzini[10] e Giuseppe Garibaldi[11], criticò la massoneria[12] (in quanto la riteneva non necessaria in uno stato ormai libero) ed espresse idee fortemente repubblicane.[13]  Ultimi anni e suicidio Modifica Negli ultimi anni di vita, isolato dall'ambiente intellettuale, ma non dai suoi discepoli più stretti, soffrì di gravi problemi fisici e depressivi (acuiti dalla morte della sorella Olimpia, che viveva a casa sua, nel 1907), che lo condussero a un primo tentativo di suicidio a Padova nel 1918 (dopo aver appreso della disfatta di Caporetto e della morte di molti giovani italiani), fallito perché la ferita non era grave[3], ma che si sarebbe ripetuto il 27 agosto 1920[14], questa volta riuscendo nel suo intento: Ardigò morì infatti suicida all'età di 92 anni nella sua ultima sistemazione a Mantova a casa Nievo, abitazione che era stata di Ippolito Nievo. Si autoinflisse una ferita colpendosi con un rasoio (o una roncola) arrugginito alla gola.[15] Le testimonianze dell'epoca riferiscono che venne trovato seduto alla scrivania, con la barba bianca del tutto sporca di sangue (barba che gli fu tagliata dai soccorritori ed è tuttora conservata come cimelio nella sala blindata della Biblioteca di Mantova[15]); soccorso dai medici, perse comunque conoscenza dopo aver ribadito le sue intenzioni, e morì due settimane dopo, il 15 settembre.[3][15]  Ricezione dell'opera di Ardigò Modifica Il tragico atto finale della sua vita venne usato dai suoi detrattori - clericali o neoidealisti - per screditare il positivismo in declino o visto come un gesto di demenza senile, e non come un atto di un uomo ormai stanco a livello psicofisico, che aveva dato tutto e vissuto la sua lunga vita secondo coscienza, quale in effetti era. D'altra parte, seppur il sistema di Ardigò non era anti-idealistico, furono gli idealisti ad attaccarlo filosoficamente, seguiti dai marxisti di inizio secolo, come Antonio Gramsci, talvolta paragonandolo agli esiti più deleteri del positivismo, come l'antropologia criminale di Cesare Lombroso (risultata poi non scientifica), determinando l'oblio parziale delle sue opere, tra i maggiori libri filosofici tra il periodo illuminista (con l'esclusione delle opere filosofiche di Giacomo Leopardi) e il neoidealismo di Croce e Gentile. Con lo sviluppo del positivismo logico e la riscoperta del positivismo, si è avuta una lenta rivalutazione di Ardigò, il maggiore esponente italiano del movimento, assieme a Maria Montessori e, come lei, tra i fondatori della pedagogia e della psicologia moderna[3][16][17], oltre che uno dei maggiori pensatori laici della cultura italiana tra XIX e XX secolo.[18]  Commemorazioni Modifica Sulla sua casa venne apposta una lapide, quando ancora egli era in vita:  «(Mantova) (in una pergamena). Indagatore sapiente dei fenomeni del pensiero e del sentimento. Assertore impavido della naturale formazione e dell'unità molteplice della vita. La Società magistrale Mantovana, col plauso degl'insegnanti elementari d'Italia, della Società filosofica dei professori di Morale e di Pedagogia, festeggiando l'ottantesimo compleanno del Maestro sublime, augura con fervidi voti che la nuova generazione cresca degna di lui nel culto della scienza, nell'apostolato della verità.»  (Epigrafe di Mario Rapisardi) La città di Monza gli ha dedicato una scuola media inferiore e una strada. Anche Milano gli ha dedicato una strada in zona Forlanini, così come Roma che gli ha dedicato una piazza tra il quartiere dell'EUR e la Via Laurentina.  I libri della sua biblioteca personale sono conservati presso la Biblioteca universitaria di Padova.[3]  PensieroModifica  Mantova, lapide commemorativa Il suo pensiero mosse dalla conoscenza dei classici teologici e filosofici, come Agostino d'Ippona e Tommaso d'Aquino (poi abbandonati), all'adesione al razionalismo e al positivismo di Auguste Comte ed Herbert Spencer (con cui ebbe una corrispondenza epistolare, ma di cui non condivide né il darwinismo sociale, né il ruolo marginale da questi attribuito alla filosofia), passando attraverso il naturalismo del Rinascimento, come quello panteistico di Giordano Bruno.[19] D'altra parte, del sapere magico-ermetico della filosofia cinquecentesca della natura, da Bruno stesso a Bernardino Telesio, non vi è alcun residuo nella filosofia positiva di Ardigò, che prova disinteresse e disprezzo per la rinascita romantico-idealista della filosofia, a cui, dopo la "conversione laica", contrappone la vera filosofia scientifica.[19]  Caratteri della «filosofia positiva» di Ardigò Modifica L'originalità della sua filosofia si distanzia tanto dall'enciclopedismo naturalistico quanto dal tradizionale spirito di sistema, aprioristico, deduttivistico, dogmatico.[19] La filosofia trova la sua specificità nel fondamento del fatto (fisico o psichico) e nell'argomentazione induttiva, contro le deduzioni a priori, metafisiche, che non hanno fondamento nell'esperienza come la deduzione logico-matematica.[20]   Auguste Comte Una filosofia, che accetti metodo scientifico e voglia dirsi scientifica, rifiuta quindi le tesi metafisiche, le entità trascendenti inverificabili, accetta le ipotesi da verificare. Contro l'astratto razionalismo metafisico della filosofia, è andato emergendo, secondo Ardigò, dapprima il naturalismo rinascimentale, che ha trovato seguito nell'empirismo, nell'illuminismo e nel sensismo, fino al darwinismo e al positivismo.[20]  Una filosofia positiva non può nutrire certezze definitive (se vuol essere portatrice di tesi riformulabili come le teorie scientifiche) e non può essere un sistema unitario e dogmatico.[20] Ardigò propone una filosofia che, perduto l'ambito delle scienze naturali positive, si specifica in autonomia come scienza dei fatti psichici (psicologia) e dei fatti sociali (sociologia).[20]  Psicologia, pedagogia e sociologia positive Modifica I suoi contributi nell'ambito delle scienze sono importanti per l'impostazione generale. Interessanti sono le sue idee sull'evoluzione intesa come passaggio dall'indistinto al distinto, ma anche condizionata dal caso e caratterizzata dal ritmo. Non tutto dunque è lineare e meccanico. Ardigò fu uno dei primi psicologi moderni, anche se non nel senso di terapeuta, ruolo che sarà ricoperto dagli psicoanalisti e dagli psichiatri, ma nel senso di formatore pedagogico e professionale, oltre che di teorico e studioso della psiche, come Henri Bergson.[21]  Ardigò insistette sulla necessità di una psicologia ed una pedagogia scientifiche, soffermandosi sul ruolo delle abitudini. L'educazione infatti sul piano naturale può essere ricondotta all'acquisizione di comportamenti sedimentati e certi; questo significa il passaggio da una pedagogia metafisica ed astratta ad una pedagogia intesa come scienza dell'educazione.[21]  L'Io, l'Indistinto e la nascita della coscienza               Modifica Seguendo comunque l'assioma comtiano che "non ci può essere scienza se non di fatti" (anche se Comte riconduce la psicologia alla filosofia e alla medicina, oltre che alla sociologia), egli conia inoltre il termine di "confluenza mentale".[22]  Teorie pedagogiche Modifica Ardigò dice:   «la pedagogia è la scienza dell'educazione, per questo l'uomo può acquisire le abitudini di persona civile, di buon cittadino.»  Per Ardigò dunque non tutte le abitudini sono educative. Dal punto di vista didattico privilegiò l'intuizione, il metodo oggettivo, la lezione delle cose, il passaggio dal noto all'ignoto, insegnando poche cose alla volta, ritornando più volte sulle cose spiegate e facendo continue applicazioni di teorie e casi nuovi. Egli rivalutò la funzione del gioco, il quale permette al bambino l'occasione di vedere e toccare gli oggetti, riconoscerne le proprietà e le somiglianze, favorendo lo sviluppo fisico, il quale va d'accordo con quello mentale. Proprio in riferimento al gioco, Ardigò criticò le idee di Fröbel.[23]  Il problema di Ardigò fu quello di coniugare la formazione di giuste abitudini con la libertà e l'autonomia propugnata dai Giardini d'infanzia di Fröbel.[23]   Charles Darwin Natura ed evoluzionismo Modifica Il sistema ardigoiano si configura come un “naturalismo” evoluzionistico (da lui chiamato però realismo positivo) che cresce sulla consapevolezza delle scienze e della tecnica, e si regge sotto una solida epistemologia, mentre si rivolge anche alla morale, sottraendola al riduzionismo naturalistico e meccanicistico, riservando alla psicologia la funzione di sovrintendere al tutto.[24] Se tutto ciò che esiste è un fatto naturale, dal cosmo al cervello umano, dai vegetali ai minerali, non esiste e non può esistere un Ente trascendente metafisico e non è pensabile alcun progetto finalistico che permetta una comprensione teleologica della Natura; ad essa ci si può avvicinare solo con spirito scientifico.[24]L'ignoto di Ardigò non trascende l'esperienza, non ne è causa prima e soprannaturale, per cui il suo immanentismo non finisce mai nello spiritualismo a-scientifico e irrazionalistico (accusa spesso rivolta da Benedetto Croce ai positivisti).[24] Un motivo di originalità è offerto dal tentativo di attenuare il determinismo e meccanicismo evoluzionistico e positivistico tramite la dottrina della casualità. La realtà è per lui continuo passaggio dall'Indistinto al distinto, e i distinti sono la coscienza umana e il mondo esterno, frutto entrambi dalle sensazioni e da quell'Indistinto dalla quale procedono per «autosintesi ed eterosintesi».[24]  Riflessione morale Modifica Egli punta a far rinascere un'etica laica, naturalistica, non prescrittiva, che pone l'uomo davanti alle scelte, dandogli strumenti conoscitivi per una scelta razionale.[25] Rimane estraneo però alla questione sociale e alle istanze socialiste (nonostante la collaborazione con Turati), e, ancor prima, anarchiche, ampiamente diffuse in Italia, come isolato è anche rispetto alla politica.[26]  Le idealità sociali o massime morali si distinguono in[27]:  naturali, perché frutto solamente dell'evoluzione della specie e della psiche individuale sociali vere e proprie, cioè etico-giuridiche perché determinate dalla convivenza; esse devono la propria oggettività alla loro «genesi (...) individuata nello sviluppo “materiale” dell'uomo (biologico, fisico, ecc.) e (...) si esprimono storicamente in istituzioni (come la famiglia, lo Stato) le quali disciplinano e orientano le azioni umane».[27] Va detto che la riflessione ‘di periodo’ ardigoiana sulla moralità e sulle idealità sociali “nell’idea della giustizia” mostra l’intento di fondare in Italia la sociologia come scienza sulla cauta possibilità di concepire nella società la morale senza la religione (Roberto Ardigò, La morale dei positivisti, Milano, Natale Battezzati, 1879, XXI, p. 290 e sg.). Il progetto di Roberto Ardigò si concretizza maggiormente nelle pretese di fondare un sapere laico in grado di confrontarsi con le sfere dell’etica e della filosofia speculativa, senza che quest’ultima possa vantare ex ante una alleanza “forte” di filosofia e religione e senza avere avuto un confronto con i temi messi in campo dalla scienza e dai suoi più immediati avanzamenti, così e come mostrano proprio i primi passi dell’idea di formare un sapere sociologico autonomizzato dalle sfere dell’eticità (Guglielmo Rinzivillo, Ardigò e la prima sociologia in Italia, su “Scienzasocietà” n.50, A. IX maggio-agosto 1991, pp. 25 –31). In questo senso l’impresa di Ardigò di confrontarsi direttamente con il sapere speculativo risulta essere l’unica nel suo genere al cospetto del positivismo di fine secolo XIX ( Guglielmo Rinzivillo, La scienza e l’oggetto. Autocritica del sapere strategico, Milano, Franco Angeli, 2010, ristampa 2012, II, ISBN 9788856824872 ). Ma il tentativo di formare una scuola si infrange nella ripresa sia europea dello spiritualismo che più nostrana dell’idealismo e nella contestazione delle dottrine filosofiche di seguaci come Giovanni Marchesini e Giuseppe Tarozzi (Mariantonella Portale, Giovanni Marchesini e la “Rivista di Filosofia e Scienze Affini”. La crisi del positivismo italiano, Milano, Franco Angeli, 2010, ISBN 8856825643)

No comments:

Post a Comment